Grice ed Abbagnano: filosofia romana – la scuola di
Salerno – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo campanese. Filosofo italiano. Salerno,
Campania. Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be
different, dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later
illuminismo), and MY Abbagnano, the one who explored that infamous Greek
embassy that arrived in Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the
fascination of the Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist
Italian philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has
no entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history
of philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce. Laureatosi
in filosofia a Napoli con ALIOTTA (si veda), insegna al Liceo Umberto I ed
all'Istituto Benincasa del capoluogo campano, per poi trasferirsi a Torino dove
è professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia.
Condirettore, a fianco di BOBBIO (si veda), della “Rivista di filosofia.” Ispiratore
del gruppo di filosofi, comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e GEYMONAT
(si veda), che prende il nome di neo-illuminismo italiano, organizzando una
serie di convegni rivolti alla costruzione di una filosofia laica, aperta ai
principali orientamenti della filosofia. Collabora con “La Stampa”. Si
trasferisce a Milano dove collabora con “Il giornale” di MONTANELLI (si veda), e
dove viene eletto consigliere comunale nelle liste del partito liberale e
assume per I anno la carica di assessore comunale alla cultura. Divenne
socio dell'Accademia delle scienze di Torino. Uno dei promotori del centro di
studi metodologici di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a
diffondere in Italia la conoscenza delle correnti esistenzialistiche, in
particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti
irrazionali del pensiero," A. esalta l'azione creativa, la volontà e
l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre alla verità. Sono elementi che A. ritrova soprattutto
nella filosofia di Gentile. Fondamentale nella sua filosofia è il saggio "La struttura dell'esistenza”
(Torino), nella quale propone un’alternativa all'esistenzialismo di Heidegger e
Jaspers. A. define la propria visione filosofica come esistenzialismo
positivo. Esso, pur non esplicitamente formulato in veste sistematica,
individua la centralità dell'esistenza come momento ontologicamente fondativo,
considerando la razionalità dell'uomo come lo strumento principe in grado di
garantire a questo fondamento un valore positivo contro ogni possibile
nichilismo. Diversamente rispetto all'impostazione di Heidegger e Jaspers,
A. evidenzia l'importanza della libertà e della indeterminazione e quindi
l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre a porre la ragione come
unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo che lo circonda A.
insiste molto su un chiarimento dell'orizzonte categoriale della possibilità,
in contrasto con quello della necessità, tipico proprio dell'idealismo
romantico e dell'esistenzialismo, fatto che spiega la sua forte critica nei
confronti queste due scuole filosofiche. Nello saggio "Possibilità e
libertà," A. chiara il senso della sua filosofia, non incline né alla
visione pessimistica dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni suo progetto
vitale, ma neppure ottimista al punto da concedere all'essere una realizzazione
certa. Prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo",
nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di
empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Questo
movimento, che ha sin dal principio una configurazione culturalmente e
politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una
visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che
al cattolicismo. A. Ha del resto
ripetutamente criticato all'idealismo e all’idealismo di GENTILE (si veda) la
tendenza a sottostimare il valore della scienza, da lui invece considerata una
disciplina indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per
l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla
filosofia, ma di pari valore e ad essa complementare. A. insiste nei suoi
saggi sui concetti di libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità
di scegliere, la seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni
dell'uomo. Anche il positivismo è oggetto di critica tramite la
contrapposizione con Kant e Kierkegaard. Nel suo esistenzialismo positivo,
A. insiste molto sulla finitudine dell'uomo e sulla problematicità
dell'esistenza, destinata per sua costituzione a operare nell'orizzonte del
possibile. Egli vede kantianamente nel limite una caratteristica di fondo del
nostro esistere e del nostro sapere. Questo lucido senso del limite e della
problematicità esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero
ultimo delle cose, inteso come un aspetto insopprimibile della nostra
esperienza del reale. Ed è proprio questo senso del limite e del mistero,
insieme alla rinuncia ad ogni illusoria infinitizzazione o divinizzazione
dell'umano, a fondare secondo A. la possibilità di un incontro genuino fra
credenti e non credenti. E ciò all'insegna di una umiltà del pensiero che
rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del dialogo e del
reciproco rispetto. Oltre che autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele,
Ockham, Meyerson, ecc.), A. è anche l'autore di una celebre Storia della
filosofia su cui si sono formate intere generazioni d’italiani. Egli realizza
anche un "Dizionario di filosofia," considerato tra i migliori. La
Storia della filosofia -- sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore
Paravia, sia nella versione universitaria pubblicata dalla Pomba -- è stata
aggiornata da FORNERO (si veda), in collaborazione con ANTISERI e RESTAINO. Fornero,
insieme a un'équipe di noti studiosi, curato anche l'aggiornamento del
"Dizionario di filosofia." Saggi: Le sorgenti irrazionali del
pensiero” (Genova, Perrella); “Il problema dell'arte” (Genovam Perrella); “Il
nuovo idealismo, Genova, Perrella. La filosofia di Meyerson e la logica
dell'identità (Napoli, Castello); Ockham, Gubbio, Oderisi. Ockham, Lanciano; La
nozione del tempo secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova.
Fondamenti di una teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica,
Napoli. La struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione
all'esistenzialismo, Milano, Bompiani, Storia della filosofia; Filosofia antica;
Filosofia patristica; Filosofia scolastica, Torino, POMBA, Filosofia moderna,
Torino, POMBA, 1II.2, Filosofia del romanticismo; Filosofia contemporanea,
Torino, POMBA, Filosofia del Rinascimento, POMBA, La filosofia
contemporanea; Fornero, Lentini, Restaino, Antiseri, F. Restaino. POMBA,
Torino, Filosofia religione scienza, Torino, L'esistenzialismo positivo,
Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario di filosofia, Torino, POMBA,
aggiornato da Fornero; Per o contro l'uomo, Milano, Fra il tutto e il nulla,
Milano, con Visalberghi, Linee di storia della pedagogia, Torino:
Paravia, Questa pazza filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza
della vita, Milano, La saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita,
Milano, Scritti esistenzialisti, Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo,
Staglieno, Milano, Protagonisti e testi della filosofia, Milano,
L'esercizio della libertà. Scritti scelti, Maiorca, Boni, Bologna, Esistenza e
metafisica, Maiorca, Milella, Lecce, Scritti neoilluministici, Maiorca,
introduzione di Rossi e Viano, POMBA, Torino. Accademia delle scienze. La frase
è tratta da Fornero, Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire». La prima edizione della storia della filosofia
di Abbagnano, che aveva già pubblicato
un Sommario di filosofia per i licei risale per il manuale scolastico e per il
manuale universitario. Attraverso successive edizioni e aggiornamenti, per
opera di Fornero, tale storia continua a essere la più diffusa nelle scuole
d’Italia. Bobbio, Discorso su A., in: A., Scritti scelti (Taylor, Torino); Bobbio,
La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Pareyson,
Il pensiero di A. e i suoi sviluppi recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor,
Torino, Aliotta, L'esistenzialismo positivo di A., in Id., Critica dell'esistenzialismo,
Perrella, Roma; Giannini, L'esistenzialismo positivo di A., Morcelliana,
Brescia, Chiodi, L'esistenzialismo (Loescher, Torino); Lombardi,
L'esistenzialismo in Italia, in Id., La filosofia italiana, Arethusa, Asti, Santucci,
Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Mulino, Bobbio, Discorso su A.,
in A., Scritti scelti (Crescenzo e Laveglia) (Taylor, Torino); Semerari, L’illuminismo,
in Id., Esperienze, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana, Atti del Convegno
di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, Semerari, Genesi e formazione
dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida,
Napoli. Pasini, Rolando, L’illuminismo italiano. Cronache di filosofia,
Saggiatore, Milano, Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. A. and
His Predecessors, Temple University, Philadelphia. Cacciatore, Cantillo, Una filosofia dell'uomo, Atti del
Convegno in memoria di A. (Salerno), Comune di Salerno; Delpino, Riceputi, L'uomo
e il filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento
di Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure; Merlo,
Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Maiorca, Seam, Roma, Miglio, A.. Un itinerario
filosofico, Atti del Convegno per A. (Torino,), Mulino, Bologna); Montano, Il
prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana, Soveria Mannelli,
Rubbettino, Maiorca, A.. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma. Marvulli,
'Tributo ad A.', in abbagnanofilosofo.,. Panelli Marvulli, A. Una vita per la
filosofia, con un saggio di Fornero, POMBA, Torino, Paolini Merlo, A. a Napoli.
Gl’anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida,
Napoli; Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia fra Torino e l'Italia,
Mulino, Bologna, Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul
pensiero italiano, Mulino, Bologna, Primerano, La prospettiva pedagogica, Aracne,
Roma, Merlo, L'esistenza come struttura: A. e l'esistenzialismo, Scientifica,
Napoli, Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di A., in Id.,
Estetica esistenziale, Mimesis, Milano, Ferrarotti, Un greco in via Po.
Passeggiate silenziose con A., Edb, Bologna. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, A., Sito dedicato, su
abbagnano filosofo. Filosofia Filosofo Storici della filosofia italiani Accademici
italiani Professore Salerno Milano Esistenzialisti Studenti dell'Università
degli Studi di Napoli Federico II Professori dell'Università degli Studi
Benincasa Professori dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia
delle Scienze di Torino. Refs.: Grice, “Implicature in Philosophical
Dictionaries. I don’t give a hoot care what the dictionary saysAnd that’s where
you make your big mistake. – NICOLA ABBAGNANO DIZIONARIO I FILOSOFIA Seconda
edizione riveduta e accresciuta (41° migliaio) UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
TORINESE © 1971 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello 28 - 10125
Torino Tipografia Sociale Torinese corso Monte Cucco 108 - 10141 Torino
AVVERTENZA ALLA SECONDA EDIZIONE Questa seconda edizione interamente riveduta
contiene 22 voci nuove: Artefatto, Asserzione, Automa, Avere, Classe coscienza
di, Diacronico- Sincronico, Dio morte di, Dossologia, Ensomatosi, Futurologia,
Gettone, Illu- minatismo, Lavoro, Matrimonio, Performativo, Poietico,
Prassiologia, Previsione, Psichedelico, Rifiuto, Tavole di verità, Teleonomia.
Sono state interamente rifatte le voci: Condizionale, Conseguenza, Entimema,
Implicazione, Matrici, Paegola fondamentale cui si è obbe- dito nella
composizione delle voci: quella di individuare le costanti di significato che
possono essere dimostrate o documentate con citazioni testuali anche in
dottrine apparentemente diverse. Ma le costanti di significato possono essere
individuate solo se i significati diversi, compresi sotto uno stesso termine,
sono chiaramente riconosciuti e distinti ; e questa è l'esigenza della chiarezza,
che va ritenuta fondamentale in un’opera come questa; e che è in realtà
condizione essenziale affinchè la filosofia possa eser- citare una qualsiasi
funzione di illuminazione e di guida nei confronti degli uomini. In un periodo
in cui i concetti sono spesso confusi e mistificati al punto da diventare
inservibili, l'esigenza di una riistretto di amici: NorBERTO BosBIo, EuGENIO
GARIN, C. A. Viano, Pietro Rossi, PiETRO CHIODI. Altri amici mi hanno aiutato a
trovare o confrontare testi di più difficile accesso : così hanno fatto
GrazieLLa VescovinI FEDERICI, GRAZIELLA GIorDANO, SERGIO RurrINO. VI PREFAZIONE
Mia moglie, Marian TavyLor, mi ha aiutato validamente nella correzione delle
bozze. A tutte queste persone io rivolgo il mio cordiale ringraziamento. Ma il
lavoro di questo Dizionario non sarebbe stato iniziato nè portato a termine
senza l’aiuto lun- gimirante della grande e benemerita Casa Editrice che ora lo
pubblica. Ad essa esprimo pertanto la mia gratitudine. . NICOLA ABBAGNANO.
Torino, 11 ottobre 1960. AVVERTENZE 1. — Il Dizionario contiene soltanto
termini, non nomi propri. Esso contiene bensì voci come Pla- tonismo,
Aristotelismo, Criticismo, Idealismo, ecc. che si riferiscono alla dottrina di
un filosofo o di una scuola o ad aspetti o indirizzi comuni a varie dottrine;
ma tali voci si limitano a esporre i capisaldi delle dottrine o degli indirizzi
in questione, con la massima brevità, dato che le opinioni dei filosofi cui
esse si riferiscono sono ampiamente citate in tutte le voci principali. 2. —
Sono stati inclusi articoli dedicati non solo alle singole discipline
filosofiche (Metafisica, Ontologia, Gnoseologia, Metodologia, Etica, Estetica,
ecc.), ma anche a discipline scientifiche di carat- tere teoretico o a
fondamento teoretico (Matematica, Geometria, Economia, Fisica, Psicologia,
ecc.), nei cui confronti le voin modo da includere il maggior numero possibile
di significati riscontrabili. 4. — Il Dizionario ha pertanto, come ogni altro
Dizionario linguistico, una base essenzialmente sto- rica: esso mostra quali
sono stati e sono gli usi di un termine nella lingua filosofica del mondo Occi-
dentale, anche, all'occorrenza, in rapporto con l’uso che il termine ha nella
lingua comune. Le ambi- guità di significato sono state accuratamente registrate.
Dove la cosa poteva esser fatta senza eccessivo arbitrio, è indicato il modo di
evitare tali ambiguità. 5. — Per evitare le incertezze e gli equivoci che
potevano nascere dalle citazioni di passi composti originariamente in lingue
diverse, si è provveduto a mettere al principio di ogni articolo l'indicazione
del vocabsources . . . . Analytica posteriore, ed. Ross, Oxford, 1949.
Analytica priora, ed. Ross, Ox- ford, 1949. Categoriae, ed. Minuo-Paluello,
Oxford, 1949. De caelo, ed. E. J. Allan, Oxford, 1936. De generatione
animalium, ed. Bekker. De partibus animalium, ed. Bekker. De sophisticis
elenchis, ed. Bekker. Ethica Eudemia, ed. Susemihl, 1884. Ethica nicomachea,
ed. Bywather, Oxford,
1957. Physicorum libri VIII, ed. Ross, Oxford, 1950. Metaphysica, ed. Ross,
Oxford, 1924. De arte poetica, ed. Bywather, Oxford, 1953. Politica, ed. W. L.
Newman, Oxford, 1887-1902. Rethorica, ed. Bekker. Topicorum libri VIII, ed. Bekker. La logique ou l'art de
penser, 1662, in Euvres Philosophiques, 1893. Novum organum, 1620. De augmentis
scientiarum, 1623. Evolution créatrice, 1907, 83 ed., 1911, Deux sources de la
morale et de la religion, 1932; trad. italiana M. Vinciguerra, Milano, 1947.
Boezio Phil. cons. . Campanella Phil. rat. .... Pass. de l'éme . Princ. phil. Cicerone Acad. . . . Cusano N. De docta ignor. Diels
LISTA DELLE ABBREVIAZIONI PRINCIPALI Philosophiae consolationis libri V, 524. Philosophia rationalis, Parigi,
1638. Discours de la méthode, 1637. Méditations touchant la première
philosophie, 1641. Passions de l'dme. Principia philosophiae, 1644.
Academicorum reliquiae cum Lu- cullo, ed. Plasberg, 1923. De Divinatione, ed.
Plasberg-Ax, 1965. De finibus bonorum et malorum, ed. Schiche, 1915. De
legibus, ed. Mueller, 1897. De natura deorum, ed.
Plasberg, 1933. De officis, ed. Atzert, 1932. De republica, ed. Castiglioni,
1947. Topica, ed. Klotz, 1883. Tusculanae disputationes, ed. Poh- lens, Lipsia,
1918. De docta ignorantia, 1440. Die Fragmente der Vorsokratiker, 5à ed., 1934.
La lettera A si riferisce alle testimonianze, la lettera B ai frammenti; il nu-
mero è sempre quello dato da Diets nel suo ordinamento. x LISTA DELLE
ABBREVIAZIONI Diogene Laertio (sec. n) Dioa. L. Vitae et placita philosophorum,
ed. Cobet, 1878. Duns Scoto Rep. Par. .. . . . Reportata Parisiensia, in Opera,
a cura di L. Wadding, vol. XI. Opus Oxoniense, nelle Opere, a cura di L.
Wadding, vol. V-X. Le parti di quest'opera pubblicate sotto il titolo di
Ordinatio nei primi quattro volumi dell'Opera Omnia, edite a cura della Com-
missione Vaticana nel 1950, sono state citate nel testo se- guito in
quest’ultima edizione. ‘00000 Op. Ox. Fichte J. G. Wissenschaftslehre . .
Grundlage der gesammten Wissen- schaftslehre, 1794, in Werke, a cura del figlio
I. H. Fichte, 8 voll., 1845-46. Anche le altre opere di Fichte sono citate
(salvo diverso avviso) da questa edizione o da quella delle Nachgelassene
Werke, a cura dello stesso figlio, 1834-35 (ci- tate nel testo come Werke, IX,
X, XI). Ficino Theol. Plat. .. . Theologia Platonica, in Opera, 1561. In Conv.
Plat. de Am. Comm. In Convivium Platonis de Amore Commentarium, ibidem. Filone All leg... ....
Allegoria Legis, ed. Colson-Whi- taker, 1929-62. Gellio Aulo Noct. Att... ...
Noctes Attices, ed. Hertz-Hosius, 1903. Hegel Enci ele Encyklopddie der philosophischen
Wissenschaften im Grundrisse, 2* ed., ell’Accademia Prus- siana. In tal caso, per ciò che riguarda la Critica della
Ragion Pura, si indica con A la 319, con B la 2 edizione. Gesammelte Werke,
trad. ted. a cura di E. Hirsch, 1957 e segg. LISTA DELLEABBREVIAZIONI
PRINCIPALI xI Leibniz Disc. de Mét. Discours de Métaphysique, 1686, ed.
Lestienee, 1929. Monadologie, 1714. Nouveaux essais sur l’entendement humain,
1703. Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origine
du mal, 1710. Le precedenti due opere e molti altri
scritti di Leibniz sono ci- tati da Opera Philosophica, ed. J. E. Erdmann,
Berlino, 1740. Sono anche citate le due rac- colte: Mathematische Schriften,
ed. C. J. Gerhardt, 7
voll, Berlino, 1848-63; Philosophi- sche Schriften, ed. C. J. Ger- bardt, 7
voll, Berlino, 1875. An Essay Concerning Human Un- derstanding, 1690, ed. a
cura di A. Campbell Fraser, 1894; trad. it. Pellizzi, 1951. Lucrezio (sec. 1 a.
C.) De rer. nat. .. .. De rerum natura, ed. Bailey, 1947. Ockham In Sent. .
Quaestiones in IV libros senten- tiarum, Lugduni, 1495. Origene (sec. n) De prin. .....
De principiis. In Johann In Johannen. Pascal
Pensées . ..... I numeri si riferiscono all'ordina- mento dell’ed. Brunschvicg.
P.G.. MicNE, Patrologia Greca, il primo numero indica il volume. Piibi vien di
DI Micne, Patrologia Latina, il pri- mo numero indica il volume. Peirce C. S. (1839-1914)
Coll. Pap... ... Collected Papers, voll. I-VI, edited by C. Hartshorne e P.
Weiss, 1931-35; voll. VII-VIII, edited
by A. W. Burks, 1958. Pietro Ispano (Papa Giovanni XXI, sec. x111) Summ. log...
.. Summulae logicales, ed. I. M. Bo- chenski, 1947. Platone ‘Alc:; In ao è
404000 CE E IT 000080000» 000000 S. Th. Scheler Formalismus .... Sympathie . .
... Alcibiades, I, II.
Apologia Socratis. Charmides. Symposium. Cratylus. Crito. Critias.
Definitiones. Epistulae. Euthydemus. Euthyphro. Phaedo. Philebus. Gorgias. Ion.
Parmenides. Politicus. Protagoras. Respublica,
ed. Chambry, 1932. Sophista. Theaethetus. Timaeus. I testi sono citati nell’ed.
di Burnet, Oxford, 1899-1906. Enneades, ed. Bréhier, 1924. De civitate Dei.
Confessionum libri XIII. Summa Theologiae, a cura di P. Caramello, Torino,
1950. Summa contra Gentiles, Torino, 1938. Quaestiones disputatae de veritate,
Torino, 1931. Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, 1913-16.
Wesen und Formen der Sympathie 1923; trad. franc. Lefebvre, 1928. Simmtliche
Werke, a cura del figlio K. F. A. Schelling: I serie (opere edite), 10 voll.;
II serie (opere inedite), 4 voll, 1856 e seguenti. XI LISTA DELLE ABBREVIAZIONI
PRINCIPALI Schopenhauer Die Welt ..... Die Welt als Wille und Vor- stellung,
1819; 23 ed., 1844; trad. it. Savj-Lopez e De Lo- renzo, 1914-30. Scoto
Eriugena (sec. rx) De divis. nat. De divisione naturae, nella P. L., 122.
Seneca Episodi aes Epistulae morales ad Lucilium, ed. Beltrami, 1931; trad. it.
Boella, 1951. Sesto Empirico Adv. math. Adversus mathematicos, ed. J. Mau,
Lipsia, 1954. Ip. Pim. ..... Pirroneion hypotyposeon libri tres, ed. Mutschmann,
1912. Spinoza Etc e i Ga Ethica more geometrico demon- strata, 1677, in Opera a
cura di C. Gerhardt, 1923. Stobeo Ecl... Wittgenstein Tractatus Eclocae physicae et ethicas, ed.
Wachsmuth-Hense, 1884-1923. System of Logic Ratiocinative and Inductivr, 1843.
De rerum natura iuxta propria principia, I-II, 1565; II-IX, 1586; ed. V.
Spampanato, 1910-23. Tractatus logico-philosophicus, 1922. Cosmologia generalis, 1731. Philosophia rationalis
sive logica, 1728. Philosophia prima sive ontologia, 1729. Altre abbreviazioni
non sono sopra registrate o perchè sono quelle solitamente usate dagli studiosi
o perchè di immediato intendimento come App. per Appendice; Fil. per Filosofia
o Phil. per Philosophie o Philosophy; Intr. per Introduzione o Introduction;
Met. per Metafisica o Métaphysique o Metaphysics o Metaphysik; Op. per Opere;
Schol. per scholium; ecc. Tai A. 1. Per primo Aristotele, in particolare negli
Analitici, ha usato le prime lettere maiuscole del- l’alfabeto, A, B, I, per
indicare i tre termini di un sillogismo. Tuttavia, poichè nella sua sintassi il
predicato è posto prima del soggetto (A brapyet té B, «A inerisce [o
‘appartiene ’) a B+) di so- lito negli Analitici i soggetti sono B e T. Nella
Logica dell’età moderna, con l’uso di scrivere «A est B», A è diventato
normalmente il simbolo del soggetto. 2. A cominciare dai trattatisti scolastici
(pare, dalle Introductiones di Guglielmo di Shyreswood, sec. xm), la lettera A
viene usata nella Logica formale « aristotelica» come simbolo della propo-
sizione universale affermativa (v.), secondo i noti versi pervenuti a noi in
varie redazioni. Nelle Summulae di Pietro Ispano (edit. Bochenski, l. 21) essi
suonano: A affirmat, negat E, sed universaliter ambae, I firmat, negat O, sed
particulariter ambae. 3. Nella logica modale tradizionale, la lettera A designa
la proposizione modale che consiste nella affermazione del modo e
nell’affermazione della proposizione. Per es., « È possibile che p » dove p è
una proposizione affermativa qualsiasi (ARNAULD, Log., II, 8). 4. Nella formula
« A è Ar o «A= A1 che si cominciò ad usare con Leibniz come tipo delle verità
identiche e fu assunta poi da Wolff e da Kant come espressione del cosiddetto
principio d’identità (v.), A significa un oggetto o un con- cetto qualsiasi.
Diceva Fichte: « Ciascuno accorda la proposizione A è A (come pure A= A perchè
questo è il significato della copula logica) ed in- fatti senza minimamente
pensarci sopra la si ri- conosce per pienamente certa e indubitabile » (Wis- 1
— ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. senschaftslehre, 1794, $ 1). La formula è
rimasta per lungo tempo a esprimere il principio di identità e nello stesso
tempo a costituire un tipo di verità assolutamente indubitabile. Dice Boutroux:
«Il principio di identità può esprimersi così A è A. Io non dico l’Essere ma
semplicemente A, cioè ogni cosa, assolutamente qualsiasi, suscettibile di esser
concepita, ecc.» (De l’idée de loi naturelle, 1895, pag. 12). 5. Nel simbolismo
di Lukasiewicz la lettera « A » è usata come il simbolo della disgiunzione per
la quale s’adopera più comunemente il simbolo « V » (cfr. A. CHURCH,
Introduction to Mathematical Logic, nota 9i). G. P.-N. A. ABALIETÀ. V. AserTÀ.
ABDERITISMO (ted. Abderitismus). Così fu chiamata da Kant la concezione che
considera la storia nè in progresso nè in regresso ma sempre nello stesso
stato. Da questo punto di vista la storia umana non avrebbe più significato di
quella di una qualsiasi specie animale, solo sarebbe più fa- ticosa (Se il
genere umano sia în costante progresso verso il meglio, 1798). ABDUZIONE (gr.
araywyrh; lat. Reductio; ingl. Abduction; franc. Abduction; ted. Abduc- tion).
È un procedimento di prova indiretta, se- midimostrativa (teorizzato da
Aristotele in 7op., VIII, 5, 159b 8, e 160a 11 sgg.; An. Pr., II, 25, 69 a 20
sgg.), in cui la premessa maggiore è evidente, la minore invece è solo
probabile o comunque più facilmente accettata dall’interlocutore che non la
conclusione che si vuole dimostrare. Sebbene si tratti in sostanza di un
procedimento dialettico piuttosto che apodittico, era già stato ammesso da
Platone (cfr. Menone, 86 sgg.) per la matematica, e verrà pure canonizzato tra
i metodi di dimo- strazione matematica da Proclo (In Eucl., 212, 24). 2 AB ESSE
AD POSSE Il Peirce ha introdotto il termine abduction (0 retroduction) per
indicare il primo momento del processo induttivo, quello della scelta di
un’ipotesi che possa servire a spiegare determinati fatti em- pirici (Coll.
Pap., 2.643). G. P. AB ESSE AD POSSE. È una delle conse- quentiae formales
temente confuso. Essa significa una disposizione costante, o relati- vamente
costante, ad essere o ad agire in un certo modo. Per es., l’«abito di dire la
verità» è la di- sposizione deliberata, che è in questo caso un impegno morale,
di dire la verità. Ed è altra cosa dall’« abitudine di dire la verità » che
implicherebbe un meccanismo adatto a far ripetere frequentemente l’azione in
questione. Così « l’abito di alzarsi presto la mattina» è una specie di impegno
che può costare sforzo ed esser penoso; «l’abitudine di alzarsi presto la
mattina » non costa più sforzo perchè è un meccanismo consuetudinario. La
parola è stata introdotta nel linguaggio filo- sofico da Aristotele il quale
(Mer., V, 20, 1022 b, 10) la definì come «una disposizione ad essere bene o mal
disposto verso qualche cosa, sia verso di sé che verso altro; e, per es., la
salute è un abito perchè è una disposizione siffatta ». In questo senso egli
ritenne che la virtù sia un abito, in quanto non è nè una «emozione» (come la
cupidigia, l’ira, la paura, ecc.) nè una « potenza» come sarebbe la tendenza
all'ira, al dolore, alla pietà, ecc. La virtù è piuttosto la disposizione ad
affrontare bene o male emozioni e potenze; per es., a indulgere agli impulsi
dell’ira o a moderarli (Et. Nic., II, 5). Lo stesso significato viene ripreso
da S. Tommaso, che lo riespone nel modo seguente (Contra Gent., IV, 77):
«L’abito si differisce dalla potenza in ciò che da esso non siamo resi capaci
di far qualcosa ma piuttosto abili o inabili a poter agire bene o male ». Il
concetto è rimasto pressocchè immutato sino ai nostri giorni. Dewey così lo
espone: « Quella specie di attività umana che è influenzata dall’atti- vità
precedente e in questo senso è acquisita; che contiene dentro di sè un certo
ordine o una certa sistemazione dei minori elementi di azione; che è
progettante, dinamico in qualità, pronto per la manifestazione aperta; e che è
operativa in qualche forma subordinata e nascosta anche quando non è attività
ovviamente dominante. Abito, anche nel suo uso ordinario, è il termine che
denota più da vicino questi fatti di ogni altra parola » (Zuman Nature and
Conduct, 1921, pag. 40-41). Dewey rite- neva che i termini «atteggiamento » e «
disposi- zione » andassero ugualmente bene per questo con- cetto; ed in realtà
questi due ultimi termini sono usati assai più frequentemente che abito e con
significati assai simili. ABITUDINE (gr. €806; lat. Consuerudo; in- glese
Habit, Custom; franc. Habitude; ted. Ge- wohnheit). In generale, la ripetizione
costante di un evento o di un comportamento, dovuto ad un mec- canismo di
qualsiasi genere, fisico, psicologico, bio- logico, sociale, ecc. Si assume, il
più delle volte, che tale meccanismo si formi mediante la ripetizione degli
atti o dei comportamenti e quindi, nel caso di eventi umani, mediante
l’esercizio. Diciamo « le cose abitualmente vanno così» per indicare una
qualsiasi uniformità di eventi, anche non umani, purchè non sia un’uniformità
rigorosa e assoluta ma soltanto approssimativa e relativa e tuttavia
suscettibile di autorizzare una previsione proba- bile. In questo senso
Aristotele disse (Rer., I, 10, 1369 b 6): « Si fa per abitudine ciò che si fa
perchè si è spesso fatto » e aggiunse che: « L’abitudine è in qualche modo
simile alla natura, giacchè ‘ spesso ’ e ‘sempre’ sono vicini; la natura è di
ciò che è sempre, l’abitudine di ciò che è spesso» (/bid., I, 11, 1370a 7). Con
ciò Aristotele vide nell’abi- tudine una specie di meccanismo, analogo ai mec-
canismi naturali, che garantisce, in qualche misura, la ripetizione uniforme di
fatti, atti o comporta- menti, eliminando o riducendo, nei confronti di questi
ultimi, sforzo e fatica e così rendendoli piacevoli. In questo significato il
termine è stato ed è co- stantemente adoperato in un coaturalmente » (Pensées,
n. 252). Fu questo il punto di vista che Hume, un secolo dopo, pose a base
della sua filosofia. Hume definì l’abi- tudine come la disposizione, prodotta
dalla ripe- tizione di un atto, a rinnovare l’atto stesso senza che intervenga
il ragionamento (Ing. Conc. Un- derst., V, 1). E si avvalse dell’abitudine così
intesa in primo luogo per spiegare la funzione delle idee astratte, che egli
considerò come idee particolari assunte come segni di altre idee parti- colari
simili. L’abitudine di considerare unite tra loro idee designate da un unico
nome, fa sì che il nome stesso risvegli in noi, non una sola di quelle idee nè
tutte, ma l’abitudine che abbiamo di con- siderarle assieme e quindi l’una o
l’altra di esse a seconda delle occasioni (7reatise I, 1, 7). All’abi- tudine
poi Hume ricorre per spiegare la connessione causale: per aver visto più volte
congiunti due fatti od oggetti, per es., la fiamma e il calore, il peso e la
solidità, siamo portati dall’abitudine ad aspet- tarci l'uno quando l’altro si
mostra. L'insieme della nostra vita quotidiana è fondato sull’abitudine. «Senza
l’abitudine — dice Hume (/nquiry, cit., V, 1) — saremmo interamente ignoranti
di ogni questione di fatto, fuori di quelle che ci sono im- mediatamente
presenti alla memoria o ai sensi. Non sapremmo adattare i mezzi ai fini e
impiegare i nostri poteri naturali a produrre un qualsiasi effetto. Ogni azione
sarebbe finita e così pure la parte principale della speculazione ». In modo
analogo ma in campo diverso, Bergson (riprendendo forse un’idea di Renouvier,
Nouvelle monadologie, pag. 298) si è servito della nozione di abitudine per
spiegare le obbligazioni morali; le quali non sarebbero esigenze di ragione, ma
abitudini sociali che garantiscono la vita e la so- lidità del corpo sociale
(Deux sources de la morale et de la religion, pag. 21). L’interpretazione
dell’abitudine come di una azione originariamente spontanea o libera che viene
poi fissata dall’esercizio, sì da poter essere ripetuta senza l’intervento del
ragionamento e della coscienza e quindi in modo meccanico, ha reso possibile
l’uso metafisico di questa nozione: uso che ricorre abbastanza frequentemente
nella filo- sofia moderna e contemporanea, specialmente nel- l’idealismo e
nello spiritualismo. Il primo a trarre partito da questo uso per la costruzione
di una metafisica dell’esperienza interiore è stato Maine de Biran nel suo
scritto Influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1803). Mentre le
abitudini pas- sive, che concernono le sensazioni, producono la diminuzione
della coscienza, le abitudini artive che concernono invece le operazioni,
producono la loro maggior facilità e perfezione e costituiscono perciò uno
strumento di liberazione dello spirito dai mec- canismi che tendono a formarsi
mediante la ripe- tizione dei suoi sforzi. Questa nozione di abitudine, che pur
essendo espressa nei termini della cosiddetta « esperienza interiore» o «senso
intimo», ha già una portata metafisica, perchè Maine de Biran ritiene che i
dati di quest’esperienza rivelino la realtà stessa, trova riscontro nella dottrina
di Hegel che le ha dedicato alcuni paragrafi della sua sezione sullo Spirito
soggettivo, nella parte dedicata all’Anima senziente (Enc., $ 409-10). Hegel
dice che mediante l’abitudine l’anima «ha il contenuto in suo pos- sesso e lo
ritiene in sè in modo che in tali deter- minazioni essa non sta come sensitiva,
non sta in relazione ad esse distinguendosene, nè è immersa in esse, ma le
possiede senza sensazione e senza coscienza e vi si muove dentro. L’anima è
perciò libera da esse in quanto non se ne interessa e non se ne occupa; ed
esistendo in queste forme come in suo possesso essa è insieme aperta ad ogni
ul- teriore attività ed occupazione (tanto della sensa- zione quanto della
coscienza spirituale in genere) ». Per questa funzione dell’abitudine, di
offrire al- l’anima il possesso di un certo contenuto, in modo che essa possa
avvalersi di tale contenuto « senza sensazione e senza coscienza » sicchè
sensazione e coscienza ridiventano libere, cioè disponibili per altre
operazioni, Hegel ha sottolineato l’importanza dell’abitudine per la vita
spirituale. « L’abitudine, egli ha detto, è la cosa più essenziale
all’esistenza di ogni spiritualità nel soggetto individuale affinchè il
soggetto esista come soggetto concreto, come idealità dell’anima; affinchè il
contenuto religioso, morale, ecc., appartenga a lui come a questo se stesso, a
lui come a questa anima; nè sia in lui solo in sè (come disposizione) nè come
sensazione e come rappresentazione passeggera, nè come in- teriorità astratta
separata dal fare e dalla realtà, ma nel suo essere ». Il che vuo! dire che
l'abitudine incorpora un certo contenuto nell’essere stesso del- l’anima
individuale, come un possesso effettivo, che si traduce in azione reale. Sulle
orme di Maine de Biran, Ravaisson ha proposto una vera e propria metafisica
dell’abitu- dine, che espose in una memoria famosa (Sull’abi- tudine, 1838).
Nell’abitudine Ravaisson vide una idea sostanziale cioè un’idea che si è
trasformata in sostanza, in realtà, e che agisce come tale. L’abi- tudine non è
un puro meccanismo ma una « legge di grazia » in quanto segna il predominio
della causa finale sulla causa efficiente. Essa consente perciò di intendere la
natura stessa come spirito e come attività spirituale, giacchè dimostra che lo
spirito può farsi natura e la natura spirito. Essa4 ABNEGAZIONE consente di
ordinare tutti gli esseri in una serie di cui la natura e lo spirito
rappresentano i limiti estremi. « Il limite inferiore è la necessità, il
destino, se si vuole, ma nella spontaneità della natura; il limite superiore è
la libertà dell’intelletto. L’abitu- dine discende dall’uno all’altro,
riavvicina questi contrari, e riavvicinandoli ne svela l’essenza intima e la
necessaria connessione». Da Bergson in poi frequentemente questi concetti sono stati
ripresi nello spiritualismo contemporaneo, per spiegare in qualche modo il «
meccanismo della materia » e ricondurlo alla spontaneità spirituale.
ABNEGAZIONE (gr. drdpwnow; lat. Abne- gatio; ingl. Self-denial; franc.
Abnégation; ted. Ver- leugnung). È il rinnegamento di sè e la disposi- zione di
mettersi a servizio degli altri o di Dio col sacrificio dei propri interessi.
Così la nozione è de- scritta nel Vangelo (Matt., XVI, 24; Luc., IX, 23): «Se
uno vuole seguirmi rinneghi se stesso e porti giorno per giorno la sua croce».
Questo rinnega- mento di se stesso, però, non è la perdita di se stesso ma
piuttosto il ritrovamento del vero « se stesso +, come è spiegato nel versetto
successivo a quello ci- tato: « giacchè chiunque vorrà conservare la sua vita la
perderà; ma chiunque perderà la sua vita per me la salverà ». Perciò la nozione
di abnegazione non è, nei Vangeli, una nozione di morale ascetica ma piuttosto
esprime l’atto del rinnovamento cristiano, per il quale, dalla negazione
dell’uomo vecchio, nasce l’uomo nuovo o spirituale. AB UNIVERSALI AD
PARTICULAREM. È una delle consequentiae formales (v. Conseguenza) della Logica
scolastica: ab universali ad particu- larem, sive indefinitam sive singularem
valet (tenet) consequentia; cioè: da «ogni A è B» valgono le conseguenze
qualche A è B», « A è Ba, <S (se Sè un A)è B». G.P. ACATALESSIA (gr.
axatoAnpla; ingl. Acara- lepsy; franc. Acatalepsie; ted. Akatalepsie). È la
negazione operata da Pirrone e dagli altri Scettici antichi della
rappresentazione comprensiva (pavtuola xataAnmtuh) cioè della conoscenza che
consente di comprendere e afferrare l’oggetto, la quale era, secondo gli
Stoici, la conoscenza vera. L’acatalessia è l’atteggiamento di chi dichiara di
non compren- dere e per conseguenza sospende il suo assenso, cioè non afferma
nè nega (Sesto EMP., /p. Pirr., I, 25). ACCADEMIA (gr. ’Axadiuea; lat. Academia; ingl. Academy;
franc. Académie; ted. Akademie).
Propriamente la scuola fondata da Platone nel gin- nasio che prendeva nome
dall’eroe Academo e che dopo la morte di Platone fu diretta da Speusippo
(347-339 a. C.), da Senocrate (339-14 a. C.), da Pole- mone (314-270 a. C.) e
da Cratete (270-68 a. C.). In questa fase l'Accademia continuò la speculazione
platonica legandola sempre più strettamente al pi- tagorismo e appartennero ad
essa matematici e astronomi, fra i quali il più famoso fu Eudosso di Cnido.
Alla morte di Cratete l'Accademia mutò indirizzo con Arcesilao di Pitane (315 o
314-241 o 240 a. C.) avviandosi verso un probabilismo che prendeva lo spunto da
quanto Platone aveva af- fermato intorno alla conoscenza delle cose naturali:
le quali, non avendo alcuna stabilità e saldezza, non possono dar origine ad
una conoscenza sta- bile e salda ma solo ad una conoscenza probabile. Da
Arcesilao e dai suoi successori (di cui non sappiamo quasi nulla) questo punto
di vista fu esteso all’intera conoscenza umana nel periodo che si chiamò della
« media Accademia ». La « nuova Accademia » comincia con Carneade di Cirene
(214 o 212-129 o 128 a. C.); quest’indirizzo scetti- cheggiante e
probabilistico fu mantenuto sino a Filone di Larissa che, nel 1 secolo a. C.,
iniziò la IV Accademia d’indirizzo eclettico, alla quale soprattutto si ispirò
Cicerone. Ma l'Accademia platonica durò ancora a lungo e rinnovò ancora il suo
indirizzo nel senso religioso-mistico che è proprio del neo-Platonismo (v.).
Solo nel 529 l’im- peratore Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia e
confiscò l’ingente patrimonio dell’Ac- cademia. Damascio, che ne era il capo,
si rifugiò con altri suoi compagni, tra cui Simplicio, autore di un vasto
commentario ad Aristotele, in Persia; ma di lì tornarono presto disillusi. La
tradizione indipen- dente del pensiero platonico ebbe così termine. ACCADEMIA
FIORENTINA. Fu fondata per iniziativa di Marsilio Ficino e di Cosimo de’ Me-
dici e raccolse un circolo di persone che vedevano la possibilità di rinnovare
l’uomo e la sua vita re- ligiosa mediante un ritorno alle dottrine genuine del
platonismo antico. In queste dottrine i seguaci del platonismo e specialmente
Marsilio Ficino (1433- 1499) e Cristofaro Landino (vissuto tra il 1424 e il
1498) vedevano la sintesi di tutto il pensiero re- ligioso dell’antichità e
quindi anche del cristiane- simo e perciò la più alta e vera religione
possibile. Con questo ritorno all’antico si connette un altro aspetto
dell’Accademia fiorentina, l’anticurialismo; contro le pretese di supremazia
politica del papato l’Accademia sosteneva un ritorno all’idea imperiale di Roma
e quindi faceva oggetto frequente di com- menti e di discussioni il De
monarchia di Dante (v. RINASCIMENTO). ACCADIMENTO (gr. cvuBeBnxéc; lat. Ac-
cidens; ingl. Occurrence; franc. Événement; te- desco Vorfalressa dalla
definizione; perciò è un accidente. Ma è un accidente che ap- partiene al
triangolo non per un caso, cioè per una causa indeterminabile, ma a causa del
trian- golo stesso cioè per quello che il triangolo è; ed è perciò un accidente
eterno (Mer., V, 30, 1025a 31 sgg.). Aristotele illustra la differenza nel modo
seguente (An. Post., 4, 73 b 12 sgg.): « Se mentre qualcuno cammina, lampeggia,
questo è un acci- dente, giacchè il lampeggiare non è causato dal camminare...
Se invece un animale muore sgoz- zato a causa della ferita, diremo che esso è
morto perchè è stato sgozzato, e non già che gli sia acca- duto accidentalmente
di morire sgozzato ». In altri termini l’accidente per sè è connesso
causalmente (e non casualmente) con le determinatte che la parola « modo» che
egli adopera sia sino- nimo di accidente; sinonimia che sembra suggerita dalla definizione
che egli dà del modo (£r., I, def. 5) come ciò che è in altro ed è concepito
per mezzo di quest'altro. Comunque il mutamento di significato è chiaramente
riscontrabile in Kant e Hegel. Kant dice (Crit. R. Pura, Analitica dei
princìpi, Prima Analogia): «Le determinazioni di una sostanza le quali non sono
che modi speciali di esistere di essa, si chiamano accidenti. Essi sono sempre
reali, perchè riguardano l’esistenza della sostanza. Ora se a questo reale che
è nella so- stanza (per es., al movimento come accidente della materia) si
attribuisce una speciale esistenza, questa esistenza si chiama inerenza per
distinguerla dalla esistenza della sostanza che si chiama sussistenza +. Questo
passo riprende la terminologia scolastica in un significato del tutto
differente perchè gli ac- cidenti sono considerati come « modi speciali di
esistere » della sostanza stessa. Analoga nozione si trova in Hegel il quale
dice (Enc., $ 151): «La sostanza è la totalità degli accidenti nei quali essa
si rivela come la loro assoluta negatività, cioè come potenza assoluta, ed
insieme come la ricchezza di ogni contenuto ». Il che significa che gli
accidenti, nella loro totalità sono la rivelazione o manife- stazione stessa
della sostanza. Fichte aveva d’al- tronde espresso un concetto analogo
asserendo, sulle orme di Kant, che « Nessuna sostanza è pen- sabile se non è
riferita a un A.... Nessun A. è th; francese Accidie; tedesco Acedie). La noia
o nausea nel mondo medievale: il torpore o l’inerzia in cui ca- devano i monaci
dediti alla vita contemplativa. Se- condo S. Tommaso, essa consiste nel «
rattristarsi del bene divino » ed è una specie di torpore spiri- tuale che
impedisce di iniziare il bene (S. 7h., II II, q. 35, a. 1). L’accidia ha in
comune con la noia lo stato che la condiziona, stato, non di bisogno, ma di
soddisfazione (v. NOIA). ACCORDO (ingl. Agreement; franc. Conve- nance; ted.
Ùbereinstimmung). Questa nozione è servita nell’età moderna a definire la
natura del giudizio o della proposizione in generale. Dice la Logica di Porto
Reale: « Dopo aver concepite le cose mediante le nostre idee, noi paragoniamo
queste idee fra di loro; e trowpé<e = mucchio, consiste nel domandare quanti
grani di frumento occorrono per formare un mucchio; basta forse un solo grano?
Ne bastano due?, ecc. Sic- come è impossibile determinare a qual punto co-
mincia un mucchio, si adduce quest’argomento contro la pluralità delle cose
(Cic., Acad., II, 28, 92 sgg.; 16, 49; Diog. L., VII, 82). Lo stesso argo-
mento è stato talora espresso in altra forma sotto il nome di argomento del
calvo (cfr. Diog. L., II, 108) e consiste nel chiedere se un uomo diventa calvo
quando gli si strappa un capello. E quando se ne strappano due? E così via.
ACHILLE (gr. ‘Ayoaesc; lat. Achilles; inglese Achilles; franc. Achille; ted.
Achilleus). Con questo nome si indicava il secondo dei quattro argomenti di
Zenone d’Elea contro il movimento. Esso così viene espresso da Aristotele: «Il
più lento nella corsa non sarà mai raggiunto dal più veloce: giacchè colui che
insegue dovrà cominciare per raggiungere il punto da cui è partito il
fuggitivo, di modo che il più lento sarà sempre in vantaggio + (Fis., VI, 9,
239 b 14). Il presupposto di questo, come degli altri argomenti, è l’infinita
divisibilità dello spazio. V. DICOTOMIA, FRECCIA, STADIO. A CONTRARIO. Forma di
argomentazione dialettica per analogia: dal contrario si conclude il contrario.
(Se ad A conviene un predicato B, a non-A è probabile convenga un predicato
non-B). G. P. ACOSMISMO
(ingl. Acosmism; franc. Acos- misme; ted. Akosmismus). Termine adoperato da Hegel (Enc., $ 50) per
caratterizzare la posizione di Spinoza, in opposizione con l’accusa di €
ateismo » frequentemente rivolta a questo filosofo. Spinoza, secondo Hegel, non
mescola Dio con la natura e con il mondo finito considerando come Dio il mondo,
ma piuttosto nega la realtà del mondo finito affermando che Dio, e Dio solo, è
reale. In questo senso la sua filosofia non è a-teismo ma a-cosmismo; e Hegel
ironicamente nota che l’ac- cusa contro Spinoza deriva dalla tendenza a credere
che si può più facilmente negare Dio anzichè il mondo. ACRIBIA (gr. dxplBewa).
Esattezza o preci- sione. Nel senso moderno, scrupolo nel seguire le regole
metodiche di una qualsiasi ricerca scien- tifica. Nel significato platonico
«l’esatto in sè» (&utò taxpiBéc) è il giusto mezzo (tò pérptov) cioè il
conveniente o l’opportuno in quanto oggetto di una delle due branche
fondamentali dell’arte della misura cioè di quella che propriamente interessa
l’etica e la politica. L’altra branca della stessa arte è quella propriamente
matematica che concerne il numero, la lunghezza, l’altezza, ecc. (Pol., 284
d-e). ACROAMATICO (gr. dxponpatixéc; inglese Acroamatic; franc. Acroamatique;
ted. Akroama- tisch). Così sono stati chiamati, perchè destinati agli
ascoltatori, gli scritti di Aristotele che costi- tuivano lezioni da lui tenute
al Liceo per distin- guerle da quelle destinate al pubblico, di cui non ci
restano che frammenti. Tutte le opere aristote- liche da noi possedute sono
acroamatiche, perchè gli scritti che egli compose per un pubblico più vasto, e
che erano quasi tutti in forma di dialogo, caddero in disuso quando gli scritti
di lezioni, portati a Roma da Silla, furono riordinati e pub- blicati da
Andronico da Rodi verso la metà del I secolo avanti Cristo (v. ESSOTERICO).
ADDIZIONE LOGICA (ingl. Logica! Ad- dition; franc. Addition logique; ted.
Logische Ad- dition). Nell’ Algebra della Logica (v.) si chiama così
l’operazione «a + 5», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle
dell’addizione aritmetica (importantissima l’eccezione «a + a = a»). Inter-
pretata come operazione tra classi «a + 5+ viene a formare la classe contenente
tutti e soli gli elementi, comuni e non comuni, della classe a e della classe
d. Interpretata come operazione tra proposizioni, «a + b» ne indica
l’affermazione disgiuntiva («a o br). G.P. ADEGUATO rità suprema in quanto il
suo inten- dere è la misura di tutto ciò che è e di ogni altro intendere. La
nozione di adeguazione (o accordo, o conformità, o corrispondenza) viene
presupposta e adoperata da molte filosofie e precisamente da tutte quelle le
quali considerano la conoscenza come un rapporto di identità o somiglianza (v.
CONOSCENZA). Locke afferma che «la nostra conoscenza è reale solo se vi è una conformità
tra le idee e la realtà delle cose» (Saggio, IV, 4, $ 3). Kant stesso di-
chiara di presupporre « la definizione nominale della verità come accordo della
conoscenza col suo 0g- getto» e si propone l’ulteriore problema di un criterio
« generale e sicuro per determinare la verità di ciascuna conoscenza» (Crit. R.
Pura, Logica trasc., Intr., III) riterio rimane quello della corri- spondenza.
Dall’indirizzo linguistico della filosofia analitica contemporanea la nozione
della corrispon- denza viene mantenuta come rapporto di somiglianza tra
linguaggio e realtà. Wittgenstein, per es., dice: «La proposizione è l’imagine
(2i/d) della realtà... La proposizione, se è vera, mostra come stanno le cose»
(Tractatus, 4.021, 4.022). La coincidenza di dottrine così diverse su questa
nozione di verità è dovuta all’interpretazione della conoscenza come rapporto
di assimilazione (v. CONOSCENZA; VERITÀ). AD HOMINEM. Così fu chiamata nella
logica del ’600 l’argomentazione dialettica che consiste nel contrapporre
all’avversario le con- seguenze che risultano dalle tesi meno proba- bili
concesse o approvate da lui (Jcapelli del capo o le stelle siano in numero
pari. Il secondo indica ciò per cui si sente impulso o repulsione ma non più
per questo che per quello, come nel caso di due monete identiche di cui bisogna
scegliere una. In terzo senso, si dice indifferente «ciò che non conferisce nè
alla feli- cità nè all’infelicità, come la salute e la ricchezza o in altri
termini, ciò di cui è possibile fare uso buono o cattivo » (/p. Pirr., III,
177). Kant usò il termine per indicare le azioni credute moralmente
indifferenti cioè nè buone nè cattive (Religion, I, Osservazione e nota
relativa) (v. LATITUDINARISMO; RIGORISMO). ADIAFORISTICA, Controversia (inglese
Adiaphoristic Controversy; franc. Controverse Adia- phoristique; ted.
Adiaphoristen Streit). La contro- versia sorta tra i Luterani intorno al valore
di quelle pratiche religiose (come la Messa, l’Estrema Unzione, la Cresima,
ecc.) che Lutero aveva di- chiarato «indifferenti » per la salvezza e che
Melan- tone aveva accettato per spirito di compromesso 0 di pace. La
controversia fu conclusa con la « for- mula di concordia» del 1577-80 che
riconfermava il carattere indifferente o neutro dei riti e delle cerimonie. A
DICTO SECUNDUM QUID AD DICTUM SIMPLICITER. È una delle con- sequentiae formales
(v. Conseguenza) della Logica aristotelica scolastica: a dicto secundum quid ad
dictum simpliciter non valet consequentia; cioè se A è Bin relazione a qualche
cosa, non consegue che A sia B in senso assoluto (ARIST., E/. Sof., 168 b 11;
Pietro Isp., Summ. Log., 7.46). G.P. AD IGNORANTIAM. Così Locke chiamò
l'argomento che consiste nell’esigere che l’avver- AFFEZIONE 9 sario accolga la
prova addotta o ne porti una migliore (Saggio, IV, 17, 20). AD JUDICIUM. Così
Locke chiamò l’ar- gomentazione che consiste «nell’usare le prove tratte da uno
qualunque dei fondamenti della co- noscenza o della probabilità ». È la sola
argomen- tazione valida (Saggio, IV, 17, 22). ADOMBRAMENTO (ted. Abschattung).
Ter- mine adoperato da Husserl per indicare il modo parziale e approssimato in
cui la cosa esterna è data alla coscienza percettiva. Per es.: « Il medesimo
colore appare in serie continuative di adombra- menti di colore. Lo stesso vale
per ogni qualità sensibile e per ogni figura spaziale. L’unica e me- desima
figura, in quanto data in carne ed ossa come medesima, appare continuamente ‘in
modo diverso *, in sempre diversi adombramenti di figura. È questa una
necessaria situazione di cose, che ha validità universale » (/deen, I, $ 41).
ADOZIONISMO (ingl. Adoptionism; francese Adoptionisme; ted. Adoptionismus). La
dottrina se- condo la quale Cristo, nella sua natura umana, è considerato come
Figlio di Dio solo per adozione. Questa dottrina è comparsa varie volte nella
storia della Chiesa. Fu insegnata da Teodoro vescovo di Mopsuestia intorno al
400; fu ripresa nel sec. vii da alcuni vescovi spagnoli, combattuta da Alcuino
e condannata nel Concilio di Francoforte del 794. La dottrina implicava
l’indipendenza della natura umana da Dio e quindi il dualismo di natura umana e
natura divina: dualismo inammissibile dal punto di vista della dogmatica
cristiana. AD VERECUNDIAM. Così Locke chiamò l’argomentazione che consiste «
nel citare le opi- nioni di uomini il cui ingegno, dottrina, eminenza, potere o
qualche altra causa ha ottenuto un nome e stabilito la reputazione nella stima
comune con Capri specie di autorità » (Saggio, IV, 17, 19). l'appello
all’autorità. AFASIA (gr. dpacla; ingl. Aphasia; francese Aphasie; ted.
Aphasie). In senso filosofico, è l’at- teggiamento degli Scettici in quanto si
astengono dal pronunciarsi, cioè dall’affermare o negare al- cunchè intorno a
tutto ciò che «è oscuro» cioè che non muove la sensibilità in modo da produrre
una modificazione che spinge necessariamente ad assentire. L'A. è così
l'astensione dal giudizio connessa con la sospensione dell’assenso (v.) (SESTO
EMPIRICO, /p. Pirr., I, 20, 192 sgg.). AFFERMAZIONE (gr. xatépaoc; lat. Af-
firmatio; ingl. Affirmation; franc. Affirmation; te- desco Bejahung). Termine
col quale si può designare tanto l’atto dell’affermare, quanto il contenuto af-
fermato, ossia la proposizione affermativa, Aristo- tele la considerò pertanto
come una delle due forme dell’asserzione e precisamente quella che « unisce
qualcosa con qualcosa» (De /nterpret., 17a 25). Secondo la medesima teoria
aristotelica, essa unisce due concetti in un concetto composito. Sostanzial-
mente la tradizione logica successiva ha conservato questa dottrina e quindi
questo significato del ter- mine; soltanto i seguaci della teoria del giudizio
coione, la protezione, l’attaccamento, la gratitudine, la tenerezza, ecc., che,
nel loro complesso possono essere caratterizzati come la situazione in cui una
persona «si prende cura di + o « nutre sollecitudine per» un’altra persona o in
cui quest’altra risponde positivamente alla cura o alla sollecitudine di cui è
fatta oggetto. Ciò che comunemente si chiama « bisogno di A.» è il bisogno di
essere compreso, assistito, aiutato nelle proprie difficoltà, seguito con
occhio benevolo e fiducioso. In questo senso l’A. non è che una delle forme
dell’amore (v.). AFFEZIONE (gr. nd00c; lat. Passio; ingl. Af- fection; franc.
Affection; ted. Affektion). Questo ter- mine, che viene talora usato promiscuamente
con affetto (v.) e passione (v.), si può distinguere da essi, in base all’uso
prevalente nella tradizione filosofica, per la sua maggiore estensione e gene-
ralità: in quanto designa ogni stato, condizione o qualità che consiste nel
subire un'azione o nell’es- 10 AFFEZIONE sere influenzato o modificato da essa.
In questo senso un affetto (che è una specie di emozione [v.)) o una passione è
bensì un’A., in quanto implica un'azione subita, ma ha anche altri caratteri
che ne fanno una particolare specie di affezione. Di- ciamo comunemente che un
metallo è affetto dal- l’acido, o che il tale ha un’A. polmonare; mentre
riserviamo le parole « affetto» e «passione» per situazioni umane, le quali
presentano tuttavia un certo grado di passività in quanto stimolate od
occasionate da agenti esterni. In questo senso generalissimo, Aristotele intese
la parola r&8os, che egli considerò come una delle dieci categorie ed
esemplificò con « venir tagliato, venir bruciato » (Car., 2a 3); e chiamò
affettive (ra&ituxa) le qualità sensibili perchè ciascuna di esse produce
un’A. dei sensi (/bid., 9 b 6). Dichia- rando inoltre, al principio del De
Anima, lo scopo della sua ricerca, Aristotele la intese diretta a co- noscere,
oltre che la natura e la sostanza dell’anima, tutto ciò che ad essa accade,
cioè sia le A. che sem- brano sue proprie, sia quelle che essa ha in comune con
l’anima degli animali (De An., I, 1, 402a 9). Nel qual testo la parola A.
(r&0n) designa tutto ciò che all’anima accade, cioè qualsiasi modificazione
essa subisca. Il carattere passivo delle A. dell’anima, carattere che sembrava
minacciare l’autonomia ra- zionale di essa, condusse gli Stoici a dichiarare
irra- zionali, quindi cattive, tutte le emozioni (Diog. L., VII, 110): di qui
la connotazione moralmente nega- tiva che assunse l’espressione « A. dell’anima
» e che si rivela chiaramente in espressioni come per- turbatio animi o
concitatio animi che vengono usate da Cicerone (Tusc., IV, 6, 11-14) e da
Seneca (Ep., 116), e sono espressamente ritenute da S. Ago- stino (De Civ. Dei,
IX, 4) sinonime con quelle di affectio e affectus (emozione). Ma S. Agostino e,
dietro di lui, gli Scolastici, mantennero il punto di vista aristotelico della
neutralità delle A. del- l’anima dal punto di vista morale, nel senso che esse
possono essere buone o cattive a seconda che sono moderate o meno dalla
ragione; punto di vista che S. Tommaso difese richiamandosi ap- punto ad
Aristotele e a S. Agostino (S. 7A., II, I, q. 24, a. 2). La nozione di
modificazione subita, cioè di qua- lità o condizione prodotta da un’azione
esterna, si mantiene costante nella tradizione filosofica e viene espressa il
più delle volte con la parola passio la quale solo nella seconda metà del xviit
secolo assume il suo significato moderno (v. PASSIONE). Così Alberto Magno
intende con A. «l’effetto e la conseguenza dell’azione » (S. 7h., I, q. 7, a.
1). S. Tommaso, che dà identica definizione (/bid., I, q. 97, a. 2) distingue
tre significati del termine: «Il primo, che è il più proprio si ha quando qual-
cosa viene allontanata da ciò che ad essa conviene secoe il paziente siano
spesso assai di- versi, l’azione e l’affezione non cessano d'essere sempre una
stessa cosa che ha questi due nomi per via dei due soggetti diversi ai quali la
si può riferire ». In senso analogo la parola viene adope- rata da Spinoza per
definire quelli che egli chiama affectus e che noi chiameremmo emozioni o
senti- menti. Le emozioni, in quanto passiones cioè A., costituiscono
l’impotenza dell’anima e l’anima le vince trasformandole in idee chiare e
distinte. «L’emozione, dice Spinoza (Ef., V, 3) che è un’A., cessa di essere
un'A. appena ci formiamo di essa un'idea chiara e distinta ». In tal caso,
infatti, quest'idea si distingue solo razionalmente dall'emozione e si
riferisce alla sola mente; così essa cessa di essere un’A. (/bid., A.; i
concetti, invece, su funzioni » (Crit. R. Pura, Anali- tica dei concetti, I,
sez. I). Queste notazioni kantiane sono in polemica con la tesi della scuola
leibniziano- wolffiana che faceva consistere la sensibilità nelle
rappresentazioni indistinte e l’intellettualità in quelle distinte: il che,
notava Kant (Antr., $ 7, nota), significa far consistere la sensibilità in una
mancanza (mancanza di distinzioni), mentre essa è qualcosa di positivo e di
indispensabile alla conoscenza in- tellettuale. In conclusione il termine A.,
inteso come rice- zione passiva o modificazione subita, non ha ne-
cessariamente una connotazione emotiva; e per quanto sia stato adoperato
frequentemente a pro- posito di emozioni ed affetti (per il carattere
chiaramente passivo di Aphorism; franc. Aphorisme; ted. Aphorismus).
Proposizione che esprime in ma- niera succinta una verità, una regola o una
massima concernente la vita pratica. Dapprima la parola fu usata quasi
esclusivamente per indicare le formule che esprimono, in modo abbreviativo e
mnemonico, i precetti dell’arte medica: per es., gli A. di Ippo- crate. Bacone
espresse sotto forma di A. le sue osservazioni (contenute nei I libro del Novum
Organum) « sulla interpretazione della natura e sul regno dell’uomo »:
probabilmente per sottolineare il carattere pratico e attivo di queste
osservazioni in quanto sono dirette a preparare il dominio del- l’uomo sulla
natura. E Schopenhauer chiamò A. sulla saggezza della vita (nei Parerga und
Paralipomena) i suoi precetti per rendere più felice, o meno infe- lice,
l’esistenza umana, conservando così alla parola il suo significato di massima o
regola per dirigere l’attività pratica dell’uomo. A FORTIORI. Espressione che
non indica un modo specifico di argomentare ma significa sem- plicemente «a più
forte ragione». Qualche logico designa con questa espressione le inferenze
transi- tive del tipo «x implica y, y implica z, dunque x implica z » (cfr.
STRAWSON, Introduction to Logical Theory, 1952, pag. 207). AFRICA (ingl.
Africa; franc. Afrique; tedesco Afrik). I filosofi hanno talora cercato di
giusti- ficare « speculativamente », cioè nei termini della loro filosofia,
anche la partizione dei continenti considerandola non già come casuale o convenzio-
nale ma come essenziale e razionale. Così apparve a Hegel la partizione del
vecchio mondo in tre parti, A., Asia ed Europa che starebbero tra loro come
tesi, antitesi e sintesi. L'A. rappresenterebbe in questa triade il momento in
cui lo spirito non riesce a giungere alla coscienza e l’uomo rimane abbrutito
nella passività e nella schiavitù (Philo- sophie der Geschichte, ed. Lasson,
pag. 203 sgg.). Analogamente Gioberti vide nella razza africana «la più
degenere delle tre schiatte umane » perchè «il nero è privazione della luce»
(Prorologia, II, pag. 221). AGAPISMO (ingl. Agapism). Termine ado- perato da
Peirce per designare la « legge dell'amore evolutivo » in virtù della quale
l’evoluzione cosmica tenderebbe ad un incremento dell’amore fraterno fra gli
uomini (Coll. Pap., 6. 60; ARNAULD, Log., II, 1). Nella linguistica moderna
l’A. è quella classe di parole definibile per la sua funzione di caratterizzare
la sostanza ed è diviso in descrittivo o limitativo, a seconda che segue o
precede il nome (cfr. BLOOMFIELD, Language, 1933, pag. 202 sgg.). AGGREGATO
(ingl. Aggregate; franc. Agré- gat; ted. Aggregat). In generale una collezione,
un agglomerato, un raggruppamento, una somma o una quantità di cose che
conservano tuttavia la loro individualità. Il termine ha un uso esteso nella
matematica e nella logica matematica contempo- ranea (v. INSIEME) e in generale
nelle scienze naturali che lo adoperano per indicare, in generale, masse o
raggruppamenti di elementi che conservano, stando insieme, le proprietà che
hanno separata- mea del sapere col procedi- mento che fu poi seguito anche da
Spencer per determinare i confini dell’Inconoscibile (v.). AGNOSIA (gr.
aywwota; ingl. Agnosy; francese Agnosie; ted. Agnosie). L’atteggiamento di chi
pro- fessa di non conoscere nulla, come fu quello di Socrate che affermava di
sapere solo di non sapere (PLATONE, Apol., 21 a) e che lo scettico Arcesilao
rinforzava dicendo di non sapere neppure questo (Cic., Acad., I, 45).
AGNOSTICISMO (ingl. Agnosticism; fran- cese Agnosticisme; ted. Agnosticismus).
Il termine fu coniato dal naturalista inglese Tommaso Huxley nel 1869
(Collected Essays, V, pag. 237 sgg.) per indicare l'atteggiamento di chi si
rifiuta di am- mettere soluzioni di quei problemi che non possono essere
trattati con i metodi della scienza positiva e segnatamente dei problemi
metafisici e religiosi. Huxley stesso dichiarò di aver coniato il termine «come
antitesi dello ‘gnostico * della storia della Chiesa che pretendeva di saperla
lunga sulle cose che io ignoravo ». Il termine fu ripreso da Darwin che si
dichiarò agnostico in una lettera del 1879. D'’allora in poi il termine fu
usato a designare l’at- teggiamento degli scienziati di indirizzo positivi-
stico di fronte all’Assoluto, all’Infinito, a Dio ed ai problemi relativi,
atteggiamento contrassegnato dal rifiuto di professare pubblicamente una qual-
siasi opinione intorno a tali problemi. Così fu detta agnostica la posizione di
Spencer che nella prima parte dei Primi principi (1862) intese dimo- strare
l’inaccessibilità della realtà ultima cioè della forza misteriosa che si
manifesta in tutti i fenomeni naturali. Il fisiologo tedesco Du-Bois Raymond in
uno scritto del 1880 enunciava Sette enigmi del mondo (l’origine della materia
e della vita; l'origine del movimento; il sorgere della vita; l’ordinamento
finalistico della natura; il sorgere della sensibilità e della coscienza; il
pensiero razionale e l’origine del linguaggio; la libertà del volere) di fronte
ai quali egli riteneva che l’uomo fosse destinato a pronunciare un igrorabimus
in quanto la scienza non potrà mai risolverli. Nello stesso periodo la parola
fu estesa a designare anche la dottrina di Kant in quanto essa ritiene che il
noumeno o cosa in sè è al di là dei limiti della conoscenza umana (v.
NouMENno). Ma questa estensione della parola non può dirsi del tutto legittima,
data la concezione kantiana del noumeno come concetto- limite. Fa parte
integrante della nozione di A. la riduzione dell’oggetto della religione a
semplice « mistero », rispetto al quale i simboli che si adope- rano per
interpretarlo rimangono del tutto ina- deguati. AGOSTINISMO (ingl.
Augustinianism; fran- cese Augustinism; ted. Augustinismus). S’intende con
questo termine, più che l’intera dottrina originale di S. Agostino,
quell’insieme di elementi dottrinali agostiniani che caratterizzarono uno degli
indirizzi della Scolastica (v.) che fu seguito prevalentemente dai dottori
francescani, in polemica con l’indirizzo aristotelico-tomista dei dottori
domenicani. La fi- sionomia generale dell'A. medievale può essere espressa con
i seguenti punti (cfr. MANDONNET, Siger de Brabant, 2* ediz., 1911, I, pag. 55
sgg.): a) man- canza di una distinzione precisa tra il dominio della filosofia
e quello della teologia cioè tra l’ordine delle verità razionali e quello delle
verità rivelate; b) teoria dell’illuminazione divina, secondo la quale
l'intelligenza umana non può funzionare se non per l’azione illuminatrice e
immediata di Dio e non può trovare la certezza della sua conoscenza se non
nelle regole eterne e immutabili della scienza divina; c) preminenza della
nozione di bene su quella del vero e perciò della volontà sull’intelligenza sia
ALGEBRA DELLA LOGICA 13 in Dio che nell'uomo; d) riconoscimento alla ma- teria
di una realtà positiva, in contrasto con Ari- stotele che vede in essa una pura
potenzialità; dal che deriva, per es., che il corpo umano possiede già una sua
realtà o attualità, cioè una forma in- dipendentemente dall’anima e che l’anima
è quindi una forma ulteriore che si aggiunge al composto vivente e animale; di
qui la cosiddetta pluralità delle forme sostanziali nel composto. Questi tratti
accomunano i grandi maestri della scolastica francescana come Alessandro di
Hales (1770 circa), Roberto Grossatesta, S. Bonaventura, Ruggiero Bacone, Duns
Scoto e molti altri minori. Alcuni di quei tratti si possono anche riconoscere
in dottrine filosofiche moderne e contemporanee, alle quali pervengono
attraverso la tradizione me- dievale o direttamente dall’opera di S. Agostino.
ALBERO DI PORFIRIO (lat. Arbor Por- phyriana; ingl. Tree of Porphyry; franc.
Arbre de Porphyre; ted. Baum des Porphyrius). Celebre schema o modello di
definizione per dicotomie successive, discendente dal genere generalissimo alle
specie infime (sostanza: corporea, incorporea; sostanza corporea [corpo]:
animato, inanimato; corpo animato: sensibile, insensibile; corpo ani- mato
sensibile [animale]: ragionevole, irragione- vole; animale ragionevole:
mortale, immortale; animale ragionevole mortale [uomo]: Socrate, Pla- tone, ecc.).
Sebbene tale «albero» non si trovi propriamente nei manoscritti di Porfirio, fu
co- struito sulla base del testo porfiriano (/sag., 4, 20) e si trova in tutti
i trattati medievali di logica (cfr., per es., Pietro IspANO, Summ. Logic., 2.
10), donde è passato nei testi moderni di logica tradi- zionale. G. P. ALCUNI.
V. QUALCHE. ALESSANDRISMO (ingl. Alexandrianism; franc. Alexandrisme; ted.
Alexandrismus). S’in- tende con questo termine la cultura alessandrina cioè la
cultura del periodo seguito alla morte di Alessandro Magno (323 a. C.) il quale
aveva uni- ficato il mondo antico nel segno della cultura greca e ne aveva
posto la capitale in Egitto nella nuova città di Alessandria. La dinastia dei
Tolomei mirò a fare di questa città un grande centro intellettuale in cui
confluissero insieme la cultura greca e quella orientale, mediate e unificate
dalla lingua che era diventata di patrimonio comune dei dotti, il greco.
Scienziati e dotti di tutti i paesi erano ospitati nel Museo ed avevano a loro
disposizione un mate- riale scientifico e bibliografico eccezionale per quei
tempi. Al Museo fu poi aggiunta la biblioteca, il cui primo nucleo si dice sia
stato formato dalle opere possedute da Aristotele e che divenne poi
ricchissima, fino a comprendere 700.000 volumi. La cultura alessandrina è
contrassegnata dal di- vorzio tra scienza e filosofia. Mentre le ricerche
scientifiche, la determinazione dei metodi della scienza e la sistemazione dei
risultati di essa fanno grandi passi in questo periodo, la filosofia rinuncia
al còmpito che costituì la sua grandezza nel pe- riodo classico: quello di
cercare liberamente le vie e i modi di un’esistenza propriamente umana. Essa si
irrigidisce nella pretesa di garantire all'uomo, a tutti i costi, la pace e la
serenità dello spirito; e in tal modo diventa privilegio di pochi dotti che
riescono ad isolarsi dal resto della vita e dai pro- blemi che la dominano e si
disinteressa quindi anche della ricerca scientifica. La scienza dell’età
alessandrina offre grandi figure di matematici (Eu- clide, Archimede,
Apollonio); di astronomi (Iparco e Tolomeo); di geografi (Eratostene); di
medici (Galeno). La filosofia si presenta divisa in due grandi scuole:
Epicureismo (v.) e Stoicismo (v.) e in due indirizzi filosofici sostenuti da
scuole diverse, lo Scerticismo (v.) e l’Eclettismo (v.). A questo periodo della
filosofia si può far risalire quella nozione di essa, che talora ancora predo-
mina nel senso comune, come un'attività consola- toria o tranquillizzante che
impedisce all'uomo di mescolarsi alle cose della vita comune e cerca di
garantirne l’imperturbabilità di spirito. ALESSANDRINISMO (ingl. Alexandrinism;
franc. Alexandrinisme; ted. Alexandrinismus). Così fu chiamata, nel
Rinascimento, la dottrina di Ales- sandro di Afrodisia sull’intelletto attivo
(v.). ALETIOLOGIA (ted. Alethiologie). Così Lam- bert chiamò la seconda delle
quattro parti del suo Nuovo organo (1764) e precisamente quella che studia gli
elementi semplici della conoscenza. Essa è una specie di anatomia dei concetti
che ha lo scopo di raggiungere i concetti più semplici e in- definibili.
ALGEBRA DELLA LOGICA (ingl. Logica! Algebra; franc. Algèbre de la logique; ted.
Algebra der Logik). Già Leibniz aveva intuita la possibilità di un calcolo
letterale affine a quello dell’A. ordi- naria, in cui, definite mediante
assiomi (molto simili a quelli algebrici) certe operazioni logiche (addizione,
sottrazione, moltiplicazione, divisione, negazione) e certe relazioni
(implicazione, identità) fondamentali, indicate con simboli tolti alla
matematica, si poteva da questi assiomi derivare mediante calcolo tutte le
regole della sillogistica tradizionale. Ma (forse per il prevalere di
preoccupazioni contenutistiche- intensive di origine filosofica sulla pura idea
del calcolo) non era giunto a risultati soddisfacenti. E non più fortunati
furono i tentativi di suoi con- tinuatori come Lambert. Solo i logici inglesi
del- 1’800 riuscirono a fondare una vera e propria A. della logica. IH primo fu
George Boole (Ma- thematical Analysis of Logic, 1847; Laws of Thought, 14
ALGORITMO 1854) sulle cui orme lavorarono Stanley Jevons (Pure Logic, 1864), J.
Venn (Simbolic Logic, 1881) e il tedesco E. Schròder (Algebra der Logik, 1890-
1895). L’A. della Logica è generalmente intesa come un calcolo letterale bivalente,
caratterizzato: 1° dal fatto che le equazioni vi possono assumere solo i valori
0 o 1; 2° dagli assiomi «a +a4= a» e «a*»a = a» (con tutte le conseguenze
derivanti da ciò); 3° dall’assenza di operazioni indirette, come la sottrazione
(non potendosi la negazione «— a» equiparare alla sottrazione, nonostante l’as-
sioma, già enunciato da Leibniz, «a- — a= 03). Questo mero calcolo letterale in
sè non significa nulla, è un mero giuoco simbolico (appunto, un'«A. zione a;
finalmente 0 si interpreta «falso », 1 si interpreta «vero». In tal modo si
fonda un’interpretazione del calcolo lo- gico-algebrico che viene ad assorbire
in sè, tra- sformandola in disciplina formale e deduttiva, la sillogistica
tradizionale. La Logica matematica, fon- data da Frege e Russell, e in seguito
la Logica simbolica contemporanea, assorbendo in sè gli ele- menti più vitali
dell’A. della Logica, l’hanno resa oramai desueta. Gg. P. ALGORITMO (ingl.
Algorism; franc. Algo- rithme; ted. Algorithmus). Un qualsiasi proce- dimento
di calcolo. Il termine derivato dal nome dell’autore arabo di un trattato che
introdusse in Europa nel sec. ix la numerazione decimale, desi- gnava da
principio i procedimenti del calcolo aritmetico ed è stato poi generalizzato a
indicare ogni procedimento di calcolo. ALIENAZIONE (ingl. Alienation; franc.
Alié- nation; ted. Entfremdung). Il termine, che nel lin- guaggio comune
significa perdita di un possesso, di un affetto o dei poteri mentali, è stato
ado- perato dai filosofi in alcuni significati specifici. 1. Nel Medioevo fu
talora usato per indicare un grado dell’ascesa mistica verso Dio. Così Riccardo
di San Vittore considera l’A. come il terzo grado dell’elevazione della mente a
Dio (dopo la dilata- zione e la sollevazione) e ritiene che essa consiste nell’abbandono
della memoria di tutte le cose finite e nella trasfigurazione della mente in
uno stato che non ha più nulla di umano (De gratia con- templationis, V, 2). In
questo senso l’A. non è che l’estas’autotogliersi di quest’ultimo ha un
significato positivo, cioè se stessa; infatti, in quella A. essa pone sè come
oggetto o, in forza dell’inscindibile unità dell’esser-per-sè, pone l’oggetto
come se stessa, mentre d’altra parte in quest’atto è contenuto l’altro momento
ond’essa ha tolto e ripreso in sè medesima quest’A. e oggettività, essendo
dunque, nel suo esser altro come tale, presso di sè. Questo è il movimento
della coscienza, la quale in tal movimento è la totalità dei propri momenti»
(Phéinomen. des Geistes, VIII, 1). Questo concetto puramente speculativo viene
ri- preso da Marx nei suoi scritti giovanili per descrivere la situazione
dell’operaio nel regime capitalistico. Secondo Marx, Hegel ha avuto il torto di
confon- dere l’obiettivazionatto ma infelice... E solo fuori del lavoro si
sente presso di sè, si sente fuori di sè nel lavoro ». Nella società
capitalistica il la- voro non è volontario ma costretto perchè non è
soddisfacimento di un bisogno, ma solo un mezzo ALLEGORIA 15 per soddisfare
altri bisogni. «Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena è un
lavoro di sa- crificio di se stessi, di mortificazione » (Manoscritti
economico-filos., 1844, I, 22). Questo uso del termine è diventato corrente
nella cultura contemporanea, non soltanto nella descrizione del lavoro operaio
in certe fasi della società capitalistica, ma anche a proposito del rapporto
tra l’uomo e le cose nel- l’età della tecnica: giacchè sembra che il predominio
della tecnica « alieni l’uomo da se stesso » nensional Man, 1964, pag. 12). Nel
linguaggio filosofico-politico oggi corrente il termine ha i significati più
disparati che dipendono dalla varietà dei caratteri su cui si insiste per la
definizione dell’uomo. Se l’uomo è ragione auto- contemplativa (come riteneva
Hegel), ogni suo rap- porto con un oggetto qualsiasi è alienazione. Se l’uomo è
un essere naturale e sociale (come riteneva Marx) è A. il suo ritirarsi nella
contem- plazione. Se l’uomo è istinto e volontà di vita, è A. ogni repressione
e diminuzione di tale istinto e volontà; se l’uomo è razionalità operante o
fattiva è A. il suo affidarsi all’istinto. Se l’uomo è ragione (comunque
intesa), è A. il suo rifugiarsi nella fantasia; ma se è essenzialmente
immagina- zione e fantasia, è A. ogni sua disciplina razionale. Infine, se
l’individuo umano è una totalità auto- sufficiente e completa, è A. ogni regola
o norma che venga imposta, in qualsiasi modo, alla sua espressione.
L’equivocità del concetto di A. di- pende dalla problematicità della nozione di
uomo. ALLEGORIA (gr. &anropla; lat. Allegoria; ingl. Allegory; franc.
Allégorie; ted. Allegorie). Nel suo primo significato specifico, la parola
indica un modo di interpretare le sacre scritture e di sco- prire, al di là
delle cose, dei fatti e delle persone, di cui esse trattano, verità permanenti
di natura religiosa o morale. La prima importante applica- zione del metodo
allegorico è il commentario alla Genesi di Filone di Alessandria (sec. 1).
Filone non esita a contrapporre il senso allegorico al senso letterale e a
dichiarare «sciocco» (etnînc) que- st’ultimo. Ecco un esempio: «‘ E Dio finì
nel set- timo giorno le opere che egli creò’ (Gen., 2, 2). È assolutamente
sciocco credere che il mondo è nato in sei giorni o in generale nel tempo.
Perchè? Perchè ogni tempo è un insieme di giorni e di notti che sono necessariamente
prodotti dal movimento del sole che va al di sopra e al di sotto della terra;
ma il sole è una parte del cielo sicchè si riconosce che il tempo è più recente
del mondo » (A//. /eg., I, 2). A sua volta Origene che è il primo autore di un
grande sistema di filosofia cristiana, distin- gueva nei testi biblici tre
significati: il somatico, lo psichico e lo spirituale, che stanno tra loro come
le tre parti dell’uomo: il coranifesto, non meno è vero quello che
spiritualmente s’in- tende cioè che nella uscita dell'anima del peccato, essa
si è fatta santa e libera in sua potestate» (Conv., II, 1). Ma tra questi
sensi, come Dante stesso dice, quello fondamentale, per il teologo come per il
poeta, è l’allegorico. E difatti l’A. divenne nel Medioevo il modo d'intendere
la funzione del- l’arte e specialmente della poesia. Giovanni di Sa- lisbury
diceva di Virgilio che egli « sotto l’imagine delle favole esprime la verità
dell’intera filosofia » e Dante (Vita Nuova, 25) definiva così il compito 16
ALLOGLOSSIE del poeta: « Vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste
di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le
sue parole di cotal veste, in gure del simbolo (v.) che può essere vivo ed
evocatore perchè l’imagine simbolica è au- tonoma e ha un interesse in se
stessa cioè un inte- resse che non mutua dal suo riferimento convenzio- nale a
un concetto o ad una dottrina. Tuttavia, se si tiene conto della potenza e
della vitalità di certe opere d’arte di chiara struttura allegorica (per es.,
della Divina Commedia e di molte pitture medievali e rinascimentali) si deve
dire che l'A. non necessariamente rende impossibile l’autonomia e la leggerezza
dell’imagine estetica e che, in certi casi, anche la corrispondenza puntuale
tra l’imagine e il concetto può non riuscire mortificante per la prima e non
togliere ad essa la vitalità dell’arte o della poesia. T. S. Eliot ha fatto,
proprio a pro- posito di Dse per designare Dio come principio e fine del mondo
(Ap., I, 8; 21, 6; 22, 13; ecc.). ALTERAZIONE (gr. dMolwow; ingl. Alte- ration;
franc. Altérat on; ted. Alteration). Secondo Aristotele, una delle forme del
mutamento e preci- samente quella secondo la categoria della qualità:
intendendosi per qualità non quella essenziale ad una sostanza ed espressa
nella differenza specifica ma quella che una sostanza o realtà riceve o su-
bisce (Fis., V, 2, 226a 23 sgg.). In altri termini, l’A. è per Aristotele
l'acquisto o la perdita di qua- lità accidentali; come, per es., l’essere ora
in buona, ora in cattiva salute (Mer., VIII, 1, 1042a 36). Questo significato
di « mutamento qualitativo » è rimasto nell’uso filosofico della parola in
questione; per quanto non sempMa più ge- neralmente si può dire che, secondo
Hegel, l’A. ac- compagna l’intero sviluppo dialetico dell’Idea perchè essa è
inerente al momento negativo che è intrinseco a questo sviluppo. Difatti appena
fuori dell’essere indeterminato che ha come sua negazione il puro niente le
determinazioni negative dell’Idea divengono a loro volta qualche cosa di
determinato cioè un « essere altro » da quello stesso che negano. «La negazione
— non più come il niente astratto ma come un essere determinato e un alcunchè —
è soltanto forma per questo alcunchè, è un essere altro » (Enc., $ 91).
ALTERNATIVA, PROPOSIZIONE (in- glese
Alternative proposition; franc. Proposition alter- native; ted. Alternative
Proposition). Con questo ALTRO, PROBLEMA DELL’ 17 nome si suole indicare,
propriamente, la proposi- zione molecolare disgiuntiva « poq+ («almeno p è
vero, quindi se non è vero p è vero q+). Ma spesso in uso non rigoroso, le
componenti della molecolare disgiuntiva si dicono « alternative» l’una rispetto
all’altra. Pare che la parola a/ternatio, introdotta dagli scrittori latini ad
indicare la proposizione di- sgiuntiva, derivi dal linguaggio giuridico. G. P.
ALTERNAZIONE. V. ALTERNATIVA. ALTRO (gr. Gftnpov; ingl. Orher; franc. Autre;
ted. Andere). Uno dei cinque generi sommi dell’es- sere, enunciati da Platone
nel Soffsta e che sono: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico e
l’altro. Il motivo per ammettere l’altro come un genere a sè è il seguente: la
quiete e il movimento, en- trambi, sono, perciò, sotto l’aspetto dell’essere,
sono identici; ma essi sono anche diversi l’uno dall’altro e questa diversità è
esattamente come è la loro iden- tità (dovuta al fatto che entrambi sono).
L’altro (il diverso) è perciò un genere egualmente origi- nario e irriducibile
degli altri quattro (Sof., 254 seguenti). Il riconoscimento dell’altro come di
un genere sommo è molto importante perchè consente a Platone di risolvere
l’antinomia, propria della sofistica e della eristica (v.), che è impossibile
dire il falso perchè il falso è ciò che non è e dire ciò che non è significa
dir nulla cioè non dire. Da questo punto di vista l’errore dovrebbe essere
dichiarato inesistente; e non ci sarebbe neppure differenza pos- sibile tra il
filosofo, che si preoccupa di stabilire la distinzione tra verità ed errore, e
il sofista che non se ne preoccupa affatto. Ammesso invece l’A. come genere sommo,
il non-essere potrà essere interpre- tato, non già come il nulla, ma come l’A.
dall’es- sere e precisamente dall’essere di cui si parla; per es., dire che
qualcosa è non grande o non bella significa semplicemente dire che è qualcosa
di A., di diverso, dal grande e dal bello; ma non perciò che è l’opposto
dell’essere e cioè il nulla (Ibid., 257 b sgg.). Quest’affermazione della
realtà del non-essere, in quanto A. o diverso, è presen- tata, dal Forestiere
eleate che è il maggiore prota- gonista del Sofista, come una specie di «
parricidio + verso Parmenide, che aveva affermato che il solo essere è e il non
essere non è (/bid., 242 d). Queste notazioni platoniche, soprattutto la
categoria di «A.», sono poi state adoperate frequentemente per chiarire la
nozione di niente (v.). ALTRO, PROBLEMA DELL’ (ingl. Problem of Others; franc.
Problème de l’autre; ted. Problem von fremden Ichen). Con quest’espressione
s’indica, nella filosofia moderna e contemporanea, il pro- blema concernente
l’esistenza di altri io (spiriti o persone) indipendenti da quello di colui che
si pone il problema stesso. Questo problema nasce da due punti di vista diversi
e tuttavia connessi 2 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. insieme da alcuni
presupposti comuni. Il primo è quello dell’idealismo romantico (v.) secondo il
quale la realtà essendo un Principio infinito ed universale (per es., l’Io
assoluto di Fichte), si tratta di vedere come essa si rompe o si moltiplica
nella diversità degli io singoli. Il secondo è il punto di vista ge- nericamente
idealistico e spiritualistico, secondo il quale ciò che a ciascuno di noi è
originariamente dato è soltanto il suo proprio io e le sue esperienze psichiche
di cui alcune (una parte solamente) si riferirebbero ad altri individui. AI
primo problema Fichte rispose nella Dorfrina Morale (1798) affermando il
carattere originario dell’idea del dovere e facendo derivare da essa il
riconoscimento degli altri io. L'idea del dovere è l’autodeterminazione
originaria dell’io; ma essa non potrebbe esser realizzata se non ci fossero
altri io, altri soggetti nei confronti dei quali soltanto l’idea del dovere può
trovare la sua determinazione e quindi la sua possibilità di realizzazione. La
realtà degli altri io è quindi, per Fichte, un postulato morale: l’esistenza
degli altri io deve essere ammessa e riconosciuta, se l'io deve poter
concretamente rea- lizzare la sua moralità (Sittenlehre, $ 18). Questa
concezione è stata, con qualche variante, ripresa da altri filosofi; per es.,
da Riehl nel suo libro sul Criticismo (1786-87) e da Cohen nella sua Erica
della volontà pura (1904): il quale ultimo deduce l’esistenza delle persone in
generale dal carattere giuridico e dalle funzioni pubbliche dell’uomo, sicchè
la molteplicità degli io non esisterebbe che come molteplicità di « persone
giuridiche ». Dall’altro lato, dal punto di vista che l’io conosce in modo
immediato solo se stesso e i suoi stati interiori, cioè dal punto di vista di
un accesso pri- vilegiato alla conoscenza interiore dell’io (v. Co- scieNZA) nasce
il problema di vedere come mai una parte dell’esperienza dell’io possa essere
rife- rita ad altri io; e il problema ancora più grave di vedere quale garanzia
questo riferimento offra in favore dell’esistenza effettiva dell’altro io. Per
ri- spondere a questi problemi due teorie sono state avanzate: 1° la teoria
secondo la quale l’esistenza degli altri sarebbe inferita mediante un «
giudizio di analogia », a partire dalle percezioni che ci ri- velano movimenti
analoghi a quelli mediante i quali noi esprimiamo il nostro proprio io. Ma
questa teoria, propria della psicologia associazionista, ha contro di sè il
fatto che la credenza nell’esistenza o soggettivistico del problema è apparso
sempre più debole; ed è stato anche at- taccato, sulla base di osservazioni
sperimentali, dalla psicologia contemporanea. Scheler osservò che non esiste
alcun privilegio ontologico o metafisico a favore dei pensieri o dei sentimenti
che l’io chiama «miei ». Il mio pensiero mi è dato come « mio» allo stesso
titolo in cui il pensiero di un altro mi è dato come pensiero « altrui »: è
questo il caso comunissimo e normale in cui noi comprendiamo una comunicazione
qualsiasi che ci vien fatta. Tra il mio e l’altrui c'è sempre una connessione
stret- tissima ed essi si determinano e si condizionano vicendevolmente, senza
tuttavia che le sfere rispet- tive si lascino fissare mai rigidamente, come è
provato dal fatto che spesso non sappiamo dire se una certa esperienza psichica
ci venga da noi stessi o da altri (Sympathie, III, cap. III). Questo equivale a
negare il carattere privato e rigida- mente soggettivo dell’Zo (v.) e a
riconoscere che esso si muove, sin dalla sua costituzione e in tutte le sue
manifestazioni, in una rete di rapporti inter- soggettivi che lo costituiscono
in proprio e nella quale vengono ritagliate le sfere correlative del «mio » e
del « tuo ». Questo punto di vista si ritrova frequentemente, e anche presso
scuole diverse, nella filosofia contemporanea. Mead afferma che « l’uomo
diventa un io nella sua esperienza solo in quanto il suo atteggiamento richiama
un corrispondente atteggiamento nei rapporti sociali ». L’autocoscienza stessa
o io non è altro, in questo caso, che l’atteg- giamento generalizzato degli
altri nei nostri riguardi. « Noi prendiamo il ruolo di quello che può essere
chiamato l’altro generalizzato e nel far questo ap- pariamo come oggetti
sociali, come io» (Phil. of the Present, pag. 185). Dall’altra parte Carnap ha
espresso un punto di vista assai vicino a questo, insistendo sul carattere
secondario e derivato della distinzione tra l’io e il tu. «La stessa
caratterizza- zione degli elementi fondamentali del nostro si- stema
costitutivo come psichicamente propri cioè come ‘psichici’ e come ‘miei’
acquista signifi- cato solo quando si sono costituiti il campo del non psichico
(contrapposto allo psichico) e del ‘tu’» (Der logische Aufbau der Welt, $ 65).
Queste notazioni dimostrano che un punto di partenza solipsistico che pretenda
fondarsi su dati cadenti nell’àmbito della coscienza personale è sempre più difficile
a sostenersi. Ed anche una filosofia come quella di Sartre per la quale l’altra
esistenza è tale in quanto non è la mia, sicchè il rapporto inter- personale è
un rapporto di negazione reciproca, e solo la negazione è «la struttura
costitutiva dell’es- sere altri » (L’étre et le néant, pag. 285), si presenta
come un trascendimento del cogito. « Ciò che noi chiamiamo, in mancanza di
meglio, il cogito dell’esi- stenza altrui, si confonde col mio proprio cogito.
Bisogna che il cogito mi getti fuori di lui sull’A., come mi ha gettato fuori
di lui sull’in-sè e questo non già rivelandomi una mia struttura a priori che
punterebbe verso l’altro egualmente a priori, ma scoprendo in me la presenza
concreta e indubitabile di questo o quell’altro concreto come ha già ri- velato
a me la mia esistenza inconfrontabile con- tingente e tuttavia necessaria e
concreta» (/bid., pag. 308-09). Analogamente per Husserl l’esperienza
dell’altro è una specie di Einfhlung o empatia per la quale l’altro si
costituisce per «appresentazione» come «un altro me stesso» (Cartesianische
Medita- tionen, $ 52). L’io stesso fa in modo che « una mo- dificazione
intenzionale di se stesso e della sua pri- mordialità pervenga alla validità
sotto il titolo di percezione dell’estraneità, percezione di un altro, di un
altro io» (Die Krisis, $ 54 b). ALTRUISMO (ingl. Altruism; franc. Altruisme;
ted. Altruismus). Il termine è stato creato da Comte, in opposizione a egoismo
(v.), per designare la dot- trina morale del positivismo. Nel Catechismo posi-
tivista (1852) Comte enunciò la massima fondamen- tale dell’A.: vivere per gli
altri. Questa massima, egli ritenne, non è contraria a tutti, indistintamente,
gli istinti dell’uomo; giacchè l’uomo possiede, ac- canto agli istinti
egoistici, istinti simpatetici che l'educazione poiivista può sviluppare
gradata- mente sino a renderli predominanti sugli altri. Già, infatti, le
relazioni domestiche e civili tendono a contenere gli istinti personali, quando
essi susci- tano conflitti tra i vari individui, e a promuovere le inclinazioni
benevole che si sviluppano sponta- neamente presso tutti gl'individui. Il
termine fu sùbito accettato da Spencer (nei Principi di psico- logia, 1870-72)
il quale ritenne che l’antitesi tra egoismo e A. sia destinata a scomparire con
l’evo- luzione morale e farà sempre più coincidere la sodisfazione del singolo
col benessere e la felicità altrui (Data of Ethics, $ 46). Come si vede il fon-
damento dell’etica altruistica è naturalistico, perchè essa fa appello agli
istinti naturali che portano l’in- dividuo verso gli altri e intende promuovere
lo sviluppo di tali istinti. Il suo termine polemico è l’etica individualistica
del xvm secolo in quanto è un’etica che rivendica i valori e i diritti dell’in-
dividuo contro quelli della società e in particolare dello Stato. Comte, come
tutto il Romanticismo (v.) obbedisce all’esigenza opposta, che fa leva sul va-
AMBIENTE 19 lore preminente dell'autorità statale e perciò la sua etica
prescrive puramente e semplicemente il sacri- ficio dell'individuo. Non fa
perciò meraviglia che le dottrine interessate alla difesa dell’individuo ab-
biano considerato con ostilità e disprezzo la morale dell’altruismo. Così
Nietzsche, identificando l’amor del prossimo con l’A., lo fa condannare da
Zara- tustra. « Voi andate al prossimo sfuggendo a voi stessi e vorreste far di
ciò una virtù; ma io leggo bene attraverso il vostro A. ... Voi non sapete sop-
portare voi stessi e non vi amate abbastanza: ed ecco che volete sedurre il
vostro prossimo inducen- dolo all'amore e farvi belli del suo amore» (Also
sprach Zarathustra, cap. sull’Amore del prossimo). Su un terreno più obiettivo
e scientifico Scheler (Sympathie, ll, cap. I) ha negato l’identificazione
(presupposta anche da Nietzsche) dell'A. e del- l’amore. Egli ha osservato che
gli atti che si diri- gono verso gli altri in quanto altri non sono sempre
necessariamente « amore ». L’invidia, la cattiveria, la gioia maligna, si
riferiscono egualmente agli altri in quanto altri. Un amore che fa
completamente astrazione da se stesso poggia su un odio ancora più primitivo,
cioè l’odio verso se stesso. «Il fare astrazione da sè, il non poter sopportare
il colloquio con se stesso, son cose che non hanno niente a che vedere con
l’amore ». In realtà la massima del- l’A. «vivere per gli altri», se presa alla
lettera, farebbe di tutti gli uomini mezzi per un fine che non esiste; ed è
perciò contraria ad uno dei teoremi meglio stabiliti dell’etica moderna (e in
generale dell’etica) cioè a quello per il quale l’uomo non deve mai essere
considerato come un semplice mezzo, ma deve sempre avere, anche, valore di
fine. AMABIMUS. V.
PURPURFA. AMBIENTE (ingl. Environment; franc. Milieu; ted. Mittel). Nel significato corrente, un complesso di rapporti
tra mondo naturale ed essere vivente, che influiscono sulla vita e sul
comportamento dello stesso essere vivente. In questo senso la parola (milieu
ambiant) fu probabilmente introdotta nel- l’uso dal biologo Geoffroy
St.-Hilaire (Études pro- gressives d'un naturaliste, 1835) e ripresa e adope-
rata da Comte (Cours de philosophie positive, lez. 40, $ 13 sgg.). Osservazioni
sull’influenza delle condi- zioni fisiche, e specialmente del clima, sulla vita
degli animali in generale e in particolare su quella dell’uomo, ed anche sulla
vita politica dell’uomo, si trovano frequentemente negli scrittori antichi (si
confronti, per es., IPPOCRATE, Arie acque luoghi, 14-24; ARISTOTELE, Pol., VII,
4, 7) e sono state poi variamente ripetute. Nel mondo moderno si deve a
Montesquieu (Libro XIV de L’Esprit des Lois, 1748) il principio, da lui
sistematicamente sviluppato, che « il carattere dello spirito e le pas- sioni
del cuore sono estremamente differenti nei diversi climi » e che perciò « le
leggi devono essere relative e alla differenza di queste passioni e alla
differenza di questi caratteri ». Il positivismo otto- centesco attribuì all’A.
fisico e biologico il valore di causa determinante di tutti i fenomeni propria-
mente umani, dalla letteratura alla politica. L’opera letteraria e filosofica
di Ippolito Taine contribuì alla diffusione di questa tesi, secondo la quale
l’ambiente fisico, biologico e sociale determina ne- cessariamente tutti i
prodotti e i valori umani e basta a spiegarli. Nella Filosofia dell’arte (1865)
Taine affermò che l’opera d’arte è il prodotto ne- cessario dell'ambiente e che
conseguentemente si può derivare da questo non solo lo sviluppo delle forme
generali dell'imaginazione umana, ma anche quella che spiega le variazioni
degli stili, le diffe- renze delle scuole nazionali, e perfino i caratteri
generali delle opere individuali. Nel mondo con- temporaneo la nozione di A. è
rimasta fondamentale nelle scienze biologiche, antropologiche e sociolo- giche
ma si è venuta gradualmente trasformando giacchè la relazione tra l’A. e
l’organismo o l’uomo o il gruppo sociale non è stata più intesa secondo uno
schema meccanico cioè come una relazione di determinismo causale assoluto.
L’azione selettiva che l’essere, sul quale l’A. agisce, esercita nei con-
fronti dell’A. stesso è stato ampiamente sottolineato. « L'A. di un organismo,
ha detto Goldstein, non è qualcosa di compiuto ma si forma continuamente a
misura che l’organismo vive ed agisce. Si po- trebbe dire che l’A. è estratto
dal mondo dalla esistenza dell’organismo, o meglio, per esprimersi più
oggettivamente, che un organismo non può esistere se esso non riesce a trovare
nel mondo, a ritagliarsi in esso, un A. adeguato, a condizione naturalmente che
il mondo gliene offra la possibi- lità » (Aufbau des Organismus, 1934, pag.
58). Analo- gamente, a proposito dell’A. storico-sociale, Toynbee ha detto: «
L’A. totale, geografico e sociale, in cui è compreso sia l’elemento umano, sia
il non umano, non può essere considerato come un fattore posi- tivo da cui le
civiltà sono state generate. È chiaro che una combinazione virtualmente
identica dei due elementi dell’A. può originare una civiltà in un caso e
mancare di originare una civiltà in un altro, senza che sia possibile da parte
nostra spiegare questa differenza assoluta nel loro sorgere con qualche sostanziale
differenza nelle circostanze, per quanto si possono definire esattamente i ter-
mini della comparazione » (A Study of History, I, pag. 269). Questo ovviamente
non significa che l’A. non agisca affatto sulla vita e sulle creazioni degli
uomini ma solo che ne è piuttosto la con- dizione che la causa. I filosofi
hanno sottolineato questo nuovo significato dell'ambiente. Mead ha detto: «
L’A. è una selezione che è dipendente dalla 20 AMBIGUITÀ forma vivente» (Phil.
of the Act, pag. 164). Dal- l’altro lato Heidegger ha inteso la sua analisi
del- l’essere nel mondo (che è determinazione essenziale dell’esistenza) quale
una messa in questione e in discussione di quella nozione di A. che la biologia
non fa che presupporre (Sein und Zeit, $ 12). AMBIGUITÀ (ingl. Ambiguity;
franc. Ambi- guité; ted. Ambiguitàt). 1. Lo stesso che Equivo- cazione (v.). 2.
Riferito a stati di fatto o situazioni: possibilità di interpretazioni diverse
o presenza di alternative escludentisi. AMBIVALENZA (ingl. Ambivalence; francese
Ambivalence; ted. Ambivalenz). Uno stato caratte- rizzato dalla presenza
simultanea di valutazioni o di atteggiamenti contrastanti od opposti. Il
termine è usato specialmente in psicologia per indicare certe situazioni
emotive che implicano amore e odio, e in generale atteggiamenti opposti, nei
confronti del medesimo oggetto (cfr. E. BLeuLER, Lehrbuch der Psychiatrie, 22
ediz., 1918). AMERICA (ingl. America; franc. Amérique; ted. Amerika). I
filosofi del Romanticismo hanno avuto una parte importante in quella « disputa
del Nuovo Mondo» che, cominciata verso la metà del *700, ancora, si può dire,
perdura, a proposito dell’inferiorità o superiorità dell'America. La tesi della
debolezza o della « immaturità » delle Americhe nasce con Buffon che esaminando
comparativamente le specie animali in A. e in Europa, concludeva che in A. «la
natura vivente è assai meno attiva, è assai meno varia e si può dire assai meno
forte » (CEuvres, ediz. 1826-28, XV, 429). Le tesi di Buffon venivano
polemicamente amplificate dal- l’abate De Paw in uno scritto del 1768,
Recherches philosophiques sur les Américains. Nelle mani di Hegel le notazioni
di Buffon e De Paw divengono, conformemente al sistema e allo spirito di lui,
«determinazioni assolute +, verità necessariamente dedotte. L’A. è un mondo
nuovo nel senso di es- sere immaturo e fiacco; la fauna vi è più debole, ma in
compenso la vegetazione è mostruosa. Man- cano in essa i due strumenti di
progresso civile, il ferro e il cavallo (Enc., $ 339, Zus.). L'A. è quindi un
mondo nuovo nel senso che è giovane ed im- maturo. Perfino il mare tra l’A. del
sud e l’Asia « manifesta una immaturità fisica anche quanto alla sua origine ».
E per tutto questo « l’A. si è sempre mostrata e si mostra ancora impotente
tanto dal punto di vista fisico quanto da quello spirituale » (Phil. der
Geschichte, ediz. Lasson, pag. 122 e sgg.). È bensì vero che, forse proprio per
questa imma- turità, l'A. è «il Paese dell’avvenire, quello a cui, in tempi
futuri, forse nella lotta fra il nord e il sud, si rivolgerà l’interesse della
storia universale ». Ma Hegel aggiunge sùbito: « Come paese dell’av- venire,
essa assolutamente non ci riguarda. Il filo- sofo non s'intende di profezie.
Dal lato della storia noi abbiamo piuttosto a che fare con ciò che è stato e
con ciò che è, mentre nella filosofia non ci occupiamo nè di ciò che soltanto è
stato o che soltanto sarà, ma di ciò che è ed è eternamente: della ragione; e
con ciò abbiamo abbastanza da fare » (Ibid., ediz. Lasson, pag. 129).
Schopenhauer dal canto suo ripeteva le osservazioni (se così pos- sono
chiamarsi) sull’inferiorità della fauna ameri- cana e degli indigeni; e
aggiungeva, nel linguaggio fiorito delle sue invettive, una descrizione degli
Stati Uniti come di un paese prospero ma domi- nato da un vile utilitarismo e
dalla sua immanca- bile compagna, l’ignoranza, che ha aperto il cam- mino alla
stupida bigotteria anglicana, alla sciocca presunzione e alla brutale volgarità
congiunta a una stolta venerazione per le donne (Die Welt, II, 44; Parerga, II,
VI, $ 92). Alla stessa tendenza denigratrice non si sottrae l’altro corno del
Ro- manticismo, il positivismo che, per bocca di Comte, svaluta la portata
della rivoluzione americana, vede negli Stati Uniti una «colonia universale » e
con- sidera la loro civiltà completamente priva di origi- nalità e semplice
filiazione della civiltà inglese (Cours de phil. positive, V, 470-711; VI,
60n). D'altra parte lo stesso Romanticismo suggeriva ad Emerson un’esaltazione
mistica dell’A. altrettanto fantasica ed arbitraria delle denigrazioni dei ro-
mantici europei (The American Scholar, 1837; The Young American, 1844). Già
Humboldt notava (Ansichten der Natur, 1807) il carattere arbitrario e
fantastico di quelle notazioni che pretendevano di essere « scientifiche » o « speculative
» e che erano soltanto dogmatizzazioni di pregiudizi. Ma con tutto ciò gli
elementi della polemica intorno al Nuovo Mondo sono rimasti per lungo tempo e
forse ancor oggi rimangono quelli che abbiamo accennato. (Per maggiori
particolari, cfr. A. GERBI, La disputa del Nuovo Mondo, Milano-Napoli,AMICIZIA
(gr. quia; ingl. Friendship; fran- cese Amitié; ted. Freundschaft). In generale
la co- munità di due o più persone legate assieme da atteggiamenti concordanti
e da affetti positivi. Gli antichi ebbero dell’A. un concetto assai più esteso
di quello che oggi viene comunemente ammesso e adoperato, come risulta
dall’analisi che Aristotele dette di essa nei libri VIII e IX dell’Etica Nico-
machea. L’amicizia è, secondo Aristotele, o una virtù o strettamente congiunta
con la virtù: co- munque, è ciò che c’è di più necessario alla vita giacchè i
beni che la vita offre, come la ricchezza, il potere, ecc., non si possono nè
conservare nè adoperar bene senza gli amici (VIII, 1, 1155 a 1). L’A. va
distinta in primo luogo dalle due cose AMMIRAZIONE 21 cui sembra più
strettamente affine, cioè dall’amore e dalla benevolenza. Essa si distingue
dall’amore (ptc) perchè l’amore è simile ad un’affezione (v.), l’A. a un abito
(v.). Sicchè l’amore si può rivolgere anche a cose inanimate, mentre il
riamare, che è proprio dell’A., implica una scelta che deriva da un abito
(VIII, 5, 1157b 28). Inoltre, all'amore si accompagnano l’eccitazione e il
desiderio, che sono estranei all’A.; ed esso, a differenza dell’A., è provocato
dal godimento che dà la vista della bel- lezza (IX, 5, 1166b 30). Si distingue
poi dalla benevolenza perchè questa può dirigersi anche verso gli ignoti e può
rimanere nascosta: il che non ac- cade dell’A. (IX, 5, 1167 a 10). L’A. è
certamente una specie di concordia, ma una concordia che non riposa
sull’identità delle opinioni ma piuttosto, come la concordia delle città,
sull’armonia degli atteggiamenti pratici, sicchè a giusto titolo si chiama « A.
civile » la concordia politica (IX, 6, 1167 a 22). L’A. è poi certamente una
comunità nel senso che l’amico si comporta verso l’amico come verso se stesso
(IX, 12, 1171 b 32). Ci sono tante specie di amicizie quante sono le comunità,
cioè le parti della società civile: quella tra i naviganti, quella tra i soldati,
quella tra coloro che fanno un qual- siasi lavoro comune (VIII, 9, 1159b 25).
Vi può essere anche A. tra il padrone e lo schiavo, se lo schiavo è
considerato, non più soltanto come uno strumento animato, ma come un uomo. Solo
nella tirannide c'è poca o nulla A.: giacchè in essa non c’è niente in comune
tra chi comanda e chi obbedisce, e l’A. è tanto più forte quante più sono le
cose comuni tra uguali (VIII, 11, 1161 b 5). Ci sono, anche, tante A. quante
sono le forme dell'amore: quella del padre col figlio, del giovane col vecchio,
del marito con la moglie. Quest’ultima è quella più naturale e ad essa si
congiungono l’uti- lità e il piacere (VIII, 12, 1161b 11). Quanto al fondamento
dell’A., esso può essere o l’utilità reciproca o il piacere o il bene; ma è
chiaro che mentre un’A. fondata sull’utilità o sul piacere è destinata a finire
quando il piacere o l’utilità ces- sano, l’A. fondata sul bene è la più stabile
e ferma ed è quindi la vera A. (VIII, 3, 1156 a 6 sgg.). Que- st’analisi
aristotelica, che è la più compiuta e bella che la filosofia abbia mai dato del
fenomeno dell’A., s’incardina sui seguenti punti: 1° I’A. è una certa comunità
cioè una partecipazione solidale di più persone ad atteggiamenti, valori o beni
determinati; 2° essa è collegata con l’amore e ne segue le forme ma non
s’identifica con l’amore; 3° essa si avvi- cina piuttosto alla benevolenza ed è
perciò colle- gata con gli affetti positivi, cioè con quelli che implicano
sollecitudine, cura, pietà, ecc. L'A. è così, secondo Aristotele, più estesa
dell'amore, che è limitato e condizionato dal godimento della bel- lezza. Ed è
diversa dall’amore per il suo carattere attivo e selettivo, onde Aristotele
dice che l’amore è un’affezione (r&80c) cioè una modificazione su- bita
mentre l’A. è un abito (come un abito è la virtù) cioè una disposizione attiva
e impegnativa della persona. Dopo Aristotele, l’A. trovò i suoi esaltatori
negli Epicurei che ne fecero uno dei capisaldi della loro etica e della loro
condotta pra- tica. Essa assume però presso questa scuola un carattere
aristocratico; è una delle manifestazioni della vita del saggio, non già, come
la riteneva Aristotele, collegata ai rapporti umani come tali. Ritornano nelle
testimonianze epicuree che ci sono rimaste alcune notazioni aristoteliche, per
es., que- sta: « L’A. è nata dall’utile ma essa è un bene per sè. Amico non è
chi cerca sempre l’utile nè chi non lo congiunge mai con l’A.: giacchè il primo
considera l'A. come un traffico di vantaggi, il se- condo distrugge la
fiduciosa speranza di aiuto che è tanta parte dell’A.» (Sent. Var., 39-24,
Bignone). Col prevalere del Cristianesimo l’importanza del- l'A. come fenomeno
umano primario, decade nella letteratura filosofica. Il concetto più esteso e
più importante diventa quello dell'amore, dell'amore del prossimo, che manca
dei caratteri selettivi e speci- fici, che Aristotele aveva riconosciuto
all’amicizia. Difatti « prossimo » è colui col quale c’imbattiamo o che è
comunque in rapporto con noi, chiunque esso sia, amico o nemico. La massima aristotelica
dell’A., «comportarsi verso l’amico come verso se stesso », vedere in lui « un
altro se stesso » (Er. Nic., IX, 9, 1170 b 5; IX, 12, 1171 b 32), viene estesa
dal Cristianesimo a tutto il prossimo. AMMIRAZIONE (gr. Gavpdtew; lat. Admi- ratio; ingl.
Wonder; franc. Admiration; ted. Be- wunderung, Staunen). Secondo gli antichi l’A. è il principio della
filosofia. Platone dice: « Questa emozione, questa A. è propria del filosofo;
nè la filosofia ha altro principio fuori di questo; e chi affermò che Iride è
figliola di Taumante non ha secondo me tracciato male la genealogia» (7eet.,
11, 155d). E Aristotele: «In virtù dell'A., gli uomini cominciarono per la
prima volta a filoso- fare ed anche ora filosofano: da principio comin- ciarono
ad ammirare le cose intorno a cui era più facile il dubbio, poi procedettero a
poco a poco a dubitare anche delle cose maggiori, come, ad es., delle affezioni
della luna e di ciò che concerne il sole e le stelle e della generazione
dell’universo. Colui che dubita e ammira sa di ignorare; perciò il filosofo è
anche amatore del mito: il mito con- siste infatti di cose mirabili» (Mer., I,
2, 982b 12 sgg.). Al principio dell’età moderna Cartesio ha espresso lo stesso
concetto: « Quando ci si pre- senta qualche oggetto insolito e che giudichiamo
nuovo o diverso da ciò che prima conoscevamo o 22 AMMISSIONE supponevamo che
fosse, questo oggetto fa sì che noi lo ammiriamo e ne restiamo sorpresi; e
poichè ciò accade prima che noi sappiamo se l’oggetto ci sia utile o meno, l’A.
mi appare come la prima di tutte le passioni; ed essa non ha opposto perchè se
l’oggetto che si presenta non ha in sè niente che ci sorprenda, noi non siamo
affetti da esso e lo consideriamo senza passione» (Passions de lame, II, 53).
Su questo punto la differenza tra Cartesio e Spinoza è grande: Spinoza
considerò l’A. solo come l’imaginazione di una cosa a cui la mente rimane
attenta per essere essa priva di connessione con altre cose (E:., III, 52 e
scol.) e si rifiutò di considerarla come una emozione primaria e fonda-
mentale, tanto meno come una emozione filosofica o che sia all'origine della
filosofia. L'unico atteg- giamento filosofico è per lui l’amore intellettuale
di Dio, la contemplazione imperturbabile e beata della connessione necessaria
di tutte le cose nella Sostanza divina. Per Aristotele e per Cartesio l’A. è
invece l’atteggiamento che è alla radice del dubbio e della ricerca: è il
prender coscienza di non com- prendere ciò che si ha davanti e che, anche se è
per altri rapporti familiare, ci si rivela, ad un certo punto, inspiegabile e
meraviglioso. Kant parlava dell'A. a proposito della finalità della natura, in
quanto è inesplicabile con i concetti dell’intelletto (Crit. del Giud., $ 62).
A sua volta Kierkegaard definiva l’A. come «il sentimento appassionato del
divenire» e la riteneva propria del filosofo che considera il passato, come un
segno della non ne- cessità del passato. «Se il filosofo non ammira nulla (e
come potrebbe senza contraddizione am- mirare una costruzione necessaria?) egli
è con ciò estraneo alla storia; giacchè dovunque entra in gioco il divenire
(che certamente è nel passato) l’incertezza di ciò che è sicuramente divenuto
(l’in- certezza del divenire) non può esprimersi che me- diante questa emozione
necessaria al filosofo e propria di lui » (Philosophische Brocken, p. IV, $ 4).
Whitehead ha detto «la filosofia nasce dell’A.» (Na- ture and Life, 1934, 1).
AMMISSIONE (ingl. Admission; franc. Ad- mission; ted. Aufnahme). Una
proposizione, che si assume da altri (in quanto altri l'hanno già pro- posta
oppure in quanto si trova ad essere comune- mente adoperata) allo scopo di
fondare su di essa un qualche ragionamento o di effettuare a partire da essa
una qualche inferenza. Oppure: l’atto di assumere una proposizione siffatta. La
proposizione ammessa può essere ritenuta o vera o falsa o pro- babile o
indifferente; se la si ritiene vera la si chiama un assioma; se probabile,
un’ipotesi; se indifferente, un postulato. Ma essa può essere ammessa anche
solo allo scopo di confutarla, mediante una ridu- zione all’assurdo.
Dall’assurzione (v.) l'A. si di- stingue in quanto concerne una proposizione la
cui scelta o proposta, come base di un ragionamento, è già stata fatta da
altri. AMORALE, AMORALISMO (ingl. Amoral, Amoralism; franc. Amoral, Amoralisme;
ted. Amo- ralisch, Amoralismus). L’aggettivo «A.» designa propriamente ciò che
è indifferente alle valutazioni morali: in questo senso un uomo A. è un uomo
sulla cui condotta i giudizi sul bene e sul male non hanno alcuna presa e che
perciò si regola in- dipendentemente da essi. Il termine « amoralismo » designa
invece una professione di amoralità e perciò la pretesa di prescindere dai
valori della morale cur- rente e di sostituirvi altri valori; in questo senso
esso è stato spesso adoperato per designare l’atteggia- mento di Nietzsche (v.
TRASMUTAZIONE DEI VALORI). AMOR DI SÉ (gr. puavria; ingl. Self-love; franc.
Amour de soi; ted. Selbstliebe). Quest’espres- sione non deve essere confusa nè
con « amor pro- prio » che significa vanità, o, nel migliore dei casi, senso di
fierezza o di orgoglio, nè con egoismo (v.). Aristotele distinse la filautia,
che è una virtù, dal- l’egoismo volgare di chi ama se stesso in quanto vuole
attribuirsi la maggior parte di lucro, di pia- ceri e di onori. « Il filautos,
egli disse, è piuttosto colui che si appropria del bello e del bene e si dà ad
esso in signoria e gli obbedisce in tutto » (Er. Nic., IX, 8, 1168 a, 28). In
altre parole, chi ama se stesso nel vero senso, non pretende la parte maggiore
del piacere, degli onori o del lucro, ma la parte maggiore del bene e del
bello, cioè l'esercizio della virtù. In senso analogo, S. Tommaso afferma che
l’uomo ama se stesso quando ama la sua natura spirituale, non quella corporea e
che in tal senso egli deve amare se stesso dopo Dio ma prima di qualsiasi
altro; sicchè, per es., non può sopportare d’incor- rere in peccato per
liberare il prossimo dal pec- cato (S. 7A., II, II, q. 26, a. 4). Nell’età
moderna, Malebranche (nella Première lettre au R. P. Lamie) ha ripreso la distinzione
tra amor proprio e A. considerando il primo come la fonte di tutte le
sregolatezze umane e il secondo invece come il principio di tutti gli sforzi
per il compimento del dovere. La distinzione fu ripresa da Vauvenargue (De
l’esprit humain, 24): «Con l’amore di noi stessi si può cercare la propria
felicità fuori di sè. Si può amare qualcosa fuori di sè più che la propria
esistenza e non si è per se stessi l’unico oggetto. L’amor proprio al contrario
subordina tutto alle proprie comodità e al proprio benessere, e ha in se stesso
l’unico oggetto e l’unico fine; sicchè mentre le emozioni che vengono dall’A.
dànno noi alle cose, l’amor proprio vuole che le cose si diano a noi e fa di sè
il centro di tutto ». Kant, pur con- siderando l’A. di sì come una specie
dell’egoismo (inteso però nel senso più generale di desiderio AMORE 23 della
felicità) lo distingueva come benevolenza verso di sè (o philautia) portata
all’estremo, dalla com- piacenza verso se stesso (o arrogantia) e lo riteneva
suscettibile di accordarsi con la legge morale e di diventare «amore razionale
di sè » (Crit. R. Prat., libro I, cap. III, A 129). Le analisi di Scheler hanno
insistito sul carattere non egoistico dell’A. di sé: «L’amore orientato verso i
valori e, per il loro tramite, verso gli oggetti che ne sono i portatori, senza
preoccuparsi di sapere a chi appartengono questi valori, se a ‘ me’ o ad
‘altri’ » (Symparhie, II, cap. I, $ D. AMORE (gr. tpwc, dyamn; lat. Amor, Caritas; ingl. Love; franc.
Amour; ted. Liebe). I significati che
questo termine presenta nel linguaggio comune sono molteplici, disparati e
contrastanti; e altret- tanto molteplici, disparati e contrastanti sono quelli
che esso presenta nella tradizione filosofica. Comin- ceremo con l’accennare
agli usi più correnti del linguaggio comune, per selezionarli e ordinarli e
servircene come criterio per selezionare e ordinare gli usi filosofici del
termine stesso: @) in primo luogo con la parola A. si designa il rapporto
inter- sessuale, quando questo rapporto è selettivo ed elettivo ed è perciò
accompagnato dall’amicizia e da affetti positivi (sollecitudine, tenerezza,
ecc.). Dall’A. in questo senso si distinguono spesso le relazioni sessuali a
base puramente sensuale, che sono fondate non già sulla scelta personale ma sull'’anonimo
ed impersonale bisogno di rapporti sessuali. Spesso però lo stesso linguaggio
comune estende anche a questo tipo di rapporti la parola A., come quando si
dice « fare all’A. +; 5) in secondo luogo la parola A. designa una vasta gamma
di rapporti inter-personali; come quando si parla del- l’A. dell'amico per
l’amico, del padre per il figlio o reciprocamente, dei cittadini tra di loro,
dei co- niugi tra di loro; c) in terzo luogo si parla dell’A. per cose od
oggetti inanimati: per es., l’A. del denaro, dei quadri, dei libri, ecc.; d) in
quarto luogo si parla dell’A. per oggetti ideali: per es., l'A. della
giustizia, del bene, della gloria, ecc.; e) in quinto luogo si parla dell’A.
per attività o forme di vita: A. del lavoro, della propria professione, del
gioco, del lusso, del divertimento, ecc.; f) in sesto luogo si parla di A. per
comunità o enti collettivi: per es., amor di patria, amor di partito, ecc.; g)
in settimo luogo si parla di A. del prossimo e di A. di Dio. Indubbiamente
alcuni di questi significati si pos- sono eliminare come impropri perchè
possono es- sere espressi e designati più esattamente da altre parole. Così: a)
per ciò che riguarda il rapporto inter-sessuale lo si può designare come A.
solo quando esso è a base elettiva e implica l’impegno personale reciproco. Si
potrà così evitare di desi- gnare come « A.» il rapporto sessuale occasionale o
anonimo. Per ciò che concerne gli usi indicati sotto c) (cioè A. di oggetti
inanimati), è chiaro che qui la parola « A.» sta per desiderio di possesso,
quando tale desiderio raggiunge la forma dominante della passione. E per ciò
che concerne gli usi in- dicati sotto d) (A. di oggetti ideali) è anche chiaro
che la parola « A.» sta qui per indicare un certo impegno morale atto a segnare
limiti e condizioni all’attività dell’individuo. Infine per ciò che ri- guarda
e) (A. di attività, ecc.) la parola « A.» sta ad indicare un certo interesse
più o meno domi- nante, cioè tutivi del- l’A. non può essere determinato una
volta per tutte giacchè esso è diverso a seconda delle forme o delle specie
diverse dell’A. ed implica anche gradi diversi di intimità, di intrinsichezza e
di forma emotiva. Per es., l’A. tra uomo e donna o quello tra padre e figlio o
quello tra cittadini o quello tra uomini che si considerano l’un l’altro come «
prossimo », hanno differenti basi biologiche, culturali e sociali e non si
lasciano ricondurre a uno stesso tipo o forma di solidarietà, di concordia e di
compartecipazione emotiva. Bisognerà pertanto tenere presente questa diversità
nella considerazione dell’uso che i filosofi hanno fatto del termine, giacchè
spesso quest’uso si modella su uno o più tipi particolari di esperienza
amorosa. I Greci videro nell’A. soprattutto una forza uni- tiva e
armonizzatrice e la intesero sul fondamento dell'A. sessuale, della concordia
politica e del- l'amicizia. Secondo Aristotele (Mer., I, 4, 984 b 25 sgg.),
Esiodo e Parmenide furono i primi a suggerire che l’A. è la forza che muove le
cose e le porta e le mantiene insieme. Empedocle rico- nobbe nell’A. la forza
che tiene uniti i quattro elementi e nella discordia la forza che li separa: il
regno dell’A. è lo sfero, la fase culminante del ciclo cosmico, nella quale
tutti gli elementi sono legati nella più completa armonia. In questa fase non c’è
nè il sole, nè la terra, nè il mare perchè non c’è altro che un tutto uniforme,
una divinità che gode della sua solitudine (Fr. 27, Diels). Pla- 24 AMORE tone
ci ha data la prima trattazione filosofica dell'A.: da essa vengono assunti e
conservati i caratteri dell’A. sessuale; e nello stesso tempo tali caratteri
vengono generalizzati e sublimati. In primo luogo, l’A. è mancanza,
insufficienza, bisogno e nello stesso tempo desiderio di acquistare e con-
servare ciò che non si possiede (Conv., 200 a, se- guenti). In secondo luogo
l'A. si dirige verso la bellezza la quale non è altro che l'annuncio e
l’apparenza del bene, ed è quindi desiderio del bene (/bid., 205 e). In terzo
luogo l’A. è desi- derio di vincere la morte (com’è dimostrato dal- l’istinto
di generare proprio di tutti gli animali) ed è quindi la via attraverso la
quale l’essere mor- tale cerca di salvarsi dalla mortalità, non rimanendo
sempre lo stesso, come fa l'essere divino, ma la- sciando dopo di sè in cambio
di ciò che invecchia e muore, qualcosa di nuovo che gli somiglia (/bid., 208 a,
b). In quarto luogo, Platone distingue tante forme dell’A. quante sono le forme
del bello, a cominciare dalla bellezza sensibile e a finire alla bellezza della
sapienza, che è la più alta di tutte e il cui A., cioè la filosofia, è quindi
il più nobile (Ibid., 210 a, sgg.). Il Fedro è diretto appunto a mostrare la
via attraverso la quale l’A. sensibile può diventare amor di sapienza, cioè
filosofia, e il delirio erotico diventare una virtù divina, che allontana dai
modi di vita consueti e impegna l'uomo alla difficile ricerca dialettica
(Fedro, 265 b, seguenti). Questa dottrina platonica dell’A., mentre contiene
gli elementi di un’analisi positiva del fe- nomeno, offre anche il modello di
una metafisica dell'A. che doveva varie volte essere ripresa nella storia della
filosofia. Aristotele si ferma, invece, alla considerazione positiva
dell'amore. Per lui l’A. o è l’A. sessuale o è l'affetto tra consanguinei © tra
persone comunque congiunte da un rapporto solidale, o è l'amicizia (v.). In
generale l’A. e l'odio come tutte le altre affezioni dell'anima, apparten- gono
non all’anima come tale ma all’uomo in quanto è composto di anima e corpo (De
An., I, 1, 403 a, 3) e pertanto vengono meno col venir meno della unione di
anima e corpo (/bid., I, 4, 408 b, 25). Aristotele inoltre riconosce all’A.
quel fondamento di bisogno, imperfezione o deficienza, sul quale Platone aveva
insistito. La divinità, egli dice, non ha bisogno di amicizia giacchè essa è il
suo proprio bene a se stessa, mentre a noi il bene viene da altro (Et. Eud.,
VII, 12, 1245b 14). L’A. è quindi un fenomeno umano e non c’è da meravigliarsi
che di esso Aristotele non faccia alcun uso nella sua teologia. Esso è
un’affezione, cioè una modifica- zione passiva, mentre l’amicizia è un abito,
cioè una disposizione attiva (Ef. Nic., VIII, 5, 1157 b 28). AIl’A. si
congiunge la tensione emotiva e il desi- derio: nessuno è preso da A. se non
sia stato prima colpito dal godimento della bellezza; ma questo godimento di per
sè non è ancora A., che si ha soltanto se si desidera l’oggetto amato quando è
assente e se lo si brama quando è presente (/bid., IX, 5, 1167 a 5). L’A. che è
legato al piacere può cominciare e finire rapidamente ma può anche dar luogo
alla volontà di vivere insieme; e in questo caso assume la forma dell’amicizia
(/bid., VII, 3, 1156 b 4). Se l’analisi aristotelica dell'A. è priva di
riferimenti metafisici e teologici, bisogna ricor- dare che l'ordinamento
finalistico del mondo e la teoria del primo motore immobile conducono Ari-
stotele a dire che Dio, come primo motore, muove altre cose «come oggetto
d°A.+, cioè come ter- mine del desiderio che le cose hanno di raggiungere la
perfezione di lui (Met., XII, 7, 1072b 3). Questa notazione sarà largamente adoperata
dalla filosofia medievale. Sul finire della filosofia greca, il neoplatonismo
ha adoperato la nozione del- l’A. non già per definire la natuogni « prossimo»;
dall’altro lato esso si trasforma in un comando, che non ha connessioni con le
situazioni di fatto e che si propone di tra- sformare queste situazioni e di
creare una comu- nità che non esiste ancora ma che dovrà rendere tutti gli
uomini come fratelli: il regno di Dio. L’A. del prossimo diventa il comando
della non- resistenza al male (MatT., 5, 44); ela parabola del buon Samaritano
(Luc., 10, 29 sgg.) tènde a de- finire l'umanità cui l’A. deve dirigersi, non
nel suo senso composto, ma nel suo senso diviso, come ogni persona con la quale
ciascuno venga a con- tatto; la quale proprio come tale fa appello alla
sollecitudine e all’A. del cristiano. Inoltre, nella concezione cristiana, Dio
stesso risponde con l'A. al- l’A. degli uomini, perciò il suo attributo
fondamen- tale è quello di « Padre». Le Lettere di S. Paolo, identificando il
regno di Dio con la Chiesa e con- siderando nella Chiesa il « corpo di Cristo »
di cui i cristiani sono le membra (Rom., 12, 5 sgg.) fanno dell’A.
(&y&mm) che è il vincolo della comu- AMORE 25 nità religiosa, la
condizione della vita cristiana. Tutti gli altri doni dello Spirito, la
profezia, la scienza, la fede, sono nulla senza di esso. « L’A. sop- porta
tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la fede, la
speranza, l’amore, queste tre cose; ma l’amore è la maggiore di tutte » (Cor.,
I, 13, 7-13). L’elaborazione teologica che il Cristianesimo subì nel periodo
della Patristica non ha da principio utilizzata la nozione dell’amore. Nei
grandi sistemi della Patristica orientale (Ori- gene, Gregorio di Nissa) la
terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, è intesa come una potenza
subordinata di carattere incerto: di qui, anche, le frequenti dispute
trinitarie che il concilio di Nicea (325) non riuscì ad eliminare del tutto.
Soltanto per opera di S. Agostino, con l’identificazione dello Spirito Santo
con l’A. (mentre Dio Padre è l’Es- sere e Dio Figlio è la Verità) l’A. viene
introdotto esplicitamente nella stessa essenza divina e diventa un concetto
teologico, oltre che morale e religioso. L’A. di Dio e l'A. del prossimo si
uniscono in S. Agostino quasi a formare un concetto unico. Amare Dio significa
amare l’A.; ma, dice Agostino, «non si può amare l’A. se non si ama chi ama».
Non è A. quello che non ama nessuno. L'uomo perciò non può amare Dio, che è
l’A., se non ama l’altro uomo. L'A. fraterno fra gli uomini «non solo deriva da
Dio, ma è Dio stesso» (De Trin., VIII, 12): è la rivelazione di Dio, in uno dei
suoi aspetti essenziali, alla coscienza degli uo- mini. La nozione dell’A.
rimane tuttavia in S. Ago- stino quella che era per i Greci, una specie di
rapporto, unione o vincolo che lega un essere con l’altro: quasi «una vita che
unisce o tende ad unire due esseri, l’amante e ciò che si ama » (2bid., VII,
6). Le notazioni agostiniane vengono riprese fre- quentemente lungo tutto lo
sviluppo di una delle principali correnti della Scolastica medievale, cioè
dell’Agostinismo (v.): da Giovanni Scoto Eriugena a Giovanni Duns Scoto.
Scoesseri creati; ma 1’A. intellettuale, che è carità e virtù, è più perfetto
del primo, quindi, aggiungendosi ad esso, lo per- feziona, nel modo stesso in
cui la verità sopranna- turale si aggiunge, senza contrastarla, alla verità na-
turale e la perfeziona (S. Th., I, g. 60, a. 1). Quanto all’A. intellettuale,
cioè alla carità, questa è definita da S. Tommaso come « l’amicizia dell’uomo
verso Dio »: intendendosi per « amicizia +, secondo il si- gnificato
aristotelico, l'A. che è congiunto con la benevolenza (amor benevolentiae) cioè
che vuole il bene di colui che si ama, e non vuole semplicemente appropriarsi
del bene che è nella cosa amata (amor concupiscientiae) come accade in chi ama
il vino o un cavallo. Ma l’amicizia suppone non solo la benevolenza ma anche il
mutuo A. e così si fonda su una certa comunicazione, che, nel caso della
carità, è quella dell’uomo con Dio, che comunica a noi la Sua beatitudine
(/bid., II, 2, q. 23, a. 1). Questa comunione è, secondo S. Tommaso, ciò che
c'è di proprio nell’A.: esso è una specie di unione o vincolo (unio ve/ nexus)
di natura affettiva, che è simile all’unione sostanziale in quanto chi ama si
comporta verso l’amato come verso se stesso. Una unione reale è poi anche
l’effetto dell’A.; ma si tratta di un'unione che non àltera o corrompe coloro
che si uniscono ma si mantiene nei limiti opportuni e convenienti: per es., fa
sì che parlino e dialoghino insieme o si cogiungano in altri modi siffatti
(/bid., II, 1, q. 28, a. 1, ad 2°). In quanto « amare » significa voler il bene
di qualcuno, l'A. ap- partiene alla volontà di Dio e la costituisce. Ma l'amor
di Dio è diverso da quello umano perchè mentre quest’ultimo non crea la bontà
delle cose ma la trova nell’oggetto da cui è suscitato, l’A. di Dio infonde e
crea la bontà nelle cose stesse (bid., I, q. 20, a. 2). La speculazione
teologica sull’A. ritorna nel pla- tonismo rinascimentale; ma questo accentua
la re- ciprocità dell'A. tra Dio e l’uomo, conformemente alla tendenza propria
del Rinascimento a insistere sul valore e la dignità dell’uomo come tale. Mar-
26 AMORE silio Ficino afferma che l’A. è il legame del mondo e abolisce l’indegnità
della natura corporea che viene riscattata dalla sollecitudine di Dio (Theo/.
Plat., XVI, 7). L’uomo non potrebbe amare Dio, se Iddio stesso non lo amasse;
Dio si rivolge al mondo con un libero atto di A., prende cura di esso e lo
rende vivo ed attivo. L’A. spiega la libertà del- l’azione divina come quella
dell’azione umana, giacchè esso è libero e nasce spontaneamente dalla libera
volontà (In Conv. Piat. de Am. Comm., V, 8). E gli stessi accenti ritornano nei
Dialoghi d’A. di Leone Ebreo che ebbero vastissima diffusione nella seconda
metà del ’500. Ma anche nel natura- lismo del Rinascimento l’A. ritorna
talvolta come forza metafisica e teologica. Campanella ritiene che le tre
primalità dell’essere (cioè i principi costitutivi del mondo) siano il Potere,
il Sapere e l’A. (Mer., VI, proem.). L’A. infatti appartiene a tutti gli enti
perchè tutti amano il loro esszione di A. si può considerare, nella tradizione
filosofica, come un portato dell’agosti- nismo; almeno fino al Romanticismo dal
quale questa nozione viene ricondotta ad un senso pan- teistico, il cui
precedente più importante è Spinoza. Bisogna poi tener presente che l’uso
teologico della nozione di A. implica non solo che Dio sia oggetto d’A. (il che
non è negato da nessuna concezione cristiana della divinità) ma che Egli stesso
ami: il che è cosa completamente diversa e che per l’appunto si ritrova
soltanto nell’agostinismo, nel Romanticismo e in talune concezioni che, come
quella di Feuerbach e del positivismo moderno, tendono a identificare Dio con
l’umanità. In realtà l’A., nel suo concetto classico, che si modella sulla
esperienza umana, ha come sua condizione la man- canza, e quindi il desiderio e
il bisogno, di ciò che si ama; difficilmente può essere pertanto attribuito a
Dio che nella sua completezza e infinità si sottrae a ogni deficienza. La
concezione panteistica del- l’A., per es., come quella di Spinoza, di Schelling
e di Hegel, si sottrae a questa difficoltà solo in- terpretando l’A. come unità
o coscienza dell’unità, cioè in un modo che non trova riscontro in qualsiasi
tipo di esperienza amorosa. L’unità, sia essa o no cosciente di sè, non ha
niente a che fare con l’A. ed è anzi la negazione di esso perchè esclude il
rapporto e la comunità che costituiscono l’A. in tutte le sue manifestazioni. È
abbastanza ovvio che dove c'è una cosa sola non c’è nè chi ami nè chi sia
amato. Alla tradizione agostiniana si possono riportare le famose parole di
Pascal: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei
Cristiani, è un Dio di A. e di consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il
cuore di quelli ch’Egli possiede e fa loro sentire interiormente la loro mi-
seria e la Sua misericordia infinita » (Pensées, 556, Brunschwicg). Ma è dubbio
che in questo o simili testi di Pascal si possa vedere molto più della no-
zione che Dio è, in primo luogo e soprattutto, oggetto d'amore. Quanto a
Malebranche, egli af- ferma che Dio ha creato il mondo « per procurarsi un
onore degno di Lui» (Recherche de la vérité, IX) e fa dire al Verbo: «È la mia
potenza che fa tutto, così il bene come il male... perciò tu devi amare solo me
perchè nessuno all’infuori di me produce in te i piaceri che tu sperimenti in
occasione di ciò che accade nel tuo corpo » (Medirations chré- tiennes, XII,
5); parole che sembrano escludere la dottrina di Dio come amore. Le notazioni
di Cartesio intorno al fenomeno dell’A., riportato alla scala umana, sono
impor- tanti. «L’A., egli dice, è un’emozione dell’anima prodotta dal movimento
degli spiriti vitali che la incita a congiungersi volontariamente con gli og-
getti che le appaiono convenienti». In quanto è prodotta dagli spiriti l’A.,
che è un’affezione e dipende dal corpo, è diversa dal giudizio che anche induce
l’anima, di sua libera volontà, a unirsi con le cose che essa crede buone
(Pass. de l’dme, II, 79). L'A. si distingue altresì dal desiderio, che è
rivolto al futuro; esso consente invece di con- siderarsi sùbito uniti con ciò
che si ama «in modo tale che noi imaginiamo un tutto di cui siamo solo una
parte e di cui la cosa amata è l’altra parte » (Ibid., 80). Cartesio rigetta la
distinzione medievale tra A. di concupiscenza e A. di benevolenza perchè, egli
dice, questa distinzione concerne gli effetti dell’A. ma non l’essenza di esso:
in quanto siamo volontariamente congiunti con qualche oggetto, quale che sia la
natura di questo, abbiamo per esso un senso di benevolenza e questo è uno dei
principali effetti dell’A. (/bid., 81). Ci sono tuttavia varie specie dell’A.,
relative ai diversi oggetti che possiamo amare: I’A. che un uomo ambizioso ha
per la gloria, il povero per il denaro, l’ubbriacone per il vino, un uomo
brutale per una donna che desidera violare, l’uomo d’onore per l’amico o per la
moglie e un buon padre per i suoi figli, sono AMORE 27 specie diverse e tuttavia
simili dell'amore. Le prime quattro tuttavia, sono A. solo del possesso degli
oggetti ai quali l'emozione si dirige e non sono A. degli oggetti in se stessi;
le altre invece si diri- gono verso questi stessi oggetti e desiderano il bene
di essi (/bid., 82). Di questa natura è anche l’ami- cizia; la quale, per di
più, è legata alla stima della persona amata; sicchè non si può avere amicizia
per un fiore, un uccello, un cavallo, ma solo per gli uomini (/bid., 83). In
generale, quando stimiamo l'oggetto dell'A. meno di noi stessi, proviamo per
esso un semplice affetto (v.); quando lo stimiamo come noi stessi, proviamo
amicizia; e quando lo stimiamo più di noi stessi proviamo devozione. Di
quest’ultima il principale oggetto è ovviamente Dio, ma essa può dirigersi
anche alla patria, alla città e a qualsiasi uomo che stimiamo molto più di noi
stessi (/bid., 83). Sulla stessa linea si trova l’analisi di Hume secondo il
quale l’A. è un’emozione inde- finibile, di cui però si può intendere il
meccanismo. La causa di essa è sempre un essere pensante (non si possono amare
oggetti inanimati) e il meccanismo con cui questa causa agisce è costituita da
una doppia connessione: una connessione di idee — tra l’idea di sè e l’idea
dell’altro essere pensante — e una connessione emotiva tra l’emozione dell’A. e
quella dell’orgoglio (che è l’emozione che ci mette in rapporto col nostro io);
o tra l’emozione del- l'odio e quella dell’umiltà (Diss. on the Passions, II,
2). In generale gli scrittori del ’700 insistono sulla connessione dell’A. con
la benevolenza: che è il tratto su cui aveva insistito Aristotele a pro- posito
dell'amicizia. Leibniz ha espresso nella forma più chiara, che doveva essere
ripetuta numerose volte nella letteratura del ’700, questa nozione del- l’amore.
« Quando si ama sinceramente una per- sona, egli dice (Op. Phil., ed. Erdmann,
pag. 789- 790) non si cerca il proprio profitto nè un piacere staccato da
quello della persona amata, ma si cerca il proprio piacere nell’appagamento e
nella felicità di questa persona; e se questa felicità non piacesse di per se
stessa ma solo a causa di un vantaggio che ne risulta per noi, non si
tratterebbe più di un A. sincero e puro. Occorre dunque che si provi
immediatamente piacere in questa felicità e che si provi dolore nell’infelicità
della persona amata; giacchè ciò che dà immediatamente piacere di per se stesso
è anche desiderato di per se stesso come costituente (almeno in parte) lo scopo
dei nostri intenti e come qualcosa che entra nella nostra propria felicità e ci
dà sodisfazione ». Questa no- zione dell’A. toglie, secondo Leibniz, il
contrasto fra due verità, cioè tra quella che è impossibile per noi di
desiderare altra cosa se non il nostro proprio bene e quella che non c’è A. se
non quando cer- chiamo il bene dell’oggetto amato di per se stesso e non per
nostro proprio vantaggio. Questa nozione ha anche il vantaggio, secondo
Leibniz, di esser comune all’A. divino e all’A. umano perchè esprime ogni tipo
di A. « non mercenario », qual è, per es., la caritas o « benevolenza
universale » (Op. Phil., pa- gina 218). Va da sè che in questo senso l’A. può
rivolgersi solo a « ciò che è capace di piacere o di felicità »; sicchè non si
può dire, se non per me- tafora, che amiamo le cose inanimate di cui go- diamo
(Nouv. Ess., II, 20, 4). Notazioni di questo genere sono assai frequenti negli
scrittori del °700. Wolff dice che l’A. è «la disposizione dell’anima a prender
piacere dalla felicità altrui (Psicho!. em- pirica, $ 633). E Vauvenargues
afferma: « L'A. è il compiacersi nell’oggetto amato. Amare una cosa significa
compiacersi del suo possesso, della sua grazia, del suo accrescimento, temere
la sua pri- vazione, i suoi decadimenti, ecc. + (De l’esprit hu- main, $ 24).
Nessuno degli scrittori del ”700 mette in dubbio il fondamento sensibile
dell’A.: fondamento per il quale esso si differenzia dall’amicizia.
Vauvenargues, per es., dice: « Nell’amicizia lo spirito è l'organo del
sentimento, nell’A. sono i sensi» (/bid., $ 36). E Kant sembra ammettere questo
presupposto quando distingue risolutamente l’A. sensibile o « patologico »
dall’A. « pratico » cioè morale, che è comandato dalla massima cristiana « Ama
Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso ». L’amor di Dio, come
inclinazione, dice Kant, è impossibile perchè Dio non è un oggetto dei sensi. E
un simile A. verso gli uomini è bensì possibile, ma non può esser comandato,
perchè non è in potere di nessuno amare un altro solamente per precetto. « Amar
Dio» può significare quindi sol- tanto «eseguire volentieri i suoi comandamenti
+; e «amare il prossimo » soltanto « mettere in pratica volentieri tutti i
doveri verso di esso». Ma qui la parola « volentieri » dice che la massima
cristiana non impone che di aspirare a questo A. pratico senza che esso sia
raggiungibile da parte degli es- seri finiti. Difatti sarebbe inutile e assurdo
«co- mandare » ciò che si fa « volentieri »; perciò il pre- cetto evangelico
presenta l’intenzione morale nella sua perfezione totale «come un ideale di
santità non raggiungibile da nessuna creatura e che tut- tavia è l’esemplare a
cui dobbiamo procurare di avvicinarci con un progresso ininterrotto ma in-
finito» (Crit. R. Prat., I, I, cap. 3) (v. Fana- TISMO). La dottrina di Spinoza
presenta due concetti dell’A., dei quali il secondo doveva essere utilizzato
dai Romantici. In primo luogo l’A. come ogni altra emozione (affectus) è
un’affezione dell’anima (passio) e precisamente consiste nella gioia accom-
pagnata dall’idea di una causa esterna (Zr., III, 28 AMORE 13 scol.). In questo
senso si deve dire, propriamente parlando, che Dio non ama alcuno giacchè esso
non è soggetto ad alcuna affezione (/bid., V, 17, corol.). Ma esiste poi un «
A. intellettuale di Dio » che è la visione di tutte le cose nel loro ordine
necessario, cioè in quanto derivano, con eterna ne- cessità, dall’essenza
stessa di Dio (/bid., V, 29 scol.; 32 corol.). Questo A. intellettuale è il
solo eterno ed è quello con ui Dio ama se stesso; sicchè l’A. intellettuale
della mente verso Dio è parte dell’A. infinito con cui Dio ama se stesso. « Ne
consegue, dice Spinoza, che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e per
conseguenza che l’A. di Dio verso gli uomini e l’A. intellettuale della mente
verso Dio, sono la medesima cosa» (4bid., V, 36 corol.). Questo A. è ciò in cui
con- siste la nostra salvezza o beatitudine, o libertà; ed è ciò che nei libri
sacri si chiama « gloria » (/bid., scol.). È chiaro che esso non è più
un’affezione, nè una emozione nel senso che Spinoza ha dato a tali termini, ma
è la pura contemplazione di Dio, anzi, poichè la mente che contempla Dio non è
che un attributo di Dio, quest’A. non è altro che la contemplazione che Dio ha
di sè, come unità di se stesso e del mondo. Qui il concetto dell’A. cessa di
riferirsi all’esperienza umana: diventa il con- cetto metafisico dell’unità di
Dio con se stesso e col mondo, quindi con tutte le manifestazioni del mondo,
uomini compresi. Questo concetto doveva diventare centrale e do- minante nel
Romanticismo (v.) della prima metà dell’800, che s’impernia tutto sul tentativo
di di- mostrare l’unità (cioè la totale identità e intrinsi- chezza) del finito
e dell’Infinito. Schleiermacher fa di quest’unità, in quanto si rivela nella
forma del sentimento, il fondamento della religione; Fichte, Schelling e Hegel
fanno della stessa unità, da essi posta come principio della ragione, il
fondamento della filosofia. Ma fu per l’appunto quest’unità che consentì ai
Romantici di elaborare una teoria del- l’A., per la quale l’A. stesso, pur
rivolgendosi a cose o creature finite, vede o coglie, in queste, le espressioni
o i simboli dell’Infinito (cioè dell’Asso- luto o di Dio). Per l’unità del
finito e dell’Infinito, infatti, l’aspirazione all’Infinito può giungere al suo
appagamento anche nel mondo finito, per es., nell’A. verso la donna. A.,
poesia, unità di finito e d’Infinito e sentimento di quest’unità, diventano
sinonimi per i romantici. Federico Schlegel è forse colui che ha espresso
meglio questi concetti. « La sorgente e l’anima di tutte le emozioni, egli
dice, è l’A.; e lo spirito dell'A. deve nella poesia ro- mantica esser presente
ovunque, invisibile e visi- bile... Le passioni galanti alle quali nella poesia
dei moderni, dall’epigramma alla tragedia, non si può sfuggire, sono il grado
minimo di quello Spi- rito, o piuttosto, secondo i casi, la lettera estrinseca
di esso o null’affatto o qualcosa di non amabile e privo di amore. No, è il
Soffio divino che ci commuove nei suoni della musica. Esso non si lascia
prendere a forza o meccanicamente afferrare, ma amichevolmente attirare dalla
bellezza mortale e in essa velare: anche le magiche parole della poesia possono
essere penetre e animate dalla sua forza. Ma nella poesia dove non è o non può
essere dap- pertutto, esso non è affatto. Esso è una Sostanza infinita e non
aderisce e non rivolge il suo intero ». Essi sono reciprocamente indipendenti
solo in quanto « pos- sono morire». L'A. è superiore a tutte le opposi- zioni e
ad ogni molteplicità. Queste notazioni romantiche ritornano nelle opere mature
di Hegel. « L’A., egli dice, esprime in generale la coscienza della mia unità
con un altro, sicchè io per me non sono isolato, ma la mia autocoscienza si af-
ferma solo come rinunzia al mio essere per sè e attraverso il sapermi come
l’unità di me con l’altro e dell’altro con me » (Fil. del dir., $ 158,
aggiunta). «La vera essenza dell’A., dice ancora Hegel nelle Lezioni di
estetica, consiste nell’abbandonare la co- scienza di sè nell’obliarsi in un
altro se stesso e tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest’oblio
» (Vorles. iiber die Aesta nozione roman- tica, che vede nell’A. la totalità
della vita e dell’uni- verso nella forma di un « sentimento infinito » che è
fine a se stesso, si ritrova in tutta la tradizione letteraria del
Romanticismo, e specialmente nella narrativa, a cominciare dalla Lucinda di
Schlegel. Questa stessa nozione ha anche penetrato di sè il costume e la vita
dei popoli occidentali sino, si può dire, ai giorni nostri: nei quali ancora
l’ag- gettivo «romantico » sembra il più adatto a defi- nire la natura di un
sentimento esaltato e tendente a infinitizzarsi, in cui l’aspetto spirituale e
l’aspetto sensuale si complicano e si limitano l’un l’altro, dando luogo a
vicende interiori di cui ci si com- piace di seguire le più minute sfumature,
esageran- done l’importanza e il valore. Fa parte anche del- l’A. romantico, in
quanto il suo proprio oggetto è l’infinito, o meglio l’infinita unità e
identità, l’insistenza sull’A. come aspirazione,desiderio o brama, che invece
di trovare sodisfazione nell’atto sessuale, teme di essere diminuito o
indebolito da quest’atto e tende ad evitarlo. La «lontananza » è ritenuta dai
Romantici come un mezzo che favorisce i sogni voluttuosi; perciò l’A. romantico
subisce di regola un raffreddamento alla presenza dell’og- getto amato. Ma la
concezione romantica dell’A. si trova anche in filosofie e indirizzi che sono
diversi dal Romanticismo o almeno non ne condividono tutti i caratteri.
Schopenhauer distingue nettamente l’A. sessuale (*pwc) e l'A. puro (iy&rm).
L'A. sessuale è semplicemente l’emozione di cui si serve il « genio della
specie » per favorire l’opera oscura e proble- matica della propagazione della
specie (Metaf. del- PA. sessuale). Ma il «genio della specie» non è che la
cieca, malvagia e disperata « volontà di vi- vere +, che costituisce la
sostanza dell’universo, il suo « noumeno ». L’A. sessuale non è quindi che la
manifestazione in forma fenomenica e cioè sotto l’apparenza della diversità e
della molteplicità degli esseri viventi, dell’unica forza che regge il mondo.
Quanto all’A. puro, esso non è altro che com- passione e la compassione è la
conoscenza del- l’altrui dolore. Ma l’altrui dolore è poi il dolore del mondo,
il dolore della stessa volontà di vita divisa in se stessa e lottante contro se
stessa nelle sue manifestazioni fenomeniche: al di là delle quali, l’A. come
compassione è la per- cezione dell’unità fondamentale (Die Welt, I, $ 67). In
tal modo la nozione romantica dell’A. come sentimento dell’unità cosmica,
rimane nella teoria di Schopenhauer. Ed essa rimane anche nell’ana- lisi di un
suo seguace, Edoardo von Hartmann, che la rende più esplicita affermando che
l’A. è l’identificazione dell’amante e dell’amato; una specie di allargamento
dell’egoismo mediante l’assorbi- mento di un io da parte di un altro io, onde
il senso più profondo dell’A. consiste nel trattare l’oggetto amato come se
fosse, nella sua essenza, identico con l’io che ama. Se quest’unità e identità
non ci fossero, afferma Hartmann, l’A. stesso sa- rebbe un'illusione; ma Haduo
dell’altro sesso) ma semplicemente la tendenza alla produzione e alla
riproduzione di sensazioni voluttuose relative alle cosiddette « zone erotogene
+; tendenza che si manifesta sin dai primi istanti della vita umana. L’impulso
sessuale specifico è una formazione tarda e complessa, for- mazione che
d’altronde non è mai completa come è dimostrato dai pervertimenti sessuali,
così vari e numerosi. Questi pervertimenti non sono quindi, secondo Freud,
deviazioni da un impulso primitivo normale ma modi di comportamento che rimon-
tano ai primi istanti della vita, che si sono sottratti ad uno sviluppo normale
e si sono fissati nella forma di una fase primitiva (v. PsicANALISI). Dalla
libido si sviluppano, secondo Freud, le forme superiori dell’A. mediante
l’inibizione e la sublimazione. La inibizione ha la funzione di mantenere la
/ibido nei limiti compatibili con la conservazione della specie; e da essa
derivano le emozioni morali, in primo luogo quelle della vergogna, del pudore,
ecc., che tendono a immobilizzare e a contenere le ma- 30 AMORE nifestazioni
della /ibido. Nell’inibizione della libido e dei suoi contenuti obiettivi,
prendono radici le nevrosi. La sublimazione invece, si ha quando la libido si
distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione voluttuosa e dagli
oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri oggetti, che saranno in
questo modo amati di per se stessi, indipendentemente dalla loro capacità di
produrre sensazioni voluttuose. Sulla sublimazione d non contiene nessun
elemento adatto a spiegare la scelta che è presente in tutte le forme dell’A. e
che manca completamente nei comportamenti istintivi, che sono ciechi ed
anonimi. Eppure, lo stesso Freud insiste sul valore della scelta nella sua
critica dell’A. uni- versale. « Alcune persone, dice Freud, si rendono
indipendenti dall’acquiescenza dei loro oggetti tra- sferendo il valore
principale dal fatto di essere amate al loro proprio atto di amare; esse si
pro- teggono contro la perdita dell’oggetto amato ri- volgendo il loro A., non
a oggetti individuali, ma a tutti gli uomini egualmente, ed evitano le
incertezze e le delusioni dell’A. genitale distogliendosi dallo scopo sessuale
di esso e trasformando l’istinto in un impulso a intento inibito. Lo stato che
esse inducono in se stesse con questo processo — un immutabile, non deviabile
atteggiamento tenero — ha poca somiglianza superficiale con le tempestose
vicende dell’A. genitale, ma è tuttavia derivato da questo » (Civilisation and
its Discontents, pag. 69). Le obiezioni che Freud fa a questo tipo di A. sono
due: esso non discrimina tra i suoi oggetti il che si risolve in un’ingiustizia
verso questi oggetti stessi; e in secondo luogo non tutti gli uomini sono degni
di amore. Se io amo qualcuno, dice Freud, egli dev'essere degno di quest’A. in
un modo o in un altro: ne sarà degno perchè è così simile a me in qualche
aspetto importante che io posso amare me stesso in lui; o perchè è molto più
perfetto di me sicchè io posso amare in lui il mio ideale di me stesso; o
perchè è il figlio del mio amico del quale intendo condividere gli affetti e le
pene. Ma se non c’è alcun motivo specifico di amarlo, l’amarlo sarà assai
difficile per me e sarà un’ingiustizia per quelli che sono degni del mio A.
giacchè porrò questi ultimi allo stesso livello di lui. Ed inoltre l’A. che
potrò dargli, come adem- pienza al precetto dell’A. universale, sarà soltanto
una piccolissima parte di quello che, per tutte le leggi della ragione, io sono
autorizzato a dare a me stesso. In conclusione il comando di amare il nostro
prossimo come noi stessi è la più forte difesa contro l'aggressività umana ed è
l’esempio superlativo dell’atteggiamento anti-psicologico del super-ego
culturale. Ma è un comando impossi- bile a rispettarsi: tale un’enorme
inflazione di A. potrebbe solo abbassare il valore e non sa- rebbe un rimedio
del male» (/bid., pag. 139-41). Queste considerazioni presuppongono ovviamente
che l’A. implica una scelta motivata dal valore riconosciuto o attribuito
all’oggetto amato; ma proprio questo elemento di scelta non trova posto nella
dottrina di Freud, tutta fondata sul principio del carattere istintivo della
libido da cui ogni A. deriva. La critica di Freud all'«A. universale» è im-
portante e, per qualche aspetto, decisiva per l’orien- tamento contemporaneo intorno
al problema del- l’amore. Tuttavia Freud ha diretto questa critica contro un
bersaglio sbagliato, il precetto evangelico dell'A. del prossimo: il vero
bersaglio di essa è la nozione modeall’uomo nella sua finitudine. Ma nonostante
questo trasferimento, la nozione rimane la stessa; e l’A. è infatti inteso da
Feuerbach, romanticamente, come unità e identità: «l’unità di Dio e dell’uomo,
dello spirito e della natura ». L’A. « non ha plurale ». L’incarnazione stessa,
per Feuerbach come per Hegel, non è che «il puro, assoluto A., senza aggiunta,
senza distinzione tra l’A. divino e l’umano » (/bid., pag. 82). Sulla base di
questa nozione Feuerbach ha delineato la pro- gressiva estensione dell’A.
dall’oggetto sessuale, al bambino, al figlio, dal figlio al padre e finalmente
AMORE 31 alla famiglia, alla gente, alla tribù, ecc.: la quale estensione
sarebbe dovuta al moltiplicarsi delle azioni reciproche e perciò della
reciproca dipen- denza degl’istituti e degl’interessi vitali. Il termine ultimo
di quest’estensione progressiva sarebbe « la umanità nel suo complesso +, che
come tale è l’og- getto più alto dell'A. e l'ideale morale per eccellenza.
Sull’A. esteso a tutta l’umanità hanno fondato la loro etica gli scrittori
positivisti e specialmente Comte e Spencer; e su di esso si è pure fondata
l’etica del neo-criticismo tedesco quale si trova, per es., espressa in Cohen.
In questi indirizzi i termini « umanità» e « A.» diventano sinonimi perchè
significano l’unità degli esseri umani e qualche volta, addirittura, l’unità
cosmica secondo il concetto romantico. Le forme dell'A. vengono da questo punto
di vista classi- ficate secondo la maggiore o minore estensione del circolo di
oggetti cui l’A. si estende. Così l’A. della patria sarebbe inferiore all’A.
dell’umanità, l’A. della famiglia inferiore all’A. della patria e l’A. di se
stesso inferiore a quello che si prova per un amico. Scheler ha mostrato
(Natura e forma della simpatia, 1923) il carattere fittizio di questa ge-
rarchia che pretende ridurre le varietà autonome dell'A. ad un'unica forma che
avrebbe gradi di- versi a seconda dell’estensione del circolo umano che
costituisce il suo oggetto. Le sue osservazioni a questo proposito coincidono
sostanzialmente con quelle già accennate di Freud: il valore dell’A. di-
minuisce, mon s’accresce, a misura che l’A. si estende a un numero di oggetti
maggiore: giacchè, io generale, l’A. di ciò che è prossimo ha più va- lore
dell’A. di ciò che è lontano, almeno finchè si rivolge ad un essere vivente; e
Nietzsche ha avuto torto a contrapporre (in Così parlò Zaratustra) l’A. del
lontano all’A. del prossimo. Scheler ha negato il presupposto stesso della
dottrina dell’A. universale: la nozione romantica dell’A. come unità o
identificazione. L’A., e in generale la simpatia in tutte le sue forme (v.
Simpatia), implica, e nello stesso tempo, fonda, la diversità delle persone. Ti
senso dell’A. consiste proprio nel non conside- rare e nel non trattare l’altro
come se fosse iden- tico a sè. «L’A. vero, dice Scheler (Sympathie, I, cap. IV,
$ 3) consiste nel comprendere sufficiente- mente un’altra individualità
modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la
considero altra da me, che in linea di principio si orientano verso le qualità
vitali che chiamiamo più « nobili ». Ma se l’A. sessuale domina la sfera vitale
esistono altre forme di A. corrispondenti alla sfera spirituale e alla sfera
religiosa; e queste forme sono varietà qualitativamente diverse, qualità pri-
mordiali e irriducibili le une alle altre, che fanno pensare ad una
preformazione, nella struttura psi- chica dell’uomo, dei rapporti elementari
che esi- stono tra uomo e uomo (/bid.). Tra queste forme non c’è tuttavia l’A.
dell'umanità. L'umanità può essere amata come individuo unico ed assoluto solo
da Dio; il cosiddetto A. dell’umanità è perciò sol- tanto l’A. dell’uomo medio
di una certa epoca cioè dei valori correnti in quest'epoca, che inte- ressano i
sostenitori di questa forma di amore. La quale, secondo Scheler, non è altro
che risen- timento, cioè odio per i valori positivi impliciti in « paese natale
», « popolo », « patria », 4 Dio», odio che sostituendo l’umanità a questi
portatori di va- lori specificamente superiori cerca di darsi e di dare
l'illusione dell’A. (/bid.). Le analisi di Scheler sono, nella filosofia
contem- poranea, il primo tentativo di sottrarre la nozione dell’A. all’ideale
romantico dell’assoluta unità. Si può scorgere tuttavia la suggestione e
l’azione di quest’ideale in due dottrine contemporanee, appa- rentemente eterogenee;
la dottrina dell'A. mistico di Bergson e la dottrina dell’A. sessuale di
Sartre. Secondo Bergson la formula del misticismo è questa: «Dio è A. e oggetto
d’A.» (Deux sources de la
morale et de la religion, III; trad. ital., pag. 275). Per quanto si possa dubitare dell’esattezza della
prima parte di questa formula, perchè difficilmente si può riscontrare nei
mistici la tesi che Dio ami l’uomo (ciò che Dio offre all'uomo che lo ama è la
salvezza e la beatitudine e la partecipazione alla sua «gloria +), ciò che
Bergson intende dire è che lo slancio mistico si realizza come un’unità fra
l'uomo e Dio. « Non c’è più separazione com- pleta fra chi ama e chi è amato:
Dio è presente e la gioia è senza limiti» (/bid., pag. 252). Per quest’unità,
l’A. dell'uomo verso Dio è l'A. di Dio per tutti gli uomini. « Attraverso Dio,
con Dio egli ama tutta l’umanità di A. divino ». Ma questo A. non è la
fraternità dell’ideale razioè di stampo ro- mantico, non meno romantico è l’*
amor profano » di Sartre. Il presupposto dell’analisi di Sartre è che l’A. sia
il tentativo o, per meglio dire, il pro- getto di realizzare l’unità o
l’assimilazione tra l’io e l’altro. Questa esigenza di unità o di
assimilazione, è, dalla parte dell’io, l’esigenza che esso sia per l’altro una
totalità, un mondo, un fine assoluto. L’A. è, fondamentalmente, un voler essere
amato; e voler essere amato significa « voler situarsi al di là di tutto il
sistema dei valori posto dagli altri, come la condizione di ogni valorizzazione
e come il fondamento oggettivo di tutti i valori» (L’étre et le néant, pag.
436). La volontà di essere amato è così la volontà di valere per l’altro come
l’infi- nito stesso. « Lo sguardo dell’altro non mi permea più di finitudine,
non immobilizza più il mio essere in ciò che sono semplicemente; io non potrò
essere guardato come brutto, come piccolo, come vile, perchè questi caratteri
rappresentano necessaria- mente una limitazione di fatto del mio essere e
un’apprensione della mia finitudine come finitu- dine » (/bid., pag. 437). Ma
affinchè l’altro possa considerarmi così, occorre che esso possa volere, cioè
che sia libero: perciò il possesso fisico, il pos- sesso dell’altro come cosa
è, nell’A., insodisfacente e deludente. Occorre che l’altro sia libero per vo-
lermi amare e per vedere in me l'infinito. Il che vuol dire che occorre che si
mantenga « come pura soggettività, come l’assoluto per il quale il mondo viene
all’essere » (/bid., pag. 455). Ma qui appunto è il conflitto e lo scacco
inevitabile dell’A.: giacchè da un lato l’altro esige da me la stessa cosa che
io esigo da lui, cioè d'essere amato e di valere per me come la totalità
infinita del mondo; e dall’altro, proprio per voler ciò, per amarmi, «mi delude
radicalmente col suo stesso A.: io esigevo da lui che egli fondasse il mio
essere come oggetto privi- legiato, mantenendosi come pura soggettività nei
miei confronti; e, dal momento che mi ama, mi riconosce invece come soggetto e
s’inabissa nella sua oggettività di fronte alla mia soggettività » (Ibid., pag.
444). In altri termini ognuno, nell’A., vuol essere per l’altro l’oggetto
assoluto, il mondo, la totalità infinita; ma per questo occorre che l’altro
rimanga soggettività libera e altrettanto assoluta. Ma poichè entrambi vogliono
esattamente la stessa cosa, l’unico risultato dell’A. è un conflitto ne-
cessario e uno scacco inevitabile. C'è bensì un’altra via di realizzare
l'assimilazione dell’uno e dell’altro, che è esattamente l’inversa di quella
ora descritta: in luogo di progettare di assorbire l’altro conser- vandogli la
sua alterità posso progettare di farmi assorbire dall’altro e di perdermi nella
sua soggetti- vità per sbarazzarmi della mia. In questo caso, invece di cercare
di esistere per l’altro come oggetto- limite, come mondo o totalità infinita,
cercherò di farmi trattare come un oggetto fra gli altri, come uno strumento da
utilizzare, in una parola, come una cosa. Si avrà allora l’atteggiamento
masochista. Ma il masochismo stesso è e dev’essere uno scacco perchè si avrà un
bel volere diventare un semplice strumento inanimato, una cosa umile, ridicola
od oscena; si dovrà, per l’appunto, volerlo cioè valere, a questo scopo, come
soggettività libera (/bid., pag. 346-47). Non c'è pertanto salvezza nell’A.: il
conflitto e lo scacco gli sono intrinsecamente ne- cessari. D'altronde un
conflitto analogo Sartre vede anche nel semplice desiderio sessuale, di cui
così definisce « l’ideale impossibile »: « Possedere la tra- scendenza
dell’altro come pura trascendenza e tut- tavia come corpo: ridurre l’altro alla
sua semplice fattualità, perchè esso è allora nel mezzo del mio mondo, ma fare
che questa fattualità sia una rap- presentazione perpetua della sua
trascendenza nul- lificante » (/bid., pag. 463-64). E come l’A. può tendere al
masochismo come a un’illusoria soluzione del suo conflitto, così il desiderio
sessuale tende al sadismo cioè alla non reciprocità dei rapporti ses- suali, al
godimento d’essere «potenza possessiva e libera nei confronti di una libertà
imprigionata dalla carne » (/bid., pag. 469). Non c’è dubbio che l’analisi di
Sartre, assai ricca di notazioni e di riferimenti, rappresenti un esame
spregiudicato di certe forme che l’A. può assumere ed assume, e dei conflitti
cui esse mettono capo. Ma si tratta delle forme dell’A. romantico e delle sue
degene- razioni. L'A. di cui parla Sartre è il progetto della fusione assoluta
fra due infiniti; e due infiniti non possono che escludersi e contraddirsi.
Voler essere amato significa per Sartre voler essere la totalità dell’essere,
il fondamento dei valori, il tutto e l’in- finito: cioè il mondo o Dio stesso.
E l’altro, l'amato, dovrebbe essere un soggetto altrettanto assoluto ed
infinito, capace di dare assolutezza ed infinità a chi lo ama. Sono evidenti i
presupposti romantici di quest’impostazione. L’unità assoluta ed infinita che
il Romanticismo classico ingenuamente postu- lava come una realtà garantita
dell'A. diventa, in Sartre, un progetto inevitabilmente destinato allo AMORE 33
scacco. Quello di Sartre è un Romanticismo deluso e consapevole del suo fallimento.
È tuttavia palese nella filosofia contemporanea la tendenza anti-romantica a
togliere all’A. il suo carattere d’infinità, cioè la sua natura « cosmica » o
«divina» e a circoscriverlo in limiti più ristretti e precisabili. Russell ha
messo in luce la fragilità dell’A. romantico che pretende di essere la totalità
della vita e va invece rapidamente incontro all’esau- rimento e al fallimento.
« L’A., egli ha detto, è ciò che dà valore intrinseco a un matrimonio e, come
l’arte e il pensiero, è una delle cose supreme che fanno la vita degna di
essere vissuta. Ma seb- bene non ci sia un buon matrimonio senza A., i migliori
matrimoni hanno uno scopo che va al di là dell'amore. L’A. reciproco di due
persone è troppo circoscritto, troppo separato dalla comunità per essere per se
stesso lo scopo principale di una buona vita. Esso non è in se stesso una fonte
suf- ficiente di attività, non è sufficientemente prospettivo per costituire
un’esistenza in cui si possa trovare una sodisfazione ultima. Esso diventa
presto o tardi retrospettivo, è una tomba di gioie morte, non una sorgente di
nuova vita. Questo male è in- separabile da ogni scopo che può essere raggiunto
solo in un’unica emozione suprema. I soli scopi adeguati sono quelli i quali
insistono sul futuro che non possono mai essere pienamente raggiunti ma sono
sempre in crescendo e infiniti come l’in- finità della ricerca umana. Solo
quando l’A. è legato a qualche scopo infinito di questa specie, può avere la
serietà e la profondità di cui è capace » (Principles of Social Reconstruction,
pag. 192). Con ciò l’A. non è negato ma ricondotto ai limiti che lo defi-
niscono. « Un uomo, dice ancora Russell, che non ha mai veduto le cose belle in
compagnia della donna amata, non ha conosciuto appieno il magico potere che tali
cose possiedono. Inoltre l’A. è in grado di spezzare il duro nòcciolo del
proprio io perchè è una specie di collaborazione biologica nella quale le
emozioni dell’uno sono necessarie alla sodisfazione degli istintivi propositi
dell’altro » (La conquista della felicità; trad. ital., pag. 42). In questo
senso esso, tuttavia, non richiede il sacri- ficio delle persone che si amano
ma costituisce piuttosto un arricchimento e un compimento delle loro
personalità. Non richiede neppure l’ammuto- limento dello spirito critico da
ambe le parti ma piuttosto il rispetto della reciproca autonomia e la fedeltà
agli impegni presi. Per questo è indispen- sabile la realizzazione
dell’uguaglianza di condizione morale e giuridica tra i sessi ed anche una tra-
sformazione e una liberalizzazione delle regole mo- rali che ora restringono e
inibiscono in modo troppo rigido i rapporti sessuali. Dall'altro lato però, «il
rapporto sessuale senza A. ha un valore 3 — ABBAGNANO, Dirfonario di filosofia.
minimo e deve essere considerato come un primo esperimento, tale da dare un
concetto approssima- tivo dell’A.» (Marriage and Morals, cap. IX; trad. ital,
pag. 118). Uno sguardo d’insieme alle teorie di cui si è fatto cenno mostra che
in esse ricorrono due no- zioni fondamentali dell’A., all’una o all’altra delle
quali ciascuna di esse può essere agevolmente ricondotta. La prima è quella
dell’A. come un rapporto che non annulla la realtà individuale e l'autonomia
degli esseri tra i quali intercorre, ma tènde a rafforzarle, mediante uno scambio
reci- proco emotivamente controllato di servizi e di cure di ogni genere,
scambio nel quale ognuno cerca ilbene dell’altro come suo proprio. In questo
senso ’A. tènde alla reciprocità ed è sempre reciproco nella sua forma
riuscita: la quale tuttavia potrà sempre dirsi un’urione (di interessi,
d’intenti, di propositi, di bisogni, nonchè delle emozioni corre- lative) ma
mai un’ unità » nel senso proprio del termine. In questo senso l’A. è un
rapporto finito tra enti finiti, suscettibile della più grande varietà di modi
in conformità con la varietà di interessi, propositi, bisogni, e relative
funzioni emotive, che possono costituirne la base oggettiva. « Rapporto finito
» significa rapporto non necessariamente de- terminato da forze ineluttabili,
ma condizionato da elementi e situazioni atte a spiegarne le modalità
particolari. Significa altresì rapporto soggetto alla riuscita come alla non
riuscita e, anche nei casi più favorevoli, suscettibile di riuscite solo
parziali e di stabilità relativa. In questo caso, ovviamente, l’A. non è mai
«tutto» e non costituisce la solu- zione di tutti i problemi umani. Ogni tipo o
specie di A., e, in ogni tipo o specie, ogni caso di esso, sarà delimitato e
definito, nel rapporto che lo co- stituisce, da quei particolari interessi,
bisogni, aspi- razioni, preoccupazioni, ecc., la cui compartecipa- zione
costituirà di volta in volta la base o il motivo dell'amore. Specificamente,
l’A. potrà essere defi- nito come il controllo emotivo di tali tipi o modi di
compartecipazione e dei comportamenti corri- spondenti. Il valore di questo
controllo emotivo può essere reso ovvio da qualche osservazione, Per es., la
fedeltà nell’A. non ha valore se deriva non dal controllo emotivo, ma da una
fredda no- zione del dovere; e d’altra parte certe infedeltà non intaccano
necessariamente l’amore. In questi limiti in cui l'A. è un fenomeno umano, per
la descrizione del quale termini come « unità », « tutto », « infinito », «
assoluto » sono fuori luogo, l’A. perde di sostanza cosmica quanto guadagna
d’importanza umana; e il suo significato, oggettivamente consta- tabile, per la
formazione, la conservazione, l’equi- librio della personalità umana, diventa
fondamen- tale. La nozione dell’A. in questo senso è quella 34 AMOR FATI
illustrata da Platone, Aristotele, S. Tommaso, Car- tesio, Leibniz, Scheler,
Russell. La seconda ricorrente teoria dell’A. è quella che vede in esso
un'unità assoluta o infinita, ovvero la coscienza, il desiderio o il progetto
di tale unità. Da questo punto di vista l’A. cessa di essere un fenomeno umano
per diventare un fenomeno co- smico o meglio ancora la natura del Principio o
della Realtà suprema. La riuscita o la non riuscita dell'amore umano diventa
indifferente ed anzi, l’A. umano, come aspirazione all’identità assoluta, e
come tentativo da parte del finito di identificarsi con l’Infinito, viene
condannato preventivamente all’insuccesso e ridotto ad un’aspirazione unilate-
rale, per la quale la reciprocità è deludente e che si contenta di vagheggiare
la vaga forma di un ideale sfuggente. Due sono le conseguenze di tale concetto
dell'amore. La prima è l’infinitizzazione delle vicende amorose che,
considerate come modi o manifestazioni dell’Infinito, acquistano un si-
gnificato e una portata sproporzionata e grottesca senza rapporto con
l’importanza reale che esse hanno per la personalità umana e per i rapporti di
essa con gli altri. La seconda è che ogni tipo o forma di A. umano viene
destinato allo scacco; e la stessa riuscita di tale A., constatabile nella re-
ciprocità, nella possibilità della compartecipazione, viene assunta come il
segno di questo scacco. Questi due atteggiamenti si possono agevolmente
riscontrare nella letteratura romantica sull’amore. Questa nozione dell'A. è
quella che si trova difesa da Spinoza, Hegel, Feuerbach, Bergson, Sartre. AMOR
FATI. Espressione usata da Nietzsche come « formula per la grandezza dell’uomo
» e che significa: «Non voler nulla di diverso da quello che è, non nel futuro,
non nel passato, non per tutta l’eternità. Non solo sopportare ciò che è ne-
cessario, ma amarlo». La formula esprime l’atteg- giamento proprio del
superuomo e la natura dello 4 spirito dionisiaco » in quanto è accettazione in-
tegrale ed entusiastica della vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più
sconcertanti, tristi e crudeli (Ecce Homo, passim; Wille zur Macht, ed. Krònee
la situazione o l’oggetto nei suoi elementi, sicchè un procedimento analitico
si dice riuscito quando tale risoluzione è stata compiuta. Il procedimento
venne adoperato da Aristotele nella logica della dimostrazione (apodittica) con
lo scopo di risolvere la dimostrazione nel sillogismo, il sillogismo nelle
figure, le figure nelle proposizioni (An. pr., I, 32, 47a 10). Nella logica del
’600, la differenza fra analisi e sintesi cominciò ad essere esposta come la
differenza tra due metodi di inse- gnamento. « L’ordine didascalico, diceva
Jungius, o è sintetico cioè compositivo o analitico cioè ri- solutivo ».
L'ordine sintetico va «dai princìpi al principiato, dai costituenti al
costituito, dalle parti al tutto, dai semplici ai composti » ed è quello ado-
perato dal logico, dal grammatico, dall’architetto e anche dal fisico quando
passa dalle piante agli animali o dagli esseri meno perfetti a quelli più
perfetti. L'ordine analitico procede per la via op- posta ed è proprio del
fisico e dell’etico, in quanto quest’ultimo passa, ad es., dalla considerazione
del fine a quella dell’azione onesta (Logica Ham- burgensis, 1638, IV, cap.
18). Non più come di- versi metodi d’insegnamento, ma come diversi procedimenti
di dimostrazione vennero considerate l’analisi e la sintesi a partire da
Cartesio. Dice Cartesio: « La maniera di dimostrare è duplice: l’una dimostra
attraverso l’A. o risoluzione, l’altra attraverso la sintesi o composizione.
L’A. dimostra la vera via per la quale la cosa è stata metodica- mente
inventata e fa vedere come gli effetti dipen- dano dalla causa... La sintesi,
al contrario, quasi esaminando le cause dai loro effetti (benchè la prova che
essa contiene vada sovente dalle cause agli effetti) dimostra in verità
chiaramente ciò che è contenuto nelle sue conclusioni e si serve di una lunga
serie di definizioni, postulati, assiomi, teo- remi, problemi » (Rép. aux II
Ob.). Cartesio stesso nota come gli antichi geometri si fossero serviti
prevalentemente della sintesi (come infatti fecero PapPo, VII, 1 sgg. e
ProcLOo, Comm. al I libro di Euclide, pag. 211, Friedlein), mentre egli ha pre-
ferito l'A. perchè questa via « sembra la più vera e la più adatta per
insegnare». Hobbes ripeteva sostanzialmente queste considerazioni (De Corpore,
VI, $ 1-2) e la Logica di Porto Reale chiamava l’A. « metodo d’invenzione » e
la sintesi « metodo di com- posizione » o « metodo di dottrina » (Log., IV, 2).
Questo punto di vista sanzionava la superiorità del procedimento analitico
nella filosofia moderna. Tale superiorità è presupposta anche da Leibniz che
definisce l’A. dal punto di vista logico-lingui- ANALISI 35 stico: « L'A. è
questa: un qualsiasi termine dato sia risolto nelle sue parti formali, cioè si
ponga la definizione di esso; queste parti siano a loro volta risolte in parti,
cioè si dia la definizione dei termini della definizione, e così via sino alle
parti semplici cioè ai termini indefinibili » (De Arte Combinatoria, Op., ed.
Erdmann, pag. 23 a-b). Con altre parole Newton diceva la stessa cosa: « Con la
via dell'A. noi possiamo procedere dai composti agli ingre- dienti e dai
movimenti alle forze che li producono; e in generale dagli effetti alle loro
cause e dalle cause particolari alle generali, sinchè il ragiona- mento termina
alle più generali » (Opticks, 1704, Ill, 1, q. 31; ed. Dover, pag. 404). Wolff
contrap- poneva nello stesso senso il metodo analitico e il metodo sintetico: «
Si chiama analitico il metodo dal quale le verità sono disposte nell’ordine in
cui furono trovate o almeno in cui potevano essere trovate. Si dice sintetico
il metodo dal quale le verità sono disposte in modo che ciascuna possa essere
più facilmente intesa e dimostrata a partire dall’altra » (Log., $ 885). Non
diverso è il signi- ficato che Kant dette all’opposizione dei due me- todi. Più
particolarmente nel De Mundi Sensibilis atque intellegibilis forma et ratione,
I, $ 1, nota, egli distinse due significati di A.: uno qualitativo che è «il
regresso a rationato ad rationem» l’altro quantitativo (di cui dichiara di
avvalersi) che è «il regresso dal tutto alle sue parti possibili cioè mediate,
cioè alle parti delle parti, sicchè l’A. non è la divisione ma la suddivisione
del composto dato ». Kant si avvalse di questo procedimento in tutte le sue tre
opere principali, in ciascuna delle quali la parte positiva fondamentale è
costituita da una « Analitica ». Procedimento analitico è, se- condo Kant,
quello proprio della « logica generale » in quanto «risolve l’intera opera
formale dell’in- telletto e della ragione nei suoi elgni caso di determinare
gli elementi veri o effettivi che condi- zionano queste attività, in contrasto
con gli elementi apparenti o fittizi (o « dialettici »). Naturalmente il metodo
analitico non ha niente a che fare con i giudizi analitici. «Il metodo
analitico in quanto si oppone al sintetico è tutt’altra cosa che un com- plesso
di giudizi analitici: esso vuol dire soltanto che si parte da ciò che è oggetto
della questione, come dato, per risalire alle condizioni che lo ren- dono
possibile » (Pro/., $ 5, nota). Hegel fissò in modo analogo il carattere
fondamentale del proce- dimento analitico quando scrisse: « Anche quando il
conoscere analitico procede a rapporti che non sono una materia data esteriormente
ma determi- nazioni di pensiero, rimane ciò nondimeno anali- tico in quanto per
esso anche questi rapporti sono dati» (Wissenschaft der Logik, III, III, II, A
a; trad. ital., pag. 295). Il riconoscimento di dati si può infatti assumere
come il crattere fondamentale del procedimento analitico, quello che più
profon- damente lo distingue dal sintetico (v. FiLosoFia). Nella filosofia e in
generale nella cultura moderna e contemporanea la tendenza analitica, cioè la
ten- denza a riconoscere nell’A. il procedimento della indagine, si è estesa e
si è manifestata feconda. Questa tendenza coincide sostanzialmente con la
tendenza empiristica (nel senso metodologico del- l’empirismo [v.})) a
restringere l’indagine ai « fatti osservabili » e alle relazioni fra tali
fatti: tendenza la quale implica in ogni caso l’esigenza di indicare il metodo
o il procedimento mediante cui il fatto può essere effettivamente osservato. In
questo senso il procedimento analitico porta all'eliminazione di realtà o di
concetti «in sè», cioè assoluti e indi- pendenti da ogni osservazione o
verificazione e presupposti come realtà o verità « ultime». Sotto questo
aspetto la fisica relativistica e la meccanica quantistica possono essere
considerate come risul- tati del procedimento analitico. Quando Einstein
osservò che, per parlare di « fatti simultanei », oc- corre dare un metodo per
osservare la simultaneità di tali fatti (dando così la chiave della teoria
della relatività) non fece che condurre a buon fine l’A. della nozione di «
fatti simultanei ». E quando Niels Bohr e i suoi allievi misero in luce che
ogni osser- vazione fisica è accompagnata da un effetto dello strumento
osservante sull’oggetto osservato, non fe- cero che condurre a buon fine l’A.
di « osservazione fisica »; e da questa analisi è nata l’intera meccanica
quantistica. Analogamente la rinuncia a postulare un mezzo di trasmissione non
osservabile dei fe- nomeni elettromagnetici (il cosiddetto « etere ») può
essere considerato come un risultato del rafforza- mento del procedimento
analitico. In matematica lo stesso procedimento ha prevalso in quanto si è
rinunciato a discutere che cosa siano i punti, le rette, i numeri, in sé, e ci
si è limitato all’A. delle relazioni intercorrenti tra questi termini e dei po-
stulati che le esprimono. Da questo punto di vista 36 ANALITICA l'A. si è
estesa e rafforzata a danno di ciò che si chiama « metafisica », cioè del
dominio delle realtà assolute e delle verità necessarie. Nel campo delle
scienze storiche Dilthey ha contrapposto al metodo metafisico e aprioristico,
adoperato, per es., da Hegel, il metodo analitico e descrittivo proprio della
psicologia: onde si parla oggi dell’« A. sto- rica » che mira a comprendere un
fatto storico nei suoi elementi e nella connessione di tali elementi. Si parla
anche di « A. sociologica + nel senso di un procedimento diretto a risolvere
una realtà sociale nei comportamenti, negli atteggiamenti e nelle isti- tuzioni
che ne costituiscono gli elementi osservabili. Nel dominio della filosofia
contemporanea l’A. assume varie forme sia a li in cui l’uomo si trova nel
mondo. Nell’empirismo logico, l’A. è A. del linguaggio e tènde a eliminare le
confusioni mediante la de- terminazione e il controllo del significato o modo
d’uso dei segni. Queste tendenze analitiche della filosofia contemporanea sono
più o meno in po- lemica con la metafisica tradizionale e tendono a dare
all’indagine filosofica un metodo rigoroso per l'accertamento e il controllo
dei suoi risultati. Nello stesso tempo, tutte più o meno indulgono a certi
irrigidimenti metafisici; parlando, per es., di «ati ultimi » come fa Bergson,
di « forme o essenze ne- cessarie » come fa Husserl, di « strutture necessarie
» come fa Heidegger, di « proposizioni atomiche » o di « fatti atomici » come
fa l’empirismo logico, ecc. Si può dire tuttavia che la tendenza delle
filosofie analitiche e dell’indirizzo analitico delle scienze con- siste nella
progressiva eliminazione di punti fermi, cioè di elementi o strutture che per
la loro sostan- zialità e necessità blocchino il corso ulteriore dell’A. e lo
immobilizzino su risultati assunti come defi- nitivi e perciò sottratti ad ogni
ulteriore controllo. Questa tendenza mira perciò a determinare e utiliz- zare
tecniche di controllo che siano suscettibili di correzione o rettificazione. Da
questo punto di vista l’A. è l’equivalente aggiornato dell’empirismo tra-
dizionale e ad essa si contrappone la metafisica, nel senso classico del
termine, come scienza o pretesa scienza di ciò che, essendo « necessariamente
+» ed «in sè», non ha bisogno di essere analizzato cioè descritto, interpretato
o compreso mediante proce- dure verificabili. ANALITICA (ingl. Analytics;
franc. Anali tique; ted. Analitik). In generale una disciplina o una parte di
disciplina il cui procedimento fonda- mentale è l’analisi (v.). Aristotele
chiamò A. la parte della logica che mira a risolvere ogni ragio- namento nelle
figure fondamentali del sillogismo (Primi Aalitici) ed ogni prova nei
sillogismi stessi e nei primi princìpi che costituiscono le loro pre- messe
evidenti (Secondi Analitici). Kant chiamò « A. trascendentale » la prima parte
della « dottrina degli elementi » nella Critica della ragion pura e nella
Critica della ragion pratica (mentre la seconda parte di essa è la Dialettica):
intendendo per A. la deato 8 appartiene al soggetto A come qualcosa che è con-
tenuto (implicitamente) in questo concetto A (Crit. R. Pura, Intr., IV). Sul
carattere di questa implicazione però nulla vien detto; e il famoso esempio
addotto da Kant della proposizione «i corpi sono estesi » che sarebbe analitica
di fronte ANALOGIA 37 alla proposizione «i corpi sono pesanti» che sa- rebbe
sintetica non chiarisce certo il concetto giacchè non si vede perchè
l’estensione debba essere con- tenuta implicitamente nel concetto di corpo e
non la pesantezza. 3° La tautologia. In questo senso Wittgenstein ha
considerato le proposizioni analitiche come tau- tologie. « La tautologia, egli
ha detto non ha con- dizioni di verità perchè è incondizionatamente vera »
(Tractatus, 4.461). Ma dall’altrca; ma la proposizione « nessuno scapolo è
sposato » non è più una tautologia ma è tuttavia una propo- sizione analitica,
fondata sulla sinonimia tra « sca- polo » e « non sposato +. (Cfr. QuINE, From a Logical
Point of View, 1953, cap. ID. 4° La sinonimia. Questa può essere stabilita: a) mediante definizioni,
come si fa di solito nelle matematiche e in tutti i linguaggi artificiali; 5)
me- diante il criterio dell’intercambiabilità, con cui Leibniz definisce la
stessa identità (v.); in tal caso si chiamano sinonimi i termini che possono
essere scambiati in uno stesso contesto senza alterare la verità del contesto
stesso; c) mediante regole se- mantiche come anche accade nei linguaggi
artificiali. È da notare che la difficoltà di stabilire con questi procedimenti
il significato esatto di sinonimia e quindi di A. ha condotto alcuni logici
moderni a negare che esista una netta distinzione tra A. e sinteticità (MORTON
WHITE, The Analytic and the Synthetic: an Untenable Dualism, in SipNEY Hook,
ed. John Dewey, New
York, 1950; W. V. O. QuINE, From a Logical Point of View, Cambridge, 1953, cap.
II). ANALOGIA (gr. &vadoyia; lat.
Analogia; in- glese Analogy; franc. Analogie; ted. Analogie). Il termine ha due
significati fondamentali: 1° il senso proprio e ristretto, desunto dall’uso
matematico (per cui vale proporzione) di eguaglianza di rapporti; 2° il senso
di estensione probabile della conoscenza mediante l’uso di somiglianze
generiche che si pos- sono addurre tra situazioni diverse. Nel primo si-
gnificato il termine fu adoperato da Platone e da Aristotele ed è tuttora
adoperato dalla logica e dalla scienza. Nel secondo significato, il termine è
stato ed è adoperato nella filosofia moderna e con- temporanea. L’uso medievale
del termine serve da passaggio dall’uno all’altro significato. 1° Platone
adoperò il termine per indicare l’uguaglianza dei rapporti fra le quattro forme
— a due a due — di conoscenza che distinse nella Re- pubblica (VII, 14, 534a
6): cioè fra la scienza e la dianoia che appartengono alla sfera dell’intelli-
genza (che ha per oggetto l’essere); e la credenza e la congettura che
appartengono a quella della opinione (che ha per oggetto il divenire). « Come
l’essere sta al divenire, dice Platone, così l’intelli- genza sta all’opinione;
e comche gli elementi e i principi delle cose non sono gli stessi, ma sono solo
analoghi, nel senso che sono gli stessi i rapporti che hanno tra loro. Per es.,
« nel caso del colore, la forma sarà il bianco, la privazione il nero e la
materia la superficie; nel caso della notte e del giorno, la forma sarà la
luce, la privazione sarà l’oscurità e la materia sarà l’aria» (/bid., 12, 4,
1070b 18). Ovviamente, il bianco, il nero e la superficie non sono le stesse
cose rispettivamente che la luce, l’oscurità e l’aria; ma identico è il
rapporto fra 38 ANALOGIA queste due terne di cose (come fra moltissime altre
terne): rapporto che è espresso con i principi di forma, privazione e materia.
In questo senso, cioè come uguaglianza di rapporti in tutti i casi in cui si
tcessario. Questi due significati dell’essere non sono univoci cioè iden- tici
e neppure eguivoci, cioè semplicemente diversi; sono analoghi cioè simili ma di
proporzioni diverse. Solo Dio ha l’essere per essenza, le creature hanno
l’essere per partecipazione; esse, in quanto sono, sono simili a Dio che è il
primo principio universale dell'essere, ma Dio non è simile ad esse: questo
rapporto è l’A. (S. TA., I, q. 4, a. 3). Il rapporto analogico si estende a
tutti i predicati che si attri- buiscono allo stesso tempo a Dio e alle
creature. Per es., il termine « sapiente» riferito all’uomo si- gnifica una
perfezione distinta dall’essenza e dalla esistenza dell’uomo, mentre riferito a
Dio vuol dire una perfezione che è identica alla sua essenza e al suo essere;
inoltre, riferito all'uomo, fa com- prendere ciò che vuol significare mentre
riferito a Dio lascia fuori di sè la cosa significata che tra- scende i limiti
dell'intendimento umano (/bid., I, q. 13, a. 5). Il diverso significato che un
termine può avere a seconda della sua attribuzione a questa o a quella realtà
fu poi chiamato dagli scolastici A. di attribuzione. Questo tipo di A. si
verifica non soltanto a proposito dell’attribuzione di uno stesso termine a Dio
e alle creature ma in molti altri casi come, per es., quando si dice che è sana
una me- dicina ed è sano un animale in quanto la medicina è causa della sanità
che è nell’animale (/bid., I, q. 13, a. 5). L’A. di proporzionalità si
riferisce invece soltanto all’analogicità di significato tra l'essere di Dio e
l'essere delle creature: e diventa un tema di discussioni polemiche nella
Scolastica del sec. xm e della prima metà del sec. x1v. L’A. di proporzio-
nalità viene spesso dai Tomisti (come dallo stesso S. Tommaso) riportata ad
Aristotele, ma in realtà questi aveva bensì cominciato col riconoscere vari
sensi dell’essere ma solo per ricondurli a modi e specificazioni dell’unico
senso della sostanza, cioè dell’essere in quanto essere, dell'essere nella sua
necessità, che è l'oggetto della metafisica. Aristotele perciò non distingueva
nè poteva distinguere tra l’essere di Dio e l’essere delle altre cose: per es.,
Dio e la mente sono sostanze proprio nello stesso senso (Er. Nic., I, 6, 1096
a. 24). Il maggior critico e oppositore del Tomismo su questo punto fu Duns
Scoto che, per l’appunto rifacendosi ad Aristotele, considerò la nozione di
essere comune a tutte lo cose esistenti, quindi alle creature come a Dio. La
ANALOGIA 39 considerò perciò univoca per il motivo fondamentale che, se così
non fosse, sarebbe impossibile cono- scere nulla di Dio e determinare un
qualsiasi at- tributo di Lui, risalendo per via causale dalle crea- ture (Op.
Ox., I, d. 3, q. 3, n. 9). In tal modo egli ripristinò pure l’unità della
scienza dell’essere cioè della metafisica che per il tomismo era divisa in
scienza dell’essere creato (metafisica) e in scienza dell’essere necessario
(teologia) e pertanto ridusse la teologia a scienza pratica (cioè diretta, non
a conoscere, ma a guidare l’uomo verso la propria salvezza). 2° Il secondo significato
del termine, come estensione probabile della conoscenza mediante il passaggio
da una proposizione che esprime una certa situazione a un’altra proposizione
che esprime una situazione genericamente simile o come esten- sione della
validità di una proposizione da una certa situazione a una situazione
genericamente si- mile era conosciuto dagli antichi col nome di « pro- cedura
per somiglianza » (St mapafoXîc 0 Su spor ros). Aristotele dice: « La
probabilità appare anche nel procedimento per somiglianza quando si dice il
contrario del contrario: per es., se bisogna far del bene agli amici, si può
dire per somiglianza che bisogna far del male ai nemici» (Top., I, 10, 104 a
28; cfr. EI. Soph., 173 b 38; 176a 33; ecc.). Questo procedimento ovviamente
non ha niente a che fare con l’A.: il rapporto è diverso (come il « far del
male » è diverso dal «far del bene +) e tra le due situazioni pertanto non c’è
uguaglianza di rapporti ma solo una generica simiglianza. Aristo- tele
consiglia l’uso di questo procedimento a scopi polemici (Top., VIII, 1, 156b
25). Euclide di Me- gara ne aveva già negata la validità logica. Egli infatti
«ripudiava il procedimento per simiglianza dicendo che esso si avvale o di cose
simili o di cose dissimili. Se di simili è meglio rivolgersi alle cose stesse
che a quelle di cui sono simili; se di dissimili è inutile la comparazione »
(Diog. L., II, 107). Come ragionamento per analogia era in- tesa l’induzione
dagli Epicurei che pertanto ne difendevano la validità subordinatamente al
postu- lato dell’uniformità della natura. Dice Filodemo: «Quando noi
giudichiamo: ‘ Poichè gli uomini che sono alla nostra portata sono mortali,
tutti gli uomini sono mortali’ il metodo dell’analogia sarà valido solo se
assumiamo che gli uomini che non sono in condizione di esserci manifesti sono,
sotto tutti i rispetti, simili a quelli che sono alla nostra portata, sicchè si
deve assumere che anch'essi siano mortali. Senza questo presupposto il metodo
dell’analogia non è valido» (De Signis, II, 25). Nella filosofia moderna la
prima difesa dell’analogia è probabilmente quella di Locke che nel IV libro del
Saggio include PA. fra i gradi dell’assenso; e precisamente la considera come
la probabilità che concerne cose che trascendono llla permanenza della sostanza
che si esprime di- cendo: «In ogni cangiamento dei fenomeni la so- stanza
permane e la quantità di essa nella natura non aumenta nè diminuisce +; 5) il
principio della serie temporale secondo la legge della causalità, che si
esprime dicendo: « Tutti i cangiamenti av- vengono secondo la legge del nesso
di causa ed effetto »; c) il principio della simultaneità secondo la legge
dell’azione reciproca che si esprime di- cendo: « Tutte le sostanze in quanto
possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in azione
reciproca universale ». Kant ha chia- rito nel modo seguente il senso nel quale
questi princìpi sono detti analogie. In matematica, le A. sono formule che
esprimono l'uguaglianza di due rapporti quno bensì a priori e quindi certi in
modo indubitabile, ma nel contempo sono privi di evi- denza intuitiva; mentre
gli « assiomi dell’intuizione » (v. Assioma) e le «anticipazioni della
percezione » (v. ANTICIPAZIONI) sono princìpi costitutivi perchè insegnano «
come i fenomeni, sia rispetto alla loro intuizione, sia rispetto alla loro
realtà percepita, possono essere prodotti secondo le regole di una sintesi
matematica » (Crir. R. Pura, Anal. dei princ., IMI, 3). Come si vede, permane
in quest’uso kantiano il significato dell’A. come eguaglianza tra rapporti; ma
tali rapporti sono detti « qualitativi » nel senso che con essi non sono dati
gli oggetti, ma soltanto quelle relazioni che consentono di scoprirli e or-
dinarli in unità. E difatti, i princìpi della perma- nenza della sostanza, di
causalità e di reciprocità non fanno conoscere nulla; ma servono a scoprire gli
oggetti conoscibili e a ordinarli, secondo i loro nessi, nell’unità
dell'esperienza. In tal senso l’A. è uno strumento, anzi uno degli strumenti
fondamen- tali per estendere la conoscenza dei fenomeni natu- rali sulla guida
delle loro connessioni determinanti. La logica e la metodologia della scienza
dell’800 sono state diffidenti verso l’A., considerandola ge- neralmente come
un'estensione della generalizza- zione induttiva al di là dei limiti nei quali
essa offre garanzia di verità. Stuart Mill considerò il ragiona- mento per A. «
un’inferenza che ciò che è vero in un certo caso è anche vero in un caso in
qualche modo simile ma non esattamente parallelo, cioè non simile in tutte le circostanze
materiali. Un og- getto ha la proprietà 5; un altro oggetto non ha la proprietà
5, ma è simile al primo in una pro- prietà a non connessa con b; l’A. porterà
alla con- clusione che anche questo oggetto ha la proprietà b. Per es., si dice
che i pianeti sono abitati perchè la Terra è abitata ». Questo modo di
argomentare può, secondo Stuart Mill, accrescere solo in grado non
determinabile, ma in ogni caso assai modesto, la probabilità della conclusione;
ma in compenso può dar luogo a molte fallacie (Logic, V, 5, 6). Ma la logica e
la metodologia del nostro secolo sono assai meno diffidenti nei confronti
dell'A. forse perchè la riportano al significato 1° cioò a ugua- glianza di
rapporti. Per es., uno dei procedimenti analogici consiste nella creazione di
simboli che ab- biano somiglianza maggiore o minore con le situa- zioni reali,
e i cui rapporti riproducano quelli inerenti agli elementi di tali situazioni.
Tali simboli sono qualche volta modelli meccanici cioè disegni o schemi o
macchine che riproducono i rapporti intercedenti di elementi reali; tali sono,
per es., i modelli del sistema solare, della struttura dell'atomo, del si-
stema nervoso, ecc. Altre volte tali modelli sono ottenuti mediante il
cosiddetto processo di extra- polazione il quale consiste nel portare al limite
il comportamento di un insieme di casi ordinati in una serie nella quale si
suppongano eliminate gra- dualmente le influenze disturbatrici. Si parla così,
per es., di velocità infinita o di velocità zero, di masse ridotte a un punto
geometrico, di leve per- fette, di gas ideali, ecc. Ogni modello è un esempio
di A., nel senso 1°, perchè il proprio di un modello è quello di riprodurre,
fra i propri elementi, gli stessi rapporti degli elementi della situazione
reale. Ma i fisici parlano oggi di A. anche come di con- dizione o di elemento
integrante delle ipotesi e delle teorie scientifiche. Secondo questo indirizzo,
l’A. entra nella costituzione di un’ipotesi in quanto «le proposizioni di
un’ipotesi devono essere ana- loghe ad alcune leggi conosciute »: e in questo
senso l’A. non è solo un aiuto alla formulazione di una teoria ma ne è parte
integrante. « Considerare l'A. come un aiuto all’invenzione delle teorie è così
assurdo come considerare la melodia come un aiuto alla composizione di una
sonata. Se la sodisfazione delle leggi dell'armonia e i principi formali di
svi- luppo fossero tutto ciò che è richiesto per comporre musica, noi saremmo
tutti grandi compositori; ma è l’assenza del senso melodico che ci impedisce di
raggiungere eccellenza musicale col semplice mezzo di acquistare un manuale di
musica » (N. R. Camp- BELL, Physics: The Elements, 1920, pag. 130). L’A.
corrisponderebbe perciò, nella fisica a ciò che è il senso musicale nella
musica: essa garantirebbe l'ade- guazione di un'ipotesi scientifica alle
uniformità espresse o formulate nelle leggi. ANALYSIS SITUS. V. TopoLocia.
ANAMNESI (gr. daviumo; ingl. Remini- scence; franc. Réminiscence; ted.
Reminiszenz). Il mito dell’A. è esposto da Platone nel Merone come antitesi e
correttivo del « principio eristico » che non è possibile all'uomo indagare nè
ciò che sa nè ciò che non sa; giacchè sarebbe inutile indagare ciò che si sa e
impossibile indagare quando non si sa che cosa indagare. A questo discorso che
«può rendere pigri e riesce gradito ai fiacchi » Platone oppone il mito per cui
l’anima è immor- tale, ed è perciò nata e rinata molte volte, sì da aver visto
ogni cosa sia in questo mondo che in un mondo di là; sicchè essa può,
all’occasione, ricordare ciò che prima sapeva. «E poichè tutta la natura è
congenere e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una
sola cosa (che è poi quello che si chiama ‘imparare ’) trovi da sè tutto il
resto, se ha coraggio e non si stanca ANARCHISMO 4l nella ricerca, giacchè il
ricercare e l’apprendere non son altro che reminiscenza » (Men., 80 e-81 e). A.
è stata chiamata da Croce il processo della cono- scenza storica perchè il
soggetto di essa, lo Spirito assoluto, non ha altro da fare che ricordare o ri-
chiamare ciò che è in lui; e le fonti della storia (documenti ed avanzi) non
hanno per l’appunto che questa funzione di richiamo (Teoria e storia della
storiografia, 1917, pag. 12 sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938,
pag. 6). ANANCHISMO (ingl. Anancism). Termine adoperato da Peirce per indicare
il principio della necessità assoluta nell’evoluzione del mondo (Chance Love
and Logic, II, 5; Coll. Pap. 6. 302). ANAPODITTICO (gr. avanédertoc; lat. Zn-
dimostrativus; ingl. Anapodeictic; franc. Anapodic- tique; ted. Anapodiktisch).
Alla lettera: non dimo- strabile. Aristotele chiamò così le premesse prime del
sillogismo che egli diceva pure immediate (Et. Nic., VI, 12, 1143 b 12; An.
post., I, 2,72b 27, ecc.). Ma la teoria dei ragionamenti anapodit- tici fu sviluppata
dagli Stoici proprio in contrasto con la teoria sillogistica di Aristotele.
Mentre i sillogismi o ragionamenti apodittici traggono da premesse evidenti una
conclusione non evidente, i ragionamenti anapodittici hanno una conclusione
evidente e sono la base di tutti gli altri ragionamenti che possono sempre
essere ad essi ridotti (SESTO E., Ip. Pirr., II, 156; cfr. Cicer., Top.,
56-57). Gli Stoici enumeravano cinque tipi fondamentali di ra- gionamenti
anapodittici e ritenevano che ad essi potessero ridursi tutti gli altri
ragionamenti: onde Sesto Empirico dice che, tolti quelli di mezzo, tutta la
dialettica sarà rovesciata. Ecco come essi esem- plificavano tali tipi
fondamentali: 1° Se è giorno c'è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce. 2° Se è
giorno c’è luce. Ma non c’è luce. Dunque non è giorno. 3° Se non è giorno è
notte. Ma è giorno. Dunque non è notte. 4° O è giorno o è notte. Ma è giorno.
Dunque non è notte. 5° O è giorno o è notte. Ma non è notte. Dunque è giorno
(/p. Pirr., II, 157-568; Diog. L., VII, 80). Assumendo questi ragionamenti come
fondamento della dialettica cioè dell’arte stessa del ragionare, gli Stoici
riducevano al ragionamento A. ipotetico o disgiuntivo, che è sempre a due
termini, ogni altra specie di ragiona» mento, implicitamente negando che avesse
valore autonomo il ragionamento dimostrativo a tre ter- mini cioè il sillogismo
aristotelico. MAMAMA Come sinonimo di questo termine Leibniz usò il termine
asillogistico per indicare un tipo di ragio- namento non sillogistico. «
Bisogna sapere, egli disse, che ci sono conseguenze asillogistiche buone, che
non si potrebbero dimostrare a rigore con un sillogismo senza cambiare un po’ i
termini; e questo stesso cambiamento dei termini fa che la conse- guenza sia
asillogistica ». Per es.: « Gesù Cristo è Dio, dunque la madre di Gesù Cristo è
la madre di Dio»; oppure «Se Davide è il padre di Salo- mone, Salomone è il
figlio di Davide » (Nouv. Ess., IV, 17, 4). ANARCHISMO (ingl. Anarchism; franc.
Anar- chisme; ted. Anarchismus). La dottrina che l’indi- viduo è la sola
realtà, che dev'essere assolutamente libero e che ogni costrizione esercitata
dividuo entra per moltiplicare la sua forza e che per lui è solo un mezzo.
Questa forma di associazione può nascere solo dal dissolvimento della società
attuale, che è per l’uomo lo stato di natura, e può essere solo il risultato di
un’insurre- zione che riesce ad abolire ogni costituzione statale. Sul
carattere rivoluzionario dell’A., insistettero poi gli anarchici russi, il
maggiore dei quali fu Michele Bakunin (1814-96) autore di numerosi scritti fra
i quali uno intitolato Dio e /o Stato (1871) in cui afferma la necessità di
distruggere tutte le leggi, le istituzioni e le credenze esistenti. La tesi
anar- chica della contrapposizione netta e radicale tra tutti gli ordinamenti
politici e sociali esistenti, con- siderati come il male stesso, e il nuovo
ordinamento libertario da venire, considerato come il bene to- tale, è stata di
nuovo ripresentata da G. Landauer 42 ANFIBOLA (Die Revolution, 1923). (Su di lui
cfr. K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, 1929, IV, $ 1; trad. ital., pag. 194
sgg.). ANFIBOLIA (gr. &upifolla; lat. Amphibolia; ingl. Amphiboly; franc.
Amphibolie; ted. Amphibolie). In Aristotele (Soph. E/., 4, 166 a) è uno dei
sofismi in dictione, e precisamente la fallacia (v.) che con- segue dal fatto
che una frase è resa ambigua dalla sua difettosa costruzione grammaticale. Più
gene- ricamente il termine A. è stato inteso per una pa- rola che significa due
o più cose (SESTO EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 256). In Kant il termine A. è usato
nell’espressione « A. dei concetti di riflessione » per indicare lo scambio che
nasce dalla confusione tra l’uso empirico-intellettuale e l’uso trascendentale
dei concetti di riflessione quali « unità » e « molte- plicità », « materia» e
«forma», e simili (Critica R. Pura, An. dei Principi, Appendice). G. P.
ANFIBOLOGIA. V. ANFIBOLIA. ANGELI (gr. &ryedow; lat. Angeli; ingl. An-
gels; franc. Anges; ted. Engel). Così furono chiamate dalla teologia cristiana
le «creature incorporee » che fanno da intermediarie tra Dio e le creature
corporee, ammesse dal neo-platonismo (v. Dio). La fonte dell’angelologia
medievale è lo scritto dello pseudo Dionigi l’Areopagita Sulla gerarchia
celeste (sec. v). La gerarchia celeste è costituita da nove ordini di A.
raggruppati in disposi- zioni ternarie. La prima disposizione è quella dei
Serafini, dei Cherubini e dei Troni; la seconda è quella delle Dominazioni,
delle Virtù e delle Po- destà; la terza è quella dei Principati, degli Arcan-
geli e degli Angeli. Questa dottrina fu accettata da S. Tommaso (S. 7A., I, q.
108, a. 2); e adottata da Dante nel Paradiso. ANGOSCIA (ingl. Dread; franc.
Angoisse; ted. Angst). Nel suo significato filosofico, cioè come atteggiamento
dell’uomo di fronte alla sua situa- zione nel mondo, il termine è stato
introdotto da Kierkegaard nel Concetto dell’A. (1844). La radice dell’A. è
l’esistenza come possibilità (v. ESISTENZA). A differenza del timore e di altri
stati analoghi che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l'A. non si
riferisce a nulla di preciso: essa è il puro sentimento della possibilità.
L’uomo nel mondo vive di possibilità giacchè la possibilità è la dimen- sione
del futuro e l’uomo vive continuamente pro- teso verso il futuro. Ma le
possibilità che si pro- spettano all’uomo non hanno alcuna garanzia di
realizzazione. Solo per una pietosa illusione esse gli si presentano come
possibilità piacevoli, felici o vittoriose: in realtà, come possibilità umane,
esse non offrono garanzia alcuna e celano sempre l’al- ternativa immanente
dell’insuccesso, dello scacco e della morte. « Nel possibile tutto è possibile
», dice Kierkegaard; il che vuol dire che una possibilità favorevole non ha
maggiore sicurezza della possi- bilità più disastrosa ed orribile. Pertanto
l’uomo che si rende conto di questo, riconosce la vanità di ogni accortezza e
non ha di fronte a sè che due vie: o il suicidio, o la fede, cioè il ricorso a
« Colui al quale tutto è possibile ». L’A. è, secondo Kierke- gaard, parte
essenziale della spiritualità che è propria dell’uomo, sicchè se l’uomo fosse
angelo o bestia non conoscerebbe l’A.: e infatti arriva a masche- rarla o a
nasconderla l’uomo nel quale la spiritualità è troppo debole. In quanto
riflessione sulla propria condizione umana, la spiritualità dell’uomo è con-
nessa all’A. cioè al sentimento della minaccia im- manente ad ogni possibilità
umana come tale. — Nella filosofia contemporanea, Heidegger ha imper- niato
sull’angoscia la sua analisi esistenziale (v. EMo- ZIONE). L’A. è la situazione
affettiva fondamentale «che può tener aperta la continua e radicale mi- naccia
che viene dall’essere più proprio e isolato dell’uomo »: cioè la minaccia della
morte. Nell’A., l’uomo « si sente in presenza del nulla, dell’impossi- bilità
possibile della sua esistenza ». In questo senso l’A. costituisce
essenzialmente ciò che Heidegger chiama «l’essere per la morte» cioè
l'accettazione della morte come «la possibilità assolutamente propria,
incondizionata e insormontabile dell’uomo » (Sein und Zeit, $ 53). Ma con ciò
l’A. non è la paura della morte o dei pericoli che possono pro- spettarla. Dice
Heidegger: « La paura trova il suo appiglio nell’ente di cui ci si prende cura
dentro il mondo. L’A. invece scaturisce dall’Esserci stesso. La paura giunge improvvisa
dall’intramondano. L’A. si leva dall’essere-nel-mondo in quanto get- tato
essere-per-la-morte » (/bid., $ 68 b). L'A. non è neppure il pensiero della
morte o l'attesa © la preparazione della morte. Vivere per la morte,
angosciarsi, significa comprendere l’impossibilità dell’esistenza in quanto
tale. E comprendere tale impossibilità significa comprendere che tutte le pos-
sibilità dell’esistenza in quanto consistono di anti- cipazioni o progetti, che
pretendono trascendere la realtà di fatto, non fanno che ricadere nella realtà
di fatto. Perciò il vero significato dell’A. è il de- stino, cioè la scelta
della situazione di fatto come un’eredità cui non si può sfuggire e il
riconosci- mento dell’impossibilità o nullità di ogni altra scelta che non sia
l’accettazione della situazione in cui si è già. In altri termini, l'A. come
comprensione esistenziale rende possibile all’uomo far di necessità virtù:
accettare con un atto di scelta quella situazione di fatto, che è il suo
destino e che senza l’A. cerche- rebbe vanamente di trascendere. La coincidenza
di ne- cessità e libertà sembra così il significato dell’A. hei- deggeriana
(/bid., $ 74). In questo senso Heidegger dice che l’A. « libera l’uomo dalle
possibilità nulle e lo fa libero per quelle autentiche » (/bid., $ 68 b).
Tuttavia non è solo dalla filosofia esistenziali- stica che l’A. viene
considerata come la rivelazione emotiva della situazione umana nel mondo. Una
ricca letteratura psicologica ha chiarito il carattere omni-pervadente dell’A.
che rimane distinta dalla paura, dal timore e da altri stati emotivi che hanno
carattche si verifichi una situazione di impotenza; oppure la si- tuazione
presente mi ricorda un evento traumatico precedentemente vissuto. Così io
anticipo questo trauma, mi comporto come se esso fosse già qui, sin tanto che
c’è ancora tempo di respingerlo. L’A. è dunque da un lato aspettativa del
trauma, dall’altro una ripetizione attenuata di esso » (Hem- mung, Symptom und
Angst, 1926, cap. XI, B; trad. ital., pag. 106). Dall'altro lato lo studio
delle persone nelle quali l'A. si manifesta nelle forme più imponenti (per es.,
in quelle colpite da lesioni ce- rebrali) ha portato qualche scienziato (per
es., GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus, 1934) a definire l’A. come
«l'impossibilità di mettersi in rapporto con il mondo?» e di « realizzare un
còm- pito corrispondente all'essenza dell’organismo », considerandola così come
il caso limite di quelle «reazioni di catastrofe » che accompagnano il di-
battito dell’organismo con il mondo. ANIMA (gr. vvyh; lat. Anima; ingl. Soul;
franc. Ame; ted. Seele). In generale, il principio della vita, della
sensibilità e delle attività spirituali (comunque intese e classificate), in
quanto costi- tuente un’entità a sè o sostanza. Quest’ultima no- tazione è
importante perchè l’uso della nozione di A. è condizionato dal riconoscimento
che un certo insieme di operazioni o di eventi, quelli appunto detti « psichici
» 0 « spirituali », costituiscano le ma- nifestazioni di un principio autonomo,
irreducibile, per la sua originalità, ad altre realtà, sebbene in rapporto con
esse. Che poi l’A. sia incorporea 0 abbia la stessa costituzione delle cose
corporee, è questione meno importante: giacchè la soluzione materialistica di
essa è spesso ugualmente fondata, come la sua opposta, sul riconoscimento
dell’Acome sostanza. In questo significato fondamentale, l’A. viene il più
delle volte considerata come « so- stanza »: intendendosi con questo termine
per l’ap- punto una realtà a sè, cioè che esiste indipendente- mente dalle
altre (v. SostAnZA). Il riconoscimento della realtà-A. sembra provvedere un
solido fon- damento ai valori connessi con le attività spirituali umane, i
quali, senza di essa, sembrerebbero so- spesi nel nulla; sicchè la
sostanzialità dell’A. viene considerata, dalla maggior parte delle teorie filo-
sofiche tradizionali, come una garanzia della sta- bilità e della permanenza di
quei valori: garanzia che viene talora rafforzata dalla credenza che l’A. è,
nel mondo, la realtà più alta o ultima o, qualche volta, lo stesso principio
ordinatore e governatore del mondo. Date queste caratteristiche della nozione,
la storia filosofica di essa si presenta relativamente monotona perchè è in
prevalenza la reiterazione della realtà dell’A. nei termini di quei concetti
che ogni filosofo assume per definire la realtà stessa. Sicchè, per es., l’A. è
aria per Anassimene (Fr. 2, Diels) e per Diogene d’Apollonia (Fr. S, Diels) i
quali ritengono che il principio delle cose è l’aria; è armonia per i
Pitagorici (Arisr., Pol., VIII, 5, 1340 b 19) che nell’armonia esprimibile in
numeri vedono la struttura stessa del cosmo; è fuoco per Eraclito (Fr. 36,
Diels) che vede nel fuoco il prin- cipio universale; è, per Democrito, formata
di atomi rotondi, che possono più agevolmente pene- trare nel corpo e muoverlo
(Arisr., De an., I, 2, 404, 1); e così via. Probabilmente Platone non fece che
esprimere un pensiero implicito in queste de- terminazioni quando affermò che
l’A. si muove da sè e definì I’A. appunto sulla base di questa caratteristica.
«Ogni corpo a cui il muoversi è impresso da fuori è inanimato; ogni corpo che
si muove di per sè dal di dentro è animato; e tale è appunto la natura dell’A.»
(Fedro, 245 d). L'A. è quindi la causa della vita (Crar., 399 d) e per- tanto è
immortale giacchè la vita costituisce la sua stessa essenza (Fed., 105d sgg.).
Con queste determinazioni Platone distingueva nettamente la realtà dell’A.,
semplice, incorporea, che si muove da sè, che vive e dà vita, dalla realtà
corporea che ha i caratteri opposti. E queste determinazioni do- vevano servire
di base a tutte le ulteriori tratta- zioni filosofiche dell’anima. Tra esse,
quella di Aristotele è la più importante perchè le determinazioni che
Aristotele attribuisce all’essere psichico, nei termini del suo concetto del-
l’essere, dovevano lungamente rimanere il modello di buona parte delle dottrine
dell’anima. Secondo Aristotele, l’A. è la sostanza del corpo. Essa è definita
come «l’atto finale (enrelechia) primo di un corpo che ha la vita in potenza».
L'A. sta al corpo come l’atto della visione sta all’orpo (/bid., II, 2, 413 b
26). Come atto o attività l’A. è forma e come forma è sostanza, in una delle
tre determina- zioni della sostanza che può essere o la forma o la materia o il
composto di forma e materia. La materia infatti è potenza, la forma è atto e
ogni essere animato è composto di queste due cose; ma mentre il corpo non è
l’atto dell’A., l’A. è l’attività di un corpo determinato cioè la realiz-
zazione della potenza che è propria di questo corpo: onde si può dire che essa
non esiste nè senza il corpo nè come corpo (/bid., 414a 11). Queste
determinazioni aristoteliche hanno costi- tuito, per lunghi secoli, l'intero
progetto della « psi- cologia dell’A.». A seconda dei vari interessi (me-
tafisico, morale, religioso) che hanno presieduto agli sviluppi di tale
psicologia, si è insistito, nella storia di essa, sull’una o sull’altra delle
determina» zioni aristoteliche. Di queste, le più importanti sono: che l’A. sia
sostanza cioè realtà nel senso forte del termine; e che sia principio
indipendente di operazioni, cioè causa. Queste determinazioni hanno lo scopo di
garantire un solido sostegno alle attività spirituali quindi ai valori che sono
prodotti da tale attività. La seconda serie di de- terminazioni sono quelle
della semplicità e indivi- sibilità; che hanno lo scopo di garantire l’impassi-
bilità dell’A. nei confronti dei mutamenti corporei e, per il tramite della
indecomponibilità, la sua im- mortalità. La terza determinazione importante è
il suo rapporto col corpo, definito da Aristotele come rapporto della forma con
la materia, dell’atto con la potenza. La prima determinazione non viene negata
neppure dai materialisti. Epicuro che ri- tiene I’A. composta di particelle
sottili, diffuse in tutto il corpo come un soffio caldo, ritiene tuttavia che
l’A. abbia la capacità causativa della sensazione, che viene preparata dal
corpo e di cui il corpo par- tecipa, ma che è in una certa misura indipendente
dal corpo stesso: giacchè quando l’A. si distacca da esso, il corpo non ha più
sensibilità (Ep. a Erod., 63 sgg.). In questo modo l'A. non è semplice nè
immortale (essa si dissolve nelle sue particelle con la morte del corpo); ma è
tuttavia una realtà a sè, dotata di una propria capacità causativa, indispensabile
alla vita stessa del corpo. In modo analogo gli Stoici ritengono che l’A. è un
soffio congenito in noi; che, come tale, è corpo perchè se non fosse corpo non
potrebbe nè unirsi al corpo nè separarsi da esso; ma che può tuttavia essere
immortale, com’è certamente immortale l’A. del mondo, di cui sono parti quelle
degli esseri animati, e le A. dei saggi (Dioc. L., VII, 156-57). Qui la
corporeità dell'A. non toglie ad essa nè la sempli- cità nè l’immortalità; come
non la toglie nella con- cezione di Tertulliano che anch’egli la considera come
un soffio o flatus di Dio e perciò generata, corporea e immortale (De an., 8
sgg.). L’accettazione quasi universale della dottrina ari- stotelica dell'A. ha
una eccezione in Plotino. Plo- tino critica egualmente sia la dottrina che l’A.
è corpo sia e in relazione, cioè le cose e gli altri uomini (/bid., V, 3, 1-2).
I Neoplatonici e i Padri della chiesa orientale ripetono le determinazioni
neoplatoniche: l’imma- terialità e l’unità dell'A. sono i caratteri fondamen- tali
riconosciuti ad essa da Porfirio (STOB., Ecl., I, 818) e da Proclo (/nsf.
theol., 15); nonchè da Gregorio di Nissa (De an. et resur., pag. 98 sgg.). Ma è
soprattutto S. Agostino che raccoglie l’ere- dità del neo-platonismo e la
trasmette al mondo cristiano, col riconoscimento dell’interiorità spiri- tuale
come via d’accesso privilegiata alla realtà propria dell’anima. Questa via
d’accesso è l’esperienza interiore, la riflessione sulla propria interiorità,
la « confes- sione » come riconoscimento della propria realtà intima; in una
parola ciò che nel linguaggio mo- derno si chiama coscienza (v.). Nei Soliloqui
(I, 2) S. Agostino dichiarava di non voler conoscere altro che « Dio e l’A. ».
Ma Dio e l’A. non richiedono, per lui, due indagini parallele o comunque
diverse, giacchè Dio è nell’A. e si rivela nella più riposta interiorità
dell'A. stessa. « Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno
dell’uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi
anche te stesso » (De vera rel., $ 39). Quest’atteggia- mento che domina tutta
la ricerca agostiniana do- veva dare i suoi frutti più tardi, a cominciare
dalla tarda Scolastica. — Ma la Scolastica è nel suo complesso dominata dalla
dottrina aristotelica del- l’A., che viene riproposta quasi negli stessi
termini a partire da Scoto Eriugena (De divis. nat., II, 23) sino a Duns Scoto
(Op. Ox., IV, 43, q. 2), il quale ultimo si limita ad aggiungere che, poichè
l’A. è la forma del corpo, come diceva Aristotele, essa non può sussistere
quando il corpo è distrutto e che pertanto l'immortalità è pura materia di
fede. Le stesse notazioni di S. Tommaso (S. 7A., I, q. 75; C. Genr., II, 79
sgg.) non aggiungono nulla alla dot- trina aristotelica dell’A., salvo la
maggiore insi- stenza sull’indipendenza dell’A. dal corpo, al fine di
garantirne l’immortalità. La sola innovazione che la Scolastica agostiniana
presenta di fronte a questa teoria, e in contrasto con l’indirizzo aristo-
telico-tomistico della stessa Scolastica, concerne il rapporto tra A. e corpo:
l'ammissione di una forma corporeitatis che è propria del corpo come tale,
anteriormente alla sua unione con l’A. e che lo predispone a tale unione. La
forma corporeitatis è la realtà che il corpo umano possiede, come corpo
organico, indipendentemente dalla sua unione con I’A. (Duns Scoro, Op. Ox., IV,
11, q. 3; OCKHAM, Quodl., II, q. 10). Quest'ammissione è legata al
riconoscimento che la materia in generale non è pura potenza ma possiede, già
come materia, una certa realtà attuale che è appunto la forma corpo- reitatis
(v. AGOSTINISMO). Ma la Scolastica del *300 ci offre, con Ockham,
un’innovazione assai più radicale; il dubbio avan- zato sulla realtà dell’A.
intellettiva. Dice infatti Ockham (Quodi., I, q. 10) che, se s’intende per A.
intellettiva « una forma immateriale e incorruttibile che è tutta in tutto il
corpo e tutta in ciascuna parte, non si può conoscere con evidenza, nè con la
ragione nè con l’esperienza, che una tale A. sia forma del corpo e che
l’intendere sia proprio di una tale sostanza ». Difatti le ragioni che si
possono addurre per la dimostrazione di una tale forma, sono dubbie; e, quanto
all’esperienza, tutto ciò che noi sperimentiamo sono l’intellezione, la vo-
lizione, ecc.: operazioni che possono ben essere proprie di una « forma estesa,
generabile e corrut- tibile », cioè del corpo stesso. Ockham perciò re- lega
tra le materie di fede non solo l’immortalità dell’A. (come aveva già fatto
Duns Scoto) ma la realtà stessa dell'A. intellettiva come supposto sog- getto
delle operazioni spirituali di cui ates il punto di partenza della filosofia
moderna. La nozione dell’A. come sostanza sopravvive alla crisi del
Rinascimento. Nè il materialismo di Telesio e di Hobbes costituiscono vere e
proprie negazioni della sostanzialità dell’anima. Telesio am- mette una
sostanza intellettiva, direttamente creata e infusa da Dio nell’uomo, solo per
spiegare la vita religiosa dell’uomo, la sua aspirazione al tra- scendente (De
rer. nat., V, 2); ma lo stesso « spirito animale », di cui egli si avvale per
spiegare la sen- sibilità, l’intelligenza e anche la vita morale del- l’uomo,
pur essendo di natura corporea e prodotto e tosti ‘PMR de4dal seme, è da lui
considerato come realtà a sè, come « sostanza » (/bid., V, 10). Quanto a
Hobbes, egli dichiara illegittimo il pivela « un essere l’esistenza del quale
ci è più co- nosciuta di quella degli altri in modo che può servire come
principio per conoscerli» (Lett. d Clercelier, in CEuvres, IV, 443). Ora il
cogito com- prende «tutto ciò che è in me e di cui sono immediatamente
cosciente » (Z/ Rép., def. I): cioè il dubitare, il capire, il concepire,
l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’imaginare, il sen- tire,
ecc. Sicchè la coscienza è una via d’accesso privilegiata perchè sicura al
punto da essere asso- lutamente indubitabile, ad una realtà, la sostanza A.,
che è a sua volta privilegiata perchè può servire come principio per conoscere
le altre realtà. E di- fatti è la stessa coscienza, in quanto testimonia il
carattere passivo della facoltà sensibile, che fa ’A. nei ter- mini del loro
concetto di realtà. Per Spinoza, l’A. è «l’idea di un corpo singolo esistente
in atto + (Er., II, 11): è cioè la coscienza correlativa a un corpo organico.
Non si può dire che l’A. sia sostanza perchè la sostanza è una sola ed è Dio.
Ma, come idea, l’A. è parte dell’intelletto infinito di Dio, cioè è una
manifestazione necessaria della sostanza divina (/bid., II, 9) quindi è eterna
(/bid., V, 23). Per Leibniz l'A. è una sostanza spirituale, una monade che,
come uno specchio, rappresenta in sè tutto il mondo ma è in se stessa semplice,
cioè senza parti e indecomponibile (Monad., $$ 1, 56). A differenza delle altre
monadi, che sono gli atomi spirituali che compongono tutte le cose dell’uni-
verso (comprese quelle corporee), l'A. è sa nozione di A. come realtà o
sostanza, Hume contribuisce in pari misura a stabilire la supremazia della
coscienza i cui dati sono riconosciuti come i soli elementi certi della
conoscenza umana. La rivalità tra le due nozioni di A. e di coscienza raggiunge
il suo punto culminante nella critica di Kant alla psicologia razionale cioè
alla nozione di A. nei suoi attributi tradizionali di sostanzialità,
semplicità, unità e possibilità di rapporti col corpo {Crit. R. Pura, Dial.
trasc., Paralogismi della ragion pura). La critica kantiana consiste nel dire
che l’in- tera psicologia razionale si fonda su di un « para- logisma » cioè su
un errore formale di ragionamento o su un «equivoco »: nel senso che assume
come oggetto di conoscenza, a cui sia applicabile la scienza e, spesso, ridotta
alla stessa coscienza. Quest’inversione del rapporto tra A. e coscienza per cui
la coscienza, da via d’accesso alla realtà-A., si trasforma in questa stessa
realtà, è egualmente evidente nelle due grandi correnti della filosofia
ottocentesca, l’Idealismo e il Positi- vismo. Hegel, per es., considera l’A.
come il primo grado dello sviluppo dello Spirito, che è la co- scienza nel suo
grado più alto, cioè Auto-coscienza; e la configura come « Spirito soggettivo
», cioè come lo spirito nell’aspetto della sua individualità. Ed ecco come egli
descrive il processo dello Spirito soggettivo: « Nell'A. si desta la coscienza;
la co- scienza si pone come ragione che si è immediata- mente destata alla
consapevolezza di sè; e la ragione mediante la sua attività si libera col farsi
oggetti- vità, coscienza del suo oggetto» (Enc., $ 387). Il primo di questi
momenti, cioè il destarsi della co- scienza, è l’anima. Ad essa Hegel riconosce
le caratteristiche tradizionali (sostanzialità, immateria- lità), ma in un
senso in cui queste caratteristiche possono essere riferite alla coscienza. «
L’A., egli dice, non è immateriale soltanto per sè ma è l’im- materialità
universale della natura, la sua semplice vita ideale. Essa è la sostanza e
quindi il fondamento assoluto di ogni particolarizzamento e individualiz-
zazione dello spirito, di modo che lo spirito ha nell’A. ogni materia della sua
determinazione e l’A. resta l’idealità identica e prevalente di questa. Ma in
tale determinazione ancora astrapreparare e di fondare una « scienza » dei
fatti psichici che avesse lo stesso rigore delle scienze della natura. In
questa dire- zione già il termine « A. » appare improprio e viene spesso
sostituito dal termine spirito (v.); e in questo senso Stuart Mill, dice, per
es., che lo spirito (mind) è la «serie delle nostre sensazioni» con in più «
un'infinita possibilità di sentire» (Examination of Hamilton’s Philosophy, pag.
242 sgg.) o, più sem- plicemente, « ciò che sente » (Logic, VI, IV, 1). Oggetto
della psicologia diventano i « fenomeni psi- chici » o « gli stati di coscienza
», che vengono spie- gati mediante il vario associarsi dei loro elementi più
semplici (v. ASssociaZIONISMO). Tale « psicologia senza A.» presiedette agli
inizi della psicologia scientifica e fu l’insegna polemica per l’elimina-
zione, dal campo di essa, della nozione tradizionale dell'A. come sostanza. Il
termine tuttavia fu ed è ancora usato per in- dicare l’insieme delle esperienze
psichiche in quanto sono raccolte in una qualche unità. Così l’intese Wundt
(Logik, II, pag. 245 sgg.), che per unità intese l’unità della coscienza. E
così l’intende anche Dewey: «In conclusione si può affermare che la parola A.,
quando è liberata da tutte le tracce del tradizionale animismo materialistico, denota
la qua- lità delle attività psico-fisiche, in quanto sono or- ganizzate in
unità. Alcuni corpi hanno A. in modo eminente come altri hanno eminentemente
fra- granza, colore e solidità... Dire enfaticamente di una persona particolare
che essa ha un’A. o una grande A., non significa pronunziare una frase fatta
applicabile ugualmente a tutti gli esseri umani. Esprime invece la convinzione
che l’uomo o la donna in questione possiede in grado notevole le qualità di una
sensibile, ricca e coordinata cipazione a tutte le situazioni della vita. Così
le opere d’arte, la musica, la pittura, l’architettura, hanno A., mentre altre
sono morte, meccaniche » (Experience and Nature, pag. 293 sgg.). Ma l’A. in
questo senso non è più « un abitante del corpo »; designa un insieme di
capacità o di possibilità di cui ogni singolo uomo o cosa partecipa più o meno.
L'ultima critica alla nozione di A. è quella di Ryle (Concept of Mind, 1949)
che ha battezzato la concezione dell'A. che fa risalire a Cartesio come quella
dello «spettro nella macchina ». In realtà la nozione è molto più antica, come
si è visto, e deve la sua forza, più che alle sue capacità esplicative, alle
garanzie che essa fornisce o sembra fornire a determinati valori. Ryle ritiene
che la nozione sia frutto di un errore categoriale per il quale i fatti della
vita mentale sono considerati appartenenti a un tipo o categoria (o classe di
tipi o categorie) logica (o semantica) diversa da quella cui essi appartengono.
Tale errore è simile a quello di chi, dopo aver visitato aule, laboratori,
biblio- teche, musei, uffici, ecc., che costituiscono un’Uni- versità, si
domandi che cosa sia e dove risieda l’Università stessa. L'Università non è
un’unità che si aggiunga agli organismi o ai membri che la co- stituiscono e che
possegga quindi una realtà a parte da tali organismi o membri. Così pure l’A.
non ha realtà a parte dalle manifestazioni singole, dai comportamenti
particolari superiori che la parola serve a designare nel loro complesso. In
conclusione, anche assai prima di quest’ul- tima condanna, la nozione
tradizionale di A. come una specie di realtà a sè, principio e fondamento degli
eventi detti mentali, era stata abbandonata e ridotta alla nozione di un’unità
funzionale o di una qualche specie di coordinazione e di sintesi tra quegli
eventi. Ma in questa forma la nozione rinvia a quella di coscienza (v.). ANIMA
BELLA (gr. xx} yuyn; franc. Belle dime; ted. Schòne Seele). L’espressione è di
origine mistica: Plotino già parlava dell’A. bella che è l’A. che quella in cui
il sentimento morale ha finito per assicurarsi di tutte le affezioni dell’uomo,
al punto da poter abbandonare senza timore alla sensibilità la dire- zione
della volontà, senza mai correre il rischio di trovarsi in disaccordo con le
decisioni di questa... Un”A. bella non ha altro merito che quello di esi-
stere. Con facilità, come se l’istinto agisse per lei, esegue i doveri più
penosi per l’umanità e il sacri- ficio più eroico, che essa strappa all’istinto
naturale, appare come libero effetto di quel medesimo istinto » (Werke, ed.
Karpeles, XI, 202. Cfr. PAREYSON, L’e- stetica dell’Idealismo tedesco, pag. 239
sgg.). Kant non rifiutò recisamente questo concetto di Schiller e pur
attenuandolo, non negò che la virtù potesse e dovesse accordarsi le Esperienze
di Wilhelm Meister e la faceva parlare così: «Io non mi ricordo di nessun
comando; niente mi ap- ANOMALIA 49 pare in figura di legge; è un impulso che mi
conduce e mi guida sempre giusto; io seguo liberamente le mie disposizioni e so
così poco di limitazione come di pentimento ». L’A. bella è una delle figure
tipiche del Romanticismo: l’incarmazione della mo- ralità, non come regola o
dovere, ma come effusione del cuore o dell’istinto. Scheler, pur rendendosi
conto del decadentismo di questa nozione roman- tica, ritiene ancora tuttavia
che « l'antica questione circa il rapporto tra l’A. bella che vuole il dover
essere ideale e lo realizza non già per dovere ma per inclinazione, e il
comportamento ‘ per il dovere * a cui Kant riduce ogni valore morale, va risolta
nel senso che l’A. bella è non solo di pari valore, ma di valore superiore »
(Formalismus, pag. 226). Ma nell’uso contemporaneo l’espressione ha as- sunto
un significato ironico o derisorio, designando l'atteggiamento di chi vive
contento della propria presunta perfezione morale, ignorando o miscono- scendo
i problemi effettivi, le difficoltà e le lotte che rendono difficile
l'esercizio di un'attività mo- rale efficace. Questo capovolgimento di
apprezza- mento è dovuto probabilmente a Nietzsche che nella Genealogia della
morale (I, $ 10) descrisse i puri di cuore, le A. belle che si drappeggiano
poe- ticamente della loro virtù, come « uomini del ri- sentimento » che fremono
di un sotterraneo spirito di vendetta contro coloro che incarnano la ricchezza
e la potenza della vita (v. RISENTIMENTO). ANIMA DEL MONDO (gr. persàn yuxh;
lat. Anima Mundi; ingl. World-Soul; franc. Ame du monde; ted. Weltseele).
Nozione che ricorre fre- quentemente nella cosmologia tradizionale, la quale
concepisce spesso il mondo come « un grande ani- male », dotato perciò di un’A.
propria. Così Platone concepì il mondo nel Timeo e imaginò che l’A. di esso
fosse costruita e distribuita geometricamente nel mondo dal Demiurgo (Tim., 34
b). — La no- zione fu ripresa dagli Stoici che identificarono Dio col mondo e
lo concepirono come « un animale immortale, razionale, perfetto, intelligente e
beato » (Diog. L., VII, 137). Per Plotino l’A. del mondo è la seconda
emanazione dell’Uno o Dio e procede dall’Intelletto, che è la prima emanazione,
come questo procede dall’Uno. L'A. universale guarda da un lato all’intelletto,
dall’altro alle cose infe- riori o materiali che essa ordina e governa (Enn.,
V, 1, 2). Nella Scolastica I’A. del mondo venne talora identificata con lo
Spirito Santo: così fece Abelardo (Theol. Christ., I, 17); e così fecero alcuni
rappresentanti della Scuola di Chartres (Bernardo Silvestre, Teodorico di
Chartres). Nel Rinascimento questa dottrina venne ripresa da Giordano Bruno che
considerò Dio come l’intelletto universale « che è la prima e principal facoltà
dell'A. del mondo, la quale è forma universale di quello {del mondo 4 —
ABBAGNANO, Disionario di filosofia, stesso] » (De /a causa, III) e fu
comunemente ac- cettata da tutti coloro, e furono moltissimi, che ammisero la validità
della magia (Cornelio Ag- grippa, Paracelso, Fracastoro, Cardano, Campa- nella,
ecc.) giacchè fu ritenuta il fondamento di quella « simpatia universale » fra
le cose del mondo, che il mago utilizza per i suoi incantesimi e le sue
operazioni miracolose. Del concetto di A. del mondo si servì Schellling
(Sul/"A. del mondo, 1798) per dimostrare la continuità del mondo or-
ganico e del mondo inorganico in un fuffo che è esso stesso un organismo
vivente; mentre negava invece l’« A. mondiale » Hegel, giacchè riteneva che
l’A. «ha la sua verità effettiva solo come indivi- dualità, soggettività »
(Enc., $ 391). Col prevalere della scienza e della concezione meccanica del
mondo, la nozione di A. del mondo diveniva ov- viamente inservibile. ANIMA,
PARTI DELL’. V. FACOLTÀ. ANIMISMO (ingl. Animism; franc. Animisme; ted.
Animismus). Termine usato da Tylor (Primitive Culture, 1, 1934, p. 428-29) per
indicare la credenza, diffusa presso i popoli primitivi, che le cose naturali
sono tutte animate; e perciò la tendenza a spiegare gli avvenimenti con
l’azione di forze o princìpi animati. Nell’A. così inteso il Tylor vide la
forma primitiva della metafisica e della religione. Questa dottrina partiva dal
presupposto che la prima e fondamentale preoccupazione dell’uomo primitivo sia
quella di spiegare in qualche modo i fatti che lo circondano. L'osservazione
sociologica ha però mostrato che questo non è il caso e che il primitivo è
soprattutto interessato alla caccia, alla pesca, agli eventi e alle festività
della tribù: e che con questi interessi è legato non già l'A. ma piuttosto la
magia (v.). La dottrina che l’atteggiamento magico è quello da cui è nata la
religione e su cui s'impernia la cultura primitiva è stata chiamata
preanimismo. (Cfr. su di esso
MARETT, The Threshold of Religion, 1909; G. FRAZER, Tie Golden Bough, 1911-14;
Ma- LINOWSKI, Magic Science and Religion, 1925). ANNO GRANDE. V. Cicto. ANOETICO (ingl. Anoeric;
franc. Anoétique; ted. Anoetik). Aggettivo che viene talvolta usato a designare
le funzioni diverse dall’intelletto, per es., la sensibilità, le emozioni, ecc.
ANOMALIA (ingl. Anomaly; franc. Anomalie; ted. Anomalie). In generale ogni
fatto o elemento che si scosta dal modello uniforme, costantemente riscontrato,
di un certo genere di fatti o elementi: per es., un corpo vivente presenta
un’A. se la strut- tura di qualche suo organo si allontana da quella
riscontrata in corpi dello stesso genere. Un fatto anomalo è un fatto che
contravviene alla previsione probabile, fondata su uniformità ricorrenti (vedi
ANOMIA (ingl. Anomy; franc. Anomie; te- desco Anomie). Termine moderno usato
soprat- tutto da sociologi (per es., Durkheim) per indicare l'assenza o la
deficienza di organizzazione sociale e quindi di regole che assicurino
l’uniformità degli accadimenti sociali. ANONIMIA (ted. Man). Secondo Heidegger,
è il modo d’essere livellato ‘dell’esistenza quotidiana, nella sua « medietà »
pubblica, cioè nelle forme che finisce per assumere nella vita d’ogni giorno.
In tale modo d'essere, « ognuno è gli altri e nessuno è se stesso. Il Si in cui
trova risposta il problema circa il Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a
cui ogni Esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-insieme »
(Sein und Zeit, $ 27) (v. MEDIETÀ). ANORMALITÀ (ingl. Abnormality; francese
Anormalité; ted. Unregelmdssigkeit). Ciò che è con- trario a una norma e perciò
si sottrae, in qualche misura, alla funzione o al fine che la norma tènde a
garantire o a raggiungere. Il termine ha un signi- ficato diverso da anomalia
(v.) giacchè questa non sempre costituisce un’anormalità. L’anomalia è una
variante imprevista, un caso che si allontana dal- l’uniformità riconosciuta:
essa può essere e può non essere un’anormalità. Per es., un organo ano- malo è anormale
solo nel caso in cui non è in grado di adempiere alla funzione che gli sarebbe
propria. ANTECEDENTE (ingl. Antecedent; franc. An- técédent; ted. Antezedens).
In Logica, il primo ter- mine di una conseguenza (v.). o. P. ANTEPREDICAMENTI
(lat. Antepraedica- menta; ingl. Antepredicament; franc. Anteprédica- ment;
ted. Antepridicament). Nel Medioevo con il nome di A. si designava spesso
l’/sagoge alle Cate- gorie di Porfirio. Inoltre la medesima parola desi- gnava
anche, naturalmente, le quinque voces (o cate- gorie della Logica) trattate
appunto nell’/sagoge: genere (v.), specie (v.), differenza (v.), proprio (v.),
accidente (v.). Husserl ha chiamato evidenza ante- predicativa quella con cui
gli oggetti si danno, con le varie modalità del loro essere, nel mondo della
vita (v.): evidenza che è a fondamento del giu- dizio predicativo o apofantico
(Erfahrung i agi 1939, intr.). ANTICHI E MODERNI (ingl. pe pe Moderns; franc. Anciens et
Modernes). La disputa sulia superiorità degli A. o
dei moderni nacque in Italia con i Pensieri diversi (1620) di Alessandro Tas-
soni, si svolse soprattutto in Francia e in Inghilterra e vertè sostanzialmente
intorno al concetto della storia come progresso. La nozione di progresso anzi
trova appunto la sua origine da questa disputa e specialmente nel Dialogo dei
morti (1683) di Fon- tenelle. Il concetto che viene elaborato in quelle
discussioni era stato già espresso da Giordano Bruno con l’affermazione che «
noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che i nostri predecessori » perchè
attraverso il tempo il giudizio si matura (Cena delle ceneri, in « Op. It. »,
I, 31-32); concetto che Bacone aveva a sua volta espresso con quello di veritas
filia temporis tolto da Aulo Gellio (Noct. Att., XII, 11): « L’antichità,
diceva Bacone, fu an- tica e maggiore rispetto a noi, ma per rispetto al mondo
nuova e minore; ed appunto come da un uomo anziano possiamo aspettarci molta
maggior conoscenza delle cose umane e maggior maturità di giudizio che da un
giovane — per via dell’espe- rienza e del gran numero di cose da lui vedute,
udite e pensate — così pure dall'età nostra (se avesse coscienza delle sue
forze e volesse darsi a sperimentare e capire) sarebbe giusto aspettarsi più
gran cose che dai tempi A., essendo questa per il mondo la maggiore età,
aiutata e arricchita da in- finiti esperimenti ed osservazioni + (Nov. Oro., I,
84). Questo concetto ripetuto da Fontenelle costituì il primo nòcciolo della
nozione di progresso (v.). — (Sulla disputa degli A. e dei moderni cfr.
RIGAULT, Histoire de la querelle des Anciens et des Modernes, 1856; J. B. Bury,
7he /dea of Progress, 1932,ANTICIPAZIONE (gr. rp6anpis; lat. Antici- patio;
ingl. Anticipation; franc. Anticipation; te- desco Antizipation). Con questo
termine i logici stoici ed epicurei designavano i concetti generali (di genere
e specie) in quanto mediante essi i dati della esperienza erano « anticipati »
dalla mente (Dioc. L., VII, 1, 54). Nella filosofia moderna, sulle tconclude in
una contraddizione; nella Logica stoica il ragionamento che conclude in un
dilemma, come «è giorno op- pure non è giorno» (invece in Aristotele «se è
giorno, allora non è giorno +). G. P. ANTILOGIA (gr. avrmoyla; ingl. Antilogy;
franc. Antilogie; ted. Antilogie). Contraddizione (v.). Talora il termine
equivale a disputa, o ad arte della disputa, perchè questa consiste nel
contrap- porre un argomento a un altro argomento. Anti- ANTINOMIE s1 logici fu
il titolo di un’opera di Protagora (Dioc. L., II, 37). ANTILOGISMO (ingl.
Antilogism; franc. An- tilogisme; ted. Antilogismus). Termine coniato con
parole greche (&vri, «contro » e X6yoc, « ragione +), introdotto per
indicare atteggiamenti filosofici di ostilità alla ragione discorsiva. G.P.
ANTIMETAFISICO (ingl. Antimetaphysic; franc. Antimétaphysique; ted. Antimetaphysik).
Ter- mine usato dai moderni ad indicare un atteggiamento o un indirizzo di
pensiero contrario alle pretese della metafisica classica e cioè che si rifiuta
di am- mettere la validità di una ricerca che proceda al di là dei confini
dell’esperienza o che comunque metta capo ad affermazioni non verificabili in
ter- mini di esperienza (v. METAFISICA). Più specifica- mente la critica
antimetafisica si dirige (seguendo l’esempio di Hume) contro i due concetti
fonda- mentali di sostanza e di causa o contro l’interpre- tazione che renda
possibile la loro applicazione ad oggetti che trascendano il limite
dell’esperienza. ANTINOMIE (ingl. Antinomies; franc. Anti- nomies; ted.
Antinomien). Con questo termine o con quello di paradossi sono chiamate le
contrad- dizioni cui mette capo l’uso della nozione assoluta di tutti nella
matematica e nella logica. Le A. in questo senso non erano ignote all’antichità
perchè fecero parte di quei ragionamenti insolubili o con- vertibili di cui
Megarici e Stoici si compiacevano e che furono talora anche chiamati dilemmi
(vedi DILEMMA). Tali ragionamenti vengono nella tarda scolastica trattati nelle
raccolte di /nsolubilia o di Obligatoria; e il più famoso di essi è quello del
mentitore che già Cicerone ricordava: « Se tu dici che mentisci, o dici il vero
e allora menti o dici il falso e allora dici la verità » (Acad., IV, 29, 96).
Questo paradosso veniva nel sec. xIv discusso da Ockham (Summa Log., III, II,
38). Nella logica contemporanea, la prima contraddizione del genere fu messa in
luce da Burali Forti nel 1897 e riguar- dava la serie dei numeri ordinali: se
la serie di tutti i numeri ordinali ha un numero ordinale, che sia, per es., w,
anche è sarà un numero ordi- nale, sicchè la serie di tutti i numeri ordinali
avrà il numero w + 1, più grande di w e è non sarà il numero ordinale di tutti
gli ordinali (« Una. que- stione sui numeri transfiniti », in Rend. del Circolo
Matematico di Palermo, 1897). Ma il più famoso paradosso, che richiamò
l’attenzione su tutti gli altri, fu quello di Russell, che concerne la classe
di tutte le classi che non sono membri di se stesse. Ci sono classi che non
sono membri di se stesse, come, ad es., la classe degli uomini: la quale, non
essendo un uomo, non è membro di se stessa. Ci sono invece classi che sono
membri di se stesse, come la «classe dei concetti », che è essa stessa un
concetto. Ora la classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse è,
o no, membro di se stessa? Se sì, contiene un membro che è membro di se stesso
e pertanto non è più la classe di tutte le classi che non contengono se stessa
come membro. Se no, sarà una delle classi che non contengono se stessa come
membro e deve perciò appartenere alla classe di tali classi. Questo paradosso
pub- blicato da Russell nel 1902 ha dato poi luogo alla riorganizzazione che
della logica matematica hanno fatto Whitehead e Russell nei Principia Mathe-
matica (1910-13). Ao di variazione è un insieme di oggetti individuali. Sono di
grado due quelle for- nite di una variabile apparente che sta in luogo di una
funzione proposizionale di grado uno; e così via. Posto ciò, si stabilisce la
regola che non si possono trattare sullo stesso piano proposizioni ricavabili
da funzioni di grado diverso. Per es., l’A. del mentitore dipende dal fatto che
la frase «io mento » s’interpreta nel senso: « Qualunque sia la mia presente
affermazione x, x è una menzogna »; e che si identifica questa frase, che
chiamiamo », con l’affermazione x. Ma in realtà y è di grado diverso da x
perchè x è la variabile apparente con- tenuta in y: perciò non può essere
identificata con y. In altre parole, quando si dice ‘ io mentisco ’, non
s’intende che è una menzogna la frase stessa «io mentisco » ma che è una
menzogna qualche altra frase cui essa fa riferimento. Russell tuttavia per
rendere possibile in matematica quel tipo di asserzione impropriamente espressa
con la frase (che dà luogo alle A.) «tutte le proprietà di x, introduceva
l’assioma delle classi o assioma di ri- ducibilità. Egli diceva: «Sia g x una
funzione, di qualsiasi ordine, di un argomento x che può essere o un individuo
o una funzione di qualsiasi ordine. Se ® è dell’ordine immediatamente superiore
a x, scriviamo la funzione nella forma p!x; e in tal caso chiameremo ® una
funzione predicativa. Così la funzione predicativa di un individuo è una fun-
zione di primo ordine; e per argomenti di tipo più alto le funzioni predicative
prendono il posto che le funzioni di primo ordine prendono nei ri- spetti degli
individui. Noi assumiamo allora che ogni funzione è equivalente, per tutti i
suoi valori, a qualche funzione predicativa dello stesso argo- mento »
(Mathematical Logic, ecc., Op. Cit., pa- gina 81-82). Russell riteneva di avere
in questo modo salvato il concetto di classe dall’A. e nello stesso tempo di
averlo reso ancora utilizzabile nella sua funzione fondamentale, che sarebbe
quella di ridurre l’ordine delle funzioni proposizionali; ma l’assioma suscitò
molte critiche, che mostrarono spe- cialmente come esso aveva l’effetto di
restaurare la possibilità di quelle definizioni impredicative che la teoria dei
gradi era diretta ad eliminare (cfr. su tali critiche A. CHURCH, Introduction
to Mathematical Logic, $ 59, n. 588). Lo stesso Russell nella Intro- duzione
alla seconda edizione dei Principia Ma- thematica (1925) raccomandava
l’abbandono del- l’assioma di riducibilità. Ramsey propose allora di dividere
le A. in due ca- tegorie: le antinomie /ogiche (in senso stretto) che sono
quelle esemplificate dall’A. di Russell e che non fanno riferimento alla verità
o falsità delle espres- sioni; e le A. sintattiche, esemplificate dall'A. del
men- titore, che sono quelle che nascono dal riferimento semantico e si possono
perciò anche chiamare semantiche o epistemologiche (Foundations of Ma-
thematics, 1931). Ramsey osservò che le antinomie della seconda specie non
compaiono nei sistemi logistici ma solo nei testi che li accompagnano e che
pertanto esse possono essere trascurate dalla logica in quanto ha per oggetto
la costruzione di sistemi simbolici. Per le A. logiche, invece, Ramsey osservò
che basta la teoria semplice dei tipi; la cui regola fondamentale, Carnap,
seguendo il suggerimento di Ramsey, ha così formulata: « Un predicato
appartiene sempre a un tipo diverso da quello dei suoi argomenti (cioè
appartiene a un tipo di livello più alto); e perciò un enunciato non può avere
mai la forma ‘F(F)’» (The Logical Syntax of Language, $ 60 a). Questa regola
basta a evitare le definizioni impredicative (v.): sicchè la teoria dei tipi
semplici è quella oggi più comune- mente accettata dai logici, per ciò che
concerne le A. logiche. 2° La seconda soluzione fondamentale delle A. riguarda
invece le A. sintattiche cioè semantico- epistemologiche, che sono quelle nelle
quali ri- corrono i concetti di vero e falso. Questa soluzione consiste nel
considerare quelle A. come proposi- zioni indecidibili cioè come proposizioni
sulla cui verità o falsità la struttura della lingua, nella quale esse sono
formulate, non permette di decidere nè in un senso nè nell’altro. Mediante un
ampliamento della lingua considerata, tali proposizioni possono diventare
suscettibili di decisione; ma a sua volta tale ampliamento può dar luogo ad
altre proposi- zioni indecise. Una soluzione di questo genere era stata già
prospettata da Ockham quando, nell’analisi del pa- radosso del mentitore, aveva
riconosciuto il carat- tere indecidibile degli enunciati autoriflessivi. Così,
diceva Ockham, non è legittimo porre che A si- gnifichi « A significa il
falso». È certamente pos- sibile che A significhi il falso; ma appunto perchèANTINOMIE
è possibile, e soltanto tale, esso non significa nè il vero nè il falso (Summa
Log., III, II, 38). Questo punto di vista è stato oggi rafforzato dal
cosiddetto teorema di Gédel secondo il quale è impossibile provare la non
contraddittorietà di un sistema logistico con i mezzi di espressione conte-
nuti nello stesso sistema (« Ùber formal unentscheid- bare Sétze der Principia
Mathematica und verwandter Systeme », in Monatsh. Math. Phys., 1931). Posto
ciò, si può intendere come le A. sintattiche nascano quando i predicati vero e
falso, riferiti a un lin- guaggio determinato S, sono usati dentro questo
stesso linguaggio. Dall’altro lato, la contraddizione può essere evitata
adoperando i predicati ‘vero (in S)” e ‘falso (in S)” in una sintassi di S, che
non è formulata nello stesso S; ma in un altro linguaggio Sy (CARNAP, Logical
Syntax of Language, $ 60b). Questo equivale a dire che l'affermazione «io
mentisco» può essere vera al livello di un certo linguaggio e falsa al livello
di un altro linguaggio; e che cioè essa rimane indecisa finchè non si è
determinato il livello del linguaggio a cui viene riferita. Solu- zioni
sostanzialmente simili a queste sono state proposte da Quine (Mathematical
Logic, 1940, cap. VII; cfr. From a
Logical Point of View, VII, 3) e da Church (Introduction to Mathematical Logic,
$ 57). ANTINOMIE KANTIANE
(ingl. Kanzian Antinomies; franc. Antinomies kantiennes; ted. Kants
Antinomien). La parola A. significa propriamente
«conflitto di leggi» (QUINTILIANO, /nst. Or., VII, 7, 1) ma fu estesa da Kant a
indicare il conflitto in cui la ragione viene a trovarsi con se stessa in virtù
dei suoi stessi procedimenti. Kant parlò delle A. nel campo della cosmologia
razionale, cioè della dottrina che ha per oggetto l’idea del mondo. Questa idea,
come tutte le idee della ragion pura (v. IDEA), nasce dal tentativo,
illegittimo secondo Kant, di applicare le categorie a se stesse, cioè dall’uso
ri- flessivo delle categorie. L’idea di mondo è infatti «l’unità incondizionata
delle condizioni oggettive della possibilità degli oggetti in generale ». Le «
con- dizioni oggettive, ecc. », sono le categorie e i prin- cìpi da esse
derivati; e l’unità è ancora una categoria. Le A. che sorgono in questo modo
sono, secondo Kant, naturali o inevitabili: naturali perchè l’idea di mondo,
che ad esse dà origine, per quanto priva di validità empirica e quindi
conoscitiva, è formata dalla ragione con un procedimento naturale che consiste
nell’applicare alle categorie le stesse ca- tegorie, che dovrebbero essere invece
applicate sol- tanto ai fenomeni; inevitabili, perchè una volta formatasi
l’idea di mondo come la totalità assoluta, incondizionata, di tutti i fenomeni
e delle loro con- dizioni, non si può in alcun modo evitare di giun- KANTIANE
53 gere a proposizioni contraddittorie. Kant enumera quattro A. che
corrispondono ai quattro gruppi di categorie, cioè alle categorie secondo la
qualità, la quantità, la relazione e la modalità. Ecco le quattro A.: 18
Antinomia. Tesi: il mondo ha un inizio nel tempo e, nello spazio, è chiuso
dentro limiti. Antitesi: il mondo non ha nè inizio nel tempo nè limite nello
spazio ma è infinito sia nel tempo che nello spazio. 2 Antinomia. Tesi: ogni
sostanza composta consta di parti semplici e non esiste altro che il semplice o
ciò che risulta composto dal: semplice. Antitesi: non esiste al mondo alcuna
cosa composta di parti semplici e non esiste in nessun luogo niente di
semplice. 3» Antinomia. Tesi: la causalità secondo leggi della natura non è la
sola da cui possano essere spiegati i fenomeni del mondo. È necessario am-
mettere per la spiegazione di essi anche una cau- salità della libertà.
Antitesi: non c’è alcuna libertà, ma tutto nel mondo accade unicamente secondo
le leggi della natura. 48 Antinomia. Tesi: nel mondo c’è qualcosa che o come
sua parte o come sua causa è un essere assolutamente necessario. Antfitesi: in
nessun luogo esiste un essere assolutamente necessario nè nel mondo nè fuori
del mondo come sua causa. Sia la tesi che l’antitesi di ciascuna di queste A. è
dimostrabile con argomenti logicamente ineccepi- bili: tra l’una e l’altra è
quindi impossibile decidere. Il conflitto pertanto rimane e dimostra
l’illegitti- mità della nozione che gli ha dato origine, cioè dell’idea di
mondo. Questa, essendo al di là di ogni esperienza possibile, rimane
inconoscibile e non può fornire alcun criterio àtto a decidere per l’una o
l’altra delle tesi in conflitto. L’illegittimità della nozione di mondo risulta
evidente dal fatto che la tesi delle A. presenta un concetto di esso troppo
piccolo per l’intelletto, mentre l’antitesi presenta un concetto troppo grande
per l'intelletto stesso. Così, se il mondo ha avuto un principio, regredendo
empiricamente nella serie dei tempi bi- sognerebbe arrivare ad un momento in
cui questo regresso si arresta; e questo è un concetto del mondo troppo piccolo
per l’intelletto. Se invece il mondo non ha avuto un principio, il regresso
nella serie del tempo non può mai esaurire l’eternità; e questo è un concetto
troppo grande per l’intelletto. Lo stesso si dica per la finità o l’infinità
spaziale, per la divisibilità o io di sommo bene: «O il desiderio della
felicità dev'essere la causa movente per la massima della virtù o la mas- sima
della virtù dev'essere la causa efficiente della felicità »; ed una A. del
giudizio teleologico (Critica d. Giud., $ 70) che è formata dalla tesi « Ogni
produ- zione delle cose materiali è possibile secondo leggi puramente
meccaniche » e dall’antitesi « Alcuni pro- dotti della natura non sono
possibili secondo leggi puramente meccaniche ». A proposito delle A. kan-
tiane, Hegel le interpretava come se Kant avesse voluto togliere la
contraddizione dal mondo in se stesso e attribuirla alla ragione. E aggiungeva:
«È questa una troppo grande tenerezza per il mondo, voler allontanare da esso
la contraddizione per trasportarla invece e lasciarla altro le tesi di esse e
rigettava le antitesi, riconoscendo così la finità del mondo nello spazio e nel
tempo (Essais de critique générale, I, pag. 282). Il risultato rag- giunto
dalla discussione kantiana delle A. è tuttavia importante. Esso consiste
nell’aver messo in qua- rantena l’idea tradizionale del mondo come totalità
assoluta e nell’aver insegnato l’uso critico del con- cetto di mondo (v.).
ANTIPERISTASI (gr. dvrireplotani; lat. Anti- paristasis). Uno dei modi
tradizionali di spiegare il movimento dei proiettili; poichè la natura non per-
mette il vuoto, quando un corpo esce velocemente dal luogo in cui stava, l’aria
si precipita in questo luogo e spinge il corpo stesso che passa così ad un
altro luogo; e così via, per tutta l’estensione del mo- vimento. A questa
spiegazione, Aristotele obiettava che essa non tiene conto del fatto che esiste
un corpo che non è mosso da altro: il cielo (Fis., VIII, 10, 267 a 12). La
nozione fu criticata da co- loro che elaborarono la dottrina dell’impeto (v.):
per es., da Buridano (Quaesr. super physicam, VIII, q. 12. Cfr. anche BoviLLo,
De Nihilo, in Opera, 1510, f. 72 v.). ANTISTORICISMO (ingl. Antihistoricism;
franc. Antihistoricisme; ted. Antihistorismus). Ter- mine adoperato soprattutto
da Croce per designare l’Illuminismo che, come «razionalismo astratto » avrebbe
considerato « la realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo di idee o
di valori e in un basso mondo che le riflette o le ha riflesse finora in modo
fuggevole o imperfetto e al quale converrà una buona volta imporli, facendo
succedere alla storia imperfetta o alla storia senz’altro una realtà razionale
perfetta » (La storia, pag. 51). Da questo punto di vista, sono « antistoriche
» tutte le dottrine che distinguono ciò che è da ciò che dev'essere e cioè che
non ammettono l’identificazione hegeliana di realtà e razionalità. — In realtà,
l’Illuminismo non è « antistoricismo » ma piuttosto « antitradizio- nalismo »,
in quanto ha costituito la prima e più radicale condanna della tradizione come
portatrice e garante di verità (v. ILLUMINISMO; TRADIZIONE). ANTITESI (gr.
d&vrtdeoc; ingl. Antithesis; franc. Antithèse; ted. Antithesis). 1.
Contrapposi- zione: Aristotele dice che la contraddizione è una A. che non ha
termine medio (An. post., I, 2, 72 a 10). 2. Uno dei due termini della
contrapposizione, quello che si oppone alla tesi. In questo senso Kant chiamò
A. il secondo membro dell’anti- nomia (v.) ed Hegel chiamò A. il secondo momento
del procedimento dialettico detto appunto « mo- mento dialettico » o « negativo
razionale». ANTITETICA (ted. Antithetik). Kant intese con questo termine «un
conflitto di conoscenze in apparenza dogmatiche (thesis cum antithesi) a
nessuna delle quali si attribuisca un diritto preva- lente all’assenso ». L’A.
si opporrebbe così alla Tetica (v.). In particolare, l’A. trascendentale è «una
ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo
risultato » (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. II, sez. II). ANTITIPIA
(gr. dvritria; lat. Antitypia; ingl. Antitypy). Termine d’origine epicurea
(SESTO, Adv. Math., I, 21) adoperato da Leibniz per indicare l'attributo della
materia per il quale «essa è nello spazio » e per il quale perciò un corpo è impene-
trabile all’altro (Op., ed. Erdmann, pag. 463, 691). ANTROPOLOGIA (ingl.
Anthropology; fran- cese Anthropologie; ted. Anthropologie). L’esposi- zione
sistematica delle conoscenze che si hanno intorno all’uomo. In questo senso
generale l’A. è stata ed è una parte di ogni filosofia; ma come disciplina
specifica e relativamente autonoma essa APATIA 55 è nata solo in tempi moderni.
Kant distinse un’A. fisiologica che considera quel che la natura fa del- l’uomo
da un’A. pragmatica che considera invece quello che l’uomo come essere libero
fa, oppure può suo oggetto proprio non solo nell’analisi e nella
classificazione dei lin- guaggi ma nella comprensione, attraverso i lin-
guaggi, della psicologia individuale e di gruppo (cfr., R. Linton, ed. The
Science of Man in the World Crisis, 1945, 1952”). Secondo Lévi-Strauss lA. si
distingue dalla sociologia in quanto tende ad essere la scienza sociale
dell’osservato mentre la sociologia tende ad essere la scienza sociale del-
l'osservatore (Anthr. structurale, 1958, cap. XVII). I filosofi hanno spesso
sottolineato l’importanza dell’A. come scienza filosofica, cioè come determi-
nazione di ciò che l’uomo deve essere, nei confronti di ciò che è. Humboldt,
per es., voleva che l’A., pur movendo a determinare le condizioni naturali
dell’uomo (temperamento, razza, nazionalità, ecc.) mirasse a scoprire,
attraverso di esse, l’ideale stesso dell'umanità, la forma incondizionata, alla
quale nessun individuo si adegua mai perfettamente ma che rimane lo scopo cui
tutti gli individui tendono ad avvicinarsi (Schriften, I, pag. 388 sgg.). In
tal senso l’A. è stata intesa da Scheler (// posto dell’uomo nel cosmo, 1928)
che perciò la colloca in un posto intermedio tra la scienza positiva e la
metafisica. — Più specificamente il còmpito del- l’A. filosofica dovrebbe
essere quello di considerare l’uomo non già semplicemente come natura, come
vita, come volontà, come spirito, ecc., ma preci- samente come uomo e cioè di
riportare il complesso delle condizioni o degli elementi che lo costituiscono
al suo modo di esistenza specifico. Tale è l’esigenza prospettata, per es., da
Biswanger (Ausgewédhite Vortràge und Ausdtze, I, pag. 176). E in questo senso
il Saggio sull'uomo (1944) di Cassirer è una ricerca di A. filosofica che si
accentra intorno al concetto dell’uomo come animal symbolicum, cioè come
animale che parla e crea l’universo simbo- lico della lingua, del mito e della
religione. ANTROPOMORFISMO (inglese Anthropo- morphism; franc.
Anthropomorphisme; ted. Anthro- pomorphismus). S'indica con questo nome la ten-
denza a interpretare ogni tipo o specie di realtà nei termini del comportamento
umano o per so- miglianza o analogia con questo comportamento. « Credenze
antropomorfiche » 0 « antropomorfismi » sono dette solitamente le interpretazioni
di Dio in termini di condotta umana. Una critica di tale A. fu già fatta da
Senofane di Colofone. « Gli uomini, egli disse, credono che gli dèi hanno avuto
nascita e hanno voce e corpo simili al loro » (Fr. 14, Diels) perciò gli Etiopi
fanno i loro dèi camusi e neri, i Traci dicono che hanno occhi azzurri e
capelli rossi; e anche i buoi, i cavalli, i leoni, se potessero, imaginerebbero
i loro dèi a loro somiglianza (Fr. 16, 15). — Ma l’A. non appartiene soltanto
al dominio delle credenze religiose. L'intera scienza moderna si è venuta
formando attraverso una progressiva liberazione dall'A. e lo sforzo di
considerare le operazioni della natura non secondo la loro somi- glianza con
quelle dell’uomo, ma juxta propria prin- cipia. PANTROPOSOFIA (ingl. Anthroposophy,
fran- cese Anthroposophie; ted. Anthroposophie). Il ter- mine fu creato da J.
P. V. Troxler per indicare, la dottrina naturale della conoscenza umana (Na-
turlehre der menschlichen Erkenntnis, 1828) e ripreso da R. Steiner quando, nel
1913 si distaccò dal movimento teosofico e volle sottolineare l’impor- tanza
della dottrina intorno alla natura e al destino dell’uomo. Cfr. STEINER, Die
Rétsel der Philosophie, 2 voll., 1924-26 (v. TEOSOFIA). APAGOGICO,
PROCEDIMENTO. Vedi ABDUZIONE; RIDUZIONE. APATIA (gr. &rdBeva; ingl. Apathy;
franc. Apa- thie; ted. Apathie). Il termine propriamente signi- fica
insensibilità; ma nell’uso filosofico antico esso designò l’ideale morale dei
Cinici e degli Stoici, cioè l'indifferenza verso tutte le emozioni e il di-
sprezzo di esse: indifferenza e disprezzo raggiunti attraverso l’esercizio
della virtù. In questo senso, per cui l’insensibilità non è una dote nativa e
na- turale, ma un ideale di vita difficile a raggiungersi, Cinici e Stoici
videro nell’A. la felicità stessa (Diog. L., VI, 1, 8-11). Kant vide nell’A. un
no- bile ideale, ma aggiunse che la natura fu saggia a dare all’uomo la
simpatia, per guidarlo provvi- soriamente e cioè prima che la ragione raggiunga
in lui la sua maturità, come un aiuto o appoggio sensibile alla legge morale e
surrogato temporaneo della ragione (4ntr., $ 75). L’età moderna e con-
temporanea, nonostante la grande suggestione che l’etica stoica ha sempre
esercitato, non si mostra propensa all’ideale dell’A., giacchè essa è portata a
riconoscere il valore positivo delle emozioni e ad evitare, perciò, la condanna
sommaria e to- tale di esse che è inclusa nella nozione di apatia (v.
EMOZIONE). APEIRON (gr. &repov). L'infinito o l’indetermi- nato: secondo
Anassimandro di Mileto, il principio e l'elemento primordiale delie cose. Esso
non è una miscela dei vari elementi corporei, in cui questi siano compresi
ognuno con le sue qualità de- terminate; ma piuttosto è una materia in cui gli
elementi non sono ancora distinti e che perciò, oltre che infinita, è anche
indefinita o indeterminata (Diels, A, 9). Questa duplice determinazione di
infinità nel senso di inesauribilità e di indetermina- tezza è poi rimasta per
molto tempo attaccata al concetto di infinito (v.). APERTO (ingl. Open; franc.
Ouvert). Agget- tivo adoperato frequentemente in senso metaforico nel
linguaggio comune e filosofico per indicare at- teggiamenti o istituzioni che
ammettono la possi- bilità di una partecipazione o comunicazione estesa o
addirittura universale. Uno «spirito aperto» è uno spirito accessibile a
suggerimenti, consigli, cri- tiche che gli vengono dagli altri o dalla stessa
si- tuazione e che è disposto a tenere nel massimo conto, cioè senza
pregiudizi, tali suggerimenti. Una «società aperta» è una società che rende possibile
per vie pacifiche la correzione delle proprie istitu- zioni (K. Popper, The
Open Society and its Enemies, London, 1945). Bergson chiamò società aperta
quella che «abbraccia l’umanità intera» (Deux sources, 1932, I; trad. ital.,
pag. 28). C. Morris ha issa che interpreta il succedersi dei mondi come il
teatro della progressiva rieducazione degli esseri alla condizione beata
originaria. Gregorio afferma anche recisamente il carattere universale dell’A.:
« Perfino l’inventore del male (cioè il demonio), unirà la propria voce
all’inno di gratitudine al Salvatore » (De hom. opif., 26). Nell’età moderna
una dottrina analoga è stata sostenuta da Re- nouvier nella Nuova Monadologia
(1899): viene qui ripresa la tesi di Origene di una pluralità di mondi successivi
e del passaggio da un mondo all’altro determinato dall’uso che l’uomo fa della
libertà in ciascuno di essi; e la si corregge solo nel senso che «la fine
raggiunta si ricongiunge col principio, non nell’indistinzione delle anime, ma
nell’umanità perfeer oggetto la verità necessaria, cioè la verità pro-
priamente detta e che ci conduce attraverso l’apo- dissi cioè la dimostrazione
alla scienza, sicchè giusta- mente viene chiamata sia apodittica sia epistemo-
nica» (Logica Hamburgensis, 1638, IV, I, cap. I, $ 1). Questo nome è stato poi
raramente usato (cfr., ad es., BOUTERWEK, /deen zu einer Apodiktik, 1799).
APODITTICO (gr. &rodemtixéc ; lat. Apodicticus; franc. Apodictique; ted.
Apodiktisch). 1. Dimostra- tivo. Questo è il significato generale e fondamentale
del termine: significato che esso ha in Aristotele sia quando Aristotele lo
riferisce alla proposizione (An. Pr., I, 1, 24 a 30) sia quando lo riferisce
alla scienza, definita come «abito dimostrativo » (Fr. Nic., VI, 3, 1139 b 31).
2. Necessario. Questo secondo significato è stato introdotto come significato
primario da Kant che chiamò A. i giudizi in cui l’affermazione o la ne- gazione
si considera come necessaria. « La propo- sizione A., scrisse Kant, pensa il
giudizio assertorideterminato attraverso le leggi dello stesso intelletto e
perciò affermato a priori; ed esprime così una necessità logica » (Crit. R.
Pura, $ 9, 4). Questa, ovviamente, non è la necessità della dimostrazione. Kant
però non escluse neppure il significato tradi- zionale perchè divise le
proposizioni apodittiche in quelle dimostrabili e quelle immediatamente certe
(Ibid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I [A 736, B 764]). L’uso di Kant è
stato seguito da Husserl che ha parlato di « visione A. + e di «evidenza A.?
(Ideena verità contemplata l’uomo greco vedeva dappertutto l'aspetto orribile e
assurdo del- l’esistenza: l’arte gli venne in soccorso, trasfigu- rando
l’orribile e l’assurdo in imagini ideali, per virtù delle quali la vita fu resa
accettabile (Geburr der Tragòdie, $ 7). La trasfigurazione fu compiuta dallo
spirito dionisiaco, modulato e disciplinato dallo spirito apollineo, e dètte
luogo alla tragedia e alla commedia. Più tardi Nietzsche vide nello spirito
dionisiaco il fondamento stesso dell’arte in quanto questa «corrisponde agli
stati di vigore animale » (Wille sur Macht, $ 361, ed. Kroner, 802). Lo stato
apollineo non è che la risultanza estrema dell’ebbrezza dionisiaca, una specie
di semplifica- zione e concentrazione dell’ebbrezza stessa. Lo stile classico
rappresenta questo stato ed è la forma più elevata del sentimento di potenza.
Sull’esempio di Nietzsche, Spengler ha chiamato apollinea « l’anima della
cultura antica che ha scelto il corpo indivi- duale presente e sensibile come
tipo ideale della estensione ». Apollinei sono «la statica meccanica, i culti
materiali degli dèi dell'Olimpo, le città greche politicamente isolate, la
sorte di Edipo e il simbolo del fallo» (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $
6). Questa caratterizzazione come quella corrispondente di faustismo (v.) è
perfettamente arbitraria e fan- APOLOGETICA (ingl. Apologetics; franc. Apo-
logétique; ted. Apologetik). La disciplina che ha per oggetto la difesa
(apologia) di un determinato sistema di credenze. Il termine viene più frequen-
temente riferito alla difesa delle credenze religiose: per es., « A. cristiana
». APOLOGISTI (ingl. Apologists; franc. Apo- logistes; ted. Apologeten). Si
chiamano con questo nome i Padri della Chiesa del n secolo che scrivevano in
difesa (apologia) del Cristianesimo contro gli attacchi e le persecuzioni che
gli venivano mossi. La prima apologia di cui si abbia notizia (ma ne rimane
solo un frammento) è la difesa presentata all'imperatore Adriano intorno al 124
da Qua- drato, discepolo degli Apostoli. Il principale dei Padri A. è Giustino.
Altri autori di apologie sono Taziano, Atenagora, Teofilo, Ermia. Coi Padri A.
comincia l’attività filosofica cristiana. La tesi comune che essi difendono è
che il Cristianesimo è la sola filosofia sicura ed utile ed è il risultato ultimo
al quale la ragione deve giungere. I filosofi pagani conobbero semi di verità
che essi non po- tettero intendere appieno: i Cristiani conoscono la verità
intera perchè Cristo è il /ogos, cioè la ragione stessa della quale partecipa
tutto il genere umano. L’apologetica di questi Padri costituisce perciò il
primo tentativo di inserzione del Cristianesimo nella storia della filosofia
classica. APONIA (gr. &rovia; ingl. Aponia; franc. Aponie; ted. Aponie).
L'assenza di dolore come piacere sta- bile, e quindi eticamente accettabile,
nell’etica di Epicuro (Fr. 2, Usener). APOREMA (gr. &répnua; ingl. Aporem;
fran- cese Aporème; ted. Aporem). In Aristotele (Top., VIII, 11, 162 a), è
definito come un ragionamento dialettico che conclude ad una contraddizione, e
quindi che non permette di stabilire per quale dei due corni della
contraddizione stessa si debba sce- gliere. G.P. APORETICA (ingl. Aporetic;
franc. Aporé- tique; ted. Aporetik). Così Nicolai Hartmann ha chiamato (da
aporia = dubbio) quello stadio della ricerca filosofica che consiste nel
mettere alla luce i problemi cioè tutti quegli aspetti dei fenomeni che non
sono stati compresi e che perciò costitui- scono le aporie naturali
(Systemarische Philoso- phie, $ 5). APORIA (gr. &ropla; ingl. Aporia; franc.
Aporie; ted. Aporie). Questo termine viene usato nel senso di dubbio razionale
cioè di difficoltà inerente a un ragionamento e non di stato soggettivo di
incer- tezza. Essa è perciò il dubbio oggettivo, l’effettiva difficoltà di un
ragionamento o della conclusione cui un ragionamento mette capo. Per es., « Le
A. di Zenone d’Elea sul movimento », « Le A. dell’in- finito », ecc. A
POSTERIORI. V. A PRIORI. APPARENZA (gr. tò qparvuevov; lat. Ap- parentia; ingl.
Appearance; franc. Apparence; te- desco Erscheinung). Questo termine ha avuto
nella storia della filosofia due significati simmetricamente opposti. Esso è
stato inteso: 1° come nascondimento della realtà; 2° come manifestazione o
rivelazione della realtà stessa. Secondo il significato 1°, l’A. vela od oscura
la realtà delle cose sicchè questa non si può conoscere se non procedendo al di
là dell’A. e prescindendo da essa. Secondo il signi- ficato 2°, l’A. è ciò che
manifesta o rivela la realtà stessa, sicchè questa trova nell’A. la sua veriA.
e realtà fu per la prima volta stabilito in modo netto e tagliente da Parmenide
d’Elea che contrappose «la via della verità e della persuasione », che ha per
oggetto l’essere, la sua unità, inevitabilità e necessità, alla «via dell’opi-
nione» che ha per oggetto il non essere, cioè il mondo sensibile nel suo
divenire. Ma il mondo dell’opinione e il mondo dell’A. coincidono, se- condo
Parmenide: « Anche questo imparerai: come siano verosimilmente le cose
apparenti per chi le esamini in tutto e per tutto» (Fr. 1, 31, Diels). La
stessa coincidenza tra A. e opinione, opinione e sensazione è presupposta da
Platone, che inter- preta il principio protagoreo dell’homomensura come se
significasse « quali le cose appaiono a me tali sono per me» e pertanto come se
identificasse conoscenza e sensazione (7eef., 152 a). D'altra parte il mondo
dell'opinione è, secondo la Re- pubblica, il mondo sensibile diviso nei suoi
due segmenti delle ombre e imagini riflesse, e delle cose e degli esseri
viventi (Rep., VI, 510). Di questo mondo delle A. sensibili non si può avere,
secondo Platone, che conoscenza verosimile o probabile, data la sua natura
incerta e sfuggente: conoscenza che differisce non di grado ma di qualità dalla
conoscenza scientifica o razionale che ha per og- getto l’essere (7irm., 29).
Lo stesso Platone tuttavia affermando che l’oggetto dell’opinione sta all’og-
getto della conoscenza come l’imagine sta al modello (Rep., VI, 510a), ammise
un rapporto di somi- glianza o di corrispondenza tra A. e realtà. Ma il passo
decisivo fu fatto da Aristotele che riconobbe la neutralità dell’A. sensibile:
questa, sia come sen- sazione, sia come imagine può essere tanto vera che
falsa. Certamente hanno torto coloro che ri- tengono che è vero tutto ciò che
appare giacchè questi dovrebbero ammettere anche la realtà dei sogni; e,
rispetto al futuro, non potrebbero stabi- lire alcuna differenza tra il parere
dell’esperto (per es., del medico che fa la prognosi) e il parere
dell’ignorante (Mer., IV, 5, 1010 b 1 sgg.). L'A. non contiene quindi nessuna
garanzia di verità e solo il giudizio intellettuale su di essa può certi-
ficarla o confutarla. Ma d’altronde essa è il punto di partenza della stessa
ricerca scientifica la quale, come è chiarito da ciò che i matematici fanno
ril’intero mondo sensibile come l’A., cioè la manifestazione, del mondo
intellegibile, e quest’ultimo come l’A. o l’imagine di Dio stesso: pensiero che
sarà ereditato da Scoto Eriugena: « Tutto ciò che s’intende e si sente non è
altro che l’apparizione dell’apparente, la manifestazione dell’occulto (De
divis. nat., III, 4)». Da questo punto di vista «il mondo è una teofania, ogni
opera della creazione manifesta l’es- senza di Dio che perciò diventa apparente
e visibile in essa e per essa » (/bid., I, 10; V, 23). Lungo l’una o l’altra di
queste due vie procede quella che si potrebbe chiamare la rivalutazione dell’A.
del mondo moderno. Lungo la prima pro- cede quella che si potrebbe chiamare la
rivaluta- zione empiristica. Già nella Scolastica del °300, Pietro Aureolo
partendo dalla negazione di ogni realtà universale e nell’intento di eliminare
la species come intermediaria della conoscenza intellettuale, affermava che «
le cose stesse sono viste dalla mente e ciò che si vede non è una qualche forma
specu- lare ma è la cosa stessa nel suo essere apparente (esse apparens) e
questo essere apparente è ciò che chiamiamo concetto o rappresentazione
oggettiva » (In Sent., I, d. 9, a. 1). La distinzione tra il senso e
l’intelletto non dipende perciò dalla natura del- l'oggetto appreso ma dal modo
di apprendere. Al senso e all’imaginazione le cose appaiono sotto le condizioni
della quantità mentre l’intelletto astrae da ciò che è quantitativo e materiale
(/bid., I, d. 35, a. 1). Ma è solo nel mondo moderno, a partassunta come punto
di partenza dell'indagine che concerne le cose non create dal- l’uomo (al modo
in cui le definizioni sono il punto di partenza per l'indagine delle cose
create dal- l’uomo, cioè degli enti matematici e politici). Con queste parole
di Hobbes era posto il fondamento dell’empirismo moderno. Esso, mentre
sottolineava il carattere relativo e soggettivo delle A. sensibili, le assunse
come l’unico fondamento della cono- scenza umana. Locke osserva che se i nostri
sensi venissero modificati e resi più pronti cd acuti, l’A. delle cose
muterebbe completamente; ma con ciò essa diverrebbe anche incompatibile con
l’essere nostro o almeno con i bisogni della nostra vita (Saggio, II, 23, 12).
«A. sensibili» sono le idee di cui parla Berkeley (Prinma Kant, che i corpi
paiano semplicemente esseri esterni o che l’anima mia paia semplicemente data
nella mia autocoscienza, quando affermo che le qualità dello spazio e del
tempo, secondo le quali, come condi- zione della loro esistenza, pongo quelli e
questa, sono nel mio modo di intuire e non in questi og- getti. Sarebbe un
errore il mio, se facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come
feno- meno » (Crif. R. Pura, Estetica trascendentale, Os- servazioni gen., 3).
L'affermazione: «I sensi ci rappresentano gli oggetti come appaiono, l’intelletto
come sono» viene interpretata da Kant nel senso che l’intelletto rappresenta
gli oggetti nella connes- sione universale dei fenomeni (il che non dice che
essi siano indipendenti dalla relazione con l’espe- rienza possibile e quindi
dalle « A. sensibili +) (/bid., Analitica dei princìpi, cap. III). L’A.
fenomenica è dunque chiamata tale solo per sottolinearne le connessioni con le
condizioni soggettive del cono- scere e per distinguerla dall’ipotetica
conoscenza noumenica in modo da poterne chiaramente sta- bilire i limiti (v.
FENOMENO). Dall’altro lato la stessa negazione del carattere ingannevole
dell’A., è stata utilizzata, nella filosofia moderna, per ribadire il carattere
assoluto della conoscenza umana. Così Hegel vede nell’A. feno- menica l’essenza
stessa. A. ed essenza non si op- pongono ma s’identificano: l’A. non è che
l'essenza che esiste nella sua immediatezza. « L’apparire, egli dice, è la
determinazione per mezzo di cui l’essenza non è essere ma essenza; e l’apparire
sviluppato è 60 APPERCEZIONE il fenomeno. L’essenza non è perciò dietro o di là
del fenomeno; ma, perciò appunto che l’essenza è quel che esiste, l’esistenza è
il fenomeno + (Enc., $ 131). Vero è che come determinazione « imme- diata »,
l’A. è destinata, secondo Hegel, ad essere assorbita o superata da altre
determinazioni, ri- flesse o mediate, nello sviluppo dialettico dell’Idea
assoluta; ma è pur vero che l’intera dottrina di Hegel è sorretta dal pensiero
che non c’è realtà così recondita che in qualche modo non si mani- festi ed
appaia. Nella filosofia contemporanea questo punto di vista ha trovato la sua
migliore espres- sione per opera di Heidegger. « Quale significato
dell’espressione ‘fenomeno * è quindi da tener ben fermo il seguente: ciò che
si manifesta in se stesso, il rivelato... Questo manifestarsi lo definiamo come
apparire (Scheinen). Anche in greco l’espressione phainomenon, ha questo
significato: ciò che ha l’aspetto di apparente, A. ... Soltanto perchè qual-
cosa, in virtù del suo senso, pretende in generale di manifestarsi, cioè di
essere fenomeno, è possibile che essa si manifesti come qualcosa che non è,
cioè abbia l’aspetto di... Noi riserviamo al termine ‘ fenomeno * il
significato positivo e originario di phainomenon e distinguiamo fenomeno da A.,
con- siderando quest’ultima come una modificazione privativa di fenomeno» (Sein
und Zeit, $ 7A). Questo tuttavia non vuol dire che la filosofia con- temporanea
ha identificato l’essere con l’apparenza. Essa ha piuttosto riproposto in nuova
forma il problema del loro rapporto passando a considerare questo rapporto in
forma oggettiva od ontologica cioè senza riferimento ad una qualsiasi
soggettiva- zione idealistica. Non è senza ragione che l’ultima opera
importante nella quale sia stato dibattuto nella forma tradizionale il problema
del rapporto tra apparenza e realtà appartiene a un idealista: F. H. Bradley
(A. e Realtà, 1893). Soprattutto per l’influenza dell’impostazione
fenomenologica (vedi FeNoMENOLOGIA) la considerazione del rapporto tra
l’apparire e l’essere è stata sottratta completamente sia al dualismo tra
questi due termini sia agli altri dualismi coi quali veniva di solito
interpretata, come quello tra sensazione e pensiero, soggettività e
oggettività, ecc. L’intero rapporto si colloca sul piano oggettivo delle
esperienze diverse o dei gradi diversi di esperienza. Un filosofo che fonda le
sue costruzioni su un gruppo di esperienze o su un dato tipo di realtà, che
perciò in qualche modo privilegia e considera fondamentale, è portato a
valutare meno reali o significanti e in qualche modo semplicemente « apparenti
» le altre forme di espe- rienza o gli altri tipi di realtà. E, per es., chi
privilegia l’esperienza interiore o coscienza, è portato a con- siderare come
meno significante o in qualche modo solo « apparente » l’esperienza esterna o
sensibile; o reciprocamente. Ma in ogni caso anche ciò che si dichiara
apparente viene assunto come A. di qualche cosa; perciò dotata, già come A., di
un suo grado o misura di realtà. Sicchè la relazione tra realtà e A. viene a
configurarsi come relazione tra realtà e imagine o realtà e simbolo e, in ogni
caso, tra due gradi o determinazioni oggettive. APPERCEZIONE (ingl.
Apperception; fran- cese Apperception; ted. Apperzeption). Il significato
specifico di questa parola è stato per la prima volta chiarito da Leibniz come
consapevolezza delle proprie percezioni. Dice Leibniz: « La percezione della
luce o del colore, per es., di cui abbiamo l’A., è com- posta di molte piccole
percezioni di cui non ab- biamo l’A.; e un rumore che noi percepiamo ma a cui
non facciamo attenzione diviene appercepibile se subisce un piccolo aumento »
(Nouv. Ess., II, 9, 4). Mentre le percezioni appartengono anche agli
anl’Idealismo romantico (v. IDEALISMO; Io). In senso psicologico-metafisico, il
concetto di A. fu pure inteso da Maine de Biran che chiamò «A. interna
immediata » la coscienza che l’io ha di se stesso come « causa produttrice »
nell’atto di distinguersi dall’effetto sensibile che la sua azione determina
((Euvres inédites, ed. Naville, I, pag. 9; III, pag. 409-10). Un nuovo concetto
dell’A. fu dato da Herbart come fondamento per intendere il meccanismo della
vita rappresentativa. L'A. fu intesa da Herbart come il rapporto tra masse
diverse di rappresen- tazioni il quale fa sì che una massa si appropri
dell’altra al modo stesso in cui le nuove percezioni del senso esterno vengono
accolte ed elaborate dalle rappresentazioni omogenee più vecchie. Questo fe-
nomeno per cui una massa rappresentativa, detta appercipiente, accoglie ed
assimila a sè una o più rappresentazioni omogenee, dette appercepite, è il
fenomeno dell’A., che Herbart identificò col senso interno (Psychol. als
Wissenschaft, II, $ 125). Questa nozione fu molto adoperata nella psicologia e
nella pedagogia dell’800 soprattutto per chiarire il fe- nomeno
dell’apprendimento e per riconoscere le condizioni psicologiche che lo
facilitano. Sul ca- rattere attivo dell'A. come l’atto per il quale un
contenuto psichico viene portato ad una più chiara comprensione, insistè Wundt
che parlò anche di una « psicologia dell’A.» che avrebbe dovuto con- trapporsi
alla dominante psicologia associazionistica appunto per il maggiore rilievo
riconosciuto alla attivitche è difficile (cfr. S. Tommaso, S. 7h., q. I, 81, a.
2). Queste notazioni sono rimaste pressocchè immu- tate per secoli. Hobbes dice
che l’A. e la fuga dif- feriscono dal piacere e dal dolore come il futuro
differisce dal presente: sono esse stesse piacere e dolore ma non presenti,
bensì previsti o aspet- tati (De hom., 11, 1). Spinoza connette l’appetito con
lo sforzo (conatus) della mente di perseverare nel proprio essere per una
durata infinita: « Questo sforzo, egli dice, si chiama volontà quando si at-
tribuisce alla sola mente, si chiama appetito quando si riferisce insieme alla
mente e al corpo; l’appetito, perciò, è l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui
na- tura derivano necessariamente le cose che servono 62 APPRENDIMENTO alla sua
conservazione e che perciò è destinato a compiere » (Er., III, 9, Scol.).
Leibniz vide nell’A. l’azione del principio interno della monade che opera il
mutamento o il passaggio da una perce- zione all'altra (Monad., $ 15). Kant
definì l’A. come «la determinazione spontanea della forza propria di un
soggetto, che avviene per mezzo della rap- presentazione di una cosa futura
considerata come effetto della forza medesima » (Antr., $ 73). L’A. costituisce
perciò quella che, nella Critica della Ragion Pratica, egli chiama «facoltà di
deside- rare inferiore» la quale presuppone sempre, come suo motivo determinante,
un oggetto empirico: a differenza della facoltà di desiderare « superiore » che
è determinata dalla semplice rappresentazione della legge (Cri. R. Pratica,
libro I, cap. I, $ 3, Scol. I). Nella filosofia moderna e contemporanea il ter-
mine A. è caduto in disuso ed è stato sostituito da altri come « tendenza » o «
volontà », ai quali ven- gono talora riferite le determinazioni che la filo-
sofia antica aveva attribuite all’appetizione. APPRENDIMENTO (gr. pd@nas; ingl.
Learning; franc. Apprendre; ted. Erlernung). L’acqui- sizione di una tecnica
qualsiasi, simbolica, emotiva o di comportamento: cioè un mutamento nelle ri-
sposte di un organismo all’ambiente che migliori tali risposte ai fini della
conservazione e dello svi- luppo dell’organismo stesso. Tale è il concetto che
la psicologia moderna dà dell’A., pur nella varietà delle teorie che presenta.
Questo concetto d'altronde non è che la generalizzazione di una nozione
antichissima dell’A., considerato come forma di associazione. Fu Platone il
primo a il- lustrare questa nozione con la sua teoria della anamnesi: « Tutta
la natura essendo congenita, egli diceva, ed avendo l’anima appreso tutto,
nulla im- pedisce che chi si ricorda di una sola cosa — che è quello che si
chiama apprendimento — trovi da sè tutto il resto se abbia costanza e non
desista dalla ricerca, perchè il ricercare e l’apprendere non son altro che
reminiscenza » (Men., 81d). L’A. è perciò secondo Platone dovuto
all’associazione delle cose tra loro per cui l’anima può, dopo aver af- ferrato
una cosa, afferrare anche l’altra che è legata con essa. Non sostanzialmente
diversa da questa fu la teoria avanzata da Herbart, secondo la quale l’A. di
premio e punizione. Le prime reazioni ad una situazione problematica sono date
a caso. Quando una di queste reazioni ha suc- cesso, essa viene scelta nelle
prove successive, riu- scendo infine ad eliminare le altre. Thorndike ha
formulato a questo proposito la cosiddetta /egge dell’effetto secondo la quale
la risposta a uno sti- molo è rafforzata, se è seguita da un premio. Se- condo
lo stesso Thorndike, questi due fattori, la ripetizione della reazione
indovinata e il premio, bastano a spiegare tutti i processi dell’A. e quindi
l’intera condotta dell’uomo (cfr. Animal Intelli- gence: Experimental Studies,
1911; The Psychology of Wants, Interests and Attitudes, 1935, spec. pa- gina
24). Più recentemente le stesse idee sono state generalizzate da Hull che ha
insistito sui moventi dell’A., scorgendovi uno stato di bisogno. Uno sti- molo
condizionato può rimanere attaccato ad una risposta che lo segue solo se questa
produce una diminuzione del bisogno (Principles of Behavior, 1943). Se questa
dottrina sia sufficiente a spiegare l’A. umano, è cosa su cui gli psicologi non
sono d’ac- cordo (cfr. la discussione relativa in E. R. HILGARD, Theories of
Learning, 1948). Il dubbio concerne il problema se l’A. consista semplicemente
nel dare risposte indovinate o se esso implichi anche la scelta intelligente di
tali risposte in base a deter- minati perchè. Sembra difficile escludere dal
pro- cesso umano dell’A. le scelte intelligenti guidate dalle relazioni
espresse dai segni « se», « ma», «come», «non di meno», ecc. Da questo punto di
vista il fatto che l’uomo intenda la relazione tra i segni e le risposte è un
elemento dell’A., non riducibile alla pura legge dell'effetto (cfr. M.
WERTHEIMER, Productive Thinking, 1945). APPRENSIONE (lat. Apprehensio; ingl.
Ap- prehension; franc. Appréhension; ted. Apprehenzion). Termine introdotto
dalla Scolastica del ’300 per designare l’atto con cui si apprende o si assume
come oggetto un termine qualsiasi (concetto, pro- posizione o qualità
sensibile), in quanto distinto dall’assenso (v.) con cui propriamente si
giudica di esso e cioè lo si afferma o lo si nega. Ockham dice: « Fra gli atti
dell’intelletto, uno è quello apprensivo che si riferisce a tutto ciò cui mette
capo l’atto della potenza intellettiva, l’altro si può dire giu- dicativo
giacchè con esso l'intelletto non soltanto apprende l’oggetto, ma anche
assentisce ad esso o A PRIORI, A POSTERIORI 63 ne dissente » (/n Sent., Prol.,
q. 1, O). L’atto ap- prensivo può consistere sia nella formazione di una
proposizione sia nella conoscenza di un complesso già formato (Quodl., V, q.
6). La parola viene anche adoperata da Wolff (Log., $ 33) e Kant se ne avvalse
nella prima edizione della Critica della Ragion Pura (Deduzione dei concetti
puri dell’in- telletto) parlando di una « sintesi dell’A. » che con- sisterebbe
nel raccogliere il molteplice della rap- presentazione in modo che da esso
sorga «l’unità dell’intuizione ». Talvolta, nell’uso moderno, A. viene
contrapposta a comprensione come cono- scenza primitiva o semplice che non cobi
in poi, la filosofia araba aveva formulato la distinzione tra la dimostrazione
propter quid e la dimostrazione quia, che da Alberto di Sassonia furono poi
chiamate rispettivamente di- mostrazioni @ priori e dimostrazioni a posteriori.
«La dimostrazione è duplice, dice Alberto; una è quella che procede dalle cause
all'effetto e si chiama dimostrazione a priori o dimostrazione propter quid o
dimostrazione perfetta, e questa dimostrazione fa conoscere la ragione per cui
l’effetto è. L’altra è la dimostrazione che procede dagli effetti alle cause e
si chiama dimostrazione a posteriori o di- mostrazione quia o dimostrazione non
perfetta, e questa dimostrazione ci fa conoscere le cause per le quali
l’effetto è » (In An. Post., I, q. 9). I due termini vengono adoperati per
tutta la Scolastica e fino al sec. xvi appunto in questo senso, per indicare
due specie di dimostrazione. 2° A partire dal sec. xvi, per opera di Locke e
dell’empirismo inglese, i due termini acquistano un significato più generale
passando a designare, l’a priori, le conoscenze raggiungibili mediante l’eser-
cizio della pura ragione e l’a posteriori, invece quelle raggiungibili con
l’esperienza. Hume e Leibniz sono d’accordo nel contrapporre, in questo senso,
a priori e a posteriori. Dice Hume: « Oso affermare, come proposizione generale
che non ammette ecce- zione, che la conoscenza della relazione di causa ed
effetto non è, in nessun caso, raggiunta, ragio- nando a priori, ma sorge
interamente dall’esperienza quando noi troviamo che certi particolari oggetti
sono costantemente uniti con altri» (Zng. Conc. Underst., IV, 1). E Leibniz
contrappone costan- temente il «conoscere a priori» e il « conoscere per
esperienza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 15; Monad., $ 76); «la filosofia
sperimentale che procede a po- steriori» e la «pura ragione» che «giustifica @
priori » (Op., ed. Erdmann, pag. 778 b). Wolff espri- meva con la sua solita
chiarezza l’uso dominante ai suoi tempi dicendo: « Ciò che apprendiamo con
l’esperienza, diciamo di conoscerlo a posteriori; ciò che ci è noto col
ragionamento diciamo di co- noscerlo a priori » (Psychol. emp., $$ 5, 434 sgg.).
La nozione kantiana dell’a priori, come cono- scenza indipendente
dall’esperienza, ma non pre- cedente (nel senso cronologico)
l’esperiecostituisce non un campo o dominio a parte di conoscenze ma la
condizione di ogni conoscenza oggettiva. L’a priori è la forma della
conoscenza, come l’a posteriori è il contenuto. Sull’a priori si fondano le
conoscenze della matematica e della fisica pura; ma l’a priori di per se stesso
non è conoscenza ma la funzione che condiziona universalmente ogni co-
noscenza, sia sensibile che intellettuale. I giudizi sintetici a priori sono
infatti possibili in virtù delle forme a priori della sensibilità e
dell’intelletto. L'a priori è per Kant l’elemento formale cioè in- sieme
condizionante e fondante di tutti i gradi della conoscenza; e non solo della
conoscenza, giacchè anche nel dominio della volontà e del sen- timento
sussistono elementi a priori, come dimo- strano la Critica della Ragion Pratica
e la Critica del giudizio. La nozione kantiana dell’a priori è stata assunta o
presupposta da buona parte della filosofia moderna. L’Idealismo romantico la
cor- resse nel senso di ammettere che l’intero sapere è a priori, cioè
interamente prodotto dall'attività produttiva dell’Io. Così pensarono Fichte e
Schel- ling. Hegel ritenne che il pensiero è essenzialmente la negazione di un
esistente immediato, quindi di tutto ciò che è a posteriori o fondato
nell’espe- rienza. L°a priori è invece la riflessione e la me- diazione
dell’immediatezza, cioè l'universalità, lo «starsene del pensiero in se stesso»
(Enc., $ 12). Più frequentemente, nella filosofia moderna, l’a priori conserva
il significato kantiano. E a tale si- sono i seguenti: 1° La nozione di Dio
come dell’Essere neces- sario, cioè tale che non può non esistere, e del mondo
come derivante da Dio la sua propria ne- cessità. In quanto prodotti da una
Causa prima necessaria, tutti gli eventi del mondo sono a loro volta necessari.
Gli Arabi ammettono una inin- terrotta catena causale che va da Dio, come Primo
Motore, alle Intelligenze celesti e ai cieli, infine agli avvenimenti terrestri
e all'uomo. Essi giustificano perciò l’astrologia, spiegandone le deficienze
con l’imperfetto grado di osservazione. 2° La dottrina dell’intelletto agente o
attivo come una sostanza di natura divina, separata dal- l’anima umana:
dottrina che Averroè modificò nel senso di ritenere separato dall’uomo e divino
anche l'intelletto passivo o potenziale che Ai Kindi e Alfarabi ritenevano
propri dell’uomo. All’uomo appartiene, secondo Averroè, soltanto una specie di
riproduzione o d’imagine del vero intelletto. L'unico intelletto divino si
moltiplica nelle varie anime umane come la luce del sole si moltiplica distri-
buendosi sui vari oggetti che illumina. Questa dot- trina, che metteva in
dubbio l’immortalità dell’anima umana, in quanto separava da essa e attribuiva
a Dio la sua parte più alta e immateriale, venne chia- mata dottrina dell’unità
dell’intelletto. ARCHEUS 65 3° La tendenza propria dell’aristotelismo e in
particolare di Averroè a porre la filosofia al di sopra della religione,
attribuendole il fine della con- templazione e riservando alla religione il
dominio dell'azionein quanto accompagna la massima fioritura del- l’Impero
arabo nel Mediterraneo, ha avuto notevole influenza sulla Scolastica latina. In
primo luogo, essa ha fornito a tale Scolastica buona parte del suo materiale;
che le è pervenuto attraverso le traduzioni latine delle traduzioni arabe delle
tra- duzioni siriache delle opere di autori greci. In se- condo luogo, essa le
ha offerto un costante punto di riferimento polemico, portandola ad organiz-
zarsi come filosofia della libertà di fronte alla filosofia della necessità del
mondo musulmano. L’aristotelismo stesso, al suo primo comparire nel mondo
occidentale, fu identificato con la sua in- terpretazione A.; e solo per opera
di Alberto Magno e di S. Tommaso fu poi adattato alle esigenze della Scolastica
cristiana (v. SCOLASTICA). ARAZIONALE (gr. &oyoc; lat. Alogus; in- glese
Arational; franc. Alogique; ted. Alogisch). Ciò che è privo di ragione o non si
può esprimere o spiegare razionalmente: lo stesso che irrazionale. Questo è
l’uso classico del termine (PLATONE, Gorg., SOl a; Conv., 202a; Teet., 205e;
Sof., 238 c, ecc.; ARIST., Et. Nic., X, 2, 1172 b 10). Il termine greco (come
quello latino) serve anche a designare le grandezze incommensurabili che noi
chiamiamo irrazionali (ARIST., An. Post., I, 10, 76b 9; EUCLIDE, Z/., X, def.
10, ecc.). L’uso moderno ha tentato, raramente e senza successo, di distinguere
A. da irrazionale. ARBITRIO (lat.
Arbitrium, ingl. Free Will; fran- cese Arbitre; ted. Willkur). Il principio dell’azione negli animali e
nell’uomo. A. è perciò termine più generale di volontà (v.) la quale può essere
attri- buita solo all'uomo. Dice Kant: « È A. semplice- mente animale (arbitrium
brutum) quello che non può essere determinato se non da stimoli sensibili 8 —
ABBAGNANO, Dizionurio di filosofia. ossia patologicamente. Ma quello che è
indipen- dente da stimoli sensibili, e quindi può essere de- terminato da
motivi che non sono rappresentati se non dalla ragione, dicesi libero A.
(arbitrium liberum) e tutto ciò che vi si connette o come prin- cipio o come
conseguenza è detto pratico » (Critica KR. Pura, Dottr. trascendentale del
metodo; Il ca- none della R. Pura, sez. I). L’A. implica così una possibilità
di scelta, che tuttavia non è ancora libertà. Per libero A. v. LIBERTÀ. di
manifestazioni del passato e le proietta come possibilità per l’avvenire. La
storia A. considera invece ciò che è stata nel passato la vita di ogni giorno e
radica in essa la mediocrità del presente. La storia critica serve invece a
rom- rla col passato, a rinnovarsi (v. STORIA). ARCHETIPO (lat. Archetypus;
ingl. Arche- type; ted. Archetyp, Urbild). Il modello o l’esem- plare
originario o l’originale di una serie qualsiasi. A. sono state dette le idee
platoniche in quanto modelli delle cose sensibili e, più frequentemente, le
idee esistenti nella mente di Dio, come modelli delle cose create (PLOTINO,
Enn., V, 1, 4; PROCLO, in Rep., II, 296). Ma Locke (Saggio, II, 31, $ 1)
adoperò la parola A. per dire soltanto modello: « Chiamo adeguate le idee che
rappresentano per- fettamente gli A. da cui la mente suppone siano state
tratte, che essa intende siano rappresentate da quelle idee e cui essa le
riferisce». A., in questo caso, sono le forze naturali, le idee sem- plici o le
idee complesse che si assumono come modelli per misurare l’adeguatezza delle
altre idee (v. EcTIPO). ARCHEUS. Secondo Teofrasto Paracelso, è la forza che
muove gli elementi, cioè lo spirito ani- matore della natura. Come tutte le
cose sono com- poste di tre elementi (zolfo, sale, mercurio), così tutte le
forze che le animano sono costituite dai loro arcani, cioè dall’attività
incosciente dell'A. (Meteor., pag. 79 sgg.). 66 ARCHITETTONICA ARCHITETTONICA
(gr. dpyitextovii) TEX; ingl. Architectonics; franc. Architectonique; ted. Ar-
chitektonik). In generale l’arte di costruire in quanto suppone la capacità di
subordinare i mezzi al fine e il fine meno importante a quello più importante.
In questo senso la parola è usata da Aristotele (Et. Nic., I, 1, 1094 a 26) il
quale parla anche (Et. Eud., I, 6, 1217 a) di una «intelligenza A. e pratica »
cioè costruttiva e operativa. La parola fu usata per la prima volta come nome
di una disci- plina filosofica da Lambert che intitolò ad essa una sua opera
(Architettonica, 1771) e la intese come «la teoria degli elementi semplici e
primitivi nella conoscenza filosofica e matematica ». Kant riprese la parola
per indicare «l’arte del sistema » al quale dedicò un capitolo (il III) nella
seconda parte principale della Critica della Ragion Pura. Come sisGOMENTO (gr.
2606; lat. Argumentum; ingl. Argument; franc. Argument; ted. Argument). 1. In
un primo significato, A. è qualsiasi ragione, prova, dimostrazione, indizio,
motivo, che sia adatto a captare l’assenso e a indurre persuasione o con-
vinzione. A. comuni o tipici o schemi di A. sono i luoghi (rérrot, loci) che
costituiscono l’oggetto dei Topici di Aristotele. Cicerone infatti definiva i
luoghi come le sedi dalle quali provengono gli A. i quali sono « le ragioni che
fanno fede di una cosa dubbia » (Top., 2, 7). Il significato generalissimo
della pa- rola A. risulta chiaro anche nella definizione di S. Tommaso: «A. è
ciò che convince (arguit) la mente ad assentire a qualcosa» (De ver., q. 14, a.
2, ob. 14); e in quella di Pietro Ispano che ri- prendcui il discorso verte o
può vertere. A questo secondo significato del termine si riconnette l’uso di
esso nella logica e nella matematica per indicare i valori delle va- riabili
indipendenti di una funzione. A. è in questo senso ciò che riempie lo spazio
vuoto di una fun- zione o ciò a cui la funzione deve essere applicata perchè
abbia un valore determinato. La parola è stata per la prima volta usata in
questo senso da G. Frege, Funktion und Begriff, 1891 (v. FUNZIONE).
ARISTOCRAZIA. V. Governo, FORME DI. ARISTOTELISMO (ingl. Aristotelianism; fran-
cese Aristotélisme; ted. Aristorelismus). Con questo termine s'intendono alcuni
capisaldi della dottrina di Aristotele che sono passati nella tradizione filo-
sofica o hanno ispirato le scuole o i movimenti che più direttamente si rifanno
ad Aristotele stesso, come la Scuola peripatetica, l’A. arabo, l’A. cri- stiano
medievale, l’A. del Rinascimento e varie altre tendenze del mondo medievale e
moderno. Tali capisaldi possono essere riassunti nel modo seguente: 1°
L'importanza accordata da Aristotele al mondo della natura e il valore e la
dignità delle indagini ad esso dirette. Mentre Platone pensava che tali
indagini non possono raggiungere che un certo grado di probabilità assai
inferiore alla co- noscenza scientifica (Tim., 29 c), Aristotele ritenne che
non c’è nella natura nulla di così insignificante che non valga la pena di
essere studiato, dato che, in ogni caso, il vero oggetto dell’indagine è la
sostanza delle cose (v. SOSTANZA). 2° Il concetto della metafisica come
filosofia prima e teoria della sostanza e come fondamento della intera
enciclopedia delle scienze (v. METAFISICA). 3° La dottrina delle quattro cause
(formale, materiale, efficiente, finale) e quella del movimento, come passaggio
dalla porenza all’atto, che con- sentirono ad Aristotele l’interpretazione
della intera realtà naturale (v. le voci corrispondenti). 4° La teologia con il
suo concetto di Primo Motore e di Atto puro (v. Dio). 5° La dottrina
dell’essenza sostanziale o ne- cessaria, posta a base della teoria della
conoscenza e della logica (v. ANIMA; ESSENZA; ESSERE). 6° L'importanza
attribuita alla logica, di cui Aristotele è il primo espositore sistematico,
come ARTE 67 strumento di ogni conoscenza scientifica (v. Con- CETTO; LOGICA;
SILLOGISMO; TOPICA; ecc.). Le varie correnti dell’A. si sono rifatte, abitual-
mente, soltanto ad alcuni di questi capisaldi e ciò spiega perchè l’A. è talora
apparso come una metafisica teologica (nella Scolastica medievale) ta- lora
come naturalismo (nel Rinascimento) e talaltra come spiritualismo (in alcune
interpretazioni mo- derne, per es., quelle di Ravaisson e Brentano). ARITMETICA
(ingl. Arithmetic; franc. Ari- thmétique; ted. Arithmetik). La teoria
matematica dei numeri naturali, cioè dei numeri interi positivi. S’intendono
comunemente per leggi dell’A. le se- guenti proposizioni o regole: lo a+b=b+a
(legge commutativa dell’ad- dizione); 2° ab = ba (legge commutativa della
molti- plicazione); 3° a+(b+0=(a+td5)+c (legge associa- tiva dell’addizione);
4° a (bc) = (ab)c (legge associativa della mol- tiplicazione); 5° a(b + c) = ab
+ ac (legge distributiva). La formalizzazione dell’A. cioè la riduzione del-
l’A. ad un sistema logico fondata su pochi assiomi è stata effettuata per la
prima volta da Peano che si avvalse di alcuni concetti di Dedekind. Peano
presuppose come nozioni primitive quella di zero, quella di insieme di numeri
naturali e quella di suc- cessione espressa con l’espressione i/ successivo di.
Egli fece vedere come tutte le proposizioni dell’A. si lasciassero derivare dai
cinque assiomi seguenti: 1° 0 è un numero naturale; 2° se x è un numero
naturale, il numero suc- cessivo è anche un numero naturale; 3° se x e y sono
numeri naturali e se il suc- cessivo di x è identico al successivo di y, allora
x e y sono identici; 4° se x è un numero naturale, il numero suc- cessivo di x
è differente da 0; 5° se 0 appartiene a un insieme a e se il succes» sivo di un
numero naturale qualunque appartiene anche a questo insieme, l'insieme dei
numeri naturali è una parte di a. Con l’espressione aritmetizzazione della
matema- tica s'intende talora l’esigenza che si affacciò verso la metà
dell’800, nel campo delle matematiche, ad opera soprattutto di Weierstrass, di
dare unità e rigore logico all’analisi matematica, fondandola sopra una teoria
dei numeri reali. Questa teoria fu poi sviluppata da Giorgio Cantor (1845-1918)
e Riccardo Dedekind (1831-1916). Cfr. le memorie di logica matematica di Peano
ora raccolte in Opere Scelte, Roma, 1958. Cfr. pure B. RusseLL, /Introduction to Mathematical
Philo- sophy, 1918 (v. MATEMATICA: NUMERO). ARMONIA (gr. dpuovia; lat. Yarmonia; inglese Harmony;
franc. Harmonie; ted. Harmonie). L’or- dine o la disposizione finalisticamente
organizzata delle parti di un tutto, per es., del mondo, o dell’anima, la quale
fu detta « A.» dai Pitagorici in quanto proporzione o mescolanza degli elementi
corporei (cfr. PLAT., Fed., 86 c). Empedocle si av- valse del concetto per
definire la natura dello sfero (Fr. 122, Diels). Il termine è stato usato da
Leibniz nell’espressione A. prestabilita per designare un par- ticolare sistema
di comunicazione tra le sostanze spi- rituali (monadi) che compongono il mondo.
Leibniz ritiene che tali sostanze non possono influenzarsi re- ciprocamente
essendo ognuna « chiusa in se stessa » e perciò esclude la dottrina comunemente
ammessa della influenza reciproca. Esclude pure la dottrina che egli chiama
della assistenza e che è propria del sistema delle cause occasionali di
Guelingx e Malebranche secondo il quale la comunicazione tra le varie monadi
sarebbe stabilita di volta in volta direttamente da Dio. L’A. prestabilita è la
dottrina secondo la quale le varie monadi, come tanti oro- logi costruiti
perfettamente, sono sempre tra loro d’accordo, pur seguendo ognuna la propria
legge. Così l’anima e il corpo vivono ognuno per proprio conto e tuttavia
d’accordo perchè Dio ha coordi- nato le leggi dell’uno e dell’altra. Il corpo
segue la legge meccanica, l’anima segue la propria spon- taneità: l’A. tra essi
è stata predisposta da Dio all’atto della creazione (Phil. Schriften, ed. Ger-
hardt, IV, pag. 500 sgg.). Il termine ricorre frequentemente nello spiritua-
lismo, specialmente in Ravaisson. Si è avvalso di esso Whitehead per spiegare
la bellezza, la verità, il bene nonchè la libertà e la pace e tutta «la grande
avventura cosmica ». «La grande A., egli dice (Adventures of Ideas, pag. 362),
è l’A. di individua- lità durature connesse nell’unità del fondamento. È per
questa ragione che la nozione di libertà non ab- bandona mai le civiltà più
alte; la libertà in ognuno dei suoi molti sensi è l’esigenza di una vigorosa
autoaffermazione ». ARS MAGNA V. COMBINATORIA, ARTE. ARTE (gr. teyxvà; lat. Ars;
ingl. Ars; franc. Art; ted. Kunsto erworatuei) di cui la prima consiste sem-
plicemente nel conoscere, la seconda nel dirigere, in base alla conoscenza, una
determinata attività (Pol., 260 a, b; 292 c). In tal modo I’A. comprende per
Platone ogni attività umana ordinata (com- presa la scienza) e si distingue nel
suo complesso dalla natura (Rep., 381 a). — Aristotele restrinse notevolmente
il concetto dell’arte. In primo luogo egli sottrae all’àmbito dell'A. la sfera
della scienza, che è quella del necessario, cioè di ciò che non può essere
diverso da com'è. In secondo luogo egli divide quel che cade fuori della
scienza, cioè il possibile (che « può essere in un modo o nell’altro ») in ciò
che appartiene all’azione e in ciò che appar- tiene alla produzione. Soltanto
il possibile che è oggetto di produzione, è oggetto dell’arte. In questo senso
si dice che l’architettura è un’A.; e l’A. si definisce come l’abito,
accompagnato da ragione, di produrre qualcosa (Et. Nic., VI, 3-4). L’àm- bito
dell’A. viene così a restringersi molto. Sono A. la retorica e la poetica, ma
non è A. l’analitica (la logica) il cui oggetto è necessario. Sono A. quelle
manuali o meccaniche, come è A. la medicina; mentre non è A. la fisica o la
matematica. Questo è, almeno, il punto di vista di Aristotele maturo; giacchè
le pagine con cui si apre la Metafisica sembrano invece stabilire una
distinzione puramente di grado tra l’A. e la scienza, ponendo l’A. stessa come
intermediaria tra l’esperienza e la scienza. Anche quelle pagine si concludono
tuttavia con l’affermazione che la sapienza è piuttosto cono- scenza teoretica
anzichè A. produttiva (Mer., I, 1, 982 a 1 sgg.). Questa distinzione
aristotelica non fu però ereditata nel suo rigore dal mondo antico e medievale.
Gli Stoici estesero di nuovo la nozione dell’A., affermando che « l’A. è un
insieme di com- prensioni », intendendo per comprensione l’assenso od una
rappresentazione comprensiva (Sesto E., Ip. Pirr., Ill, 241; Adv. dogm., V,
182); questa de- finizione non permette infatti di distinguere l’A. dalla
scienza. E Plotino che fa invece questa di- stinzione perchè vuole conservare
alla scienza il suo carattere contemplativo, distingue le A. in base al loro
rapporto con la natura. Distingue pertanto l’architettura e le A. analoghe, che
hanno il loro termine nella fabbricazione di un oggetto, da quelle che si
limitano ad aiutare la natura come la medi- cina e l’agricoltura e dalle A.
pratiche, come la reto- rica e la musica, che tendono ad agire sugli uomini,
rendendoli migliori o peggiori (Enn., IV, 4, 31). A partire dal sec. 1 si
chiamarono « A. liberali » (cioè degne dell’uomo libero) in contrasto con le A.
manuali, nove discipline, alcune delle quali Ari- stotele avrebbe chiamate
scienze e non arti. Queste discipline furono enumerate da Varrone: gramma-
tica, retorica, logica, aritmetica, geometria, astro- nomia, musica,
architettura e medicina. Più tardi, nel sec. v, Marciano Capella nelle Nozze di
Mercurio e della filologia riduceva a sette le A. liberali (gram- matica,
retorica, logica, aritmetica, geometria, astro- nomia e musica), eliminando
quelle che gli parevano non necessarie ad un essere puramente spirituale {che
non ha corpo) cioè l’architettura e la medi- cina e stabilendo così il
curriculum di studi che doveva restare immutato per molti secoli (v. CuL-
TURA). S. Tommaso stabiliva la distinzione tra A. liberali e A. servili sul
fondamento che le prime sono dirette al lavoro della ragione, le seconde in-
vece « ai lavori esercitati con il corpo, che sono in un certo modo servili, in
quanto il corpo è sotto- messo servilmente all’anima e l’uomo è libero se-
condo l’anima » (S. 7h., II, 1, q. 57, a. 3, ad 3). La parola A. rimase
tuttavia a designare per lungo tempo non solo le A. liberali ma anche le A.
mec- caniche, cioè i mestieri; come ancora accade oggi che intendiamo per A. o
artigiano un mestiere o chi pratica un mestiere. Kant ha riassunto le ca-
ratteristiche tradizionali del concetto quando ha distinto l’A. dalla natura da
un lato, dalla scienza dall’altro; e ha distinto, nell’A. stessa, l'A. mec-
canica e l’A. estetica. Su quest’ultimo punto egli dice: «Quando l’A.,
conformemente alla cono- scenza di un oggetto possibile, compie soltanto le
operazioni necessarie per realizzarlo, essa è A. mec- canica; se invece ha per
scopo immediato il senti- mento di piacere, è A. estetica. Questa è A.
piacevole o A. bella. È piacevole quando il suo scopo è di far sl che il
piacere si accompagni alle rappresen- tazioni in quanto semplici sensazioni; è
bella quando il suo scopo è di accno strato geologico è perciò comunemente
assunta dagli antropologi come segno della presenza dell’uomo nell’età
corrispondente: e la natura e la com- plessità degli A. si assumono come base
per distin- guere i tipi di cultura cui appartengono. L’A., per essere
riconosciuto tale, deve manifestare l’inten- zione, preesistente alla sua
costruzione, di utiliz- zarlo per uno scopo determinato: cioè costituire la
realizzazione di un progetto (v.). ARTEFICE INTERNO. Così Giordano Bruno chiamò
nel De /a causa, principio e uno l'intelletto universale, che è «l’intima più
reale e propria facultà e parte potenziale de la anima del mondo +»: perchè «
forma la materia e la figura da dentro ». ASCESI (gr. &oxna; ingl. Ascesis;
franc. Ascèse; ted. Askese). La parola significa propriamente eser- cizio e
originariamente indicò l’allenamento degli atleti e le loro regole di vita. Con
i Pitagorici, i Cinici e gli Stoici, la parola si cominciò ad appli- care alla
vita morale in quanto la realizzazione della virtù implica limitazione dei
desideri e rinuncia. Il senso di rinuncia e di mortificazione divenne perciò
prevalente; A. significò nel Medioevo la mortificazione della carne e la
purificazione dai legami corporei. La rivolta contro l’ideale ascetico si
iniziò col Rinascimento cioè con la rivalutazione degli aspetti corporei e
sensibili dell’uomo. Kant considera l’ascetica morale come « l’esercizio fermo,
coraggioso e ardito della virtù» e la contrappone all’A. monacale « che per
timore superstizioso o per ipocrito orrore di sè usa mortificare e trascurare
il proprio corpo »; e si castiga invece di pentirsi moralmente, cioè di
prendere la risoluzione di cor- reggersi (Meraph. der Sitten, II, $ 53).
Schopen- hauer ha dato un significato metafisico all’A. in cui ha visto «l'orrore
dell’uomo per l’essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la
volontà di vivere, per il nòcciolo e l’essenza di un mondo riconosciuto pieno
di dolore» (Die Welt, I, $ 68), e perciò il solo strumento di liberazione, di
cui l’uomo disponga. ASCETISMO (ingl. Asceticism; franc. Ascé- tisme; ted.
Asketismus). La pratica dell’ascesi. ASEITÀ (lat. Aseitas; ingl. Aseity; franc.
Aséité; ted. Aseitàt). Qualità o carattere dell’essere che ha in se stesso la
causa e il principio del proprio es- sere, cioè di Dio. Abalietà è la qualità
contraria, cioè quella dell’essere che ha in un altro essere la sua causa.
Vocaboli usati nella tarda Scola- stica. ASILLOGISTICO. V. ANAPODITTICO. ASINO
DI BURIDANO (ingl. Buridan®s Ass; franc. Ane de Buridan; ted. Esel des
Buridan). Gio- vanni Buridano maestro e rettore dell’Università di Parigi nella
prima metà del xv secolo fu disce- polo di Ockham ed è importante per alcune
os- servazioni che anticipano il principio d'inerzia della meccanica moderna
(v. ImpETO). Il caso dell’A., il quale, messo in mezzo tra due fasci di fieno
uguali morrebbe di fame prima di decidersi a mangiare l’uno o l’altro di essi,
non si trova nelle sue opere. Se ne trovano però le premesse. Buridano ritiene
infatti che la volontà segue necessariamente il giu- dizio dell’intelletto; per
es., si decide per il bene maggiore, se l’intelletto lo giudica tale. Ma quando
l’intelletto giudica uguali due beni, la volontà non può decidersi nè per l’uno
nè per l’altro: la scelta non avviene (/n Eth., III, q. 1). Questo è proprio il
caso dell’asino. Soltanto che Buridano ritiene che l’uomo può non morire di
fame come l’A.: può difatti sospendere o impedire il giudizio dell’intel- letto
(/bid., III, q. 4). L'origine del caso (per quanto non riferito all’A.) si trova
in Aristotele: « Si dice che chi è molto assetato o affamato, se si trova a
uguale distanza dal cibo e dalla bevanda, neces- sariamente rimane immobile
dove si trova» (De Cael., II, 13, 295 b 33). E neanche Dante riferisce il caso
all’A.: «Intra duo cibi, distanti e moventi — D’un modo, prima si morria di
fame — Che liber uom l’un si recasse a’ denti» (Par., IV, 1-3). In realtà la
discussione intorno al caso dell’A. di Buridano fu propria di un periodo
(l’ultima Sco- lastica) nel quale si accentuò il carattere arbitrario della
scelta volontaria e si intese la libertà dell’uomo come « arbitrio
d’indifferenza » (v. LIBERTÀ). ASOMATICO (ingl. Asomatous; franc. Asoma- tique;
ted. Asomatisch). Privo di corpo o disincar- nato. La condizione dell'anima
dopo la sua sepa- razione dal corpo, o delle sostanze angeliche. ASPETTAZIONE
(ingl. Expectation; francese Attente; ted. Erwartung). L’anticipazione di un
av- venimento futuro (v. AvvENIRE). Una delle forme dell’attenzione o
attenzione aspettansito egli dice: « L’intelletto può assentire ad una cosa in
due modi. Nel primo modo, perchè è mosso ad assentire dallo stesso oggetto o
perchè è cognito di per se stesso, come accade dei primi principi di cui
abbiamo intelligenza, o perchè è conosciuto attraverso altro come accade delle
con- clusioni di cui abbiamo scienza. Nel secondo modo, l'intelletto assentisce
a qualcosa, non perchè sia mosso sufficientemente dal suo proprio oggetto, ma
per una scelta volontaria che lo inclina da una parte piuttosto che dall’altra.
Ora se questo ac- cadrà insieme col dubbio e col timore che l’altra parte sia
vera, si avrà l’opinione; se accadrà invece con certezza e senza quel timore,
si avrà la fede » (S. Th., II, 2, q. 1, a. 4). Nell’ultima fase della Sco-
lastica la dottrina dell’A. fu elaborata da Ockham. Secondo Ockham, l’atto
dell’A. accompagna l’atto dell’apprendimento. « Chiunque apprende una pro-
posizione, egli dice (Ir Sent., Prol., q. 1 55), as- sente, dissente o dubita
di essa ». La teoria dell’A. è sostanzialmente la teoria dell’errore. Secondo
Ockham, quando una proposizione è empiricamente o razionalmente evidente, l’A.
è garantito dalla sua evidenza; mentre quando questa evidenza manca l’A. è più
o meno volontario e va incontro alla pos- sibilità dell’errore (/bid., II, q. 25).
Una dottrina analoga si trova in Cartesio. Per giudicare si richiede in primo
luogo l’intelletto, dato che non si può giudicare su ciò di cui non si ha
l’apprensione, e in secondo luogo la volontà per cui si assentisce a ciò cosa
(Scienza morale, ed. naz. 1941, pag. 109). La Grammatica dell’A. (1870) di
Newmann distinse l’A. reale, che si dirige alle cose, dall’A. nozionale che si
dirige alle proposizioni. L’A. nozionale è ciò che viene chiamato professione,
opinione, pre- sunzione, speculazione; l’A. reale è la credenza. L’A. nozionale
ad una proposizione dogmatica è un atto teologico, l’A. reale alla stessa
proposizione è un atto religioso. Le due cose non si contraddi- cono, ma solo
l’A. reale raggiunge al credo dogma- tico i sentimenti e le imaginazioni che
condizionano la sua validità religiosa. Queste idee di Newmann riprese e
sviluppate da Ollé-Laprune e da Blondel dettero lo spunto alla filosofia
dell’azione (v.). ASSENZA. V. NULLA. ASSERZIONE (gr. &répavote, Abyog
drtopam degli Stoici. E in realtà i due termini sono equivalenti, finchè non si
consideri il diverso contesto in cui trovano posto (v. ENUNCIATO e
PROPOSIZIONE). Nella logica matematica contemporanea Russell, sull'esempio di
Frege seguito da molti altri logici ha introdotto un simbolo speciale (° — ’)
da ante- porre al simbolo dell’asserzione. La logica termi- nistica medievale
riconosceva, invece che le espres- sioni «è vero che ‘p’» e ‘p’ (dove ’p’ è il
segno di una proposizione) sono da considerarsi sinonime. L’A. tuttavia implica
in ogni caso che si creda o si assentisca alla proposizione (v.) espressa; e
come tale è talora distinta da enunciato (v.). Cfr. .As- SENSO. G.P. ASSIALE,
EPOCA. V. Epoca. ASSICURAZIONE (ingl. Security; franc. As- surancej ted.
Assecuranz)ì. Un sistema di A. fu suggerito da Royce per realizzare quella che
egli chiamava la « Grande comunità » umana. L’A. è difatti un’associazione
fondata sul principio tria- dico dell’interpretazione: come in questa c’è l’in-
terprete che interpreta qualcosa a qualcuno, così nell’A. ci sono con lo stesso
rapporto l’assicurato, l'assicuratore e il beneficiario (La speranza nella
grande comunità, 1916). Royce ha anche suggerito lA. contro la guerra (Guerra e
A., 1914). ASSIOMA (gr. dElwua; lat. Axioma; inglese Axiom; franc. Axiome; ted.
Axiom). Originaria- mente la parola significa dignità o valore (gli Sco-
lastici e Vico dicevano appunto degnità) e fu adope- rata dagli Stoici per
indicare l’enunciato dichiarativo che Aristotele chiamava apofantico (Diog. L.,
VII, 65). I matematici l’usarono per designare i principi indimostrabili, ma
evidenti, della loro scienza. Ari- stotele ha dato la prima analisi di questa
nozione, intendendo per A. «le proposizioni prime da cui parte la dimostrazione
» (che sono i cosiddetti A. co- muni ) e in ogni caso i « principi che devono
essere necessariamente posseduti da chi vuol apprendere checchessia » (An.
post., I, 10, 76b 14; I, 2, 72a 15). Come tale l’A. è completamente diverso
dal- l’ipotesi e dal postulato (v.). Il principio di contrad- dizione è esso
stesso un A., anzi «il principio di tutti gli A. » (Mer., IV, 3, 1105 a 20
sgg.). Questo significato della parola come principio che appare immediatamente
evidente dai suoi stessi termini si è mantenuto costante attraverso l’antichità
e l’età moderna. «I princìpi immediati, dice S. Tommaso (In I Post., Lez. 5),
non sono conosciuti per il tra- mite di qualche termine medio ma attraverso la
conoscenza dei loro stessi termini. Posto che si sappia che cosa è il tutto e
che cosa è la parte, si riconosce che ‘il tutto è maggiore della parte ’
giacchè in tutte le proposizioni di questa specie il predicato è compreso nella
nozione del soggetto ». La verità dell’A. è in altri termini manifestata dalla
semplice intuizione dei termini che entrano a com- porlo. Veramente l’esempio
scelto da S. Tommaso si presta particolarmente a rivelare il carattere fit-
tizio dell’evidenza intuitiva cui sarebbe affidata la validità dell’assioma.
Già a poca distanza da S. Tommaso, Ockham riscontrava che il principio «il
tutto è maggiore della parte » non vale quando si tratta di tutti che
comprendono infinite parti e che non si può dire che nell’intero universo ci
siano più parti che in una fava, se in una fava ci sono in- finite parti
(Quodi., I, q. 9; Cent. theol., concl. 17, C). Dopo le ricerche di Cantor e di
Dedekind noi sap- piamo oggi che questo preteso A. è semplicemente la
definizione degli insieme finiti (v. INFINITO). Per più secoli si è cercato di
giustificare in un modo o nell’altro la validità assoluta degli A.; ma questa
validità non è stata posta in dubbio. Bacone ri- tenne gli A. ottenibili per
via di deduzioneo di induzione (Nov. org., I, 19) mentre Cartesio li ri- tenne
verità eterne che hanno sede nella nostra mente (Princ. Phil., I, 49); entrambi
però li cre- dettero verità immutabili. Locke considerò gli A. come
proposizioni, esperimenti, esperienze imme- diate (Saggio, IV, 7, 3 e sgg.) e
Leibniz invece li considerò come principi innati nella forma di di- sposizioni
originarie che l’esperienza rende espli- cite (Nouv. Ess., I, 1, 5); ma
entrambi attribui- rono ad essi il carattere di verità evidenti. Gli empiristi
non hanno dubitato della loro evidenza più dei razionalisti; Stuart Mill
afferma che essi sono «verità sperimentali, generalizzazioni dalla osservazione
» (Logic, II, 5, $ 4). Altrettanto evi- denti, ma a priori, sono gli A. per
Kant che li definisce « princìpi sintetici a priori in quanto immediatamente
certi». La certezza immediata, cioè l’evidenza, è, secondo Kant, la
caratteristica degli assiomi. La matematica possiede A. perchè essa procede
mediante la costruzione dei concetti. La filosofia, invece, che non costruisce
i suoi con- cetti, non possiede assiomi. Gli stessi A. dell’in- tuizione che
Kant ha posto fra i principi dell’in- telletto puro, non sono veramente A.
secondo lo stesso Kant, ma semplicemente contengono «il principio della
possibilità degli A. in generale» (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del met.,
Disciplina della ragion pura, I). Nel mondo contemporaneo la nozione di A. ha
subito la sua trasformazione più radicale. La ca- ratteristica che lo definiva,
l'immediatezza della sua verità, la certezza, l’evidenza, gli è stata negata.
Questo risultato si deve allo sviluppo del formalismo matematico e logico, cioè
all’opera di Peano, Russell, 72 ASSIOMATICA Frege e Hilbert. Secondo il punto
di vista for- malistico, che è quello ora più diffuso, gli A. della matematica
non sono nè veri nè falsi, ma sono assunti convenzionalmente, in base a mo-
tivi di opportunità, come fondamenti o premesse del discorso matematico
(HiLBERT, « Axiomatischen Denken », in Math. Annalen, 1918). In tal modo gli A.
non si distinguono più dai postulati e le due parole vengono oggi usate
scambievolmente. La scelta degli A. è in una certa misura libera e in questo
senso si dice che gli A. sono « convenzio- nali» o «assunti per convenzione».
Ma in realtà questa scelta è limitata da esigenze o condizioni precise che si
possono riassumere nel modo se- guente: 1° Gli A. devono essere coerenti,
altrimenti il sistema che ne dipende diventa contraddittorio. E che il sistema
diventi contraddittorio significa che esso permette di dedurre qualsiasi cosa e
si può in esso dimostrare una proposizione qualsiasi come la sua negazione.
Poichè la prova della non con- traddittorietà non si può ottenere nell’interno
di un sistema (v. AssIoMaTICA), ci si avvale abitual- mente del sistema della
riduzione a una teoria anteriore la cui coerenza appare bene stabilita, per
es., all’aritmetica classica o alla geometria eu- clidea. Questo procedimento indubbiamente
non equivale a una dimostrazione di non contraddit- torietà, ma fornisce un
indizio importante. Un altro procedimento è la realizzazione, cioè il
riferimento del sistema a un modello reale; sul presupposto che ciò che è reale
deve essere possibile, quindi non contraddittorio. 2° Un sistema di A. deve
essere completo nel senso che di due proposizioni contraddittorie for- mulate
correttamente nei termini del sistema, una deve poter essere dimostrata. Il che
vuol dire che in presenza di una qualsiasi proposizione del si- stema, si può
sempre dimostrarla o confutarla e per conseguenza decidere sulla sua verità o
falsità in rapporto al sistema dei postulati. In questo caso il sistema si
chiama decidibile. 3° La terza caratteristica di un sistema di A. è la loro
indipendenza, cioè la loro irreducibilità re- ciproca. Tale condizione non è
così indispensabile come quella della coerenza, ma è opportuna per evitare che
le proposizioni primitive siano troppo numerose. 4° Infine il minor numero
possibile e la sempli- cità degli A. sono condizioni desiderabili che confe-
riscono eleganza logica ad un sistema di assiomi. ASSIOMATICA (ingl.
Axiomarics; franc. Axio- matique; ted. Axiomatik). L’A. si può considerare come
un risultato di quella aritmetizzazione della analisi che ha avuto luogo nelle
matematiche a partire dalla seconda metà del x1x secolo per im- pulso
soprattutto di Weierstrass. Il primo tenta- tivo di assiomatizzazione della
geometria fu fatto da Pasch nel 1882. All’assiomatizzazione delle ma- tematiche
ha poi contribuito il formalismo di Peano, Russell, Frege e specialmente
l’opera di Hilbert. Ma l’A. non si limita oggi al dominio delle matematiche: la
fisica la ricerca come suo scopo finale o almeno come sua formulazione ul- tima
e più soddisfacente: e ogni disciplina che raggiunga un certo grado di rigore
tende ad assu- mere la forma assiomatica. Il significato dell'A. può essere
riassunto brevemente nei punti seguenti: 1° Assiomatizzare una teoria significa
in primo luogo considerare, al posto di oggetti o di classi di oggetti forniti
di caratteri intuitivi, simboli op- portuni, le cui regole d’uso siano fissate
dalle re- lazioni enunciate dagli assiomi. Poichè tali simboli sono privi di
ogni riferimento intuitivo, la teoria formale così ottenuta è suscettibile di
molteplici interpretazioni, che si chiamano modelli. Ma il mo- dello qui non è
un archetipo preesistente alla teoria, e anche la teoria concreta originale,
che ha fornito i dati per lo schema logico dell’A., non è che uno di tali modelli.
La caratteristica dell'A. è quella di prestarsi a interpretazioni o a
realizzazioni dif- ferenti, delle quali essa costituisce la struttura lo- gica
comune. 2° Il metodo A. è un potente strumento di generalizzazione logica. Uno
dei modi di generaliz- zazione di tale metodo consiste nel far cadere suc-
cessivamente alcuni assiomi di una certa teoria deduttiva conservando gli altri
e così costruendo teorie sempre più astratte. Il sistema generato dal- l’A.
così ristretta, è coerente, se il sistema iniziale lo è, e costituisce una
generalizzazione di questo. 3° L’A. rende indispensabile distinguere tre modi
in cui si possono differenziare l’una dall'altra le teorie deduttive.
Consideriamo il caso della geo- metria euclidea. In primo luogo, se si modifica
uno dei suoi postulati, si otterranno altre geometrie che si dicono vicine ad
essa o imparentate con essa: in questo senso si parla di una pluralità di geo-
metrie. In secondo luogo, si può effettuare la ri- costruzione logica di una
qualsiasi di queste geo- metrie in più modi cioè secondo A. differenti; e
queste A. saranno eguivalenti fra loro. Infine, se si sceglie una di queste A.
si potranno il più delle volte trovare per essa interpretazioni differenti: ci
saranno cioè vari modelli di essa, modelli che sa- ranno detti isomorfi. Ci
saranno così: a) una plu- ralità di geometrie; 5) una pluralità di A. per una
stessa geometria; c) una pluralità di modelli per una stessa assiomatica. 4° La
caratteristica fondamentale dell'A. è la scelta e la chiara enunciazione delle
proposizioni primitive di una teoria, cioè degli assiomi che in-
ASSOCIAZIONISMO 73 troducono i termini indefinibili e stabiliscono le regole
d’uso indimostrabili. La scelta delle nozioni primitive è la parte fondamentale
nella costituzione di un’assiomatica. È ormai chiaro tuttavia che le stesse
nozioni di « primitivo +, « indefinibile », « in- dimostrabile » sono relative,
nel senso che un ter- mine indefinibile o una proposizione indimostrabile
nell’interno di un sistema possono diventare defi- nibili o dimostrabili se si
modificano le basi del sistema. Per es., nella geometria euclidea non si può
dimostrare il postulato delle parallele; ma se si rinuncia a dimostrare il
teorema che la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due retti, si può
assumere questa proposizione come un as- sioma, e dimostrare l’unicità della
parallela. Inoltre, spesso i termini non definiti sono implicitamente definiti
dall’insieme dei postulati prescelti (defini- zione per postulati). La scelta
dei postulati si dice che è libera: in realtà essa deve obbedire a partico-
lari condizioni che la limitano notevolmente; per queste condizioni v. ASSIOMA.
5° Si è detto (v. Assioma) che il limite fonda- mentale per la scelta degli
assiomi è la loro coerenza o compatibilità. Tuttavia un teorema di Gédel (1931)
ha stabilito che un’aritmetica non contrad- dittoria comporta enunciati non
decisi e tra questi enunciati c'è la non contraddizione del sistema aritmetico.
In altri termini non si può, rimanendo nell'àmbito di un sistema, stabilire la
non con- traddittorietà del sistema stesso. È questo uno dei limiti dell'A.
oltre quelli messi in luce dalla corrente intuizionista dei matematici (v. Ma-
TEMATICA). ASSIOMI DELL'INTUIZIONE (inglese Axioms of Intuition; franc. Axiomes
de l’intuition; ted. Axiomen der Anschauung). Kant ha indicato con
quest’espressione quei princìpi sintetici dell’in- telletto puro che derivano
dall’applicazione delle categorie all’esperienza e che esprimono la possi-
bilità delle proposizioni della matematica e della fisica pura. Tutti i
princìpi dell’intelletto puro hanno la funzione di eliminare il carattere
soggettivo della percezione dei fenomeni, riconducendo tale perce- zione a
quella connessione necessaria dei fenomeni stessi che è propria dell’esperienza
oggettivamente valida. In particolare, glmenti della coscienza, connessione per
la quale tali elementi, quali che siano, si richiamano l’un l’altro secondo
uniformità o leggi riconoscibili. La simiglianza, la continuità e il contrasto,
costituiscono le uniformità o le leggi fondamentali dell'A. che furono già ri-
conosciute da Platone (Fed., 76 a) e da Aristotele (De memoria et
reminiscentia, II, 451 b 18-20). In sèguito il fenomeno non ha più attratto
l’attenzione dei filosofi sino all’età moderna. Hobbes nel Le- viathan dedica
un capitolo (il III) all’A. delle imagini, ma fu Locke a creare l’espressione
stessa « A. delle idee» e a introdurre il fenomeno relativo come principio di
spiegazione della vita della coscienza. L’importanza che l’A. acquista per opera
di Locke deriva dal presupposto asulle connessioni naturali sono fondate tutte
le operazioni dello spirito umano: la conoscenza nei suoi vari gradi,
l’imaginazione, la volontà, ecc. Per Locke tuttavia l’A. delle idee assume
forme differentissime. Hume la ridusse in- vece a solo tre principi: la
rassomiglianza, la con- tiguità nel tempo e nello spazio e la causa ed effetto
(/ng. Conc. Underst., III). Abbandonato, dopo di Kant, in filosofia come
principio esplica- tivo dell’intera vita spirituale, l'A. è rimasta il
principio esplicativo della psicologia scientifica dalla metà dell’800 fino ai
princìpi del nostro secolo. Nel periodo contemporaneo la psicologia della forma
o gestaltismo (v.) ha impugnato lo stesso presupposto atomistico su cui si
fondava la teoria dell’associazione. ASSOCIAZIONISMO (ingl. Associationism;
franc. Associationnisme; ted. Associazionstheorie). L’indirizzo filosofico e
psicologico che assume come principio esplicativo dell’intera vita spirituale
l’as- sociazione delle idee (v.). Il presupposto dell'A. è l’atomismo
psicologico cioè la riscluzione di ogni 74 ASSOLUTISMO evento psichico in
elementi semplici che sono le sensazioni, le impressioni, o, genericamente, le
idee. Il fondatore dell'A. è Hume, ma uno dei suoi maggiori diffonditori fu il
medico inglese David Hartley (1705-57) per il quale l’associazione delle idee è
per l’uomo ciò che la gravitazione è per i pianeti: cioè la forza che determina
l’organizzazione e lo sviluppo del tutto. L’A. trovò altre manife- stazioni
importanti nell’opera di Giacomo Mill (1773-1836) che se ne servì nell’analisi
dei problemi morali spiegando con l’associazione tra il piacere proprio e
l’altrui il passaggio dalla condotta egoi- stica alla condotta altruistica; e
di Stuart Mill (1806-73) che se ne avvalse nella trattazione di problemi morali
e logici. Ma dopo Stuart Mill Il’A. ha cessato di essere una dottrina
filosofica viva; ed è rimasta soltanto come ipotesi operante nel do- minio
della psicologia scientifica dalla quale è stata esclusa solo negli ultimi
decenni ad opera della psicologia della forma (v. PSICOLOGIA). ASSOLUTISMO
(ingl. Absolutism; franc. Abso- lutisme; ted. Absolutismus). Termine coniato
nella prima metà del xvi secolo per indicare ogni dot- trina che difenda il «
potere assoluto » o la « sovra- nità assoluta » dello Stato. Nel suo senso
politico originario il termine ora designa: 1° l’A. utopistico di Platone nella
Repubblica; 2° l’A. papale affer- mato da Gregorio VII e da Bonifacio VIII,
riven- dicante per il Papa, come rappresentante di Dio sulla Terra, la
p/enitudo potestatis cioè la sovranità assoluta su tutti gli uomini compresi i
principi, i re e l’imperatore; 3° l’A. monarchico del xvi se- colo che trova il
suo difensore in Hobbes; 4° l’A. democratico, teorizzato da Rousseau nel
Contratto sociale e da Marx e dagli scrittori marxisti come «dittatura del
proletariato ». Tutte queste forme dell'A. difendono ugualmente, pur con motivi
o fondamenti vari, l’esigenza che il potere statale venga esercitato senza
limitazioni o restrizioni. L'esigenza oche deter- minano la condotta più
riuscita che si possa tenere ad un dato stadio di conoscenza. Chiunque vuol
trovare di più in queste asserzioni, scoprirà alla fine che ha inseguito una
chimera ». L’A. filoso- fico non è tanto di chi parla dell’Assoluto o ne
riconosce l’esistenza, ma di chi pretende che l’as- soluto stesso appoggi le
sue parole e dia ad esse un’incondizionata garanzia di verità. In questo senso
il prototipo dell’A. dottrinale rimane l’Idea- lismo romantico, secondo il quale
nella filosofia non è il filosofo come uomo che si manifesta e parla, ma
l’Assoluto stesso che giunge alla sua consapevolezza e si manifesta a se
stesso. ASSOLUTO (ingl. Absolute; franc. Absolu; ted. Absolut). Il termine
latino absolutus (sciolto da, staccato da, cioè liprovarla falsa »; il quale
secondo significato è meno dogmatico del primo. Così rispondere « As-
solutamente no» ad una domanda o ad una ri- chiesta, significa semplicemente
avvisare che questo «no» è saldamente appoggiato da buone ragioni e sarà
mantenuto. Questi usi comuni del termine corrispondono all'uso filosofico che,
genericamente, è quello di «senza limiti», «senza restrizioni », e quindi
«illimitato » o « infinito ». Molto probabil- mente la diffusione della parola,
la quale ha inizio dal °700 (per quanto sia stato Niccolò da Cusa ASSURDO 75 a
definire Dio come l’A., Docta ignor., II, 9) è dovuta al linguaggio politico e
ad espressioni come « potere A. », « monarchia A. +, ecc., nelle quali la
parola significa chiaramente «senza restrizioni » 0 « illimitato ». La grande
voga filosofica del termine è dovuta al Romanticismo. Fichte parla di una «
deduzione A.», di «attività A.», di «sapere A.», di «rifles- sione A.», di «Io
A.», per indicare, con questa ultima espressione, l’Io infinito, creatore del
mondo. E nella seconda fase della sua filosofia, quando cerca di interpretare
l’Io come Dio fa della parola un abuso che rasenta il ridicolo: « L’A. è
assolu- tamente ciò che è, riposa su e in se medesimo assolutamente », « Esso è
ciò che è assolutamente perchè è da se stesso... perchè accanto all’A. non
rimane niente di estraneo ma svanisce tutto ciò che non è l’A.»
(Wissenschafislehre, 1801, $$ 5 e 8; Werke, II, pag. 12, 16). La stessa
inflazione della parola si trova in Schelling; il quale, comfilosofia. Il
Romanticismo ha così fissato l’uso della parola sia come aggettivo sia come
sostantivo. Secondo questo uso la parola significa « senza restrizioni », «
senza limitazioni », «senza condizioni »; e come sostan- tivo significa la Realtà
che è priva di limiti o con- dizioni, la Realtà suprema, lo « Spirito » 0 « Dio
». Già Leibniz aveva detto: «Il vero infinito, a rigore, non è che l'A. »
(Nouv. Ess., II, 17, $ 1). E in realtà il termine può essere considerato come
sinonimo di « Infinito » (v.). Dato il posto centrale che la nozione di
infinito ha nel Romanticismo (v.) s’in- tende come questo sinonimo abbia
trovato acco- glimento e voga nel periodo romantico. In Francia la parola fu
importata da Cousin del quale sono noti i legami col Romanticismo tedesco. In
Inghilterra essa fu introdotta da William Hamilton, il cui primo scritto fu uno
studio sulla Filosofia di Cousin (1829); e la nozione divenne la base delle
discus- sioni sulla conoscibilità dell’A., iniziate da Ha- milton e Mansel e continuate
dall’evoluzionismo positivistico (Spencer, ecc.) che, come questi due
pensatori, affermò l’esistenza e insieme l’inconosci- bilità dell’Assoluto.
Nella filosofia contemporanea la parola è stata ampiamente usata appunto da
quella corrente che più strettamente si rifaceva al- l’Idealismo romantico,
cioè dall’Idealismo anglo- americano (Green, Bradley, Royce) e italiano (Gen-
tile, Croce) per designare la Coscienza infinita o lo Spirito infinito. La
parola rimane pertanto legata a una fase determinata del pensiero filosofico,
precisamente alla concezione romantica dell’Infinito, che com- prende e risolve
in sè ogni realtà finita e non è perciò limitato o condizionato da niente, non
avendo nulla fuori di sè che possa limitarlo o condizionarlo. Nel suo uso
comune come in quello filosofico il termine rimane a significare o lo stato di
ciò che, a qualsiasi titolo, è privo di condi- zioni e di limiti, o (come
sostantivo) ciò che rea- lizza se stesso in modo necessario e infallibile.
ASSORBIMENTO, LEGGE DI (ingl. Law of Absorption; franc. Loi d’absorption). Con
questo nome si designano nella Logica contemporanea i due teoremi dell’algebra
delle proposizioni: p»pa=pì P(pv9)=p e i
due corrispondenti teoremi dell'algebra delle classi: —avab=a; alavb)=a. L’A. è
in queste espressioni la possibilità logica di sostituire p a pvpgq 0 a p(pvg)
nelle prime espres- sioni; o a ad avab o ad a(avb) nelle seconde espressioni.
(Cfr. CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic, 15. 8). Fuori del linguaggio della
logica, la legge significa che, se un concetto ne implica un altro, esso
assorbe quest’altro, nel senso che l’asserzione simultanea dei due equivale
all’asser- zione del primo e può essere quindi sostituita dall’asserzione di
questo ogni volta che essa ricorra. Cfr. TAUTOLOGIA. ASSUNZIONE (gr. ji; lat.
Sumptio; in- glese Assumption, Sumption; franc. Assomption; ted. Vordersatz).
La proposizione che si sceglie come premessa del ragionamento; oppure l’atto di
scegliere una proposizione a questo scopo (cfr. Ci- CERONE, De divinatione, II,
53, 108). Più precisamente, la proposizione che si sceglie come prima premessa
del sillogismo e che talora è detta anche /emma (v.) (cfr. HAMILTON, Lectures
on Logic, 1, pag. 283). L’A. non implica necessariamente la verità della
premessa che si assume. Si può assumere una pro- posizione vera o un'ipotesi o
anche una proposi- zione falsa allo scopo di confutaria. Il termine è
equivalente a posizione (v.). ASSURDO (lat. &torov, &Sivarov; lat.
Absurdum; ingl. Absurd; franc. Absurde; ted. Absurd). In ge- nerale, ciò che
non trova posto nel sistema di 76 ASTRATTE, IDEE credenze cui si fa riferimento
o è in contrasto con qualcuna di tali credenze. Gli uomini, e i filosofi, hanno
sempre fatto un uso abbondante di questa parola per condanso più ristretto e preciso
la parola si- gnifica «impossibile » (adynaton) perchè contrad- dittorio. In
questo senso Aristotele parlava di un ragionamento per A. o di una riduzione
all’A.; che sarebbe un ragionamento che assume come ipo- tesi la proposizione
contrapposta alla conclusione che si vuol dimostrare e fa vedere che da tale
ipotesi deriva una proposizione contraddittoria con l’ipo- tesi stessa (An.
Pr., II, 11-14, 61a sgg.). La di- mostrazione per A., aggiunge Aristotele
(/bid., 14, 62 b 27) si differenzia dalla dimostrazione ostensiva perchè assume
ciò che, con la riduzione all’errore riconosciuto, vuol distruggere; la
dimostrazione ostensiva, invece, parte da premesse già ammesse. Leibniz chiamò
dimostrazione apagogica il ragiona- mento per A. e lo ritenne utile o almeno
difficil- mente eliminabile, nel dominio della matematica (Nouv. Ess., IV, 8, $
2). Kant che adopera lo stesso nome, lo giustificò nelle scienze ma lo escluse
dalla filosofia. Lo giustificò nelle scienze perchè in queste è impossibile il
modus ponens di conchiudere alla verità di una conoscenza dalla verità delle
sue conseguenze: bisognerebbe infatti conoscere tutte le conseguenze possibili:
il che è impossibile. Ma se da una proposizione può essere ricavata anche una
sola conseguenza falsa, la proposizione è falsa: perciò il modus tollens dei
sillogismi conchiude insieme con rigore e con facilità. Ma questo modo di
ragionare è senza pericoli solo nelle scienze in cui non si può scambiare
l’oggettivo col soggettivo, cioè nelle scienze della natura. In filosofia
invece quello scambio è possibile, cioè può darsi che sia soggettivamente
impossibile ciò che non è oggetti- vamente impossibile. E quindi il
ragionamento apa- gogico non porta a conclusioni legittime (Critica R. Pura,
Disciplina della ragion pura, IV). ASTRATTE, IDEE. V. ASTRAZIONE. ASTRATTE,
SCIENZE. V. Scienze, CLAS- SIFICAZIONE DELLE. ASTRATTIVA, CONOSCENZA (lat. Co-
gnitio abstractiva; ingl. Abstractive Knowledge; fran- cese Connaissance
abstractive; ted. Abstrahierende Erkenntnîss). Termine che Duns Scoto adoperò,
simmetricamente od oppostamente a quello di cono- scenza intuitiva (cognitio
intuitiva), per indicare una delle specie fondamentali della conoscenza: la
prima delle quali « astrae da ogni esistenza aTRAZIONE 77 alla quantità discreta
e continua; il fisico prescinde da tutte le determinazioni dell’essere che non
si riducono al movimento. Analogamente il filosofo spoglia l’essere di tutte le
determinazioni partico- lari (quantità, movimento, ecc.) e si limita a con-
siderarlo solo in quanto essere» (Mer., XI, 3, 1061 a 28 sgg.). L’intero
procedimento del conoscere può essere, secondo Aristotele, descritto con l’A.:
«La conoscenza sensibile consiste infatti nell’assumere le forme sensibili
senza la materia come la cera assume l’impronta del sigillo senza il ferro o
l’oro di cui esso è composto è (De An., II, 12, 424 a 18). E la conoscenza
intellettuale riceve le forme intel- ligibili astraendole dalle forme sensibili
nelle quali sono presenti (/bid., III, 7, 431 sgg.). All’opera- zione dell’A.,
S. Tommaso riduce la conoscenza intellettuale; la quale è un astrarre la forma
dalla materia individuale e così trarre fuori l’universale dal particolare, la
specie intelligibile dalle imagini singole. AI modo in cui possiamo considerare
il colore di un frutto prescindendo dal frutto, senza perciò affermare che esso
esista separato dal frutto; così possiamo conoscere le forme o specie univer-
sali dell’uomo, del cavallo, della pietra, ecc., pre- scindendo dai princìpi
individuali cui vanno unite, ma senza pretendere che esistano separatamente da
questi. L’A. perciò non falsifica la realtà ma solo rende possibile la
considerazione separata della forma e con ciò la conoscenza intellettuale umana
(S. 7h., I, q. 85, a. 1). Questi concetti, o concetti affini, ricorrono in
tutta la Scolastica. La Logica di Porto Reale (I, 4) ha riassunto assai bene il
pen- siero della Scolastica e la stretta connessione del procedimento
astrattivo con la natura dell’uomo, dicendo: «La limitazione della nostra mente
fa sì che non possiamo comprendere le cose composte se non considerandole nelle
loro parti e contem- plando le facce diverse con cui esse ci fronteggiano: ciò
è quello che si suole generalmente chiamare conoscere per A. ». Locke per primo
ha messo in luce la stretta con- nessione del procedimento dell’A. con la
funzione simbolica del linguaggio. « Mediante l’A., egli dice, le idee tratte
da esseri particolari diventano le generali rappresentanti di tutti gli oggetti
della stessa specie e i loro nomi diventano nomi generali, applicabili a tutto
ciò che esiste ed è conforme a tali idee astratte... Così, venendo oggi
osservato nel gesso o nella neve lo stesso colore che ieri lo spirito ha
ricevuto dal latte, esso considera quel solo aspetto e ne fa la
rappresentazione di tutte le altre idee dalla medesima specie; e avendogli dato
il nome ‘bianchezza’ con questo suono significa la medesima qualità, dovunque
essa venga imaginata o incontrata; e così vengono composti gli universali, sia
che si tratti di idee, sia che si tratti di termini » (Saggio, II, 11, $ 9).
Proprio sulla base di queste osservazioni di Locke, Berkeley giunse alla nega-
zione dell’idea astratta e della stessa funzione della astrazione. Egli nega,
in altri termini, che l’uomo possa astrarre l’idea del colore dai colori,
l’idea dell’uomo dagli uomini, ecc. Non c’è infatti l’idea di un uomo che non
abbia alcun carattere parti- colare, come non c’è in realtà un uomo di tal
genere. Le idee generali, non sono idee prive di ogni carat- tere particolare
(cioè « astratte »), ma idee partico- lari assunte come segni di un gruppo di
altre idee particolari fra loro affini. Il triangolo che un geo- metra ha
presente per dimostrare un teorema non è un triangolo astratto, ma un triangolo
particolare, per es., isoscele; ma poichè di tale carattere parti- colare non
si fa menzione nel corso della dimo- strazione, il teorema dimostrato vale per
tutti indi- stintamente i triangoli, ognuno dei quali può prendere il posto di
quello considerato (Princ. of Hum. Know., Intr., $ 16). Hume ripetette
l’analisi negativa di Berkeley (7reazise, I, 1, 7). Tali analisi tuttavia non
negano l’A., ma piuttosto la sua nozione psicologica in favore del concetto
logico-simbolico di essa. L’A. non è l’atto con cui lo spirito pensa certe idee
separatamente da certe altre; è piuttosto la funzione simbolica di certe
rappresentazioni par- ticolari. Kant tuttavia sottolinea l’importanza del- l’A.
nel senso tradizionale, mettendola accanto alla attenzione come uno degli atti
ordinari dello spirito e sottolineando la sua funzione di separare una
rappresentazione, di cui si è coscienti, dalle altre con cui essa è legata
nella coscienza. Per quanto egli esemplifichi in modo curioso l’importanza di
questo atto (« Molti uomini sono infelici perchè non sanno astrarre ». « Un
celibe potrebbe fare un buon matrimonio se soltanto sapesse astrarre da una
verruca del viso o dalla mancanza di un dente della sua amata », [Aner., $ 3]),
è chiaro che l’intero procedimento di Kant inteso a isolare (isolieren) gli
elementi a priori della conoscenza o in generale dell’attività umana, è un
procedimento astrattivo. «In una logica trascendentale, egli dice per es., noi
isoliamo l'intelletto (come sopra, nell’Estetica trascendentale, la
sensibilità) e rileviamo di tutta la nostra conoscenza soltanto la parte del
pensiero che ha la sua origine unicamente nell’intelletto » (Crit. R. Pura,
Div. della Log. trascend.). Con Hegel si assiste allo strano fenomeno di una
sopravvalutazioperciò, secondo Hegel, la realtà stessa, anzi la sostanza della
realtà. Dall’altro lato, tuttavia, l’astratto è considerato da Hegel come ciò
che è finito, immediato, non posto in relazione col tutto, non risolto nel
divenire del- l’Idea, e perciò prodotto di una prospettiva provvi- soria c
fallace. «L’astratto è il finito, il concreto è la verità, l’oggetto infinito »
(Phil. der Religion, II, in Werke, ed. Glockner, XVI, pag. 226). «Soltanto il
concreto è il vero, l’astratto non è il vero » (Geschi- chte der Phil., III, in
Werke, ed. Glockner, XIX, pag. 99). È chiaro tuttavia che Hegel intende per
astratto quello che comunemente si chiama con- creto — le cose, gli oggetti
particolari, le realtà singole offerte o testimoniate dall’esperienza — mentre
chiama me immanenza di esso nelle rappresentazioni singole e dell’« astrattezza
» delle nozioni considerate avulse dai particolari (Lo- gica, 48 ediz., 1920,
pag. 28). Bergson ha costante- mente contrapposto il tempo «concreto» della
coscienza al tempo « astratto» della scienza; e in generale il procedimento della
scienza che si av- vale di concetti o simboli cioè di «idee astratte o
generali» al procedimento intuitivo o simpate- tico della filosofia (cfr., per
es., La pensée et le mouvant, 3» ediz., 1934, pag. 210). Simili temi polemici
sono stati assai frequenti nella filosofia dei primi decenni del nostro secolo.
E certamente la polemica contro l’A. è stata efficace contro la tendenza ad
entificare i prodotti di essa cioè a con- siderare come sostanze o reogo alle
vere e proprie entità astratte, per es., nella matematica. «Il più ordinario
fatto della percezione, come, ad es., ‘ c’è luce ® implica A. precisiva o
prescissione. Ma l’A. ipostatica, l'A. che trasforma il ‘c’è luce’ in ‘c’è la
luce qui’ che è il senso ch'io do comunemente alla parola A. (dal momento che
prescissione in- dica l’A. precisiva) è un modo specialissimo del pensiero.
Esso consiste nel prendere un certo aspetto di un oggetto o di più oggetti
percepiti (dopo che è stato già prescisso dagli altri aspetti di tali oggetti)
e di esprimerlo in forma proposizionale con un giudizio » (Coll. Pap., 4.235;
cfr. 3.642; 5.304). Questa distinzione che era stata già accennata da James
(Princ. of Psychol., I, 243) ed è stata accet- tata da Dewey (Logic, cap. 23;
trad. ital., pag. 603- 604) non toglie che sia la prescissione sia l’A. ipo-
statica sono specificazioni di quella generale funzione selettiva, che
tradizionalmente è stata indicata con la parola « astrazione ». Paul Valéry ha
poeticamente insistito sull’importanza dell’A. in ogni costruzione umana quindi
anche nell’arte: « L'uomo, ti dico, fabbrica per A.; ignorando e dimenticando
gran parte delle qualità di ciò che impiega, applicandosi soltanto a condizioni
chiare e distinte che possono per lo più essere simultaneamente soddisfatte non
da una ma da più specie di materie» (Eupalinos, trad. ital., pag. 134).
ASTRAZIONISMO (ingl. Abstractionism; franc. Abstractionnisme; ted.
Abstraktionismus). Così William James (The Meaning of Truth, 1909, capi- tolo
XIII) chiamò l’uso illegittimo dell’astrazione e in particolare la tendenza a
considerare come reali i prodotti dell’astrazione. ASTROLOGIA (gr. dotpodoria;
lat. Astrologia; ingl. Astrology; franc. Astrologie; ted. Astrologie). La
credenza nell’influsso dei movimenti degli astri sul destino degli uomini e la scienza,
o pretesa scienza, fondata su questa credenza. L'A. è legata con la nascita
dell’astronomia nel mondo orientale e ha accompagnata l’astronomia nella prima
parte della sua storia. Secondo F. Cumont, furono i Caldei i primi a concepire
l’idea di una necessità inflessibile che regoli l’universo e a sostituire tale
idea a quella di un mondo retto da dèi in confor- mità delle loro passioni.
L’idea fu ad essi suggerita ATEISMO 79 dalla regolarità dei movimenti dei corpi
celesti (CumonT, Oriental Religions in Roman Paganism, trad. ingl., pag. 179).
Questa credenza condusse a stabilire una corrispondenza tra il macrocosmo
(mondo) e il microcosmo (uomo): corrispondenza in virtù della quale gli
avvenimenti dell’uno si ri- fletterebbero negli avvenimenti dell’altro e
sarebbe possibile, a partire dalla conoscenza dei primi, predire in qualche
modo i secondi. L’A. si diffuse in Occidente nel periodo greco-romano. La filo-
sofia araba la giustificò, proprio come gli antichi Caldei, sul fondamento
della necessità universale che lega insieme tutti gli eventi del mondo e che da
Dio, come primo motore, va sino agli eventi umani. Questa catena necessaria
passa attraverso gli avvenimenti celesti: gli avvenimenti terrestri, e quelli
umani, non sono determinati direttamente da Dio, ma sono determinati da lui per
il tramite degli avvenimenti celesti, cioè dei movimenti degli astri. Sicchè
tali movimenti sono quelli che imme- diatamente determinano gli eventi del
mondo sub- lunare e quindi del mondo umano; e la conoscenza di essi rende
possibile la previsione di questi. Le credenze astrologiche erano comuni nel
Medioevo, nonostante le condanne ecclesiastiche: Dante stesso ne partecipava
(Conv., II, 14; Purg., XXX, 109 se- guenti). Nel Rinascimento furono difese e
giusti- ficate da uomini come Paracelso, Bruno, Campa- nella. Quest'ultimo
dedicò all’A. un’opera Astro- logicorum Libri VII, 1629, e si avvalse di essa
per confermare il suo vaticinio dell’imminente ri- torno del mondo all’unità
religiosa e politica (Atheismus triumphatus, 1627). Altri filosofi furono
ostili all’astrologia, pur ammettendo la validità della magia. Così fece, per
es., Pico della Miran- dola che scrisse le Disputationes adversus Astrologos
nelle quali accusa l’A. di rendere gli uomini servi e miserabili; e così fece
Giovan Battista Helmont negando l’influsso degli astri sugli avvenimenti umani
(De Vita Longa, 15, 12). L’A. ha perduto il suo fondamento scientifico con la
scienza moderna, la quale esige, per poter affermare un qualsiasi rapporto
causale, che tale rapporto sia riscontrato uniforme in un numero di casi
sufficientemente grande. Il rapporto causale tra i movimenti degli astri e gli
eventi umani po- trebbe pertanto essere riconosciuto come tale solo sul
fondamento di osservazioni ripetute e ripetibili, che ne mettessero in luce
tutti gli anelli intermedi, in modo da farne comprendere il funzionamento.
Niente del genere si è verificato nell’A. la quale tuttora si fonda su antichi
testi e tradizioni, su simbolismi non suscettibili di controllo e su cre- denze
magiche o teosofiche. D'altronde, le credenze astrologiche rimangono tra le più
diffuse anche nel mondo contemporaneo, permeato com'è di spirito scientifico:
forse lo spirito contemporaneo trova in esse un correttivo all'assenza di
sicurezza che è caratteristica della sua situazione e nelle pre- dizioni
astrologiche una via per limitare, sia pure in modo arbitrario e fantastico, le
previsioni in- torno al suo destino prossimo o lontano. ASTRUSO (lat. Abstrusus
[= nascosto]; in- glese Abstruse; franc. Abstrus; ted. Abstrus). Ter- mine
peggiorativo per qualificare qualsiasi nozione inconsueta o di difficile
comprensione; 0, come dice Locke (Saggio, II, 12, $ 8) «lontana dai sensi e da
ogni operazione del nostro spirito ». Il termine è applicato soprattutto a
nozioni astratte; ma viene ugualmente applicato a nozioni che si allon- tanino,
più o meno, dall’ordinario universo di discorso. ASTUZIA DELLA RAGIONE (ingl.
Astu- teness of the Reason; franc. Astuce de la raison; ted. List der
Vernunfr). Così Hegel ha chiamato il fatto che l’Idea universale fa agire nella
storia le passioni degli uomini come suoi strumenti e le fa logorare e
consumarsi per i propri fini. « L’Idea paga il tributo dell’esistenza e della
caducità non di sua tasca ma con le passioni degli individui. Cesare doveva
compiere quello che era necessario per rovesciare la decrepita libertà; la sua
persona perì nella lotta ma quello che era necessario restò: la libertà secondo
l’idea giaceva più profonda del- l’accadere esterno » (Phil. der Geschichte,
ed. Lasson, pag. 83-84; trad. ital, pag. 98). ATANATISMO (ingl. Arhanatism;
franc. Atha- natisme; ted. Athanatismus). Così fu chiamata da alcuni autori
dell’800 la dottrina dell’immortalità dell’anima. ATARASSIA (gr. drapazla;
ingl. Afaraxia; franc. Ataraxie; ted. Ataraxie). Termine usato dap- prima da
Democrito (Fr., 191) poi dagli Epicurei e dagli Stoici per designare l’ideale
della impertur- babilità o della serenità dell’anima derivante dal dominio
sulle passioni o dall’estirpazione di esse (v. ApATIA). Analogamente «Il fine
dello scetti- cismo è l’A. nelle cose opinabili e la moderazione nelle cose che
sono per necessità » (SESTO E., /potip. Pirr., I, 25). ATEISMO (gr. a0e6mns;
lat. Arheismus; inglese Atheism; franc. Athéisme; ted. Atheismus). È, in
generale, la negazione della causalità di Dio. Il riconoscimento dell’esistenza
di Dio può ac- compagnarsi con l’ateismo se non include anche il riconoscimento
della causalità specifica di Dio. La prima analisi dell'A. che la storia della
fi- losofia ricordi è quella di Platone nel X libro delle Leggi. Platone
considera tre forme di A.: 1° la negazione della divinità; 2° la credenza che
la divinità esista ma non si curi delle cose umane; 3° la credenza che la
divinità possa essere propi- 80 ATEISMO ziata con doni ed offerte. La prima
forma è il materialismo: il quale dipende dall’opinione che la natura precede
l’anima e cioè che la materia « dura e molle, pesante e leggera» preceda
«l’opinione, la previsione, l’intelletto, l’arte e la legge ». Questo è
l’errore di tutti i filosofi della natura che pongono l’acqua, o l’aria o il
fuoco come principi delle cose e li chiamano «natura» per intendere che sono
l'origine di esse (Leggi, X, 891 c, 892 b). Per con- futare il materialismo non
c’è che da dimostrare che l’anima precede la natura; e Platone dimostra come lo
stesso movimento dei corpi materiali pre- suppone un Primo Motore immateriale
(v. Dro, Prove DI). La seconda forma di A., che consiste nel ritenere che la
divinità non si occupa delle cose umane, è confutata da Platone con l’argomento
che essa equivarrebbe ad ammettere che la divinità è pigra e indolente e a
ritenerla inferiore al più comune mortale che sempre vuol rendere perfetta
l’opera sua, grande o piccola che sia. Infine la peggiore aberrazione è quella
dei malvagi i quali credono di poter propiziarsi la divinità con doni ed of-
ferte. Costoro pongono la divinità stessa alla pari dei cani che, ammansiti dai
doni, permet- tono di depredare le greggi e al di sotto degli uomini comuni che
non tradiscono la giustizia accettando doni delittuosamente offerti. Platone è
così severo con quest’ultima forma di A. che, per evitarla, vorrebbe impedire
ogni forma di sacrificio privato ed ammettere solo quelle effet- tuate sui
pubblici altari e con rituale stabilito (Leggi, X, 909 d). L’analisi di Platone
assomma a dire che l’unica forma di A. filosofico è il materialismo
naturalistico, il quale pone il corpo prima dell’anima; le altre due forme sono
piuttosto pregiudizi volgari che credenze filosofiche (sebbene la prima di
esse, l’indifferen- tismo degli dèi, doveva essere fatta propria dagli
Epicurei). Uno sguardo al corso ulteriore della filo- sofia occidentale mostra
che accanto al materialismo, possono essere considerati, come forme di A.
filoso- fico, lo scetticismo, il pessimismo e il panteismo. 1° Nell’età moderna
la coincidenza di mate- rialismo e A. è stata affermata da Berkeley che appunto
da questa coincidenza è stato indotto a sostenere l’irrealtà della materia (v.
IMMATERIA- LIsMO). Se si ammette che la materia è reale l’esi- stenza di Dio
diventa inutile perchè la materia stessa diventa la causa di tutte le cose e
delle idce che sono in noi. L’esistenza della materia è il principale
fondamento dell'A. e del fatalismo e della stessa idolatria (Prince. of Hum.
Knowledge, $$ 92-94). In linea di fatto si può dire che non la realtà della
materia, ma solo la causalità della materia è uno dei fondamenti dell’ateismo.
Il materialismo sette- centesco di La Mettrie e d’Holbach come quello
ottocentesco di Luigi Buchner, di Ernesto Heckel e di Felice Le Dantec hanno
appunto questo fon- damento. Dio viene eliminato come principio cau- sale di
spiegazione perchè si ammette come tale la materia. 2° La seconda forma di A.
filosofico è quella scettica, che trova la sua prima manifestazione nel
neo-accademico Carneade di Cirene (214-129 a. C.). Questi non solo fa vedere la
debolezza delle prove che si adducono dell’esistenza della divinità, ma mostra
le difficoltà inerenti al concetto di divinità. Per es., Carneade dice: « Se
esistono, gli dèi sono viventi, se viventi sentono... Se sentono, ricevono
piacere o dolore. E se ricevono dolore sono capaci di turbamento e mutazioni in
peggio; e così sono mortali» (Sesto E., Adv. math., IX, 139-40). Un punto di
vista analogo a quello di Carneade è stato elaborato nell'età moderna da Hume
nei suoi Dialoghi sulla religione naturale. Hume ritiene che una prova « priori
dell’esistenza di Dio sia impos- sibile perchè l’esistenza è sempre materia di
fatto. Quanto alle prove a posteriori, egli rigetta la validità di una prova
cosmologica, ritenendo illegittimo chiedersi la causa di una collezione di
individui. « Se, egli dice, si mostra la causa di ciascun individuo di una
collezione che comprende venti individui, è assurdo domandare poi la causa
dell’intera col- lezione che è stata già data con le cause particolari. Questo
vuol dire che non ha senso domandarsi la causa del mondo nella sua totalità.
Maggior va- lore ha la prova fisico-teologica; ma essa può con- sentire
soltanto di risalire ad una causa proporzio- nata all’effetto; e poichè
l’effetto, cioè il mondo, è imperfetto e finito, la causa dovrebbe essere al-
trettanto imperfetta e finita. Ma se la divinità si riconosce imperfetta e
finita, manca il motivo per riconoscerla unica. Se una città può essere co-
struita da più uomini, perchè l'universo non po- trebbe essere stato creato da
più deità o dèmoni? » (Works, Il, 1827, pag. 413). Da ultimo la disputa tra
teismo e A. diventa una questione di parole: « Il teista ammette che l’intelligenza
originale è assai di- versa dalla ragione umana. L’ateista ammette che il
principio originale dell’ordine ha qualche remota analogia con la ragione
stessa. Volete allora, miei signori, bisticciare intorno al grado dell’analogia
ed entrare in una controversia che non ammette preciso significato nè
conseguentemente una con- clusione qualsiasi? » (/bid., pag. 535). Questo tipo
di scetticismo non è tuttavia, come spesso il materia- lismo, una forma di
professato A.: esso ténde, come si vede, a togliere ogni valore drammatico alla
di- sputa sull’A. e a dimostrarla da ultimo insignificante. 3° La terza forma
di A. è il panteismo (v.). Anche qui non si tratta di un professato A. ma
piuttosto di un'accusa che spesso viene rivolta a ATOMISMO 81coloro che identificano
Dio col mondo. L’accusa di A. è stata per molto tempo rivolta a Spinoza per il
suo Deus sive Natura: in realtà, come notava Hegel, più esattamente si sarebbe
dovuto parlare di acosmismo (v.). Accuse di A. furono rivolte anche a Fichte in
séguito ad un articolo pubblicato nel 1798 nel Giornale filosofico di Jena, «
Sul fon- damento della nostra credenza nel governo divino del mondo», nel quale
s’identificava Dio con l’or- dine morale del mondo. Per la polemica che seguì a
questo articolo, Fichte fu costretto a dimettersi dal- l’Università di Jena.
Fichte, come Spinoza, rigettava l’accusa di A.; e, comunque si voglia giudicare
la cosa, è certo che il panteismo non è A. professato. 4° A. professato è
invece, in alcune delle sue forme, il pessimismo. Il disordine, il male,
l’infeli- cità del mondo sono, secondo Schopenhauer, osta- coli insormontabili
sia all’affermazione del Dio personale che è richiesto dal teismo, sia
all’identi- ficazione del mondo con Dio operata dal panteismo (Selected Essays,
trad. ingl. Belfort-Bax, pag. 71). Teismo e panteismo presuppongono l’ottimismo
che non solo è smentito dai fatti in quanto viviamo nel peggiore dei mondi
possibili, ma è anche pernicioso perchè non fa altro che legare gli uomini alla
spie- tata e crudele volontà di vita (Die Welt, ecc., II, cap. 46). Nella
filosofia contemporanea, la dottrina di Sartre rappresenta un A. pessimistico
aggior- nato coi nuovi indirizzi della speculazione. Non è il male o il dolore
come tale il fondamento di questo pessimismo; ma piuttosto l'ambiguità
radicale, l’in- certezza dell’esistenza umana gettata nel mondo e dipendente
soltanto dalla propria assoluta libertà che la condanna allo scacco. Non c’è
Dio, secondo Sartre, ma c’è l’essere che progetta di essere Dio, cioè l’uomo: progetto
che è nello stesso tempo l’atto della libertà abissò nel mare e scomparve,
rendendo impraticabile e ine- splorabile il mare nel quale era situata (7im.,
24 sgg.). La Nuova A. è un’opera postuma di Bacone, pubblicata nel 1627. È la
descrizione di 8 — ARRAGNANO, Dizionario di filosofia. una società in cui la
scienza, posta a servizio dei bisogni umani, ha scoperto o va scoprendo le
tecniche per far dell’uomo il dominatore dell’uni- verso. La Nuova A. è perciò
un paradiso della tecnica dove sono portati a compimento le inven- zioni e i
ritrovati di tutto il mondo e ha l’aspetto di un enorme laboratorio
sperimentale nel quale gli abitanti cercano di « estendere i confini dell’im-
pero umano ad ogni cosa possibile ». I numi tutelari dell’isola sono i grandi
inventori di tutti i paesi e le sacre reliquie sono gli esemplari di tutte le
più rare e importanti invenzioni. ATOMICO (ingl. Atomic; franc. Atomique; ted.
Atomik). Elementare, non riducibile a parti costitutive più semplici. Fatto A.:
si è tradotto con questa espressione ciò che Wittgenstein aveva chia- mato
«stato di cose» (Sachkverhalte) cioè il fatto in quanto costituisce l’elemento
ultimo del mondo (Tract. logico-philos., 1922, 2). Proposizione A.: la
proposizione elementare cioè quella che « asse- risce l’esistenza di un fatto
A. + (/bid., 4. 21). Cor- risponde alla propositio categorica della logica sco-
lastica: è una proposizione immediatamente vera o falsa (appunto come imagine
di un fatto A.), non scomponibile in altre proposizioni più sem- plici. G. P.-N. A. ATOMISMO (ingl.
Aromism; franc. Atomisme; ted. Atomismus). S’intendono con questa parola tre dottrine diverse,
che hanno scopi diversi, e precisamente: 1° l’A. filosofico o naturalismo ato-
mistico; 2° la teoria atomica; 3° la concezione atomistica della realtà
psichica o sociale o del lin- guaggio. 1° L’A. filosofico è quello di Democrito
e Leucippo, degli Epicurei e di Gassendi. Esso è una filosofia della natura che
non ha maggiori basi sperimentali della fisica aristotelica (v. ATOMO). 2° La
teoria atomica (ingl. Atomic Theory; franc. Théorie atomique; ted. Atomtheorie)
è quella formulata nella scienza moderna per la prima volta da Dalton, ed
esprime il modello che la scienza si è via via fatta dell’aromo (v.). 3° La
concezione atomistica (ingl. Atomistic Idea; franc. Idée atomistique; ted.
Atomistisches Denken) consiste nel proporre per la spiegazione della vita della
coscienza o della società o del linguaggio un’ipotesi analoga a quella dell’A.
filo- sofico o della teoria atomica assumendo che co- scienza o società o
linguaggio siano costituiti da elementi semplici irreducibili, la cui diversa
com- binazione ne spieghi tutte le modalità. Così fa l’associazionismo (v.) per
la vita della coscienza e l’individualismo (v.) per la vita della società. Si
parla pertanto di A. associazionistico (per es., ne parlava JAMES, Psychology,
I, 1890, pag. 604 e ne parla KATZ, Gestalipsychologie, cap. 1). L’espres- 82
ATOMISTICO sione «A. sociale» ricorre frequentemente a de- signare le dottrine
individualistiche che ritengono la società risolvibile interamente negli
individui che la compongono. Infine l’espressione « A. logico » fu adoperata da
Russell nel 1918 per indicare la sua filosofia. «La ragione per cui io chiamo
la mia dottrina A. logico, egli diceva, è che gli atomi ai quali desidero
arrivare come residui ultimi della analisi sono atomi logici e non atomi fisici
» (« The Phil. of Logical Atomism», in The Monist, 1918, ora in Logic and
Knowledge, London, 1956). Già nel libro Merodo scientifico in filosofia (1914)
aveva parlato di « proposizione atomica » intendendo la proposizione che
esprime un fatto cioè che afferma che una cosa ha una certa qualità o che certe
cose hanno certe relazioni; e aveva chiamato « atomico » il fatto espresso
dalla proposizione atomica. Questi concetti costituiscono anche i capisaldi del
Tractatus Logico-Philosophicus (1922) di Wittgenstein. ATOMISTICO. V. AtoMisMo.
ATOMO (gr. &ropov; ingl. Atom; franc. Atome; ted. Arom). La nozione di A.
ha offerto alla filo- sofia occidentale una delle più importanti alterna- tive
di speculazione e di ricerca. Essa è stata infatti lo strumento principale
della spiegazione mec- canica delle cose e in generale del mondo (v. Mec-
canIcisMo). Leucippo e Democrito elaborarono nel sec. v a. C. questa nozione:
l’A. è un elemento corporeo, invisibile per la sua piccolezza e non divisibile.
Gli A. differiscono solo per forma e grandezza; unendosi e disunendosi nel
vuoto de- terminano la nascita e la morte delle cose e dispo- nendosi
diversamente ne determinano la diversità. Aristotele (Mer., I, 4, 985 b 15
sgg.) li paragonò alle lettere dell'alfabeto, che differiscono fra loro per la
forma e danno luogo a parole e a discorsi diversi, disponendosi e combinandosi
diversamente. Le qua- lità dei corpi dipendono dunque o dalla figura degli A. o
dall’ordine e dal movimento di essi. Perciò non tutte le qualità sensibili sono
oggettive e appartengono veramente alle cose che le provocano in noi. Sono
oggettive le qualità proprie degli A.; la forma, la durezza, il numero, il
movimento; invece il freddo, il caldo, i sapori, i colori, gli odori, sono
soltanto apparenze sensibili provocate bensì da speciali figure o combinazioni
di A., ma non appartenenti agli A. stessi (DeMOCRITO, Fr. 5, Diels). Il
movimento degli A. è determinato da leggi immutabili: « Nessuna cosa, dice
Leucippo {Fr. 2) accade senza ragione ma tutto accade per una ragione e di
necessità ». Il movimento originario degli A. facendoli roteare e urtarsi in
tutte le direzioni produce un vortice dal quale le parti più pesanti sono
portate al centro e le altre invece respinte verso la periferia. Il loro peso,
che li fa tendere verso il centro, è dunque un effetto del loro movimento
vorticoso. In questo modo si formano infiniti mondi che incessantemente si
generano e si dissolvono. Questi capisaldi, propri del vecchio atomismo,
rimasero immutati nelle altre forme dell’atomismo. La fisica di Epicuro
rappresenta una ripetizione della fisica democritea: non molta importanza ha
difatti la variante di Epicuro che gli A. cadono in linea retta e che
s’incontrano e producono vor- tici quando, senza causa, deviano dalla
traiettoria rettilinea (CICERONE, De fin., I, 18; De nat. deor., I, 69). La
nozione dell’A. non viene utilizzata per tutto il Medioevo, durante il quale
l’unica teoria fisica accettata è quella aristotelica delle quattro cause (v.
Fisica). E ai principi dell’età moderna, per quanto la nozione ritorni
occasionalmente — per es., in Cusano e in Giordano Bruno (De mi- nimo, I, 2) —
non viene utilizzata come strumento di una teoria sistematica se non da Pierre
Gassendi. Questi però, ammettendo che gli A. sono creati da Dio, da lui dotati
di movimento, e da lui guidati e ordinati mediante una specie di anima del
mondo, fa perdere alla fisica epicurea il carattere materia- listico e
meccanico e la trasforma in una fisica spiritualistica e finalistica (Synragma
Philosophiae Epicuri, 1658). Nel frattempo Cartesio aveva dato luogo al
meccanismo non atomistico e considerato impossibile la stessa nozione di atomo.
«Se gli A. esistessero, egli disse, dovrebbero necessaria- mente essere estesi
e in tal caso, per quanto si imaginassero piccoli potremmo sempre dividerli col
pensiero in due o più parti minori e riconoscerli perciò come divisibili »
(Princ. Phil., II, 20) Fu probabilmente in base a questa considerazione che
Leibniz accettò la nozione di un A. non più fisico ma psichico, cioè della
monade (v.). La scienza moderna, pur essendo meccanistica, non si avvale, da
principio, dell'atomo. È vero che alla fine dell’Orrica (1704) Newton adduceva
un com- plesso di ragioni, cioè di esperienze, per ammettere che « tutti i
corpi siano composti di particelle dure »; e formulava l’ipotesi che « Dio al
principio abbia dato alla materia la forma di particelle solide, do- tate di
massa, dure, impenetrabili e mobili, di tali dimensioni e figure e con tali
proprietà e in tali proporzioni con lo spazio, da essere adatte al fine per il
quale egli le ha formate» (Opzicks, IMI, 1, q. 31); ma è anche vero che queste
e simili specula- zioni cadevano fuori della scienza appartenendo alla sfera
delle opinioni private dello scienziato. In realtà, l’ipotesi atomica fa il suo
ingresso nella scienza soltanto ai principi dell’800, per opera della chimica.
La legge delle proporzioni multiple, for- mulata da Giovanni Dalton, esprimeva
il fatto che quando una sostanza entra in combinazione con quantità diverse di
un’altra sostanza, queste quan- tità stanno tra loro come i numeri semplici,
cioè ATTEGGIAMENTO 83 si comportano come se fossero parti indivisibili. Ma le
parti indivisibili non sono altro che atomi.’ Pertanto l’ipotesi della
composizione atomica della materia come spiegazione della legge delle pro-
porzioni multiple veniva avanzata da Dalton nel 1808. Per quanto essa
suscitasse sùbito vivaci op- posizioni perchè appariva come il ritorno di una
vecchia dottrina metafisica quindi come uno scon- finamento della scienza nella
metafisica, essa in realtà era ora un’ipotesi invocata a dar ragione di un
fatto bene accertato. E più che un’ipotesi, la nozione stessa apparve come una
realtà quando nel 1811 la teoria di Avogadro (circa l’uniformità del numero
delle particelle contenute in un volume dato di gas) permetteva di stabilire il
peso degli A. relativamente ali’ A. d’idrogeno, assunto come unità: il che dava
agli A. una realtà fisica (misurabile). La nozione di A. doveva subire una
trasformazione radicale a partire dalla seconda metà dell’800 con lo studio dei
fenomeni dei gas rarefatti e delle ema- nazioni radioattive. L’A., indivisibile
per la chimica, non era più indivisibile per la fisica. Verso il 1904 Thompson
escogitava il primo modello di A., ima- ginando che esso fosse costituito da
una piccola palla elettrizzata positivamente che racchiudesse nel suo interno
un certo numero di elettroni. Ma al- cune esperienze di Rutherford mostravano
che la materia è assai meno compatta di come avrebbe fatto supporre il modello
atomico di Thompson. Perciò Rutherford verso il 1911 imaginava la strut- tura
dell'A. come un sistema solare in miniatura, costituito da un nucleo centrale
elettrizzato positi- vamente (paragonabile al Sole) e da vari elettroni rotanti
intorno ad esso (paragonabili ai pianeti). Un'ulteriore innovazione del modello
dell’A. fu operata da Bohr, il quale, tenendo presente la scoperta del quantum
di azione, imaginò che l’elet- trone percorra intorno al nucleo un numero
deter- minato di ellissi e possa saltare da un’ellissi all’altra, liberando in
questo salto un quanium di energia. La scoperta del principio di
indeterminazione (v.) dimostrava tuttavia che non è possibile osservare nella
sua interezza la traiettoria di un elettrone e che perciò la stessa nozione di
traiettoria non ha significato fisico (nulla che non sia osservabile o
misurabile ha significato fisico). Ma allora lo stesso modello dell’A. di Bohr
perdeva il suo significato fisico e cessava di avere la pretesa di essere
l’imagine esatta dell’atomo. Dal 1927 in poi, cioè dalla data in cui Heisenberg
ha scoperto il principio di in- determinazione, la scienza ha praticamente abban-
donato ogni tentativo di descrivere l’A. o di defi- nirlo in un modo qualsiasi.
Allo stato attuale delle cose l’aggettivo «atomico » rimane soltanto a de-
signare la scala sulla quale certi fenomeni possono essere osservati e
misurati. ATOMO PRIMEVO (ingl. Primeval Atom). L’ipotesi cosmogonica che
presenta l’universo come il risultato della disintegrazione radioattiva di un
atomo (G. LeMAITRE, The Primeval A., An Essay on Cosmogony, 1950) (v.
COSMOLOGIA). ATTEGGIAMENTO (ingl. Attitude; franc. At- titude; ted.
Einstellung). Termine ampiamente usato nella filosofia, nella sociologia e
nella psicologia contemporanee per indicare in generale l’orienta- mento
selettivo e attivo dell’uomo nei confronti di una situazione o di un problema
qualsiasi. Dewey ritiene la parola sinonima di abito (v.) e di disposizione
(v.); e in particolare gli sembra che essa designi «un caso speciale di
predisposizione, la disposizione che aspetta di prorompere attraverso una porta
aperta» (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 41). Lewis analogamente dice che
nel- l’A. ciò che è presente è afferrato nel suo significato pratico e
anticipatorio, come un indizio di ciò che sta al di là, nel futuro (An Analysis
of Knowledge and Valuation, pag. 438). Del termine si è servito ampiamente Stevenson
per la sua distinzione tra « si- gnificato descrittivo » e « significato
emotivo » delle parole: il primo dei quali si avrebbe quando la risposta allo
stimolo è un insieme di processi men- tali conoscitivi e il secondo quando la
risposta allo stimolo è una certa spinta all'azione. Stevenson chiama A. questa
spinta all’azione, che viene, non si sa perchè, qualificata come « emotiva »;
ma ri- tiene troppo difficile definire precisamenono di un determinato
reticolato di forme trascendentali » (Psychologie, Intr., $ 4). Più
precisamente l’A. si può definire come il progetto di scelte a venire di fronte
a un certo tipo di situazione (o di pro- blemi); o come un progetto di
comportamento che consenta di effettuare scelte di valore costante nei
confronti di una situazione determinata. In questo caso dire, per es., che «x
ha un A. contrario al matrimonio » significa dire che x progetta di non
sposarsi; perciò, in generale, l’A. di x per S è un progetto di x riguardante
il comportamento da te- 84 ATTEGGIAMENTO NATURALnere nei confronti di
situazioni in cui S è possibile (cfr. ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959,
cap.V). ATTEGGIAMENTO NATURALE (tedesco Naturlicher Einstellung). Husserl ha
chiamato così l’A. che consiste nell’assumere come esistente il comune mondo in
cui viviamo, formato di cose, beni, valori, ideali, persone, ecc., così
com’esso si offre a noi. Da questo A. la filosofia fenomenolo- gica intende
uscire mediante un dubbio radicale che consiste nel sospendere l’A. naturale,
cioè nel vie- tarsi ogni giudizio sull’esistenza del mondo e di tutto ciò che è
in esso. Solo questo nuovo A. sarebbe il punto di partenza della ricerca
filosofica (/deen, I, $ 27 seg.) (v. EPOCHÉ; SOSPENSIONE DELL’ASSENSO).
ATTENZIONE (ingl. Attention; franc. Af- tention; ted. Aufmerksamkeit). Nozione
relativa- mente recente (sec. xvil) con la quale s’intende in generale l’atto
con cui lo spirito prende possesso in forma chiara e vivida di uno dei suoi
possibili oggetti; o il presentarsi in forma chiara e vivida di uno di tali
possibili oggetti allo spirito. La no- zione di A. si trova in Cartesio, che la
intende come l’atto con cui lo spirito prende in considera- zione un unico
oggetto per qualche tempo (Passions de l’àme, I, $ 43). Locke chiama «A.» l’A.
pas- siva con la quale lo spirito è attratto da certe idee mentre chiama
«riflessione» l’A. attiva per cui esso sceglie certe idee come propri oggetti
privile- giati (Saggio, II, I, $ 8). Egli dice: «Quando si prende nota delle
idee che ci si presentano da sè, ed esse vengono per così dire registrate nella
me- moria, si tratta dell’A. » (/bid., II, 19, $ 1). Leibniz, invece, dà un
senso attivo all’A.: « Noi facciamo A. agli oggetti che distinguiamo e
preferiamo agli altri ». E come forme dell’A. enumera la considera- zione, la
contemplazione, lo studio, la meditazione (Nouv. Ess., II, 19, $ 1). Essa
costituisce il pas- saggio dalle piccole percezioni all’appercezione (/bid.,
prefaz.). Lo stesso carattere attivo l’A. con- serva in Wolff (Psychol. emp., $
237) e in Kant (Antr., I, $ 3) il quale la definisce come «lo sforzo di di-
ventar cosciente delle proprie rappresentazioni ». A partire dalla seconda metà
del sec. xrx, col sorgere della psicologia scientifica, l’A., conside- rata
come una delle condizioni della vita psichica, cade sotto la competenza di
questa scienza. Il con- cetto di essa rimane quello che i filosofi avevano
formulato; e gli psicologi distinguono un’A. spon- tanea o passiva o
involontaria, per la quale è l’og- getto che s'impone alla coscienza; e un’A.
attiva o volontaria o controllata per la quale è il soggetto che sceglie
l'oggetto della sua attenzione. La psi- cologia contemporanea considera l’A.
come l’adat- tamento attivo ad una situazione, come l’orienta- mento selettivo
nei confronti degli oggetti da percepire (cfr., ad es., D. O. HeBB, 7lie
Organisa- tion of Behaviour, 1949, pag. 4). Con questa nozione dell’A., che si
adatta allo schema generale prevalente nelle scienze antropologiche secondo il
quale ogni attività dell’uomo è la sua risposta a un complesso determinato di
stimoli (situazioni o problemi), l'A. è stata sottratta al dominio della pura
interiorità e riconosciuta come una forma di comportamento (v.). ATTIMO (gr. tò
tEalewne; lat. Momentum; ingl. Instant; franc. Instant; ted. Augenblick). 1. Se-
condo il significato specifico, che è proprio di una certa tradizione
filosofica, l’A. ha un significato diverso dall’ora (v.) o istante, che è il
limite o la condizione del tempo, perchè rappresenta una specie di incontro o
di compromesso tra il tempo e l’eter- nità. Questa nozione rimonta a Platone.
«L’A., egli diceva, sembra che indichi ciò che fa da tran- sizione tra due
mutamenti inversi. Il trapasso in- fatti dal movimento alla quiete e viceversa
non ha luogo a partire da un’immobilità che è ancora immota o dal movimento che
è tuttora mosso. La natura un po’ strana dell’A. si asside nel mezzo tra la
quiete ed il moto pur non essendo cesso nel tempo e lo fa essere il punto di
arrivo e di partenza di ciò che si muove verso lo star fermo e di ciò che sta
fermo verso il muoversi» (Parm., 156 d). In altri termini per Platone l’A. non
è nè il tempo nè l'eternità, nè il movimento nè la quiete, ma sta in mezzo tra
essi e costituisce il loro punto di in- contro. Questa nozione è stata ripresa
da Kierke- gaard che ha visto nell’A. la subitanea inserzione dell'eternità nel
tempo e quindi la subitanea in- serzione della verità divina nell'uomo cioè la
na- scita della fede (Philosophische Brocken, cap. IV; cfr. Werke, II, pag.
108, 116 sgg.). Il carattere istantaneo della fede esclude che essa possa
essere suscitata o prodotta da procedimenti di dimostra- zione o di
persuasione. Di qui la polemica di Kierke- gaard contro la chiesa ufficiale
danese. Polemica che egli condusse nel giornale che intitolò per l’ap- punto
L’attimo. Il concetto dell’A. ritorna nell’esi- stenzialismo tedesco ma senza
la risonanza religiosa che aveva in Kierkegaard. Dice Jaspers: « L’A. vis- suto
è il fatto supremo, calore di sangue, immedia- tezza, vita, presente corporeo,
totalità del reale, unica cosa vera e concreta. Invece di partire dal presente
per perdersi nel passato o nel futuro, l’uomo trova l’esistenza e l’assoluto
nell’A. che solo può darglieli. Passato e futuro sono abissi oscuri informi,
tempo indefinito, mentre l’A. può essere l'abolizione del tempo, la presenza
del- l’eterno » (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, I, 3; trad. ital.,
pag. 132). Lo stesso Jaspers mette in rapporto la che istante od ora (v.).
ATTITUDINE (ingl. Aptitude; franc. Aptitude; ted. Eignung). Da non confondere
con atteggia- mento (v.). Questo termine designa la presenza di determinati
caratteri che nel loro complesso ren- dono l’individuo particolarmente adatto
ad un còm- pito determinato. Sulla determinazione delle A. è fondato
l’orientamento professionale, cioè la sele- zione e l’avviamento dell’individuo
a questo o a quel lavoro, in conformità delle sue attitudini. ATTIVISMO (ingl.
Activism; franc. Activisme; ted. Activismus). Il significato di questo termine
va tenuto distinto da quello di artualismo (v.): questo indica la teoria
metafisica per la quale la realtà è atto o attività, mentre il termine in
questione in- dica l’atteggiamento (talvolta razi A. sono state, in questo
senso, il fascismo, il nazismo e lo stali- nismo. (Cfr. K. MANNHEIM, /deologie
und Utopie, 1929, III, $ 2; trad. ital., pag. 141). ATTIVITÀ (ingl. Activity;
franc. Activité; te- desco Tatigkeit o Aktiviràt). Questo termine ha due
significati corrispondenti ai due significati della parola azione. Da un lato,
infatti, esso viene ado- perato a indicare un complesso più o meno omo- geneo
di azioni volontarie (in riferimento al signi- ficato 2° della parola azione)
come quando si dice «x ha svolto intensa A. politica». Dall’altro, è adoperato
a indicare il modo d'essere di ciò che agisce o ha in suo potere l’azione, come
quando si dice « Lo spirito nel conoscere è attivo + per dire che non è
semplicemente ricettivo o passivo. Il contrario di A. in questo secondo senso è
« passi- vità », mentre il contrario di A. nel primo senso è s inerzia » o «
inazione ». L’uso filosofico coincide con l’uso del linguaggio comune ed è
quindi anch’esso duplice. Tuttavia prevale, soprattutto nell’uso moderno, il
secondo significato. Malebranche (Recherche de la vérité, II, 7), alcuni
ideologi francesi e Galluppi (Filosofia della volontà, I, 6, $ 60) si servono
del termine A. per designare il modo d’agire della volontà; ma anche in questo
caso il significato del termine è il secondo, non il primo. Per questo secondo
si- gnificato si può forse risalire a Locke che distingue la « passività »
dello spirito per la quale esso riceve tutte le sue idee semplici, dall'A. per
cui esso « compie in proprio numerosi apotere creativo, è al centro della
filosofia di Fichte. « L’A. dell’io consiste nell’il- limitato porsi » dice
Fichte (Wissenschaftslehre, 1794, II, $ 4) e ponendo se stesso, l'io pone nello
stesso tempo anche il mondo esterno come proprio li- mite e condizione. Da
Fichte in poi la filosofia moderna ha avuto come uno dei suoi temi prefe- riti
«1’A. creatrice dello spirito » delle quali alcune filosofie, come l’attualismo
di Gentile, hanno fatto 86 ATTO il proprio tema dominante. È chiaro che in
queste forme estreme la nozione di attività perde il suo significato: questo
deriva dal rapporto con quelia di passività, in quanto designa la possibilità e
il potere d’azione di fronte a limiti o condizioni determinate; mentre là dove
l’A. è infinita, limiti o condizioni non sussistono e la distinzione tra A. e
passività non dà senso. ATTO (gr.
evipyea, tvredtyera; lat. Actus; ingl. Act; fr. Acte; ted. Akt). Questo termine ha due significati: 1° quello di
azione nel significato ri- stretto e specifico di questa parola, come
operazione che emana dall’uomo o da un suo potere specifico (v. AZIONE, 2).
Diciamo infatti « A. volontario », «A. responsabile » o «A. dell’intelletto »,
« A. mo- rale », ecc.; ma non diciamo «A. degli acidi sui metalli » o « A.
distruttivo del DDT», ecc., bensì usiamo, in questi casi, la parola « azione +;
2° quello di realtà che si è realizzata o si va realizzando, dell’essere che ha
raggiunto o va raggiungendo la sua forma piena e finale, in quanto si
contrappone a ciò che è semplicemente potenziale o possibile. Nel secondo senso
la parola fa esplicito riferi- mento alla metafisica di Aristotele e alla sua
di- stinzione fra potenza ed atto. L’A. è l’esistenza stessa dell’oggetto: sta
alla potenza «come il co- struire al saper costruire, l'essere desto al
dormire, il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, e come
l’oggetto cavato dalla materia ed ela- borato compiutamente sta alla materia
grezza e al- l’oggetto non ancora finito » (Mer., IX, 6, 1048 a 37). Alcuni A.
sono movimenti, altri azioni: sono azioni quei movimenti che hanno il loro fine
in se stessi, per es., il vedere o l’intendere o il pensare; mentre
l’apprendere, il camminare, il costruire hanno fuori di sè il loro fine, nella
cosa che si apprende, nel punto cui si vuole arrivare, nell’oggetto che si co-
struisce. L'azione perfetta, che ha in sè il suo fine, è detta da Aristotele A.
finale o entelechia (v.). Mentre il movimento è il processo che porta gra-
dualmente all'A. ciò che prima era in potenza, l’entelechia è il termine finale
(re/os) del movimento, il suo compimento perfetto. Come tale è anche la
realizzazione completa, quindi la forma perfetta di ciò che diviene, la specie
e la sostanza. L’A. pre- cede la potenza sia rispetto al tempo sia rispetto
alla sostanza: giacchè se il seme vien prima della pianta, in realtà esso non
può essere derivato che da una pianta. Ciò che nel divenire è ultimo, è
sostanzialmente primo: la gallina vien prima dell’uovo (/bid., IX, 8, 1049b 10
sgg.). Queste distinzioni hanno dominato per molti secoli il pen- siero
occidentale e sono entrate a far parte del linguaggio comune. S. Tommaso ripropone
queste distinzioni con la sua solita chiarezza a proposito della differenza tra
A. ed azione, dicendo: «L’A. è duplice, cioè primo e secondo. L’A. primo è la
forma e l’integralità della cosa (forma et inte- gritas rei); l’A. secondo è
l’operazione (operatio) + (S. Th., I, q. 48, a. 5; Contra gent., II, 59). In
altri termini ogni realtà come tale è A. e quindi è A. anche l’azione, per es.,
un'operazione della volontà o dell’intelletto, sebbene non si tratti, in questo
caso, di un oggetto esistente. Nella concezione aristotelica la distinzione tra
potenza e A. determina l’ordinamento gerarchico dell’intera realtà che va da un
estremo limite in- feriore che è la materia prima (v.), pura potenzialità
indeterminata, a Dio che è puro A., senza mesco- lanza di potenzialità. Dio è
difatti il Primo Motore immobile dei cieli; e poichè il movimento dei cieli è
continuo, il motore di esso non solo deve essere eternamente attivo, ma
dev’essere per sua natura attività, assolutamente privo di potenza. E poichè la
potenza è materia, esso è anche privo di ma- teria, A. puro (Mer., XII, 6, 1071
b 22). La no- zione di A. puro è rimasta fondamentale per la elaborazione
dell'idea di Dio nel pensiero occi- dentale. Ad essa si rifanno alcune moderne
« filo- sofie dell'A. »: qual è quella di Gentile, che è intesa a realizzare la
rigorosa e totale immanenza di ogni realtà nel soggetto pensante, cioè nted.
Attribut). Il termine latino cor- risponde probabilmente a ciò che Aristotele
chia- mava « accidente per sè » (An. post., I, 22, 83 b 19; Met., V, 30, 1025 a
30): indica, cioè, un carattere o una determinazione che, pur non appartenendo
alla sostanza dell'oggetto, quale risulta dalla defini- zione, trova in questa
sostanza la sua causa (vedi AcciIDENTE). Nella Scolastica il termine fu usato
quasi esclusivamente per indicare gli A. di Dio come la bontà, l’onnipotenza,
la giustizia, l’infi- nità, ecc., che sono anche chiamati momi di Dio (cfr. S.
Tommaso, S. Th., I, q. 33). Quest’uso ter- minologico fu modificato da Cartesio
con l’esten- sione del termine alle qualità permanenti della sostanza finita.
Difatti Cartesio intende per A. le qualità in quanto « ineriscono alla sostanza
». Perciò «in Dio diciamo che non ci sono propriamente modi o qualità ma
soltanto A., perchè nessuna variazione si deve concepire in Lui. E anche nelle
cose create, ciò che in cose non si comporta mai in modo diverso, come
l’esisitenza e la durata, non deve essere, nella cosa che esiste ec dura,
chiamata qualità o modo, ma A.» (Princ. Phil, I, $ 56). Questa terminologia è
stata letteralmente fatta propria da Spinoza, con la sola correzione che, dal
momento che non esistono sostanze finite, gli attributi possono essere solo di
Dio. « Per A., dice Spinoza, intendo ciò che l’intelletto percepisce della
sostanza come costituente l’essenza di essa » (Er/., I, 4). Dio o la sostanza
consta di infiniti A. ognuno perciò esiste necessariamente (/bid., I, 11): di
tali in- finiti A., però ne conosciamo due soltanto, cioè il pensiero e
l’estensione (/bid., II, 1-2). Per la loro immutabilità e la loro connessione
con la sostanza divina, gli attributi sono a loro volta eterni e infi- niti e
sono il tramite per il quale da Dio scaturi- scono gli enti finiti (i modi
della sostanza) con assoluta necessità (/bid., I, 21-23). Nella filosofia
moderna e contemporanea la pa- rola A. è raramente usata, salvo che nel suo
signi- ficato logico-grammaticale di predicato. ATTUALISMO (ingl. Actualism;
franc. Actua- lisme; ted. Aktualitàtstheorie). Ogni dottrina che riconosca come
sostanza o principio dell'essere un atto o un'attività. Ogni dottrina di questo
ge- nere è una forma di idealismo, e precisamente di idealismo romantico. A. è
pertanto la dottrina di Fichte che riconosce come principio l’attività del-
l’Io infinito. A. è pure la dottrina di Hegel per il quale l’Idea è attualità
perfetta di coscienza. In Italia il termine A. è stato ristretto a indicare
l’idea- lismo di Gentile in quanto risolve ogni realtà nel- l’atto del pensiero
o nel «pensiero in atto» o « pensiero pensante » (Teoria generale dello spirito
come atto puro, 1916). In questo senso Gentile parlava della «attualità» o
«attuosità » dello spi- rito; e dello spirito come « auto-posizione », « auto-
creazione » o « autoctisi ». Questo termine va tenuto distinto da attivismo. AUMENTO
E DIMINUZIONE (gr. dino xal glow; lat. Auctio et diminutio; ingl. Increase and Diminution;
franc. Augmentation et diminution; ted. Vermehrung
und Verringerung). Secondo Ari- stotele, una delle quattro specie del mutamento
e precisamente il mutamento secondo la categoria della quantità, anch’esso
riducibile, come tutte le altre, al mutamento di luogo (Fis., IV, 4, 211 a).
AURA VITALIS. Termine adoperato da Giovan Battista Helmont (1577-1644) per
indicare la forza che muove, anima e ordina gli elementi corporei. AUTARCHIA
(gr. aùripxera; ingl. Self-suffi- ciency; franc. Autarchie; ted. Autarkie). La
condi- zione di autosufficienza del saggio, al quale essere virtuoso basta per
essere felice, secondo i Cinici (Droc. L., VII, 11) e gli Stoici (Zbid., VII,
1, 65). AUT AUT. È il titolo di una delle prime opere di Kierkegaard (1843),
titolo che esprime l’alter- nativa che si offre all’esistenza umana, di due
forme di vita o come Kierkegaard dice, di due «stadi fondamentali della vita»:
la vita estetica e la vita morale. Tra questi due stadi, come tra essi e lo
stadio religioso che Kierkegaard analizzò in Timore e tremore (1843) non c’è
passaggio nè pos- sibilità di conciliazione, ma abisso e salto. L’aut aut, cioè
la forma dell’alternativa fu da Kierke- gaard contrapposta alla forma della
dialettica di Hegel nella quale c’è sempre conciliazione, sintesi e armonia tra
gli opposti (v. DIALETTICA). AUTENTICO (ingl. Authentic; franc. Authen- tique;
ted. Authentisch). Termine adoperato da Jaspers (insieme a quello simmetrico e
opposto di inauten- tico) per indicare l'essere che è proprio dell’uomo in
contrapposto acome una caduta da uno ‘stato originario’ più puro e più alto. Di
qualcosa di simile non solo non abbiamo alcuna sperimentazione ontica, ma
neppure la via di una possibile interpretazione on- tologica + (/bid., $ 38).
In un senso analogo a quello di Jaspers o di Heidegger, le due parole sono
usate frequentemente nella filosofia contemporanea. AUTISMO (ingl. Autism;
franc. Autisme; tedesco Autismus). Termine creato da Bleuler (LeArbuch der
Psychiatrie, 1923) per indicare l’atteggiamento che consiste nell’assorbimento
dell’individuo in se stesso con la conseguente perdita di ogni interesse per le
cose e gli altri. È un egocentrismo (v.) patologico. AUTOCENTRALITÀ (ingl.
Self-centrality; franc. Autocentralité; ted. Selbstcentralitàt). Espres- sione
adoperata interno; quella è chiamata appercezione pura (e falsamente senso
intimo), questa appercezione empirica. Nella psi- cologia indaghiamo noi stessi
secondo le rappre- sentazioni del nostro senso interno, nella logica invece,
secondo ciò che la coscienza intellettuale ci offre. Così l’io ci appare doppio
(il che può es- sere contraddittorio): 1° l’io come soggetto del pen- siero
(nella logica) a cui si riferisce l’appercezione pura (l’io che soltanto
riflette) e di cui nulla si può dire tranne che è una rappresentazione del
tutto semplice; 2° l’io come oggetto dell’appercezione equindi del senso
interno, che include una molte- plicità di determinazioni le quali rendono
possibile un’esperienza interna ». L’A. non è dunque la co- scienza (empirica
di sè) ma la cosmateriale ma questo materiale deve essergli dato e quindi
dev'essere un materiale sen- sibile. Fichte trasforma questo concetto
funzionale kantiano in un concetto sostanziale: ne fa un Io infinito, assoluto
e creatore e pertanto considera l’A. come auto-produzione o auto-creazione.
L’A. diventa così il principio non solo della conoscenza ma della realtà
stessa; e principio non nel senso di condizione, ma di forza o attività
produttiva. Auto- producendosi, l’Io produce nello stesso tempo il non-io, cioè
il mondo, l’oggetto, la natura. Dice Fichte: « Non si può pensare assolutamente
a nulla senza pensare in pari tempo al proprio Io come cosciente di se stesso;
non si può mai astrarre della propria A.»(Wissenschaftslehre, 1794, $ 1, 7).
Matale A. è in realtà il principio creatore del mondo: « L’Io di ciascuno è
esso stesso l’unica Sostanza suprema » dice Fichte criticando Spinoza (/bid., $
3, D6); ‘ L’essenza della filosofia critica consiste in ciò che un Io assoluto
viene posto come assolutamente incon- dizionato e non determinabile da nulla di
più alto». Questa nozione dell’A. divenne il fondamento dell’Idealismo
romantico. Dice Schelling: «L’A., dalla quale noi partiamo, è atto uno ed
assoluto; e con quell’atto uno è posto non solamente l’Io stesso con tutte le
sue determinazioni ma anche ogni altra cosa che è posta in generale per l’Io...
L'atto dell’A. è ideale e reale ad un tempo ed as- solutamente. Mercè di esso,
ciò che è stato posto realmente, diviene idealmente anche reale e ciò che si
pone idealmente è posto anche realmente » System des transzendentalen Ideal.,
1800, sez. III, avvertenza). Quanto a Hegel, egli già nella Propedeutica
filosofica (Dottrina del concetto, $ 22) diceva: « Come A. l’Io guarda se
stesso, e l’espressione di questa nella sua purezza è: Io = Io, oppure: Io sono
Io» e nella Enciclopedia ($ 424): « La verità della coscienza è l’A., e questa
è il fondamento di quella; cosicchè nell’esistenza la coscienza di un altro
oggetto è A.; io so l’oggetto come mio (esso è mia rappresenta- zione), io
perciò so in esso me stesso ». Nella sua forma più alta l’A. è « A. universale
» cioè ragione assoluta. « L’A., ossia la certezza che le sue deter- minazioni
sono tanto oggettive — determinazioni dell’essenza delle cose — quanto suoi
propri pen- sieri, è la ragione; la quale, in quanto ha siffatta identità, è
non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere »' (Enc., $ 439): cioè
la ragione come sostanza o realtà ultima del mondo. L’A. come auto-creazione e
perciò creazione della realtà tutta, rimane la nozione dominante dell’Idea-
lismo romantico, non solo nella sua forma classica (alla quale si è accennato)
ma anche nelle forme ricorrenti nella filosofia contemporanea, cioè nel-
l’idealismo anglosassone e nell’idealismo italiano (v. IpeaLISMO). Fuori
dell’Idealismo, la nozione non può essere utilizzata e non presenta neppure
problemi: giacchè i problemi filosofici, psicologici e sociologici inerenti
alla coscienza di sè sorgono ovviamente soltanto quando per tale coscienza
s'intenMIE). AUTOMA (gr. adrsuarov; lat. Automaton; inglese Automaton; franc.
Automate). Ciò che si muove da sè, in generale; o una cosa inanimata che si
muove da sè; o, più specificamente, un apparato meccanico che effettua qualcuna
delle operazioni ritenute proprie dell’animale o dell’uomo. Si hanno notizie di
A. favolosi costruiti dagli antichi. Nel sec. xvm, il meccanico francese Vau-
canson costruì un A. che suonava il flauto. Samuel Butler in scritti
romanzeschi (Darwin tra le mac- chine, 1863; Lucubratio ebria, 1865; Erewhon,
1872) parlava di macchine che hanno poteri umani ed entrano in conflitto con.
l’uomo. L’inglese Charles 90 AUTONIMO Babbage (1792-1871) progettò una macchina
calco- latrice che però non venne mai costruita. Un A. logico cioè una macchina
capace di com- binare proposizioni e derivarne conclusioni fu costruita da
Stanley Jevons nel 1869. John Venn costruiva nel 1881 un diagramma che poteva
essere adoperato in maniera da illustrare le relazioni tra i valori di verità
delle proposizioni. Nel 1885 Allan Marquand disegnava una macchina analoga a
quella di Jevons e nel 1947 un calcolatore elettrico fu costruito ad Harvard da
T. A. Kalin e W. Burk- hart per la soluzione di problemi impostati sul-
l’algebra di Boole, che ha per oggetto variabili che possono assumere solo due
valori (vero o falso, indicati rispettivamente con 1 e 0) e che perciò può
essere applicata in tutti i casi in cui si ha la scelta tra due alternative. La
teoria degli A. nel senso moderno, cioè delle macchine calcolatrici fu
sviluppata da A. M. Turing nel 1936. I calcolatori eseguono in generale il
programma in base al quale sono stati progettati, ma effettuano le operazioni
relative con rapidità e sicurezza enormemente maggiori di quanto po- trebbe
fare un uomo. Tali A. sono cioè « rispar- miatori di tempo». Da essi il biologo
inglese R. W. Ashby distinse gli « amplificatori dell’intel- ligenza » che
hanno, ad un certo grado, ciò che nell’uomo si chiama « iniziativa ». Tra
questi ci sono in fase di realizzazione o in fase teorica, gli A. che giuocano
e gli A. che imparano. Von Neumann ha parlato anche di A. che si riproducono
(Theory of Self-Reproducing Automata, 1966). Per le teorie relative a tali A.
vedi CIBERNETICA. AUTONIMO. V. Uso. AUTONOMIA (ingl. Autonomy; franc. Auto-
nomie; ted. Autonomie). Termine introdotto da Kant per designare l’indipendenza
della volontà da ogni desiderio od oggetto di desiderio e la sua capacità di
determinarsi in conformità di una legge propria, che è quella della ragione.
L’A. è cotrapposta da Kant alla eteronomia per la quale la volontà è
determinata dagli oggetti della facoltà di desiderare. Anche gli ideali morali
della felicità o della perfezione suppongono l’eteronomia della vo- lontà
perchè suppongono che essa sia determinata dal desiderio di raggiungerli e non
da una sua propria legge. L’indipendenza della volontà da ogni oggetto
desiderato è la libertà nel senso negativo, mentre la legislazione propria di essa
(come « ragion pratica ») è la libertà nel senso positivo. « La legge morale
non esprime nient'altro che l’A. della ragion pura pratica, cioè della libertà
» (Cri. R. Prat., I, $ 8). In virtù di tale A. «Ogni essere ragionevole deve
considerarsi come fondatore di una legislazione universale » (Grundlegung zur
Met. der Sitten, II, [BA 77)).. Questo è rimasto il concetto classico
dell'autonomia. Più genericamente si parla oggi, per es., di un «principio
autonomo» nel senso di un principio che abbia in sè, o ponga da sè, la sua
validità o la regola della sua azione. AUTOOSSERVAZIONE, AUTORIFLES- SIONE,
AUTOSCOPIA. V. INTROSPEZIONE. AUTORIFERIMENTO (ingl. Self-reference). Con
questo termine equivalente a riflessività (v.), è indicata nei Principia
Mathematica (Intr., cap. II, pag. 64) di Whitehead e Russell la comune cache
resistono acquistano la loro dannazione. I prin- cìpi infatti sono il terrore
non delle buone opere ma delle cattive. Vuoi non temere la potestà? Fa il bene
e avrai lode da essa. Infatti essa è ministra di Dio a te per il bene. Ma se
avrai fatto il male, abbine timore: perchè non invano porta la spada. Essa
infatti è ministra di Dio e vendica nell’ira colui che fa il male. Perciò siate
soggetti di neces- sità, non solo per timore dell’ira ma anche per la coscienza
» (Ad Rom., XIII, I, 5). Questo documento è rimasto fondamentale per la
concezione cristiana dell’autorità. Essa viene difesa da Sant'Agostino (De Civ.
Dei, V, 19; cfr. V, 21); da Isidoro di Si- viglia (Sent., III, 48) e da Gregorio
Magno che insiste sul carattere sacro del potere temporale sino a fare del
sovrano il rappresentante di Dio sulla Terra. Sostanzialmente la stessa tesi
veniva fatta propria da S. Tommaso: « Da Dio, come dal primo dominante, deriva
ogni dominio», egli dice (De Regimine Principum, III, 1). Questa concezione
coin- cide con la prima in un carattere negativo: cioè nel rendere l’A.
completamente indipendente dal consenso dei soggetti. Ma si differenzia dalla
prima in un carattere fondamentale: essa giustifica ogni A. che venga
esercitata de facto. Mentre la prima non esige che la classe che è destinata a
comandare comandi sempre di fatto (e per Platone infatti la cosa non sta così);
la seconda invece implica che ogni A. che di fatto venga esercitata, essendo posta
o stabilita da Dio, sia sempre pienamente legittima. Questo è il teorema tipico
della concezione in esame: teorema che consente di riconoscerla anche nelle
forme più o meno consapevolmente mistifi- cate. Quando, per es., Hegel afferma
che lo Stato è «la realizzazione della libertà» o «l’ingresso di Dio nel mondo»
(Fil. del dir., $ 258, Aggiunta) fa coincidere quella che per lui è I’A. più
alta con la realtà storica dello Stato: e cioè giustifica ogni potere di fatto,
secondo quello che è la mas- sima della sua filosofia: « intendere ciò che è, è
il còmpito della ragione, perchè ciò che è, è la ra- gione » (/bid., Pref.). Da
questo punto di vista, A. e forza coincidono: ciò che possiede la forza di
farsi valere non può non godere di un’A. valida giacchè ogni forza è voluta da
Dio o è divina. 3° La terza 1). Uno dei tipici teoremi di questo punto di vista
è il carattere di legge che viene riconosciuto alle consuetudini: di- fatti se
le leggi non hanno altro fondamento che il giudizio del popolo, quelle che il
popolo stesso approvò pur senza scriverle hanno lo stesso valore di quelle
scritte (/bid., I, 3, 32). I grandi giuristi del Digesto ammettevano pertanto
che l’unica fonte 92 AUTOSUFFICIENZA dell’A. è il popolo romano (R. W.-A. J.
CARLYLE, History of Mediaeval Political Theory in the West, II, I, 7; trad.
ital., pag. 369 e sgg.). Tale è la forma che assunse, nel Medioevo, la dottrina
del fonda- mento umano dell’autorità. Dice Dante: «Il po- polo romano di
diritto, non con l’usurpazione, si assunse il còmpito del monarca, che si dice
impero, sopra tutti i mortali » (De Mon., II, 3). Nelio stesso modo Ockham
affermava che « l'impero romano fu certamente istituito da Dio, ma attraverso
gli uo- mini cioè attraverso i Romani » (Dia/ogus inter ma- gistrum et discipulum,
III, tract. II, lib. I, cap. 27, in GoLpast, Monarchia, II, pag. 899). La
stessa A. papale, Ockham riteneva, è limitata dalle esigenze dei diritti e
della libertà di coloro sui quali si estende ed è quindi l’A. di un principato
ministra- tivus, non dominativus (De Imperatorum et pontificum potestate, VI).
E alla domanda quali sono i diritti e le libertà che devono essere rispettati
dalla stessa A. papale, Ockham risponde che sono quelli che spettano anche agli
infedeli, sia prima che dopo l'incarnazione di Cristo: giacchè i fedeli non de-
vono nè dovranno essere in condizioni peggiori di quelle in cui furono gli
infedeli sia prima che dopo l’incarnazione di Cristo (/bid., IX). Marsilio da
Pa- dova affermava chiaramente la tesi generale im- plicita in simili
riconoscimenti: « Il legislatore, cioè la prima ed effettiva causa efticiente
della legge, è il popolo o il complesso dei cittadini oppure la parte
prevalente di essi, che comanda e decide per sua scelta o per suo volere in
un’assemblea gene- rale, in termini precisi che certi atti umani si devono
compiere e altri no sotto pena di penalità o di punizioni corporali» (Defensor
pacis, 1, 12, 3). Nicolò da Cusa non meno esplicitamente affermava riferendosi
all’A. ecclesiastica: « Poichè tutti gli uomini sono naturalmente liberi,
qualsiasi A. che distolga i sudditi dal fare il male e limiti la loro libertà
col timore di sanzioni, deriva solo dall’ar- monia e dal consenso dei sudditi,
sia che risieda nella legge scritta sia che risieda in quella vivente, rappresentata
dal reggitore » (De Concordantia ca- tholica, II, 14). Nel mondo moderno, la
prevalenza del contrattualismo (v.) e del giusnaturalismo (v.) determinano la
prevalenza di questa dottrina. E nonostante che oggi contrattualismo e
giusnatura- lismo non possano più essere invocati come giu- stificazioni
sufficienti dello Staro (v.) e del di- ritto (v.) la tesi dell'origine umana
dell’A. non è revocata in dubbio. La stessa dottrina di Kelsen, attribuendo
l’A. all’ordinamento giuridico non è che una specificazione della tesi
tradizionale. Dice Kelsen: «L'individuo che è, o ha, un’A. deve avere ricevuto
il diritto di emanare comandi ob- bligatori, di modo che altri individui siano
obbli- gati a obbedire. Tale diritto o potere può venire conferito a un individuo
soltanto da un ordina- mento normativo. L’A. è quindi originariamente la
caratteristica di un ordinamento normativo » (General Theory of Law and State,
1945, II, cap. VI, C, h; trad. ital., pag. 389). Ma, al di là di questo punto
di vista formale, sta il problema delle forme o dei modi in cui il consenso che
fonda l’A. può essere esercitato o espresso, nonchè dei limiti o
dell’estensione che esso può o deve avere nei singoli campi. È chiaro, ad es.,
che l’A. deve avere in politica còmpiti ed estensione maggiore che non nel
campo della ri- cerca scientifica; e che pertanto in politica il con- senso che
la convalida deve avere limiti ed esten- sione ed essere esercitato ed espresso
in forme e caratteri diversi che non nel campo scientifico. Un riconoscimento
che esprima accettazione o consenso è alla base di ogni A.: le modalità, le
forme e i limiti istituzionali o meno di quel ricono- scimento possono essere
diversissimi e costituiscono problemi fondamentali di politica generale e
speciale. 2. Nella filosofia medievale auctoritas è un’opi- nione
particolarmente ispirata dalla grazia divina e quindi in grado di guidare e
correggere il lavoro d’indagine razionale. Auctoritas, può essere la de-
cisione di un concilio, un detto biblico, la sententia di un Padre della
Chiesa. +). Si dice anche, osserva Aristotele, «A. una donna» ma questo
significato è im- proprio perchè si vuol dire soltanto che si coabita con lei
(Car., 15, 15b 3 sgg.). Queste distinzioni vengono ripetute nella logica
medievale (cfr., ad esempio, Pietro Ispano, Summ. Log., 3.37-38; JunGiUs,
Logics Hamburgensis, I, 14, 24). In un significato così ampio il termine indica
una rela- zione qualsiasi. Hegel voleva invece restringerlo alla relazione tra
la cosa e le sue proprietà (Enc., $ 125). Marcel ha contrapposto l'A.
all’essere. L’A. sa- rebbe la categoria dominante nell’esteriorità delle cose,
fra le quali l’uomo stesso vive nella sua fun- zione sociale o vitale, mentre
l’essere sarebbe la categoria propria della soggettività in quanto mi- stero
(Étre et avoir, 1935). Nell’A. nel fare e nel- l'essere, Sartre ha visto le tre
grandi categorie dell’esistenza umana. Ma il fare si risolverebbe nel- l’A.,
perchè ogni forma d’azione o di produzione, anche il conoscere, è una forma di
appropriazione; e dall’altro lato l’A. si riduce all’essere perchè il desiderio
d’A. è in fondo riducibile a quello di «essere in rapporto a un certo oggetto
in una certa relazione d’essere » (L’étre er le néant [1943], 1955, pag. 663
sgg.). Nel linguaggio corrente come in quello della logica e della matematica,
A. non indica oggi che una relazione di qualsiasi genere. AVERROISMO (ingl.
Averroism; franc. Aver- rolsme; ted. Averroismus). La dottrina di Averroè
(Ibn-Rosch, 1126-98) come fu intesa e interpretata dagli Scolastici medievali e
dagli Aristotelici del Rinascimento. Essa si compendiava nei capisaldi
seguenti: 1° eternità e necessità del mondo: tesi che era contraria al dogma
delia creazione; 2° sepa- razione dell’intelletto attivo e passivo dall’anima
umana e la loro attribuzione a Dio. Questa tesi, riconoscendo all’anima umana
solo una specie di imagine dell’intelletto, la privava della sua parte più alta
ed immortale; 3° dottrina della doppia verità, cioè di una verità di ragione,
che si può ricavare dalle opere di Aristotele, il filosofo per eccellenza, e di
una verità di fede: le quali possono anche essere contrastanti fra loro. La
figura mag- giore dell'A. latino fu Sigieri di Brabante, nato verso il 1235,
morto verso il 1281-84. AVVENIMENTO. V. Fatto. AVVENIRE (ingl. Future; franc.
Avenir; te- desco Zukunft). Per il primato dell’A. sulle altre determinazioni
del tempo in alcune forme della filosofia contemporanea (v. TEMPO).
AXIOCENTRICO (ingl. Value-centric). Ter- mine introdotto recentemente nella
filosofia ameri- cana per designare la dottrina che afferma la priorità del
valore sulia realtà, del dover essere sull’es- sere, nel senso che anche il
giudizio esistenziale implichi la distinzione di valore tra verità e falsità. (Cfr. E. G. SpauLDING, The
New Rationalism, 1918, pag. 206 sgg.; W. M. UrBAN, 7he /ntelligible World,
1929, pag. 61 seguenti). AXIOLOGIA
(ingl. Axiology; franc. Axiologie; ted. Axiologie). La « teoria dei valori +
era stata già da qualche decennio riconosciuta come una parte importante della
filosofia o addirittura la totalità della filosofia dalla cosiddetta «
filosofia dei valori » e da indirizzi connessi (v. VALORE) quando si co-
minciò, ai princìpi del nostro secolo, ad usare, per indicarla, l’espressione
axiologia. I primi scritti in cui tale espressione ricorre sono i seguenti: P.
LAPIE, Logique de la volonté, 1902, pag. 385; E. von HART- MANN, Grundriss der
Axiologie, 1908; W. M. URBAN, Valuation, 1909. Il termine ebbe fortuna, mentre
non ebbe fortuna l’altro di Timologia proposto per la stessa scienza (KrerIBIG,
Psychologische Grundle- gung eines Systems der Werttheorie, 1902, pa- gina
194). AZIONE (gr.
npdéw; lat. Actio; ingl. Action; franc. Action; ted. Tat, Handlung). 1. Termine di significato generalissimo che denota
qualsiasi ope- razione, considero generico, un significato speci- fico per il
quale il termine possa riferirsi soltanto alle operazioni umane. Così egli ha
cominciato coll’escludere dall’estensione della parola le ope- razioni che si
realizzano in modo necessario, cioè in un modo che non può essere diverso da
quello che è. Queste operazioni sono oggetto delle scienze teoretiche,
matematica, fisica e filosofia prima. Queste scienze si riferiscono a realtà,
fatti o eventi che non possono essere diversi da ciò che sono. Fuori di esse
rimane il dominio del possibile cioè di ciò che può essere in un modo o
nell’altro; ma neppure tutto il dominio del possibile appartiene all’azione. Da
esso bisogna infatti distinguere quello della produzione che è il dominio delle
arti e che ha il suo carattere proprio e il suo fine negli oggetti 94 AZIONE
ELICITA E AZIONE COMANDATA prodotti (Et. Nic., VI, 3-4, 1149 e sgg.). S. Tom-
maso distingue l’A. rransitiva (transiens) che passa da chi opera nella materia
esterna, come il bru- ciare, il segare, ecc.; e l’A. immanente (immanens) che
rimane nell’agente stesso come il sentire, l’in- tendere, il volere (S. 7h.,
II, I, q. 3, a. 2; q. 11, a. 2). Ma la cosiddetta A. transitiva non è altro che
il fare o produrre di cui parla Aristotele (Ibid. II, I, q. 57, a. 4). In
queste notazioni tomistiche, come in quelle aristoteliche, è presente la
tendenza a riconoscere la superiorità dell'A. cosiddetta im- manente che si
consuma nell’interno del soggetto operante: A. che poi non è altro che
l’attività spi- rituale o il pensiero o la vita contemplativa. S. Tom- maso
dice infatti che solo l’A. immanente è «la perfezione e l’atto dell’agente +»,
mentre l’A. tran- sitiva è piuttosto la perfezione del termine che subisce l’A.
(/bid., II, I, q. 3, a. 2). Dall’altro lato S. Tommaso distingue, nell’A.
volontaria, l’A. im- perata che è quella comandata dalla volontà, per es., il
camminare o il parlare e l’A. elicita della volontà che è lo stesso volere.
L’ultimo fine dell’A. non è l’atto elicito della volontà ma quello imperato:
giacchè il primo appetibile è il fine cui la volontà ténde, non la volontà
stessa (/bid., II, I, q. 1, a. 1, ad 2°). Questi concetti sono rimasti per
molto tempo immutati e vengono presupposti anche dalla cosiddetta filosofia
dell’A. (v.); la qualll’attore, dice Parsons, i mezzi impiegati non possono in
generale essere considerati come scelti a caso o di- pendenti esclusivamente
dalle condizioni dell'A. ma devono in qualche modo essere soggetti all’in-
fluenza di un determinato fattore selettivo indipen- dente, la conoscenza del
quale è necessaria alla comprensione del concreto andamento dell'A. ». Questo
fattore è l'orientamento normativo, che per quanto possa essere diversamente
orientato, non manca in nessun tipo d'A. effettiva (The Structure of Social
Action, 1949, pag. 44-45). Questo schema analitico proposto da Parsons risponde
indubbia- mente assai bene alle esigenze dell’analisi sociolo- gica; ma esso
può essere assunto anche in filosofia come base per la comprensione dell'A. nei
vari campi in cui la filosofia è interessata cioè nel campo morale, giuridico,
politico, eccetera. AZIONE ELICITA e AZIONE COMAN- DATA (lat. Actus elicitus et
actus imperatus). Secondo gli Scolastici, l'A. volontaria elicita è
l’operazione stessa della volontà, il volere, mentre l’A. comandata è quella
che è diretta, iniziata e controllata dalla volontà, come, per es., il
camminare o il parlare (S. Tommaso, S. 7h., II, I, Ù AZIONE, FILOSOFIA DELL’
(ingl. Phi losophv of Action; franc. Philosophie de l’action). Con questo nome
si indicano alcune manifestazioni della filosofia contemporanea, caratterizzate
dalla credenza che l’A. costituisca la più diretta via per conoscere l’Assoluto
o il più sicuro modo per pos- sederlo. Si tratta di una filosofia di
derivazione romantica: il moralismo di Fichte era fondato sulla superiorità
metafisica dell’A. (v. MoraLISMO). Il primato della ragion pratica di cui Kant
aveva parlato non aveva significato fuori del dominio morale; ma con Fichte
questo primato significa che solo nell’A. l’uomo si identifica con l’Io in-
finito. Il simbolo della filosofia dell’A. si può vedere espresso nella frase
di Faust, nell’opera di Goethe, che proponeva di tradurre In principio erat
Verbum del IV Evangelo con «In principio era l’A.». Con questi presupposti
romantici si connette la filosofia dell'A. che in Francia, per opera di Ollé-
Laprune (1830-99) e di Blondel (1861-1949), as- sunse una forma religiosa: l'A.
è per essa il nucleo essenziale dell’uomo e solo un’analisi dell'A. può
mostrare i bisogapparten- gono alla filosofia dell’A. doveva riportare la no-
zione dell’A. ai suoi limiti e avviarla ad una nuova fase interpretativa.
Questa corrente è il pragma- tismo (v.). Se in un primo tempo l’A. viene
dichia- rata da William James la misura della verità del conoscere e quindi
assunta a giustificare proposi- AZIONE RIFLESSA 95 zioni morali e religiose
teoreticamente ingiustifica- bili, le analisi empiristiche di James, e meglio
ancora quelle di Dewey, dovevano mettere in luce il con- dizionamento dell'A.
da parte delle circostanze che lo provocano, il rapporto di essa con la
situazione che ne costituisce lo stimolo; e perciò i limiti della sua
efficienza e della sua libertà. Ma da questo punto di vista l’A. cessa di
essere legata unicamente al soggetto e di trovare unicamente in esso o nella
attività di esso (volontà) il suo principio. Perde la possibilità di consumarsi
e di esaurirsi nel soggetto stesso; e diventa un comportamento, la cui analisi
deve prescindere dalla divisione delle facoltà o dei poteri dell'anima, mentre
deve tener presente la situazione o lo stato di cose cui deve riuscire ade-
guato (v. AZIONE; COMPORTAMENTO). AZIONE MINIMA (ingl. Least Action; fran- cese Moindre
Action; ted. Kleinsten Aktion). Il principio che «la
natura non fa nulla d’inutile » (natura nihil facit frustra) e segue la via più
breve ed economica. La massima si trova in Aristotele (De An., III, 12, 434 a
31; De cael., I, 4, 271 a 32; De Part. Anim., I, 5, 645 a 22), viene ripetuta
da S. Tommaso (/n III An., 14); e ripresa in tempi moderni da Galileo, Fermat,
Leibniz, ecc. Nel 1732 Maupertuis formulava il principio matematicamente e lo
introduceva nella meccanica col nome di «legge di economia della natura » (Lex
Parsimo- niae). Ma anche per Maupertuis il principio con- servava quel
carattere finalistico che aveva convinto Aristotele ad adottarlo. Nel Saggio di
Cosmologia Maupertuis scriveva: « È questo il principio, così saggio, così
degno dell’Essere supremo: qualsiasi cambiamento abbia luogo in natura, la
somma di A. spese in questo cambiamento è la più piccola possibile ». Tuttavia
il principio non ha, nella mec- canica, il significato finalistico che
Maupertuis gli attribuiva. Nella riesposizione che ne dette La- grange
(Mécanique Analytique, II, 3, 6) fu chiaro che esso esprime la conservazione
non soltanto del mi- nimo ma anche del massimo di A. e che inoltre sia il
minimo che il massimo devono essere considerati relativamente e non
assolutamente. Da questo punto di vista Hamilton generalizzava il principio
nella forma di « principio dell'A. stazionaria »: e in questa forma esso dice
soltanto che, in certe classi di feno- meni naturali, il processo di mutamento
è tale che qualche grandezza fisica appropriata sia un estremo (cioè un minimo
o un massimo, più spesso un mi- nimo). Ma quale sia la grandezza in questione e
quale sia il suo minimo o massimo è cosa che può mutare da un ordine di
considerazioni all’altro. Del principio della minima azione si è talora parlato
in psicologia, in estetica e perfino nell’etica (cfr. James, Princ. of
Psychol., II, pag. 188, 239 seguenti; SIMMEL, £inleitung in die moral Wis-
senschaft, 1892, I, pag. 58). Esso non va confuso col principio metodologico
dell’economia che con- cerne, non l’azione della natura o di Dio, ma la scelta
dei concetti e delle ipotesi per la descrizione dei fenomeni naturali (v.
ECONOMIA). AZIONE RECIPROCA. V. RECIPROCITÀ. AZIONE RIFLESSA (ingl. Reflex
Action; franc. Action réflexe; ted. Reflex Bewegune). In ge- nerale, una
risposta meccanica (involontaria), uni- forme e adatta, dell'organismo ad uno
stimolo esterno © interno all’organismo stesso. Un riflesso è, per es., la
contrazione della pupilla quando l’occhio è stimolato dalla luce o la
salivazione al gusto o alla vista di un cibo. Dal riflesso così in- teso va distinto
l’arco riflesso che è il dispositivo anatomo-fisiologico destinato a mettere in
atto il riflesso. Tale dispositivo è formato dal nervo af- ferente o centripeto
che subisce lo stimolo, dal nervo efferente o centrifugo che produce il movi-
mento e da una connessione tra questi due nervi, stabilita nelle cellule
nervose centrali. L'importanza filosofica di questa nozione, elaborata prima
dalla fisiologia (sec. xvi) poi dalla psicologia, sta nel fatto che essa è
stata assunta come lo schema esplicativo causale della vita psichica: dapprima
dei meccanismi involontari soltanto (istinti, emo- zioni, ecc.) poi anche delle
attività superiori. Tutto ciò che dalla vita psichica può infatti essere ricon-
dotto all’A. riflessa, può essere spiegato causal- mente a partire dallo
stimolo fisico che mette in moto l’arco riflesso. Data l’uniformità di tale A.,
essa è prevedibile a partire dallo stimolo: il che vuol dire che essa è
causalmente determinata dallo stimolo stesso. In tal modo l'A. riflessa non è
che il meccanismo per il quale la causalità psichica si inse- risce nella
causalità della natura, come parte di essa. Queste nozioni si sono venute
elaborando a par- tire dalla metà dell’800 in poi cioè da quando la psicologia
si è costituita come scienza sperimentale {v. PsicoLogIa). Conformemente
all’indirizzo ato- mistico che è stato proprio per lungo tempo della psicologia
essa ha cercato di risolvere i riflessi com- plessi in riflessi semplici,
dipendenti da circuiti nervosi elementari. La dottrina dei riflessi condi-
zionati fondata da Pavlov su basi sperimentali (a partire dal 1903; cfr. gli
scritti di Pavlov raccolti nel volume / riffessi condizionati, Torino, 1950)
obbedisce alla stessa esigenza ed ha anzi contribuito per qualche tempo a
rafforzarla, facendo nascere la speranza che anche i comportamenti superiori si
potessero spiegare col vario combinarsi di mec- canismi riflessi assai
semplici. Un riflesso condizio» nato è quello in cui la funzione eccitatrice
dello stimolo che abitualmente lo produce (stimolo in- condizionato) è assunta
da uno stimolo artificiale (condizionato) col quale il primo è stato in qualche
modo associato. Per es., se si presenta un pezzo di carne a un cane questo
stimolo provoca nel cane un’abbondante salivazione. Se la presentazione del
pezzo di carne è stata numerose volte associata ad un altro stimolo
artificiale, per es., al suono di un campanello o alla comparsa di una luce,
questo secondo stimolo finirà per produrre, da solo, l’effetto del primo, cioè
la salivazione del cane. È chiaro che il combinarsi e il sovrapporsi dei
riflessi condizionati può spiegare numerosi comportamenti che a prima vista non
si collegano con riflessi na- turali o assoluti. Più recentemente si è visto
nel riflesso condizionato anche la spiegazione del com- portamento cosiddetto
simbolico dell’uomo, cioè del comportamento diretto da segni o simboli, lingui-
stici o di altra natura. Per es., il viaggiatore che incontra sulla strada un
cartello che lo avverte che la strada è più in là interrotta, reagisce (per es.,
tornando indietro) proprio come se avesse visto l'interruzione della strada.
Qui il simbolo (il car- tello) si è sostituito come stimolo artificiale allo
stimolo naturale (la vista dell’interruzione). Pavlov e molti sostenitori della
teoria dei riflessi condizio- nati hanno tenuto fede al principio che ogni ri-
flesso che entra a comporre un riflesso condizionato è un meccanismo semplice
ed infallibile realizzato da un determinato circùito anatomico. Perciò anche la
teoria del riflesso condizionato, com’è esposta da Pavlov, s’inscrive nei
limiti di quella che si suole oggi chiamare «teoria classica dell’atto riflesso
», cioè dell'interpretazione causale dell’A. riflessa. Tuttavia un imponente
complesso di osservazioni sperimentali, fatte dalla fisiologia e dalla
psicologia negli ultimi decenni a partire dal 1920 circa, hanno reso sempre più
difficile d’intendere l’A. riflessa nel suo schema classico. In primo luogo si
è visto che l’A. degli stimoli complessi non è prevedibile a partire da quella
degli stimoli semplici che lo compongono e cioè che i cosiddetti riflessi
semplici si combinano tra di loro in modi imprevedibili. In secondo luogo, lo
stesso concetto di « riflesso elementare +, cioè del riflesso che entrerebbe a
com- porre i riflessi complessi, è stato giudicato illegittimo: e difatti tutti
i riflessi osservabili sono complessi e un riflesso « semplice » cioè non
decomponibile è una semplice congettura. In terzo luogo, le stesse osservazioni
sui riflessi condizionati dimostrano la irregolarità e l’imprevedibilità di
certe risposte: ir- regolarità e imprevedibilità che Pavlov spiegava con la
nozione dell’inibizione la quale tuttavia è soltanto un nome per indicare il
fatto che una certa reazione, che si aspettava, non si è verificata (GOLDSTEIN,
Der Aufbau des Organismus, 1927; MERLEAU PONTY, Structure du comportement,
1949). Questi e altri or- dini di osservazione, messi avanti soprattutto dalla
psicologia della forma (cfr., ad es., KATZ, Gestalt- psychologie, cap. III),
fanno vedere come il ri- flesso non può essere inteso come un’A. dovuta a un
meccanismo causale. Si parla di riflesso là dove si può determinare, nei
confronti di un certo stimolo, un campo di reazioni sufficientemente uni- formi
per essere prevedute con un alto grado di probabilità. Le A. riflesse
costituiscono da questo punto di vista una classe di reazioni e precisamente
quella caratterizzata dall’alta frequenza di uniformità delle reazioni stesse.
Ma con ciò la nozione di riflesso si sottrae allo schema causale per rientrare
in quello generale di condizionamento (v. CONDIZIONE). B. Nella logica
medievale tutti i sillogismi indicati da una parola mnemonica che cominci con B
(Ba- ralipton, Baroco, Bocardo) sono riducibili al primo modo della prima
figura (Barbara). (Cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20). BANAUSIA (gr.
Bavavota). La parola, che in greco significa arte meccanica o lavoro manuale in
genere, implica una valutazione negrato per tutto il Medioevo, e solo il
Rinascimento T — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. ha cominciato ad
introdurre nel mondo moderno il concetto della dignità del lavoro manuale (vedi
LAVORO). BARALIPTON. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il
quinto modo della prima figura del sillogismo e precisamente quello che con-
siste di due premesse universali affermative e di una conclusione particolare
affermativa come nel- l’esempio: « Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è
animale, Dunque qualche sostanza è uomo + (PIETRO Ispano, Summul. logic.,
4.08). BARBARA. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il primo
dei nove modi del sillogismo di prima figura, il quale consta di due premesse
universali affermative e di una conclu- sione anche universale affermativa come
l’esempio: «Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale, Dunque ogni uomo è
sostanza » (Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.07; Logica di Porto Reale, III,
5). BARBARI. Parola mnemonica usata nella Lo- gica di Porto Reale per indicare
il quinto modo del sillogismo di prima figura (cioè il Baralipton) con la
modificazione di assumere per premessa maggiore la proposizione in cui entra il
predicato della con- clusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i miracoli
della natura sono ordinari, Tutto ciò che è ordinario non ci meraviglia, Dunque
ci sono cose che non ci meravigliano, che sono miracoli della natura »
(ARNAULD, Logique, III, 8). BARBARIE. Così Vico chiamò lo stato primi- tivo,
ferino, del genere umano dal quale poi il ti- more del divino ha a poco a poco
tràtto l’ordine del mondo propriamente umano. « B. ritornata + 0 « B. ricorsa
+, chiamò poi il Medioevo (Scienza nuova, degnità, 56; Lettera al De Angelis,
Opere, ed. Utet, pag. 159). BAROCO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici
per indicare il quarto dei quattro modi del sillogismo di seconda figura e
precisamente quello che consiste di una premessa universale affermativa, 98
BEATITUDINE di una premessa particolare negativa e di una con- clusione
particolare negativa come nell’esempio: «Ogni uomo è animale, Qualche pietra
non è ani- male, Dunque qualche pietra non è uomo » (PIETRO Ispano, Summul.
logic., 4.11). Si è fatta derivare da questa parola la voce « barocco » usata a
designare la forma d’arte o in generale lo spirito proprio del sec. xva. « Non
par dubbio, ha detto Croce, che la parola si ricolleghi ad uno di quei vocaboli
artificialmente composti e memoriali coi quali nella logica me- dioevale si
vennero designando le figure del sillo- gismo. Tra quei vocaboli (Barbara,
Celarent, ecc.) due, almeno in Italia, colpirono più degli altri e divennero
quasi proverbiali, a preferenza degli altri: il primo, cioè Barbara, perchè era
il primo, e poi, chissà perchè, Baroco, che designava il quarto modo della
seconda figura. Dico non so perchè non essendo quello più strano degli altri,
nè più contorto il modo di sillogismo che esso indicava: forse vi contribuì
l’allitterazione con Barbara » (Storia dell’età barocca in Italia, 19olta usa
il termine scambievolmente con felicità, connette la B. con la contemplazione e
la commisura all'estensione che l’attività con- templativa ha nei vari esseri
viventi. Così, l’intera vita degli dèi è beata perchè è tutta contemplativa.
Agli uomini spetta una specie di similitudine di questa vita perchè si
sollevano solo di tanto in tanto alla contemplazione; gli animali non sono per
nulla beati perchè mancano di attività contem- plativa (Er. Nic., X, 8, 1178 b
9 sgg.). Tra gli uomini, ovviamente, il saggio è il più beato (/bid., I, 11,
1101 b 24). Nella filosofia post-aristotelica e soprattutto in quella stoica,
la B. del saggio divenne un tema diffuso di esercitazione (cfr. il De vita
beata di Seneca) e nel neo-platonismo di Plotino la critica della felicità come
è intesa da Stoici e Aristotelici (Enn., I, 4) si accompagna col concetto di
una B. che è inattiva perchè è indifferente ad ogni realtà esterna. « Gli
esseri beati sono immobili in se stessi e a loro basta d’essere quel che sono:
essi non si arrischiano ad occuparsi di checchessia perchè questo li farebbe
uscire dal loro stato, ma tale è la loro felicità che, senza agire, essi compiono
grandi cose e fanno non poco restando immobili in se stessi» (/bid., III, 2,
1). Dal neo-platonismo in poi si può dire che il concetto di B. si sia distinto
sempre più nettamente da quello di felicità connet- tendosi strettamente con la
vita contemplativa, con l'abbandono dell’azione e con l’atteggiamento della
riflessione interiore e del ritorno a se stesso. La tradizione cristiana agì
nello stesso senso, connet- tendo la B. con una condizione o stato, di tanto
indipendente dalle vicende mondane di quanto in- vece dipendente dall’interna
disposizione dell’anima. La dottrina aristotelica della felicità propria della
vita contemplativa, servì di modello agli Scolastici per l’elaborazione del
concetto di beatitudine. San Tommaso dice che la B. è « l’ultima perfezione
del- l’uomo », cioè l’attività della sua più alta facoltà, l’intelletto nella
contemplazione della realtà supe- riore, cioè di Dio e degli angeli. « Nella
vita con- templativa l’uomo comunica con le realtà superiori, cioè con Dio e
con gli angeli ai quali si assimila anche nella B.». Pertanto la B. perfetta
l’uomo la otterrà soltanto nella vita futura che sarà tutta e interamente
contemplativa. Nella vita terrena egli può ottenere una B. solo imperfetta, in
primo luogo attraverso la contemplazione e in secondo luogo attraverso
l’attività dell’intelletto pratico che or- dina le azioni e le passioni umane,
cioè con la virtù (S. 7A., II, I, q. 3, a. 5). Nell’età moderna il con- cetto
di B. e quello di felicità si sono sempre più distinti, il primo riferendosi
alla sfera religiosa e contemplativa, il secondo alla sfera morale e pra- tica.
Si può dire che il solo filosofo che unisca i due significati non per una
semplice confusione, è Spinoza per il quale la B. «è la stessa sodisfazione
intima che nasce dalla cognizione intuitiva di Dio » (Er., IV, app. 4); e che
la identifica con la libertà e con l’amore dell’uomo verso Dio, che è lo stesso
amore con cui Dio ama se stesso (/bid., V, 36 Scol.). Ma poichè l’intuizione di
Dio o l'amore di Dio significano per Spinoza la conoscenza dell’or- dine
necessario delle cose del mondo (/bid., V, 31-33) il carattere
mistico-religioso o contemplativo della B. s’identifica col carattere mondano e
pra- tico della felicità. Lo stesso significato essa ha nel- l’opera di Fichte
Introduzione alla vita beata (1806). Qui la B. è definita, tradizionalmente,
come l’unione con Dio: ma Fichte si preoccupa di togliere il signi- ficato
contemplativo tradizionale, considerandola come il risultato, non già di un «
sogno devoto », ma della stessa moralità operante (Werke, V, pag. 474). Nel
pensiero moderno, la nozione e la parola one. Si possono distinguere cinque
concetti fondamentali del B., difesi e illustrati sia dentro che fuori
l’estetica e cioè: 1° il B. come manifestazione del bene; 2° il B. come
manifesta- zione del vero; 3° il B. come simmetria; 4° il B. come perfezione
sensibile; 5° il B. come perfezione espressiva. 1° Il B. come manifestazione
del bene è la teoria platonica del bello. Secondo Platone, alla sola bellezza,
fra tutte le sostanze perfette, « toccò il privilegio d’essere la più evidente
e la più ama- bile » (Fedro, 250 e). Perciò nella bellezza, e nel- l’amore che
essa suscita, l’uomo trova il punto di partenza per il ricordo o la
contemplazione delle sostanze ideali (/bid., 251 a). La ripetizione di questa
dottrina del B. nel neo-platonismo assume un ca- rattere teologico o mistico
perchè il bene o le essenze ideali di cui Platone parlava sono da Plo- tino
ipostatizzate e unificate nell’Uno cioè in Dio; e l’Uno e Dio vengono definiti
come «il Bene ». «È il Bene, dice Plotino, che fornisce la bellezza a tutte le
cose» sicchè il B. nella sua purezza è il bene stesso e tutte le altre bellezze
sono acquisite, mescolate e non primitive: perchè vengono da esso (Enn., I, 6,
7). Questa forma mistica o teologica non sempre riveste la dottrina del B. come
mani- festazione del bene; ma è ovvio che simile dottrina è esplicitamente o
implicitamente presupposta ogni volta che si pone il compito dell’arte nel
perfezio- namento morale. 2° La dottrina del B. come manifestazione del vero è
propria dell’età romantica. «Il B., diceva Hegel, si definisce come
l’apparizione sensibile del- l’Idea ». Ciò significa che bellezza e verità sono
la stessa cosa e che si distinguono solo perchè mentre nella verità l’Idea ha
la sua manifestazione ogget- tiva e universale, nel B. essa ha la sua
manifesta- zione sensibile (Vorlesungen iber die Aesthetik, ed. Glockner, I,
pag. 160). Raramente, fuori di Hegel, questo punto di vista è stato presentato
in una forma così decisa. Esso tuttavia ricompare in quasi tutte le forme
dell’estetica romantica e co- stituisce indubbiamente una definizione tipica
del bello. 3° La dottrina del B. come simmetria fu pre- sentata per la prima
volta da Aristotele. Il B. è costituito, secondo Aristotele, dall’ordine, dalla
sim- metria e da una grandezza adatta ad essere ab- bracciata nel suo insieme
da un sol colpo d’occhio (Poetica, 7, 1450b 35 sgg.). E questa dottrina fu
accettata dagli Stoici, dai quali la ripeteva Ci- cerone: «Come nel corpo
esiste un’armonia di fattezze ben proporzionate congiunta con un bel colorito,
che si chiama bellezza, così per l’anima l’uniformità e la coerenza delle
opinioni e dei giu- dizi congiunta a una certa fermezza e immutabilità, che è
conseguenza della virtù o contiene l'essenza stessa della virtù, si chiama
bellezza » (Tusc. Disp., IV, 13, 31). Questa dottrina rimase fissata per lungo
tempo nella tradizione. La seguirono gli Sco- lastici (per es., S. ToMMasO, S.
7h., I, q. 39, a 8). E la seguirono molti scrittori-artisti del Rinasci- mento
quando vollero illustrare del piacere sensibile ciò che si suol chiamare «
bellezza ». Kant unificò quelle due de- finizioni complementari del B. e
insistette su quello che anche oggi appare come il carattere fon- damentale di
esso cioè il disinteresse. Conseguen- temente egli definiva il B. «ciò che
piace uni- versalmente e senza concetti » (Crif. del Giud., $ 6): e insisteva
sull’indipendenza del piacere del B. da ogni interesse, sia sensibile che
razionale. « Ognuno chiama piacevole, egli disse, ciò che lo sodisfa, B. ciò
che gli piace, buono ciò che apprezza o approva, ciò a cui dà un valore
oggettivo. Il pia- cere vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza
solo per gli uomini nella loro qualità di esseri animali ma ragionevoli, e non
soltanto in quanto essi sono ragiopondente alle tre forme dell’attività umana
riconosciute proprie dell’uomo: l’intelletto, il sentimento e la volontà. Per
quanto questa tripartizione sia stata per lungo tempo ritenuta come un dato di
fatto originario, testimoniato dalla «coscienza» o dall’« esperienza interiore
+», essa è in realtà una nozione storicamente derivata, che è nata, nella
seconda metà del ’700, dal- l’inserirsi della « facoltà del sentimento » tra le
altre due facoltà (riconosciute sin dal tempo di Aristotele): la teoretica e la
pratica (v. GUSTO; SENTIMENTO). 5° Come perfezione espressiva o compiutezza
dell’espressione, il B. è implicitamente o esplicita- mente definito da tutte
le teorie che considerano l’arte come espressione (v. ESTETICA, 3). Croce ha
detto: « Ci sembare al dominio della moralità, cioè dei mores, della condotta,
dei comportamenti umani inter-soggettivi, e designa perciò il valore specifico
di tali compor- tamenti. In questo secondo significato, cioè come B. morale, il
B. è oggetto dell’etica e la registra- zione dei suoi differenti significati
storici deve es- sere fatta appunto a proposito della voce Etica (v.). In
questa sede dovremo pertanto occuparci della nozione del B. solo nel primo
senso, cioè nella sua accezione più generale. Possiamo allora di- stinguere due
punti di vista fondamentali, che si sono intersecati nella storia della
filosofia: 1° la teoria mefafisica per la quale il B. è la realtà e
precisamente la realtà perfetta o suprema e viene desiderato come tale; 2° la
teoria sogget- tueste cose e sta al di là di esse (/bid., 509 b). Analogamente
Plotino vede nel B. la prima Ipostasi, cioè l'origine della realtà, Dio stesso,
e lo considera come causa ad un tempo dell’essere e della scienza (Enn., VI, 7,
16) e in generale di tutto ciò che è o vale a un titolo qualsiasi (/bid., V, 4,
1). Queste nozioni di- vennero correnti nella filosofia medievale che iden-
tificò, secondo l’esempio neo-platonico, il B. con Dio stesso in modo che può
dirsi « buono » solo ciò che in qualche modo è simile a Dio (S. Tom- MASO, S.
Th., I, q. 6, a. 4). Il teorema caratteristico di questa concezione del B. è
quello che afferma l’identità di ciò che è B. e di ciò che esiste. « Bonum e
ens sono la stessa cosa in realtà, dice S. Tommaso, per quanto pos- sano dissè
col B. » (Philosophische Propàdeutik, III, $ 83); o che il B. è «la libertà
realizzata, l’assoluto scopo finale del mondo » (Fil. del dir., $ 129). Tutte
le forme di idealismo e di spiritualismo costituiscono altrettante dottrine
metafisiche del B. giacchè tutte identificano il B. con la realtà e, al limite,
con la realtà suprema; così fa, per es., Rosmini che iden- tifica l’essere e il
bene (Principi della scienza morale, ed. naz., pag. 78) e così fa Gentile che
identifica il B. con lo spirito in atto: «Il B. o valore morale non è altro che
la realtà spirituale nella sua idea- lità, come produzione di se stessa o
libertà » (Lo- gica, I, pag. 110). Alcune filosofie contemporanee che
preferiscono parlare del valore anzichè del B., considerando il valore coola
dei valori prescindeva com- pletamente dalla perfezione oggettiva cui si rife-
rivano le tavole dei valori della concezione clas- sica greca. Obliterata per
tutto il Medioevo, la concezione soggettivistica del B. ritorna, nel
Rinascimento, con gli accenni a un’etica del movente che ricorrono in questo
periodo (v. Erica). Ma fu affermata nella sua forma più recisa da Hobbes.
«L'uomo, egli dice, chiama buono l’oggetto del suo appetito o del suo desiderio,
cartivo l’oggetto del suo odio 0 della sua avversione, vile l’oggetto del suo
disprezzo. Le parole ‘ buono ”, ‘ cattivo ’, ‘ vile’, s'intendono sempre in
rapporto a chi le adopera; perchè non c’è nulla di assolutamente e
semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il B. e per il male, che
derivi dalla natura delle cose +» (Leviath., I, 6). Spinoza accettò con
entusiasmo questo punto di vista. « Noi non ci proponiamo, vogliamo, deside-
riamo, bramiamo una cosa perchè la giudichiamo buona; ma al contrario
giudichiamo buona una cosa per il fatto che la proponiamo, vogliamo, de-
sideriamo e bramiamo +» (Er., III, 9, Scol.). E nella Prefazione al IV libro
ribadisce: «Il B. e il male non indicano nulla di positivo, che sia nelle cose
in sè considerate; ma sono nient’altro che modi di pensare o nozioni che ci
formiamo confrontando le cose fra loro. Difatti una stessa cosa può nello
stesso tempo essere buona, cattiva, e anche indiffe- rente ». A sua volta Locke
affermò che «ciò che è àtto a produrre piacere in noi è quello che chia- miamo
B. e ciò che è àtto a produrre pena è ciò che chiamiamo male» (Saggio, II, 21,
43); defini- zioni che trovano consenziente Leibniz: « Si divide il B. in
onesto, piacevole e utile, ma in fondo io credo che esso deve essere o
piacevole di per se stesso o servire a qualcosa che ci dia un sentimento di
piacere: e cioè il B. è piacevole o utile e l’onesto stesso consiste in un
piacere dello spirito » (Nouv. Ess., II, 20, 2). Kant ha accettato queste
notazioni aggiungendovi un elemento importante, cioè l’esi- genza di un
riferimento concettuale. «Il B., egli dice, è ciò che, mediante la ragione,
piace per il suo puro concetto. Chiamiamo qualcosa buona a (utile) quando essa
piace solo come mezzo; quella che invece piace per se stessa, la diciamo buona
102 in sè. In acere perchè al riconosci- mento del B. è connessa la valutazione
concettuale della sua efficienza rispetto a certi fini e questo costituisce il
B. come « un valore oggettivo ». Dopo di Kant, la nozione di valore ténde a
soppiantare quella di B., nelle discussioni morali, e può essere considerata
come l’erede del concetto soggettivo di B., dotata com’è delle sue stesse con-
nessioni sistematiche. Sul suo terreno tuttavia rina- scerà, in forma appena
mutata, l’alternativa tra una concezione oggettivistica e una concezione sog-
gettivistica: alternativa che a tutt’oggi costituisce uno dei temi fondamentali
della discussione morale (v. VALORE). BENE SOMMO (gr. caya0év; lat. Summum bonum; ingl.
Supreme Good; franc. Souverain Bien;
ted. Das hochste Gut). Nozione introdotta da Ari- stotele per indicare ciò che
viene desiderato di per se stesso e non in vista di un B. ulteriore. Un B.
sommo è necessario che ci sia per evitare il processo all’infinito (Et. Nic.,
I, 2, 1094a 18). Per Aristotele il sommo B. è la felicità. Gli Scola- stici
adoperano l’espressione per indicare Dio stesso (S. Tommaso, S. 7h., I, q. 6,
a. 1). Kant ritenne l’aggettivo «sommo» equivoco giacchè esso può significare
sia supremo (supremum) sia perfetto (con- BENE SOMMO summatum). Il B. supremo è
la condizione prima, originaria di ogni B.: è perciò la virtù. Ma il B.
perfetto è quello che non è parte di un B. mag- giore della stessa specie; e in
questo senso la virtù non può dirsi il B. perfetto, che è invece l’unione di
virtù e felicità (Crit. R. Pratica, Dialettica, ca- pitolo II). BENEVOLENZA. V.
Bontà. BENTHAMISMO. V. UTILITARISMO. BERGSONISMO. V. SPIRITUALISMO.
BERKELEISMO. V. IMMATERIALISMO. BICONDIZIONALE (ingl. Biconditional; fran- cese
Biconditionnel). Con questo nome o con quello di «equivalenza materiale » è
inteso comunemente, nella logica contemporanea, il connettivo «se e solo se»
simboleggiato talora col segno = (cfr. Quine, Methods of Logic, $ 3). Il B.
equivale ovvia- mente alla congiunzione dei due condizionali « se p allora g +
e «se gq allora p». BIOGENETICA, LEGGE (ted. Biogenetisches Grundgesetz). Così
il biologo tedesco Ernesto Hae- ckel (1834-1919) chiamò il parallelismo tra lo
svi- luppo dell’embrione individuale e lo sviluppo della specie a cui esso
appartiene. Per ciò che riguarda l’uomo, «l’ontogenesi ossia lo sviluppo
dell’individuo è una breve e rapida ripetizione (una ricapitola- zione) della
filogenesi o evoluzione della stirpe cui esso appartiene » (Nasùrliche
Schopfungsgeschichte, 1868; trad. ital., pag. 178-89). BIOLOGISMO (ingl.
Biologism; franc. Biolo- gisme; ted. Biologismus). 1. L’interpretazione del
mondo fisico o del mondo umano per analogia con l’organismo (v. ORGANICISMO).
2. Lo stesso che Vitalismo (v.). 3. La metafisica di Hans Driesch (1867-1941),
in quanto è una « filosofia dell’organico ». Driesch divide infatti la
filosofia in « dottrina dell’ordine » che ha per oggetto l’intero mondo
inorganico e « dottrina della vita » che ha per oggetto il mondo organico. Il presupposto
di questa suddivisione è che l'organismo non è riducibile a forma o mani-
festazione dell’ordine inorganico; o, in altre parole, non è una macchina. Ciò
che esso ha in più della macchina è l’entelechia che è concepita da Driesch
come una specie di monade nel senso leibniziano, la quale determina tutto lo
sviluppo di un essere vivente. L’entelechia è sopra-individuale e sopra-per-
sonale: la nascita di un uomo non è che la manife- stazione di un’entelechia,
manifestazione che ter- mina con la morte. Gli individui sono soltanto parti
della vita sopra-personale dell’entelechia (Philosophie des Organischen,
1908-09; Ordnungslehre, 1925). BIOSFERA (franc. Biosphère). Così Le Roy ha
chiamato la vita nella sua totalità, in quanto sta con gli individui nello
stesso rapportsciplina » o di «regole » e di « B. di li- bertà »; di « B. di
affetto » e di « felicità », di « aiuto », di «comunicazione + e via dicendo.
Ogni tipo o forma possibile di rapporto tra l’uomo e le cose o tra l’uomo e gli
altri uomini può essere conside- rata sotto l’aspetto del B.: il quale implica
la di- pendenza dell’essere umano da tali rapporti. Nella storia della
filosofia la nozione del B. è stata trat- tata sotto due angoli visuali: 1° più
frequentementedal punto di vista morale, cioè dal punto di vista del problema
dell’atteggiamento da prendere di fronte ai B., se limitarli o incoraggiarli o
in che modo e grado limitarli; 2° meno frequentemente, dal punto di vista della
importanza e del signifi- cato che il bisogno ha rispetto al modo d’essere
proprio dell’uomo, della possibilità che offre di comprendere e descrivere la
sua esistenza. Il pro- blema della disciplina dei B., cioè della limitazione
qualitativa e quantitativa di essi, è il problema stesso della virtù, in
particolare della virtù etica; e i suoi sviluppi storici devono essere
considerati per l’appunto sotto la voce Virtà (v.). Il problema che il B.
presenta come segno, sintomo o elemento della condizione umana, può essere
invece consi- derato in questa sede. Nell’antichità, Platone pare che abbia
riconosciuto il valore del B.: questo sembra essere il significato
dell’importanza che egli riconosce all’amore, che egli intese nel Convito
(204-05) nel significato più vasto, come mancanza e ricerca di ciò che manca.
AI B. inoltre, Platone attribuì nella Repubblica (II, 369b sgg.) l’origine
dello Stato: « Quando un uomo prende con sè un uomo in vista di un B. e un
altro uomo in vista di un altro B., e la molteplicità dei B. riunisce nella
stessa residenza più uomini che si associano per aiutarsi, a questa società noi
diamo il nome di Stato ». Meno esplicita è la funzione che la nozione del B. ha
nella filosofia di Aristotele: il quale non ignora certo il peso che esso ha
nella vita singola e associata dell’uomo (come mostra specialmente la sua
Politica) ma non gli attribuisce una funzione 103 specifica: l’origine stessa
dello Stato è da lui posta nell’esigenza di realizzare una vita felice, che si-
gnifica prevalentemente una vita virtuosa (Pol., VII, 2, 1324 a S sgg.). La
filosofia post-aristotelica si disinteressa dei bisogni anche quando con Epi-
curo prescrive di sodisfarli (Mass. capit., 26; Fr. 200, Usener), giacchè è
troppo occupata a delineare l’ideale del saggio, dedito alla vita puramente
con- templativa. E non si avvalgono del B. per inter- pretare la realtà umana
nè la filosofia medievale, nè quella moderna, le quali preferiscono far leva su
quegli elementi o caratteri che mettono in ri- salto piuttosto l’indipendenza
dell’uomo dal mondo che la sua dipendenza da esso. Hegel, pur parlando di un
«sistema dei B.» preferisce insistere sul- l’aspetto per cui il B. è dominato
dall’uomo più che dominarlo: « L'animale ha una cerchia limitata di mezzi e di
modi di appagamento dei suoi B., che sono parimenti limitati. L'uomo, anche in
questa dipendenza, dimostra, nello stesso tempo, il suo superamento della
medesima e la sua univer- salità, soprattutto mediante la moltiplicazione dei
B. e dei mezzi e poi mediante la scomposizione e la distinzione del B. concreto
» (Fil. del Dir., $ 190). La prima clamorosa affermazione dell’importanza dei
B. per l’interpretazione di ciò che l’uomo è O può essere, si può scorgere
nella filosofia di Scho- penhauer che interpretò come B., quindi come man-
canza, quindi come dolore, la volontà di vita che costituisce l’essenza
noumenica del mondo. «La base di ogni volontà è bisogno, mancanza, ossia
dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura » (Die Welt, 1819, I,
$ 57). Al di fuori della metafisica, sul terreno dell’antropologia, insisteva
sulla stretta connessione del B., con la natura umana L. Feuerbach (Grundsatze
der Philosophie der Zukunft, 1844). Marx nei suoi scritti giovanili (Economia e
filosofia, 1844; Ideologia tedesca, 1845-46) accentuò l’importanza dei B. e
perciò del lavoro diretto a sodisfarli, sino a farne il tema fondamentale della
sua antropologia (v. PER- sona). Nella filosofia contemporanea, oltre che dal
marxismo, l’importanza della nozione del B. per l’interpretazione della realtà
umana, è sotto- lineata da un lato dal naturalismo, dall’altro dal-
l’esistenzialismo. Dewey, per es., insistendo sulla « matrice biologica » di
ogni attività umana, quindi anche della logica, vede nel B. la rottura dell’in-
stabile equilibrio organico e l’inizio della ricerca che ténde a ristabilirlo
(Logic, cap. II; trad. ital., pag. 63). Dall’altro lato Heidegger definendo l’«
es- sere-nel-mondo + in cui l’esistenza dell’uomo con- siste come cura (v.),
insiste sulla dipendenza del- l’uomo dal mondo, sul suo «esser gettato nel
mondo, dal quale le possibilità umane dei rapporti con le cose e con gli altri
uomini si trovano do- minate » (Sein und Zeit, $ 39 sgg., cfr. $ 20). La
nozione di bisogno che emerge da queste notazioni non è quella di uno stato
provvisorio di mancanza o di deficienza (si ha bisogno dell’aria anche se ce
n’è in abbondanza) ma piuttosto quella di uno stato o condizione di dipendenza
che caratterizza, in modo specifico, l’uomo e in generale l’essere finito nel
mondo. BOCARDO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il
quinto dei sei modi del sillo- gismo di terza figura e precisamente quello che
con- siste di una premessa particolare negativa, di una premessa universale
affermativa e di una con- clusione particolare negativa come nell’esempio:
«Qualche uomo non è pietra, Ogni uomo è ani- male, Dunque qualche animale non è
pietra» (Pietro Ispano, Summul. logic., 4.15). BONTÀ (lat. Bonitas; ingl.
Goodness; francese Bonté; ted. Giitigkeit). Nel significato più esteso:
l’eccellenza di un oggetto qualsiasi (cosa o persona). Dice, ad es., S.
Tommaso: «La B. che in Dio è semplicemente e uniformemente, nelle creature è in
modo molteplice e diviso» (S. 7h., I, q. 47, a. 1). Le discussioni del Sei e
Settecento intorno alla B. di Dio come movente della creazione (cfr. LerBNIZ,
7héod., II, $ 116 e sgg.) si fondarono su un più ristretto significato del
termine, che fu espresso chiaramente da Baumgarten: « La B. (be- nignità), egli
disse, è la determinazione della volontà a far bene agli altri. Il beneficio è
l’azione utile all’altro, suggerita dalla B.» (Mer., $ 903). In questo senso la
B. si identifica con quella che Ari- stotele chiamava benevolenza (eùvola) (Er.
Nic., VIII, 2, 1155 b 33). I due significati del termine sono vivi nell'uso
comune. BORIA. Vico parla della B. delle nazioni che consiste nel credere
«d’aver esse prima di tutte l’altre ritrovati i comodi della vita umana e con-
servar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo +»: e della B.
dei dotti «i quali, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo
» (Scienza Nuova, 1744, Degn. 3, 4). La B. dei dotti ha impedito di riconoscere
che l’origine del mondo storico è dovuta a «uomini bestioni » e ha con- dotto
ad attribuire tale origine a « uomini sapienti » che avrebbero agito per
riflessione. BOVARISMO (franc. Bovarisme). Termine de- rivato dal nome della
famosa eroina di Flaubert (Madame Bovary, 1857) per indicare l’atteggiamento di
chi crea a se stesso una personalità fittizia e cerca di vivere in conformità
di essa, urtando contro la sua propria natura e contro i fatti. Il termine fu
creato da Jules de Gaultier (Le bovarisme, 1902). BRACHILOGIA (gr.
Bpayvàdoyia). Nel Prota- gora di Platone, Socrate contrappone alla tendenza di
Protagora di tener lunghi discorsi, la sua esi- BOCARDO genza di risposte brevi
e succinte, ovviamente perchè soltanto attraverso lo scambio di frasi concise è
pos- sibile la discussione dialogata (Prof., 334 c-335 a). BRUTISMO (franc.
Brutisme). Termine adope- rato da St.-Simon per indicare la concezione mec-
canistica dei fenomeni, e che è perciò l’equivalente di meccanicismo (v.).
BUDDISMO (ingl. Buddhism; franc. Bouddhi- sme; ted. Buddhismus). La dottrina
religiosa e filoso- fica che si è originata dagli insegnamenti di Gautama Budda
(563-480 a. C. circa) e che è poi stata svolta da mumerosissimi indirizzi in
India, in Cina e in Giappone. I principali testi del B. sono quelli scritti in
lingua pali, detti Tipitaka e divisi in tre gruppi o ceste che sono: 1° il
Surrapitaka che o sforzo; 7° nella giusta men- talità; 8° nella giusta
concentrazione. L’uomo è, secondo il B., sottoposto alla legge del-
l’incessante fiuire della vita (dharma) che lo porta di desiderio in desiderio,
di dolore in dolore, e di incar- nazione in incarnazione. Finchè l’uomo non si
libera dal desiderio, è sottoposto al ciclo della rinascita (sam- sara). La
liberazione dal desiderio, ottenuta attraverso le regole morali suddette e la
disciplina ascetica (che il B. condivideva con il bramanesimo e con la pra-
tica yoga), si ha soltanto con la dissoluzione dell’il- lusione prodotta dal
desiderio (e che è il karma), con l’eliminazione del desiderio stesso e la di-
struzione dell’attaccamento alla vita, che è il nirvana. Le numerosissime
scuole, sètte, indirizzi a eguale in tutti gli uomini ». Questa sinonimia non
potrebbe più oggi essere ammessa. Da un lato la ragione è passata sempre più a
designare tecniche specifiche (v. RAGIONE), dall’altro il B. senso è rimasto a
designare un certo equilibrio e una certa moderazione nel giudizio sulle
faccende ordinarie della vita e nel modo quo- tidiano di comportarsi. Spesso
tuttavia accade che ciò che appare stravagante o paradossale al B. senso ha
maggior valore di ciò che ad esso è conforme: perchè il B. senso non può far
altro che riferirsi al sistema stabilito di credenze e di opinioni e non può
giudicare che in base ai valori che esso include. Molto spesso la scienza e Ja
filosofia devono pre- scindere dal B. senso, per quanto non possano prescindere
mai o mai interamente da quelle fac- cende quotidiane e minute fra le quali il
B. senso dovrebbe trovarsi a suo agio.C. 1. Nella logica medievale tutti i
sillogismi indi- cati con parole mnemoniche che cominciano con C sono
riducibili al secondo modo della prima figura (Celarent) (cfr. Pietro Ispano,
Summ. Log., 4.20). 2. Nella notazione di Lukasiewicz è usato per indicare il
condizionale o l’implicazione logica, più comunemente simboleggiato con «95»
(A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 91). CADUTA (gr. tertwaw; lat.
Casus; ingl. Fall; franc. Chute; ted. Fall).
Il mito della C. dell’anima umana da uno stato originario di perfezione, nel
quale contemplava beata la verità a faccia a faccia, è esposto nel Fedro (248a
e sgg.) di Platone e ripetuto da Plun’addizione o sottrazione delle conseguenze
dei nomi generali riuniti insieme per definire ed esprimere i nostri pensieri »
(Leviarh., I, 5). Leibniz chiamò « C. filosofico », la scienza universale o ca-
ratteristica universale (v.) in cui egli vedeva lo strumento dell’invenzione
concettuale (Op., ed. Erd- mann, pag. 82 sgg.). Carnap distingue il C. dal
sistema semantico nel senso che « mentre gli enun- ciati di un sistema
semantico sono interpretati, asse- riscono qualcosa, perciò sono o veri o
falsi, entro un calcolo gli enunciati sono considerati da un punto di vista
puramente formale ». Per sottolineare tale di- stinzione talvolta si chiamano
formule gli elementi di un C. e proposizioni gli elementi di un sistema se-
mantico (Foundations of Logic and Mathematics, $ 9). Lo stesso Carnap ha
osservato che i calcoli possono prendere il nome o dai segni o espressioni che
ricor- rono in essi, e in tal senso si dice calcolo degli enun- ciati o dei
predicati oppure, come accade più frequen- temente, dai loro designati cioè
dagli oggetti cui si riferiscono (Introduction to Semantics, 2> ediz., 1959,
p-230). In questo secondo senso, il C. proposizionale è lo studio formalizzato
dei connettivi logici (v. Con- NETTIVI) e i suoi teoremi sono costituiti dalle
formule che possono essere derivate dalle formule primitive con l’applicazione
successiva delle regole primitive di inferenza. Il C. funzionale ha invece per
oggetto le funzioni proposizionali (v. FUNZIONE) e adopera, oltre i connettivi,
il quantificatore universale (v. OpE- RATORE). Il C. delle classi o algebra
delle classi, ha da fare con classi o insieme determinati da fun- zioni
proposizionali o predicati e mette capo a formule che sono espressioni nelle
quali ricorre il simbolo = o =/= (disuguale). L’algebra delle classi è
isomorfica con il C. funzionale perchè coincide con esso nel suo significato
(v. ALGEBRA DELLA Logica). Infine l’a/gebra delle relazioni è lo studio
formalizzato delle relazioni (v.). CANCELLAZIONE CALCOLO COMBINATORIO. V. ARTE
COMBINATORIA. CALCOLO EDONISTICO (ingl. Hedonic Calculus). Così Bentham chiamò
la tavola com- pleta dei moventi dell’azione umana, da servire di guida per
ogni futura legislazione. La tavola com-prende la determinazione della misura
del dolore e piacere in genle: « Parmenide prende per princìpi il C. e il
freddo, che egli però chiama fuoco e terra » (Fisica, I, 5, 188 a 20). Nel
Rinascimento Bernardino Telesio la riprendeva considerando il C. e il freddo
come le due forze o « nature agenti» che determinano l’universo e delle quali
l’una risiede nel Sole, l’altra nella Terra (De Rer. Nat., I, 3). CALENDES.
Parola mnemonica usata dalla Logica di Porto Reale per indicare il sesto modo
del sillogismo di prima figura (cioè il Celantes), con la modificazione di
assumere per premessa mag- giore la proposizione in cui entra il predicato della
conclusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i mali della vita sono mali
passeggeri, Tutti i mali passeggeri non sono da temersi, Dunque nessuno dei
mali che sono da temersi è un male di questa vita + (ARNAULD, Logique, III, 8).
CALVO, ARGOMENTO DEL. V. AceRrvo, ARGOMENTO DELL’. CAMBIAMENTO. V. MUTAMENTO.
CAMESTRES. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il secondo dei
quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello che
consiste di una premessa universale af- fermativa, di una premessa universale
negativa, e di una conclusione universale negativa, come nel- l’esempio: «Ogni
uomo è animale, Nessuna pietra è animale, Dunque nessuna pietra è uomo »
(PIETRO Ispano, Summul. logic., 4, 11). CAMPO (ingl. Field; franc. Champ; ted.
Feld). L'insieme delle condizioni che rendono possibile un evento; o i limiti
di validità o di applicabilità di uno strumento conoscitivo. Kant diceva: « I
mperatura attraverso il volume è un esempio fisico di scalare di C. (D’ABRO,
New Physics, ca- pitolo X). Analogamente nella psicologia, per es., nella
psicologia della forma, dove è stato illustrato così: « Ciò che determina
l'impressione di colore che proviamo in un punto circoscritto del C. vi- sivo è
lo stato eccitatorio globale del C. visivo; ciò che determina l’impressione di
un peso che alziamo non è soltanto la tensione del gruppo mu- scolare
immediatamente legato al sollevamento del peso, ma pure il tono di tutto il
resto della musco- latura » (KATZ, Gestalipsychologie, 3; trad. ital., pag. 29-30).
Più precisamente e generalmente, K. LEWIN ha definito il C., inteso quale lo «
spazio vitale» di un organismo, come «la totalità degli eventi possibili »,
dalla quale deriverebbe il com- portamento dell’organismo stesso (Principles of
To- pological Psychology, 7* ediz., 1936, pag. 14). Dewey adopera la parola in
senso generico: «È sempre in un qualche C. che si verifica l’osserva- zione di
questo o quell’oggetto. Tale osservazione è fatta allo scopo di trovare ciò che
quel C. rap- presenta in rapporto a qualche attiva risposta di adattamento con
cui far procedere un corso di comportamento » (Logic, Intr.; trad. ital, pa-
gina 11l). Più precisamente la nozione è usata in logica, dove per C. di una
relazione si intende l’insieme del dominante e del dominante inverso della
rela- zione: cioè dei termini che sono in una data rela- zione con questo o
quel termine (dominanti) e dei termini con cui questo o quel termine si trova
in una data relazione (dominanti inversi) (v. RELA- ZIONE). Il concetto è stato
anche usato per la teoria del significato (cfr. A. P. UsHENKO, The Field Theory
of Meaning, 1958) e nella linguistica, nella quale il C. è stato inteso come la
rete di associa- zioni che connettono un termine a molti altri ter- mini
(ULLMANN, Semantics, 1962, IX, 1). CANCELLAZIONE (ted. Durchstreichung). Nelle
/deen (I, $ 106) Husserl chiama C. la nega- 108 zione di una credenza o la
presa di posizione contro di essa. CANONE (gr. xawoy; ingl. Canon; franc.
Canon; ted. Kanon). Criterio o regola di scelte per un campo qualsiasi di
conoscenza o di azione. Il ter- mine fu introdotto probabilmente dallo scultore
Policleto che intitolò così un’opera nella quale de- scriveva la simmetria del
corpo e indicava le regole e le proporzioni che lo scultore deve rispettare
(40, A, 3 Diels). Epicuro chiamò canonica la scienza del criterio, criterio che
per lui è la sensazione nel dominio della conoscenza, e il piacere nel dominio
pratico (Diog. L., X, 30). Il termine fu ripreso dai matematici del °700 e
Leibniz l’adopera per desi- gnare « le formule generali che dànno ciò che si
do- manda » (Math. Schriften, VIII, 217), per es., quella che dà due numeri di
cui si conosce la somma e la differenza o quella che dà le radici di un’equa-
zione. Stuart Mill chiama C. le regole che espri- mono i quattro metodi della
ricerca sperimentale, cioè quelli di concordanza, di differenza, dei re- sidui
e delle variazioni concomiime dicendo: «Si deve poter volere che la massima
della, nostra azione diventi legge universale » (Grundlegung zur Mer. der
Sitten, II). Nella filosofia moderna e nella filosofia contemporanea si adopera
più frequente- mente il termine criterio (v.). Anche C. viene però talvolta
adoperato nel senso tradizionale. Dewey chiama C. i princìpi logici d’identità,
di contrad- dizione, e del terzo escluso (Logic, cap. XVID. CAOS (gr.
y&wc). Propriamente: abisso sbadi- gliante. Lo stato di completo disordine
anteriore alla formazione del mondo e dal quale tale for- mazione s’inizia,
secondo i mitologi. Esiodo dice: «Prima di tutti gli esseri ci fu il C., poi la
Terra dal largo seno» (Teog., V, 116). Aristotele com- battette questa nozione
(Fis., IV, 208 b 31 sgg.) perchè ammise l’eternità del mondo. Kant si servì di
essa per indicare lo stato originario della materia dal quale si sono poi
originati i mondi (Allgemeine Natur- geschichte oder Theorie des Himmels, 1755,
Pref.). CARATTERE (gr. yapaxtip, 7006; lat. Cha- racter; ingl. Character;
franc. Caractère; ted. Cha- rakter). Propriamente il segno, o l’insieme di
segni, che contraddistingue un oggetto e consente di ri- conoscerlo agevolmente
tra gli altri. In particolare, il modo d’essere o di comportarsi abituale e
costante di una persona, in quanto individua e distingue la persona medesima.
In questo senso diciamo che « Una persona ha un C. ben marcato» o «ben deciso
», nel senso che il suo modo di agire rivela orientamenti abituali e costanti;
e qualche volta, semplicemente, « È un C.». All’opposto descri- viamo come «
mancanza di C.» o «C. debole», «incerto » o «incostante » un comportamento abi-
tualmente dovuto piuttosto a scelte casuali e ca- pricciose che ad un
orientamento determinato e costante. Gli antichi possedevano questa nozione.
Eraclito dice che il C. ({90c) di un uomo è il suo destino (Fr. 119, Diels). E
l’aristotelico Teofrasto ci ha lasciato nello scritto intitolato / C. la
descrizione di trenta tipi di C. morali (l’importuno, il vanitoso, lo
scontento, il fanfarone, ecc.) descritti appunto sul fondamento delle loro
manifestazioni abituali. Dimenticata nel Medioevo, durante il quale la pa- rola
servì prevalentemente a designare l’indistrut- tibilità della ordinazione
sacerdotale (S. TomMASO S. Th., III, q. 65, a. 1 sgg.) la nozione fu ripresa
nel '600 e rimessa in circolazione da La Bruyère (Les caractères, 1687). Kant
l’ha utilizzata nel ten- tativo di conciliare la causalità naturale e la cau-
salità libera. Ciascuna causa efficiente deve avere un carattere, cioè «una
legge della sua causalità, senza la quale non sarebbe causa ». Un oggetto del
mondo sensibile ha in primo luogo un C. em- pirico per il quale i suoi atti,
come fenomeni, sono connessi causalmente con gli altri fenomeni in con- formità
delle leggi naturali. Ma lo stesso oggetto può anche avere un C. intellegibile
« per il quale esso è sì la causa di quegli atti come fenomeni, ma di per se
stesso non sottostà a nessuna condi- zione sensibile e non è fenomeno». Del C.
intel- legibile si può dire « che esso comincia da se stesso i suoi effetti nel
mondo senza che l’azione cominci in lui stesso +; e con questa distinzione Kant
crede di aver accordato fra loro libertà e natura (Critica R. Pura, Antinomie
della ragion pura, $ 3). Meno metafisicamente (e più chiaramente) nell’
Antropo- logia egli distingue un C. fisico che è il segno di- stintivo
dell’uomo come essere naturale e un C. morale che è il segno dell’uomo come
essere razio- nale, provvisto di libertà. Il C. fisico dice «ciò che si può
fare dell’uomo, il C. morale dice ciò che l’uomo è capace di fare di se stesso»
(Antr., II, a). Schopenhauer ha utilizzato la distinzione kantiana tra C.
empirico e C. intelligibile per ne- CARATTERE gare la libertà: tutto ciò che
l’uomo fa sarebbe la manifestazione di un €. intelligibile innato e immutabile
(Die Welt, I, $ 55; Neue Paralipo- mena, $ 220). La distinzione kantiana di un
duplice C., l’uno naturale e immutabile, l’altro morale e libero, viene
universalmente abbandonata nella antropologia con- temporanea che tuttavia dà
grande rilievo alla no- zione di carattere. Ma nell’interpretazione di questa
nozione, l’antropologia contemporanea si può dire che assuma o l’uno o l’altro
dei due concetti in cui Kant aveva distinto la nozione stessa, e cioè o che
intende il C. come una formazione naturale inevitabile che l’uomo porta con sè
e non può modificare, o lo intende come una formazione do- vuta alle scelte
dell’uomo e perciò essa stessa libera e modificabile. Accenneremo solo ad
alcune delle principali prese di posizioni in un senso o nell’altro. La teoria
dei tipi psicologici di Jung appartiene al primo indirizzo perchè considera il
C. come un orientamento prevalentemente inconscio dovuto a disposizioni
organiche o al fondamento istintivo. Il C. di un uomo è la direzione in cui
avviene l’in- contro tra quest'uomo e il mondo o tra questo uomo e la società:
è cioè il complesso degli atteg- giamenti o delle disposizioni ad agire o
reagire in una certa direzione. Ora, nell’incontro tra l’uomo e il mondo, due
atteggiamenti fondamentali sono possibili: o l’uomo cerca di dominare il mondo,
cioè gli oggetti esterni, assumendo un atteggia- mento attivo, positivo,
creatore, oppure cerca sem- plicemente di difendersi da egie, pag. 1). Soltanto
che per Le Senne il C. non costituisce la totalità dell’uomo: è soltanto uno
degli elementi della sua personalità, la quale comprende, oltre il C., anche
elementi liberamente acquisiti, che possono contri- buire a specificare il C.
stesso in un senso o nell’altro. Il C. è pertanto un limite oggettivo,
intrinseco alla stessa personalità, della scelta che la personalità può fare
liberamente di se stessa; ma come limite è qualche cosa di congenito e, in se
stesso, di im- mutabile. La determinazione dovuta al C., non è quindi per Le
Senne una determinazione neces- sitante nonostante la sua originarietà e la sua
immutabilità relativa. Per quanto su questo punto Le Senne si riattacchi ad un
caposaldo stabi- lito da Adler (di cui diremo sùbito) la nozione di C. rimane
in lui quella di una determinazione o complesso di determinazioni originarie e
immodi- ficabili, cioè rimane fissa a quel significato per il quale esso non si
distingue da temperamento (v.). Questo concetto del C. fa della libertà e del
deter- minismo nella personalità umana due forze diverse e reciprocamente
autonome, di cui l’una risiede nell’io, l’altra nel C. (o nel temperamento),
riprodu- cendo, in linguaggio diverso, il dualismo kantiano di C. intelligibile
e C. empirico. La dottrina di Adler si era invece sottratta a questo dualismo.
Per Adler il C. è la manifestazione oggettiva, rilevabile attraverso
l’esperienza sociale, della stessa personalità umana. Non solo il C. è un
«concetto sociale » nel senso che si può par- lare di C. solo riferendosi alla
connessione di un uomo col suo ambiente, ma anche i tratti o le di- sposizioni
di cui il C. consiste sono rilevabili solo socialmente. Le manifestazioni del
C. « sono simili ad una linea direttiva che aderisce all'uomo come uno schema e
che gli permette, senza molta rifles- sione, di esprimere in ogni situazione la
sua origi- nale personalità » (Menschenkenntnis, 1926, II, 1; trad. ital, pag.
150 sgg.). Esse non esprimono alcuna forza e substrato innato, ma sono, anche
se molto presto, acquisite. Il C. sostanzialmente è il modo in cui l’uomo
prende posizione di fronte al mondo naturale e sociale; e Adler fonda la va-
lutazione di esso su due punti di riferimento: la volontà di potenza e il
sentimento sociale, che con la loro azione reciproca costituirebbero gli
aspetti fondamentali del carattere. « Si tratta, egli dice, di un gioco di
forze la cui forma di manifestazione esteriore caratterizza ciò che noi
chiamiamo C. » (/bid., 1926, II, 1; trad. ital., pag. 176). Una di- stinzione
radicale tra persona e C. fa invece Scheler. La persona è il soggetto degli
atti intenzionali ed è quindi il correlato di un mondo, e precisamente del
mondo in cui essa vive. Il C., invece, è la co- stante ipotetica x che si
assume per spiegare le particolari azioni di una persona. Pertanto se un uomo
agisce in modo non corrispondente alle de- duzioni che abbiamo ricavate
dall’imagine ipote- ticamente assunta del suo carattere, si è disposti, a buon
diritto, a mutare questa imagine. Ma la persona non può mutare: non possono
quindi toc- carla i mutamenti di C., come non la tocca la malattia psichica che
solamente la nasconde (For- malismus in der Ethik, pag. 501 sgg.). Questa netta
separazione tra C. e persona, che in Scheler è dovuta al primato metafisico che
egli attribuisce alla persona, non trova però riscontri nell’antro- pologia
contemporanea. I tratti più comuni e im- portanti di questa antropologia per
ciò che riguarda la dottrina del C., si possono ricapitolare nel modo seguente:
1° il C. è la manifestazione oggettiva della personalità umana o è questa
stessa perso- nalità nel suo aspetto oggettivo, quale si lascia cogliere
attraverso la comune esperienza umana o le tecniche d'indagine della
personalità stessa (vedi PERSONALITÀ); 2° il C. si differenzia dal rempera-
mento (v.) perchè non è un dato puramente organico come quest’ultimo e perchè
non è un elemento immutabile e necessitante ma è il risultato delle scelte
effettuate da un individuo e consiste nelle costanti osservabili delle sue
scelte; 3° tali scelte non sono assolutamente libere nè necessitate, ma
condizionate da elementi organici, ambientali, so- ciali, ecc.; e nelle loro
costanti osservabili delineano un progetto di comportamento nel quale
coincidono il C. e la personalità dell’uomo. CARATTERE POETICO. Secondo Vico, i
primi uomini concepirono le cose dapprima me- diante « C. fantastici di
sostanze animate e mutoli » cioè mediante atti o corpi che avessero un qualche
rapporto con le idee e poi con « C. divini ed eroici, dappoi spiegati con
parlari volgari » (Scienza nuova, 1744, passim): nelle quali locuzioni
ovviamente la parola « carattere » sta per segno o simbolo. CARATTERI (ted.
Charakters). Così Avena- rius (Kritik der reinen Erfahrung, 1888-90) ha chia-
mato uno dei due fattori di cui è composto il mondo dell'esperienza e
precisamente quello che consiste nelle determinazioni emotive, esistenziali,
pratiche e in generale valutative degli elementi che costitui- scono l’altro
fattore dell’esperienza stessa. Così sono C. il piacere, il dolore, l’essere,
l'apparenza, il sicuro, l’insicuro, ecc., mentre sono elementi le sensazioni
(suoni, colori, ecc.). CARATTERISMI (ted. Charakterismen). Sono secondo Kant «
designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti » come le
parole, i gesti, i segni algebrici, ecc. (Crit. del Giud., $ 59).
CARATTERISTICA (lat. Characteristica). Leibniz chiamò preferibilmente C. o C.
universale quella che in un primo tempo (1666) aveva chia- mato «arte
combinatoria »: e cioè « l’arte di for- mare e di ordinare i caratteri in modo
che si rife- riscano ai pensieri, cioè in modo che abbiano tra loro la stessa
relazione che c’è tra i pensieri stessi ». I caratteri non sono altro che i
segni o scritti o di- segnati o scolpiti. I fondamenti dell’arte C. sono
espressi dallo stesso Leibniz nello scritto Funda- menta calculi ratiocinatoris
(Op., ed. Erdmann, pa- gina 92 sgg.) nel modo seguente. Tutti i pensieri umani
si possono ridurre a poche nozioni primitive: Csistenza del tesoro sul letto di
morte, sommuovono la terra e la fanno fertile e questo è l’unico tesoro che
tro- vano (Nova Dilucidatio Principiorum Metaphysicae, 1755, prop. II. Tuttavia
l’idea di Leibniz e i vari tentativi di realizzarla costituiscono il precedente
storico immediato della moderna logica simbolica. CARATTEROLOGIA (franc.
Caraciérologie; ted. Charakterologie o Charakterkunde). Nome en- trato nell’uso
nella seconda metà del secolo scorso per indicare la scienza del temperamento o
del ca- rattere. Cfr. CARATTERE; ETOLOGIA. CARDINALI, VIRTÙ (lat. Cardinales
virtutes; ingl. Cardinal Virtues; franc. Vertues cardinales; ted.
Kardinaltugenden). Così furono chiamate da S. Ambrogio (De off. ministr., I,
34; De Par., III, 18; De sacr., III, 2) le cristiano fondamentale «Ama il
prossimo tuo come te stesso ». S. Paolo soprattutto ha insistito sulla
superiorità della C. sulle altre virtù cristiane cioè sulla fede e sulla spe-
ranza. «La C. sopporta tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto...
Ci sono ora la fede, la speranza e la C., queste tre cose; ma la C. è la
maggiore di tutte » (Cor., I, 13, 7, 13). La C. è sostanzialmente, per S.
Paolo, il legame che tiene avvinti i membri della comunità cristiana e fa di
questa comunità lo stesso «corpo di Cristo ». In séguito, la filosofia
cristiana ha visto nella C. so- prattutto il legame fra l’uomo e Dio. S.
Tommaso definisce la C. come « l’amicizia con Dio» e dice: «Questa società
dell’uomo con Dio, che è quasi una conversazione familiare con Lui, comincia
nella vita presente mediante la grazia e si perfe- ziona nel futuro mediante la
gloria; ed una cosa e l’altra sono tenute dalla fede e dalla speranza » (S.
7h., II, 1, q. 65, a. 5). Sul concetto dell’amore cristiano, v. AMORE. Nel
linguaggio comune la pa- rola è talvolta adoperata invece di beneficenza, cioè
per significare l’atteggiamento di chi vuole il bene degli altri e si comporta
verso di essi generosamente. Ma anche il linguaggio comune conosce e adopera il
retto significato del termine, come quando si dice che «Occorre un po’ di C.» a
chi giudica troppo severamente del suo prossimo: nel qual caso ovviamente C.
significa amore o compren- sione (v. AMORE). CARNE (gr. odpt; lat. Caro; ingl.
Flesh; franc. Chair; ted. Fleisch). Nella terminologia del Nuovo Testamento, e
specialmente di S. Paolo, è qualcosa di differente dal corpo. La C. o carna-
lità è infatti l’avversione o la resistenza alla legge di Dio, perciò il
peccato o l’orientamento verso il peccato (per es., S. PaoLO, Ad Rom., VII, 14;
VIII, 3, 8, ecc. Cfr. BULTMANN, Theologie des N. T., 1948, pag. 223). Lo stesso
senso il termine ha con- servato nel linguaggio comune e nella predicazione
moralistica. In un senso diverso ha usato il termine Merleau-Ponty (Le visible
et l’invisible, 1964), par- lando della «+ C. del mondo» come della sostanza
viva che è comune al corpo dell’uomo e alle cose del mondo e costituisce
insieme l’oggetto e il sog- getto delle esperienze umane. CARTESIANESIMO.
L'insieme dei capisaldi che sonata e c’è una C. cristiana contro la quale, da
Pascal in poi (Lettere Provin- ciali, 1657) è stato spesso rivolta l’accusa di
mora- lità rilassata o accomodante. L’esigenza di una C. morale fu affacciata
da Kant che così chiarì il concetto di essa: « L'etica, per il largo margine
che concede ai doveri imperfetti, conduce inevitabil- mente a questioni che
spingono il giudizio a deci- dere come la massima debba essere applicata nei
casi particolari o quale massima particolare (su- bordinata) fornisca a sua
volta (in questo modo possiamo sempre chiedere quale sia il principio di
applicazione di queste massime secondo i casi che si presentano); e così
l’etica sbocca in una C.». La C. non è nè una scienza nè parte di scienza,
perchè in tal caso sarebbe dogmat5) riportava l’opinione secondo la quale la
fortuna sarebbe una causa superiore e divina, nascosta all’intelligenza umana.
Ad errore o a illusione equiparavano il C. gli Stoici che ritenevano che tutto
accadesse nel mondo per un'assoluta necessità razionale (P/ac. philos., I, 29).
È chiaro che chi ammette una ne- cessità di questo genere, e dovuta, o (come
gli Stoici ritenevano) alla divinità immanente nel cosmo, o all’ordine
meccanico dell’universo, non può am- mettere la realtà degli eventi che si
sogliono chia- mare accidentali o fortuiti e tanto meno del caso come principio
o categoria di tali eventi; e deve vedere in essi l’azione necessaria della
causa ri- conosciuta in atto nell’universo, negando come illusione o errore il
loro carattere casuale. È ia contemporanea, Bergson ha spiegato il C. con lo
scambio, pura- mente soggettivo, tra l’ordine meccanico e l’ordine vitale o
spirituale: « Che il gioco meccanico delle cause che arrestano la roulette sul
numero mi faccia vincere e perciò agisca come avrebbe fatto un genio benefico
cui stessero a cuore i miei inte- ressi; o che la forza meccanica del vento
strappi dal tetto una tegola e me la lanci sulla testa, cioè agisca come
avrebbe fatto un genio malefico che cospirasse contro la mia persona, in tutti
e due i C. io trovo un meccanismo là dove avrei cercato o dove avrei dovuto
incontrare, a quanto sembra, un’intenzione: è questo che si esprime parlando
del C. » (Évol. créatr., 8* ediz., 1911, pag. 254). 2° Dall'altro lato, secondo
l’interpretazione og- gettivistica, il C. non è un fenomeno soggettivo ma
oggettivo e precisamente consiste nell’interse- carsi di due o più ordini o
serie diverse di cause. La più antica delle interpretazioni del genere è quella
di Aristotele. Aristotele comincia col notare che il C. non si verifica nè
nelle cose che accadono sempre allo stesso modo nè in quelle che accadono per
lo più nello stesso modo, ma piuttosto tra quelle che avvengono per eccezione e
fuori di ogni uni- formità (Fis., II, 5, 196b 10 e sgg.). In tal modo egli
correttamente assegna il C. alla sfera dell'im- prevedibile, cioè di ciò che
accade fuori del ne- cessario (« ciò che accade sempre allo stesso modo ») e
dell’uniforme («ciò che accade per lo più allo stesso modo +1). Stando a ciò,
il C. (o la fortuna) è definito da Aristotele come «una causa acciden- tale
nell’àmbito di quelle cose che non accadono nè in modo assolutamente uniforme
nè frequente- mente e che potrebbero accadere in vista di un fine + (/b., 197 a
32). La determinazione del fine è, per Aristotele, essenziale giacchè il C. ha
almeno l’aspetto o l'apparenza della finalità: come nel- l’esempio di chi si
reca al mercato per tutt’altro motivo e lì incontra un debitore che gli
restituisce la somma dovuta. In quest’esempio si chiama C. (o fortuna) l’evento
della restituzione dovuto ad un incontro che non è stato deliberato o voluto
come un fine, ma che avrebbe potuto essere un fine: mentre in realtà è stato
l’effetto accidentale di cause che agivano in vista di altri fini. La no- zione
di un incontro, di un intreccio di serie causali per la spiegazione del C., è
stata ripresa nell'età moderna per opera di filosofi, matematici, econo- misti,
che hanno riconosciuta l’importanza della nozione di probabilità (v.) per
l’interpretazione della realtà in generale. Così Cournot definì il C. come il
carattere di un avvenimento « dovuto alla com- binazione o all’incontro di
fenomeni indipendenti nell'ordine della causalità » (Théorie des chances et des
probabilités, 1843, cap. II) nozione che divenne prevalente nel positivismo,
anche perchè fu accet- tata da Stuart Mill (Logic, II, 17, $ 2): «Un evento che
avvenga per C. può essere meglio de- scritto come una coincidenza dalla quale
non ab- biamo motivo per inferire un’uniformità... Possiamo dire che due o più
fenomeni sono congiunti al C. o che coesistono o si succedono per C., nel senso
che essi non sono in nessun modo connessi dalla cau- sazione; che non sono nè
la causa o l’effetto l’uno dell’altro nè effetti della stessa causa o di cause
tra le quali sussista una legge di coincidenza nè effetti della stessa
collocazione di cause primarie ». In modo simile Ardigò (Opere, III, pag. 122)
ri- conduceva il C. alla pluralità e all’intreccio di serie causali distinte.
Questa nozione tuttavia è ogget- tiva solo in certi limiti o per meglio dire
solo in apparenza. Che il C. consista nell’incontro di due serie causali
diverse significa che esso è un avveni- mento causalmente determinato come
tutti gli altri ma solo più difficile a prevedersi appunto perchè il suo
accadere non dipende dal corso di un’unica serie causale. Secondo questa
nozione la determi. nazione casuale del C., è più complessa ma non meno
necessitante; e l’imprevedibilità che è la ca- ratteristica fondamentale del C.
è dovuta soltanto a tale complessità e non è di natura oggettiva. Affinchè
CATARSI 113 sia di natura oggettiva, tale imprevedibilità dev’es- sere infatti
dovuta ad un’indeterminazione effettiva inerente al funzionamento della
causalità stessa. 3° Questa ultima alternativa costituisce un terzo concetto
del C., un concetto che si può far risalire a Hume. Sembra che Hume voglia
ridurre il caso a un fenomeno puramente soggettivo perchè dice: «Per quanto non
vi sia al mondo qualche cosa come il C., tuttavia la nostra ignoranza della causa
reale di ogni avvenimento ha la stessa influenza sopra l'intelletto e genera
una simile sorta di credenza o di opinione ». Ma in realtà se non esiste il
«C.» come nozione o categoria a sè, non esiste neppure la «causa» nel senso
necessario e assoluto del ter- mine; ma esiste soltanto la « probabilità ». E
sulla probabilità è fondato quello che chiamiamo C.: «Sembra evidente che,
quando la mente cerca di prevedere per scoprire l’evento che può risultare dal
gettare quel dado, si considera l’apparire di ciascun singolo lato come
egualmente probabile; e questa è la vera natura del C., di eguagliare
interamente tutti i singoli eventi che comprende » (Ing. Conc. Underst., VI). È
questa di Hume un’idea che nella filosofia contemporanea doveva rivelarsi
estremamente feconda. Che il C. consista nell’equi- pollenza di probabilità che
non lasciano adito ad una previsione positiva in un senso o nell’altro è un
concetto su cui ha insistito Peirce, il quale ne ha visto anche l’implicazione
filosofica fondamentale: l’eliminazione del « necessitarismo », cioè della dot-
trina che tutto nel mondo avviene per necessità (Chance, Love and Logic, Il, 2;
Coll. Pap., 6. 47 e sgg.). Da questo punto di vista il C. diventa un esempio
particolare del giudizio di probabilità e precisamente quello nel quale la
probabilità stessa non ha sufficiente rilevanza ai fini della prevedibi- lità
di un evento. In tal senso il C. è stato consi- derato come una specie di
entropia (v.) e il relativo concetto è comunemente adoperato nel campo della teoria
dell’informazione e della cibernetica (v.). CASUALISMO (ingl. Casualism; franc.
Ca- sualisme). La dottrina che il caso non è soltanto l’espressione
dell’ignoranza umana a proposito delle cause di certi eventi, ma una condizione
o situa- zione oggettiva di indeterminazione nelle cose stesse. Peirce chiamò
questa dottrina tichismo (Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6. 47
sgg.) da toxn che in realtà significa fortuna. Un C. radicale è so- stenuto da
Wittgenstein. « Fuori della logica tutto è caso », egli dice (Tracr.
Logico-Philos., 6. 3). E si deve ricordare che la logica ha a che fare soltanto
con tautologie (v.) le quali non significano nulla. CATALETTICA, RAPPRESENTA-
ZIONE (gr. pavragia xataAnitixh; lat. Fantasia comprehensiva; ted. Kataleptische
Vorstellung). Il criterio della verità, secondo gli Stoici. Essi chia- 8 —
ABBAGNANO, Distonario di filosofia. marono C., cioè comprensiva, la
rappresentazione evidente o che rende evidente l’oggetto che la produce.
Secondo una testimonianza di Cice- rone (Acad., II, 144) Zenone poneva il
significato della rappresentazione C. nella sua capacità di afferrare o
comprendere l’oggetto: perciò para- gonava la mano aperta alla rappresentazione
pura e semplice, la mano che fa l’atto di afferrare al- l’assenso; la mano
stretta a pugno alla compren- sione C.; e le due mani strette l’una sull'altra
alla scienza. Secondo Diogene Laerzio (VII, 46) e Sesto Empirico (Adv. Math.,
VII, 248) la rappresentazione C. è invece quella che viene da un reale sussC.
come « quella discriminazione che con- serva il meglio e rigetta il peggio»
(Sof., 226 d). Egli inoltre ricorda l’esistenza di libri di Museo e Orfeo
secondo i quali « gli adepti celebrano sa- crifici persuadendo non solo privati
ma anche città che ci sono assoluzioni e purificazioni dagli atti ingiusti per
via di sacrifici e di giochi piacevoli, sia per i vivi che per i morti ».
Empedocle chiamò Purificazioni (x49xpuor) uno dei suoi poemi che per l’appunto
s’ispirava all’orfismo. In Platone il ter- mine ha una portata morale e
metafisica. Esso designa in primo luogo la liberazione dai piaceri (Fed., 67 a,
69c); in secondo luogo la liberazione dell'anima dal corpo come un separarsi e
ritirarsi dell’anima dalle operazioni corporee e realizzazione, già nella vita,
di quella separazione totale che è la morte (/bid., 67 c). E su quest’ultimo
punto insisterà Plotino secondo il quale la virtù purifica l’anima dai desideri
e da tutte le altre emozioni nel senso che separa l’anima dal corpo e fa in
modo che l’anima si raccolga in se stessa e divenga impassi- bile (Enz., I, 2,
5). Aristotele adoperò ampiamente il termine nel suo significato medico negli
scritti di storia naturale come purificazione o purga. Ma per primo lo estese a
designare anche un fenomeno estetico, cioè quella specie di liberazione o di
rasserenamento che l’uomo subisce ad opera della poesia e in par- 114 ticolare
del dramma e della musica. « La tragedia, egli disse, è imitazione di azione di
carattere ele- vato e completa, di una certa estensione, in lin- guaggio
abbellito e che ha diverse specie di abbellimenti distribuite nelle varie parti
di essa, imitazione compiuta da attori e non in forma nar- rativa e che
suscitando il terrore e la pietà per- viene alla purificazione da tali
affezioni» (Poet., 1449 b, 24 sgg.). Abbastanza curiosamente Ari- stotele, che
esamina uno per uno tutti gli elementi della tragedia, non si ferma invece a
spiegare che cos'è la C.: il che vuol dire che egli adopera qui la parola nel
senso generale corrente di rasserena- mento e di calma per quanto non di
assenza totale delle emozioni: senso che trova riscontro in ciò che dice nella
Politica a proposito della musica. Qui egli osserva che quando alcuni, che sono
for- temente scossi da emozioni come pietà, paura, entusiasmo, odono canti
sacri che impressionano l’anima «si trovano nelle condizioni di chi è stato
risanato o purificato ». Anche tutte le altre emozioni possono subire una «
purificazione e un piacevole alleggerimento ». E «le musiche particolarmente
adatte a produrre purificazione dànno agli uomini un’innocente gioia » (Po/.,
VIII, 7, 1342 a 17). Delle molte interpretazioni che sono state date della C.
estetica la prevalente è stata quella di Goethe (Nachlese zu Aristot. Poetik,
1826) secondo la quale essa consisterebbe nell’equilibrio delle emozioni che
l’arte tragica induce nello spettatore dopo averne eccitate le emozioni stesse
e perciò nel senso di serenità e di pacificazione che essa procura. Se pure
qualche cosa di simile c’è in Aristotele, bisogna tuttavia osservare che per
lui il significato della C. estetica non è diversa da quella della C. medica o
morale: una specie di cura delle affezioni (corporee © spirituali) che non le
abolisce ma le porta alla misura in cui esse sono compatibili con la ragione.
Nella cultura moderna il termine C. è stato ado- perato quasi esclusivamente
nel suo riferimento alla funzione liberatrice dell’arte. Freud ha talvolta
chia- mato C. il processo di sublimazione della /ibido (v. AMORE) per il quale
la libido si distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione volut-
tuosa e dagli oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri oggetti
che saranno amati di per se stessi. A questo processo di C. (di « subli-
mazione +) sono dovuti, secondo Freud, tutti i progressi della vita sociale,
l’arte, la scienza e la civiltà in generale, almeno nella misura in cui di-
pendono da fattori psichici (v. PSICANALISI). CATASILLOGISMO (lat.
Catasyllogismus). Controdimostrazione. Il termine è adoperato da Giovanni di
Salisbury (Meralogicus, IV, 5) in rife- rimento al verbo controdimostrare
adoperato da Aristotele (An. Pr., II, 19, 66 a 25). CATASILLOGISMO CATASTROPE
(ingl. Catastrophe; franc. Ca- tastrophe; ted. Katastrophe). Ricorre a questa
no- zione ogni teoria che cerchi di spiegare lo sviluppo di una realtà
qualsiasi mediante rivolgimenti radi- cali e totali che avverrebbero
periodicamente. Così Cuvier (Discours sur les révolutions du globe, 1812)
spiegava l’estinzione delle specie animali fossili mediaesa dai primi
cristiani) ma basta che essa valga come un « mito ». Cfr. ATTIVISMO; MITO.
CATECHISMO (ingl. Catechism; franc. Caté- chisme; ted. Katechismus). Kant
distinse il metodo dell’interrogatorio (o erotematico) in metodo ca- techetico
per il quale ci si rivolge soltanto alla memoria di chi viene interrogato e in
metodo dia- logico o socratico col quale ci si rivolge a ciò che è contenuto
nella ragione dell’interrogato ed è perciò suscettibile di essere reso
esplicito o svilup- pato (Mer. der Sitten, II, Intr., $ 18 nota). Egli ritenne
tuttavia indispensabile un C. morale che avrebbe dovuto precedere il C.
religioso ed essere indipen- dente da esso (/bid., $ 51). Il positivismo
ottocen- tesco mostrò una certa predilezione per C. filosofici o
filosofico-politici. Ne compilò uno il St.-Simon (C. degli industriali,
1823-24) e uno famoso Augusto Comte (C. positivista, 1852). Ciò avvenne perchè
il positivismo si presentò spesso come una religione « scientifica » che
avrebbe dovuto soppiantare la re- ligione tradizionale. CATEGOREMATICO (lat. Categoremata;
ingl. Categorematic; franc. Catégorematique; te- desco Kategorematisch). Nella
grammatica e nella logica medievale sono dette così le parti del discorso di
per se stesse significanti, come il soggetto o il predicato, mentre sono dette
sincategorematiche (v.) le altre. L'espressione deriva probabilmente dalla
distinzione, fatta dagli Stoici, tra « discorso per- fetto» che è quello di
senso compiuto (per es., « Socrate scrive +) e discorso imperfetto che manca di
qualche cosa (per es., « Scrive» che fa nascer la domanda «Chi?+) (Diog. L.,
VII, 63). Nella forma che poi divenne un luogo comune nella CATEGORIA logica
medievale, la distinzione si può vedere per la prima volta nel trattato anonimo
del sec. x1I, De generibus et speciebus, edito da Cousin ((Euvres inédites
d’Abélard, pag. 531). Essa è poi costante- mente ripetuta nella logica
posteriore (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 1.05). CATEGORIA (gr. xamyopla;
lat. Praedica- mentum; ingl. Category; franc. Catégorie; ted. Kate- gorie). In
generale, qualsiasi nozione che serva come regola per l’indagine o per la sua
espressione lingui- stica, in un campo qualsiasi. Storicamente, il primo
significato attribuito alle C. è realistico: esse sono considerate come
determinazioni della realtà e in secondo luogo come nozioni che servono a inda-
gare e a comprendere la realtà stessa. Così le in- tese Platone che le chiamò «
generi sommi» ed enumerò cinque di tali generi, cioè l’essere, il mo- vimento,
la quiete, l’identità e l’alterità (Sof., 254 seguenti). Come alcuni di questi
generi si legano assieme tra loro ed altri no, così le parti del di- scorso,
cioè le parole, si legano assieme e quando tale mescolanza corrisponde a quella
reale il discorso è vero, altrimenti è falso (/bid., 263 seguenti). Questa corrispondenza
tra la realtà e il discorso, per il tramite delle determinazioni ca- tegoriali,
è anche la base della teoria di Ari- stotele. Questi, tuttavia, parte da un
punto di vista linguistico: le e qualche volta il luogo dove sta o il tempo, ne
segue che tutti questi sono modi dell’essere » (Met., V, 7, 1017a 23 sgg.).
Questo concetto di C. come di determinazione appartenente all’essere stesso e
di cui il pensiero debba servirsi per conoscerlo ed esprimerlo in pa- role, è
durata lungamente; e per molto tempo le scuole filosofiche o i filosofi furono
dissenzienti solo rispetto al numero e alla distinzione delle ca- tegorie. Così
gli Stoici le ridussero a quattro: la sostanza, la qualità, il modo d’essere e
la relazione (StmpL., /n car., f. 16 d). Plotino ritornò ai cinque generi sommi
platonici (Enn., VI, 1, 25). Nel Me- dicevo, la sola alternativa alla dottrina
del fonda- mento reale delle C. è il carattere puramente verbale di esse,
sostenuto dal nominalismo. Ockham, af- ferma recisamente che le C. non sono che
segni delle cose, segni semplici dai quali possono essere costituiti «
complessi » sia veri che falsi (De corpore Christi, 35; In Sent., I, d. 30, q.
2, I). Pertanto la loro distinzione non implica una pari distinzione tra gli
oggetti reali giacchè non sempre a concetti o a parole distinti corrispondono
cose distinte. Le C. di sostanza, qualità e quantità, per quanto di- stinte
come concetti, significano la medesima cosa (Quodi., V, q. 23). Questa
negazione radicale della realtà delle C., dipende dalla negazione totale che il
nominalismo medievale faceva di ogni realtà uni- versale. Questo punto di vista
equivale a conside- rare le C. come semplici nomi che si riferiscono a classi
di oggetti. La dottrina di Kant non ha niente a che fare con questo nominalismo
per quanto si sottragga ugualmente al realismo della concezione classica. Le C.
sono per Kant i modi in cui si manifesta l’attività dell’intelletto, la quale
consiste essenzial- mente « nell’ordinare diverse rappresentazioni sotto una
rappresentazione comune », cioè nel giudicare. Esse pertanto sono le forme del
giudizio, cioè le forme in cui il giudizio si esplica indipendentemente dal suo
contenuto empirico. Per questo le C. pos- sono essere ricavate dalle classi del
giudizio enu- merate dalla logica formale. «In tal modo, dice Kant, sorgono
precisamente tanti concetti puri del- l’intelletto, che si applicano a priori
agli oggetti dell’intuizione in generale, quante funzioni lualità, divenire,
forza, finalità, personalità) come determinazioni e specificazioni di essa
(Essai de critique générale, I, 1854, pag. 86 sgg.), E Cohen ha considerato
come C. fondamentale quella del sistema, perchè l’unità dell’oggetto, su cui si
fonda l’unità della natura, è un'unità sistematica (Logik, pag. 339). Ma per quanto
non ci sia stato filosofo d’ispirazione kantiana che non abbia voluto dare la
sua tavola delle C., il concetto kantiano della C. è rimasto immutato per tutta
la parte della filosofia moderna che trae la sua ispirazione da Kant. Tut-
tavia tale concetto non è il solo nella filosofia moderna e contemporanea.
Quello tradizionale di C. come «determinazione dell'essere» è stato ri- preso
dall’idealismo romantico e in particolare da Hegel. Questi considera le C. come
« determina- zioni del pensiero » e fa merito a Fichte di aver affermato
l’esigenza della loro « deduzione» cioè della dimostrazione della loro
necessità (Enc., $ 43). Ma in realtà per Hegel le determinazioni del pen- siero
sono, nel contempo, le determinazioni della realtà (per l’identità da lui posta
di realtà e ragione); e abitualmente egli chiama « momenti » più che C., queste
determinazioni. L'unica C. che egli riconosca veramente come tale è la stessa
Realtà-pensiero, cioè l’Autocoscienza, l’Io o la Ragione. Nella Fe- nomenologia
(I, cap. V, $ 2) egli dice: «L’Io è la sola pura essenzialità dell’ente o la C.
semplice. La C., che altrimenti aveva il significato di essere essenzialità
dell’ente, essenzialità indeterminata- mente dell’ente in generale o dell’ente
di contro alla coscienza, è ora essenzialità o semplice unità dell'ente in
quanto questo è soltanto realtà pen- sante: ossia la C. consiste in ciò che
autocoscienza ed essere sono la medesima essenza ». Il che vuol CATEGORIA dire
che la C. dev'essere considerata non come una determinazione dell’essere in
generale, ma come la coscienza, e quindi la realtà stessa. Questa teoria
dell'Io o della Coscienza o dello Spirito come dell'unica C. è rimasta poi un
luogo co- mune di tutte le forme dell’idealismo romantico. Simmetrica e opposta
a quella di Hegel è la dot- trina di Heidegger, per il quale la C. è la deter-
minazione, non dell’autocoscienza o dell’Io, ma dell'essere delle cose.
Heidegger distingue infatti gggetti dell’intenzionalità della co- scienza. 3°
In qualche altra corrente della filosofia contemporanea, per es.,
nell’empirismo logico, le C. vengono invece considerate come le regole con-
venzionali che presiedono all’uso dei concetti. Così fa, per es., Ryle che
chiama «tipo o categoria lo- gica di un concetto l’insieme dei modi in cui, per
convenzione, è lecito servirsi del termine rispettivo » (Concept of Mind,
Intr.; trad. ital., pag. 4). Questa è certamente la nozione meno dogmatica e
più gene- rale di C., che la filosofia abbia finora prospettato: contiene
tuttavia ancora un certo dogmatismo, perchè limita le C. a quelle già stabilite
dall’uso linguistico comune, negando implicitamente la va- lidità di ogni nuova
proposta. Eppure scienziati e fsi parla di «errore C.» per indicare lo scambio
di una cate- goria con un’altra (per es., RyLE, Concept of Mind, I, $ 2)
CATEGORICO (gr. xatnyopix6g; ingl. Catego- rical; franc. Catéporique; ted.
Kategorisch). In gene- rale, una proposizione o un ragionamento non limi- tato
da condizioni. Si cominciò a chiamare C. il sillogismo aristotelico (SESTO E.,
/pot. Pirr., II, 163) dopo che gli Stoici ebbero elaborato la teoria del ra-
gionamento ipotetico (v. ANAPODITTICO). Molto pro- babilmente gli Stoici
consideravano assorbita la 117 teoria aristotelica del sillogismo dalla loro
teoria dei ragionamenti ipotetici, come consideravano assorbita nella loro
teoria degli assiomi o proposizioni la teoria aristotelica dell’inzerpretazione
(v.). Ma la logica posteriore (specialmente gli Aristotelici) semplice- mente
aggiunse le determinazioni stoiche a quelle aristoteliche, parlando così di una
proposizione C. e di una proposizione ipotetica, di sillogismo C. e di
sillogismo ipotetico. Questa terminologia fu in- trodotta da Marciano Capella
(De nuptiis, $ 404 seguenti) e da Boezio nella tradizione latina. Dice Boezio:
«I Greci chiamano proposizioni C. quelle che sono pronunziate senza alcuna
condizione mentre sono condizionali quelle del tipo ‘se è giorno, c’è luce’,
che i Greci chiamano ipotetiche ». Corrispondentemente il sillogismo C. o «
predica- tivo » è quello che è formato da proposizioni C., mentre quello che
consta di proposizioni ipotetiche, si dice ipotetico cioè condizionale (De
syll. hypot., I, in P. L. 64, col. 833). Questa terminologia si è conservata
lungo tutta la tradizione logica dell’occidente e fu accettata da Kant (Crit.
R. Pura, Analitica dei concetti, $ 9). Kant ha a sua volta esteso la
distinzione stessa ap- plicandola agli imperativi, cioè alle massime della
volontà. Egli ha chiamato C. l’imperativo della moralità, che non è sottoposta ad
alcuna condizione e ha quindi una « necessità incondizionata vera- mente
oggettiva » e che per conseguenza vale per tutti gli esseri ragionevoli quali
che siano i loro desideri (Grundlegung zur Met. der Sitten, 11) (v.
IMPERATIVO). CATENOTEISMO (ingl. Kathenotheism). Ter- mine inventato dallo
storico delle religioni Max Miller per indicare la dottrina che c’è un solo Dio
per volta, cioè il monoteismo dei Veda secondo i quali un Dio solo per volta
governa il mondo, mentre le altre divinità aspettano il loro turno. CAUSA
ESEMPLARE. L’idea in Dio delle cose che intende creare (v. IDEA). CAUSALITAÀ
(gr. altia, altiov; lat. Causa; ingl. Causality; franc. Causalité; ted.
Causalitàt). Nel suo significato più generale, la connessione tra due cose, in
virtù della quale la seconda è uni- vocamente prevedibile a partire dalla
prima. Sto- ricamente questa nozione ha assunto due forme fondamentali: 1° la
forma di una connessione ra- zionale, per la quale la causa è la ragione del
suo effetto, che è perciò deducibile da essa. In questa concezione l’azione
della causa viene spesso de- scritta come quella di una forza che genera o pro-
duce immancabilmente l’effetto; 2° la forma di una connessione empirica o
temporale, per la quale l’effetto non è deducibile dalla causa, ma è tuttavia
prevedibile in base ad essa per la costanza e uni- formità del rapporto di
successione. Questa conce- zione elimina dal rapporto causale l’idea di forza.
Ad entrambe queste forme è comune la nozione della prevedibilità univoca cioè
infallibile dell’ef- fetto, a partire dalla causa, e perciò pure la nozione
della necessità del rapporto causale. 1° La prima forma della nozione di causa
può dirsi che cominci con Platone, il quale considera la causa come il
principio per il quale una cosa è, o diventa, ciò che è. In tal senso egli
afferma che la vera causa di una cosa .è ciò che per la cosa è «il meglio»,
cioè l’idea o lo stato perfetto della cosa stessa e, per es., la causa del due
è la dualità, di ciò che è grande la grandezza, di ciò che è bello la bellezza;
e in generale il bene è causa di ciò che c’è di bene nelle cose e delle cose
stesse (Fed., 97c sgg., spec. 101c). Accanto a queste cause «prime » o « divine
» Platone ammise poi le con- cause che sono le limitazioni che l’opera creativa
del demiurgo incontra e costituiscono gli elementi di necessità del mondo
stesso (Tim., 69 a). Ma la prima vera analisi della nozione di causa si trova
in Aristotele. Per primo Aristotele afferma (Fis., I, 1, 184 a 10) che
conoscenza e scienza consistono nel rendersi conto delle cause e non sono nulla
fuori di questo. Ma nello stesso tempo egli nota che, se chiedere la causa
significa chiedere il perchè di una cosa, questo perchè può essere diverso e ci
sono quindi varie specie di cause. In un primo senso, è causa ciò di cui una
cosa è fatta e che rimane nella cosa, per es., il bronzo è causa della statua e
l’argento della coppa. In un secondo senso, la causa è la forma o il modello,
cioè l’essenza ne- cessaria o sostanza, (v.) di una cosa. In questo senso è
causa dell’uomo la natura razionale che lo definisce. In un terzo senso, è
causa ciò che dà inizio al mutamento o alla quiete: e, per es., l’autore di una
decisione è la causa di essa, il padre è causa del figlio e in generale ciò che
produce il mutamento è causa del mutamento. In un quarto senso, la causa è il
fine e, per es., la salute è la causa per cui si passeggia (/bid., II, 3, 194b
16; Met.,, V, 2, 1013 ione di un effetto, come nel caso di due buoi che tirano
l’aratro. La cooperante è infine la causa che ar- reca una piccola forza in
virtù della quale l’effetto si produce con facilità: come quando a due che
portano con fatica un peso si aggiunge un terzo che aiuta a sostenerlo. Ma la
causa per eccellenza è, per gli Stoici, quella sinettica, e in questo senso Dio
è causa e costituisce il principio attivo del mondo (Diog. L., VII, 134;
SENECA, Ep., 65, 2). CAUSALITÀ La filosofia medievale poco o nulla ha innovato
al concetto della struttura causale (perchè sostan- ziale) del mondo. Il suo
contributo maggiore è l’elaborazione del concetto di causa prima in un senso
diverso da quella aristotelica, cioè non come tipo di causa fondamentale ma
come primo anello ddel Joro naturalismo. Così Pomponazzi intende riportare
anche gli eventi più straordinari e miracolosi all’ordine necessario della
natura; e si avvale, per farlo, del determinismo astrologico degli Arabi (De
incantationibus, 10). La nozione di un ordine causale del mondo (qualche volta
ricondotto a Dio come a prima causa), se- condo il concetto neo-platonico e medievale,
forma anche il presupposto e lo sfondo del primo organiz- zarsi della scienza
con Copernico, Keplero e Galilei. Questo sfondo viene espresso in termini
meccani- stici da Hobbes e in termini teologici da Spinoza, ma rimane lo
stesso. Hobbes ritiene che il rapporto causale si riduce all’azione di un corpo
sull’altro e che perciò la causa sia ciò che genera o distrugge un certo stato
di cose in un corpo (De corp., IX, 1). La causa perfetta, cioè da cui l’effetto
infallibil- mente segue è l’aggregato di tutti «gli accidenti attivi» quanti
sono: con essa l’effetto è già dato (Ibid., IX, 3). La concatenazione dei
movimenti costituisce l’ordinamento causale del mondo. Dal suo canto Spinoza,
come vede in Dio la sola so- stanza, così vede in lui la sola causa; dalla
quale tutte le cose e gli eventi del mondo (i « modi» della Sostanza) derivano
con necessità geometrica (Er., I, 29). La necessità causale che per Hobbes è
una concatenazione dei movimenti, per Spinoza è una concatenazione di ragioni,
cioè di verità che costituiscono una catena ininterrotta. D'altronde il
carattere meccanico della C. non diminuisce, agli occhi di Hobbes, la natura
razionale di essa: chè anzi Hobbes vede nel meccanismo la sola spiega- zione
razionale del mondo, nel corpo e nel movi- mento i due soli princìpi di
spiegazione, e non ri- conosce altre realtà fuori di essi. Ciò accade perchè in
Hobbes, come in Spinoza, prevale l’identifica- zione accettata da Cartesio di
causa con ragione. La causa è ciò che dà ragione dell’effetto, ne di- mostra o
giustifica l’esistenza o le determinazioni. Così Cartesio la concepisce quando,
definendo ana- litico il metodo da lui adoperato, afferma che esso «fa vedere
come gli effetti dipendano dalle cause » (Secondes Réponses). Il che vuol dire
che la causa è ciò che consente di dedurre l’effetto. Che spie- gare mediante
la causa significhi « dar ragione » di ciò che esiste, è il significato di
chiamava principio del determinismo assoluto. « Il principio assoluto delle
scienze sperimentali, egli diceva (Introduction, I, 2, 7) è un determinismo
necessario e cosciente nelle condizioni dei fenomeni. Se un fenomeno naturale,
quale che sia, è dato, mai uno sperimentatore potrà ammettere che vi sia una
variazione nell’espressione di quel feno- meno, senza che nello stesso tempo
siano soprav- venute condizioni nuove nella sua manifestazione: in più egli ha
la certezza 4 priori che queste varia- zioni sono determinate da rapporti
rigorosi e ma- tematici. L'esperienza ci mostra soltanto la forma dei fenomeni;
ma il rapporto di un effetto con una causa determinata è necessario e
indipendente dal- l’esperienza, e forzatamente matematico e assoluto ». Ma
nonostante queste affermazioni così recise di uno dei maggiori scienziati e
metodologi della scienza dell’800, la scienza stessa seguì un altro corso,
rispetto all’elaborazione e all’uso della no- zione di causalità. I progressi
del calcolo delle pro- babilità, alcune teorie fisiche (specialmente la teoria
cinetica dei gas), poi la meccanica quantistica, fe- cero un posto sempre
maggiore alla nozione di probabilità e da ultimo, appunto la meccanica
quantistica tende a sostituire l’uso di questa no- zione a quella di C. che
pareva indispensabile agli scienziati e ai metodologi dell’800. Si può dire che
l’ultima manifestazione filosofica della teoria classica della C. è la dottrina
di Nicolai Hartmann che, pur considerando la realtà divisa in piani negandolo
alle cose, osservò che l’unico legame accertabile tra le cose è una certa
connessione temporale e che, per es., diciamo che la combustione è causata dal
fuoco unicamente perchè sopravviene insieme col fuoco (AVERROÈ, Destructio
destructionum, I, dub. 3). Con altri in- CAUSALITÀ 121 tenti Ockham nel xiv
secolo anticipava la critica di Hume affermando che la conoscenza di una cosa
non porta con sè a nessun titolo la cono- scenza di una cosa diversa sicchè «
una proposizione come “il calore riscalda’ in nessun modo si può dimostrare per
sillogismo, ma la conoscenza di essa si può ottenere solo per esperienza;
giacchè se non si esperimenta che alla presenza del calore segue il calore in
un’altra cosa, non si può sapere che il calore produce calore più di quanto si
sappia che la bianchezza produce bianchezza » (Summa Log., III, 2, 38). Qui è
anticipato chiaramente il punto fondamentale della critica di Hume, cioè
l’indeducibilità dell’effetto dalla causa. Hume co- mincia infatti col negare
proprio che ci sia tra causa ed effetto un tale rapporto. « Noi ci illudiamo,
dice Hume, che se fossimo condotti all'improvviso su questo mondo potremmo
sùbito dedurre che una palla di biliardo può co- municare il movimento ad
un’altra ». Ma in realtà «anche supponendo che mi nasca per caso il pen- siero
del movimento della seconda palla quale risultato del loro urto, io potrei
concepire la pos- sibilità di altri mille avvenimenti differenti, per es., che
entrambe le palle rimanessero ferme o che la prima se ne tornasse indietro
diritta o scappasse da uno dei lati in una direzione qualsiasi. Tutte queste
supposizioni sono coerenti e concepibili; e quella che l’esperienza dimostra
vera non è più coerente e concepibile delle altre». La conclusione è che «
tutti i nostri ragionamenti @ priori non po- tranno mostrare alcun diritto a
questa preferenza a; e che «invano pretenderemmo di predire qualche singolo
avvenimento, o inferire qualche causa o effetto, senza l’aiuto
dell’osservazione e dell’espe- rienza » (/ng. Conc. Underst., IV, 1).
L’osservazione e l’esperienza, tuttavia, con la ripetizione di certi
avvenimenti simili, cioè con le uniformità che ri- velano, fanno nascere
l’abitudine a credere che tali uniformità si verificheranno anche nel futuro e
rendono pertanto possibile la previsione su cui è fondata la vita quotidiana.
Ma questa previsione, secondo Hume, non è giustificata da nulla. Anche dopo che
l’esperienza è stata fatta, la connessione tra causa ed effetto rimane
arbitraria (giacchè causa ed effetto rimangono due avvenimenti distinti) sicchè
rimane arbitraria la previsione fondata su quella connessione. «Il pane che
prima mangiavo mi nu- triva; cioè un corpo con certe qualità sensibili era
dotato di segrete forze in quel tempo; ma ne segue che un altro pane debba
nutrirmi pure in un altro tempo e che qualità sensibili simili debbano essere
sempre accompagnate da eguali forze segrete? La conseguenza non sembra affatto
necessaria » (/bid., IV, 2). La conclusione di Hume è che il rapporto causale è
ingiustificabile e che la credenza in esso si può spiegare solo con l’istinto,
cioè col bisogno di vivere che la richiede. Quest’analisi di Hume ha proposto
il problema della C. nella forma che esso conserva ancora nella filosofia
contemporanea. Il criterio adoperato da Hume per dimostrare l’in- sufficienza
della teoria classica è quello della pre- vedibilità. Il rapporto causale deve
rendere pre- vedibile l’effetto; ma nessuna deduzione @ priori può rendere
prevedibile un effetto qualsiasi; la deduzione è perciò incapace di fondare il
rapporto causale. La ripetizione empiricamente osservabile di una connessione
tra due eventi è allora l’unico fondamento per asserire un rapporto causale e
il modo in cui essa renda possibile tale asserzione è il problemul primo punto
ci limiteremo a riportare l’opinione di Nietzsche, secondo il quale la nozione
di causa non è che la trascrizione simbolica della volontà di potenza, cioè del
sentimento interno di forza o di espansione gioiosa. « Fisiologicamente, dice
Nietzsche, l’idea di causa è il nostro sentimento di potenza, in ciò che si
chiama volontà; e l’idea dell’effetto è il pregiudizio di credere che il sentimento
di potenza sia la stessa potenza motrice. La condizione che accompagna un
evento e che è già un effetto di quest’evento, è proiettata come ‘ ragion
sufficiente ’ di esso ». In realtà per Nietzsche l’intera concezione meccanica
del mondo non è che un linguaggio sim- bolico per esprimere « la lotta e la
vittoria di certe quantità di volontà» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 296).
Questa connessione della nozione di C. in quanto forza produttiva con
l’esperienza interna dell’uomo e cioè come trascrizione 0 concettualiz- zazione
antropomorfica, fu sostenuta nell’800 da numerosi filosofi per quanto fosse
stata criticata e rigettata da Hume (Ing. Conc. Underst., VII, 1). Si cercò
perciò di « purificare » la nozione di C. dai suoi riferimenti antropomorfici;
e il più importante tentativo in questo senso fu fatto da Comte. Egli ritenne
che l’idea stessa di causa quale forza pro- duttiva o agente fosse propria di
uno stato sor- passato della scienza, cioè dello stato metafisico; e ritenne
invece propria dello stato positivo la nozione di causa come «relazione
invariabile di successione e di simiglianza tra i fatti ». Tale nozione bastava
infatti, secondo Comte, a rendere possibile il còmpito essenziale della scienza
che è quella di prevedere i fenomeni in vista di poterli utilizzare: il
rapporto costante, una volta riconosciuto e for- mulato in una /egge, rende
possibile prevedere un fenomeno quando si verifica quello con il quale essa è
collegato; e la previsione rende a sua volta possibile agire sui fenomeni stessi
(Cours de Phil. positive, I, cap. I, $ 2). Questo concetto della previ- sione
come còmpito fondamentale della scienza, che Comte derivava da Bacone ma
ch’egli ha fatto am- piamente prevalere nell’indagine moderna, doveva diventare
dominante come criterio della validità e dell'efficacia della scienza e quindi
anche della por- tata e del significato del principio di causalità. E la
nozione di C. e quella di previsione furono da Comte e rimasero, dopo di lui,
strettamente congiunte. Mach che parte da questa congiunzione fra le due
nozioni vuole sostituire al concetto tradizionale di causalità il concetto
matematico di funzione, cioè di « dipendenza dei fenomeni tra loro o più esat-
tamente dipendenza dei caratteri distintivi dei fe- nomeni tra loro» (Analyse der
Empfindungen, 9* ed., 1922, pag. 74). Tuttavia nè Comte nè Mach met- tono in
dubbio il carattere necessitante della C. e il determinismo rigoroso che essa
comporta nel mondo dei fenomeni naturali. Conseguentemente, essi non mettono in
dubbio la prevedibilità certa e infalli- bile dei fatti naturali di cui siano
conosciuti i rap- porti causali. Soltanto gli sviluppi della scienza
contemporanea hanno messo in dubbio queste due cose e hanno perciò provocato la
crisi definitiva della nozione di causalità. Nella seconda metà dell’800 la
formulazione ma- tematica della teoria cinetica dei gas, dovuta a Maxwell e a
Boltzmann, servì a interpretare stati- ticamente il secondo principio della
termodinamica, CAUSALITÀ secondo il quale il calore passa soltanto da un corpo
a temperatura più alta ad un corpo a tem- peratura più bassa. La teoria
cinetica interpretava questo fatto come un caso di probabilità statistica; e
per la prima volta la nozione di probabilità, che era stata fino allora
limitata nel dominio della matematica, veniva utilizzata nel dominio della
fisica. Tuttavia la teoria cinetica dei gas non rap- presentava ancora una
infrazione al principio di C. dominante in tutto il resto della fisica.
Soltanto con gli sviluppi della fisica subatomica e con la scoperta dovuta a
Heisenberg del principio d’in- determinazione (1927) il principio di C. subiva
un colpo decisivo. L’impossibilità, stabilita da tale principio, di misurare
con precisione una gran- dezza senza scapito della precisione nella misura di
un’altra grandezza collegata, rende impossibile predire con certezza il
comportamento futuro di una particella subatomica e autorizza soltanto pre-
visioni probabili, fondate su accertamenti statistici, del comportamento di
tali particelle. In conse- guenza di ciò, la fisica tende oggi a considerare
gli stessi rapporti di prevedibilità nel cao-temporale degli eventi da un lato
e la classica legge causale dall’altro, rappresentano due aspetti
complementari, escluden- tisi a vicenda, degli avvenimenti fisici (Die phy-
sikalischen Prinzipien der Quantumtheorie, IV, $ 3). Nel 1932 von Neumann così
riassumeva lo stato della questione: «In fisica macroscopica, non c’è alcuna
esperienza che provi il principio di C., per- chè l’ordine causale apparente
del mondo macro- scopico non ha altra origine all’infuori della legge dei
grandi numeri e ciò del tutto indipendentemente dal fatto che i processi
elementari (che sono i veri processi fisici) seguano o meno leggi di C.... È
solo alla scala atomica, nei processi elementari, che la questione della C. può
realmente essere og- getto di discussione; ma, sola asserzione circa la realtà,
la cui validità possa essere asserita con più che probabilità ». Questi
sviluppi della scienza hanno reso inutili le discus- sioni dei filosofi circa il
fondamento, la portata e i limiti del principio di causa. Questo principio non
viene più adoperato, nè nella sua forma classica nè nella sua forma moderna: il
concetto del sapere o della scienza come « conoscenza delle cause» è entrato in
crisi ed è stato praticamente abbandonato dalla scienza stessa. Una nuova
terminologia si va formando, nella quale i termini di condizione (v.) e
condizionamento (v.), definibili mediante i pro- cedimenti in uso nelle varie
discipline scientifiche, prendono il posto del venerando e ormai inservibile
concetto di causa. CAUSA STRUMENTALE (la divinità è perciò moderno e collegato
con l’orientamento pan- teistico; come appare chiaro dalla osservazione di
Hegel (/. c.) che C. sui è equivalente a effectus sui. CAVERNA, IDOLI DELLA. V.
Ipoti. CAVERNA, MITO DELLA. Il mito esposto da Platone nel VII libro della
Repubblica, secondo il quale, la condizione degli uomini nel mondo è simile a
quella di schiavi legati in una C. che pos- sono scorgere solo le ombre,
proiettate sul fondo, delle cose e degli esseri che sono al di fuori. La
filosofia è, in primo luogo, l’uscita dalla C. e l’os- servazione delle cose
reali e del principio della loro vita e della loro conoscibilità, cioè del Sole
(il bene [v.]); e, in secondo luogo, il ritorno alla C. e la partecipazione
alle opere e ai valori propri del mondo umano (Rep., 519 c-d). CAVILLO (lat.
Cavillatio; ingl. Cavil). Il ter- mine fu proposto da Cicerone come traduzione
della parola greca sophisma che fu in séguito tra- dotta comunemente con
fallacia (v.) (De Orat., II, 54,
217; cfr. Seneca, Ep., 111; QUINTILIANO, Inst. Or., IX, 1, 15). Il termine veniva ancora ri- cordato in questo senso
nel sec. xvm (cfr. JUNGIUS, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 1, 16). CELANTES.
Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il sesto modo della prima
figura del sillogismo e precisamente quello che con- siste di una premessa
universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una conclu-
sione universale negativa, come nell’es.: « Nessun animale è pietra, Ogni uomo
è animale, Dunque nessuna pietra è uomo + (Pietro Ispano, Surumul. logic.,
4.08). CELARENT. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il
secondo modo della prima figura del sillogismo, precisamente quello che con- siste
di una proposizione universale negativa, di una proposizione universale
affermativa e di una conclusione universale negativa, come, ad es., « Nessun
animale è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro
IsPaNO, Summul. logic., 4.07). CERTEZZA (gr. BeBawrhg; lat. Certitudo; in-
glese Certitude, Certainty; franc. Certitude; tedesco Gewissheit). La parola ha
due significati fondamen- tali: 1° la sicurezza soggettiva della verità di una
conoscenza; 2° la garanzia che una conoscenza offre della sua verità. La parola
ha avuto, nel suo uso store concetti di C. vengono perciò sempre chiariti as-
sieme e complementarmente, nella tradizione filo- sofica. S. Tommaso distingue
due modi di con- siderare la certezza. Il primo consiste nel conside- rare la
causa di essa e sotto questo aspetto la fede è più certa della sapienza, della
scienza e dell’in- telletto perchè si fonda sulla verità divina, mentre queste
tre cose si fondano sulla ragione umana. Nel secondo modo, la C. si può
considerare dalla parte dell’oggetto (subiectum) e in questo modo è più certo
l’oggetto che più s’adatta all’intelletto umano ed è meno certa la fede (S.
7%., II, 2, q. 4, a. 8). Ovviamente, la C. considerata nella sua causa è la C.
soggettiva cioè la sicurezza soggettiva della verità della credenza mentre la
C. considererto che è costituito dall’insieme delle conoscenze ap- prestate da
quelli che Vico chiama «filologi», cioè dagli storici, dai critici, dai
grammatici, che si sono occupati dei costumi, delle leggi e dei linguaggi dei
popoli (/bid., degn. 10). Ma in generale l’identifica- zione tra C. e verità è
rimasta salda nella filosofia moderna. Kant ha chiamato C. la credenza oggetti-
vamente sufficiente cioè sufficientemente garantita come vera (Crir. R. Pura,
Canone della ragion pura, sez. 3). Egli ha distinto inoltre la C. empirica, che
può essere originaria, cioè connessa con la pro- pria esperienza storica o
derivata da un’esperienza altrui; e la C. razionale che si distingue da quella
empirica per la «coscienza della necessità» e si può quindi chiamare apodittica
(Logik, Intr., $ IX). Hegel stesso ha accettato l’identificazione di C. e di
conoscenza e ha così illustrato i due aspetti, soggettivo e oggettivo, della C.
sensibile: « Nella C. sensibile, un momento è posto come ciò che semplicemente
e immediatamente è, come l’es- senza: e questo è l’oggetto. L'altro momento è
posto come l’inessenziale e mediato, che non è in sè ma mediante qualcosa
d’altro: e questo è l’Io, un sapere che sa l’oggetto soltanto perchè l’oggetto
è, un sapere che può essere o anche non essere » (Phaenomen. des Geistes, I, A,
1). Analoga- mente i due significati sono stati distinti e accettati CHIAREZZA
E DISTINZIONE 125 da Husserl che ha considerato il fenomeno della C. come
originario, connesso con lo stesso atteggia- mento della Parola mnemonica usata
dagli Sco- lastici per indicare il primo dei quattro modi del sillogismo di
seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale
negativa, di una premessa universale affermativa e di una conclusione
universale negativa come nell’esempio: « Nessuna pietra è animale, Ogni uomo è
animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.11).
CESARISMO (ted. Casarismus). Spengler ha così chiamato « quella specie di
governo che, mal- grado tutte le forme del diritto pubblico, è ancora
totalmente sprovvisto di forma nella sua natura interna ». Esso si verifica
alla fine di certi periodi quando le istituzioni politiche fondamentali sono
morte, per quanto minuziosamente conservate nelle loro apparenze: in questi
periodi niente ha signi- ficato tranne il potere personale esercitato dal Ce-
sare. «È il ritorno di un mondo, che ha raggiunto la sua forma, al primitivo, a
ciò che è cosmicamente astorico » (Der Untergang des Abendlandes, ll, 4, 2, $
14). CHIACCHIERA (ted. Gerede). Secondo Hei- degger uno dei modi d’essere
dell’uomo nella vita quotidiana ed anonima (insieme con la curiosità [v.] e
l’equivoco [v.]). La C. non è un termine dispre- giativo ma indica un fenomeno positivo
che co- stituisce uno dei modi (l’inautentico) di comprendere il mondo e di
viverci dentro. La C. rompe il rap- porto del linguaggio coi fatti. Sicchè ciò
che viene detto acquista un carattere d’autorità e si implica che «la cosa stia
appunto così come si dice » (Ste questo farsi è la chiarificazione. CHILIASMO
(ingl. Chiliasm; franc. Chiliasme; ted. Chiliasmus). C. o millenarismo si
chiama ogni credenza nell’avvento di un radicale rinnovamento del genere umano
e nell’instaurazione di uno stato definitivo di perfezione. L°Apocalisse di S.
Gio- vanni è il maggiore documento di una credenza del genere che fu abbastanza
frequente nei primi tempi del Cristianesimo e si ripresentò spesso an- che nel
Medioevo. Gioacchino da Fiore (sec. x) preconizzò l'imminente avvento di una
terza epoca della storia umana, quella dello Spirito Santo (Con- cordia Novi et
Veteris Testamenti, IV, 35). Kant ha parlato di un C. filosofico « che spera in
uno stato di pace perpetua, fondata in una lega delle nazioni come repubblica
mondiale » (Religion, I, 3). CI (ted. Da). Secondo Heidegger, il ci dell’Es-
serci (Dasein) indica non solo il fatto che l’Esserci (= l’uomo) si trova qua o
là, cioè in qualche luogo dello spazio, ma specialmente l’apertura dell’uomo
alla spazialità, cioè al mondo in generale (Sein und Zeit, $ 28). In altri
termini «Esserci» significa essere nel mondo; e l’essere nel mondo è carat-
terizzato dalla situazione emotiva e dalla compren- sione (v.). CHIARIFICAZIONE
CIBERNETICA (ingl. Cybernetics). La pa- rola significa propriamente arte del
pilota, ma è stata usata dall’americano Wiener per designare «lo studio dei
messaggi, e particolarmente dei mes- saggi che effettivamente comandano, ai
fini della costruzione delle macchine calcolatrici» (C., or Con- trol and
Communication in the Animal and the Ma- chine, 1947). In senso più generale la
C. è intesa oggi come lo studio di «tutte le possibili mac- chine »,
indipendentemente dal fatto che alcune di esse siano o non siano state prodotte
dall'uomo 0 dalla natura. E in questo senso essa offre lo schema nel quale
tutte le macchine individuali possono essere ordinate, poste in relazione e
comprese (cfr. ad es. W. Ross AsHBy, An Introduction to C., 1957). Le macchine
di cui si occupa la C. sono tuttavia gli automi (v.) cioè quelle capaci di
eseguire ope- razioni che, nel corso della loro esecuzione, pos- sono essere
corrette in modo da rispondere meglio al loro scopo. Questa correzione si
chiama retro- azione (feedback). Poichè essa è la caratteristica fondamentale
delle operazioni dell’uomo o di qual- siasi essere intelligente, tali macchine
sono anche dette pensanti o cervelli elettronici perchè il loro funzionamento è
affidato alle proprietà fisiche del- l’elettrone. Lo schema del loro
funzionamento si può scorgere nella più semplice operazione di un essere umano.
Se, avendo visto un oggetto in una certa direzione (cioè avendone ricevuto un
mes- saggio visivo), stendo il braccio per afferrarlo e sbaglio la direzione o
la distanza, subito l’infor- mazione di questo sbaglio rettifica il movimento
del mio braccio e mi consente di dirigerlo esatta- mente verso l’oggetto: sia
l’operazione, sia la cor- rezione dell’operazione stessa sono in questo caso
guidati da messaggi cioè da informazioni ricevute o trasmesse dal sistema nervoso
che dirige il mo- vimento del braccio. La teoria dell’informazione fa perciò
parte integrante della C. o comunque è strettamente collegata con essa. Nella
C. possono essere distinti gli aspetti seguenti: 1° lo schema generale
dell’informazione; 2° la misura della quan- tità d’informazione; 3° le
condizioni che rendono possibile l’informazione; 4° gli scopi dell’informa-
zione. 1° Lo schema di ogni informazione sembra co- stituito essenzialmente da
tre elementi: il mes- saggio emesso, la trasmissione, e il messaggio ricevuto.
Ma in realtà le cose sono più complicate perchè il messaggio emesso (per es.,
una frase pronunciata in italiano o l’insieme di punti e linee che
costituiscono un messaggio telegrafico) è già l’espressione o la traduzione o,
come anche si dice, la messa in codice di ciò che chi lo emette (l’emittente)
intende trasmettere. Dall'altro lato, il messaggio ricevuto dev’essere compreso
cioè ritra- dotto o decodificato per essere registrato dal rice- vente e
guidarne la condotta. Così il messaggio telegrafico trasmesso mediante
combinazioni di punti e linee dev'essere decodificato o ritradotto in pa- role
o la frase pronunciata in italiano deve esser compresa secondo le regole e il
dizionario della lingua italiana e non apporterà alcuna informa- zione a chi
non conosce l’italiano. Già in tutti questi passaggi sono possibili equivoci,
errori di emissioni, di trasmissioni, di codificazione e deco- dificazione
nonchè disturbi vari dovuti all’interfe- renza di rumori o di altri fattori
meccanici. 2° Proprio quest’ultima osservazione ha dato l’avvio alla teoria
matematica dell’informazione con un teorema proposto da C. E. Shannon nel 1948
(cfr. SHANNON e WEAVER, The Mathematical Theory of Communications, 1949)
Shannon osservava che un messaggio inviato attraverso un canale qualsiasi
subisce, nel corso della trasmissione, deformazioni diverse, per cui al suo
arrivo una parte delle in- formazioni che conteneva è andata perduta. Egli
stabili l'analogia tra questa perdita e l’entropia (v.) che è la funzione
matematica esprimente la degra- dazione dell’energia che si verifica (in base
al se- condo principio della termodinamica) in ogni tra- sformazione del lavoro
meccanico in calore in quanto la trasformazione inversa (del calore in lavoro
meccanico) non è mai completa. In base a questa analogia la quantità di
informazione, tra- smessa può essere calcolata come entropia negativa giacchè,
nella trasmissione dei messaggi, come nella trasformazione dell’energia,
l’entropia negativa de- cresce continuamente perchè quella positiva (per- dita
d’informazione o degradazione di energia) cresce continuamente. Sulla base di
questa ana- logia, il calcolo delle probabilità, di cui si avvale la
termodinamica, può essere adoperato, con op- portuni accorgimenti, per determinare
le formule in cui la misura della quantità di informazione può essere espressa
nei singoli casi, che variano a se- conda del numero e della frequenza dei
simboli adoperati, della loro possibilità di combinazione, dell’interferenza
dei fattori di disturbo nella tra- smissione dei simboli stessi e così via. In
quest’ul- timo caso, si prendono in considerazione i simboli detti ridondanti
che hanno lo scopo di prevedere e correggere gli errori della trasmissione
prima che essi si producano, in modo che il funzionamento della trasmissione
sia corretto in anticipo dalla previsione dei disturbi, col processo della
retro- azione. In generale si può dire che più un mes- saggio è improbabile,
maggiore è l’informazione che esso trasmette. Perciò la quantità minima di
informazione si ha quando l’informazione lascia la scelta soltanto tra due
possibilità ugualmente probabili. Questa quantità minima è stata assunta come
unità di misura dell’informazione ed è stata chiamata bif (abbreviazione
dell’espressione inglese binary digit = cifra binaria). 3° Il concetto e il
calcolo dell’informazione si- tuano l’informazione stessa nel dominio della
pro- babilità (v.). Questo vuol dire che l’informazione è possibile solo in un
mondo che non è nè neces- sariamente ordinato, nè necessariamente disordinato.
In un mondo necessariamente ordinato, tutto sa- rebbe infallibilmente
prevedibile e l’informazione sarebbe inutile. In un mondo necessariamente di-
sordinato, cioè puro frutto del caso, nessun ordine sarebbe possibile quindi
nessuna informazione tra- smissibile. L’informazione trasmette infatti un or-
dine determinato di simboli e la misura dell’infor- mazione è la misura di un
ordine. Un messaggio telegrafico consiste, per es., di una certa combi- nazione
di punti e linee che, se comunica un’in- formazione, ha un ordine determinato,
scelto tra i moltissimi che sono resi possibili dall’alfabeto Morse. La misura
dell’informazione è data, come si è visto, dall’entropia negativa cioè da una
fun- zione che esprime la diminuzione dell’entropia che è il disordine (cioè la
distribuzione casuale) degli elementi di un sistema qualsiasi. Pertanto le con-
dizioni della C., cioè dell’uso teoretico e pratico della teoria
dell’informazione, possono essere rica- pitolate nel modo seguente: a) La
negazione di ogni tipo o forma di ne- cessità in tutte le situazioni in cui
l’informazione prende posto. b) La negazione di ogni conoscenza assoluta cioè
totale, definitiva ed eseste condizioni dell’informazione (e quindi della C.
che l’adopera per i più diversi scopi), sono implicitamente o esplicitamente
ammesse da tutti gli scienziati che in qualsiasi campo si avvalgono di questa
disciplina; e costituiscono il fondamento filosofico di essa. Esse sono
riassunte nel passo seguente di F. C. Frick: « Informazione e ignoranza, scelta
previsione e incertezza, sono tutte intima- mente correlate... AI confine della
completa cono- scenza e della completa ignoranza, sembra intuiti- vamente
ragionevole parlare di gradi di incertezza. Più vasta è la scelta, più esteso è
l’insieme delle alternative che si aprono davanti a noi, più incerti noi siamo
circa come procedere e di maggiore in- formazione abbiamo bisogno per prendere
la nostra decisione » (Information Theory, in Psychology: A Study of a Science,
22 ediz., Sigmund Koch, 1959, pag. 614-15). 4° Il quarto aspetto della C. è
costituito dagli usi e dagli scopi che essa può avere nei più diversi campi
dell’attività umana: a) In primo luogo la C. è un potente stru- mento per la
spiegazione e la previsione dei feno- meni. Uno dei suoi successi più clamorosi
si è avuto nel campo della generica (v.), dove ha reso possibile spiegare la
trasmissione dei caratteri ere- ditari mediante le varie combinazioni degli
elementi di un alfabeto genetico, costituito dagli acidi desos- siribonucleici,
costituenti la doppia elica del DNA (Watson e Crick, 1953). La teoria
dell’evoluzione (v.), sull’impianto darwiniano, considera l’evoluzione stessa
come un processo di variazione a caso e di sopravvivenza selettiva: due
concetti che sono (come si è visto) quelli fondamentali della teoria
dell’informazione. Nella psicologia, nell’antropo- logia, nella sociologia tali
concetti sono adoperati a spiegare ogni forma di organizzazione e sono ora
generalizzati in una teoria dei sistemi, applicabile a tutti questi campi
(cfr., ad es., W. BUCKLEY, Sociology and Modern Systems Theory, 1967, e
relativa bibl.). b) In secondo luogo la C. è utilizzata per la costruzione di
macchine sempre più complesse, alle quali sono affidate operazioni e compiti, ritenuti,
sino a poco tempo fa, propri dell’uomo. Sui limiti e le possibilità di queste
macchine, i pareri di scien- ziati e filosofi sono discordi. C'è chi ritiene
che, in un futuro più o meno prossimo, esse possano sostituirsi all'uomo nella
soluzione di tutti i suoi problemi e anche nelle scelte decisive che concer-
nono l’avvenire o la sopravvivenza del genere umano. Altri avanzano dubbi su
questa possibilità illimitata, che sembra fra l’altro contraddetta dal teorema
di Gédel (v. MATEMATICA) che tra le sue implicazioni, ha anche quella che non è
possibile costruire una macchina che risolva ogni problema. Si insiste,
inoltre, sulla differenza tra l’uomo e la macchina dovuta alla presenza
nell’uomo del fat- tore coscienza (v.). Raymond Ruyer ha, per es., af- fermato
che « senza coscienza non c’è informazione » e che perciò se il mondo fisico è
quello delle mac- chine fossero abbandonati a se stessi, « tutto spon- CICLO
DEL MONDO taneamente diverrebbe disordine e ci sarebbe la prova che non c’è mai
stato ordine vero, ordine consistente o, in altri termini che non c'è mai stata
informazione» (La cybernétique et l’origine de l’information, 1954). Si
insiste, anche da più parti, su fondamenti vari (spesso di natura meta- fisica
o morale) sulla differenza fra l’uomo e la macchina, ma in generale viene
riconosciuto che le macchine hanno gli stessi limiti dell’uomo, sep- pure a un
grado inferiore, e che si distinguono dall’uomo per l’enorme « complessità »
del cervello umano e per la capacità di quest’ultimo di pre- vedere in misura,
corrispondentemente maggiore, gli avvenimenti futuri. Wiener ha insistito
sull’esi- genza di una simbiosi fra l’uomo e la macchina, per la quale è
necessario, da parte dell’uomo, avere una chiara idea degli scopi che deve
prefiggersi nella programmazione e nell’uso delle macchine. Una macchina
infatti può, eseguendo il suo pro- gramma, mettere in atto operazioni che, per
l’in- sorgere di circostanze impreviste, possono rivolgersi contro gli
interessi e la vita stessa dell’uomo. Anche una macchina che può imparare e
prendere deci- sioni sulla base di una conoscenza acquisita, ha osservato
Wiener, non sarà obbligata a decidere nel senso in cui avremmo deciso noi
stessi o al- meno in modo per noi accettabile: « Per colui che non ha coscienza
di ciò, addossare il problema della propria responsabilità alla macchina (sia
che questa possa apprendere o no) vorrà dire affidare la propria responsabilità
al vento e vedersela tornare indietro tra i turbini della tempesta » (7he Human
Use of Human Beings, 1950, cap. XI; cfr. pure God et Golem, Inc., 1964). I
problemi della C. si colle- gano così strettamente, oltre che a quelli dell’on-
tologia e della gnoseologia, anche a quelli dell’etica. CICLO DEL MONDO (gr.
xixdog; ingl. Co- smic Cycle; franc. Cycle cosmique; ted. Kosmic Cyklus). La
dottrina secondo la quale il mondo ritorna, dopo un certo numero di anni, al
caos primitivo dal quale uscirà di nuovo per ricomin- ciare il suo corso sempre
uguale. La dottrina è suggerita ai più antichi filosofi dalle vicende ci-
cliche constatabili: l’alternarsi del giorno e della notte, delle stagioni,
delle generazioni animali, ecc. La nozione del C. cosmico si trova
nell’orfismo, nel pitagorismo, in Anassimandro (HyP., Refut. omn. haeres., I,
6, 1), in Empedocle (Fr. 17, Diels), in Eraclito (Fr. 5, Diels); ed inoltre
negli Stoici secondo i quali: «Quando nel loro moto gli astri siano tornati
allo stesso segno e alla latitudine e longitudine in cui ciascuno era al
principio, ac- cade, nel C. dei tempi, una conflagrazione e distru- zione
totale; poi di nuovo si ritorna dal principio allo stesso ordine cosmico e di
nuovo muovendosi gli astri ugualmente, ogni avvenimento accaduto nel precedente
C. torna a ripetersi senza alcuna differenza. Vi sarà infatti di nuovo Socrate,
di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e
concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi, ed ogni
città e villaggio e campagna ritornerà ugualmente. Questo ritorno universale si
effettuerà non una sola volta ma molte volte e all’infinito » (NEMESIO, De nat.
hom., 38). Nella filosofia moderna questa dottrina è stata ripresa da Federico
Nietzsche: per il quale l'eterno ritorno è il sì che il mondo dice a se stesso,
la vo- lontà cosmica di riaffermarsi e di essere se stessa, quindi
l’espressione cosmica di quello spirito dio- nisiaco che esalta e benedice la
vita. «Il mondo, dice Nietzsche, si afferma da sè, anche nella sua uniformità
che rimane la stessa nel corso degli anni, si benedice da sè, perchè è ciò che
deve eter- namente ritornare, perchè è il divenire che non conosce sazietà nè
disgusto nè fatica» (Wille zur Macht, ed. e fuoco) che compongono i corpi
sublunari; sicchè il C. che si muove di movimento circolare, che non ha
l’opposto, è incorruttibile e ingenerabile (De cael., Il, 1 sgg.). La dottrina
dell’incorruttibilità dei C. ha dominato tutta la fisica antica e medie- 9 —
ABDAGNANO, Dizionario di filosofia, vale. Nell’antichità fu forse messa in
dubbio da Teofrasto (cfr. STEINMETZ, Die Physik des Theo- phrast, 1964, pag.
158 sgg.). Nel Medioevo il primo a metterla in dubbio fu Ockham nel sec. xiv,
il quale nega la diversità tra la materia che com- pone i corpi celesti e la
materia che compone i corpi sublunari e ammette come sola differenza tra questi
e quelli il fatto che la materia dei corpi celesti non può essere trasformata
per l’azione di alcun agente creai e senza entrare a far par- te dell’esistenza
soggettiva (PAi/., III, pag. 137). Una cosa, una persona, una dottrina, una
poesia possono valere come simboli o C. della trascendenza; simboli e C. sono
anche le siruazioni-limite (v.). CINEMATOGRAFICO, MECCANISMO (franc. Mécanisme
cinématographique). Così Bergson chiamò il procedimento del pensiero nei
riguardi del movimento: il pensiero prenderebbe sul movi- mento istantanee
immobili alle quali aggiungerebbe un movimento artificiale esterno. Su questo
pro- cedimento sarebbe fondata «l'illusione meccani- stica » (Évol. Créatr.,
cap. IV). CINICA, FILOSOFIA (ingl. Cynicism; fran- cese Cynisme; ted. Cynismus).
La dottrina di una delle scuole socratiche e precisamente di quella fondata da
Antistene di Atene (sec. rv a. C.) nel Ginnasio Cinosarge. Proprio da questo
Ginnasio i Cinici probabilmente derivarono il loro nome; oppure, come altri
dicono, lo derivarono dal loro ideale di vita conforme alla semplicità (e alla
sfac- ciataggine) della vita canina. La tesi fondamentale del cinismo è che
l’unico fine dell’uomo è la feli- cità e la felicità consiste nella virtù.
Fuori della virtù non esistono beni sicchè fu proprio dei Cinici il disprezzo
per le comodità, gli agi e i piaceri e l’ostentazione del più radicale
disprezzo per le con- venzioni umane e in generale per tutto ciò che allontana
l’uomo dalla semplicità naturale di cui gli animali dànno l’esempio. La parola
« cinismo » è rimasta nel linguaggio comune per l’appunto a designare una certa
sfacciataggine. 130 CIRCOLO (gr. xixdo, Sdandoc bro; lat. Cir- culus; ingl.
Circle; franc. Cercle; ted. Zirkelbe- weiss). La dimostrazione in circolo o
reciproca è, secondo Aristotele, quella che consiste nel dedurre dalla
conclusione e da una delle due premesse di un sillogismo (quest’ultima assunta
nel rapporto di predicazione inverso) l’altra conclusione del sil- logismo
stesso (An. Pr., II, 5, 57b sgg.). Aristo- tele ammette la piena validità di
questo procedi- mento e ne stabilisce i limiti e le condizioni a proposito di
ciascuna figura del sillogismo. Esso pertanto non ha niente a che fare col « C.
vizioso + o «petizione di principio », da lui enumerata fra i sofismi extra
dictionem (cioè non dipendenti dal- l’espressione linguistica) e che consiste
nell’asgismo è un diallele perchè in esso la premessa maggiore, per es., «Tutti
gli uomini sono mortali » presuppone accertata la con- clusione « Socrate è
mortale » (/pot. Pirr., II, 195 seguenti). Questa critica trascura un punto
fonda- mentale della logica di Aristotele e cioè che le premesse del sillogismo
non sono stabilite per induzione ma esprimono la causa o sostanza ne- cessaria
delle cose. Per es., quando si dice « Tutti gli uomini sono mortali» non si
esprime l’osser- vazione che Tizio, Caio, Sempronio sono mortali, bensì un
carattere che appartiene alla sostanza o essenza necessaria dell'uomo ed è
perciò la causa o ragion d’essere della conclusione. Il C. viene solitamente
assunto come segno della incapacità di dimostrare. Hegel osservò tuttavia che «
La filosofia forma un C. +: perchè essa, in ognuna delle sue parti, deve
prendere le mosse da qual- cosa di indimostrato, che è invece il risultato di
qualche altra sua parte (Fi/. de/ dir., $ 2, Zusatz). A sua volta Rosmini
(Logica, 1854, pag. 274 n) parlò di un «C. solido» per cui la conoscenza della
parte suppone quella del tutto e reciproca- mente. E Gentile rifacendosi a tali
esempi a sua volta ritenne che il diallele o C., quale Sesto Em- pirico l’ha
mostrato in atto nel sillogismo, è la CIRCOLO caratteristica propria del «
pensiero pensato », cioè del pensiero come oggetto di se stesso. « Questo
diallelo, egli disse, che è stato sempre lo spauracchio del pensiero, sarà,
anzi è, la morte del pensiero pen- sante; ma è la vita, la stessa legge
fondamentale del burgo (1559-73), metodo che consisteva prevalen- temente nello
spiegare ogni singolo passo mediante il senso totale della Scrittura.
CLASSIFICAZIONE CLAVIS UNIVERSALIS. Questo termine fu usato tra il °500 e il
”600 per indicare la tecnica della memoria e dell’invenzione, che ha il suo
precedente più illustre nell’ Ars magna di Lullo e il suo sbocco più importante
nella Caratteristica universale di Leibniz (cfr. PaoLo Rossi, Clavis
universalis, 1960) (v. CARATTERISTICA; COMBINATORIA; MNEMONICA). CLINAMEN. V.
DECLINAZIONE. COCCODRILLO, DILEMMA DEL. Vedi DILEMMA. COERENZA (ingl.
Coherence; franc. Cohé- rence; ted. Zusammenhang). 1. L'ordine, la con-
nessione, l'armonia di un sistema di conoscenza. In questo senso Kant
attribuiva alle conoscenze a priori il còmpito di mettere ordine e C. nelle
rappresentazioni sensibili (Crit. R. Pura, 1* ediz., Intr., $ 1). E in tal
senso la C. è stata assunta da alcuni idealisti inglesi come criterio della
verità. Secondo Bradley, ad es., la realtà è una Coscienza assoluta che
abbraccia, nella forma di una C. ar- moniosa, tutto il molteplice disperso e
contraddit- torio dell’apparenza sensibile (Appearance and Rea- lity, 2* ediz.,
1902, pag. 143 sgg.). La C. in questo senso è assai più della semplice
compatibilità (v.) fra gli elementi di un sistema: implica, infatti, non solo
l'assenza della contraddizione, ma la presenza di connessioni positive che
stabiliscano armonia tra gli elementi del sistema. In questa accezione il
termine non ha significato logico. 2. Lo stesso che compatibilità. Questo
significato è assunto frequentemente dal termine italiano e da quello francese,
giacchè in queste lingue il termine compatibilità non si presta a esprimere il
carattere del sistema che è privo di contraddizione, ma de- signa piuttosto il
carattere di non contraddittorietà reciproca degli enunciati. COESISTENZA (ingl. Coexistence;
fr. Coexis- tence; ted. Mitsein o Mitdasein). Nell’esistenzia- lismo contemporaneo s’intende con
questo termine il modo specifico in cui l’uomo è con gli altri uomini nel
mondo: modo che è diverso da quello in cui egli si trova ad essere, nel mondo,
con le altre cose. Questo significato specifico del termine è dovuto a
Heidegger che ha distinto la presenza delle cose come mezzi o strumenti
utilizzabili dal con-esserci (Mif- dasein), o C. degli altri con l’Io. La
stretta connes- sione della C. con l’esistenza fa sì che non vi possa essere
comprensione di sè senza la comprensione degli altri. « Nella comprensione
dell’essere propria dell’Esserci, dice Heidegger, è implicita la com- prensione
degli altri, e ciò perchè l’essere dell’Es- serci è coesistenza » (Sein und
Zeit, $ 26). COGITO. Si abbrevia in questa parola l’espres- sione cartesiana «
Cogito ergo sum (Discours, IV; Méd., II, 6 che esprime l’autoevidenza esi-
stenziale del soggetto pensante, cioè la certezza che il soggetto pensante ha
della sua esistenza in quanto tale. Si tratta di un movimento di pensiero che è
stato ripresentato varie volte nella storia, sia pure per fini diversi. S.
Agostino si av- valse di esso per confutare lo scetticismo accade- mico, cioè
per dimostrare che non si può rimaner fermi al dubbio o alla sospensione
dell’assenso. Chi dubita della verità è certo di dubitare, cioè di vivere e di
pensare; consegue dunque nel dubbio stesso la certezza che lo rapporta alla
verità (Contra Acad., III, 11; De Trin., X, 10; Solil., II, 1). Da S. Agostino
lo stesso atteggiamento di pensiero passa in alcuni Scolastici; per es., in S.
Tommaso: « Nessuno, egli dice, può pensare con assenso [cioè credere] di non
essere; giacchè, in quanto pensa qualcosa, percepisce di essere» (De ver., q.
10, a. 12, ad. 7). Contemporaneamente a Cartesio il principio è ripreso da
Campanella (Mer., I, 2, 1). Per quanto questo movimento di pensiero sia stato
fatto servire a fini diversi (S. Agostino lo utilizza per dimostrare la
trascendenza della Verità [che è Dio stesso] e la presenza di essa all’anima
umana; Campanella lo utilizza per dimostrare la priorità di una « nozione
innata di sè » su ogni altra specie di conoscenza; e Cartesio per giustificare
il suo metodo dell’evidenza) e il suo preciso significato sia quindi diverso da
un filosofo all’altro, poche volte si è tuttavia dubitato della sua validità
generale. Ad ogni filosofia che faccia appello alla coscienza (v.) come allo
strumento della ricerca filosofica, il C. deve apparire indubitabile perchè in
realtà esso non è che la formulazione del postulato metodo- logico di una tale
filosofia. Ma anche filosofie che non riconoscono tale postulato fanno uso del
C. e lo riconoscono valido. Così fa, per es., Locke che vede in esso « il più
alto grado di certezza + (Saggio, IV, 9, 3). E così fa Kant che vede in esso la
stessa appercezione pura (v.) o coscienza riflessiva. Nella filosofia
contemporanea, Husserl assume esplici- tamente il C. come punto di partenza
della sua filosofia (/deen, I, $ 46; Méd. cart.,8 1) e ricorre ad esso
continuamente nel corso delle sue analisi, con- siderandolo come la struttura
stessa dell’esperienza vissuta (Erlebniss) o coscienza. Heidegger stesso non
mette in dubbio la validità del C. per quanto rimproveri a Kant di aver
ristretto con esso l’io a un «soggetto logico», isolato, «soggetto che accom- pagna
le rappresentazioni in un modo ontologica- mente del tutto indeterminato»
(.Sein und Zeit, $ 64). Di fronte a una così ampia accettazione, le cri- tiche
sono state assai scarse. Si può pensare alla critica di Vico; ma è facile
vedere che questa non è veramente una critica del Cogito. Vico nega che la
«coscienza» del proprio essere possa costituire la «scienza » di esso 0 almeno
il principio di questa scienza. La scienza infatti è conoscenza di causa e il
C. cartesiano sarebbe principio di scienza solo nel caso che la coscienza fosse
la causa dell’esistenza (De antiquissima Italorum sapientia, I, 3). Ma con ciò
Vico non nega che il C. costituisca una certezza valida, anzi si preoccupa di
correggerlo affermando che Cartesio avrebbe dovuto dire non «io penso dunque
sono + ma * Io penso dunque esisto » (Prima risposta al Giornale dei
letterati,83). La critica di Kier- kegaard si rivolge alla portata, più che
alla validità, del C. cartesiano: «Il principio di Cartesio ‘io penso, dunque
sono’ è, al lume di logica, un gioco di parole; poichè quell’ io sono * non
significa altro, logicamente, se non ‘io sono pensante’ ovvero ‘io penso»
(Diario, V, A, 30). In altri termini, secondo Kierkegaard, la proposizione
cartesiana è puramente tautologica, giacchè il suo presupposto è l’identità
dell’esistenza con il pensiero. Una tau- tologia però è ancora una proposizione
valida. Nel 1868 Peirce rispondeva negativamente alla questione «se abbiamo una
autocoscienza intuitiva », nella quale la parola autocoscienza stava per cono-
scenza della propria esistenza. Peirce non affrontava la validità del C. ma con
prove psicologiche e storiche credeva di poter concludere che +« non c'è
necessità di supporre un’autocoscienza intui- tiva, dal momento che
l’autocoscienza può fa- cilmente essere il risultato di un’inferenza + (Coll.
Pap., 5.263). Neppur questa è così, propriamente parlando, una critica del
cogito. Pertanto la più semplice e decisiva critica a questa no- zione si può
ritenere quella di Nietzsche: « ‘Si pensa, dunque c’è qualcosa che pensa ’: a
questo si riduce l’argomentazione di Cartesio. Ma questo significa soltanto
ritenere come vera a priori la nostra credenza nell’idea di sostanza. Dire che,
quando si pensa, bisogna che ci sia qualcosa ‘che pensi * è semplicemente la formulazione
dell’abitu- dine grammaticale che all’azione aggiunge un attore. In breve qui
non si fa altro che formulare un po- stulato logico-metafisico, in luogo di
contentarsi di constatarlo... Se si riduce la proposizione a questo: ‘Si pensa,
dunque ci sono pensieri” ne risulta una semplice tautologia e la ‘realtà del
pensiero’ ri- mane fuori questione sicchè, in questa forma, si è portati a
riconoscere l’ ‘apparenza’ del pen- siero. Ma Cartesio voleva che il pensiero
non fosse una realtà apparente, ma fosse un in sè» (Wille zur Macht, ed. 1901,
$ 260). Queste considerazioni di Nietzsche costituiscono una critica, che molti
filosofi contemporanei accetterebbero, del principio del cogito. Ad essa
infatti fa esplicito riferimento Carnap che sostanzialmente la ripete. «
L'esistenza dell’io, egli dice, non è un originario stato di fatto del dato.
Dal C. non segue il sum; da ‘Io sono co- sciente’ non segue che io sono ma
soltanto che vi è un’esperienza cosciente (Er/ebniss). L’io non 136
COINCIDENTIA appartiene all’espressione delle fondamentali espe- rienze
vissute, ma viene costituito più tardi, essen- zialmente allo scopo di
delimitare il suo àmbito da quello dell'altro... Al posto dell’espressione di
Descartes bisognerebbe porre quest'altra: ‘Questa esperienza cosciente; quindi
c’è un’esperienza co- sciente ’; ma questa sarebbe certamente una pura
tautologia » (Der /ogische Aufbau der Welt, 1928, $ 163). Questa critica è però
ben lungi dall’essere condivisa anche dagli stessi empiristi logici e Ayer, per
es., riconferma sostanzialmente la validità del principio cartesiano come
verità logica, pur limi- tandone la portata. « Se qualcuno pretende di sa- pere
che egli esiste o che è conscio, la sua pretesa deve essere valida
semplicemente perchè il suo es- sere valida è una condizione del suo essere
fatta » (Problem of Knowledge, 1956, pag. 53). La posi- zione di Nietzsche su
questo punto era più radicale e, probabilmente, più corretta (v. COSCIENZA).
COINCIDENTIA OPPOSITORUM. Espres- sione adoperata per la prima volta da Niccolò
Cusano per esprimere la trascendenza e l’infinità di Dio: il quale sarebbe C.
del massimo e del mi- nimo, del tutto e del nulla, del creare e del creato,
della complicazione e dell’esplicazione, in un senso che non può essere inteso
ed afferrato dall’uomo (De docta ignor., I, 4; De coniecturis, II, 1). Nello
stesso senso si servirono dell’espressione Reuchlin (De arte cabalistica, 1517)
e Giordano Bruno che se ne avvale per definire l’universo ch'egli identifica
con Dio. L’universo « comprende tutte contrarietà di nell’esser suo in unità e
convenienza» (Della causa [v.}). COLLETTIVISMO (ingl. Collectivism; fran- cese
Collectivisme; ted. Kollektivismus). 1. Questo termine è stato coniato nella
seconda metà dell’800 per indicare il socialismo non statalista di fronte a
quello statalista. Furono collettivisti in questo senso il socialismo
riformista d’anteguerra ed è collettivista il laburismo inglese in quanto vuole
una società senza squilibri di classe, quindi col- lettivizzata; ma non
controllata con la forza da una élite privilegiata che goda di un livello di
vita radicalmente diverso da quello della popolazione. 2. In senso più vasto,
s'intende per C. ogni dot- trina politica che si opponga all’individualismo e
che in particolare sostenga l’abolizione della pro- prietà privata e la
collettivizzazione dei mezzi di produzione. In questo senso sono
collettivistici sia il socialismo che il comunismo, in tutte le loro forme.
COLLIGAZIONE (ingl. Colligation; franc. Col- ligation; ted. Kolligation). Operazione
descrittiva in- vocata da Whewell (Novum organum renovatum, 1840, II, cap. 1 e
4) per spiegare il modo in cui si possono raccogliere un certo numero di
dettagli in una sola proposizione. Stuart Mill (Logic, III, 2, 4) riprese
questa nozione collegandola a quella di indu- zione. « L’asserzione che i
pianeti si muovono in el- lissi fu un modo di rappresentare fatti osservati,
quin- di una C.; l’asserzione che essi sono attratti verso il Sole è
l’asserzione di un nuovo fatto, inferito per induzione ». La parola è caduta in
disuso nella lo- gica contemporanea. COLPA (lat. Culpa; ingl. Guilt; franc.
Culpabi- lité; ted. Schuld). Originariamente, termine giuridico per indicare
l’infrazione di una norma compiuta « involontariamente », cioè senza averla progettata;
in contrapposto al delitto (dolus) che è la trasgres- sione progettata. Ecco
come Kant esprime la cosa: « Una trasgressione involontaria ma imputabile si
chiama colpa; una trasgressione volontaria (cioè unita con la coscienza che si
tratta proprio di trasgressione) si chiama delitto » (Mer. der Sitten, I,
Intr., $ 4). Per Heidegger la colpa è «un modo d’essere dell’Esserci » cioè una
determinazione es- senziale dell’esistenza umana in quanto tale. Egli distingue
due significati di esser colpevole (corri- spondentemente ai due significati
del tedesco Schw/d che significa debito e colpa): l’essere in debito verso
qualcuno e l’esser causa, autore od occa- sione di qualche cosa. « In questa
forma di ‘ aver C. * in qualcosa si può ‘esser colpevole ’ senza ‘ essere in
debito” con qualcuno o essergli debitore. E, rovesciando si può dovere qualcosa
a qualcuno senza averne la C. (esserne la causa)» (Sein und Zeit, $ 58). In un
senso analogo, Jaspers ha posto la C. tra le situazioni-limiti dell’esistenza
umana, cioè tra quelle situazioni alle quali l’uomo non può sfuggire (Phil.,
II, pag. 246 sgg.). COMBINATORIA, ARTE (lat. Ars combi- natoria). Con il nome
di ars combinatoria Leibniz designa il progetto, o meglio l’ideale, di una
scienza che, partendo da una characteristica universalis (vedi CARATTERISTICA),
ossia da un linguaggio simbolico che assegnasse un segno ad ogni idea
primitiva, combinasse in tutti i modi possibili questi segni primitivi,
ottenendo così tutte le possibili idee. Il progetto, derivante in parte dalle
idee esposte da R. Lullo nella Ars Magna, aveva già sedotto molti pensatori del
*500 e °600 (tra gli altri, Agrippa di Nettesheim, A. Kircher, P. Gassendi, G.
Dalgarno) e venne parzialmente coltivato anche da continuatori di Leibniz, come
Wolff e Lambert. G. P. COME SE (ted. A/s ob). Espressione che ricorre
frequentemente nelle opere di Kant per indicare il carattere ipotetico o
semplicemente regolarivo di certe affermazioni. Per es., le cose in sè possono
essere pensate per analogia «come se fossero so- stanze, cause, ecc. + (Crit.
R. Pura, Dialettica, V, d). L’imperativo categorico ordina di agire « come se
l’essere razionale fosse un membro legislatore nel regno dei fini »
(Grundlegung zur Met. der Sitten, II). Noi dobbiamo trattare le massime della
libertà «come se fossero leggi della natura » (/bid., III). La facoltà del
giudizio considera gli oggetti naturali « come se la finalità della natura
fosse intenzionale » (Critica del Giud., $ 68). Il come se kantiano non è una
mera finzione: è semplicemente l’interpretazione, in termini di operazioni o di
comportamenti, di proposizioni il cui senso letterale e metafisico ap- pare al
di là della confutazione e della conferma, perciò inesistente. Come finzione
interpretò invece il come se Hans Vaihinger nella sua Filosofia del come se
(1911); la cui tesi è che tutti i concetti e le cate- gorie, i principi e le
ipotesi di cui si avvalgono le scienze e la filosofia, sono finzioni (v.) prive
di vali- dità teoretica, spesso intimamente contraddittorie, che sono accettate
e mantenute solo in quanto utili. Un altro kantiano Paolo Natorp, aveva
ristretto il come se al dominio dell’arte, la quale rappresente- rebbe le cose
come se ciò che è dovesse ancora essere o come se ciò che deve essere fosse
anche in realtà (Die Religion innerhalb der Grenzen der Humanitàt, 1894).
COMICO (gr. yedotoy; lat. Comicus; ingl. Comic; franc. Comique; ted. Komisch).
Ciò che fa ridere, o la possibilità di far ridere, mediante la risolu- zione
impreveduta di una tensione o di un contrasto. La più antica definizione del C.
è quella di Aristo- tele, che lo considerò come « qualcosa di sbagliato e di
brutto che non procura nè dolore nè danno » (Poet., 5, 1449a 32 sgg.). Lo
«sbagliato» come carattere del C. significa il carattere imprevisto, perchè non
ragionevole, della soluzione, che il C. presenta, di un contrasto o di una
situazione di tensione. Queste notazioni sono rimaste sostan- zialmente le
stesse nella storia della filosofia. Hobbes ha insistito sul carattere
inaspettato del C., e lo ha connesso con la coscienza della propria supe-
riorità (De homine, XII, $ 7). Alla tensione e quindi alla soluzione
inaspettata di essa riduce il C. Kant: «In tutto ciò che è capace di eccitare
un vivace scoppio di riso, deve esserci qualcosa di assurdo (in cui per
conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare alcun piacere). Il riso
è un’affe- zione che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d'un tratto si
risolve in nulla. Proprio questa ri- soluzione, che certo non ha niente di rallegrante
per l'intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità »
(Crif. del Giud., $ 54). L’Illu- minismo vide nel C., e nel riso che lo
esprime, un correttivo contro il fanatismo e la manifestazione di quel « buon
umore » che Shaftesbury considerava come il miglior correttivo del fanatismo
stesso (Letter on Enthusiasm, II). Hegel invece lo con- siderava come
l'espressione di un possesso so- disfatto della verità, della sicurezza che si
prova di sentirsi al di sopra delle contraddizioni e di non essere in una
situazione crudele o disgraziata. Lo identificava, in altri termini, con una
felicità sicura di sè, che può perciò sopportare anche lo scacco dei suoi
progetti. E in ciò egli lo distingueva dal semplice risibile, in cui vedeva «la
contraddi- zione per la quale l’azione si distrugge da sè e lo scopo si annulla
realizzandosi » (Vorlesungen liber Aesthetik, ed. Glockner, III, p. 534).
Questa nozione hegeliana del C. è tuttavia un’idealizzazione ro- mantica del
fenomeno, più che un’analisi di esso; è l’esagerazione di quel sentimento di
superiorità che già Aristotele notò trovarsi nel C. quando considerò la
commedia come «imitazione di uo- mini ignobili» (Poer., 5, 1448, 32). La
nozione tradizionale del C. esce riconfermata dall’analisi che ne ha fatto
Bergson (Le rire, 1900), la quale rimane fino ad oggi la più ricca e precisa.
Egli nota che il C. si ha quando un corpo umano fa pensare a un semplice
meccanismo; o quando il corpo prende il sopravvento sull’anima o la forma sor-
passa la sostanza e la lettera lo spirito; o quando la persona ci dà
l’impressione di una cosa; tutti casi, questi, nei quali il C. è posto in
un’aspetta- tiva che viene delusa con una soluzione imprevista e, come avrebbe
detto Aristotele, sbagliata. Allo stesso modo, il C. delle situazioni o delle
espres- sioni che si ha quando una situazione può inter- pretarsi in due modi
differenti o per l’equivocità delle espressioni verbali; è perciò sempre uno
sbaglio, una soluzione irragionevole data ad una aspettativa di soluzione. Al
C., Bergson attribuisce anche un potere educativo e correttivo. « Il rigido, il
bell'e fatto, il meccanismo in opposizione al- l'agile, a ciò che è
perennemente mutevole, al vi- vente, la distrazione in opposizione alla
previsione, infine l’automatismo in opposizione all’attività libera, ecco ciò
che il riso sottolinea e vorrebbe correggere » (/bid., cap. II, in fine).
COMINCIAMENTO (lat. Inceptio; ingl. Be- ginning; franc. Début; ted. Anfang).
Propriamente, l’inizio di una cosa nel tempo: che può coincidere o no col
principio (v.) o con l’origine (v.) della cosa stessa. Questa distinzione è
importante in taluni casi: per es., secondo S. Tommaso la creazione, come C.
del mondo nel tempo, è materia di fede, ma non lo è come produzione dal nulla
da parte di Dio (S. 7h., I, q. 46, a. 2). Hegel ha affermato che il C. della
filosofia è relativo, nel senso che ciò che appare come C. è, da un altro punto
di vista, ri- sultato (Fil. del dir, $ 2, Zusatz). Comunque, l’Assoluto si
trova, secondo Hegel, piuttosto nel risultato che nel C. perchè questo « come
dapprima e immediatamente vien pronunziato, è solo l’uni- versale », e
l’universale in questo senso è solo l’astratto che non può valere come
concretezza e totalità; per es., le parole «tutti gli animali» che esprimono
l’universale di cui si occupa la zoologia, non possono valere come l’intera
zoologia (Phae- nom. des Geistes, Intr., II, 1). Con tutto ciò, la filosofia ha
spesso cercato il C. assoluto da far coincidere con lo stesso « principio » di
essa: di qui la ricerca del « primo principio » del filosofare. COMMUTATIVO
(lat. Commutativus; inglese Commutative; franc. Commutatif; ted. 1°
Ausgleichend; 2° Kommutativ). 1. Gli Scolastici hanno chiamato C. perchè ha
luogo negli scambi (commufationes) la specie di giustizia che Aristotele
chiamava « cor- rettiva » (vò Stopfwrwxdy Sixatov): la quale, a diffe- renza
della giustizia distributiva, che dà a ciascuno secondo i suoi meriti, serve a
pareggiare i vantaggi e gli svantaggi in tutti i rapporti scambievoli tra gli
uomini, sia volontari che involontari (Et. Nic., V, 4, 1131 b 25) (v.
GIUSTIZIA). 2. Proprietà C. o legge C. si dice l’assioma (0 postulato) per il
quale x o y = y o x. Questa legge è a fondamento dell’addizione e della
moltiplica- zione nell’aritmetica e della teoria dei numeri reali. Algebra «
non C.» è stata chiamata la teoria delle matrici dovuta all’inglese Arturo
Cayley (1821-95) che è stata utilizzata dalla meccanica dei quanti; perchè essa
non obbedisce alla legge C. conside- rando come unità schiere di numeri (quali
sarebbero, per es., quelli scritti sui quadrati di una scacchiera). COMPARATIVO
(ingl. Comparative; francese Comparé; ted. Vergleichend). Questione C. chia-
mano i logici tradizionali quella nella quale si domanda se qualcosa sia minore
o maggiore, mi- gliore o peggiore, ecc., di un’altra; per es.: « Se la
giustizia sia da preferirsi alla fortezza » (JuNGIUS, Logica, V, 2, 42). La
Logica di Porto Reale chiamò C. le proposizioni che istituiscono un confronto
del genere (ARNAULD, Logique, II, 10, 3): e questa espressione rimane nella
logica tradizionale (con- fronta B. ERDMANN, Logik, I, $ 40, 229). COMPASSIONE
(gr. &xeoc; lat. Commise- ratio; ingl. Pity; franc. Compassion; ted.
Mileid). La partecipazione alla sofferenza altrui in quanto è qualcosa di
diverso da questa stessa sofferenza. Quest'ultima limitazione è importante
perchè la C. non consiste nel provare la stessa sofferenza che la suscita.
L'emozione suscitata dal dolore di un’altra persona si può chiamare C. solo se
è il sentimento di una solidarietà più o meno attiva, ma che non ha niente a
che fare con un’identità di stati emotivi tra chi ha C. e chi è compassionato.
Aristotele de- finì la C. come «il dolore causato dalla vista di qualche male,
distruttivo o penoso che colpisce uno che non lo merita e che possiamo
aspettarci possa colpire noi stessi o qualche nostro caro + (Ret., II, 8, 1385
b). Definizione che viene ripetuta quasi alla lettera da Hobbes (Leviazh., I,
6), Car- tesio (Passions de l’dme, III, $ 185), Spinoza (Er., III, 22 scol.).
La C. è, secondo Adamo Smith, un caso tipico della simpatia che costituisce la
struttura di tutti i sentimenti morali (Theory of Moral Senti- ments, III, 1).
Per Schopenhauer, la C. è l'essenza stessa di ogni amore e solidarietà fra gli uomini,
perchè amore e solidarietà si spiegano soltanto sulla base del carattere
essenzialmente doloroso della vita (Die Welt, I, $ 66-67). Di fronte a questa
tradizione, ce n°è un’altra, che vede nella C. un elemento negativo della vita
morale. Questa seconda tradizione s’inizia dagli Stoici (StoBEO, Ec/., II, 6,
180), passa attraverso Spinoza. Questi ritiene che «nell'uomo che vive secondo
ragione la C. è per se stessa cattiva ed inutile », perchè non è altro che
dolore: onde «l’uomo che vive secondo ragione si sforza per quanto può di non
essere toccato dalla C.» come neppure dall’odio, dal riso o dal disprezzo,
perchè sa che tutto deriva dalla necessità della natura divina (Ef., IV, 50,
corol. schol.). Questa valu- tazione trova la sua estrema espressione nell’invet-
tiva di Nietzsche contro la C.: «Questo istinto depressivo e contagioso
indebolisce gli altri istinti che vogliono conservare ed aumentare il valore
della vita; esso è una specie di moltiplicatore e di conservatore di tutte le
miserie, perciò uno degli strumenti principali della decadenza dell’uomo »
(Anticristo, Ap. 7). Il tratto comune di queste con- danne della C. è di
considerarla come in se stessa miseria o dolore, anzi, secondo l’espressione di
Nietzsche, come qualcosa che conserva o molti- plica miseria e dolore. Scheler
ha mostrato l’equi- voco di questo presupposto che in realtà confonde la C.
(che è simpatia e partecipazione emotiva) con il contagio emotivo. Al
contrario, nota Scheler, «la C. è assente tutte le volte che c’è contagio della
sofferenza, giacchè allora la sofferenza non è più quella di un altro ma la
mia, ed io credo di poter- mici sottrarre evitando il quadro o l’aspetto della
sofferenza in generale» (Sympathie, cap. II, $ 3). Per l’appunto
quest’avvertenza fondamentale si è tenuta presente nel caratterizzare la C. al
principio di questo articolo. COMPATIBILITÀ (ingl. Consistency; francese
Compatibilité; ted. Widerspruchslosigkeit). L'assenza di contraddizione come
condizione di validità dei sistemi deduttivi. «Ogni verità, diceva Aristotele,
dev'essere in accordo con se stessa sotto tutti i rapporti » (An. Pr., I, 32,
47 a 8). Tuttavia soltanto nella matematica moderna, da Hilbert in poi, la C.
interna di un sistema deduttivo è diventata l’unico criterio di validità del
sistema stesso. Da questo punto di vista si dice che c’è C. in un sistema nel
quale non vi è nessun teorema la cui negazione sia un teorema; o nel quale non
ogni enunciato sia un teorema. Questa seconda formula è ancora più generale
(cfr. A. CHURCH, Introduction to Ma- thematical Logic, 1956, $ 17). La
dimostrazione della C. diventa, da questo punto di vista, la di- mostrazione
stessa della validità di un sistema nonchè dell’esistenza (v.) delle entità cui
esso fa riferimento. E la dimostrazione della C. dovrebbe, nel pensiero di
Hilbert, non fare riferimento a un infinito numero di proprietà strutturali
delle for- mule o a un infinito numero di operazioni con- formi. La
dimostrazione dovrebbe essere, in questo senso, finitistica perchè solo in
questo caso sarebbe assoluta. Ma appunto la non possibilità di una as- soluta
dimostrazione della C. dei sistemi deduttivi fu provata dal teorema di Gédel
(1931). Il teorema di Gédel non esclude che si possa provare la C. di un
sistema deduttivo assumendo la C. di un altro sistema deduttivo, preso come
modello; ma a sua volta la validità del modello non potrà essere di- mostrata.
La C. « assoluta » è pertanto stata espulsa dal dominio delle matematiche ad
opera del teo- rema di Gédel, che stabilisce per ciò stesso i limiti del
cosiddetto formalismo. Nessun sistema forma- listico infatti può offrire la
garanzia della propria assoluta compatibilità. Cfr. W. V. O. QuINE, Me- thods
of Logic, 1950; J. LADRIÈRE, Les limitations internes des formalismes, 1957; B.
NagEL-J. R. NEW- MANN, Godel’s Proof, 1958 (v. MATEMATICA, PROVA). COMPITO (gr.
tpyov; lat. Officium; ingl. Task; franc. Téche; ted. Aufgabe). La limitazione della attività propria di una persona
o di una cosa, tale da garantire il risultato migliore dell’attività stessa. In
questo senso, Platone intendeva per C. di una cosa «ciò che soltanto la cosa
stessa sa fare o almeno sa fare meglio di ogni altra» (Rep., I, 353 a): e si
serviva di questa nozione per definire la virtù (v.). Nello stesso senso e per
lo stesso fine si avvaleva della nozione Aristotele quando, per definire che
cosa è la felicità, si domandava qual è «il C. dell’uomo »; e rispondeva che il
C. dell’uomo è l’attività dell'anima conforme a ragione o non indipendente
dalla ragione (Et. Nic.,I, 6,1098 a 7). Il concetto ritorna frequentemente, con
lo stesso significato, nella filosofia contemporanea (v. Fun- ZIONE;
OPERAZIONE). COMPLEMENTARITÀ (ingl. Complemen- tarity; franc. Complémentarité;
ted. Komplementdr- heit). Con espressione desunta dalla geometria (si chiamano
complementari due angoli la cui somma è uguale ad un angolo retto) si dicono
complemen- tari due concetti opposti che però si correggono reciprocamente e si
integrano nella descrizione di un fenomeno. Così si sono, per es., chiamati
com- plementari i concetti di onda e di corpuscolo per la descrizione dei
fenomeni ottici, nella moderna meccanica quantistica. Il principio di C.
formulato da Bohr esprime poi l’incompatibilità della mecca- nica quantistica
con la concezione classica della causalità (v.). Esso viene espresso così: «
Una descri- zione spazio-temporale rigorosa e una sequenza cau- sale rigorosa
di processi individuali non possono es- sere realizzate simultaneamente, o
l’una o l’altra deve essere sacrificata » (D’ABrO, New Physics, pag. 951).
COMPLESSO (gr. cvurerdeyutvov; lat. Com- plexum; ingl. Complex; franc.
Complexe; tedesco Komplex). Gli Stoici, che introdussero il termine, intesero
per esso le proposizioni composte cioè costituite o da una sola proposizione
presa due volte (ad es., «se è giorno, è giorno +) o da proposizioni diverse
legate assieme da uno o più connettivi (ad es.: «È giorno e c’è luce», «Se c’è
giorno, c’è luce», ecc.) (Sesto E., Adv. Math., VIII, 93; Dioc. L., VII, 72).
Nella logica medievale il ter- mine veniva generalizzato e s’intese per esso o
un termine composto da voci diverse come « uomo bianco », «animale ragionevole
», ecc., o la propo- sizione semplice composta dal nome e dal verbo (per es., «
l’uomo corre », ecc.). In tal caso l’opposto di complesso, indicato con il
termine incomplexum (cioè «semplice +) è o il termine isolato o qual- siasi
termine della proposizione anche se composto da due o più termini (come, ad
es., il soggetto « uomo bianco + nella proposizione « l’uomo bianco corre +)
(OckHAM, Expositio super artem veterem, fol. 40 b). Queste nozioni ricorrono in
forma poco diversa in Vincenzo di Beauvais (Speculum doctrinale, 4) ed in
Armando di Beauvoir (De declaratione difficilium ter- minorum, I, 1). Cfr.
TomMaso, S. Th., II, 2, q. 1, 4.2. COMPLICAZIONE, ESPLICAZIONE (la- tino
Complicatio, Explicatio). Termini adoperati da Cusano per indicare il rapporto
tra l’essere e le sue manifestazioni, in quanto tali manifestazioni sono
contenute nell’essere e l’essere si spiega o manifesta in esse. Cusano dice che
l’unità infinita è « la C. di tutte le cose »; che il movimento è « l’espli-
cazione della quiete +; e che Dio «è la C. e l’espli- cazione di tutte le cose
e, in quanto è la C. di esse, tutte le cose sono in lui mentre, in quanto è
l’espli- cazione, egli stesso è in tutte le cose ciò che esse sono » (De Docta
Ign., II, 3). COMPORTAMENTISMO (ingl. Behaviorism; franc. Comportamentisme;
ted. Behaviorismus). L’in- dirizzo della psicologia contemporanea che ténde a
restringere la psicologia stessa allo studio del com- portamento (v.)
eliminando ogni riferimento alla « coscienza », allo « spirito » e in generale
è ciò che non può essere osservato e descritto in termini oggettivi. Il
fondatore di questo indirizzo si può scorgere in Ivan Pavlov, l’autore della
teoria dei riflessi condizionati, che, per la prima volta, ha impiantato
ricerche psicologiche che prescindevano da qualsiasi riferimento agli «stati
soggettivi» o « stati interni ». « Dobbiamo noi forse, si doman- dava Pavlov
nel 1903, per comprendere i nuovi 140 fenomeni, penetrare nell’essere interiore
dell'animale, rappresentarci a modo nostro le sue sensazioni, i suoi sentimenti
e desideri? Per lo sperimentatore scientifico, la risposta a quest’ultima
domanda può essere, a me sembra, una sola: un mo categorico » (I riflessi
condizionati, 1950; trad. ital., pag. 17). Nel laboratorio di Pavlov (come egli
stesso racconta Ubid., pag. 129)) fu vietato, perfino con multe, di servirsi di
espressioni psicologiche come «il cane indovinava, voleva, desiderava, ecc. +;
e Pavlov non esita a definire « disperata » da un punto di vista scientifico la
situazione della psicologia come scienza degli stati soggettivi (/bid., pag.
97). Tuttavia il primo che enunciò chiaramente il programma del C. fu J. B.
Watson in un libro intitolato // comporta- mento, introduzione alla psicologia
comparata pub- blicato nel 1914. Da Watson questo indirizzo ri- cevette anche
il nome (Behaviorismo) e la pretesa fondamentale di limitare l’indagine
psicologica alle reazioni oggettivamente osservabili. La forza del C. consiste
appunto nell’esigenza metodologica che esso ha fatto valere: esigenza per la
quale non si può scientificamente parlare di ciò che sfugge a ogni possibilità
di osservazione oggettiva e di con- trollo. Il C. è stato spesso interpretato,
da un punto di vista polemico, come la negazione della « co- scienza » o dello
« spirito » o degli « stati interni », ecc. In realtà esso è semplicemente la
negazione del- l'introspezione come legittimo strumento d’inda- gine: una
negazione che era già stata fatta da Comte (v. INTROSPEZIONE). Esso è, in più,
il deli- berato riconoscimento del comportamento come oggetto proprio
dell’indagine psicologica. Nelle sue prime manifestazioni il C. rimase legato
all’indi- rizzo meccanistico, per il quale lo stimolo esterno è la causa del
comportamento, nel senso che io rende infallibilmente prevedibile; Pavlov
stesso sot- tolineava questa infallibilità (/bid., pag. 133). Ma questo
presupposto, di natura ideologica, è stato oggi abbandonato dal C., che ha
permeato profon- damente di sè l'indagine antropologica moderna (psicologia,
sociologia, ecc.) (v. PSICOLOGIA). COMPORTAMENTO (ingl. Behavior; fran- cese
Comportement; ted. Verhalten). Ogni risposta di un organismo vivente ad uno
stimolo, che sia: 1° oggettivamente osservabile con un mezzo qual. siasi; 2°
uniforme. Il termine C. è stato introdotto da Watson verso il 1914 ed è ormai
diventato di uso corrente nel significato ora esposto. Origina- riamente esso
servì a sottolineare polemicamente l’esigenza che la psicologia e in generale
ogni con- siderazione scientifica delle attività umane o animali assumesse a
suo proprio oggetto elementi osserva- bili oggettivamente, cioè non accessibili
solo alla «intuizione interna» o alla «coscienza». Attual- mente il termine è
diventato di uso generale. Esso va tenuto distinto: 1° da azione, perchè a
diffe- renza di questa il C.: a) è una manifestazione non di un particolare
principio, per es., della volontà o dell’attività pratica, ma dell’intero
organismo animale; 5) è costituito unicamente da elementi osservabili e
descrivibili in termini oggettivi; c) è uniforme, cioè costituisce la reazione
abituale e costante dell'organismo a una situazione determi- nata; 2° da
atteggiamento, che è il C. specificamente umano includente quindi elementi
anticipatori e nor- mativi (progetto, previsione, scelta, ecc.); 3° da con-
dotta, che può mancare del carattere di uniformità. COMPOSIZIONE (ingl.
Composition; fran- cese Composition; ted. Komposition). Nei logici me- dievali
(per es., Pietro Ispano, Summul. Log., 7.25) compositio designa il paralogismo
o fallacia (v.) de- rivante da un uso sintattico che rende ambigua la frase. È
quindi una specie di anfibolia (v.). G. P. COMPOSSIBILE (franc. Compossible;
tedesco Kompossibel). Leibniz ha chiamato con questo ter- mine il possibile che
si accorda con le condizioni di esistenza dell’universo reale cioè la possibilità
reale. Il possibile è ciò che è concepibile in quanto privo di contraddizione,
il C. è ciò che può essere reale. « È vero che ciò che non è, non è stato e non
sarà, non è affatto possibile, se possibile è preso per compossibile... Può
darsi che Diodoro, Abelardo, Wicleff e Hobbes abbiano avuto questa idea in
testa senza ben chiarirla » (Op., ed. Erd- mann, pag. 719). V. PossiBILE.
COMPRENDERE (lat. /ntelligere; ingl. Un- derstanding; franc. Comprendre; ted.
Verstehen). La nozione del C. come attività conoscitiva specifica,
diversa dalla conoscenza razionale e dalle sue tecniche esplicative, può essere
considerata in due fasi storiche distinte, la prima nella filosofia me- dievale
o nella scolastica in generale, la seconda nella filosofia contemporanea. 1.
L’intera Scolastica s’impernia sul problema di « C. » la verità rivelata. Ma
sul valore di questo C. gli stessi scolastici non sono stati d’accordo. Alcuni
hanno identificato il C. con la conoscenza razionale e con la sua tecnica
dimostrativa; e la comprensi- bilità dei dogmi è apparsa da questo punto di
vista come la possibilità di dimostrarli, cioè di equipa- rarli a verità
razionali. Anselmo e Abelardo sem- brano d’accordo nell’intendere così
l'intelligere che essi ritengono indispensabile alla fede stessa. È ovvio che
in questo caso l’intelligere non è affatto un C. nel senso specifico del
termine. Una sfera specifica dell’intelligere come comprendere, nella sua
diversità dalla conoscenza dimostrativa fu de- lineata invece da S. Tommaso nel
suo tentativo di determinare il còmpito della ragione di fronte alla fede.
Questo còmpito consiste: 1° nel dimostrare i preamboli della fede; 2° nel
chiarire, mediante si- militudini, le verità della fede; 3° nel controbattere
le obiezioni che si fanno contro tali verità (In Boer. De Trin., a. 3).
Ovviamente la seconda e la terza parte di questo còmpito, che non sono di
natura dimostrativa, costituiscono la sfera del compren- dere. E difatti,
secondo S. Tommaso, le fonda- mentali verità di fede, la Trinità,
l’Incarnazione, la Creazione, sono comprensibili in questo senso: non sono
dimostrabili (nel quali caso sarebbero verità di ragione) ma possono essere
chiarite con analogie e, specialmente, sostenute contro le obie- zioni. Questa posizione
tomistica costituisce la mi- gliore e più diffusa soluzione di quel problema
del C. nato sul piano della Scolastica. Essa veniva ancora difesa nel sec. xvm
da Leibniz contro le obiezioni di Bayle e di Toland. Secondo Leibniz, il dogma
è « incomprensibile » solo nel senso che non si può dimostrare; ma si può dire
che esso s'accorda con la ragione nel senso «che si può mostrare al bisogno che
non c’è contraddizione tra il dogma e la ragione, confutando le obiezioni di
coloro che pretendono che il dogma stesso è un’assurdità » (Théod., $ 60). 2.
Nella filosofia contemporanea, la distinzione della sfera del C., da quella del
conoscere razionale, è nata dall’esigenza di distinguere il procedimento
esplicativo delle scienze morali o storiche da quello delle scienze naturali.
Tale esigenza nacque dalla difficoltà di applicare la tecnica causale, propria
della scienza naturale dell’800, al dominio degli eventi umani, quali sono i
fatti storici, e in generale all'uomo ed ai rapporti interumani. In base a quella
tecnica, si ritiene come « razionalmente spie- gato » ciò di cui si può
mostrare la genesi causale necessaria, cioè di cui si può mostrare che accade
in modo necessario o infallibilmente prevedibile quando ne è data la causa
(v.). Il carattere neces- sario della genesi causale, in quanto conforme a una
legge immutabile, e il carattere di uniformità meccanica che gli eventi
causalmente spiegabili as- sumono per effetto di tale legge, rendono assai
diffi- cile trasferire questo tipo di spiegazione al mondo dell’uomo; e rendono
difficile spiegare i fatti sto- rici e in genere ogni fatto che consista in un
rap- porto con l’uomo. L'applicazione della tecnica causale a tali fatti
implicherebbe la loro riduzione a casi di uniformità meccanica, dovuti all’azione
di leggi necessitanti. Sicchè quando negli ultimi decenni del sec. xIx le
scienze storiche, o, come allora si di- ceva, le « scienze dello spirito », che
avevano ormai raggiunta una sufficiente saldezza di metodi e una grande
ricchezza di risultati, cominciarono a proporsi il problema del loro metodo e
cercarono di chiarirlo criticamente, apparve chiara l’esigenza di agganciare
questo metodo a tecniche e procedure diverse da quelle in uso nelle scienze
naturali. In tal senso il « C.» come procedura propria delle scienze dello spi-
rito, fu contrapposto allo « spiegare », fondato sulla causalità e proprio
delle scienze naturali. Il primo a formulare chiaramente questa distin- zione
fu Dilthey nella sua /nsroduzione alle scienze dello spirito (1883). Dilthey osservò
che i nostri rapporti con la realtà umana sono completamente diversi dai nostri
rapporti con la natura. La realtà umana, quale appare nel mondo storico
sociale, è tale che noi possiamo comprenderla dal di dentro, perchè possiamo
rappresentarcela sul fondamento dei nostri propri stati. La natura, al
contrario, è muta e rimane sempre qualcosa di esterno. Pertanto nelle scienze
dello spirito, che hanno appunto per og- getto la realtà umana, il soggetto non
si trova di fronte ad una realtà estranea, ma a se stessa, perchè uomo è colui
che indaga e uomo colui che viene indagato. «Il C., dice Dilthey, è un
ritrovamento dell’io nel tu... Il soggetto del sapere è qui iden- tico con il
suo oggetto e questo è il medesimo in tutti i gradi della sua oggettivazione »
(Gesammelte Schriften, VII, pag. 191). Da questo punto di vista Dilthey additò
come strumento proprio del C. l’Er- lebnis, cioè l'esperienza vissuta o
rivivente che per- mette di cogliere la realtà storica nella sua indivi-
dualità vivente e nei suoi caratteri specifici. Dopo Dilthey, nella corrente
dello storicismo tedesco che continua l’opera sua, il C. rimane l’organo della
co- noscenza storica e in generale della conoscenza inter- personale, in quanto
non suscettibile di spiegazione causale. Tuttavia sulla natura stessa del C.
non c’è accordo. Rickert intende per C. l’afferrare « il senso di un oggetto,
cioè il rapporto dell’oggetto stesso con un valore determinato » (Die Grenzen
der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1896- 1902). Simmel
considera il C. come diretto a ri- produrre la vita psichica di un’altra
personalità e quindi come l’atto di proiezione mediante il quale il soggetto
conoscente attribuisce un suo stato rap- presentativo, o volitivo, ad un'altra
personalità (Die Probleme der Geschichtsphilosophie, 1892, pa- gina 17). A sua
volta Max Weber, pur insistendo sulla diversità della spiegazione storica e
della spie- gazione causale, volle colmare o diminuire l’abisso che si stava
formando tra i due procedimenti, affermando che la spiegazione storica è essa
stessa una spiegazione causale; ma una spiegazione cau- sale specifica, che
mira a riconoscere il nesso par- ticolare e singolare fra determinati fenomeni
e non la loro dipendenza da una legge universale. «Il nostro bisogno causale, egli
scrive, può trovare nell’analisi dell’atteggiamento umano una sodisfa- zione
qualitativamente diversa, che implica al tempo stesso un'intonazione
qualitativamente diversa del concetto di razionalità. Per la sua
interpretazione noi possiamo proporci lo scopo, almeno fondamen- talmente, non
solo di rendere l’atteggiamento stesso penetrabile come possibile in rapporto
al nostro sa- pere nomologico, ma anche di comprenderlo, cioè di scoprire un
motivo concreto che possa venire rivissuto internamente e che noi accertiamo
con un diverso grado di precisione, secondo il materiale delle fonti »
(Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschafts- lehre, 1951, pag. 67). Tuttavia, il
concetto di cau- salità individuale, sul quale Weber insisteva, è poco solido
giacchè la causa, come ciò che rende infalli- bilmente prevedibile l’effetto,
ha con l’effetto stesso un rapporto necessario e costante, perciò essenzial-
mente uniforme, e universale. L'esigenza prospettata da Weber di eliminare o
diminuire il contrasto tra la spiegazione scientifica e la comprensione sto-
rica o inter-umana, potè trovare sodisfazione solo dopo che la scienza stessa
ebbe abbandonato il concetto classico di causalità. Frattanto, l’esigenza d’una
tecnica conoscitiva che fosse diversa dalla tecnica esplicativa causale veniva
frequentemente riconosciuta in sociologia. Znaniecki invocava un « coefficiente
umanistico » nella ricerca sociologica e sottolineava l’importanza della
esperienza vicariante come fonte di dati sociologici (Method of Sociology,
1934, pag. 167). Sorokin riteneva inapplicabile il metodo causale
all’interpretazione dei fenomeni cul- turali (Socia/ and Cultural Dynamic,
1937, pag. 26). E Maclver a sua volta riconosceva l’inapplicabilità della
formula causale della meccanica classica alla condotta umana (Socia! Causation,
1942, pag. 263). I filosofi a loro volta, non trovando posto per il comprendere
tra le attività razionali che sem- bravano monopolizzate dalle tecniche della
spiega- zione causale, avevano finito col connetterlo con la vita emotiva. Così
fecero, principalmente, Scheler e Heidegger, ai quali si devono tuttavia le più
importanti determinazioni della nozione del com- prendere. A Scheler, tale
nozione serve per fondare i rapporti umani — che sono poi quelli per cui l'io
riconosce l’altro io — non su una inferenza o sulla proiezione che l’io faccia
delle proprie espe- rienze interne nell’altro, ma sulla base dei fenomeni
espressivi. Così Scheler afferma che «l’esistenza delle esperienze interne, dei
sentimenti intimi degli altri, ci è rivelata dai fenomeni di espressione: cioè
ne acquistiamo la conoscenza non in séguito a un ragionamento, ma in modo
immediato, me- diante una ‘ percezione * originaria e primitiva. Noi percepiamo
il pudore di qualcuno ne/ suo rossore, la gioia re/ suo riso » (Sympathie, I,
cap. II). Perciò non è vero che degli altri conosciamo in primo luogo il corpo
e che solo a partire da esso infe- riamo l’esistenza di altri spiriti. Soltanto
il medico e il naturalista conoscono soltanto il corpo perchè fanno artificialmente
astrazione dai fenomeni di espressione che sono la manifestazione primaria e
immediata degli altri spiriti: ma proprio tali fe- nomeni sono alla base della
comprensione emotiva. Questa dev'essere, secondo Scheler, distinta dalla
fusione emotiva perchè implica l’alterità dei senti- menti. Per es., la
sofferenza del mio vicino e la mia comprensione simpatetica di essa, sono due
fatti differenti, e questa differenza appunto stabi- lisce la possibilità della
comprensione: mentre non ba niente a che fare con questa il fatto che io e il
mio vicino soffriamo della stessa sofferenza. Le analisi di Scheler hanno
contribuito a fissare i punti seguenti: 1° il C. non implica l’identità delle
persone tra cui intercede o l'identità dei loro stati d’animo o sentimenti;
implica piuttosto l’a/terità fra le persone e tra i loro stati rispettivi; 2°
la comprensione è fondata sul rapporto simbolico che esiste tra le esperienze
interne e la loro espressione: rapporto che costituisce una specie di « gramma-
tica universale », valevole per tutti i linguaggi espres- sivi, la quale
fornisce il criterio ultimo della com- prensione inter-umana. Come Scheler,
Heidegger connette il fenomeno della comprensione soprattutto alla sfera
emotiva; ma aggiunge all’analisi di questo fenomeno una notazione d’importanza
fondamen- tale, connettendolo con la nozione di possibilità. Heidegger,
difatti, considera la comprensione come essenziale all’esistenza umana
(all’Esserci) giacchè essa significa che l’esistenza è essenzialmente pos-
sibilità di essere, esistenza possibile. « Usiamo so- vente l’espressione ‘C.
qualcosa’ nel senso di ‘essere in grado di far fronte a qualcosa ’, ‘ esser
capace di’, ‘poter qualcosa ’... Nella compren- sione è riposto essenzialmente
il modo d'essere dell’Esserci in quanto poter essere. L’Esserci non è una
semplice presenza che, aggiuntivamente, pos- segga il requisito di potere
qualcosa, ma al contrario è primariamente un essere possibile ». Pertanto « la
comprensione ha in sè la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto »
(Sein und Zeit, $ 31). Come possibilità e progetto l’esistenza umana possiede
una trasparenza a se stessa che Heidegger chiama visione e che è la prima
manifestazione della comprensione. L’intuizione e il pensiero sono invece due
lontani derivati della comprensione stessa (/bid., $ 31). È abbastanza chiaro
che il riferimento del C. alla vita emozionale, effettuato da Scheler e Hei-
degger, era motivato dal fatto che la vita razionale sembrava ad essi occupata
da tecniche che poco o nulla avevano a che fare col comprendere. I risultati
ottenuti da Scheler e Heidegger, tuttavia, sono molto importanti: i primi
negativamente, con- sentendo di sottrarre il C. alla sfera dell’immediato e
dell’inesprimibile, e i secondi positivamente perchè connettono il C. stesso
con la nozione di possibi- lità. Nell’analisi di Heidegger, il C. non solo è
stato generalizzato, perchè è stato reso applicabile alle cose oltrecchè alle
persone; ma anche, con ciò stesso, ha cessato di essere antagonista col
concetto di spiegazione. Comprensione e spiegazione possono infatti essere
identificate dalla nozione di possibilità ed essere entrambe intese come
dichiarazione della 4 possibilità di... »: dove ciò che è lasciato in so- speso
può essere riempito, nei diversi campi d’inda- gine, da diverse specie di
progetti e previsioni. Ma questo avvicinamento tra spiegazione e comprensione e
questa loro unificazione nel concetto di « possibi- lità di... » venivano
sanciti dagli stessi sviluppi delle scienze della natura, che abbandonavano la
no- zione classica di causalità e pertanto si disanco- ravano dalla tecnica
esplicativa causale. La fisica relativistica e la teoria dei quanti compivano
il passo decisivo verso l’eliminazione dell’antitesi tra spiegazione e
comprensione. Come nota Carnap, nella meccanica quantica « C. un’espressione,
un enunciato, una teoria, significa la capacità di usarla per la descrizione di
fatti noti o per la previsione di fatti nuovi» (Foundations of Logic and Mathe-
matics, 1939, $ 25). La « capacità di» è dunque ciò che esprime il significato
della comprensione nella fisica stessa. Ma la possibilità della previsione pro-
babile è anche tutto ciò cui si riduce oggi la spiega- zione scientifica (vedi
SPIEGAZIONE). In tal modo la differenza radicale che sembrava stabilita salda-
mente dalla metodologia scientifica dell’800 tra scienza dello spirito e
scienza della natura, è venuta a sparire. Ciò che questi due gruppi di
discipline cercano di fare, nei confronti dei loro oggetti ri- spettivi, è
fondamentalmente la stessa cosa: deter- minare le possibilità di descrizione o
di anticipa- zione (progettazione, uso, fruizione) che i loro oggetti
comportano. COMPRENSIONE (ingl. Understanding; fran- cese Compréhension; ted.
Verstehen). L'atto o la capacità di comprendere (v.). COMPRENSIONE (ingl.
Comprehension; fran- cese Compréhension; ted. Inhalt). 1. La logica di Porto
Reale introdusse la distinzione tra C. ed estensione del concetto: distinzione
grosso modo identica a quella che verrà espressa da Stuart Mill con la coppia
connotazione-denotazione o dalla logica moderna con la coppia
intensione-estensione. Diceva infatti Arnauld: « Nelle idee universali è
importante distinguere bene due cose, la C. e l’estensione. Chiamo C. dell’idea
gli attributi che essa include in sè e che non possono essere tolti senza
distruggerla; così la C. dell’idea di triangolo contiene estensione, figura,
tre linee, tre angoli e l'eguaglianza di questi tre angoli con due retti, ecc.
Chiamo estensione dell’idea i soggetti ai quali quest'idea conviene; quelli che
si chiamano anche gli inferiori di un termine generale che, nei rispetti di
essi, è chiamato superiore; così l’idea del trian- golo in generale si estende
a tutte le diverse specie dei triangoli » (Logique, I, 6). Questa distinzione tro-
vava qualche precedente nella logica medievale ma era stata approssimativamente
espressa solo a partire dal sec. xvi (per es., da CAJETANUS, /n Porphyrii
Praed., ed. 1579, I, 2, pag. 37; cfr. HAMILTON, Lectures on Logic, I, 1866,
pag. 141). Alla di- stinzione stessa era connessa la determinazione del
rapporto inverso che c'è tra C. ed estensione così definite: a misura che la C.
s’impoverisce, cioè diventa più generale, l’estensione si arricchisce, cioè il
concetto si applica a più cose; e reciproca- mente. Queste distinzioni e
notazioni riprese dalla logica, specialmente tedesca, dell’800 (cfr., per es.,
LoTzE, Logik, 1843, $ 15) rimasero costanti e fu- rono talora, specialmente da
scrittori inglesi, espresse mediante la coppia sinonima connotazione-denota-
zione. A parte il tentativo di distinguere la C. dalla connotazione (v.) come
la sfera di tutte le note possibili, oltre quelle espressamente connotate dalla
definizione, la nozione di C. è rimasta costante nella logica dell’800. 2.
Talvolta nella logica contemporanea la C. è assunta come analoga della
denotazione o esten- sione, invece che della connotazione o intensione. Così
Lewis definisce la C. di un termine come: «la classificazione di tutte le cose
consistentemente pensabili alle quali il termine correttamente si ap- plichi »
dove per «consistentemente pensabile » si intende ogni cosa l’asserzione della
cui esistenza non implichi, esplicitamente o implicitamente, una
contraddizione. In questo significato, il termine si distinguerebbe da
denotazione o estensione perchè questa è la classe di tutte le cose reali o
esistenti alle quali il termine correttamente si applica. La de- notazione
sarebbe perciò inclusa nella C.; ma non viceversa. La C. di « quadrato »
include non solo i quadrati esistenti (che sono denotati) ma tutti i qua- drati
possibili o imaginabili, salvo quelli rotondi (Ana- Iysis of Knowledge and
Valuation, 1950, pag. 39-41). COMUNE, SENSO. V. SENSO COMUNE. COMUNI, NOZIONI
(gr. xoîvar two; lat. Notiones communes). Gli Stoici chiamarono con
quest’espressione i concetti universali o anti- cipazioni (v.) che si formano
nell’uomo natural- mente, cioè non come prodotti di un'istruzione specifica
(Aezio, P/ac., IV, 11). L'espressione fu adoperata negli E/ementi di Euclide,
per designare i princìpi evidenti, che in séguito furono detti as- siomi (v.
ASSIOMA). COMUNICAZIONE (ingl. Communication; franc. Communication; ted.
Kommunikation). Filo- sofi e sociologi si servono oggi di questo
termine per designare il carattere specifico dei rapporti umani in quanto sono,
o possono essere, rapporti di partecipazione reciproca o di comprensione. Per-
144 tanto il termine viene ad essere sinonimo di « coe- sistenza » o di « vita
con gli altri » e indica l’insieme dei modi specifici in cui la coesistenza
umana può atteggiarsi; purchè si tratti di modi « umani », cioè nei quali una
certa possibilità di partecipazione e di comprensione sia salva. In questo
senso, la C. non ha niente a che fare con la coordinazione e con l’unità. Le
parti di una macchina, ha osser- vato Dewey, sono strettamente coordinate e
for- mano un'unità ma non formano una comunità. Gli uomini formano una comunità
perchè comuni- cano, cioè perchè possono reciprocamente parteci- pare dei loro
modi d'essere, che così acquistano nuovi e imprevedibili significati. Questa
partecipa- zione dice che un rapporto di C. non è un semplice contatto fisico o
uno scontro di forze. Il rapporto tra il predatore e la sua preda, per es., non
è un rap- porto di C., anche se talora può intercorrere fra gli uomini. La
comunicazione in quanto caratteri- stica specifica dei rapporti umani, delimita
la sfera di tali rapporti a quelli nei quali un certo grado di libera
partecipazione può essere presente. Il rilievo del concetto di C. nella
filosofia contemporanea è dovuto: 1° all’avvenuto abbandono, da parte di essa,
della nozione romantica di Autocoscienza in- finita, Spirito Assoluto o
Superanima: nozione che implicando l’identità di tutti gli uomini rende ov-
viamente inutile il concetto stesso di C. interumana; 2° al riconoscimento che
i rapporti interumani implicano l’alterità tra gli uomini stessi e sono
rapporti possibili; 3° al riconoscimento che tali rapporti non si aggiungono in
un secondo mo- mento alla realtà già costituita delle persone, ma entrano a
costituirla come tale. In questi termini il concetto di C. entra in filosofie
disparate. Secondo Heidegger il concetto di C. deve essere inteso «in un senso
ontologicamente largo », cioè come «C. esistenziale ». «In quest’ultima si
costituisce l’articolazione dell’essere insieme com- prendente. Essa realizza
la partecipazione della si- tuazione emotiva comune e della comprensione
propria dell’essere insieme. La C. non è il trasferi- mento di esperienze
vissute (quali possono essere, ad es., opinioni e desideri) dall’intimo di un
sog- getto all’intimo di un altro. L’'esserci insieme è già essenzialmente
rivelato nella situazione emo- tiva comune e nella comune comprensione » (Sein
und Zeit, $ 34). In altri termini, per Heidegger, C. è già coesistenza perchè
la compartecipazione emotiva e la comprensione degli uomini tra di loro entrano
a costituire la realtà stessa dell’uomo, l'essere dell’Esserci. Jaspers, che è
sostanzialmente d’accordo con Heidegger, da questo punto polemizza contro le
scienze empiriche (psicologia, antropologia, sociologia) che pretendono di
analizzare i rapporti di comunicazione. Il loro difetto è, secondo Ja- spers,
che esse debbono limitarsi a considerare i rapporti umani, non quelli
possibili; mentre la C. è per l’appunto possibilità di rapporti. In questo
senso essa può essere chiarita soltanto dalla filo- sofia (Phil., II, cap.
III). Al contrario Dewey, che condivide con Heidegger e Jaspers la veduta che
la C. costituisce essenzialmente la realtà umana, la considera come una forma
speciale dell’azione reciproca della natura e ritiene pertanto che possa e
debba essere studiata dall’indagine empirica (Experience and Nature, cap. V).
Se la filosofia dell’800, per il prevalere delle concezioni
assolutistiche (lo stesso positivismo par- lava dell’Umanità come di un tutto)
climinava la nozione di C., la filosofia del ’600 e del *700 aveva elaborato la
nozione, ma per rispondere ad un diverso problema. Il problema era quello della
« C. delle sostanze +, cioè della sostanza anima con la sostanza corpo, e
reciprocamente, problema nato col cartesianesimo, che aveva distinto per la
prima volta in modo netto le due specie di sostanze. Lo stesso Cartesio aveva
ammesso come valida la nozione corrente di un’azione reciproca fra le due
sostanze, che egli riteneva si toccassero nella glan- dola pineale (Passions de
l’ame, I, 32). Dall’altro lato gli Occasionalisti avevano ritenuto impossibile
l’azione di una sostanza finita sull’altra, perchè nessuna sostanza finita può
agire cioè esser causa; ed avevano pertanto ritenuto che Dio stesso inter-
viene a stabilire il rapporto tra l’anima e il corpo, o tra i vari corpi, o tra
le varie anime, servendosi dell’occasione offertagli dal mutamento avvenuto in
una sostanza per produrre mutamenti nelle altre sostanze. Era questa la teoria
delle cause occasio- nali sostenuta, fra gli altri, da Malebranche (Re- cherche
de la vérité, III, II, 3). Leibniz ritenne la prima teoria impossibile, la
seconda miracolosa, in- tese la C. come armonia prestabilita (v.) e la estese a
intendere il rapporto fra tutte le parti dell’uni- verso, cioè fra tutte le
monadi che lo compongono: l'armonia è prestabilita da Dio in modo tale che a
ogni stato di una monade corrisponde uno stato delle altre monadi (Op., ed.
Gerhardt, IV, pag. 500- 501). Ovviamente la dottrina di Leibniz non è una
soluzione del problema della C.; essa, anzi, ha lo scopo di rendere la C.
stessa inutile, garantendo il rapporto preordinato delle monadi fra di loro.
Leibniz stesso nota che la sua dottrina fa dell'anima una specie di macchina
immateriale (/bid., pag. 548). Questo tratto rivela quanto la sua dottrina sia
lon- tana dalla nozione contemporanea di C.: la quale, come si è detto, non è
mai automatica e non può sussistere tra gli automi o tra le parti di un automa.
COMUNISMO (ingl. Communism; franc. Com- munisme; ted. Kommunismus). L'ideologia
politica che trova il suo programma nel Manifesto dei co- CONATO munisti
pubblicato da Marx ed Engels nel 1847; come è stato sviluppato nelle opere di
Marx ed Engels nonchè di Lenin e Stalin. Tale ideologia può essere riassunta
nei capisaldi seguenti: 1° la dipendenza della personalità umana dalla società
storicamente determinata cui essa appartiene, di- pendenza per la quale essa è
nulla fuori e indi- pendentemente dalla società stessa; 2° la dipendenza della
struttura di una società storicamente deter- minata dai rapporti di produzione
e di lavoro che sono propri di tale società e che determinano tutte le
manifestazioni di essa: moralità, religione, filo- sofia, ecc., oltrecchè le
forme della sua organizza- zione politica. Questi due punti costituiscono la
dottrina del materialismo storico (v.); 3° il carattere permanente e necessario
della lotta di classe in ogni e qualsiasi società capitalistica, cioè in ogni
società nella quale i mezzi di produzione siano proprietà di privati; 4° il
necessario, inevitabile trapasso dalla società capitalistica, dopo che essa ha
raggiunto il suo maximum di concentrazione della ricchezza in poche mani e di
immiserimento e livellamento di tutti i lavoratori, nella società socialista
che possiede ed esercita direttamente i mezzi di produzione, ed è perciò senza
classi; 5° l’esistenza di un periodo di trapasso tra la so- cietà capitalistica
e la società comunistica durante il quale il proletariato s’impadronirà del
potere dello Stato e lo eserciterà, come aveva fatto il capitalismo, nel
proprio interesse. Questo sarà il periodo della dittatura del proletariato. Di
questi capisaldi il C. russo ha soprattutto sottolineato l’ultimo che, nelle
opere di Marx ed Engels, rimaneva secondario. E l’ha sottolineato
trasformandolo, nel senso d'intendere la dittatura del proletariato come
dittatura del partito comu- nista, e affidando al partito stesso la funzione di
avanguardia del proletariato. Il partito diviene in tal modo lo strumento
fondamentale per la rea- lizzazione della società nuova e pretende di subor-
dinare a sè, controllare e dirigere, ogni azione di- retta a questo scopo. Tale
preminenza del partito, già teorizzata da Lenin, fu portata agli estremi da
Stalin, con l’affermazione della necessaria « par- titicità » della scienza,
dell’arte, della filosofia e in ge- nerale di ogni attività intellettuale:
partiticità che non significa altro se non la subordinazione di tali atti- vità
agli interessi del partito, quali si trovino ad essere interpretati o stabiliti
dai dirigenti di esso. COMUNITÀ (ingl. Community; franc. Com- munauté;
ted. Gemeinschaft). 1. Kant aveva chia- mato con questo termine
la terza categoria della relazione e precisamente quella dell’azione reci-
proca, nonchè la corrispondente terza analogia del- l’esperienza (o principio
della C.) così espressa: «Tutte le sostanze, in quanto possono essere per- 10 —
AuHnagnano, Dizionario di filosofia. 14cepite nello spazio come simultanee,
sono tra loro in un'azione reciproca universale ». Egli annotava a questo
proposito: « La parola Gemeinschaft ha un doppio significato che può indicare
tanto communio quanto anche commercium. Noi qui ce ne serviamo nel secondo
senso, come comunione dinamica senza la quale anche quella spaziale (communio
spatiî) non potrebbe mai essere cono- sciuta empiricamente » (Crit. R. Pura,
Analitica dei principi, 33 analogia). In quest’applicazione il ter- mine non ha
avuto fortuna. 2. Esso invece è stato adoperato dal Romanti- cismo, a partire
da Schleiermacher, per indicare la forma di vita sociale caratterizzata da un
or- ganico, intrinseco, perfetto legame tra i suoi membri. In tal senso la C. è
stata contrapposta alla società in un’opera di FERDINANDO TONNIES, C. e
Società, pubblicata nel 1887. «Tutto ciò che è fiducioso, intimo, vivente
esclusivamente insieme, diceva Tòn- nies, è compreso come la vita in comunità.
La società è ciò che è pubblico, è il mondo; al con- trario ci si trova in C.
con i propri cari sin dalla nascita, legati ad essi nel bene e nel male. Nella
società si entra come in una terra estranea. Si mette l’adolescenza in guardia
contro la cattiva società, ma l’espressione ‘cattiva C.’ suona come una
contraddizione» (Gemeinschaft und Gesellschaft,1, 1). Così espresso questo
concetto contiene ovvie conno- tazioni valutative per le quali si presta poco
ad un uso oggettivo: giacchè è abbastanza chiaro che non esiste nessuna pura C.
e nessuna pura società e che il bisogno di operare una distinzione in questo
senso è suggerito non dall’osservazione ma dall'aspira- zione a un ideale.
Pertanto nell’uso dei sociologi posteriori (tra i quali Simmel, Cooley, Weber, Dur-
kheim, e altri) questo significato si è venuto trasfor- mando sino ad assumere
quello corrente nella socio- logia contemporanea di distinzione fra relazioni
sociali di tipo /ocalistico e relazioni di tipo cosmo- politico: che è una
distinzione puramente descrittiva fra comportamenti legati alla C. ristretta in
cui si vive e comportamenti orientati o aperti verso una più larga società (R.
K. MERTON, Social Theory and Social Structure, 1957, pag. 393 sgg.). CONATO
(lat. Conatus). Si indicò con questo nome nel Rinascimento l’ormé stoica (Dioc.
L., VII, 85) cioè l’isrinto (v.) o la tendenza di ogni essere alla propria
conservazione. Questo concetto trovò la sua forma classica in Spinoza, secondo
il quale « lo sforzo di conservarsi è la stessa essenza della cosa» (£f., IV,
22, cor.). Esso «si chiama volontà quando si riferisce alla sola mente; quando
si riferisce insieme alla mente e al corpo si chiama appetito, il quale perciò
è l’essenza stessa dell’uomo » (Ibid., III, 9, Scol.). Nello stesso senso adoperava
la parola Vico: «La matura cominciò ad esistere per un atto di C.; in altri
termini, il C. è la na- tura (come anche le Scuole dicono) in fieri, in
procinto di giungere all’esistenza» (De antiquis- sima Italorum sapientia, 4, $
1). Hobbes dette un nuovo concetto del termine: intese per C. il mo- vimento
istantaneo cioè «il movimento in uno spazio e tempo minore di ogni spazio o
tempo dato » (De corp., 15, $ 2). Leibniz in un primo tempo ha inteso il C.
nello stesso senso: « Il conatus, egli disse, sta al movimento come il punto
allo spazio, cioè come l’unità all’infinito: è l’inizio o la fine del movimento
» (Hypothesis Physica Nova, 1671, Op., ed. Gerhardt, IV, pag.
229). Ma in sè- guito identificò il C. con la forza attiva cioè
con l'energia cui egli ridusse la materia stessa: « La forza attiva, che si
suole anche dire senz'altro forza, non è da concepirsi come la semplice po-
tenza volgare della scuola, cioè come una ricetti- vità di azione, ma implica
un conatus, cioè una tendenza all’azione, cosicchè, se non c’è impedi- mento,
ne deriva l’azione » (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 100). Lo
stesso concetto si trova in Wolff (Cosm., $ 149) (v. SFORZO). CONCAUSA (gr.
avvartia). Platone indicò con questo termine la causa naturale che concorre con
quella ideale alla formazione delle cose del mondo (Tim., 68 e). CONCETTO (gr. x6y06; lat.
Conceptus; in- glese Concept; franc. Concept; ted. Begriff). In generale, ogni procedimento che renda
possibile la descrizione, la classificazione e la previsione degli oggetti
conoscibili. Così inteso, il termine ha significato generalissimo e può
includere ogni specie di segno o procedura semantica, quale che sia l’oggetto
cui si riferisce, astratto o concreto, vicino o lontano, universale o
individuale, ecc. Si può avere un C. del tavolo come del numero 3, dell’uomo
come di Dio, del genere e della specie (i cosiddetti universali [v.]) come di
una realtà individuale, per es., di un periodo storico o di una istituzione
storica (il « Rinascimento » o il « Feudalesimo +). Per quanto il C. sia
normalmente indicato da un nome, esso non è il nome, giacchè differenti nomi
possono esprimere lo stesso C. o differenti C. possono essere indicati, per
equivo- cazione, dallo stesso nome. Il C. inoltre non è un elemento semplice o
indivisibile ma può essere costituito da un insieme di tecniche simboliche
estremamente complesse; come è il caso delle teorie scientifiche che possono
anche essere chiamate C. (il C. della relatività, il C. di evoluzione, ecc.).
Il C. non si riferisce neppure necessariamente a cose o fatti reali giacchè ci
possono essere C. di cose inesistenti o passate o la cui esistenza non è veri-
ficabile o ha un senso specifico. Infine, l’allegato carattere di universalità
soggettiva o validità inter- soggettiva del C. è in realtà semplicemente la sua
comunicabilità di segno linguistico: la funzione prima e fondamentale del C.
essendo quella stessa del linguaggio cioè la comunicazione. La nozione di C. dà
origine a due problemi fonda- mentali: quello circa la natura del C. e quello
circa la funzione del C. stesso. Questi due problemi pos- sono coincidere ma
non coincidono necessariamente. A) ll problema della natura del C. ha avuto due
soluzioni fondamentali: 1° per la prima il C. è l'essenza delle cose e
precisamente la loro essenza necessaria, ciò per cui non possono essere in modo
diverso da ciò che sono; 2° per la seconda soluzione il C. è un segno. 1° La
concezione del C. come essenza è quella del periodo classico della filosofia
greca: nel quale il C. è assunto come ciò che si sottrae alla diversità o al
mutamento dei punti di vista o delle opinioni, perchè si riferisce a quei
tratti che, essendo costi- tutivi dell’oggetto stesso, non vengono alterati da
un mutamento di prospettiva. Nei primordi della filosofia greca, il C. è
apparso come il termine con- clusivo di una ricerca, che prescinde, per quanto
è possibile, dalla mutevolezza delle apparenze, per puntare a ciò che l'oggetto
è «realmente», cioè nella sua «sostanza » o «essenza ». Questa ricerca è
apparsa ai Greci come il còmpito proprio del- l’uomo quale animale ragionevole,
cioè come il còmpito proprio della ragione; e infatti C. e ra- gione vengono
designati dai Greci con lo stesso termine, /ogos. Aristotele attribuisce a
Socrate il merito di aver scoperto « il ragionamento induttivo e la definizione
dell’universale, due cose che en- trambe riguardano il principio della scienza
» (Mer., XIII, 4, 1078 b). Lo stesso merito viene a Socrate riconosciuto da
Senofonte (Mem., IV, 6, 1): So- crate ha mostrato come il ragionamento
induttivo porti alla definizione del C.; e il C. esprime l’es- senza o la
natura di una cosa; ciò che la cosa veramente è. Platone fa dell’universale socratico
la realtà stessa. Il bello, il bene, il giusto sono sostanze cioè realtà, anzi
realtà nel senso forte del termine, realtà assolute. Platone adopera gli stessi
termini (sostanza, specie, forma o semplice- mente enti) per indicare le realtà
ultime come sono «in se stesse» e come sono «in noi» (cioè come C.). La mente
umana contiene «la verità degli enti » (Men., 86 a-b); essa trova già come sue
le sostanze che costituiscono la struttura fon- damentale della realtà (Fed.,
76 d-e). Aristotele non fa su questo punto che riprodurre, e articolare in una
dottrina assai più complessa, il punto di vista platonico. Il C. (Jogos) è ciò
che circoscrive o definisce la sostanza o l’essenza necessaria di una cosa (De
an., II, 1, 412 b 16): perciò esso è indi- pendente dal generarsi e corrompersi
delle cose e non può esser prodotto o distrutto da tali processi (Met., VII,
15, 1039 b 23). In altri termini, il C. è per Aristotele identico con la
sostanza, che è la struttura necessaria dell’essere, ciò per cui ogni essere non
può essere diverso da ciò che è (vedi SOSTANZA). Queste determinazioni sono
rimaste ti- piche della concezione del C. come essenza. Ri- spetto ad esse, il
carattere dell’universalità appare secondario e derivato: per universale, dice
Aristo- tele, intendo «ciò che inerisce al soggetto in ogni caso e per sè e in
quanto un soggetto è quello che è » (An. post., I, 4, 73 b 25 sgg.). Ora, «ciò
che inerisce al soggetto in ogni caso e di per sè, ecc.» non è altro che
l’essenza necessaria del soggetto stesso, quel che esso non può non essere:
sicchè l’universalità è per Aristotele la sostanzialità o necessità del
concetto. Perciò Aristotele dice che ci può essere C. anche dell’individuo (del
« sinolo » o composto di materia e forma) per quanto non dell’individuo
considerato nella sua materia che è indeterminata, quindi indefinibile, e che,
per es., il C. di un uomo è l’anima (Mer., VII, 11, 1037 a 26); distingue C.
comuni e C. propri (De an., II, 3, 414 b 25); e parla di « C. materiali »,
quali sono le emozioni le quali sono definite mediante i movimenti del corpo
che le suscitano (/bid., I, 1, 403 a 25). Nell’àmbito di quest’identificazione
del C. con l'essenza, non costituisce innovazione decisiva il far derivare,
come fa Epicuro, il C. stesso dalle sensazioni; giacchè questa derivazione, per
il ca- rattere necessariamente veridico delle sensazioni, garantisce la realtà
del C. (Drogo. L., X, 32). Dal- l’altro lato la disputa medievale sugli
universali (v.) — con la quale parola s'intendono i C. di genere e di specie —
è in realtà la disputa tra le due con- cezioni fondamentali del C., quella
platonico-aristo- telica e quella stoica: il realismo rappresenta la prima di
tali concezioni, il nominalismo la seconda. Non fa meraviglia che la Scolastica
la quale è nata e si è sviluppata, dal punto di vista logico e gnoseologico,
sotto il segno del neo-platonismo agostiniano e dell’aristotelismo, abbia
scelto pre- valentemente la soluzione realistica del problema degli universali,
affermando la realtà del C. come elemento costitutivo o essenziale della realtà
stessa. S. Tommaso dice: « Poichè ogni conoscenza è per- fetta nella misura in
cui c’è simiglianza tra il cono- scente e il conosciuto, occorre che nel senso
ci sia la simiglianza della cosa sensibile quanto agli accidenti di essa, ma
nell’intelletto ci sia la simi- glianza della cosa intesa quanto all'essenza di
essa » (Contra gent., IV, 11). Il C. « penetra nel- l'interno della cosa »
(/bid., IV, 11) coglie l’essenza o la sostanza di essa giacchè non è altro che
questa sostanza asrrarta dalla cosa stessa. Attraverso l’in- terpretazione
della sostanza aristotelica, come es-senza necessaria, Duns Scoto riafferma la
stessa tesi: il C. ha per oggetto una « natura comune» che è il quod quid erat
esse di Aristotele. Essa «non è così universale come il C., nè così indi-
viduale come la cosa, ma è a fondamento dell’uno e dell’altra » (Op. Ox., II,
d. 3, q. 1, n. 7). Questo realismo non subisce mutamenti importanti nep- pure
nella filosofia moderna. L’identità di C. e realtà, forse presupposta da
Cartesio, è resa espli- cita da Spinoza: «Il circolo esistente nella natura e
l’idea del circolo esistente, la quale è anche in Dio, sono una sola e medesima
cosa, che si mani- festa per diversi attributi » (Er., II, 7, Scol.). Un realismo
del C., limitato tuttavia alla realtà feno- menica (che è poi la sola
accessibile all'uomo) è la stessa dottrina di Kant. Difatti se i C. empirici si
riferiscono alle cose solo per il tramite di una sensazione, i C. puri o
caregorie entrano a costi- tuire le cose stesse in quanto percepite, cioè appa-
renti nell’esperienza. I C. puri o categorie sono infatti, nello stesso tempo,
«forme dell’intelletto » e «condizione degli oggetti fenomenici ». Essi cioè
entrano a costituire gli stessi oggetti fenomenici, cioè gli oggetti di ogni
esperienza possibile (Critica R. Pura, Analitica dei concetti, $ 10). La
dottrina fondamentale del kantismo è per l’appunto il ca- rattere costitutivo
dei C. puri, carattere sul quale si fonda lo stesso carattere rappresentativo dei
C. empi- rici (Zbid., $ 16, nota). Indubbiamente, per Kant il C. non è tutta la
realtà e non è creativo della realtà stessa: costituisce l’ordine necessario,
per cui la realtà si rivela all’indagine scientifica come sotto- posta a leggi
immutabili. Ma appunto per ciò costi- tuisce la struttura ossea, o l’ossatura
necessaria, della realtà empirica, cioè della sola realtà che l'uomo possa
indagare e conoscere. Da questo punto di vista, l’intero armamentario del
criticismo sembra sia diretto a riconfermare la tesi classica,
platonico-aristotelica, sulla natura del C.: la sua identità con la sostanza
necessaria della realtà. E questa stessa tesi, senza le limitazioni del fenome-
nismo kantiano, si trova nell’Idealismo romantico: che però accentua la funzione
creativa del C. e iden- tifica il C. stesso col Principio razionale infinito,
creatore e organizzatore della realtà stessa. È un luogo comune della filosofia
hegeliana che il C. non è una pura rappresentazione soggettiva ma è l’es- senza
stessa delle cose, il loro «in sè ». «La natura di ciò che è, è di essere, nel
proprio essere, il proprio C., dice Hegel; e in ciò sta, in generale, la
necessità logica » (Phénom. des Geistes, Pref., $ 3). L’Idea assoluta o
infinita, la Ragione autocosciente che è la sostanza del mondo, non è altro che
« il C. come C.» (Enc., $ 213). «Il C., dice ancora Hegel — non ciò che si ode
spesso chiamare in tal modo ed è soltanto un’astratta determinazione 148
intellettualistica — è unicamente ciò che ha realtà, in maniera cioè da darsi
esso stesso la realtà» (Fil. del Dir., $ 1). Nella concezione hegeliana, la
struttura necessaria della realtà è divenire e pro- gresso e si è posta come
Ragione infinita e crea- trice. Per quanto grande la distanza possa apparire
tra questa e la concezione classica, essa non lo è dal punto di vista della
teoria del C.; per Hegel, come per Aristotele, il C. è l’essenza necessaria
della realtà, ciò che fa sì che essa non possa esser diversa da quella che è.
Nella filosofia contempo- ranea l’idealismo ha ripreso l’interpretazione he-
geliana del C. come realtà necessaria o necessità reale. Croce, per es.,
l'intende come sviluppo, dive- nire e sistema, attività razionale e concreta,
spirito o ragione (Logica come scienza del C. puro, 1908). Un ritorno alla
forma classica che l’interpreta- zione del C. aveva assunto in Aristotele si
può invece considerare la fenomenologia di Husserl. Husserl condivide la
polemica del logicismo mo- derno contro lo psicologismo che vede nel C. una
formazione psichica (v. PsicoLoGIsMo). Formazione psichica è, per es., la
rappresentazione di numero che varia da momento a momento e da un indi- viduo a
un altro; ma il C. di numero è sempre quello, ed è un’entità intermporale. I C.
devono perciò essere ritenuti identici con le essenze ed è anzi meglio parlare,
anzichè di C., di essenze (che sono oggetti) e, dal lato soggettivo, di «
visione delle essenze » come atto analogo al percepire sensibile (Ideen, I, $$
22-23). Così in quella che è l’ultima formulazione storica dell’interpretazione
del C. come realtà necessaria, il termine stesso di C. viene ab- bandonato come
improprio, analogamente a quanto accade negli sviluppi della seconda
interpretazione del concetto. 2° Per tale seconda interpretazione, il C. è un
segno dell’oggetto (quale che sia) e si trova con esso in rapporto di
significazione. Per questa inter- pretazione, che si presenta per la prima
volta negli Stoici, la dottrina del C. diventa una teoria dei segni. Non ci può
essere segno, secondo gli Stoici, nè delle cose evidenti nè delle cose
assolutamente oscure; ci può essere soltanto delle cose oscure per il momento
od oscure per loro natura. A queste due specie di cose corrispondono due specie
di segni: 1° i segni rammemorativi che si riferiscono alle cose oscure per il
momento; 2° i segni indica- tivi che si riferiscono alle cose oscure per
natura. Un segno rammemorativo si ha, per es., quando si dice «Se c’è fumo, c’è
fuoco»? non vedendo ancora fuoco. Un segno indicativo è, per es., un movimento
del corpo, in quanto esprima uno stato dell'anima. Per segno s’intende poi «una
proposizione che, essendo antecedente in una con- nessione vera, è
discopritrice del conseguente ». In CONCETTO altri termini si ha un segno, se
si ha una propo- sizione condizionale del tipo «Se... allora», la quale
soddisfi a due condizioni: 1° deve cominciare dal vero e finire nel vero, cioè
sia l’antecedente che il conseguente devono essere veri; 2° deve es- sere
discopritiva, cioè deve dire qualcosa non im- mediatamente evidente. Ad es.,
«Se è giorno, c’è luce », detto quando è giorno, non è ancora un segno; mentre
è un segno la proposizione: «Se questa ha latte, allora ha partorito» dove
l’ante- cedente è discopritore del conseguente (/por. Pirr., II, 97 sgg.; Adv.
Dogm., II, 141 sgg.). Questa dottrina stoica dei segni (sulla quale v. SIGNIFI-
CATO) è rimasta il modello della seconda alternativa fondamentale che la
dottrina del C. ha storicamente trovato. Trasmessa da Boezio alla Scolastica
la- tina, essa trova la sua prossima tappa nella logica di Abelardo (x secolo)
il quale accentuando il carattere predicativo del C., negò che esso potesse
essere considerato sia come una cosa (res) sia come un nome (vox) — giacchè nè
la cosa nè il nome (che è pure una cosa) possono essere predicati di un’altra
cosa — e considerò il C. stesso come un sermo (discorso). A differenza della
vox, il sermo implica il riferimento semantico ad una realtà significata,
riferimento che la Scolastica po- steriore chiamerà suppositio. La realtà
significata non è, secondo Abelardo, nè una sostanza univer- sale nè una classe
di cose singole ma lo sraro comune in cui convengono un gruppo di cose. In
questo senso Abelardo dice che «la causa comune» dell’universale «uomo» è lo
status di uomo che non è nè una cosa nè una sostanza ma piuttosto ciò in cui
tutti gli uomini con- vengono in quanto tali (Philosophische Schriften, ed.
Geyer, pag. 19-20). La dottrina fu poi ripresa dalla logica terministica che
trovò Ia sua formula- zione scolastica nelle Summulae Logicales di Pietro
Ispano (verso la metà del 1200). Nelle Summu/ae la funzione del termine, sia
universale sia par- ticolare, viene definita mediante la nozione di
supposizione (v.) per la quale i termini stanno in luogo della cosa supposta,
sicchè, per es., nella proposizione « l’uomo corre», il termine « uomo » sta
per Socrate, Platone, e così via (Sumunulae Log., 6.03). La Scolastica del ’300
segna il defi- nitivo abbandono del realismo o formalismo che era prevalso in
S. Tommaso e Duns Scoto, e un ritorno della teoria stoica del concetto. Questo
è chiamato intfentio animae come ogni altro atto o elemento di conoscenza
(giacchè la conoscenza si riferisce sempre a qualcosa d’altro da sè) ed è
definito come «segno predicabile di più cose». Secondo Ockham, il C. possiede
inoltre un altro carattere fondamentale: è un segno naturale. Egli dice:
«L’universale è duplice. Uno è l’universale naturale che è un segno predicabile
di più cose; al modo in cui il fumo naturalmente significa il fuoco, il gemito
dell’infermo il dolore, e il riso l’interna gioia. Tale universale è solo
un’intenzione del- l’anima, giacchè nessuna sostanza fuori dell’anima e nessun
accidente fuori dell’anima è un universale siffatto... L'altro è l’universale
istituito ad arbitrio (per voluntariam institutionem); e in questo senso la
voce profferita, che tuttavia è una qualità nume- ricamente una, è universale
perchè è un segno isti- tuito arbitrariamente per significare più cose» (Summa
Log., I, 14). La funzione logica del C. è quella della supposizione, per la
quale il C. stesso, in tutti i complessi in cui entra, sta per le cose si-
gnificate; quanto alla realtà che il C. stesso pos- siede nell'anima come
infentio animae, Ockham non si mostra interessato a decidere; e sembra anzi
inclinare alla dottrina estrema che il C. non ha nell’anima alcuna realtà ma
esiste soltanto in essa obiective cioè a titolo di rappresentazione o di
immagine (In Sent., I, d. 2,q.8E). La dottrina di Ockham è tipica della
posizione empiristica ri- spetto alla natura del C., posizione che ha costan- temente
due capisaldi: 1° la natura segnica del C.; 2° la sua connessione causale con
le cose, delle quali sarebbe il naturale prodotto nell’uomo. Questa dottrina si
ritrova infatti in Locke (Saggio, III, 3, $$ 6-9), in Berkeley (Principles of
Human Knowledge, Intr., $ 12 sgg.) e in Hume (7rearise, I, 1, 7). Hume invoca
l’abitudine per spiegare la genesi psicologica del C. (/bid., I, 1, 7); James
Mill invoca la legge dell’associazione psicologica (Analysis of the Phe- nomena
of the Human Mind, 2* ed., 1869, I, pa- gina 78 sgg.) e così fa pure Stuart
Mill (Exami- nation of Phil. of Hamilton, pag. 393). È proprio dell’empirismo
assumere la spiegazione psicologica della genesi del C. come giustifica- zione
della sua validità: cioè ritenere dimostrata la validità del C. e la
legittimità del suo uso per aver mostrato il modo in cui esso viene a formarsi
nell'uomo con l’azione dell’astrazione (come ri- teneva Locke) o della
associazione psicologica, come ritengono gli Empiristi della prima metà
dell’800. Ma già Kant aveva insistito sulla diffe- renza tra le due cose
distinguendo la « derivazione fisiologica » dei C. tentata da Locke, dalla «
dedu- zione » dei C. stessi, cioè dalla dimostrazione della loro validità
(Crir. R. Pura, $ 13). La distinzione tra validità logica e realtà psicologica
dei C. si mantiene in tutte le scuole del neo-criticismo te- desco
contemporaneo (e soprattutto dalla Scuola di Marburgo cui appartengono Cohen,
Natorp e Cassirer) ed era stata riaffermata come indispen- sabile alle
formulazioni del pensiero matematico e in generale del pensiero scientifico, da
Bolzano nella sua Dottrina della scienza (1837). L’elabora- 149 zione
matematica della logica portava ad insistere sulla natura oggettiva, non
psicologica, del C., come sulla sua natura simbolica. Questi due aspetti del C.
vengono sottolineati da Frege. In uno scritto del 1890 egli asseriva che « il
C. è qualcosa di oggettivo, che non viene costruito per opera nostra »; e che
pertanto una proposizione come «Il numero 3 è un numero primo +» è « qualcosa
di completamente indipendente dalla circostanza che noi vegliamo, o dormiamo,
viviamo 0 no; qualcosa che vale e varrà oggettivamente sempre, non importando
se esistano o esisteranno esseri che riconoscano 0 no questa verità » (Ueber
das Tràgheitsgesetz, 1890, in Aritme- tica e logica, ed. Geymonat, pag.
211-12). Da questo punto di vista, Frege definiva il C. come «il significato di
un predicato » (Ueber Begriff und Gegenstand, 1892, $ 2; ed. Geymonat, pag.
199); e definiva il significato stesso come l’oggetto de- signato dal segno
distinguendo il significato dal senso che denota « il modo in cui l’oggetto ci
vien dato» (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 1, ed. Gey- monat,
pag. 216 sgg.). Queste notazioni di Frege sono molto importanti perchè segnano
l’inizio della risoluzione, avvenuta in buona parte della filosofia
contemporanea, della nozione di C. nella nozione di significato. Già Husserl
(che tuttavia sosteneva un realismo concettualistico) considerava i C. come
significati (Bedeutungen: cfr. Ideen, I, $ 10). «Termini o significati » chiama
i C. Dewey che sotto questo titolo procede a classificarli (Logic, cap. XVIID.
E R. Carnap identificando, nello stesso senso di Frege, il C. con l'oggetto
intendeva per esso « tutto ciò su cui possono formularsi proposizioni » (Der
logische Aufbau der Welt, 1928, $ 5). Dell’avvenuta identificazione tra C. e
significato dava atto nel 1942 Susan K. Langer mostrando la convergenza di
molte correnti della filosofia contemporanea verso il riconoscimento del
simbolismo nella scienza, nell’arte, nella filosofia e in generale in tutte le
forme culturali umane (Philosophy in a New Key, 1942, cap. III). Quine ha
indicato esattamente il punto critico della trasformazione delia nozione di C.
quando ha detto « il significato è ciò che l’es- senza diventa quando ha fatto
divorzio dall’oggetto di riferimento e si è sposata con la parola » (From a
Logical Point of View, II, 1). È tuttavia da notare che il termine C. o
signifi- cato viene più frequentemente riferito a indicare la connotazione che
la denotazione. Così Carnap negli ultimi scritti ha inteso per concetto la
proprietà o l'attributo o la funzione (Introduction to Semantics, 1942; 2» ediz.,
1959, $ 37). Ciò costituisce una ec- cezione alla terminologia proposta da
Frege, ecce- zione tuttavia che è raccomandata dai logici (con- fronta A.
CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 01, e n. 17). V. SIGNIFICATO. B)
La funzione del C. può essere concepita in due maniere fondamentali diverse,
cioè come finale e come strumentale. Funzione finale attribuisce al C.
l’interpretazione di esso come essenza: giacchè per questa interpretazione il
C. non ha altra fun- zione se non di esprimere o rivelare la sostanza delle
cose. La funzione si identifica da questo punto di vista con la natura stessa
del concetto. Quando invece si ammetta la teoria simbolica del C., si ammette
con ciò anche la strumentalità di esso; e questa strumentalità può essere chiarita
e de- scritta nei suoi molteplici aspetti. Gli aspetti prin- cipali sono i
seguenti: 1° La prima funzione attribuita al C. è quella di descrivere gli
oggetti dell'esperienza per con- sentirne il riconoscimento. Era questa la
funzione principale che Epicurei e Stoici attribuivano alle anticipazioni (o
prolessi). Secondo gli Epicurei, l’anticipazione è « una comprensione o retta
opi- nione o pensiero o nozione universale insita in noi come memoria di ciò
che ci è spesso apparso fuori di noi» (Dioc. L., X, 33). Questa funzione
descrittiva o riconoscitiva del C. viene spesso sotta- ciuta in quanto è la più
ovvia. Recentemente G. Berg- mann ha chiamato I C. parole-caratteri (Character-
Words) per indicare la loro funzione descrittiva o referenziale (Philosophy of
Science, 1957, pag. 13). 2° La seconda funzione attribuita al C. è quella
economica. A questa funzione si lega il carattere classificatorio del C.
stesso. «La varietà delle rea- zioni biologicamente importanti, ha detto E.
Mach, è molto minore della varietà degli oggetti esistenti. Perciò l’uomo è
stato condotto a classificare i fatti nei concetti. Lo stesso procedimento si
ripro- duce quando, in una professione, si affrontano fatti che non offrono più
interessi biologici imme- diati » (Erkenniniss und Irrtum, 1905, cap. VIII;
trad. franc., pag. 136). Sotto questo aspetto, i C. sono «segni riassuntivi e
indicativi delle reazioni possibili dell'organismo umano nei confronti dei
fatti » (Mechanik, 1883, pag. 510). È questo il ca- rattere su cui hanno fatto
leva alcuni filosofi per negare il carattere teoretico dei C. scientifici a
van- taggio di una forma superiore o privilegiata di conoscenza. Così Bergson
ha contrapposto al C., semplice schema economico ai fini dell'azione,
l'intuizione (Évolution Créatrice, 88 ediz., 1911, pag. 247 sgg.). Croce ha
chiamato per questo mo- tivo i C. scientifici pseudo-concetti riservando il
nome di C. alla Ragione stessa (Logica, cap. II). 3° La terza funzione del C. è
quella di orga- nizzare i dati dell’esperienza in modo tale da sta- bilire tra
essi connessioni di natura logica. Un C., soprattutto un C. scientifico, non si
limita, di re- gola a descrivere e classificare i dati empirici ma rende
possibile la loro derivazione deduttiva CONCETTO-CLASSE (DuHEM, La théorie physique,
pag. 163 sgg.). È questo l’aspetto per cui la formulazione concettuale delle
teorie scientifiche ténde all’assiomatizzazione: la generalizzazione e il
rigore dell’assiomatizzazione tendono a portare al limite il carattere
logicamente organizzativo del concetto. 4° La quarta funzione del C., ritenuta
oggi quella fondamentale nelle scienze fisiche, è la previ- sione. Come già
riconoscevano gli Stoici, lo scopo di un segno è in generale quello di
prevedere; e il nome di anticipazione, che Epicurei e Stoici davano al C.,
esprime appunto questa funzione. Per essa, il C. è un mezzo o procedimento
anticipatorio o proget- tante. Per Dewey, esso anticipa o progetta la solu-
zione di un problema esattamente formulato (Logic, XX, $ 1; trad, ital, pag.
516; cfr. XXIII, $ 1; pag. 599). Per altri la funzione anticipatoria del C. è
lo strumento di cui la scienza si serve « per predire l’esperienza futura alla
luce dell'esperienza passata » (Quine, From a Logical Point of View, II, 6).
Alle funzioni della organizzazione e della previ- sione adempiono oggi i tipi
fondamentali dei C. scientifici che non sono nè descrittivi nè classifica-
tori: cioè i modelli, i C. matematici e i costrutti. I modelli costituiscono
semplificazioni o idealiz- zazioni dell’esperienza e si ottengono portando al
limite caratteri o attributi propri degli oggetti em- pirici. Sono modelli in
questo senso i C. di velocità istantanea, di sistema isolato, di gas perfetti e
in generale i modelli meccanici. I C. matematici sono semplicemente occasioni per
introdurre speciali procedimenti di calcolo e in questo senso sono strumenti di
previsione. Il C. di «onda di probabilità », proprio della mec- canica
quantistica, appartiene a questa specie: come appartengono a questa specie
quelli di «campo tensoriale », « spazio CUTvo ?, ecc. Infine i costrutti (v.)
sono C. di entità che non sono date nell'esperienza e non somigliano neppure ad
oggetti dati, e la cui esistenza consiste sempli- cemente nella possibilità di
essere usate come stru- menti di previsione nel contesto di una teoria. Sono
esempi di costrutti i C. di campo, di elet- trone, di etere, ecc. (P. W. BRIDGMANN, The Logic
of Modern Physics, 1927, cap. II; M. K. MUNITZ, Space Time and Creation, 1957,
IV, 2). CONCETTO-CLASSE (ingl. Class-Concept). Termine
introdotto nella Logica da Russell (The Principles of Mathematics): designa il
C. me- diante cui si definisce una c/asse (v.), o, più esattamente, la funzione
proposizionale « Fx» le cui radici formano la classe, in modo che con- dizione
necessaria e sufficiente perchè un in- dividuo a sia un elemento di una classe
(« appar- tenga alla classe +) definita mediante una funzione «Fx+è che la
proposizione « Fa» sia vera. G.P. CONCETTUALISMO (ingl. Conceptualism; franc.
Conceptualisme; ted. Conceptualismus). Nome che gli storici ottocenteschi della
filosofia medievale hanno dato a quella corrente della Scolastica me- dievale
che gli Scolastici stessi chiamavano nomi- nalismo (v.); ciò allo scopo di
distinguere il nomi- nalismo estremo di Roscellino, per il quale il concetto
universale è una semplice vox o ffatus vocis dal nominalismo di Abelardo, per
cui l’univer- sale stesso è un discorso (sermo) predicabile di più cose e dal
nominalismo posteriore che s’ispira ad Abelardo (v. NOMINALISMO; UNIVERSALI).
CONCEZIONE (ingl. Conception; franc. Con- ception; ted. Konzeption). Questo
termine designa (come quelli corrispondenti di percezione e di ima- ginazione),
sia l’atto del concepire, sia l'oggetto concepito; ma, a preferenza, l’atto di
concepire an- zichè l’oggetto, per il quale va riservato il termine concetto
(v.). Hamilton faceva già questa osserva- zione (Lectures on Logic, I, pag. 41)
che talora è ripetuta nella filosofia contemporanea: «Appena un concetto è
simbolizzato per noi la nostra imagina- zione lo riveste di una C. privata e
personale, che possiamo distinguere solo per un processo di astra- zione dal
concetto pubblico e comunicabile + (Susan K. LAnGER, Philosophy in a New Key,
cap. IID. CONCLUSIONE (lat. Conclusio; ingl. Con- clusion; franc. Conclusion;
ted. Schluss). Mentre in Apuleio e Boezio conclusio è il termine mediante il
quale si designa la totalità di un discorso dimostra- tivo, nei Logici
medievali esso è usato come tra- duzione del ovurépacpa aristotelico e della
trupopà stoica, cioè per indicare la proposizione terminale del discorso
dimostrativo stesso (cfr. PIETRO ISPANO: « Est enim conclusio argumento vel
argumentis ap- probata propositio »; Summul. Log., 5.02). Nella filo- sofia
moderna e contemporanea ha mantenuto lo stesso senso. Solo nei filosofi
tedeschi Sck/uss è spesso usato per indicare l’intero sillogismo. G. P.
CONCOMITANZA (ingl. Concomitance; fran- cese Concomitance; ted. Konkomitanz).
Uno dei quattro metodi della ricerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e
precisamente quello detto delle « variazioni concomitanti » espresso con la
seguente regola: « Un fenomeno che vari in qualche maniera ogni volta che un
altro fenomeno vari in qualche particolare maniera è la causa o l’effetto di
questo fenomeno o è connesso con esso da qualche fatto di causazione » (Logic,
III, 8, $ 6). A questo metodo Mach ridusse tutti i procedimenti della scienza.
«Il metodo delle variazioni, egli disse, consiste nello studiare per ciascun
elemento la variazione che si trova legata alla variazione di ciascuno degli
altri elementi. Importa poco che tali variazioni si producano da sè o che noi
le provochiamo volon- tariamente; le relazioni saranno scoperte dall’os-
servazione o dall’esperimento» (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad. franc.,
pag. 28-29) (v. Con- CORDANZA; DIFFERENZA; RESIDUI). CONCORDANZA, METODO DELLA
(in- glese Method of Agreement; franc. Méthode de con- cordance; ted. Methode
der Uebereinstimmung). Uno dei quattro metodi della ricerca sperimentale enu-
merati da Stuart Mill e precisamente quello espresso dalla regola seguente: «
Se due o più casi del feno- meno che si sta investigando hanno un’unica cir-
costanza in comune, la circostanza nella quale sola tutti i casi concordano è
la causa, o l’effetto, del fenomeno dato » (Logic, III, 8, $ 1). Un caso del
metodo della C. è la combinazione di esso con quello di differenza,
combinazione che è retta dalla seguente regola: «Se due o più casi nei quali il
fenomeno ha luogo hanno solo una circostanza in comune, mentre due o più casi
nei quali esso non ha luogo non hanno in comune se non l’as- senza della
circostanza, la circostanza nella quale sola i due insieme di casi
differiscono, è l’effetto o la causa, o una parte indispensabile della causa
del fenomeno + (/bid., $ 4) (v. CONCOMITANZA; DIF- FERENZA; RESIDUI).
CONCRESCENZA (ingl. Concrescence). White- head ha visto nell’evoluzione
emergente (o crea- trice) un « processo di C. + al quale contribuiscono
egualmente l’aspetto fisico e l’aspetto spirituale, indissolubilmente uniti ed
entrambi attivi (Process and Reality, pag. 151). CONCRETO (ingl. Concrete;
franc. Concret; ted. Konkret). Il contrario di astratto (v.). I filosofi
designano abitualmente col termine elogiativo di C. ciò che s’adegua al loro
criterio di realtà. Perciò C. non è sempre l’individuale, il singolo, la cosa o
l’essere esistente, come si potrebbe credere e come è, forse, l’uso comune del
termine. Per Hegel il C. è l’Universale, la Ragione, l’Infinito, mentre
l’astratto è appunto l'individuo, l’oggetto sin- golo, ecc. « L’astratto è il
finito, il C. è la Verità, l’Oggetto infinito », dice Hegel (Philosophie der
Re- ligion, ed. Glockner, II, pag. 226; cfr. Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, I, pag. 52 sgg.). Così Croce ha parlato di un «universale C.» e
Gentile del « pensiero C. ». Per Bergson il C. è la durata reale, cioè la vita
della coscienza nella sua immediatezza. Si può dire che il termine non ha altra
funzione che quella di qualificare onorificamente la realtà, vera o supposta,
che si intende privilegiare. CONCREZIONE (ingl. Concrezion). Parola co- niata
da G. Santayana per indicare la crescita do- vuta all’unificazione di più cose.
Così le C. formate da un’associazione per simiglianza sono idee o es- senze 0
«C. di discorso»; mentre le C. costituite dal- l’associazione per contiguità
sono cose. (Cfr. special- mente Reason in Common Sense, 1905, pag. 161 sgg.).
CONCUPISCENZA (lat. Concupiscientia; in- glese Concupiscence; franc.
Concupiscence; ted. Ge- liste). È, secondo S. Tommaso (che rinvia alla defini-
zione aristotelica del piacere, Rer., I, 11, 1369 b 33) il desiderio del
piacere (delectatio). Il piacere si può provare sia per un bene spirituale, sia
per un bene sensibile, e il primo appartiene solo all’anima, il se- condo
all’anima e al corpo insieme: la C. designa il desiderio di questa seconda
specie di piacere, cioè il desiderio sensibile (S. 7h., II, 1, q. 30, a. 1).
CONCUPISCIBILE. Una delle parti del- l’anima, secondo Platone (v. FACOLTÀ).
CONCURSUS DEI. Si designò con questa espressione, negli ultimi tempi della
Scolastica, la parte dovuta a Dio nella produzione e nel compor- tamento delle
sostanze finite. La dottrina domi- nante nella Scolastica è quella esposta da
S. Tom- maso: che la causa prima, cioè Dio, è più efficiente delle cause
seconde che derivano il loro potere solo da essa (S. 7A., II, 1, q.19,a. 4). Ma
nell’ultima fase della Scolastica e precisamente ai principi del sec. xIv, si
cercò di limitare la portata della causalità divina, per evitare che si
attribuissero a Dio stesso le im- perfezioni e i mali del mondo. Così Durando
di St.-Pourgains e Pietro Aureolo ritennero che il concorso di Dio con la
creatura è solo generale e mediato; che Dio crea le sostanze e dà loro la forza
di cui hanno bisogno, ma dopo ciò le lascia fare e si limita a conservarle nel
loro essere, senza aiutarle nelle loro azioni. Nell’età post-cartesiana, sia
gli occasionalisti, sia Spinoza, sia Leibniz ri- tornarono alla nozione
tradizionale dell’intera e piena causalità divina nel mondo. Leibniz, in par-
ticolare, riespose a suo modo la dottrina del con- corso divino, distinguendo,
oltre il concorso straor- dinario o miracoloso, un concorso immediato e un
concorso speciale: il primo che consiste nel fatto che l’effetto non solo
dipende da Dio ma che Dio concorre a produrlo non meno della causa seconda di
esso; e il secondo che è diretto non sol- tanto all’esistenza della cosa ma
anche al suo modo di esistere e alle sue qualità, giacchè ciò che nella cosa
c’è di perfetto non può dipendere che da Dio (Op., ed. Erdmann, pag. 653).
CONDILLACHISMO. V. Sensismo. CONDIZIONALE (gr. cvwupévoy délwpa; lat.
Propositio hypothetica; ingl. Conditional; fran- cese Conditionnel; ted.
Bedingt). Una relazione tra due stati di cose o due proposizioni, indicata dal
connettivo se... allora. Questa relazione fu studiata per la prima volta nella
scuola di Megara e inter- pretata in due modi diversi da Filone e da Diodoro
Crono. Filone affermava che la relazione è vera quando non comincia dal vero e
finisce nel falso. Diodoro affermava invece che essa è vera quando non comincia
dal vero nè finisce nel falso. La condizione posta da Diodoro per la validità
del C. era perciò assai più ristretta di quella posta da Filone giacchè per
quest’ultimo una proposi- zione vera segue da ogni cosa (anche dal falso). Per
es., la relazione «Se è notte, è giorno », posto che sia giorno, è vera secondo
Filone perchè comincia dal falso (cioè ha l’antecedente falso) «è notte», ma
finisce nel vero (cioè ha il conseguente vero) « è giorno ». Secondo Diodoro,
invece, è falsa perchè ammette di cominciare dal vero, posto che sopraggiunga
la notte, e di finire nel falso «è giorno » (Sesto EMPIRICO, Adv. Math., VIII,
113- 117; Cicer., Acad., IV, 143). Le interpretazioni di Filone e di Diodoro
corrispondono perciò rispettiva- mente a quelle che oggi si chiamano
implicazione materiale e implicazione formale (v. IMPLICAZIONE): giacchè Filone
interpretava il C. «se è giorno, c'è luce » come se dicesse «0 non è giorno o
c’è luce », mentre Diodoro l’interpretava come se di- cesse «ora c’è giorno,
dunque ci dev'essere luce », ammettendo una connessione causale tra l’antece-
dente e il conseguente. E difatti Filone ammetteva una tavola di verità che è
identica a quella del- l’implicazione materiale. Il C. è vero in tre casi e
falso in un caso. È vero se comincia dal vero e finisce nel vero: « Se è
giorno, c’è luce »; è vero se comincia dal falso e finisce nel falso: «Se la
terra vola, la terra ha le ali». È vera se co- mincia dal falso e finisce nel
vero: «Se la terra vola, la terra esiste». È falsa solo quando co- mincia dal
vero e finisce nel falso: « Se è giorno, è notte», posto che sia giorno. E così
la relazione: «Se è giorno, io discorro », è vera secondo Filone, posto che io
discorra, ma falsa secondo Diodoro. La dottrina di Filone fu sostanzialmente
accettata dagli Stoici (Dio. L., VII, 73) e fu discussa nella logica medievale
(che utilizzò la trascrizione che ne aveva fatta Boezio) come dottrina della
conseguenza (v.). Nella logica moderna, la dottrina è stata ripresa da Frege (a
partire dal Begriffsschrift, 1879) e da Peirce a partire dal 1885; secondo il
quale, il prin- cipale vantaggio dell’interpretazione di Filone è quello che
essa consente di esprimere le proposi- zioni categoriche e le proposizioni
condizionali nella stessa forma. Così, per es., la proposizione « Ogni uomo è
ragionevole» si può esprimere dicendo: « Per ogni oggetto x qualsiasi, è vero
che o x non è un uomo o x è ragionevole » (PEIRCE, Coll. Pap., 3. 43945). Il
concetto di C. è oggi il più delle volte consi- derato equivalente a quello di
implicazione (v.). Quine ha tuttavia proposto una distinzione oppor- tuna tra i
due concetti: l’implicazione dovrebbe essere intesa come relazione tra
proposizioni e il C. come relazione tra oggetti o stati di fatto. Così si
dovrebbe dire « ‘Se piove” implica ‘la terra si bagna ’ », mentre il C. sarebbe
« Se piove, la terra si bagna » (Methods of Logic, 1952, $ 7). CONDIZIONATO
(ingl. Conditioned; fran- cese Conditionné; ted. Bedingt). Ciò la cui possi-
bilità dipende da altro. Riflesso C. ha chiamato Pavlov il riflesso prodotto da
uno stimolo artifi- ciale (v. AZIONE RIFLESSA). Kant nella discussione delle
antinomie della ragion pura (Crif. R. Pura, Dialettica trascendentale, cap. II)
ha usato la parola come sinonimo di cau- sato. Hamilton (Lectures on
Metaphysics, 1859- 1860) ha inteso per C. il relativo; e in questo senso ha
detto che « pensare è condizionare » perchè ciò che si pensa o si conosce è
quello che è rispetto alle facoltà umane, non assolutamente. Lo stesso
significato è attribuito alla parola da Mansel (Phil. of the Conditioned,
1866). CONDIZIONE
(ingl. Condition; franc. Con- dition; ted. Bedingung). In
generale, ciò che rende possibile la previsione probabile di un evento. La
nozione si è formata nell’età moderna, dapprima attraverso il tentativo di
liberare la nozione di causa dalle sue implicazioni antropomorfiche, poi
attraverso l’esigenza di liberarla dal suo carattere necessitante. Claude
Bernard, che tuttavia credeva nel carattere necessitante della causa (v. Causa-
LITÀ), diceva: «L’oscura nozione di causa deve essere confinata all’origine
delle cose: non ha senso che quando si parla della causa prima o causa finale.
Nella scienza, deve far posto alla nozione di rapporto o di condizione »
(Lecons sur les phéno- ménes de la vie, II, pag. 396 sgg.). Dall'altro lato,
Stuart Mill, osservando che la successione invaria- bile in cui la causalità
consiste, raramente si trova tra un conseguente e un singolo antecedente ma c’è
il più delle volte tra un conseguente e la somma di di- versi antecedenti, che
sono tutti richiesti « a produrre il conseguente, cioè affinchè siano
certamente seguiti da esso», aggiungeva: «In tali casi è cosa assai comune
mettere in evidenza uno solo degli ante- cedenti sotto la denominazione di
causa, chiamando gli altri soltanto condizioni» (Logic, III, 10, 3). La C.
sarebbe così ciò che per suo conto non basta a produrre l’effetto, cioè: non
rende certo il veri- ficarsi dell’effetto. Il che corrisponde all’uso della
parola C. nell'espressione (di origine giuridica) conditio sine qua non, nella
quale la C. significa una clausola o riserva da cui dipende l’intera va- lidità
dell'atto giuridico, sebbene indubbiamente non sia la causa di esso. Alla
parola è pertanto connesso il significato di una limitazione di possi- bilità
tale che ciò che cade fuori delle possibilità così limitate elimini o renda
non-possibile l’og- getto condizionato. In riferimento a questo signi- ficato,
la parola viene usata da Kant. Per quanto l'opera di Kant sia diretta a
difendere il principio di causalità necessaria come forma o struttura og-
gettiva della natura, essa fa un uso frequente della nozione di C. in un
significato che non è ricondu- cibile a quello di causa e che Kant non si è
fermato di proposito a delucidare. L’uso kantiano è in- dicato da espressioni
come le seguenti, che s’in- contrano frequentemente nella Critica della Ragion
Pura: « C. della possibilità dei fenomeni », « C. sog- gettiva della
sensibilità », « C. della possibilità di ogni esperienza », «C. formale di
tutti i fenomeni in generale» (il tempo), «C. soggettive del pen- sare » (le
categorie), « C. a priori per cui è possibile l’esperienza » (le categorie),
ecc. In queste e simili espressioni ciò che vi è di importante è la connes-
sione tra « C.» e « possibilità ». Kant qualche volta dice semplicemente « C.+,
qualche volta dice « C. della possibilità »; e le due espressioni s’equival-
gono. Il che vuol dire che, secondo Kant, dire che «x è la C. di y» o dire che
«x rende possi- bile y » significa la stessa cosa. Ciò che rende pos- sibile
qualcosa (per es., la conoscenza o l’esperienza o il fenomeno) è la C. di
questo qualcosa. Questa definizione, certamente non data mai esplicitamente ma
neppure soltanto implicita, della nozione nel- l’opera di Kant, costituisce il
punto decisivo della elaborazione filosofica di essa. Un passo ulteriore nello
stesso senso è stato effettuato da Max Weber nella sua ricerca sul significato
del principio di causalità per le scienze storiche (1905). Per quanto Weber
adoperi di preferenza la parola causa e parli di spiegazione causale, ciò che
egli dice si riferisce più precisamente alla nozione di C.; e serve a collegare
questa nozione con quella di « possibilità oggettiva » (v. PossiBILITÀ) che è
in- dispensabile, secondo Weber, alla conoscenza sto- rica. «Il giudizio sulla
possibilità oggettiva, dice Weber, ammette per sua essenza gradazioni; e si può
raffigurare la relazione logica in esso impli- cita con l’aiuto dei princìpi
che sono applicati nell’analisi del calcolo delle probabilità. Le com- ponenti
causali, al cui ‘possibile’ effetto si rife- risce il giudizio, possono
concepirsi isolate rispetto a tutte le C. che si possono in genere concepire
con esse cooperanti. Ci si può chiedere allora come il complesso di queste C.,
insieme alle quali le com- ponenti isolate erano prevedibilmente adatte a pro-
durre la conseguenza possibile, si comporta rispetto a quelle altre C., insieme
alle quali non l'avrebbero ‘ prevedibilmente * prodotta » Xritische Studien auf
dem Gebiet der Kulturwissenschaftlichen
Logik, 1906; trad. ingl. in Methodology of Social Science, pag. 181-82).
Ciò che qui Weber chiama « com- ponente causale » che sarebbe concettualmente
iso- lata per formulare un giudizio di possibilità og- gettiva, cioè un
giudizio sul corso che gli eventi avrebbero potuto prendere se, per l’appunto,
quella componente causale fosse intervenuta, non è altro che una C. di
possibilità, nel senso kantiano del termine. Aggiunge Weber: « Noi possiamo
enun- ciare giudizi generalmente validi intorno al fatto che una maniera di
reagire identica, in certe carat- teristiche da parte di persone che affrontano
deter- minate situazioni, è favorita a un grado maggiore o minore e possiamo
stimare il grado al quale un certo effetto è favorito da certe C. » (/bid.,
pag. 183). In queste parole il concetto della C. come limita- zione di
possibilità oggettive e quindi prevedibilità probabile dell’evento, è
chiaramente espresso. Gli sviluppi della fisica che hanno segnato il tra- collo
della nozione di causa (v. CAUSALITÀ) esigono la sostituzione del determinismo
condizionale al determinismo causale classico. Nel campo biologico, è facile
osservare come solo il concetto di C. è in grado di esprimere i rapporti
funzionali consi- derati da tale scienza; e, per es., quello tra stimolo e
risposta, che oggi non può più essere tradotto in termini di causalità, cioè di
previsione infallibile, e può essere invece espresso in termini di condizio-
nalità, cioè di previsione probabile (v. AZIONE RIFLESSA). Il concetto di C. è
inoltre largamente usato nella sociologia, nella teoria dell’informa- zione,
nella cibernetica e in generale nella teoria dell’organizzazione o dei sistemi,
perchè consente di conciliare la nozione dell’ordine con un certo grado di
contingenza o di casualità nelle relazioni fra gli elementi che entrano a
comporlo. Così Wiener ha scritto: « Un’idea significante di orga- nizzazione
non può essere ottenuta in un mondo nel quale ogni cosa è necessaria e niente è
con- tingente » (/ am a Mathematician, New York, 1956, pag. 322). W. Ross
Ashby, ha ritenuto sotto questo aspetto essenziale l’idea di condizionalità
secondo la quale nello spazio di possibilità di interazione, dato da un insieme
di elementi, ogni organizzazione reale degli elementi è costretta a qualche
sub- insieme di interazioni. Il converso dell’organizza- zione è l'indipendenza
degli elementi (in Principles of Self-Organization, ed. H. von Foerster e G. W. Zopf,
New York, 1962, pag. 217). Un
certo grado di libertà nella relazione reciproca delle parti è essenziale ad
ogni organizzazione o sistema; e dove non si fosse scelta fra un insieme di
alternative non ci sarebbe neppure un’organizzazione qualsiasi (J. ROTHSTEIN,
Communication, Organization and Science, 1958, pag. 35). Il concetto di C. sta
così prendendo il posto, nelle discipline più disparate, di quello di causa.
CONDOTTA (ingl. Conduct;
franc. Conduite; ted. Berragen). Ogni risposta dell’organismo
vivente ad uno stimolo, che sia oggettivamente osserva- bile, anche se non
abbia carattere di uniformità: nel senso che vari o possa variare nei confronti
di una situazione determinata. Per questa mancanza di uniformità, la C. si
differenzia dal comporta- mento (v.); e l’uso del termine diventa utile,
giacchè altrimenti non si distingue da comportamento. CONFERMABILITÀ. V.
TESrABILITÀ; VE- RIFICABILITÀ. CONFESSIONE (lat. Confessio; ingl. Con- fession;
franc. Confession; ted. Beichte). La parola significa in generale: riconoscere
una cosa per quella che è (corrispondentemente al significato del verbo greco
éfoporoyetv usato nella traduzione greca della Bibbia). Pertanto essa viene
adoperata S. Agostino sia a indicare il riconoscimento di Dio come Dio (della
verità come verità) sia il riconoscimento dei propri peccati come tali. S. Ago-
stino dice: « Mi comandi di lodarti e di confes- sarti » rivolgendosi a Dio
(Conf., I, 6, 9-10); e dice pure: « Ha (la casa dell’anima mia) cose che of-
fendono i tuoi occhi, lo confesso, lo so» (Ibid. I, 5, 6). Il significato
indicato comprende i due usi del termine distinti dagli studiosi (cfr. M.
PELLE- aRINO, Le C. di S. Agostino, Roma, 1956, pag. 9-10). Esso consente
inoltre di spiegare: 1° la composi- zione delle Confessioni le quali solo in
parte con- tengono l’esposizione delle vicende biografiche di S. Agostino, ma
che dal X Libro in poi sono pura- mente teoretiche, cioè sono dedicate al
riconosci- mento della Verità come tale attraverso la solu- zione dei dubbi e
delle difficoltà che si frappongono al riconoscimento stesso; 2° la coincidenza
dell’at- teggiamento di chi si confessa, cioè riconosce in se stesso la verità,
con l’atteggiamento del ritorno a sè e del ripiegamento dell’uomo su se stesso
che è proprio della ricerca agostiniana, come di quella neo-platonica (v.
COSCIENZA). CONFIGURAZIONISMO (ingl. Configuratio- nism). Lo stesso che
Gestaltismo (v. PERCEZIONE; PSICOLOGIA, C). CONFLAGRAZIONE (gr. èxmipoore; lat.
Con- ffagratio; ingl. Conflagration; franc. Conflagration; ted. Weltbrand).
Secondo Eraclito (Dioc. L., IX, 1, 8) e gli Stoici (Sroseo, Ec/., I, 304), la
catastrofe finale che chiude un ciclo del mondo con la di- struzione totale di
esso ad opera del fuoco. CONFLITTO (ingl. Conflict; franc. Conflit; ted.
Wiederstreit). Contraddizione, opposizione o lotta di principi, proposizioni o
atteggiamenti. Kant chiamò « C. di tesi » le anrinomie (v.). Hume aveva parlato
di un C. tra la ragione e l'istinto: l’istinto che porta a credere, la ragione
che mette in dubbio ciò che si crede (Treatise, I, Introduzione). CONFUSIONE.
V. DIsTINZIONE. CONFUTAZIONE (gr. &eyxos; lat. Confu- tatio; ingl.
Confutation; franc. Réfutation; ted. Wi- derlegung). Il metodo adoperato da
Socrate che consiste nel porre in luce ia contraddizione a cui CONNOTAZIONE 155
conduce l’asserzione dell’interlocutore e, perciò con- sente di liberare
l'interlocutore stesso dalla presun- zione di sapere. Questo procedimento fu
sempre ritenuto da Platone come la propedeutica indispen- sabile della ricerca
scientifica (Apol., 21a sgg.; Men., 84a-c; Sof., 230b sgg.). Aristotele definì
la C. come «la dimostrazione del contraddittorio » (El. Sof., I, 165a 2): cioè
come il sillogismo che ha come conclusione la proposizione che nega un’altra
conclusione (la quale così è « confutata »). Le C. (elenchi) sofistiche non
sono, secondo Ari- stotele, vere C.; e le due classi di esse (quelle che
utilizzano il modo di esprimersi e quelle che ne prescindono) sono non già
dimostrazioni negative, ma artifici o trucchi verbali che hanno lo scopo di
ridurre al silenzio l’avversario e di aver la meglio su di lui. CONGETTURA (gr. elxaola.; lat. Conjectura; ingl. Conjecture;
franc. Conjecture; ted. Conjectur).
Secondo Platone, il più basso grado del conoscere sensibile, quello che ha per
oggetto le ombre e le imagini delle cose; al modo in cui l’opinione, nello
stesso grado sensibile, ha per oggetti le cose stesse (Rep., VI, 510a Slle).
Niccolò Cusano riprese la parola per indicare la natura di tutta la conoscenza
umana: la quale, come C., sarebbe una conoscenza per alterità, cioè che rinvia
a ciò che è altro da sè, la verità come tale, e solo per tale rinvio è in
rapporto con la verità e partecipa di essa. «La C. è un’asserzione positiva che
par- tecipa per alterità alla verità in quanto tale » (De Conjecturis, I, 13).
Nell’uso moderno questo ter- mine è sinonimo di /potesi (v.). CONGIUNZIONE (lat. Conjunctio;
ingl. Con- junction; franc. Conjonction; ted. Konjunktion). Nella Logica scolastica è una propositio hypothetica
formata da due categorie unite dal segno «et» (« Socrates currit et Plato sedet
v). Nella Logica contemporanea è una proposizione molecolare formata da due (o
più) atomiche unite dal segno 4 v + 0 «4.» (tp.Q?). In entrambe le Logiche,
condizione necessaria e suffi- ciente per la verità di una C. è che entrambe le
proposizioni componenti siano vere. G. P. CONGRUENZA (lat. Congruentia; ingl.
Con- gruence; franc. Congruence; ted. Uebereinstimmung). Adeguazione. Per es.,
« ricompensa congrua » cioè adeguata al lavoro o al merito. In geometria, la C.
è la coincidenza delle figure per sovrapposi- zione sullo stesso piano. La
definizione della C. è fondamentale per la scelta di una geometria. Dice
Reichenbach: « La scelta di una geometria è arbi- traria solo finchè non si è
specificata la definizione della congruenza. Una volta stabilita tale
definizione, diventa una questione empirica il problema di quale geometria si
adatta allo spazio fisico » (cfr. A. Ein- steîn; Philosopher-Scientist, a cura
di P. A. Schilpp, 1949, pag. 295). Whitehead ha generalizzato questo concetto:
« La C., egli ha detto, è un esempio par- ticolare del fatto fondamentale del
riconoscimento nella percezione. Noi riconosciamo: non sempli- cemente nel
senso di paragonare un fattore natu- rale offerto dalla memoria con un fattore
rivelato dalla sensazione immediata, bensì nel senso che il riconoscimento
prende posto nel presente, senza alcun intervento della pura memoria » (The
Concept of Nature, 1920, cap. VI; trad. ital., pag. 113). CONGRUISMO. È la
dottrina controriformi- stica della grazia efficace, cioè adeguata al merito.
CONNATURA (ingl. Connature). Sostantivo creato da Spencer per analogia con gli
aggettivi « connaturato » o « connaturale ». Secondo Spencer (Psychology, II, $
289) una delle tre idee (insieme con la coestensione e la coesistenza),
implicita nel ragionamento quantitativo e precisamente quella della identità
delle cose quanto alle loro specie; mentre la coestensione significa l’identità
nella quantità di spazio occupata e la coesistenza l’iden- tità nel tempo di
presentazione alla coscienza. CONNETTITVI (ingl. Connectives; franc. Con-
nectifs). Nella logica contemporanea, si chiamano così i simboli impropri (o
sincategorematici [v.])) che, combinati con uno o più costanti, formano o
producono una nuova costante. Le costanti o forme unite dai C. si chiamano
operandi. Un C. si chiama singolare, binario, ternario, ecc., a seconda del
numero dei suoi operandi. I C. sono quelli espressi dalle parole e, 0, non,
se... allora. Si adopera comunemente la giustapposizione degli operandi per
denotare la congiunzione: così «‘p.qg’* significa « p e g*. Si adopera il segno
v per de- notare la disgiunzione inclusiva; così « p v g» si- gnifica «p 09 o
entrambi ». Si adopera il segno + per denotare la disgiunzione esclusiva; così
«p + g » significa « p o g ma non entrambi». Si adopera il segno — per indicare
la negazione: così « — p+ significa « non p». Per il C. se... allora, v. ConDI-
ZIONALE, IMPLICAZIONE. Le notazioni citate sono le più comuni, ma non sono le
sole. Per altri sistemi di simboli vedi le note al $ 05 della Introduction to
Mathematical Logic, 1956, di CHURCH. CONNOTAZIONE (lat. Connotatio; inglese
Connotation; franc. Connotation). L'aggettivo con- notativus compare nella
logica della tarda Scolastica a proposito di una distinzione dei nomi in
assoluti e connotativi. Secondo Ockham, sono assoluti i nomi che non
significano qualche cosa principal- mente e qualche altra cosa secondariamente,
per es., il nome « animale ». Sono invece connotativi i nomi che significano
qualche cosa in linea primaria e qualche cosa in linea secondaria: per es., i
nomi relativi, quelli che appartengono al genere della quantità e anche nomi
come «uno», «bene», « vero », « intelletto », « potenza », ecc. (Summa Log., I,
10). Questa distinzione divenne abituale nella logica posteriore. Nell’età
moderna la distinzione fu ripresa da James Mill nella sua Analisi dei feno-
meni dello spirito umano (1829) che usava la parola «connotare » in ogni caso
in cui il nome, che in- dica direttamente una cosa (la quale costituisce perciò
il suo significato) include anche un riferi- mento a qualche altra cosa. L’uso
della parola fu radicalmente mutato da Stuart Mill, il quale ado- però la
parola per esprimere «il modo in cui un nome concreto generale serve a
designare gli attri- buti che sono impliciti nel suo significato ». Con-
seguentemente Mill distinse la C. dalla denotazione: «Ogni volta che i nomi
dati agli oggetti apportano qualche informazione, cioè ogni volta che essi,
propriamente, hanno un significato, il significato risiede non in ciò che essi
denotano, ma in ciò che essi connotano. I soli nomi di oggetti che non con-
notano niente sono i nomi propri; e questi, stretta- mente parlando, non hanno
significato » (Logic, I, 2, $ 5). In questo senso i nomi degli attributi sono
connotativi, perchè la parola « bianco » non denota tutti gli oggetti bianchi,
ma connota l’attributo della bianchezza. Nomi connotativi sono anche « il primo
imperatore di Roma » o « l’autore dell’Iliade +, ecc. Questo concetto di C.
corrispondeva a quello che la Logica di Porto Reale aveva designato col termine
di comprensione (v.). Alla coppia compren- sione-estensione della Logica di
Porto Reale corri- sponde perciò la coppia C.-denorazione della Lo- gica di
Stuart Mill e quella intensione-estensione (v.) della logica leibniziana e
contemporanea. Qualche volta, tuttavia, è stato fatto il tentativo di distin-
guere C. da comprensione, adottando entrambi i termini. Così J. N. Keynes
(Forma! Logic, I, 2) e Goblot (Traité de logique, $ 72) dettero a «C.» il
significato più ristretto di ciò che è compreso nella definizione convenzionale
di un termine, e a « comprensione » il significato più ampio di com- prensione
totale che includa tutte le determinazioni non escluse dalla definizione
stessa. Questa distin- zione tuttavia non è stata seguita e il termine mo-
derno di intensione comprende entrambi i signifi- cati proposti per
comprensione e connotazione. CONOSCENZA (gr. visow; lat. Cognitio; ingl.
Knowledge; franc. Connaissance; ted. Erkennt- niss), In generale,
una tecnica per l’accertamento di un oggetto qualsiasi, o la disponibilità o il
pos- sesso di una tecnica siffatta. Per tecnica di accer- tamento va intesa una
qualsiasi procedura che renda possibile la descrizione, il calcolo o la pre-
visione controllabile di un oggetto; e per oggetto va intesa qualsiasi entità,
fatto, cosa, realtà o proprietà, che possa essere sottoposto a una tale
procedura. Tecnica in questo senso è l’uso normaledi un organo di senso come la
messa in opera di complicati strumenti di calcolo: entrambi questi procedimenti
consentono infatti accertamenti con- trollabili. Non è da presumersi che tali
accertamenti siano infallibili ed esaurienti: cioè che sussista una tecnica di
accertamento tale che, una volta adope- rata nei confronti di una C. x, renda
inutile il suo ulteriore impiego nei confronti della stessa C., senza che
questa perda nulla della sua validità. La controllabilità delle procedure di
accertamento, grossolane o raffinate che siano, significa la ripe- tibilità
delle loro applicazioni, sicchè una C. « ac- certabile » o più semplicemente
una «C.+ rimane tale solo finchè sussiste la possibilità dell’accer- tamento.
Le tecniche di accertamento possono avere, tuttavia, i più diversi gradi di
efficacia e possono, al limite, avere efficacia minima o nulla: in questo caso,
decadono di diritto dal rango di conoscenze. « La C. di x» significa infatti
una pro- cedura che è in grado di fornire qualche informa- zione controllabile
intorno a x cioè che consenta di descriverlo, calcolarlo o prevederlo in certi
li- miti. La disponibilità o il possesso di una tecnica conoscitiva designa la
partecipazione personale a questa tecnica. «Io conosco x» significa (salvo
limitazioni) che sono in grado di porre in opera una procedura che rende
possibile la descrizione, il calcolo o la previsione di x. Il significato
perso- nale o soggettivo di C. è perciò da ritenersi secon- dario e derivato:
il significato primario è quello oggettivo e impersonale su esposto. Questo
signi- ficato primario consente pure di distinguere age- volmente la credenza
dalla C.: la credenza (v.) è l’impegno alla verità di una nozione qualsiasi,
anche non accertabile; la C. è una procedura di accertamento o la
partecipazione possibile ad una tale procedura. Come procedura di accertamento,
ogni opera- zione conoscitiva è diretta ad un oggetto e ténde a instaurare con
l’oggetto stesso un rapporto dal quale emerga una caratteristica effettiva di
esso. Pertanto le interpretazioni della C. che sono state date nel corso della
storia della filosofia si possono considerare come interpretazioni di questo
rapporto e come tale ricondurre a due alternative fondamen- tali: 1° per la
prima di esse, quel rapporto è una identità o simiglianza (intendendosi per
simiglianza un’identità debole o parziale) e l'operazione cono- scitiva è una
procedura di identificazione con l'oggetto o di riproduzione di esso; 2° per la
se- conda alternativa, il rapporto conoscitivo è una presentazione dell’oggetto
e l’operazione conosci- tiva una procedura di trascendenza. 1° La prima
interpretazione è quella più co- munemente ricorrente nella filosofia
occidentale. Essa si può a sua volta dividere in due fasi di- CONOSCENZA 157
verse: A) nella prima di esse, l’identità o la simi- glianza con l’oggetto
viene intesa come identità o simiglianza degli elementi della C. con gli
elementi dell’oggetto: per es., dei concetti o delle rappre- sentazioni con le
cose; 8) nella seconda fase, invece, l’identità o la simiglianza viene
ristretta all’ordine dei rispettivi elementi: nel qual caso l’operazione del
conoscere consiste nel riprodurre, non già l’og- getto, ma i rapporti
costitutivi dell’oggetto stesso cioè l’ordine dei suoi elementi. Nella prima
fase la C. è considerata come un’immagine o ritratto del- l'oggetto; nella
seconda fase, sta con l’oggetto nello stesso rapporto in cui una carta
geografica sta col paesaggio che rappresenta. A) La prima fase costituisce la
forma nella quale la dottrina della C. come identificazione è apparsa nel mondo
antico. I presocratici la espres- sero col principio che « il simile conosce il
simile », per cui Empedocle affermava che conosciamo la terra con la terra,
l’acqua con l’acqua, ecc. (Fr. 105, Diels). Varianti di questo principio
possono essere considerati sia l’affermazione di Eraclito « ciò che si muove
conosce ciò che si muove » (ARIST., De an., I, 2, 405 a 27) sia quella di
Anassagora secondo la quale «l’anima conosce il contrario col con- trario »
(TEOFR., De sens., 27). Quest'ultima infatti sembra alludere più ad una
condizione della C. — che presuppone la diversità, come dirà Aristo- tele (De
an., II, 5, 417a 16) — che allo stesso atto conoscitivo, come ìndica la
giustificazione che gli viene data: «il simile infatti non può subire l’azione
del simile ». Ma furono Platone e Aristo- tele che stabilirono su solide basi
questa interpre- tazione della conoscenza. L’incontro del simile col simile,
l'omogeneità, sono i concetti di cui Platone si serve per spiegare i processi
conoscitivi (7im., 45 c, 90c-d): conoscere significa rendere simile il pensante
al pensato. Di conseguenza, i gradi di C. si modellano sui gradi dell'essere:
non si può co- noscere con certezza cioè con « saldezza » ciò che non è saldo
perchè la C. non fa che riprodurre l’oggetto; sicchè « ciò che assolutamente è,
è asso- lutamente conoscibile, mentre ciò che non è in nessun modo, in nessun
modo è conoscibile» (Rep., 477 a). In tal modo all'essere, Platone fece
corrispondere la scienza, che è la C. vera; al non essere l’ignoranza e al
divenire, che sta in mezzo tra l'essere e il non essere, l’opinione che sta in
mezzo tra la C. e l’ignoranza. E distinse i seguenti gradi della C.: 1° la
supposizione o congettura che ha per oggetto ombre ed immagini delle cose
sensibili; 2° l’opinione creduta ma non verificata che ha per oggetto le cose
naturali, gli esseri viventi e in generale il mondo sensibile; 3° la ragione
scien- tifica che procede per via d’ipotesi ed ha per oggetto gli enti
matematici; 4° l'intelligenza filosofica che procede dialetticamente ed ha per
oggetto il mondo dell’essere (Zbid., VI, 509-10). Ognuno di questi gradi di C.
è la copia esatta del suo oggetto ri- spettivo: sicchè non c’è dubbio che
conoscere sia per Platone stabilire in ogni caso con l'oggetto un rapporto
d’identità o che si avvicini quanto più possibile all’identità. In forma ancora
più rigorosa questo punto di vista veniva realizzato da Aristo- tele. Secondo
Aristotele, la C. in atto è identica con l’oggetto conosciuto: è cioè la stessa
forma sen- sibile dell’oggetto, se si tratta di C. sensibile; è la stessa forma
intelligibile (o sostanza) dell’oggetto se si tratta di C. intelligibile (De
an., II, 5, 417 a). La facoltà sensibile e l’intelletto potenziale sono,
s’intende, semplici possibilità di conoscere; ma quando queste possibilità si
realizzano, per l’azione delle cose esterne la prima, per l’azione dell’intel-
letto attivo la seconda, s’identificano con i rispettivi oggetti e, per es.,
l’udire un suono (sensazione in atto) s’identifica con il suono stesso come
l’in- tendere una sostanza s’identifica con la sostanza stessa. Aristotele può
affermare perciò in generale che «la scienza in atto è identica col suo oggetto
» (De an., III, 7, 431 a 1). Questa dottrina aristotelica si può considerare
come la forma tipica dell’interpretazione della C. come identità con l’oggetto.
Tale interpretazione domina, con l’eccezione degli Stoici, il corso ulte- riore
della filosofia greca. Per Epicuro il flusso dei simulacri (eidola) che si
staccano dalle cose e si imprimono sull’anima serve appunto a garantire la
simiglianza delle immagini con le cose (Ep. @ Erod., 51). E Plotino si avvale
dello stesso concetto per chiarire la natura della conoscenza. La C. si ha
quando la parte dell'anima con cui si conosce si unifica e fa tutt'uno con l'oggetto
conosciuto. Se l’anima e quest’oggetto rimangono due, l’og- getto rimane
esterno all’anima stessa e la cono- scenza di esso rimane inoperante. Solo
l'unità dei due termini costituisce la conoscenza vera (Enn., III, 8, 6). Nella
filosofia cristiana la stessa inter- pretazione prevale, ed è anzi il
fondamento delle più caratteristiche speculazioni teologiche e antro-
pologiche. Secondo S. Agostino, l’uomo può co- noscere Dio in quanto egli
stesso è immagine di Dio. Memoria, intelligenza e volontà, nella loro unità e
distinzione reciproca, riproducono nel- l’uomo la trinità divina di Essere,
Verità e Amore (De Trin., X, 18). Questa nozione, pur variando nei particolari
dominò l’intera teologia medievale e fu anche il fondamento dell’antropologia.
Ma da essa derivava una conseguenza importante per la C. che l’uomo ha delle
cose inferiori a Dio. Il riconoscimento dell’origine divina dei poteri umani
(in quanto immagini dei poteri divini) rende i poteri umani relativamente
indipendenti dagli altri oggetti conoscibili e accentua l’importanza del sog-
getto conoscente. Per Aristotele, la facoltà sen- sibile e l’intelletto
potenziale non sono che i loro stessi oggetti «in potenza»: non hanno nessuna
indipendenza di fronte a questi oggetti. Ma S. Ago- stino afferma invece che
«ogni C. (noritia) deriva insieme dal conoscente e dal conosciuto» (/bid., XIX,
12), mettendo così sullo stesso piano l’oggetto conosciuto e il soggetto
conoscente come condi- zione della conoscenza. S. Tommaso, pur sanzio- nando
esplicitamente il principio che ogni C. av- viene per assimilationem (Contra
Gent., II, 77) o per unionem (In Sent., I, 3, 1) della cosa conosciuta e
dell’oggetto conoscente, afferma che «l’oggetto conosciuto è nel conoscente
secondo la natura del conoscente stesso » (De Ver., q. 2, a.1; S. Th., I, q.
83, a. 1); e così il peso del soggetto viene a bilan- ciare nel conoscere il
peso dell’oggetto. Questo punto di vista porta a temperare la tesi aristotelica
secondo la quale la C. in atto è l’oggetto stesso. S. Tommaso, commentando
l’affermazione aristo- telica che « l’anima è tutte le cose » (De an., III, 8,
431 b 20) la attenua nel senso che l’anima non è le cose ma le specie delle
cose. Ma la specie non è altro che la forma della cosa: C. è quindi astra-
zione: astrazione della forma dalla materia indivi- duale, dell’universale dal
particolare. La specie deli- mita così, per S. Tommaso, il confine
dell'identità tra il conoscente e il conosciuto;ma il conoscere rimane
identità. A sua volta, S. Bonaventura, pur rimanendo fedele al principio
agostiniano di un lumen directivum che l’uomo attinge direttamente da Dio e da
cui derivano certezza e verità, ammette che il materiale della C. è costituito
da specie che sono immagini, similitudini 0 « quasi pitture » delle cose stesse
(/n Sent., I, d. 17, a. 1, q. 4). Se l’ultima scola- stica segna il prevalere
di una diversa interpreta- zione del conoscere (v. oltre), il Rinascimento con-
serva in generale l’interpretazione della C. come identità o simiglianza.
Cusano dice esplicitamente che l’intelletto non intende se non si assimila a
ciò che deve intendere (De mente, 3; De lglobi, 1; De venatione sapientiae, 29)
e Ficino dice che la C. è l’unione spirituale con qualche forma spirituale
(Theol. Plat., III, 2). I naturalisti non si esprimono in modo diverso: Bruno
riprende il principio presocratico che ogni simile si conosce col simile; e
Campanella afferma « noi conosciamo ciò che è, perchè ci rendiamo simili ad
esso » (Mer., I, 4, 1). Il pitagorismo dei fondatori della nuova scienza,
Leonardo, Copernico, Keplero, Galilei, ha un presupposto analogo: il
procedimento matema- tico della scienza si giustifica perchè la natura stessa
ha struttura matematica: nel senso che, come Galilei dice, i caratteri in cui è
scritto il libro della natura sono triangoli, cerchi, ecc. (Opere, VI, pag.
232). CONOSCENZA Nella filosofia moderna, la dottrina che il cono- scere è
un’operazione di identificazione assume tre forme principali, a seconda che
tale operazione si ritiene effettuata mediante: a) la creazione che il soggetto
fa dell'oggetto; 5) la coscienza; c) il lin- guaggio. a) L’idealismo romantico
e le sue diramazioni contemporanee hanno affermato la tesi che cono- scere
significa porre, cioè produrre o creare, l’og- getto: tesi la quale consente di
riconoscere nell’og- getto stesso la manifestazione o l’attività del soggetto.
Questa tesi fu per la prima volta affer- mata da Fichte. « La rappresentazione
in generale, egli disse, è inconfutabilmente un effetto del Non-io. Ma nell’Io
non può esserci assolutamente nulla che sia un effetto; perchè l’Io è quel che
esso si pone e non v’è nulla in lui che non sia posto da lui. Quindi quello
stesso Non-io dev'essere un ef- fetto dell’Io, anzi dell'Io assoluto e così non
ab- biamo un’azione sull’Io dal di fuori ma solo una azione dell’Io su se
stesso» (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, D. Da questo punto di vista il
Non-io, cioè l’oggetto, non è che l’Io stesso cioè il soggetto: l’identità con
l’oggetto è così garan- tita dalla stessa definizione della conoscenza. La
quale, ovviamente, è una definizione arbitraria che non ha effetto sulla
riuscita o meno degli effettivi atti di C. e non serve perciò nè a dirigere nè
a chiarire questi atti. Il principio affermato da Fichte fu tuttavia tra quelli
che costituirono i pilastri del movimento romantico (v. ROMANTICISMO); e uno
dei luoghi comuni più perniciosi e stucchevoli, quello del «potere creativo
dello spirito », trova in esso la sua origine. Di esso Schelling non faceva che
chiarire il significato quando affermava: « Nello stesso fatto del sapere —
quando io so — l’ogget- tivo e il soggettivo sono così uniti che non si può
dire a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo:
sono entrambi contem- poranei e costituiscono un tutto unico » (System des
transzendentalen Idealismus, Intr., $ 1). Il concetto del conoscere come
processo di unificazione domina da un capo all’altro la filosofia di Hegel. La
protago- nista di questa filosofia, l’Idea, è la coscienza che si realizza,
gradualmente e necessariamente, come unità con l’oggetto. Dice Hegel: « L'Idea
è in primo luogo uno degli estremi di un sillogismo in quanto è il concetto che
ha come scopo innanzitutto se stesso come realtà soggettiva. L’altro estremo è
il limite del soggettivo, il mondo oggettivo. I due estremi sono identici
nell’essere l’Idea. L’unità loro è in primo luogo quella del concetto che
nell’uno di essi è soltanto per sè, nell’altro soltanto in sè; in se- condo
luogo, la realtà è astratta nell’uno, mentre nel- l’altro è nella sua
esteriorità completa. Questa unità viene ora posta per mezzo del conoscere »
(Wissen- CONOSCENZA schaft der Logik, III, 3, cap. II; trad. ital., pag. 282).
Il conoscere è così il processo che unifica il mondo soggettivo con il mondo
oggettivo; o meglio che porta alla coscienza l’unità necessaria dei due. Tutte
le forme dell’idealismo contemporaneo si attengono a questa dottrina. Croce la
introduce chiamando «concreto» il concetto: per il qual carattere si dovrebbe
escludere che esso sia « uni- versale e vuoto», « universale e inesistente» ed
ammettere che esso comprende in sè « l'atto logico universale » e il «
pensamento della realtà » che è poi la stessa realtà (Logica, 4° ediz., 1920,
pag. 29). Gentile affermava: « Conoscere è identificare, su- perare l’alterità
come tale » (Teoria generale dello Spirito, 2, $ 4). A sua volta Bradley, più
critica- mente, considerava questa identificazione come un ideale-limite
irrealizzabile in noi, ma realizzato nella Coscienza assoluta nella quale C. ed
essere, verità e realtà coincidono (Appearance and Reality, pag. 181). 5) Lo
spiritualismo moderno in tutte le sue manifestazioni considera il conoscere
come un rap- porto interno della coscienza cioè come un rapporto della
coscienza con se stessa. Questa interpreta- zione garantisce l’identità del
conoscere con l’og- getto: giacchè l’oggetto, da questo punto di vista, non è
che la coscienza stessa o almeno un suo prodotto o una sua manifestazione.
Schopenhauer così esprimeva questa dottrina: « Nessuno può mai uscire da sè per
identificarsi immediatamente con cose diverse da sè: tutto ciò di cui egli ha
C. si- cura, quindi immediata, si trova dentro la sua coscienza » (Die Welt,
II, cap. I). Coscienza, senso intimo, introspezione, intùito, intuizione, sono
i termini che la filosofia moderna, a partire dal Romanticismo, adopera per
indicare la C. carat- terizzata dall’identità con il suo oggetto, perciò
privilegiata nella sua certezza. La considerazione di base è qui che, se il
soggetto non può co- noscere ciò che è altro da sè, la sola C. vera e
originaria è quella che esso ha di se stesso. Su questa base Maine de Biran
vedeva nel « senso intimo » la sola C. possibile e ne interpretava le
testimonianze come verità metafisiche (Essais sur les fondements de la
psychologie, 1812). Altre volte, la coscienza, anche detta intùito o
intuizione, è in- terpretata come la rivelazione che Dio fa all'uomo o di un
suo attributo fondamentale (per es., del- l'essere, come afferma ROSMINI, Nuovo
saggio, $ 473) o del suo stesso processo creativo, come fa Gioberti (Znrr. allo
studio della fil., II, pag. 183). In modo analogo, l’intuizione di cui parla
Bergson come « visione diretta dello spirito da parte dello spirito » (La
Pensée et le Mouvant, pag. 37) è una procedura privilegiata di C., nella quale
il termine oggettivo è identico con il soggettivo. E quando Husserl ha voluto
chiarire il modo d’essere privi- legiato della coscienza, ha chiamato «
percezione immanente » quella che la coscienza ha delle proprie esperienze
vissute: perchè l’oggetto di essa appar- tiene alla stessa corrente di
coscienza a cui appar- tiene la percezione (/deen, I, $ 38). La percezione
immanente, cioè la coscienza è, su questa base, considerata da Husserl assoluta
e necessaria: in essa «non vi è posto per discordanza, apparenza, possibilità
di essere altra cosa. Essa è una sfera di assoluta posizione + (/bid., $ 46).
La esemplifi- cazione fin qui data può bastare per questo punto di vista, che è
molto diffuso nella filosofia contem- poranea ma, nonostante la varietà delle
sue espres- sioni, altrettanto uniforme. c) Il positivismo logico ha
paradossalmente trasportato nel linguaggio, in cui esso vede la vera e propria
operazione conoscitiva, la dottrina del carattere identificatorio di questa
operazione. Witt- genstein afferma che «la proposizione può essere vera o falsa
solo in quanto è una imagine (Bild) della realtà » (Tractatus, 4.06). Che la
proposizione sia un’imagine della realtà, Wittgenstein lo prova così: «Io
infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata se capisco la
proposizione. E capisco la proposizione senza che il suo senso mi venga
spiegato » (/bid., 4.021). A prima vista, egli aggiunge, «non sembra che la
proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta, sia una imagine della
realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista
una imagine della musica nè la nostra scrittura fo- netica (a lettere) sembra
un’imagine del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si di-
mostrano, anche nel senso ordinario del termine, come imagini di ciò che
rappresentano» (/bid., 4.011). L’insistenza sulla nozione di imagine in- dica
chiaramente che Wittgenstein condivide la vecchia interpretazione del conoscere
come opera- zione di identificazione. Egli infatti dice: « Ci deveessere
qualcosa di identico nell’imagine e nel-l’oggetto raffigurato affinchè quella
possa essere l’imagine di questo » (/bid., 2.161). Ma questo qualcosa di
identico è « la forma di raffigurazione » (Ibid., 2.17). E la forma di
raffigurazione è «la possibilità che le cose stiano l’una rispetto all’altra
come stanno tra loro gli elementi dell’imagine » (Ibid., 2.151). E questo
sembra rinviare alla inter- pretazione 8) del rapporto identificatorio. B) La
seconda fase della dottrina della C. come identificazione nasce con la
filosofia moderna e precisamente con Cartesio. Il principio carte- siano che
l’idea è il solo oggetto immediato della C. e che perciò l’esistenza dell’idea
nel pensiero non dice nulla sull’esistenza dell’oggetto rappresentato, metteva
ovviamente in crisi la dottrina del cono- scere come identificazione con
l'oggetto: l’oggetto è infatti, in questo caso, chiaramente irraggiungi- bile.
Cartesio aveva continuato a concepire l’idea come «quadro» o «imagine» della
cosa (Méd., TIM); ma già in lui compare la tendenza (cfr. Re- gulae, V) a
scorgere nella C., più che l'assimilazione o l’identità dell’idea coll’oggetto
conosciuto, l’as- similazione e l’identità dell’ordine delle idee con l’ordine
degli oggetti conosciuti. Malebranche, il quale ammette che l’uomo vede
direttamente in Dio le idee delle cose e considera perciò fortemente
problematica la realtà delle cose stesse, ammette tuttavia questa realtà come
fondamento dell’ordine e della successione delle idee nell’uomo; ordine e
successione non avrebbero senso, egli pensa, se non coincidessero con l’ordine
e la successione delle cose cui le idee si riferiscono (Entretien sur la
Métaphy- sique, I, 6-7). Spinoza che ammette tre generi di C. (la percezione
sensibile e l’imaginazione; la ra- gione con le sue nozioni comuni e
universali; la scienza intuitiva) ritiene che solo i due ultimi con- sentano di
distinguere il vero dal falso perchè tolgono l’idea dal suo isolamento e la
collegano con le altre idee, situandola nell’ordine necessario che è la stessa
Sostanza divina (Er., II, 44). Locke che definisce la C. come « la percezione
dell’accordo e del legame o del disaccordo e del contrasto delle idee tra di
loro » (Saggio, IV, 1, 2) esige, affinchè essa sia reale, che « le idee
rispondano ai loro ar- chetipi » (Zbid., IV, 4, 8) e perciò definisce la verità
come «l’unione o separazione di segni, secondo che le cose significate da esse
concordino o discor- dino tra di loro» (/bid., IV, 5, 2). Locke ritiene che
questo riferimento ad oggetti reali non sia indispensabile alla C. matematica e
a quella mo- rale, mentre lo è alla « C. reale » che ha per oggetto sostanze
(/bid., IV, 4, 12). Per Leibniz, accanto alla C. @ priori, fondata sui princìpi
costitutivi dell’intelletto c'è una C. rappresentativa la quale consiste nella
simiglianza delle rappresentazioni con la cosa (Nouv. Ess., IV, 1, 1). Ma l’una
e l’altra C. fanno dell'anima «uno specchio vivente, per- petuo dell’universo »
perchè entrambe sono fon- date sul legame che tutte le cose create hanno tra loro
sì che « ciascuna sostanza semplice ha rapporti che esprimono tutti gli altri »
(Monad., 56). In tutte queste notazioni, sebbene non venga negato il ca-
rattere di simiglianza o di imagine degli elementi conoscitivi, la C. viene
intesa propriamente come identità con l’ordine oggettivo. L'oggetto di essa è
propriamente quest'ordine e il conoscere è l’ope- razione che ténde a
identificare o identificarsi con esso e non già con gli elementi singoli tra i
quali intercede. A questo proposito la « rivoluzione co- pernicana » di Kant
non consiste nell’innovare ra- dicalmente questo concetto di C., quanto
nell’am- mettere che l’ordine oggettivo delle cose si modella CONOSCENZA sulle
condizioni della C. e non viceversa. Le ca- tegorie sono infatti considerate da
Kant come « concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni e perciò alia
natura come insieme di tutti i feno- meni » (Crit. R. Pura, $ 26). I fenomeni
non es- sendo « cose in se stesse » ma « rappresentazioni di cose » devono per
essere tali esser pensati e così sottostare alle condizioni del pensiero che
sono appunto le categorie. L’ordine oggettivo della na- tura non è quindi
altro, secondo Kant, che l’ordine stesso dei procedimenti formali del conoscere
in quanto quest'ordine si è incorporato in un con- tenuto oggettivo che è il
materiale sensibile dell’in- tuizione. Da questo punto di vista il conoscere
non è un’operazione di assimilazione o di identi- ficazione, ma di sintesi; e
come tale va considerato sotto l’altra rubrica, della C. come trascendenza.
Tutta questa fase della dottrina della C. come assimilazione, per cui l’oggetto
dell’assimilazione è l'ordine, si può considerare come situata fra la prima e
la seconda interpretazione principale del conoscere: cioè tra l’interpretazione
del conoscere come assimilazione e l’interpretazione del cono- scere come
trascendenza. 2° Per la seconda interpretazione fondamentale, la C. è
un’operazione di trascendenza. Secondo questa dottrina, conoscere significa
venire in pre- senza dell’oggetto, puntare su di esso 0, col termine preferito
dalla filosofia contemporanea, trascendere verso di esso. La C. è allora
l'operazione in virtù della quale l’oggetto stesso è presente: o presente per
così dire in persona o presente in un segno che lo renda rintracciabile o
descrivibile o prevedi- bile. Questa interpretazione non si fonda su alcuna
assunzione di carattere assimilatorio o identificatorio: i procedimenti del
conoscere non mirano, per essa, a convertirsi con l’oggetto stesso del
conoscere. Mirano piuttosto a rendere presente questo oggetto come tale o a
stabilire le condizioni che rendono possibile la sua presenza, cioè consentono
di pre- vederla. La presenza dell’oggetto o la predizione di questa presenza,
ecco la funzione effettiva della C., secondo questa interpretazione. Per la
prima volta, tale interpretazione compare negli Stoici. Essi chiamavano
evidenti le cose che «vengono di per se stesse alla nostra C.+ come, per es.,
l’esser giorno; e chiamavano « oscure » quelle che sfuggono solitamente alla C.
umana. Tra queste ultime, distinguevano poi quelle oscure per natura, che non
cadono mai sotto la nostra evidenza, e quelle oscure momentaneamente ma
evidenti per natura (per es., la città di Atene a chi non vi risiede). Queste
due ultime specie di cose si comprendono per mezzo di segni; mediante segni
indicativi le cose oscure per natura (come, per es., il sudore si assume come
segno degli invisibili pori) CONOSCENZA e mediante segni rammemorativi le cose
evidenti per natura ma oscure momentaneamente (come il fumo è un segno del
fuoco) (SESTO EMP., Adv. Dogm., II, 141; /pot. Pirr., II, 97-102). Sono
riconoscibili in questa impostazione due tesi fondamentali, e cioè: 1° la C.
evidente consiste nella presenza della cosa, per cui la cosa «si manifesta da
sè» o «si comprende da sè » cioè si comprende come cosa, quindi come altro da
chi la comprende; 2° la C. non evidente avviene per mezzo di segni che rin-
Viano alla cosa stessa senza avere una qualsiasi identità o simiglianza con
essa. Questa dottrina degli Stoici è rimasta per lunghi secoli inoperante, come
una possibilità che la storia della filosofia ha trascurato. Comincia a
riaffac- ciarsi soltanto nella Scolastica del ’300, coi pen- satori che
criticano la dottrina della species come intermediaria della conoscenza. La
species, come si è visto, è una tesi tipica della dottrina dell’assi-
milazione: essa è infatti insieme l’atto della C. e l'atto dell’oggetto (come
forma o sostanza di que- st’ultimo). Ma Duns Scoto aveva distinto una C. «che
astrae dall’esistenza attuale della cosa » e che chiamava astrattiva, e una «
C. della cosa in quanto esiste ed è presente nella sua esistenza attuale » che
aveva chiamata inzuitiva (Op. Ox., II, d. 3, q. 9, n. 6). Ora la C. intuitiva
(che è da un latoquella sensibile, dall’altro quella intellettuale che ha per
oggetto la sostanza o natura comune, per es., la natura umana) non ha bisogno
di specie perchè ad essa è direttamente presente la cosa in persona. Solo la C.
astrattiva, cioè la C. intellettuale del-l'universale, ha bisogno di specie
(/bid., I, d. 3, q. 7, n. 2). A questa dottrina fa riferimento la Scolastica
del ’300. Durando di St.-Pourgains af- ferma che la specie è inutile perchè
l’oggetto stesso è presente al senso, e, attraverso il senso, anche
all'intelletto (Zr Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10); e che pertanto la C.
universale non è che C. confusa, nel senso che chi ha la C. universale, per
es., della rosa, conosce confusamente ciò che è intuito di- stintamente da chi
vede la rosa che gli è presente (Ibid., IV, d. 49, q. 2, n. 8). Per Pietro
Aureolo l'oggetto della C. è la stessa cosa esterna che as- sume, per opera
dell’intelletto, un essere intenzio- nale od obiettivo che non è diverso dalla
stessa realtà individuale della cosa (In Sent., I, d. 9, a. 1). Ockham a sua
volta trasforma la teoria scotistica della C. intuitiva in una teoria
dell’esperienza ed afferma l’immediata presenza della cosa alla C. in- tuitiva.
«In nessuna C. intuitiva, nè sensibile nè intellettiva, egli dice, la cosa si
costituisce in un essere intermedio tra la cosa stessa e l’atto di co- noscere;
ma la cosa medesima immediatamente e senza intermediario tra sè e l’atto, è
vista ed ap- presa » (In Sent., I, d. 27, q. 3, I). La C. intuitiva 11 —
ABBAGNANO, Disionario di filosofia. perfetta, che ha per oggetto una realtà
attuale o presente, è l’esperienza (/bid., II, q. 15, H); quella imperfetta,
che concerne un oggetto passato, de- riva sempre da un’esperienza (/bid., IV,
q. 12, Q). A sua volta, la C. astrattiva, che prescinde dalla realtà o irrealtà
dell’oggetto deriva da quella in- tuitiva ed è una intentio o signum. Ockham
ripro- duce così l’interpretazione degli Stoici: quando la realtà non è
presente alla C. «in persona», si annuncia o si manifesta nel segno. La
validità del segno concettuale, che a differenza di quello lin- guistico non è
arbitrario o convenzionale ma na- turale, deriva dal fatto che esso è prodotto
natu- ralmente, cioè causalmente, dall’oggetto stesso, sicchè la sua capacità
di rappresentare l'oggetto non è altro che questa sua connessione causale con
esso (Quodi., IV, q. 3). Ockham si avvale poi per illustrare la funzione logica
del segno di quel concetto della suppositio che era stato elaborato dalla
logica del ’200 (v. SEGNO; SUPPOSIZIONE). Nel sec. xv i capisaldi di questa dottrina
venivano riprodotti da Hobbes: per il quale la sensazione, che è il fondamento
di ogni C., è il manifestarsi della cosa attraverso il movimento da essa
impresso all’organo di senso (Leviath., I, 1; De Corp., 25,82). Alla causalità
della cosa esterna, cui questi filosofi attribuiscono la C., Berkeley
sostituiva la causalità di Dio: la teoria che le cose conosciute sono segni
mediante i quali Dio parla ai sensi o all’intelli- genza dell’uomo per
istruirlo su ciò che deve fare (Principles of Knowledge, $ 108-09) è una
trascrizione teologica di questa dottrina della conoscenza. Nel frattempo, con
il cartesianesimo e specialmente con Locke, si era venuto formando il concetto
della C. come operazione unificatrice: unificatrice di idee, cioè di stati che
cadono dentro la coscienza, ma ilcui collegamento corrisponde o deve
corrispondere a quello delie cose [v. 1° B)]. Eliminata da Berkeley la sostanza
materiale e da Hume ogni specie di sostanza, il collegamento tra le idee veniva
ad esaurire la funzione dell’attività conoscitiva. Così Hume ritiene che ogni
operazione conoscitiva sia un'operazione di connessione fra le idee: operazione
di connessione è il ragionamento per il quale si mostra il legame che le idee
hanno tra loro, indipen- dentemente dalla loro esistenza reale; operazione di
connessione tra le idee è la C. della realtà di fatto. Nel primo caso la
connessione è certa perchè non dipende da nessuna condizione di fatto; nel
secondo caso si fonda sulla relazione di causalità. Ma questa stessa relazione
non ha altro fondamento che la ripetizione di una certa successione di eventi e
l'abitudine che tale ripetizione determina nel- l’uomo (/ng. Conc. Underst.,
IV, 1). Questo concetto della C. come operazione di connessione o di
collegamento, che non ha più niente a che fare con l’identificazione o
l’assimila- zione con l'oggetto, è detta da Kant operazione di sintesi. La
sintesi è in generale « l’atto di riunire diverse rappresentazioni e
comprendere la loro molteplicità in una C.» (Crit. R. Pura, $ 10). Ma la
sintesi conoscitiva non è solo, per Kant, una operazione di collegamento tra
rappresentazioni: è anche un’operazione di collegamento con l’og- getto di
queste rappresentazioni per il tramite del- l’intuizione. «Se una C. deve avere
una realtà oggettiva, dice Kant, cioè riferirsi a un oggetto e avere in esso
significato e senso, l’oggetto deve, in un modo qualsiasi, poter essere dato.
Senza di questo, i concetti sono vuoti, e se anche con essi si pensa, in fatto
questo pensiero non conosce nulla ma soltanto gioca con le rappresentazioni.
Dare un oggetto, se questo a sua volta non deve essere opinato indirettamente
ma rappresentato immediatamente nell’intuizione, non è altro che connettere la
sua rappresentazione con l’esperienza (sia questa reale o possibile) » (Ibid,
Analitica dei princìpi, cap. II, sez. ID. Pensare un oggetto e conoscere un
oggetto non sono dunque la stessa cosa. «La C. comprende due punti: in primo
luogo un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria) e in
secondo luogo l’in- tuizione con cui esso è dato +» (/bid., $ 22). L’in-
tuizione ha questo privilegio: che essa si riferisce immediatamente all’oggetto
e che per mezzo di essa l'oggetto è dato (/bid., $ 1). Sicchè non c’è dubbio
che l’operazione del conoscere ténda a rendere pre- sente l’oggetto nella sua
realtà: un oggetto, s'intende, che è fenomeno, giacchè la « cosa in sè » è, per
de- finizione, estranea a ogni rapporto conoscitivo. Senza questa limitazione
relativistica, che a Kant, come a tutta la filosofia illuministica, era
suggerita dall’impostazione cartesiano-lockiana della analisi della C., il
concetto della C. come dell’operazione del riferirsi o del rapportarsi con
l’oggetto e perciò pure del processo per cui l’oggetto si offre o si presenta
in persona, diventa, nella filosofia con- temporanea, proprio della
fenomenologia e delle correnti che ad essa fanno capo. « Ad ogni scienza, dice
Husserl, corrisponde un campo oggettivo come dominio delle sue indagini e a
tutte le sue C., cioè ai suoi corretti enunciati, corrispondono determi- nate
intuizioni che ne costituiscono il fondamento di legittimità; in quanto in esse
gli oggetti del campo si presentano in datità personale e, almeno par-
zialmente, in datità originaria » (/Zdeen, I, $ 1). Così l’esperienza, che abbraccia
tutta la C. naturale, è un'operazione intuitiva attraverso la quale unoggetto
specifico, la cosa, è data nella sua realtà originaria. L’esperienza è in
questo senso un atto fondante, non sostituibile da un semplice immagi- nare.
Dall’altro lato, la C. geometrica, che non CONOSCENZA ricerca realtà ma
possibilità ideali, ha come suo atto fondante la visione dell’essenza: tale
visione, esattamente come la percezione empirica, rende at- tuale e presenta in
persona un oggetto: che però non è la cosa dell’esperienza ma l’essenza (/bid.,
$ 8). Considerando la C. da un punto di vista più generale si può dire che
«ogni specie di essere ha per essenza i suoi modi di darsi e quindi il suo
metodo di C. » (/bid., $ 79); e la ricerca fenomeno- logica è, nel progetto di
Husserl, l’analisi di questi modi d’essere come « modi di datità ». In modo
ana- logo, per N. Hartmann la conoscenza è un processo di trascendenza che ha
il suo termine nell’essere «in sé » (Metaphysik der Erkenntnis, 1921, 48 ediz.,
1949, pag. 43 sgg.). In questa impostazione la contrapposi- zionetraartività e
passività nellaconoscenza (contrap- posizione che, nata da Kant, era stata
assunta come motivo polemico dal Romanticismo a cominciare da Fichte) ha
perduto ogni significato. Non è più que- stione di distinguere nel conoscere
l’aspetto attivo, che Kant chiamava « spontaneità intellettuale » dal-
l'aspetto passivo che per Kant era quello della sen- sibilità. Non si tratta
neppure di ridurre l’intera C. alla attività dell'io come ha fatto Fichte e con
lui la intera filosofia romantica, che ha considerato come « infinita » cioè
senza limiti e quindi creatrice questa attività e come tale l’ha esaltata. La
prospettiva storica, che lo stesso Romanticismo ha fatto pre- valere, del
contrasto fra la concezione « classica » cioè antica e medievale per la quale
l’operazione del conoscere sarebbe dominata dall’oggetto, di fronte a cui
l’oggetto è passivo; e la concezione moderna o romantica per la quale la C.
sarebbe attività del soggetto e manifestazione del suo potere creatore, questa
prospettiva stessa appare ora fitti- zia. Si tratta infatti di una prospettiva
interna al Ro- manticismo e di un contrasto che esso ha teorizzato come motivo
polemico. Nè la filosofia antica nè le moderne concezioni oggettivistiche
pretendono stabilire o presuppongono la « passività » del sog- getto
conoscente. Al soggetto conoscente appar- tiene certamente l'iniziativa del
conoscere, anzi questa iniziativa definisce per l’appunto la sua soggettività.
Ma questo non implica nè attività nè passività nel senso stabilito da Fichte.
L'iniziativa del soggetto è invece diretta proprio a rendere presente o
manifesto l’oggetto, a rendere evidente la realtà stessa, a far parlare i
fatti. Ciò che si chiama, con termine abbreviativo, conoscere, è un insieme di
operazioni, talora molto diverse tra loro, che, in campi diversi mirano a far
emergere, nelle loro caratteristiche proprie, certi oggetti specifici. Da
questo punto di vista lo stesso « problema della C. + come sl è venuto
configurando nella seconda metà dell’800, sulla base dell’impostazione
romantica o della polemica contro di essa, come problema CONOSCENZA
dell’attività o della passività dello spirito o dei caratteri di quella sua
«categoria eterna» che sa- rebbe l’attività teoretica, è un problema che si è
dissolto sotto l’azione della fenomenologia da un lato e della filosofia della
scienza e del pragma- tismo dall'altro lato. Nell’àmbito della fenomeno- logia,
Heidegger parla infatti di un annullamento del problema della conoscenza. Il
conoscere non può essere inteso come ciò per cui l’Esserci (cioè l’uomo) « va
da un dentro a un fuori della sua sfera interiore, sfera in cui sarebbe in un
primo tempo incapsulato: al contrario l’Esserci, conformemente al suo modo
d'essere fondamentale è già sempre fuori, presso l’ente che gli viene incontro
in un mondo già sempre scoperto » (Sein und Zeit, $ 13). Secondo Heidegger, il
conoscere è un modo d’es- sere dell’essere-nel-mondo cioè del trascendere del
soggetto verso il mondo. Esso non è mai soltanto un vedere o un contemplare.
Dice Heidegger: «L'essere nel mondo, in quanto prendersi cura, è penetrato e
stordito dal mondo di cui si prende cura » (/bid., $ 13). Il conoscere è in
primo luogo la sospensione del prendersi cura cioè delle atti- vità comuni
della vita di ogni giorno come il ma- nipolare, il commerciare, ecc. Questa
sospensione rende possibile il semplice « osservare che è di volta in volta il
soffermarsi presso un ente, il cui essere è caratterizzato dal fatto che è
presente, che è qui». In questo fermarsi di ogni commercio e utilizzazione, si
realizza la percezione della sem- plice presenza. Il percepire si concretizza
nelle forme dell’interpellare e del discutere intorno a qualcosa in quanto
qualcosa. Sul fondamento di questo interpretare in senso larghissimo, il perce-
pire si fa un determinare. Il percepito o il determi- nato può essere espresso
in proposizioni, nonchè ritenuto e conservato in quanto asserito. Questo ri-
tenimento percettivo d’una asserzione intorno a... è una aniera di essere nel
mondo e non può es- sere considerato come un procedimento in virtù del quale un
soggetto riceverebbe immagini da qualche cosa, immagini che sarebbero di con-
seguenza sperimentate come «interne» sì da far sorgere il problema della loro
concordanza con la realtà «esterna » (/bid., $ 13). Il « problema della C. » e
il « problema della realtà » (v. REALTÀ) come formulati dalla filosofia
dell'’800 sono quindi eli- minati da Heidegger. Tutte le manifestazioni o i
gradi del conoscere: l’osservare, il percepire, il determinare, l’interpretare,
il discutere, il negare e l’asserire, presuppongono il rapporto dell’uomo con
il mondo e sono possibili solo sulla base di questo rapporto. Questa
convinzione è oggi condivisa da filosofi di provenienza diversa, per quanto
venga spesso rivestita da terminologie differenti. Il fondamento che la
suggerisce è sempre lo stesso: l’abban- dono del presupposto che gli « stati
interni » (idee, rappresentazioni, ecc.) siano gli oggetti primari di
conoscenza e che solo a partire da essi possano essere (se mai) inferiti
oggetti di altra natura. La rinuncia a questo presupposto è, per es., esplicita
nel pragmatismo di Dewey, per il quale la C. è semplicemente il risultato di
un’operazione di ri- cerca o più precisamente è l’asserzione valida cui tale
operazione mette capo. Da questo punto di vista, l’oggetto della C. non è
un’entità esterna da raggiungere o da inferire ma è «quel gruppo di distinzioni
o caratteristiche connesse che emerge come costituente definito di una situazione
risolta ed è confermato nella continuità dell’indagine » (Logic, cap. XXV, II;
trad. ital., pag. 666). Poichè frequentemente vengono usati, in una certa inda-
gine, oggetti costituiti in indagini precedenti, questi ultimi sono talora
intesi come oggetti esistenti o reali indipendentemente dall’indagine stessa.
In realtà sono indipendenti dall’indagine in cui ora entrano, ma sono oggetti
solo in virtù di un’altra in- dagine di cui sono il risultato. Eppure, questo
sem- plice equivoco è, secondo Dewey, la base della con- cezione
«rappresentativa» della conoscenza. «L'atto di riferirsi a un oggetto, che è un
oggetto conosciutosolo in virtù di operazioni affatto indipendenti dal- l’atto
stesso di riferimento, è considerato ai fini di una teoria della C. come
costituente per se medesimun caso di C. rappresentativa » (Logic, pag. 667).
Queste idee hanno agito e continuano ad agire potentemente nella filosofia
contemporanea e sono alla base di quella dissoluzione del problema della C. che
è una delle sue caratteristiche. La dissoluzione di questo problema si è
operata in favore da un lato della logica, dall’altro della metodologia delle
scienze. Quest'ultima specialmente è l’erede, nella filosofia contemporanea, di
quanto rimane di va- lido in problemi che venivano solitamente trattati dalla
teoria della conoscenza. Il tratto fondamentale che forma l’oggetto della
metodologia delle scienze è oggi il carattere operativo e anticipatorio dei
pro- cedimenti della scienza. Accenneremo qui soltanto ai primi riconoscimenti
storici di questi caratteri rinviando la loro trattazione più dettagliata alla
voce MeroDoLOGIA. Essi sono riconosciuti dalla scienza solo nella misura in cui
si riconosce che lo scopo fondamentale di essa non è la descrizione ma la
previsione. Questo fine aveva riconosciuto alla scienza già Francesco Bacone; e
nella filo- sofia moderna esso viene riaffermato da Augusto Comte. Tuttavia
solo più tardi gli scienziati stessi lo riconoscono ed assumono esplicitamente.
Ciò cominciò a verificarsi quando Mach riprese la tesi che l’oggetto della C. è
un gruppo di sensa- zioni. « Un colore, dice Mach, è un oggetto fisico fintanto
che noi consideriamo, per es., la sua di- pendenza dalle fonti luminose (altri
colori, calore, spazio, ecc.); ma se lo consideriamo nella sua di- pendenza
dalla retina, esso è un oggetto psicologico, una sensazione. Non la sostanza,
ma la direzione della ricerca è diversa nei due campi» (Analyse der
Empfindungen, 1900; 9° ed. 1922, pag. 14). Da questo punto di vista non sono i
corpi che gene- rano le sensazioni ma piuttosto i complessi di sensazioni che
formano i corpi: questi infatti non sono che simboli per indicare tali
complessi. Con questo sembrerebbe che Mach inclini verso una teoria
rappresentativa della conoscenza. Ma in realtà, nella sua teoria del concetto,
il carattere operativo della C. viene chiaramente riconosciuto. Il concetto
scientifico è difatti, secondo Mach, un segno riassuntivo delle reazioni
possibili dell’orga- nismo umano a un complesso di fatti. Una legge naturale è,
per es., una restrizione delle possibilità di aspettazione cioè una
determinazione della pre- visione (Erkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XXIII.
Gli stessi concetti erano stati presentati da Hertz nei suoi Principi della
meccanica (1894), pur senza l’abbandono totale della concezione pittorica della
conoscenza. « Il più diretto e in un certo sensoil più importante problema che
la nostra C. della natura deve renderci capace di risolvere, diceva Hertz, è
l’anticipazione degli eventi futuri in modo che possiamo disporre le nostre
faccende presenti in accordo con questa anticipazione. Come base per la
soluzione di questo problema, noi facciamo uso della nostra C. degli eventi già
accaduti, ot- tenuta attraverso l’osservazione causale e l’esperi- mento preordinato.
Nell’effettuare così inferenze dal passato al futuro adottiamo costantemente il
procedimento seguente: ci formiamo imagini o simboli degli oggetti esterni e la
forma che diamo a tali simboli è che le necessarie conseguenze della immagine
pensata sono sempre le immagini delle necessarie conseguenze nella natura delle
cose rap- presentate » (Prinzipien der Mechanik, Intr.). Lo sviluppo ulteriore
della scienza ha eliminato il residuo di concezione rappresentativa che ancora
rimaneva nelle dottrine di Mach e di Hertz. Già nel 1930 uno dei fondatori
della meccanica quan- tistica, Dirac, poteva affermare: «Il solo oggetto della
fisica teorica è di calcolare risultati che pos- sono essere messi a confronto
con l’esperimento ed è affatto inutile che sia data una descrizione sod-
disfacente dell’intero sviluppo del fenomeno +» (7he Principles of Quantum
Mechanics, 1930, pag. 7). A questo punto la teoria della C. si è completa-
mente risolta nella metodologia delle scienze. Questo significa che, mentre il
problema della C. come problema di un oggetto « esterno » da raggiungere a
partire da un qualche dato « interno » si è andato dissolvendo, si è proposto
in sua vece il problema della validità delle procedure effettive dirette al-
l’accertamento e al controllo degli oggetti nei campi diversi di indagine.
CONOSCENZA DI SÈ. Il sapere obiettivo, cioè non immediato nè privilegiato, che
l’uomo può acquisire intorno a se stesso. Il termine ha quindi un significato
diverso da autocoscienza (v.) che è la coscienza assoluta o infinita, e anche
da coscienza (v.) che implica sempre un rapporto imme- diato e privilegiato
dell’uomo con se stesso, perciò una C. diretta e infallibile, per quanto
incomunica- bile, di sè. Come invito a una tale C. di sè (e non alla coscienza)
Platone interpreta il socratico motto «Conosci te stesso +: nel Carmide
difatti, esso è interpretato come invito al «saper di sapere +, cioè alla
determinazione e all’inventario di ciò che si sa. « Nè noi stessi ci mettiamo a
fare quello che non sappiamo, ma cerchiamo le persone competenti e ci affidiamo
ad esse; nè permettiamo a quelli che dipendono da noi di far altro da quello
che possono far bene e di cui abbiano scienza + (Carm., 171 c). Kant affermò
che noi possiamo conoscere noi stessi solo allo stesso titolo in cui conosciamo
le altre cose, cioè solo come fenomeni; difatti la C. di sè richiede, secondo
Kant, come ogni altra specie di C., due condizioni e cioè: 1° un elemento
unificatore a priori che in questo caso è l’io penso o appercezione pura (v.); 2°
un molteplice empirico dato che è quello del senso interno (Crif. R. Pura, $
24). Coloro che negano la realtà della coscienza riconoscono che la C. di sè
non si diversifica per modalità e certezza dalla C. degli altri o delle altre
cose (RyLE, Concept of Mind, cap. VI). CONOSCENZA, TEORIA DELLA (inglese
Epistemology, rar. Gnoseology; franc. Gnoséologie, rar. Épistémologie; ted.
Erkenntnistheorie, rar. Gno- seologie). La teoria della C. è detta pure, in
italiano, gnoseologia o, più raramente, epistemologia. In tedesco il termine
Groseologie, coniato dal wolf- fiano Baumgarten ha avuto poca fortuna mentre il
termine Erkenntnistheorie usato dal kantiano Reinhold (Versuch einer neuen
Theorie des mensch- lichen Vorstellungsvermògens, 1789) fu comunemente accettato.
In inglese il termine Epistemology fu intro- dotto da J. F. Ferrier (/nstitutes
of Metaphysics, 1854) ed è il solo comunemente adoperato; Gnoseology è assai
raro. In francese, si adopera comunemente Gno- séologie, più raramente
Épistémologie. Tutti questi nomi hanno lo stesso significato: non indicano,
come spesso ingenuamente si crede, una disciplina filosofica generale, come la
logica o l’etica o l’este- tica, ma piuttosto la trattazione di un problema che
nasce da un presupposto filosofico specifico cioè nell’àmbito di un determinato
indirizzo filoso- fico. Tale indirizzo è quello dell’idealismo (nel senso 1°,
v. IpeALISMO); e il problema la cui tratta- zione è il tema specifico della
teoria della C. è quello della realtà delle cose o in generale del «mondo
esterno ». La teoria della C. poggia su due presupposti: 1° che la C. sia una «
categoria » dello spirito, una « forma » dell’attività umana o del «soggetto »,
che possa essere indagata in univer- sale e in astratto cioè prescindendo dai
partico- lari procedimenti conoscitivi di cui l'uomo dispone fuori e dentro la
scienza; 2° che l’oggetto im- mediato del conoscere sia, come aveva ritenuto
Cartesio, soltanto l’idea o rappresentazione; e che l’idea sia un’entità
mentale, esista cioè solo « dentro » la coscienza o il soggetto che la pensa.
Si tratta quindi di vedere: 1° se a questa idea corrisponde una qualsiasi cosa
o entità «esterna» cioè esi- stente « al di fuori » della coscienza; 2° se, nel
caso che a tale domanda si risponda negativamente, ci sia una differenza, e
quale, tra idee irreali o fantastiche e idee reali. Sono i problemi che aveva
già dibattuto Berkeley, che sono ripresi da Fichte nella Dottrina della scienza
(1794) e che costitui- scono il tema dominante di una ricca letteratura filosofica,
specialmente tedesca, dalla seconda metà dell’800 ai primi decenni del ’900.
Per la sua stessa origine e impostazione, la teoria della C. è ideali- stica.
Anche le soluzioni cosiddette « realistiche » sono in realtà forme di idealismo
in quanto le en- tità che esse riconoscono come « reali » sono, assai spesso,
coscienze o contenuti di coscienze. La cosid- detta Scuola di Marburgo (Ermanno
Cohen, 1842- 1918; Paolo Natorp, 1854-1924) identificava la teoria della C. con
la logica e riduceva a tre le discipline filosofiche fondamentali: logica,
etica, ed estetica. Il Problema della C. nella filosofia e nella scienza del-
l’epoca moderna (4 voll., 1906-50) di Ernesto Cassirer (1874-1945) è la più
importante opera dedicata al problema della C. in questo significato
tradizionale. La teoria della C. ha perduto il suo primato e anche il suo
significato dacchè si è cominciato a dubitare della validità di uno dei suoi
presupposti: cioè che il dato primitivo della C. sia « interno » alla coscienza
o al soggetto e che pertanto la co- scienza o il soggetto debbano saltar fuori
di sè (il che è per principio impossibile) per afferrare l'oggetto. Di questo
presupposto Kant, nella « Con- futazione dell’idealismo » aggiunta alla seconda
edi- zione della Critica della Ragion Pura (1787) aveva già mostrato
l'infondatezza. Gli analisti contem- poranei, rigettano anche il primo
presupposto della teoria della C. e cioè che la C. sia una forma o categoria
universale che possa essere indagata come tale: essi infatti assumono come
oggetto d’inda- gine i procedimenti effettivi o il linguaggio della scienza,
non già la «C.» in generale. Pertanto la teoria della C. è venuta a perdere il
suo signi-ficato nella filosofia contemporanea ed è stata so- stituita da
un’altra disciplina, la metodologia (v.), che è l’analisi delle condizioni e
dei limiti di validità dei procedimenti di indagine e degli strumenti
linguistici del sapere scientifico. CONSAPEVOLEZZA (ingl. Awareness). In
generale, la possibilità di fare attenzione ai propri modi d'essere e alle
proprie operazioni e di esprimerli col linguaggio. Tale possibilità è la sola
base di fatto su cui è stata edificata la nozione filosofica di co- scienza.
Nell’antichità Platone e Aristotele, che non ebbero il concetto di coscienza,
conobbero e de- scrissero la C. (v. COSCIENZA). CONSEGUENTE (ingl. Consequent;
francese Conséquent; ted. Konsequent). In Logica, il secondo termine di una
conseguenza (v.). CONSEGUENZA (gr. dxo)ovdla; lat. Corse- quentia; ingl.
Consequence; franc. Conséquence; ted. Konsequenz). Per quanto Aristotele si
avvalga del verbo corrispondente a questo sostantivo per significare che la
conclusione segue dalle premesse del sillogismo (v.), il termine stesso fu
introdotto dagli Stoici per indicare la proposizione condizio- nale (v.
ConpizionaLe). Il latino conseguentia fu introdotto da Boezio come sinonimo di
« proposi- zione ipotetica » (condizionale). La C. può essere, secondo Boezio o
accidentale come quando si dice «Quando il fuoco è caldo, il cielo è rotondo »;
o naturale, come quando si dice « Quando c’è un uomo, c'è un animale» o «Se la
Terra sarà dal lato opposto, ci sarà l’eclisse di Luna». In que- st’ultimo
esempio, la C. poggia sulla « posizione dei termini » nel senso che l’essere la
Terra all’op- posizione è la causa dell’eclissi di Luna (De Syllo- gismis
Hypotheticis, P. L., 64°, 835 B). Abelardo riserva il termine C. alle
connessioni necessarie che sono vere ab aeterno come « Se è uomo, è animale »
(Dialectica, ed. De Rijk, 19707, pag. 160). Ockham distinse dalla C. intesa in
questo senso, che egli chiamava formale e che esprime una connessione
necessaria o intrinseca dalla C. materiale che con- nette estrinsecamente due
proposizioni, come quando si dice « Un uomo corre, dunque Dio esiste », che è
valida perchè il conseguente è necessario; o « Un uomo è un asino, quindi Dio
non esiste», che è valida perchè l’antecedente è impossibile (Sum. Log., III,
HI, 1). Il termine venne usato in significati simili o analoghi a questi nei
trattati dei logici nei secoli successivi; ma la sua trattazione è stata spesso
intrecciata (o confusa) con quella di proposizione ipotetica (v.) o di
condizionale (v.). Nella logica contemporanea l’ha usato Carnap (Logical Syntax
of Language, $ 14) per indicare una relazione più estesa di quella di
derivabilità, della quale, in un secondo momento, l’ha considerato sinonimo
(/n- troduction to Semantics, $ 37). Ma, come « condi- zionale », il termine è
oggi confluito in quello di implicazione (v.). CONSENSO UNIVERSALE (lat.
Consensus gentium). Aristotele fa nella sua opera spesso ri- ferimento all’*
opinione di tutti» come prova o controprova della verità; e nell’Etica
Nicomachea (X, 2, 1172b 36) esplicitamente dice «Ciò a cui tutti consentono,
noi diciamo che è così: giacchè ri- gettare una credenza siffatta significa
rinunziare a ciò che è più degno di fede ». Gli Stoici a loro volta
insistettero sul valore del C. universale: onde l’im- portanza che ebbero per
loro le « nozioni comuni » appunto per il fatto che si formano ugualmente in
tutti gli uomini, o naturalmente o per effetto del- l'educazione (Diog. L.,
VII, 51). Tuttavia solo gli Eclettici fecero del C. comune il criterio della
ve- rità; e Cicerone esprimeva appunto il loro punto di vista quando affermava:
«In ogni argomento, il C. di tutte le genti è da ritenersi come legge di natura
» (Tuscu/., I, 13, 30). La filosofia moderna che prende le mosse da Cartesio ha
inteso instau- rare una critica radicale del sapere comune ed ha perciò smesso
di vedere, nel comune C. che sor- regge questo sapere, una garanzia o un valore
di verità. Solo raramente pertanto essa fa appello al consensus gentium. Un
appello ad esso, è tuttavia la scuola scozzese del Senso Comune che fa capo a
Tommaso Reid (1710-96). Essa è soprattutto in polemica contro lo scetticismo di
Hume, e per superarlo ricorre al C. universale che appoggerebbe le idee,
criticate da Hume, di sostanza, causa, ecc. (Ricerca sullo spirito umano
secondo i principi del senso comune, 1764) (v. Senso COMUNE). L'appello al
consenso comune ha spesso costituito una prova del- l’esistenza di Dio (v. Dro,
Prove DI). Dall'altro lato esso è servito anche da fondamento alla nozione di
diritto naturale (v. Diritto). Ma questi e altri usi eventuali non modificano
la sostanza della nozione,che è il tentativo di mettere al riparo dalla critica
conoscenze o pregiudizi che si ritengono assoluta- mente validi ma di cui
sarebbe sempre oltremodo difficile provare l'effettiva universalità.
CONSEQUENTIS (FALLACIA). È la fa/- lacia (v.), consistente nel supporre
indebitamente che una consequentia (v.) o implicazione sia recipro- cabile, il
che normalmente non accade: «se da A segue 2, allora da 2 segue A».
(ARISTOTELE, E/. Sof., 5, 167 b 1; Prerro Ispano, Summul. Log., 7. 58; ecc.).
G. P. CONSERVAZIONE. V. Conato. CONSIGNIFICANTE (lat. Consignificans). Lo
stesso che sincategorematico (v.). CONSPECIE (ingl. Conspecies). Termine ado-
perato da Hamilton per indicare le specie coordi- nate dello stesso genere che
sono differenti ma non CONSENSO UNIVERSALE contraddittorie e quindi
costituiscono nozioni di- screte o disgiunte talvolta dette anche disparate
(v.) (Lectures on Logic, I, pag.
209). CONSUETUDINE (ingl. Custom; franc. Cou- tume; ted. Gewohnheit). 1. Lo stesso che abitudine (v.). 2. Nel
senso sociologico, qualsiasi atteggiamento o schema o progetto di comportamento
che sia partecipato da più membri di un gruppo. In questo senso adoperava la
parola Vico: « È un detto degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la
C. è simile al re e la legge al tiranno; che deesi inten- dere della
consuetudine ragionevole e della legge non animata da ragion naturale »
(Scienza Nuova, 1744, degnità, 104). Nel linguaggio contemporaneo si intendono
per C. le usanze (folkways), le con- venzioni e i costumi (mores) che si
differenziano tra di loro per la diversa intensità delle sanzioni che li
rafforzano. CONSUSTANZIAZIONE (lat. Consubstan- tiatio; ingl.
Consubstantiation; franc. Consubstantia- tion; ted. Konsubstantiation).
L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nell’ammettere che la
sostanza del pane e del vino rimane insieme con quella del corpo e del sangue
di Cristo, come soggetto dei suoi accidenti. Tale dottrina, che fu sempre
combattuta dalla Chiesa, fu difesa ai prin- cìpi del sec. xrv da Ockham in due
scritti intitolati De Sacramento Altaris e De Corpore Christi e ve- niva
accettata da Lutero. CONTEMPLATIVA, VITA (gr. Bewpnrwds Bloc; lat. Vira
contemplativa; ingl. Theoretical life; franc. Vie théorétique; ted.
Theoretisches Leben). L’ideale di una vita dedicata esclusivamente alla
conoscenza. W. Jaeger (Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita,
1928, in Aristotele, trad. ital., pag. 363 sgg.) ha sostenuto che
l’attribuzione di una vita puramente C. ai filosofi presocratici mediante
aneddoti e fatterelli (come quello di Ta- lete che camminando con gli occhi
alle stelle cade nel pozzo mentre la servetta di Tracia ride di lui) è la
proiezione nel passato del punto di vista pla- tonico-aristotelico che esaltò
la vita C. al disopra di quella pratica e la riconobbe come sola degna del
filosofo, e in generale dell’uomo. Si può dubi- tare dell’esattezza di questa
tesi per ciò che con- cerne la filosofia platonica: che--difficilmente po-
trebbe dirsi una filosofia contemplativa, avendo un dichiarato intento politico.
Ma essa è certamente esatta per ciò che riguarda Aristotele (v. FILOSOFIA;
SAPIENZA). Una conseguenza dell’ideale contem- plativo della vita fu il
disprezzo per la banausia (v.), cioè per il lavoro manuale; un’altra
conseguenza fu la riconosciuta superiorità delle scienze cosiddette teoretiche
su quelle cosiddette pratiche e in generale dell’attività teoretica. «
Quest’attività, dice Aristo- tele, è di per se stessa la più alta: giacchè
l’intelli- CONTESTO genza è la cosa più alta che è in noi; e, fra le cose
conoscibili, le più alte sono quelle di cui l’intelli- genza si occupa ».
Pertanto la vita teoretica è una vita superiore all’umana. « L’uomo non deve,
come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale
le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto è possibile, immortale e far di
tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è poco di
quantità, supera per potenza e valore tutte le altre cose» (Er. Nic., X, 7,
1177 b 31). Aristotele esplicitamente contrap- poneva nel capitolo citato
dell’Erica la vita teo- retica e quella del politico e del guerriero che,
tuttavia, secondo gli antichi, erano le più alte. Su questa nozione doveva
imperniarsi l’intera filosofia post-aristotelica, dagli Epicurei ai Neo-platonici,
intenta ad esaltare la figura del «saggio?, cioè appunto dell'uomo la cui vita
si compendia o si esaurisce nella contemplazione. La filosofia medie- vale
continua questa tradizione. Se il Misticismo (v.) vede nella vita C. il fine
dell’uomo e nella via per arrivarci l’unica attività che abbia un valore, l’in-
tera Scolastica ritiene, con S. Tommaso (S. 7h., II, 1, q. 3, a. 5), che la
vita C. è non solo la beati- tudine ultima e perfetta che si otterrà nell’altra
vita, ma anche la minore e imperfetta beatitudine che si può attingere in
questa. Una delle caratteristiche dell’Umanesimo e del Rinascimento è la
rottura di questa tradizione e il riconoscimento del valore della vita pratica
o attiva, del lavoro e dell’attività mondana. E la Riforma, almeno su questo
punto, coincide col Rinascimento. Bacone affermava, su questa linea, il
carattere pratico e attivo della stessa conoscenza (scire est posse, Nov. org.,
I, 3) nel senso che essa è diretta a stabilire il dominio dell’uomo sulla
natura. Le analisi degli Empiristi inglesi nel *6-700 mostravano la connessione
tra la conoscenza e l’esperienza vissuta dell’uomo e, con Hume, la
subordinazione della prima alla se- conda. Il "700, secolo
dell’Illuminismo vede nella conoscenza essenzialmente uno strumento d’azione,
un mezzo per agire sul mondo e per migliorarlo: l’ideale della vita C. sembra
abbandonato. Esso tuttavia ritorna a prevalere nel Romanticismo; per il quale
la conoscenza è il punto finale di arrivo; e la vita C. è perciò il culmine del
processo co- smico, quello nel quale tale processo raggiunge, con la
consapevolezza, la sua realtà ultima. Hegel chiudeva la sua Enciclopedia delle
scienze filosofiche con la frase: « L’Idea, eterna in sè e per sè, si attua, si
produce e gode se stessa eternamente, come Spi- rito assoluto »; e aggiungeva,
come suggello alla sua opera, il passo di Aristotele (Mer., XI, 7) in cui si
parla della vita divina come « pensiero del pensiero ». Questa rinascita dello
spirito C., che si è manifestato in tutte le direzioni in cui il Roman- ticismo
ha agito, ha trovato tuttavia, dalla metà dell’800 ad oggi, dure smentite. Marx
ha contrap- posto alla filosofia C., la non-filosofia della prassi, impegnata a
trasformare, più che a conoscere, la realtà stessa (Tesi su Feuerbach, 1845, $
3, 11). Nietzsche ha insistito sul carattere di rinunzia e di indebolimento
vitale della vita C. e del disinteresse teoretico (Die froeliche Wissenschaft,
$ 345). Le filo- sofie dell’azione e il pragmatismo hanno insistito su la
subordinazione della conoscenza stessa all’azione e alle sue esigenze. Infine
l’esistenzialismo ha visto nelle stesse situazioni dette conoscitive, modi
d’es- sere dell’uomo nel mondo, rendendo priva di senso la stessa distinzione
tra vita C. e vita pratica. Il riconoscimento dell’illegittimità di questa
distin- zione è forse il tratto più caratteristico della filo- sofia
contemporanea. Da un lato infatti il conoscere, in tutti i suoi gradi e forme,
implica la messa in opera di metodi, tecniche o strumenti che sono inerenti
alla situazione umana nel mondo e pos- sono perciò dirsi di natura pratica.
Dall'altro, la stessa vita C. non è che una delimitazione dei propri interessi
alla sfera di certi problemi anzicchè a certi altri; ed è perciò un pratico,
scelto e deliberato, indirizzo di vita. Da questo punto di vista, l’esal-
tazione della vita teoretica appare piuttosto come una deformazione
professionale del filosofo, che privilegia la propria attività come più alta
fra tutte. CONTENUTO. V. COMPRENSIONE. CONTESTO (ingl. Context; franc.
Contexte; ted. Kontext). L'insieme degli elementi che condi- zionano, in un
modo qualsiasi, il significato di un enunciato. Il C. è definito nel modo
seguente da Ogden e Richards: « Un C. è l’insieme di entità (cose od eventi)
correlate in un certo modo; queste entità hanno ciascuna un carattere tale che
altri insiemi di entità possono avere gli stessi caratteri ed essere connessi
dalla stessa relazione; ricorrono quasi uniformemente » (The Meaning of
Meaning, 108 ediz., 1952, pag. 58). Questa definizione sembra alquanto
macchinosa ma è resa più chiara dalla spiegazione che segue: « Un C. /etterario
è un gruppo di parole, incidenti, idee, ecc., che in una data oc- casione
accompagna o circonda ciò che si dice che abbia un C., laddove un C.
determinante è un gruppo di questa specie che non solo ricorre ma è tale che
uno almeno dei suoi membri è de- terminato, dati gli altri » (/bid., pag. 58,
n. 1). Da altri autori C. è chiamato Kinsieme delle presup- posizioni che
rendono possibile afferrare il senso di un enunciato. Dice S. K. Langer: « Il
nome di una persona, come tutti sappiamo, porta alla mente un certo numero di
eventi nei quali essa figura. In altri termini, una parola mnemonica stabilisce
un C. nel quale essa si presenta a noi; e in uno stato di innocenza noi la
usiamo aspettandoci che sarà compresa con il suo C.» (Philosophy in a New Key, ed.
Penguin Books, cap. V, pag. 110). In
ogni caso, esso è l'insieme linguistico di cui l’enun- ciato fa parte e che
condiziona (in modi e gradi che no essere diversissimi) il suo significato.
CONTESTUALISMO (ingl. Contextualism). La corrente del pragmatismo che accentua
la mo- bilità temporale degli eventi e li considera perciò in stretto rapporto
con gli altri eventi che insieme appar- tengono allo stesso contesto. (Cfr. S. C. PEPPER, Aes-
thetic Quality: A Contextualistic Theory of Beauty, New York, 1938; L.E. HAHN,
A Contextualistic Theory of Perception, Berkeley and Los Angeles, 1942). CONTIGUITÀ, ASSOCIAZIONE PER (in- glese Association
by Contiguity; franc. Association par contiguité; ted. Berùhrungs-Association).
Una delle forme dell’associazione delle idee, note già ad Aristotele (De
memoria, 2, 451 b 20) (v. Associa- ZIONE DELLE IDEE). CONTINGENTE (lat.
Contingens; ingl. Con- tingent; franc. Contingent; ted. Kontingent). 1. Gli
Scolastici latini tradussero con questo termine il termine aristotelico
èvSey6pevov (De int., 12, 20 b 35). Boezio, al quale si deve la determinazione
di buona parte della terminologia filosofica latina, già osservava che
possibile e contingens significano la stessa cosa salvo forse per il fatto che
non esiste il privativo di contingens, che dovrebbe essere incon- tingens, come
invece esiste il privativo di possibile che è impossibile (De interpretatione,
{II}, V; P. L., 64°, col. 582-83). Tuttavia nella tradizione scolastica, e
soprattutto per influsso della filosofia araba, il ter- mine C. è venuto ad
assumere un significato spe- cifico, diverso da ciò che si intende sotto
possibile; e precisamente è venuto a significare ciò che pur essendo possibile
«in sè», cioè nel suo concetto, può invece esser necessario rispetto ad altro,
vale a dire a ciò che lo fa essere. Per es., un evento qualsiasi del mondo è C.
nel senso che: 1° con- siderato di per sè, potrebbe verificarsi o non veri-
ficarsi; 2° si verifica necessariamente per la sua causa. Da questo punto di
vista, mentre il possibile, non solo non è necessario in sè, ma neppure è ne-
cessariamente determinato ad essere, il C. è invece il possibile che può essere
necessariamente deter- minato e perciò può essere necessario. La nozione di C.
è pertanto ambigua e poco coerente: tuttavia l’uso di essa nella filosofia
antica e moderna è abbastanza esteso. Questo uso è stato introdotto dal
necessitarismo arabo e specialmente da Avi- cenna. « Se una cosa non è
necessaria in rapporto a se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possi-
bile in rapporto a se stessa ma necessaria in rapporto a una cosa diversa »
(Mer., II, 1, 2). Ciò che è pos- sibile rimane sempre possibile in rapporto a
se stesso, ma gli può accadere di essere in modo necessario in virtù di una
cosa diversa da sè (/bid., II, 2, 3). In tal modo tutto ciò che è o esiste, da
Dio all’in- fima cosa naturale, esiste necessariamente, secondo Avicenna. Ma
mentre Dio e le realtà prime sono necessarie in sè, le cose finite sono
necessarie « per altro », giacchè in se stesse sono possibili; e in questo
senso sono contingenti. Questa nozione è rimasta sostanzialmente immutata in
tutta la filosofia Sco- lastica e anche nella filosofia moderna che però si
avvale di essa molto più limitatamente. S. Tom- maso che definisce il C. come
possibile, vale a dire come «ciò che può essere o non essere + riconosce che
già in esso si possono trovare elementi di ne- cessità (S. 74., I, q. 86, a.
3). Duns Scoto riproduce la nozione di Avicenna del C. difendendola dalla
accusa di contraddizione (Op. Ox., 1, d. 8, q. 5, a. 2, n. 7). L’intera nozione
ricompare con tutta la chiarezza desiderabile nella dottrina di Spinoza:
secondo il quale una cosa non può dirsi C. se non per un difetto della nostra
conoscenza (Er., I, 33, scol. 1) giacchè in realtà non c’è nulla di C. e ogni
cosa è determinata dalla natura divina ad essere e ad operare in un certo modo
(/bid., I, 29). La Scolastica parlava anche di «verità C.+ che sono quelle che
si riferiscono a eventi C. (per es., OckHam, In Sent., prol., q. 1, Z). Di tali
verità C. Leibniz diceva che esse si distinguono dalle verità necessarie come i
numeri incommensurabili dai com- mensurabili: cioè nel senso che come nei
numeri incommensurabili si può ottenere la loro risolu- zione alla comune
misura, così nelle verità necessarie si può ottenere la loro riduzione a verità
identiche. La cosa invece richiederebbe un progresso infinito per le verità C.
(o di fatto), progresso che può essere solo effettuato da Dio (Op., ed.
Erdmann, pag. 83). In un senso analogo si parla oggi di « contingenza logica +,
nel senso che le proposizioni empiriche non possono essere certificate vere o
false da un qualsiasi carattere logico di esse: così fa C. I. Lewis (Analysis
of Knowledge and Valuation, pag. 340). Nello stesso senso usa il termine Carnap
(Meaning and Necessity, $ 39) (v. MODALITÀ; POSSIBILE). 2. Nella filosofia
contemporanea, soprattutto in quella francese a partire dall'opera di Boutroux,
La contingenza delle leggi di natura (1874), il ter- mine C. è diventato
sinonimo di « non-determinato » cioè di libero e imprevedibile; e designa
special- mente ciò che di libero in questo senso si trova o agisce nel mondo
naturale. In questo senso adopera il termine Bergson. «La parte della con-
tingenza, egli dice, è grande nell’evoluzione. C., il più delle volte, sono le
forme adottate, o piuttosto inventate. C., relativamente ad ostacoli incontrati
in tal luogo e in tal momento, la dissociazione della tendenza primordiale in
diverse tendenze comple- mentari che producono linee divergenti di evolu-
zione. C. gli arresti e i ritorni » (Év. créatr., 115 edi- zione, 1911, pag.
277). In questo senso contingenza si identifica con libertà ed entrambe si
oppongono a necessità; mentre la possibilità è secondo Bergson soltanto
l’immagine che la realtà, nella sua auto- creazione C. cioè «imprevedibile e
nuova, proietta di se stessa nel suo proprio passato » (La Pensée et le
Mouvant, pag. 128). L'uso del termine « con- tingenza » in questo significato
caratterizza le cor- renti del cosiddetto indererminismo (v.) contempo- raneo:
le dottrine filosofiche che interpretano la natura in termini di libertà e di
finalità cioè in ter- mini di spirito. A questo significato si riconduce anche
l’uso che del termine ha fatto Sartre, inten- dendo per contingenza il fatto
che la libertà « non può non esistere ». La contingenza è perciò la li- bertà
nel rapporto dell’uomo con il mondo (L’érre et le néant, pag. 567).
CONTINGENTISMO. La parola non ha rife- rimento al significato tradizionale o
classico di con- tingenza, ma al significato contemporaneo di questo termine in
quanto è sinonimo di libertà (in senso infi- nito o incondizionato). Pertanto
il termine si riferisce soprattutto alle varie forme dello spiritualismo (v.)
che affermano la presenza e l’azione, nello stesso mondo della natura, di un
Principio libero (divino). CONTINGENZA (lat. Contingentia). Una delle prove
dell’esistenza di Dio è quella detta a con- tingentia mundi (v. Dio, PROVE DI).
CONTINUO (gr. ouveyés; lat.
Continuum; ingl. Continuous; franc. Continu; ted. Sterig). La nozione di C. è di natura schiettamente
matema- tica, per quanto i filosofi abbiano contribuito ad elaborarla e se ne
siano spesso serviti. La prima definizione esplicita del C. è quella data da
Ari- stotele (che forse riprende un concetto di Anassa- gora, Fr. 3, Diels)
secondo il quale esso è «ciò che è divisibile in parti sempre divisibili »
(Fis., VI, 2, 232b 24) e che perciò non può risultare di elementi indivisibili,
cioè di atomi (/bid., VI, 1, 231 a 24). Con questo concetto si alterna però in
Aristotele l’altro, più intuitivo e meno mate- matico, secondo il quale il C. è
una specie del «contiguo », nel senso che sono continue le cose i cui limiti si
toccano e dal cui contatto scaturisce una certa unità (Mer., XI, 12, 1069 a 5
sgg.). Quest’ul- timo concetto si trovava in Parmenide (Fr., 8, 24, Diels): e
non viene utilizzato dal pensiero moderno. L'unico a richiamarlo è Peirce che
esplicitamente si rifà ad Aristotele dichiarando non del tutto soddisfa- cente
la definizione del C. data da Cantor (Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap.
4, 121 sgg.). La prima definizione è quella che ha dominato la tradizione della
matematica sino a Leibniz. Leibniz ha sottolineato per primo l’importanza
filosofica della «legge di continuità » e ha di nuovo definito il continuo.
Secondo la legge di continuità, il ri- poso può essere considerato come un
movimento che svanisce dopo essere stato continuamente di- minuito. Analogamente
l’eguaglianza come una ineguaglianza che svanisce, come accadrebbe nel caso di
una diminuzione continua del maggiore di due corpi disuguali, di cui il minore
conservasse la sua grandezza (7héod., II, $ 348). La legge di continuità
consiglia inoltre di ammettere infiniti gradi nella costituzione e nell’azione
delle sostanze che compongono l’universo. « Ciascuna di queste sostanze, dice
Leibniz, contiene nella sua natura una legge di continuità della serie delle
sue ope- razioni » (Op., ed. Erdmann, pag. 107). La legge di continuità vale
ugualmente nel mondo delle rappresentazioni, nel quale « le percezioni notevoli
vengono per gradi da quelle che sono troppo pic- cole per essere notate» (Nouv.
Ess., Introduzione). Quanto al C. stesso, Leibniz lo definì nel senso che in
esso «la differenza di due casi può essere diminuita al di sotto di ogni
grandezza data» (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pa- gina 129). È
questo il concetto a cui si rifà Kant: «La proprietà delle quantità, per la
quale in esse non c’è parte che sia la più piccola possibile (cioè una parte
semplice) si dice la continuità di esse » (Crit. R. Pura, Anticipazioni della
percezio- ne). Nella matematica moderna due tappe impor- tanti nella
definizione del C. sono quelle costituite dai postulati di Dedekind (Conrinuità
e numeri razionali, 1872) e di Cantor (nei Mathematische Annalen, dal 1878 al
1883). Il postulato di De- dekind suona così: « Divisi tutti i punti di una
retta in due classi, in modo tale che ogni punto della prima preceda ogni punto
della seconda, esiste un punto e un punto solo che segna la divi- sione di
tutti i punti in due classi e della retta in due segmenti». Il postulato di
Cantor è invece più ristretto: « Date su una retta r due classi C e C’ di punti
tali che: 1° ogni punto di C sia a sinistra di ogni punto di C‘; 2° preso un
qualsiasi segmento y, si possa trovare un segmento minore di y di cui un
estremo sia un punto di C e l’altro un punto di C°; esiste allora sulla retta r
un punto di separazione delle due classi ». Russell ha espresso lo stesso
concetto nei riguardi del movimento, af- fermando: « L'intervallo tra due
istanti qualsiasi o due posizioni qualsiasi è sempre finito, ma la continuità
del movimento nasce dal fatto che, per quanto vicine siano le due posizioni
considerate, o i due istanti, c’è un’infinità di posizioni ancora | più vicine,
occupate a istanti che sono egualmente ' più vicini » (Scientific Method in
Philosophy, 1926, V; trad. franc., pag. 111). Queste definizioni del C. hanno
tuttavia un carattere paradossale in quanto sembra che vogliano far nascere il
C. dall’imagine stessa del discontinuo, cioè da un insieme di istanti o di
punti o di posizioni. Negli ultimi tempi esso ha fatto nascere accese
discussioni tra i matematici, alcuni dei quali sono propensi a ritornare ad una
nozione « intuitiva» del C., assunto talora come concetto originario. Il
Brouwer (1954), vede il C. in una « approssimazione che procede più o meno
liberamente » (cfr. From Frege to Gòdel, ed. by J. van Heijenoort, 1967, pag.
342). L’uso filosofico della nozione di C. ha tuttavia poco o nulla a che fare
con queste speculazioni matematiche. Tra i pensatori moderni, uno di quelli che
più utilizza la nozione è Mach che la chiarisce nel modo seguente: «Se un
intelletto investigante si è abituato a collegare nel pensiero due fatti, a e
b, cercherà, per quanto è possibile, di tener ferma questa abitudine anche in
circostanze al- quanto diverse: in generale ogni volta che si pre- senti a,
verrà pensato anche 5. Questo principio che ha la sua radice nella tendenza
all’economia e che si presenta particolarmente chiaro ai grandi pensatori, noi
lo chiamiamo principio della conti- nuità » (Analyse der Empfindungen, IV, $ 1;
trad. ital., pag. 71). Come si vede, la continuità è qui ricon- dotta al
principio humiano dell’abitudine, non chia- rita concettualmente. Dall’altro
lato Dewey, che considera la legge di continuità come « il postulato
fondamentale di una teoria naturalistica della lo- gica » determina la nozione
di continuità più ne- gativamente e per immagini che in modo rigoroso. Dice
infatti che essa «significa comunque esclu- sione della completa rottura da un
lato e della sem- plice ripetizione o identità dall’altro; nega la riducibilità
del ‘più alto’ al ‘più basso”, come nega le separazioni e gli spacchi netti. Il
crescere e svilupparsi di una natura vivente dal seme alla maturità, illustra
bene il significato della parola » (Logic., cap. Il; trad. ital., pag. 59).
Qui, come si vede, oltre al ricorso all’imagine dell’organismo vivente, non ci
sono che due determinazioni nega- tive, cioè l’esclusione: 1° della divisione;
2° del- l’unità, tra le parti del continuo. In senso ancora più impreciso la
parola è usata quando si parla della continuità dell’evoluzione, dello
sviluppo, del progresso, o della storia. A proposito di quest’ul- tima, in
particolare, la continuità sembra assunta, il più delle volte, a significare la
permanenza di certi elementi o motivi o fattori, e quindi una certa unità o
somiglianza tra le varie fasi di essa. La «continuità della storia della
filosofia », per es., viene intesa, il più delle volte, come la permanenza,
attraverso di essa, di certe nozioni, o direttive, o princìpi generali.
Dall'altro lato, se si riflette che quello che Dewey chiama «il postulato
naturali- stico della continuità » tra biologia e logica è l’azione
condizionatrice che le situazioni biologiche eser- citano sull’impostazione e
lo sviluppo delle inda- gini, si vede sùbito come la nozione di permanenza non
sia adatta a definire un concetto sufficiente- mente generalizzato della
continuità. Sotto questo rispetto, e limitatamente all’uso che la parola ha nel
linguaggio filosofico e comune odierno, si può dire che in generale sì parla di
continuità tra due cose ogni qualvolta è possibile riconoscere tra queste due
cose una relazione qualsiasi. Pertanto relazioni di causalità o di
condizionamento, di contiguità o di so- miglianza possono essere assunte come
segni o prove o manifestazioni di continuità; come dall’altro lato possono
essere assunte come tali anche relazioni di opposizione o di contrarietà o di
contrasto o di lotta, dal momento che neanche tali forme di relazione implicano
un taglio netto tra le cose che oppongono, e cioè la mancanza di una relazione
qualsiasi. CONTRADDIZIONE (gr. &vripaas; lat. Con- tradictio; ingl.
Contradiction; franc. Contradiction; ted. Widerspruch). Aristotele (Anal.
Post., I, 2, 72 a 12-14) la definisce come un" opposizione che di per sè
esclude una via di mezzo +»; in Anal. Pr., I, 5, 27a 29, detto rapporto è
precisato come rapporto tra proposizione universale negativa e particolare
affermativa, universale affermativa e par- ticolare negativa. Queste infatti
(40, E/) sono le coppie delle propositiones contradictoriae nel cosid- detto
«quadrato di Psello » dei testi medievali di Lo- gica. Essenziale alle coppie
di contraddittorie è che non possono essere nè entrambe vere ( principio di C.)
nè entrambe false (principio di terzo escluso). G.P. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO
DI (gr. dElwpa tic dviiphoewe; lat. Principium con- tradictionis; ingl.
Principle of Contradiction; francese Principe de contradiction; ted. Satz der
Wider- spruchs). Nato come principio ontologico, il prin- cipio di C. passò nel
campo della logica solo nel sec. XVIII, per divenire, in questo stesso secolo,
una delle « leggi fondamentali del pensiero ». Come principio ontologico, esso
fu esplicitamente ammesso per la prima volta da Aristotele che lo assunse a
fondamento della « filosofia prima » o metafisica. Secondo Aristotele, tale
principio serve in primo luogo a delimitare il dominio proprio di questa
scienza, permettendo di astrarre il suo oggetto, l’essere come tale, da tutte
le determinazioni con le quali è congiunto, in modo analogo a quello in cui gli
assiomi della matematica e della fisica consentono di astrarre i loro oggetti
(rispettiva- mente la quantità e il movimento) dalle altre de- terminazioni con
cui vanno congiunti (Mer., IV, 3). Aristotele tuttavia dà costantemente del
principio una duplice formulazione. Una è quella strettamente ‘ontologica che
egli esprime dicendo: « Niente si- multaneamente può essere e non essere +
(/bid., III, 2, 996 b 30; IV, 2, 1005 b 24); l’altro è quello CONTRADDIZIONE,
PRINCIPIO DI che si potrebbe chiamare logica e che si esprime dicendo: « È
impossibile per la stessa cosa e nello stesso tempo inerire e non inerire ad
una stessa cosa nello stesso rispetto » (/bid., IV, 2, 1005 b 20); oppure
dicendo: « È necessario che ogni asserzione sia o affermativa o negativa »
(/bid., III, 2, 996 b 29). Aristotele ritiene che il principio sia indimo-
strabile, ma che esso possa essere difeso polemi- camente contro i suoi
negatori, tra i quali considera i Megarici, i Cinici, i Sofisti e gli
Eraclitei, mo- strando che, se essi affermano qualcosa di deter- minato, negano
la negazione di questo qualcosa e così si avvalgono del principio (/bid., IV,
4). Il valore del principio pertanto è da Aristotele stabilito nei confronti di
ciò che è determinato (réde ti). « Se la verità, dice Aristotele, ha un signi-
ficato, necessariamente chi dice uomo dice animale bipede: giacchè questo
significa uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che l’uomo non sia
animale bipede: la necessità significa in- fatti proprio questo, che è
impossibile che l’essere non sia » (/bid., IV, 4, 1006 b 28). Così il principio
di C., riferendosi all’essere determinato, consente di astrarre da questo
essere ciò che c’è di necessario: la sostanza o l'essenza sostanziale:
nell’esempio dell’uomo, l’animale bipede che è appunto la so- stanza o l’essenza
sostanziale o la definizione del- l’uomo stesso. In tal modo, il principio di
C. porta a fare della filosofia prima, che è la scienza del- l'essere in quanto
essere, la teoria della sostanza Dice Aristotele: « Ciò che da tempo e anche
ora, e sempre abbiamo cercato, ciò che sempre sarà un problema per noi: che
cosa è l’essere? significa questo: che cosa è la sostanza?» (/bid., VII, 1,
1028 b 2). Il significato che il principio di C. ha nella metafisica di
Aristotele è perciò realizzato nelle nozioni fondamentali di questa metafisica,
che sono quelle di sostanza (v.), di essenza neces- saria (v. ESssENZA) e di
causa (v. CAUSALITÀ). Ma il principio possiede anche, per lo stesso Aristotele
una portata logica. Aristotele dice che, per quanto il principio di C. non sia
assunto espressamente da nessuna dimostrazione, esso è a fondamento del
sillogismo in quanto, sia che si ponga la no- zione di uomo, sia che si ponga
la nozione di non-uomo, purchè si ammetta che l'uomo è animale, risulterà
sempre vero affermare che Callia è animale e non non-animale; e afferma pure
che esso è a fon- damento della riduzione all’assurdo (An. Post., I, 1I, 77 a
10). La struttura sillogistica è così sorretta, sia nella sua forma positiva
sia in quella negativa, dal principio di C.: il che non fa meraviglia, dato che
per Aristotele la struttura sillogistica riproduce la struttura sostanziale
dell’essere (v. SILLOGISMO). Nella forma datagli da Aristotele, il principio è
rimasto lungamente a fondamento della metafisica classica. Le discussioni del
sec. xi intorno al modo di esprimerlo più semplice ed economico portarono alla
formulazione della massima che in séguito si chiamò principio di identità (v.)
ma non scossero la supremazia del principio di contraddi- zione. Cartesio
(Princ. Philos., I, 49) e Locke (Saggio, I, 1, 4) ancora lo ammettevano come
ve- rità indubitabile; ma già ignoravano completamente il suo valore
ontologico, che per Aristotele era primario. Ma colui che fa passare
definitivamente il principio di C. nella sfera della logica è Leibniz: che lo
considerò esclusivamente come il fondamento delle verità di ragione, mentre
riteneva che le ve- rità di fatto fossero fondate sul principio di ragion
sufficiente (Monad., $$ 31-32). Questi due princìpi erano, secondo Leibniz, a
fondamento di tutte le verità e quindi di tutto l’edificio della conoscenza
umana (Nouv. Ess., IV, 2, 1). Wolff ancora inclu- deva il principio di C.
nell’ontologia; ma lo con- siderava tuttavia come un principio naturale della
mente umana (Onr., 8 27). E Baumgarten trovava per esso la formula classica: A
+ non-A = O e lo chiamava il principio assolutamente primo, ponen- dolo a capo
della sua ontologia (Mer., 8 7). Kant preferiva esprimerlo, in uno dei suoi
primi scritti, con la formula: «Ciò di cui l’opposto è falso, è vero »
(Principiorum Primorum Cognitionis Meta- physicae Nova Dilucidatio, 1755, I,
prop. II, scol.). Più tardi nella Critica della Ragion Pura lo espri- meva
dicendo: « A_ nessuna cosa conviene un pre- dicato che la contraddica » e lo
considerava come « principio generale pienamente sufficiente di ogni conoscenza
analitica », eliminando tuttavia da esso la determinazione temporale che era
contenuta nel- l’espressione aristotelica; perchè, egli diceva, «in quanto
principio semplicemente logico non deve limitare le sue espressioni ai rapporti
di tempo » (Crit. R. Pura, Analitica dei Princìpi, cap. II, sez. I). Questo era
sostanzialmente lo stesso punto di vista di Leibniz. Dopo di Kant il principio
di C. fu con- siderato come una delle «leggi fondamentali del pensiero» (KRuG,
Logik, 1832, pag. 45; FRIES, System der Logik, 1837, pag. 121; HAMILTON,
Lectures on Logic, I, pag. 72): una qualifica onorifica, con la quale i
principi logici sono stati a lungo contrasse- gnati e che ancora viene talvolta
adoperata. Un ritorno all’uso metafisico del principio di C. fu dovuto a Fichte
e a Hegel. Si trattava, ora, della metafisica soggettivistica dell’idealismo,
per la quale nulla c’è fuori dell’Autocoscienza razionale. Fichte chiamava il
principio di C. « principio dell’opposi- zione »; lo esprimeva con la formula
«—P A non= A+ (che si legge « non-A non uguale ad 4 ») e riteneva che
esprimesse l’atto con cui l’Io oppone a se stesso un non-Io cioè una realtà o
una cosa (Wissen- schaftslehre, 1794, $ 2). Hegel considerava il prin- cipio di
C., con quello di identità, «la legge del- l’intelletto astratto » (Enc., $
115). E contrapponeva ad esso la legge della «ragione speculativa » che sarebbe
«Ogni cosa si contraddice in se stessa ». Questa legge sarebbe la radice di ogni
movimento e di ogni vita e il fondamento stesso della dialet- tica
(Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, I, pag. 545-46). Ma dall’altro lato la
dialettica (v.) è l'identità degli opposti: sicchè la C., se è la radice della
dialettica (cioè del movimento e della vita) non è tutta la dialettica la quale
anzi procede con- tinuamente conciliando e risolvendo le C. e sta- bilendo al
di là di esse ciò che Hegel stesso chiama identità o unità (cfr. Wissenschaft
der Logik, I, pag. 100). Nello stesso senso Gentile parlava del principio di
identità come della « legge fondamen- tale del pensiero» nel campo della
«logica del- l’astratto » (Sistema di logica, 1922, II,,$89; mentre parlava
della unità dello Spirito con se stesso o con la realtà. Queste e simili
critiche del principio di C. (come degli altri princìpi logici) sono
inconcludenti. Da un lato esse mirano a un uso assai più dogmatico e metafisico
dei princìpi stessi, di quello che criticano: giacchè tendono ad avvalersi di
essi per spiegare «il movimento e la vita » della realtà intera. Dall'altro,
esse prendono a bersaglio mulini a vento; giacchè quando Leibniz e Kant
affermavano che il principio di C. è il fonda- mento delle verità identiche o
analitiche non intende- vano dire che esso è il fondamento di verità del ge-
nere « un pianeta è un pianeta », « il magnetismo è il magnetismo », « lo
spirito è lo spirito », come Hegel riteneva (Enc., $ 115), ma alludevano alle
verità ma- tematiche e logiche in quanto riducibili a tautologie. La rinuncia a
considerare i principi logici come princìpi della logica o addirittura come «
leggi fon- damentali del pensiero» si ha invece veramente nella logica
matematica moderna. Già nell’opera di G. Boole (Laws of Thought, 1854), i
princìpi logici sono spariti come assiomi della logica e sostituiti, in questa
loro funzione, dalla definizione delle operazioni logiche fondamentali,
modellate sulle operazioni dell’aritmetica. Lo stesso prin- cipio di C. era
considerato da Boole come un teo- rema derivato da una più fondamentale espressione
logica (/bid., cap. III, prop. IV, ed. Dover, pag. 49). Da Boole in poi i
princìpi che si assumono a fon- damento della logica sono semplicemente le
defi- nizioni delle funzioni, delle costanti e variabili logiche, dei
connettivi e degli operatori. I cosid- detti princìpi logici che ancora sono
onorati tal- volta del nome di « leggi» sono ridotti o a tauto- logie nel
calcolo delle proposizioni (cfr., per es., REICHENBACH, The Theory of
Probability, $ 4), o a teoremi dello stesso calcolo (cfr., per es., A. CHURCH,
Introduction to Mathematical Logic, $ 26. 13). CONTRAPPASSO Questo non vuol
dire che la consistenza formale di un discorso, la compatibilità reciproca
delle as- serzioni che lo costituiscono, è diventata meno importante. Ma vuol
dire soltanto che tale compa- tibilità è definita, per ogni sistema
linguistico, dalle regole di trasformazione o di inferenza, di implicazione o
di sinonimia che sono esplicitamente assunte nel sistema stesso o a cui esso fa
tacito riferimento. Il principio di rolleranza (v.) nella forma che gli ha dato
Carnap afferma: « Non è affar nostro stabilire proibizioni ma solo arrivare a
conven- zioni ». Questo significa che «in logica non c'è morale e che ognuno è
libero di costruirsi la sua propria logica, cioè la sua forma di linguaggio,
come desidera. Tutto ciò che deve fare, se egli vuol discuterne, è dichiarare
chiaramente i suoi me- todi e dare, invece di argomenti filosofici, le regole
sintattiche del suo discorso » (CARNAP, The Logical Syntax of Language, $ 17).
CONTRAPPASSO. V. TAGLIONE. CONTRAPPOSIZIONE (gr. dvri0eow; la- tino
Contrapositio; ingl. Contraposition; franc. Con- traposition; ted.
Kontraposition)i. Una delle forme della conversione (v.) delle proposizioni e
preci- samente quella che consiste nel negare il contrario della proposizione
convertita sì da avere, ad es., da «ogni uomo è animale », « ogni non-animale è
non-uomo » (cfr. ARIST., Top., II, 8, 113 b sgg.). CONTRARIETÀ (gr. èvavriétns;
lat. Contra- rietas; ingl. Contrariety; franc. Contrariété; tedesco
Kontrarietàt). 1. Una delle quattro forme dell'oppo- sizione (v.) e
precisamente quella che intercede tra «quei termini che dentro lo stesso genere
distano massimamente tra loro » (ARIST., Car., 6, 6a 17). Sono in opposizione
contraria il vero e il falso, il bene e il male, il caldo e il freddo, ecc.
Aristo- tele osserva che i contrari si escludono assoluta- mente e che non
esiste tra essi nozione intermedia, quando almeno uno di essi deve appartenere
al- l’oggetto: per es., non c’è termine intermedio tra malattia o sanità perchè
l’organismo animale deve essere necessariamente o sano o malato. C'è in- vece
termine intermedio tra il bianco e il nero tra ciò che eccelle e ciò che è
dappoco, ecc., perchè nessuno di tali caratteri deve necessariamente ap-
partenere ad un oggetto (/bid., 10, 11 b 32 sgg.). Cfr. Pietro Ispano, Summul.
Logic., 3.32. 2. In quanto distinta dalla sub-contrarietà (v.), la C. è la
relazione tra la proposizione universale affermativa (s ogni uomo corre +) e la
proposizione universale negativa (« nessun uomo corre +). Con- fronta
ARISTOTELE, De Int., 7, 17b 4; Pierro Ispano, Sumunul. Logic., 1.13.
CONTRATTUALISMO (ingl. Contractualism; franc. Contractualisme; ted.
Kontraktualismus). La dottrina che riconosce come origine o fondamento
CONTRATTUALISMO dello Stato (o in generale della comunità civile) una
convenzione o stipulazione (contratto) fra i suoi membri. Questa dottrina è
assai antica, e, molto probabilmente, i suoi primi sostenitori fu- rono i
Sofisti. Aristotele attribuisce al Sofista Li- cofrone (scolaro di Gorgia) la
dottrina che «la legge è una mera convenzione (synsheke) e una garanzia dei
mutui diritti »: alla quale dottrina Ari- stotele oppone che in questo caso
essa «non sa- rebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini » (Pol.,
III, 9, 1280b 12). Questa dottrina fu ri- presa da Epicuro, secondo il quale lo
Stato e la legge sono risultato di un contratto che ha il solo scopo di
facilitare i rapporti fra gli uomini. « Tutto ciò che nella convenzione della
legge si dimostra vantaggioso rispetto alle necessità che derivano dai rapporti
reciproci, è giusto per sua natura, sia o non sia per tutto lo stesso. Nel caso
che sia fatta una legge che si dimostri non rispondente ai bisogni dei rapporti
reciproci, essa allora non è giusta » (Mass. cap., 37). Ad una concezione
simile si rifaceva Carneade nel famoso discorso sulla giu- stizia che tenne a
Roma. «Per qual ragione si sarebbero costituiti svariati e differenti diritti
se- condo ogni popolo, se non per il fatto che ciascuna nazione sancì per se
stessa ciò che ritenne vantag- gioso per sè?» (Cicer., Rep., III, 20).
Eclissato nell’età medievale dalla dottrina della origine divina dello Stato e
in generale della comu- nità civile, il C. risorge nell’età moderna e diventa,
insieme col giusnaturalismo, un potente strumento di lotta per la
rivendicazione dei diritti umani. Le Vindiciae contra tyrannos pubblicate dai
Cal- vinisti a Ginevra nel 1579 riprendono la dottrina del contratto per
rivendicare il diritto del popolo di ribellarsi al re, quando egli venga meno
ali impegni del contratto originario. Nello stesso spi- rito Giovanni Altusio
generalizzò la dottrina del contratto adoprandola a spiegare ogni forma di
associazione umana. Il contratto non è soltanto contratto di governo che regola
le relazioni fra un reggitore e il suo popolo, ma è anche contratto so- ciale
in senso più ampio come tacito accordo che è a fondamento di ogni comunità
(consociatio) e che fa che gli individui diventino conviventi, cioè partecipi
dei beni, dei servizi, e delle leggi valide nella comunità (Politica methodice
digesta, 1603). Alla difesa del potere assoluto fecero servire la dottrina del
contratto Hobbes e Spinoza. Così Hobbes enunciava la formula base del
contratto: «Io trasmetto il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo o a
quest’assemblea, solo a patto che tu ceda il tuo diritto alla stessa maniera»
(Leviath., II, 17). Questa, dice Hobbes, è « l’origine di quel grande
Leviathano o, per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale al quale
dobbiamo, dopo che al Dio immortale, la nostra pace e difesa: poichè, per
quest’autorità conferitagli dai singoli componenti lo Stato ha tanta forza e
potere, che può disciplinare la volontà di tutti per la conquista della pace
interna e per l’aiuto scambievole contro i ne- mici esterni» (/bid., II, 17). A
sua volta Spinoza ritiene che lo Stato costituito dal consenso comune abbia un
diritto che è limitato soltanto dalla sua forza, la quale è la stessa « potenza
della moltitu- dine » (Tractatus politicus, 2, 17). Più frequentemente,
tuttavia, il C. viene adope- rato a dimostrare la tesi che il potere politico è
necessariamente limitato. In questo senso l’intesero Grozio e Pufendorf, e
specialmente Locke che l'usòa difendere la rivoluzione liberale inglese del
1688. Diceva Pufendorf: «Se prendiamo a considerare una moltitudine di
individui che godono di libertà e di uguaglianza naturale e vogliono procedere
alla istituzione di uno Stato, è necessario prima di tutto che questi futuri
cittadini contraggano tra loro singolarmente un patto col quale manifestino la
volontà di unirsi in associazione perpetua e di provvedere con deliberazioni e
ordini comuni alla propria salvezza e sicurezza. Questo patto può essere o
semplice o condizionato: il primo si ha quando uno si obbliga a partecipare
all’associazione qualunque sia la forma di governo approvata dalla maggioranza;
il secondo quando aggiunge la con- dizione che la forma di governo sia da lui
stesso approvata » (De iure naturae, 1672, VII, 2, 6. A sua volta Locke parla
del contratto come dell’ac- cordo degli uomini « di unirsi in una società poli-
tica » e perciò lo definisce come « il patto che esiste o deve necessariamente
esistere tra individui che si associano o fondano uno Stato»(Two Treatises of
Go- vernment, 1690,1I,899). Criticato da Hume il C.trovò in Rousseau
un’interpretazione che equivalse so- stanzialmente alla sua negazione. Difatti
il C. pre- suppone che gli individui come tali abbiano « diritti naturali » a
cui rinunziano, per acquistarne altri, col contratto sociale. Rousseau ritiene
che gli indi- vidui come tali siano assolutamente privi di diritti e che essi
abbiano diritti solo come cittadini di uno Stato. Gli uomini, dice Rousseau,
diventano uguali « per convenzione e diritto legale +; perciò « il diritto di
ciascun individuo al suo stato particolare è sempre subordinato al diritto
supremo della comu- nità » (Contrat social, 1762 I, 9). Già a Rousseau il
contratto originario appariva più come un mezzo per rendere « legittimo » il
vincolo sociale che come una realtà (/bid., I, 1); la stessa cosa venne chia-
ramente affermata da Kant: «L’atto col quale il popolo stesso si costituisce in
uno Stato o piuttosto la semplice idea di questo atto che sola permette di
concepirne la legittimità è il contratto originario, secondo il quale tutti
(omnes ef singuli) nel popolo depongono la loro libertà esterna per riprenderla
di nuovo sùbito come membri di un corpo comune » (Met. der Sitten, I, $ 47).
Difficilmente, oggi l’idea fondamentale del C., così com'è stata elabo- rata
dagli scrittori del ’700, può essere assunta come un valido strumento per
comprendere il fon- damento dello Stato e in generale della comunità civile.
Tuttavia, tra il xvi e il xvin secolo l’idea contrattualistica ha avuto una
forza di liberazione notevole nei confronti della consuetudine e della
tradizione, nel campo politico. Solamente oggi, con l’uso che le scienze e la
filosofia fanno di concetti come convenzione, stipulazione e impegno, la no-
zione di contratto potrebbe forse essere ripresa per un’analisi della struttura
delle comunità umane imperniata sulla nozione delle reciprocità degli im- pegni
e del carattere condizionale delle stipulazioni da cui traggono origine diritti
e doveri. CONTRAZIONE (lat. Contractio; ingl. Con- traction; franc.
Contraction; ted. Kontraction). Ter- mine adoperato da Duns Scoto per indicare
il determinarsi e il restringersi della « natura co- mune » (per es., la natura
umana) a un individuo determinato, ad esse hanc rem (Op. Ox., II, d. 3, q. 5,
n. 1). Utilizzando nello stesso senso (cfr. De docta ignor., II, 4: «La C. si
dice rispetto a qualcosa, per es., ad essere questo o quello +) l’espressione
scolastica, Cusano ha chiamato il mondo un « Dio contratto » nel senso che esso
è, come Dio, il mas-simo, l’unità, l’infinità, ma contratte cioè deter- minate
e individualizzate in un molteplice di cose singole (/bid., II, 4). Nella tarda
Scolastica, certo per influenza dello scotismo, la parola fu talora adoperata
ad indicare il determinarsi del genere nelle specie e della specie negli
individui. CONVENIENZA. V. Accorpo.CONVENZIONALISMO (ingl. Conventiona- lism;
franc. Conventionalisme; ted. Konventiona- lismus). Ogni dottrina secondo la
quale la verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta all’accordo
comune o alla stipulazione (ta- cita o espressa) di coloro che si servono delle
proposizioni stesse. L’antitesi tra ciò che è valido «per convenzione » e ciò
che è valido « per na- tura» fu familiare ai Greci. Democrito dice: «Il dolce,
l’amaro, il caldo, il freddo, il colore, sono tali per convenzione; solo gli
atomi e il vuoto sono tali in verità » (Fr. 125, Diels). E il contrasto stesso,
limitato al campo politico, fu uno dei temi soliti dei Sofisti, soprattutto di
quelli dell’ultima gene- razione, che trovano la loro voce nei Dialoghi di
Platone. Polo nel Gorgia, Trasimaco nella Repub- blica, sostengono che le leggi
umane sono pure convenzioni dirette a impedire ai più forti di avva- lersi del
diritto naturale che è connesso alla loro forza. È secondo natura che il più
forte domini CONTRAZIONE il più debole; e questo accade di fatto quando un uomo
dotato di natura idonea spezza le ca- tene della convenzione e da servo diventa
padrone (Gorg., 484 A). Che la legge morale e giuridica fosse convenzione, fu
dottrina sostenuta dagli Scet- tici (Sesto E., /pot. Pirr., I, 146). Il
contrattualismo del xv e xviu secolo ha resa familiare l’idea che lo Stato, e
in generale la comunità civile, come pure le norme e i valori che da essa
traggono ori- gine, sono i prodotti di una convenzione o stipula- zione
originaria. Accennando appunto a questa dottrina, Hume notava che la
convenzione in questo senso deve essere intesa, non come una promessa formale,
ma come «un sentimento dell’interesse comune, che ognuno trova nel suo cuore »
(/ng. Conc. Morals, App. 3); e aggiungeva « Così due uomini muovono le vele di
una barca con co- mune accordo per il comune interesse, senza al- cuna promessa
o contratto; così l'oro e l'argento sono fatti misure dello scambio; così il
discorso, le parole, la lingua sono fissati dalle convenzioni e dall’accordo
umano » (/bid., App. 3). Con queste parole, forse per la prima volta, il
concetto di convenzione veniva adoperato fuori del campo politico. Ma
un'estensione del C. al dominio conoscitivo si verifica solo nella seconda metà
dell’800 quando, con la scoperta delle geometrie non euclidee, il carattere di
verità evidente degli assiomi geometrici è venuto a cadere. Dice Poincaré: «
Gli assiomi geometrici non sono nè giudizi sintetici @ priori nè fatti
sperimentali. Sono convenzioni. La nostra scelta fra tutte le convenzioni
possibili è guidata da fatti sperimentali; ma resta libera ed è limitata
soltanto dalla necessità di evitare la contraddi- zione » (La science et
l’hypothèse, II, cap. III). Lo stesso Poincaré si rifiutava tuttavia di
riconoscere a tutta la scienza il carattere convenzionale e di- fese
polemicamente, contro Le Roy, tale esten- sionedel C. (La valeur de la science,
1905). Lo sviluppo ulteriore della matematica ha tut- tavia consentito di
estendere il punto di vista di Poincaré a tutta la matematica. L'opera di
Hilbert portava a vedere nelle matematiche sistemi ipo- tetico-deduttivi nei
quali si deducono le conseguenze implicite in certe proposizioni originarie o
assiomi, secondo regole che gli assiomi stessi implicitamente o esplicitamente
definiscono. Poteva così essere for- mulata la tesi fondamentale del C.
moderno: le proposizioni originarie, da cui muove qualsiasi si- stema
deduttivo, sono convenzioni. Il che vuol dire: 1° non possono dirsi nè vere nè
false; 2° pos- sono essere scelte in base a determinati criteri che lasciano
tuttavia una certa latitudine alla scelta stessa. Per opera del Circolo di
Vienna (v.) e del- l’empirismo logico, il C. assumeva la forma, che COPERNICANA,
RIVOLUZIONE ha attualmente, di una tesi generale sulla struttura logica del
linguaggio. La Costruzione logica del mondo (1928) di Rudolf Carnap costituisce
la prima presentazione di questa tesi che era stata tuttavia preparata dal
Tractatus logico-philosophicus di Witt- genstein. «La logica, dice Carnap,
compresa in essa la matematica, consiste di stipulazioni conven- zionali
sull’uso dei segni e di tautologie che si fondano su queste stipulazioni »
(Logische Aufbau der Welt, $ 107). A questa tesi Carnap ha dato successivamente
il nome di « principio di tolleranza delle sintassi » perchè si tratta di un
principio che, mentre rende inoperanti tutti i divieti, consiglia di stabilire
distinzioni convenzionali. «In logica, dice Carnap, non c'è morale. Ciascuno
può costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di linguaggio. Se
vuol discutere con noi deve solo indicare come lo vuol fare, dare
determinazioni sintattiche invece di argomenti filosofici » (Logische Syntax
der Sprache, 1934, $ 17). Questa tesi si può dire oggi largamente accettata,
anche fuori del- l’empirismo logico. La seconda opera di Witt- genstein,
/nvestigazioni filosofiche (1953) l’ha por- tato all’estremo, affermando che
ogni linguaggio è una specie di « giuoco » che parte da determinati presupposti
di natura convenzionale; e riconoscendo la fondamentale equivalenza dei giochi
linguistici. Prescindendo da quest’ultima tesi e assumendo il C. nella
limitazione in cui viene solitamente mantenuto, cioè relativa al campo della
struttura logica del linguaggio, occorre sottolineare il fatto che esso non
implica per niente, come talora si crede, la perfetta arbitrarietà delle
convenzioni linguistiche. Si possono riassumere come segue i capisaldi del C.
contemporaneo: 1° la scelta delle proposizioni iniziali di un sistema deduttivo
(assiomi [v.] o postulati [v.]) deve ubbidire a criteri limitativi, che hanno
lo scopo di garantire la riproponibilità della scelta stessa ai fini dello
sviluppo deduttivo; 2° la determinazione delle regole di deduzione, delle
operazioni, delle procedure è egualmente sog- getta ad una scelta limitata,
sempre in vista della riproponibilità di tali regole, procedure od ope-
razioni; 3° le scelte di cui ai n. 1° e 2° costituiscono: a) oggettivamente, il
campo d’indagine comune su cui i ricercatori si possono muovere; b) soggetti-
vamente, l'impegno comune degli stessi ricercatori. CONVENZIONE. V.
CoNVENZIONALISMO. CONVERGENZA, LEGGE DI (ingl. Con- vergency law). Così
Whitehead ha chiamato il cri- terio usato dal senso comune e dalla scienza per
ottenere generalizzazioni fondate sull’osservazione. «Se A e B sono due eventi
ed A’ è parte di A, B' è parte di 8, allora sotto molti aspetti le relazioni
tra le parti A’ e 8’ saranno più semplici che le relazioni fra A e 8. Questo
principio regola tutti gli sforzi per raggiungere un’esatta osser- vazione »
(Organization of Thought, 1917, pag. 146 seguenti; The Concept of Nature, 1920;
trad. ital., pag. 73). CONVERSIONE (gr. dvriotpopi; lat. Con- versio; ingl.
Conversion; franc. Conversion; tedesco Umkehriing). In Aristotele (Anal. Pr.,
I, 1, 2) e nei trattati successivi di Logica classica (aristote- lica), è
l’operazione con la quale da un enunciato se ne ricava un altro (considerato
equivalente, ma la cosa è assai problematica) mediante scambio delle posizioni
rispettive dei termini (soggetto e predicato). Naturalmente ciò non è sempre
pos- sibile, e a volte si può fare solo introducendo un mutamento nel
quantificatore (« tutto » e « qualche »). Precisamente: la proposizione universale
afferma- tiva (per es., «tutti gli uomini sono mortali +) si converte, per
accidens, in una particolare afferma- tiva («qualche mortale è uomo +); la
particolare affermativa e l’universale negativa si convertono simpliciter,
ossia mediante semplice scambio dei termini; la particolare negativa non può
conver- tirsi. O. P. CONVINZIONE (ingl. Conviction; francese Conviction; ted.
Ueberzeugung). Termine di ori- gine giuridica che designa un insieme di prove
sufficiente a «convincere» il reo, cioè a farlo ri-conoscere come tale.
Nell’uso comune il termine significa una credenza che ha sufficiente base og-
gettiva per essere ammessa da chiunque. In questo senso è definita da Kant:
«Quando una credenza è valida per ognuno, solo a patto che sia dotato di ragione,
il fondamento di questa credenza è oggettivamente sufficiente ed essa si chiama
C.» (Crit. R. Pura, Canone della R. Pura, sez. III). Il carattere oggettivo
della C. contrasta col ca- rattere soggettivo della persuasione (v.). Cfr. PE- RELMANN e
OLBRECHTS-TYTECA, Traité de l’argu- mentation, 1958, $ 6. COORDINAZIONE (ingl. Coordination; fran- cese
Coordination; ted. Koordination). Il rapporto tra oggetti che sono situati
nello stesso ordine o rango in un sistema di classificazione; per es., due
generi o due specie sono tra loro coordinati ma non sono coordinati un genere e
una specie. Coordinate si dicono gli insiemi ordinati di nu- meri che servono a
designare entità geometriche (punti, linee, ecc.): oppure le caratteristiche
che si utilizzano per distinguere od ordinare varie classi di oggetti.
COPERNICANA, RIVOLUZIONE (inglese Copernican Revolution; franc. Révolution
coperni- cienne; ted. Kopernikanische Revolution). Si suole chiamare con questo
nome il mutamento di pro- spettiva realizzato da Kant: il quale invece di sup-
porre che le strutture mentali dell’uomo si modellinosulla natura, suppose che
l’ordine della natura si modella sulle strutture mentali. Il riferimento a
Copernico fu fatto da Kant stesso nella Prefazione alla seconda edizione (1787)
della Critica della Ragion Pura. Dewey ha osservato a questo propo- sito che
quella di Kant è stata piuttosto una rivo- luzione tolemaica perchè ha fatto
della conoscenza umana la misura della realtà. La rivoluzione C. dovrebbe
consistere nel riconoscere che lo scopo della filosofia non è quello di essere
o di descrivere la totalità del reale, ma quello più modesto di ri- cercare i
valori che possono essere assicurati e divisi da tutti, perchè connessi con i
fondamenti della vita sociale (The Quest for Certainty, 1930, pag. 295). COPULA
(ingl. Copula; franc. Copule; ted. Ko- pula). L’uso predicativo dell’essere
(v.). CORAGGIO (gr. avBpsta; lat. Fortitudo; in- glese Courage; franc. Courage;
ted. Muth). Una delle quattro virtù enumerate da Platone e che furono poi dette
cardinali (v.) e una delle virtù etiche (v.) di Aristotele. Platone la
definisce come «l’opinione retta e conforme alla legge su ciò che si deve e su
ciò che non si deve temere» (Rep., IV, 430 b). Aristotele la definisce come il
giusto mezzo tra la paura e la temerarietà (Et. Nic., III, 6, 1115a 4). Ma come
virtù che costituisce la saldezza della deliberazione, il C. viene in qualche
modo privilegiato e considerato una delle virtù principali. Così fece
Aristotele (/bid., III, 7). Cice- rone affermava: « Virtù deriva da vir (uomo)
ed è soprattutto virile, cioè proprio dell’uomo, il co- raggio, di cui due sono
i principali attributi: di- sprezzo della morte e disprezzo del dolore »
(Tusc., II, 18, 43). La stessa cosa è ripetuta da S. Tommaso (S. 7A., II, II,
q. 123, a. 2). In senso biologico- filosofico il coraggio è stato definito da
K. Gold- stein: «Il C., nella sua forma più profonda è unsì detto alla
lacerazione dell’esistenza accettata come una necessità affinchè si possa
portare a compi- mento la realizzazione dell’essere che ci è proprio ». In
questo senso il C. è il contrario déll’angoscia (v.) ed è un atteggiamento
orientato verso il possibile non ancora realizzato nel presente (Der Aufbau des
Organismus, 1934, pag. 198). CORNUTO, ARGOMENTO (gr. xeparivng; lat. Cornutus).
Così è chiamato il sofisma di Eu- bulide: «Ciò che non hai perduto, lo hai:
manon hai perduto le corna, dunque le hai» (Diog. L., VII, 187). COROLLARIO
(gr. nspwopa; lat. Corollarium; ingl. Corollary; franc. Corollaire; ted.
Korollar).Ciò che si deduce da una dimostrazione precedente, come una specie di
sovrappiù o guadagno extra (EucLIDE, E/., III, 1); oppure una specie di
propo-sizione intermediaria tra il teorema e il problema (PaPPO, 648, 18 sgg.;
ProcLo, /n Eucl., pag. 301 F). Il termine fu esteso al linguaggio filosofico da
Boezio (Phil. Cons., III, 10). Nel primo senso il C. fu talora chiamato
consectarium (JuNGIUS, Logica ham- burgensis, IV, 11, 13). La differenza tra
teorema e C. è trascurata dalla logica contemporanea. CORPO (gr. oòua; lat. Corpus;
ingl. Body; franc. Corps; ted. Kòrper).
L’oggetto naturale in generale, cioè: qualsiasi oggetto possibile della scienza
naturale. Come già notava Aristotele (De cael., I, 1, 268 a 1) tutto ciò che
appartiene alla natura è costituito da C. e grandezze o da cose che hanno C. e
grandezza o dai princìpi delle cose che li hanno. La più antica e famosa
definizione di C. è quella data dallo stesso Aristotele: « C. è ciò che ha
estensione in ogni direzione» (Fis., III, 5, 204 b 20); e che «in ogni
direzione è divi- sibile » (De cael., I, 1, 268a 7). Per «ogni dire- zione »
Aristotele intende l’altezza, la larghezza e la profondità: il C. che possiede
tutte e tre queste dimensioni è perfetto nell’ordine delle grandezze (Ibid., I,
1, 268a 20). Questa definizione è rimasta costante per molti secoli. Essa venne
accettata dagli Stoici (Diog. L., VII, 1, 135) che aggiungevano ad essa la
solidità; e da Epicuro che aggiungeva ad essa l’impenetra-bilità (Sesto E.,
/por. Pirr., III, 39 sgg.). La tradi. zione scolastica la riproduce egualmente
(per es., S. Tommaso, S. Th., I, q. 18, a. 2). E Cartesio non fa che riassumere
questa tradizione con la sua de- finizione del C. come sostanza estesa. Egli
dice: «La natura della materia o del C. in generale non consiste nell’essere
dura o pesante o colorata o qualsiasi altra cosa che affetti i nostri sensi ma
soltanto nell’essere una sostanza estesa in lun- ghezza, larghezza e
profondità» (Princ. Phil., II, 4). Questa definizione non contiene nulla di nuovo
rispetto a quella tradizionale; e non con- tengono nulla di nuovo la
definizione spinoziana che la riproduce (Spinoza, £r., I, 15, schol.), nè
quella di Hobbes (De Corp., VIII, $ 1). Un’innovazione al concetto di C. è
apportata solo da Leibniz. Questi distingue il « C. matema- tico » che è lo
spazio e che contiene solo le tre dimensioni, dal « C. fisico » che è la
materia e che contiene, oltre l’estensione, « la resistenza, la den- sità, la
capacità di riempire lo spazio e l’impene- trabilità: la quale ultima consiste
in ciò che un C. è costretto, da un altro C. sopravveniente, a cedere o a
fermarsi» (Op., ed. Erdmann, pag. 53). Da questa nozione di C. Leibniz è
portato a negare che il C. sia «sostanza»: ciò che in esso c’è di reale è
soltanto la capacità (vis) di agire e di subire un’azione (/bid., ed. Erdmann,
pag. 445). Que- st’ultima è forse la ripresa di una vecchia defini- CORPO zione
(Sesto Empirico l’attribuisce a Pitagora, Adv. Math., IX, 366). Ma, nel
significato che Leibniz le conferisce, essa aprì la via all'elaborazione del
concetto scientifico di C. come «massa», quale si ebbe nella fisica newtoniana:
la massa essendo il rapporto tra la forza e l’accelerazione impressa, è
interamente esprimibile in termini di « capacità di agire e di subire un’azione
+, secondo la defi- nizione di Leibniz. Lungo questa linea di sviluppo che da
Leibniz muove alla fisica classica e dalla fisica classica alla fisica della
relatività, la nozione di C., attraverso quella di massa, conduce alla nozione
di campo (v.). Per la fisica contemporanea un C. è soltanto una « certa
intensità del campo» (EinsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III; tra-
duzione ital., pag. 253). La filosofia, tuttavia, non ha seguito da vicino
questo sviluppo che la nozione ha subito nel do- minio della fisica. Nel mondo
moderno e contem- poraneo, essa ci offre, a proposito della nozione di C., le
alternative seguenti: 1° L'alternativa idea- listica per la quale i C. sono «
rappresentazioni », O « percezioni +, o «idee +, o complessi di tali cose.
Quest’alternativa introdotta da Berkeley e accet- tata da Hume, è stata la più
diffusa nella filosofia moderna e domina tuttora la filosofia contempo- ranea.
Per quanto grande sia la sua importanza in tali filosofie, quest’alternativa
non è importante dal punto di vista della nozione di C. perchè essa implica,
semplicemente, che i C. non esistono e perciò ne elimina il problema. 2°
L’alternativa che consiste nel ritenere i C. come utensili o stru- menti o
mezzi di cui si avvale l’uomo nel mondo e perciò nel caratterizzarli mediante
le possibilità di azione e reazione che essi offrono all’uomo.
Quest'alternativa è propria della filosofia contem- poranea, nella quale essa è
stata introdotta dal- l’esistenzialismo e dallo strumentalismo americano. In
questo significato però la nozione di C. si iden- tifica con quella di cosa,
sotto il qual termine essa viene più comunemente designata. Per esso si può
quindi vedere la voce Cosa. CORPO (gr. oiwsua; lat. Corpus; ingl. Body; franc.
Corps; ted. Leib). La più antica e diffusa concezione del C. è quella che lo
considera lo strumento dell’anima. Ora, ogni strumento può essere o
positivamente apprezzato per la funzione che compie e perciò elogiato od
esaltato; o criti- cato perchè non risponde bene al suo scopo o perchè implica
limitazioni e condizioni. L’una e l’altra vicenda è toccata al C. nella storia
della filosofia; la quale ci offre sia la condanna totale del C. come tomba o
prigione dell’anima, secondo la dottrina degli Orfici e di Platone (Fed., 66 b
seguenti), sia l’esaltazione del C. fatta da Nietzsche (« Colui che è desto e
cosciente, dice: sono tutto C. 12 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 177 e
nulla all’infuori di esso», A/so sprach Zarathustra, I, Gli odiatori del C.).
Nella prima direzione, il mito, esposto nel Fedro platonico, della caduta
dell'anima nel C., viene ripreso dalla Patristica orientale e specialmente da
Origene (De princ., II, 9, 2). Scoto Eriugena, ai princìpi della Scolastica, lo
riprodu- ceva (De divis. nat., II, 25). Anche questa concezione presuppone la
nozione della strumentalità del C.: nello stato di caduta, dovuto al peccato,
l’anima ha bisogno del C. e le è indispensabile valersi dei suoi servizi. Ma
ovviamente la più compiuta e tipica formulazione della dottrina della strumen-
talità è quella di Aristotele, per il quale il C. è «un certo strumento
naturale» dell'anima come la scure lo è del tagliare; sebbene il C. non sia si-
mile alla scure in quanto « ha in se stesso il prin- cipio del movimento e
della quiete» (De an., II, 1, 412 b 16). Il materialismo, come non implica ne-
cessariamente la negazione della sostanzialità del- l’anima (v.), così non
implica neppure la negazione della strumentalità del C.; anche se l’anima è
corporea, il C. può avere, rispetto ad essa, una funzione strumentale. Così
riteneva Epicuro che attribuiva al C. la funzione di preparare l’anima ad esser
causa della sensazione (Ep. a Erod., 63 seguenti); e così ritenevano gli Stoici
per i quali l'anima è ciò che domina o in vari modi utilizza l'organismo corporeo
(AEzio, Plac., IV, 21). Nè è diversa la concezione del C. nel materialismo di
Hobbes, il quale affermando che «lo spirito non è altro che un movimento in
certe parti del C. organico » (Z7/ Objections contre les Méd. carté- siennes,
4) riconosce con ciò stesso la strumentalità del C. rispetto a quel « movimento
» che è l’anima. Nè il più grossolano materialismo dell’800 per cui l'anima
sarebbe un prodotto del cervello come la bile del fegato o l’urina dei reni,
obbedisce a uno schema interpretativo diverso: il cervello, come il fegato e i
reni, è pur sempre uno strumento per la produzione di qualcosa. Dall'altro lato
lo spiritua- lismo, quello, per es., dei Neoplatonici, ammette ugualmente la
dottrina della strumentalità: «Se l’anima è sostanza, dice Plotino, essa sarà
una forma separata dal C. o, come meglio si direbbe, ciò che si serve del C.»
(Enn., I, 1, 4). La dottrina «della strumentalità domina l’intera filosofia
medie- vale. Dice S. Tommaso: «Il fine prossimo del C. umano è l’anima razionale
e le operazioni di essa. Ma la materia c’è in vista della forma e gli strumenti
ci sono in vista delle azioni dell’agente + (S. 7h., I, q. 91, a. 3).
Un’eccezione a questa dot- trina è costituita dalla teoria della « forma di
cor- poreità » che fu propria dell’agostinismo (v.) me- dievale e che
consisteva nel riconoscere al C. organico una sua forma o sostanza
indipendente. Ma l’ab- bandono definitivo del concetto della strumentalità 178
del C. si ha soltanto con il dualismo cartesiano. Si crede comunemente che la
separazione istituita da Cartesio tra anima e C. come tra due sostanze diverse
abbia avuto come conseguenza di stabilire l'indipendenza dell’anima rispetto al
corpo. In realtà, la sua prima conseguenza è stata quella di stabilire
l'indipendenza del C. rispetto all’anima: un punto di vista che, prima di
Cartesio, non si era mai presentato. Difatti la strumentalità del C. suppone
che il C. non possa far nulla senza l’anima, al modo in cui la scure non serve
a nulla se non è impugnata da qualcuno. Ma il riconoscimento che l’anima e il
C. sono due sostanze indipendenti, implica, come dice Cartesio, che «tutto il
calore e tutti i movimenti che sono in noi appartengono solo al C., in quanto
non dipendono dal pensiero affatto » (Passions de l’éme, I, 4). Da questo nuovo
punto di vista, il C. appare come una macchina, una macchina che cammina da sè.
«Il C. di un uomo vivente, dice Cartesio, differisce da quello di un morto
proprio come un orologio o un altro automa (per es., una macchina che si muove
da sè) quando è caricato e contiene in se stesso il prin- cipio corporeo dei
movimenti per i quali è stato progettato insieme con tutti i requisiti per
agire, differisce dallo stesso orologio o dalla stessa macchina quando è rotta
o quando il principio del suo movimento cessa di agire» (/bid., $ 6).
Quest’affermazione della realtà indipendente del C. come automa non è tanto una
tesi metafisica, quanto una tesi metodologica che prescrive la di- rezione e
gli strumenti delle indagini dirette alla realtà del «C.». E proprio in questo
senso ha agito storicamente la tesi cartesiana, che ha for- nito per lungo
tempo il presupposto teorico delle indagini scientifiche sui corpi viventi. Dal
puntodi vista filosofico, tuttavia, il dualismo cartesiano aveva lo svantaggio
di dar luogo ad un problema che era sconosciuto alla classica concezione del C.
come strumento: cioè al problema del rapporto tra anima e corpo. La concezione
classica, infatti, già con la definizione del C. come strumento del- l’anima e
dell'anima come forma o ragion d’essere del corpo, risolveva a suo modo tale
problema giacchè in realtà queste definizioni non sono che soluzioni postulate
del problema stesso. Ma col dualismo di anima e C. il problema emergeva alla
luce in tutta la sua crudezza. Come e perchè le due sostanze indipendenti si
combinano a for- mare l’uomo? E come l’uomo che è, sotto un certo aspetto, una
realtà unica, può risultare dalla com- binazione di due realtà indipendenti? La
filosofia moderna e contemporanea ha apprestato quattro soluzioni di questo
problema. 18 La prima di esse consiste nel negare la di- versità delle sostanze
e nel ridurre la sostanza cor- CORPO porea alla sostanza spirituale. Così ha
fatto Leibniz che ha concepito il C. vivente come un insieme di monadi, cioè di
sostanze spirituali, raggruppate intorno ad una «entelechia dominante» che è
l’anima dell’animale (Monad., $ 70). Da questo punto di vista «Il C. è un
aggregato di sostanze e non è una sostanza esso stesso » (Op., ed. Erdmann,
pag. 107). Sostanza è soltanto l’anima. Questa soluzione di Leibniz è il
modello di numerose altre che sono state date nel corso della filosofia moderna
e contemporanea, soprattutto dalle cor- renti dello spiritualismo (v.).
L'espressione classica di questo punto di vista si può trovare nel Mfi-
crocosmo di Lotze. Varianti di questa stessa soluzione possono essere
considerate le dottrine di Schopenhauer e Bergson. Schopenhauer identifica il
C. con la volontà cioè con quella che egli ritiene il noumeno o la sostanza del
mondo, di cui la rappresentazione è il feno- meno. Egli dice: «Il mio C. e la
mia volontà sono tutt'uno. Oppure: ciò che io chiamo mio C. come
rappresentazione intuitiva, lo chiamo mia volontà in quanto ne sono conscio in
maniera del tutto di- versa, non paragonabile ad alcun’altra. Oppure: il mio C.
è l’oggettività della mia volontà. Op- pure: prescindendo dal fatto che il mio
C. è rap- presentazione, esso non è altro che volontà» (Die Welt, I, $ 18). A
sua volta Bergson, ripren- dendo parzialmente la vecchia tesi, afferma che «il nostro
C. è uno strumento d’azione e di azione solamente +». Esso non contribuisce
diretta- mente alla rappresentazione e in generale alla vita della coscienza:
serve solo a selezionare imagini in vista dell’azione, cioè a rendere possibile
la percezione che consiste appunto in tale selezione. Ma la coscienza, che è
memoria, è indipendente da esso (Matiére et Mémoire, spec. Résumé et
Conclusion; ed. di Genève, pag. 232 sgg.). Ovvia- mente l’ultimo risultato di
quest’analisi di Bergson è la riduzione del C. alla percezione (come della
coscienza alla memoria): cioè la negazione di ogni realtà propria del C.
stesso. 2 La seconda soluzione, assai prossima alla prima, considera il C. come
un segno dell’anima. Questa è veramente dottrina assai antica che Pla- tone
(Crat., 400 b) attribuisce agli Orfici: ma la sua prevalenza si ha nel
Romanticismo. Dice Hegel: «L’anima nella sua corporalità, del tutto formata e
resa sua propria, sta come soggetto singolo per sè; e la corporalità è per tal
modo l’esteriorità in quanto predicato nel quale il soggetto si riconosce solo
a sè. Questa esteriorità non rappresenta sè ma l’anima; ed è il segno di questa
» (Enc., $ 411). Da questo punto di vista il C. è la « manifestazione esterna »
o la «realizzazione esterna » dell’anima: esprime cioè l’anima nella forma di
un'esteriorità che non è come tale reale ma soltanto « simbolica ». Residui di
questa concezione si possono trovare in tutte le dottrine le quali vedono nel
C. un com- plesso di fenomeni espressivi. 3% La terza soluzione consiste nel
negare la diversità delle sostanze ma non quella tra anima e C. e perciò nel
considerare l’anima e il C. come due manifestazioni di una stessa sostanza.
Spinoza ha dato a questa soluzione la sua forma tipica considerando l’anima e
il C. come modi o mani- festazioni dei due attributi fondamentali dell’unica
Sostanza divina, il pensiero e l’estensione. «In- tendo per C., egli ha detto,
un modo che in una certa, determinata guisa esprime l’essenza di Dio in quanto
è considerato come cosa estesa +? (£r., II, def. 1). Pertanto «l’idea del C. e
il C., ossia la mente e il C., formano un solo e medesimo individuo che viene
concepito ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto l’attributo
dell’estensione » (Ibid., \I, 21, schol.). Questa dottrina ovviamente implica
che l’ordine e la connessione dei fenomeni corporei corrispondano perfettamente
all’ordine e alla connessione dei fenomeni mentali e che per- tanto si possa,
ricostruendo l’ordine e la connes- sione degli uni, rendersi conto dell’ordine
e della connessione degli altri. Per questo vantaggio che l’ipotesi spinoziana
sembra offrire nonchè per il fatto che essa esclude la possibilità di mescolare
e confondere le due serie di fenomeni assumendo per es., come causa di un
fenomeno corporeo un fenomeno mentale o viceversa, la dottrina di Spi- noza ha
fornito il modello di quella dottrina del parallelismo psico-fisico (v.) che ha
presieduto alla formazione della psicologia scientifica moderna cd è servita
come ipotesi di lavoro per la psicologia stessa sino ad alcuni decenni fa. 48
La quarta soluzione consiste nel conside- rare il C. come una forma di
esperienza o come un modo d’essere vissuto, che abbia tuttavia un carattere
specifico accanto ad altre esperienze o modi d’essere. I precedenti di questa soluzione
sono le dottrine, cui si è accennato a proposito della soluzione 18, di
Schopenhauer e Bergson. Ma mentre tali dottrine hanno ancora risonanze idea-
listiche e implicano la riduzione del C. a spirito, l’ipotesi di cui ora ci
occupiamo non ha signifi cato idealistico ed evita tale riduzione. Questa
soluzione ha trovato la sua forma tipica nella fenomenologia di Husserl;
secondo il quale il C. è l’esperienza che viene isolata o individuata dopo
successivi atti di riduzione fenomenologica. « Nella sfera di ciò che mi
appartiene (dalla quale si è eli- minato tutto ciò che rinvia ad una
soggettività estranea) ciò che chiamiamo natura pura e semplice, non possiede
più il carattere di essere oggettivo e perciò non dev’essere confuso con uno
strato astratto dal mondo stesso o dal suo significato immanente. Fra i C. di
questa natura ridotta a ‘ ciò che mi appartiene * io trovo il mio proprio C.
che si distingue da tutti gli altri per una particola- rità unica: è il solo C.
che non è soltanto un C. ma il mio C.; è il solo C. all’interno dello strato
astratto, ritagliato da me nel mondo al quale, conformemente all’esperienza, io
coordino, in modi diversi, campi di sensazione; è il solo C. di cui dispongo in
modo immediato come dispongo dei suoi organi » (Méd. Cart., $ 44). In tal modo
il C. viene considerato come un’esperienza vivente, con- nesso con possibilità
umane ben determinate. In modo analogo il fisiologo Kurt Goldstein ha di-
stinto spirito, anima e C. come processi diversi ma connessi, i quali prendono
significato e rilievo solo nella loro connessione. Tali processi sono in realtà
comportamenti diversi dell’organismo vi- vente. In particolare il C. è «
un’imagine fisica de- terminata e multiforme » che si può descrivere come un
fenomeno di espressione o come un insieme di atteggiamenti o come fenomeni che
fanno capo a tutti gli organi possibili. Se lo spirito è l’essere
dell’organismo e precisamente il suo essere nel mondo, il complesso degli
atteggiamenti vissuti, l’anima è il suo avere, cioè la sua capacità cono-
scitiva; e il C. è il divenire, che non abbiamo e non siamo, ma che accade in
noi. Questo divenire è sostanzialmente un «dibattito col mondo» at- traverso il
quale l’uomo accumula le sue espe- rienze e forma le sue capacità (Der Aufbau
des Organismus, 1927, pag. 206 sgg.). Da questo punto di vista il C. non è che
un comportamento o me- glio un elemento o una condizione del compor- tamento
umano. Affine a questa concezione è la dottrina di Sartre per la quale il C. è
l’esperienza di ciò che è « oltrepassato » e « passato ». « In ciascun progetto
del Per-sè [cioè della coscienza], in cia- scuna percezione, il C. è là: esso è
il passato imme- diato in quanto affiora ancora nel presente che lo fugge.
Questo significa che esso è, ad un tempo, punto di vista e punto di partenza:
un punto di vista, un punto di partenza che io sono e che in- sieme oltrepasso
verso ciò che ho da essere » (L’étre et le néant, 1945, pag. 391-92).
Merleau-Ponty ha messo in luce con tutta chiarezza le tesi implicite in questo punto
di vista. Il C. non è un oggetto, una cosa. « Sia che si tratti del C. altrui,
sia che si tratti del mio, non ho altro modo di conoscere il C. umano che
viverlo, cioè assumere sul mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi
con esso ». Ma quest'esperienza vissuta dal proprio C. non ha nulla a che fare
col « pensiero del C.» o con «l’idea del C.» che ci formiamo per rifles- sione
attraverso la distinzione del soggetto e del- l'oggetto. Quell’esperienza ci
rivela un modo di esistenza «ambiguo»: se cerchiamo di pensare il C. come un
fascio di processi in terza persona (per es., come «visione», «mobilità », «
sessua- lità ») ci accorgiamo che queste funzioni non sono legate fra loro e
col mondo esterno da un rapporto di causalità, ma sono tutte fuse e confuse in
un unico dramma. Descartes, d’altronde, nota Merleau- Ponty, aveva già distinto
il C. quale è concepito per gli usi della vita dal C. che è concepito dall’in-
telletto (Phénoménologie de la perception, pag. 231; cfr. CARTESIO, Opera, III,
pag. 690). È da osservare che questa riduzione, così caratteristica della filo-
sofia contemporanea, del C. a un comportamento, o a un modo d'essere vissuto,
non ha alcun signi- ficato idealistico: non implica la negazione della realtà
oggettiva del C. stesso o la sua riduzione a spirito, o a idea, o a
rappresentazione. Al con- trario, questa interpretazione della nozione di C. ba
accentuato l’oggettività della sfera di feno- meni in cui il C. consiste: sfera
di fenomeni che essa ha cercato di definire in termini di pos- sibilità di
esperienza o di accertamento, secondo un orientamento fondamentale della
filosofia con- temporanea nei confronti della realtà in generale (v. REALTÀ).
CORPOREITÀ, FORMA DI (lat. Forma corporeitatis). Secondo la tradizione agostiniana
della Scolastica (v. AGOSTINISMO), è quella realtà che il corpo possiede come
corpo organico, indi- pendentemente dalla sua unione con l’anima e che lo
predispone a tale unione. Così la nozione è definita da Duns Scoto (Op. Ox.,
IV, d. 11, q. 3; Rep. Par., IV, d. 11, q. 3). Si tratta di una nozione
caratteristica dell’agostinismo e usata come arma polemica contro
l’aristotelismo per il quale il corpo, come materia, è potenza e pertanto non
ha sostan- zialità o forma. CORRELAZIONE (gr. tà rmpéc ti dvrelgeva; lat.
Korrelatio; ingl. Correlation; franc. Corrélation; ted. Correlationi. Una delle
quattro forme di op- posizione enumerate da Aristotele e precisamente quella
che intercorre tra termini correlativi, come la metà e il doppio. Gli opposti
correlativi non si escludono a vicenda perchè anzi si richiamano l’uno con
l’altro nel senso che il doppio si dice della metà e la metà del doppio. Sono
termini correlativi anche lo scibile e la scienza che si di- cono l’uno in
rapporto all’altro (Car., 10, l1lb 23 sgg.). Nella logica scolastica questo
rapporto fu espresso dicendo che in esso il soggetto e il ter- mine possono
scambiarsi: sicchè, ad es., Davide è il soggetto della relazione di paternità
mentre è il termine della relazione di filiazione, che ha in Salomone il suo
soggetto; e reciprocamente Salo- mone è il termine della paternità che è in
Davide (cfr., ad es., JunGIUS, Logica, I, 8, 6). Hamelin, intendeva sostituire,
nella dialettica hegeliana, la C. alla contraddizione: gli opposti di questa
dialet- tica sono per lui opposti correlativi, non opposti contraddittori
(Essai sur les Éléments principaux de la Représentation, 1907, pag. 35).
CORRETTIVA, GIUSTIZIA. V. ComMuta- CORRISPONDENZA (lat. Adaeguatio; inglese
Correspondence; franc. Correspondance; ted. Ùber- einstimmung o Korrespondenz).
La dottrina secondo la quale la verità consiste nell’adeguazione o nel-
l'accordo o nella C. di termine a termine, tra il pensiero o la conoscenza o le
proposizioni lingui- stiche da un lato, la realtà o i fatti dall'altra. È
questo il criterio di verità presupposto dalla filo- sofia classica ed espresso
dalla definizione scola- stica di verità come adeguazione dell’intelletto e
della cosa (v. VERITÀ). CORRUZIONE (gr. pBopà; lat. Corruptrio; ingl.
Corruption; franc. Corruption; ted. Vergehen). Secondo Aristotele costituisce,
insieme col suo op- posto, la generazione, l'attualità di una delle quattro
specie di movimento e precisamente del movimento sostanziale, in virtù del
quale la sostanza si genera o si distrugge. «La corruzione, dice Aristotele, è
un mutamento che va da qualcosa al non essere di questo qualcosa, ed è assoluta
quando va dalla sostanza al non essere della sostanza, specifica quando va
verso la specificazione opposta + (Fis., V, 1, 225a 17). Per la dottrina della
C. dell’uomo v. CADUTA; PECCATO ORIGINALE. CORSO DELLE NAZIONI. Così chiamò
Vico la «costante uniformità » dimostrata, pur nella varietà dei costumi, dalla
storia dei diversi popoli in quanto si lascia dividere nelle «tre età che
dicevano gli Egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi
e degli uomini» (Scienza nuova, IV) (v. RICORSI). COSA (gr. mpéyua; lat. Res;
ingl. Thing; fran- cese Chose; ted. Ding). Questo termine ha, nel di- scorso comune, come in
quello filosofico, due si- gnificati fondamentali: 1° quello generico per cui
designa qualsiasi oggetto o termine, reale o irreale, mentale o fisico, ecc.,
con cui, in un modo qual- siasi, si abbia a che fare; 2° quello specifico per
cui denota gli oggetti naturali in quanto tali. 1° Nel primo significato, la
parola è uno dei termini più frequenti del linguaggio comune e viene anche
abbondantemente adoperata dai filo- sofi. « C. » può essere il termine di un
atto di pen- siero o di conoscenza oppure d’imaginazione o di volontà; di costruzione
o di distruzione, ecc. Si può parlare di una C. che è nella realtà come pure di
una C. che è nell’imaginazione, o nel cuore, o nei sensi, ecc. Sicchè si può
dire che in questo significato C. significa un termine qual- siasi di un
qualsiasi atto umano o, più esattamente, un qualsiasi oggetto con cui in un
modo qualun- que si abbia a che fare. Questo è il significato racchiuso nella
parola greca pragma. 2° Nel suo più ristretto significato, la C. è l'oggetto
naturale che è detto anche «corpo» o «sostanza corporea ». L’uso del termine in
questo secondo significato è piuttosto recente. Si può forse far risalire a
Cartesio che però accanto all’espres- sione « C. corporee» (choses corporelles)
adopera anche « C. che pensa » (chose qui pense) mostrando così d'intendere la
parola nel significato che è tra- dizionalmente proprio di sostanza (Méd., II,
passim). Locke preferì la parola « sostanza » (« Le idee delle sostanze sono
quelle combinazioni di idee semplici di cui si assume che rappresentino C.
particolari e distinte, sussistenti di per se stesse », Saggio, II, 12, $ 6). E
solo con Berkeley si può dire che il termine C. ha soppiantato definitivamente
quello di sostanza: « Le idee impresse nei sensi dall’autore della natura, egli
dice, sono chiamate C. reali e quelle eccitate dall’imaginazione, essendo meno
regolari, vivide e costanti, sono più propriamente chiamate idee o imagini
delle C. che esse copiano o rappresentano » (Principles, I, $ 33). Da questo
punto in poi il termine C. diviene assai frequente per indicare il corpo o
l'oggetto naturale in gene- rale. Kant lo estende ancora di più, distinguendo
le cose quali appariscono a noi, cioè sottoposte alle condizioni della nostra
sensibilità (spazio e tempo), e le C. in generale o C. in sé (v.) (Critica R.
Pura, $ 8). Ma egli fissa anche il significato del termine nella sua
trattazione dello schematismo trascendentale, dove fa della cosalità o realtà
(Sach- heit, Realitàt) lo schema fondamentale della cate- goria di qualità, nel
senso che «C. in generale è ciò che corrisponde ad una sensazione in generale »
{Ibid., Schematismo dei concetti puri). Da questo punto in poi, la storia della
nozione di C. si può dividere in due filoni fondamentali a seconda che. a tale
nozione venga riconosciuto o negato un suo significato specifico. Possiamo
perciò distinguere: a) L'indirizzo per il quale l’essere della C. viene risolto
nell’essere in generale. Così, per l’idea- lismo empirico per il quale l’essere
è rappresenta- zione o idea, la C. è rappresentazione o idea o un complesso di
rappresentazioni o di idee. Questa dottrina, che è quella di Berkeley, è stata
innume- revoli volte riprodotta nella filosofia moderna e contemporanea. Per
l’idealismo assoluto o roman- tico, per il quale la realtà è la ragione stes-
sa, la C. è un concetto della ragione; e infatti Hegel la considera come una
categoria logica (Enc., $ 125 sgg.; Wissenschaft der Logik, ed. Glock- ner, I,
pag. 602 sgg.). Il significato autonomo della nozione non è salvato dalla
modificazione, proposta da Stuart Mill, della tesi dell’empirismo classico.
Secondo Stuart Mill, le C. sono « possi- bilità di sensazioni» (Examination of
Hamilton’s Phil., pag. 190 sgg.); ma ciò non delimita speci- ficamente il modo
d'essere delle cose. Nè lo deli- mità la concezione di Mach, che definisce le
C. come complessi di sensazioni (Analyse der Emp- findungen, 9* ediz., 1922,
pag. 14); anche se le « sensazioni » di cui parla Mach non sono deter-
minazioni soggettive, ma elementi neutri che en- trano a comporre sia le C. sia
la mente. Questo punto di vista è stato riprodotto da Russell secondo il quale
« una C. è un séguito determinato di appa- renze, in un legame continuo le une
con le altre secondo certe leggi causali» (Scientific Method in Phil., 1926,
IV; trad. franc. pag. 86). La connessione del modo d°’essere delle C. con
l’azione umana, connessione sulla quale, come ve- dremo sùbito, si fonda la
nozione positiva di C., è messa in luce da Bergson, ma è utilizzata da lui solo
allo scopo di negare la realtà delle cose. « Non ci sono C., ci sono soltanto
azioni », egli ha detto (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 270). Le C. sono
creazioni dell’intelligenza in quanto funzione pra- tica, che solidifica il
divenire sostituendo la stabi- lità fittizia di « C.» o di «stati» alla continuità
e fluidità della coscienza (/bid., pag. 269 sgg.; 296). In questa dottrina le
C. si riducono ad azioni e l’azione alla durata reale della coscienza; si ha
cioè, sia pure con una certa consapevolezza dei problemi inerenti, la solita
riduzione della C. ad uno stato soggettivo. E il significato di tale riduzione
della C. a elementi soggettivi comunque qualificati (sensazioni,
rappresentazioni, idee, azioni, ecc.) è semplicemente questo: che non esistono
cose. b) L’indirizzo per il quale l’essere della C. ha un significato
specifico. Su tale significato ha in- sistito, dal punto di vista
fenomenologico, Husserl affermando che esiste « una diversità fondamentale tra
l’essere come esperienza vissuta e l’essere come C. »; e che pertanto « una C.
non può essere data in nessuna possibile percezione o altra modalità di
coscienza in generale » (/deen, I, $ 42). Il modo d'es- sere specifico della
C., consiste nel fatto che essa è data in un numero indefinito di apparizioni
ma rimane trascendente come un’unità che è al di là di queste apparizioni, e
che tuttavia si manifesta in un nòcciolo di elementi ben determinati, circon-
dati da un orizzonte di altri elementi più indeter- minati (/bid., $ 44).
L’essere della C. si contrappone così a quello delle esperienze vissute o della
co- scienza (v.). Questa contrapposizione è presupposta da tutti i tentativi
della filosofia contemporanea di determinare in modo specifico l’essere della
cosa. Fd è significativo che tali tentativi siano partitda due punti di vista
indipendenti e apparentemente contrastanti, quello del naturalismo strumentali-
stico da un lato, e quello della filosofia esistenziale dall'altro. Mead ha
mostrato il collegamento della nozione di C. col « mondo dell’azione ». Le C.
s’inseriscono in una fase ben determinata di tale mondo cioè in quella che
intercede tra l’inizio di un’azione e la sua consumazione finale. In altri
termini è nella fase della manipolazione che compare o si costi- tuisce la C.
fisica; la quale tuttavia è universale nel senso che appartiene all’esperienza
di tutti (Mind, Self and Society, pag. 184-85). Dewey a sua volta ha mostrato
la stretta connessione del modo d’essere delle C. con l'indagine. « Le C., egli
ha detto, esistono come oggetti per noi soltanto in quanto siano state preliminarmente
determinate quali risultati d’indagini. Quando vengono usate nell’avviare nuove
ricerche su muove situazioni problematiche, esse sono conosciute come oggetti
solo in virtù di indagini anteriori che giustificano la loro asseribilità.
Nella nuova situazione gli oggetti sono mezzi per attingere la conoscenza di
qualche altra C.» (Logic, VI; trad. ital., pag. 175). Dewey ha affermato
recisamente il carattere strumentale delle C. ed in generale di tutti gli
oggetti di cono- scenza. Sia le « C. immediate » sia gli oggetti della scienza
fisica « costituiti da un ordine matematico- meccanico » sono «mezzi per
assicurarci o per evitare determinati oggetti immediati » (Experience and
Nature, pag. 141). Queste determinazioni di Mead e Dewey sono presentate come risultati
di ana- lisi empiriche. Heidegger presenta le sue determina- zioni come
risultati di un'analisi esistenziale: la nozione di C. viene da lui chiarita
come un ele- che la scoperta della natura». Si può certamente cercare di vedere
che C. sia la natura a prescindere dall’utilizzabilità delle cose. Ma in questo
caso la natura rimane incomprensibile « come COSA IN SÈ ciò che muove e ténde,
ciò che ci assale e ci im- prigiona » (Sein und Zeit, $ 15). Indubbiamente
Heidegger è riuscito a determinare anche meglio dello strumentalismo americano
il modo d’essere strumentale delle cose, la categoria dell’utilizzabi- lità che
lo definisce. A sua volta Lewis ha messo in luce le implicazioni logiche che un
simile con- cetto della C. porta con sè. « Ascrivere una qualità oggettiva a
una C., egli ha detto, significa impli- citamente la predizione che se agisco
in certi modi, una certa esperienza specificabile avrà luogo: se io addento
questa mela, il suo gusto sarà dolce; se la mangio, sarà digerita e non mi avvelenerà,
ecc. Queste e altrettali proposizioni ipotetiche costitui- scono la mia
conoscenza della mela che ho in mano » (Mind and the World-Order, cap. V, ed.
Dover, pag. 140). Le espressioni della forma Se... allora si riferiscono a
possibilità che trascendono l’esperienza attuale e che sono proprie dell’uomo
come essere attivo. e Il significato della conoscenza, ha detto ancora Lewis a
questo proposito, dipende dal significato di una possibilità che non è attuale.
Possibilità e impossibilità, quindi necessità e con- tingenza, compatibilità e
incompatibilità, e varie altre nozioni fondamentali, richiedono che vi de- vono
essere proposizioni ‘Se... allora ’, proposi- zioni la cui verità o falsità è
indipendente dalla condizione affermata nella loro clausola antece- dente »
(/bid., pag. 142 n) (v. IMPLICAZIONE). L’oriz- zonte logico del concetto di C.
elaborato dalla filosofia contemporanea è pertanto quello della possibilità,
che è espresso dalle proposizioni con- dizionali. Ciò è confermato dai
risultati delle ri- cerche sperimentali effettuate dalla psicologia tran-
sazionale, che conducono a vedere nella C. una certa « classe di possibilità »
che costituisce una pro- gnosi generalizzata, sulla base dell’esperienza pas-
sata, degli usi o dei comportamenti possibili di un oggetto (Exp/orations in
Transactional Psychology, a cura di F. P. Kilpatrick, 1961, cap. 21; trad.
ital., pag. 495-96). COSA IN SÈ (ingl.
Thing in itself; franc. Chose en soi; ted. Ding an sich). Ciò che la C. è indipen- dentemente
dal suo rapporto con l’uomo, per il quale è un oggetto di conoscenza. Nè
l’espressione nè la nozione sono proprie ed originarie di Kant come comunemente
si crede; ma rappresentano «la convinzione dominante di tutta la filosofia del
sec. xvIm+ (CassiRER, Erkennrnissproblem, VII, 3; trad. ital., II, pag. 470
sgg.). L’origine della no- zione può tuttavia esser fatta risalire a Cartesio
che nei Principi di filosofia (II, 3) così si esprime: «Sarà sufficiente
osservare che le percezioni dei sensi si riferiscono soltanto all’unione del
corpo umano con lo spirito e che mentre ordinariamente ci mostrano quello che
dei corpi esterni ci possa nuocere o giovare, non ci insegnano affatto, se non
occasionalmente e accidentalmente, che C. tali corpi siano in se stessi ».
Questa distinzione tra le «C. in se stesse» e le «C. rispetto a noi?, cioè come
oggetti delle nostre facoltà sensibili, diventa un luogo comune nella filosofia
dell'Illuminismo. D’Alembert (É/ém. de Phil., $ 19), Condillac (Lo- gique, 5),
Bonnet (Essai analytique, $ 242), la ri- petono quasi con le stesse parole, e
Maupertuis (Lettres, IV) la esprime in termini che a Scho- penhauer dettero
l’idea che Kant lo avesse pla- giato. « Una volta che si è convinti, dice Mau-
pertuis, che tra le nostre percezioni e gli oggetti esterni non sussiste alcuna
somiglianza nè alcuna relazione necessaria, si dovrà concedere anche che tali
percezioni non sono altro che semplice appa- renza. L'estensione, che siamo
soliti considerare come il fondamento di tutte le altre proprietà, ec che pare
costituire la loro intima verità, è in se stessa null’altro che fenomeno ».
(Cfr. SCHOPEN- HAUER, Die Welt, II, pag. 57). Su questo punto, come su molti
altri, Kant non ha fatto che ispirarsi all’indirizzo generale dell’Il-
luminismo. Tuttavia il suo concetto della C. in sè non rimane nella sua
dottrina, com’è nel resto dell’Illuminismo, un semplice memento della limi-
tazione della conoscenza umana e un monito per distogliere l’uomo dalle
indagini metafisiche. Si chiarisce invece, più precisamente, come uno stru-
mento tecnico per circoscrivere i limiti della cono- scenza umana. Da un capo
all’altro della Critica della Ragion Pura Kant ripete che la conoscenza umana è
conoscenza di fenomeni, non di C. in sè, giacchè essa si fonda non già su di
una intuizione intellettuale (per la quale aver presenti le C. signi-
ficherebbe crearfe) ma su una inzuizione sensibile, alla quale le C. sono date
sotto certe condizioni (spazio e tempo). In accordo con questo indirizzo
fondamentale, Kant, dopo aver stabilito la possi- bilità del concetto di C. in
sè (o noumeno), passa a distinguere una dottrina positiva e una dottrina
negativa dei noumeni. « Il concetto di un noumeno, egli dice, cioè di una C.
che dev’essere pensata non come oggetto dei sensi ma come cosa in sè
(unicamente per l’intelletto puro), non è per niente contraddittorio; giacchè
non si può, della sensibi- lità, asserire che sia l’unico modo di intuizione ».
Posto ciò, se s'intende per noumeno « l’oggetto di una intuizione non sensibile
», cioè creatrice o di- vina, si ha il concetto di noumeno in senso posi- tivo.
Ma in realtà questo concetto rimane vuoto; perchè il nostro intelletto non può
estendersi al di là dell’esperienza se non problematicamente, cioè non con
l’intuizione nè col concetto di una intuizione possibile. Pertanto, «il
concetto di nou- meno è solo un concetto limite (Grenzbegriff) per
circoscrivere le pretese della sensibilità e di uso perciò puramente negativo »
(Crif. R. Pura, Ana- litica dei principi, cap. III). Questa funzione pu- ramente
negativa della C. in sè è rimasta un capo- saldo della dottrina kantiana della
conoscenza: perchè è rimasta a garantire, in tale dottrina, il carattere finito
(cioè non creativo) della conoscenza umana. Tuttavia la filosofia post-kantiana
segna una ra- pida liquidazione di questo concetto. Già le Lerzere sulla
filosofia kantiana (1786-87) di Reinhold, che davano del criticismo
un’esposizione sulla quale si è per lungo tempo modellata l’interpretazione del
criticismo stesso, riducendo il fenomeno a rap- presentazione, rendevano dubbia
o problematica la funzione della C. in sè; la quale veniva poi recisa- mente
negata, in base alla sua inconoscibilità, da Schulze e Maimon. Ma colui che
cominciò a trarre le conseguenze di questa negazione fu Fichte: il quale vide
che, eliminata la condizione limitativa costituita dalla C. in sè, la
conoscenza umana di- veniva creatrice non solo della forma ma anche del
contenuto della realtà che ne costituisce l'oggetto; e si trasformava in quella
« intuizione intellettuale » che Kant attribuiva solamente a Dio, facendo del
soggetto di essa, cioè dell’Io, un principio infinito (Wissenschaftslehre,
1794, $ 4). Queste tra- sformazioni segnano il passaggio dal criticismo, che è
filosofia di stampo illuministico, al roman- ticismo (v.) che è una filosofia
dell’infinito. Il ro- manticismo segnava il tramonto definitivo della dottrina
della C. in sè, che era stata l’insegna del- l’illuminismo perchè ad esso era
servita ad esprimere la limitazione fondamentale della conoscenza umana. La
nozione di /nconoscibile (v.) che il positivismo evoluzionistico paragonò
talvolta alla C. in sè, è in realtà completamente diversa. In primo luogo,
difatti, ha una funzione opposta a quella della C. in sè: serve a offrire alla
metafisica e alla reli- gione un loro dominio di competenza specifica piuttosto
che a restringere le pretese della cono- scenza scientifica. In secondo luogo,
conseguente- mente, l’Inconoscibile viene definito positivamente dalla sfera di
quei problemi che la scienza lascia insoluti, più che negativamente dai limiti
intrinseci della scienza stessa. Quanto alla filosofia contem- poranea che ha
ripristinato o viene ripristinando la dottrina del limite della conoscenza,
questo li- mite è inteso da essa come garantito dalla portata dei metodi o dei
criteri che presiedono alla validità della conoscenza; essa perciò non ha più
bisogno dell’illuministica « C. in sè» per imporre modera- zione alle pretese
conoscitive dell’uomo. COSALE, ENUNCIATO (ingl. 7hing-sen- tence). Nella
semiotica contemporanea, un enun- ciato che non designa segni ma cose. Lingua
C.: una lingua costituita interamente di enunciati C. (Morris, Foundations of
the Theory of Signs, 1938, $ 5). Predicati C.: termini che designano proprietà
osservabili cioè tali che possono essere determinate dalla osservazione diretta
(CarNAP, Testability and Meaning, 1936-37, in Readines in the Phil. of Science,
1953, pag. 69 sgg.). COSCIENTE (lat. Conscius; ingl. Conscious; franc.
Conscient; ted. Bewusst). Questo aggettivo viene comunemente adoperato nel
senso della con- sapevolezza (v.); l’uso filosofico di esso corrisponde
tuttavia a quello del termine « coscienza »: onde, per es., «spirito cosciente»
significherà l’atteggia- mento dell’autoriflessione o della ricerca interiore.
COSCIENZA (gr. cuveldnow; lat. Conscientia; ingl. Conscioussness = C. teorica,
Conscience = C. morale; franc. Conscience; ted. Bewusstsein = C. teorica,
Gewissen = C. morale). L’uso filosofico di questo termine ha poco o nulla a che
fare col si- gnificato comune di esso come consapevolezza (v.) che l’uomo ha
dei propri stati, percezioni, idee, sentimenti, volizioni, ecc., consapevolezza
per la quale diciamo che un uomo che
designa il rapporto tra una classe e un’altra classe; e si distinguono queste
specie di copule dall’operatore (o quantificatore) esistenziale (v. OPERATORE).
Comunque, la carat- teristica fondamentale di questa concezione dell’E.
predicativo è la sua massima generalità: le altreinterpretazioni della copula
possono infatti essere considerate come casi speciali di relazione e come tali
analizzati. Altri casi possono inoltre sempre essere presi in considerazione.
Proprio questa dot- trina della copula rende possibile la dottrina della
proposizione come funzione: per essa infatti il pre- dicato diventa la funzione
e il soggetto la variabile della funzione stessa (v. FUNZIONE). 2° Il
significato esistenziale. — Il secondo signifi- cato fondamentale di E., cioè
quello esistenziale va a sua volta distinto in due significati subordinati e
cioè: I, come esistenza in generale; II, come esi- stenza privilegiata. I. L’E.
può significare in primo luogo l’esi- stenza nel significato 1° cioè nel
significato generale e indeterminato ma specificabile o definibile in base a un
criterio qualsiasi. Proprio in questo senso Aristotele dice che «l’E. si dice
in molti modi » (Mer., VI, 2, 1026a 32) e che si può per- fino dire che il non
E. è (/bid., VII, 4, 1030 a 23). Ma assunto in questo senso il significato di
E. coin- cide con quello di esistenza (nel senso 1°): e la sua trattazione si
troverà sotto questa voce. II. In secondo luogo l’E. può significare la
esistenza privilegiata o primaria: cioè l’esistenza nella sua modalità primaria
e fondamentale, dalla quale dipendono tutte le sue manifestazioni deter-
minabili. Il precedente significato di E. (2°, I) è assunto il più delle volte
come preparazione ed annuncio di questo secondo significato. L’E. si dice in
molti modi, ma uno solo è il suo significato primario e fondamentale. Questo è
il punto di vista di Aristotele (Mer., VII, 4, 1030 a 21). E appunto dal
rapporto tra i significati molteplici di cui l’E. appare a prima vista
rivestito e il significato unico e fondamentale a cui essi devono essere
ricondotti nasce il cosiddetto « problema dell’E.». Questo è il problema del
significato primario dell’E.: cioè di quel significato unico e semplice che si
presume VE. abbia ma che rimane più o meno nascosto nella molteplicità dei suoi
aspetti apparenti. La ricerca metafisica, nella sua impostazione classica,
s’impernia intorno a questo problema. Si tratta di vedere se c’è un significato
primario dell’E.: pri- mario in primo luogo nel senso che esprima meglio degli
altri l’esistenzialità dell’E. e in secondo luogo nel senso che gli altri
significati possano essere ricondotti ad esso come al loro fondamento o
principio. L’indagine sul problema dell’E. muove verso la determinazione di un
significato che risponda a questi due requisiti. Ma la disputa cui essa dà
luogo non è paragonabile alla « battaglia di giganti » di cui parlava Platone
(Sof., 246); nella quale di fronte ai giganti, o « figli della terra » che
affermano che ogni realtà è corpo, stanno gli dèi, che affer- mano
l’incorporeità dell’E. e lo riducono alle forme ideali. Un significato dell’E.
non è difatti sufficien- temente stabilito dal carattere di corporeità o dalla
negazione di questo carattere: giacchè un essere che si ritenga corporeo può
avere gli stessi caratteri ESSERE formali di un E. che si ritenga incorporeo:
come era appunto il caso dell’E. di cui parlavano le due schiere protagoniste
della «battaglia dei giganti». È ben vero che i caratteri formali dell’E.,
quelli che si mettono in evidenza come soluzione del problema dell’E. cioè come
determinazione del si- gnificato primario dell’E., sono costantemente rica-
vati dalla considerazione di una sfera particolare dell’E. o almeno di un
gruppo di enti o di un ente che in qualche modo si privilegia e si pone come
esemplare. Ma è pur vero che in ogni caso si può ottenere una risposta al
problema dell’E. solo se tra i caratteri della sfera o del gruppo o dell’ente
considerato, si sceglie quello suscettibile di generaliz- zazione cioè adatto
ad essere riferito anche alle altre sfere o gruppi o enti. In questo senso
Platone obiettava ai materialisti che essi devono dire che cosa c’è di comune
fra le cose corporee e quelle incorporee, posto che si dica che entrambe sono
(Ibid., 247 d). Ma se nel problema dell’E. si scorge la ricerca di un
significato primario formale — cioè generalizzabile — dell’E. stesso, si può
dire che ogni soluzione del problema non fa che privilegiare, cioè assumere
come primaria e fondamentale, una modalità determinata dell’essere. Ora poichè
le mo- dalità con cui Il’E. può essere enunciato o asserito sono tre cioè la
necessità, la possibilità e l’asserto- rietà tre pure sono in teoria le
possibili soluzioni del problema dell’essere. Ma poichè (come ve- dremo)
l’assertorietà si riduce alla necessità, si pos- sono storicamente riscontrare
due soluzioni fonda- mentali che risultano abbastanza evidenti dietro la
apparente molteplicità e disparità delle soluzioni proposte. Per la prima di
queste soluzioni, che in- dicheremo con « l’E. primario è la necessità; per la
seconda, che indicheremo con f l°E. primario è la possibilità. La soluzione a
corrisponde a quella che nel significato predicativo è l’interpretazione A; la
soluzione f corrisponde alle interpretazioni B e C. Un ulteriore carattere
distintivo delle due soluzioni, che però dev'essere considerato secon- dario,
perchè non sempre è presente, è il seguente. La prima di esse non prende in
considerazione, nella ricerca del significato dell’E., il fatto stesso di
questa ricerca. La seconda di essa può prendere in considerazione questo fatto
e ritenerlo importante per la determinazione del significato dell’essere. Così
fanno Platone e gli esistenzialisti. a) L’interpretazione dell’E. secondo la
moda- lità della necessità è quella prevalente nella meta- fisica classica. La
tesi famosa di Parmenide « L’E. è e non può non essere» (Fr. 4, Diels)
stabilisce come significato fondamentale dell’E. la necessità, il non poter non
essere: la quale rispetto al tempo è eternità (cioè contemporaneità, fotum
simul), ri- spetto al molteplice è unità, rispetto al divenire(cioè al nascere
e perire) è immutabilità (Fr. 8, 2-4, Diels). Di questi caratteri, anche
Aristotele privilegia quello della necessità. Il principio di con- traddizione,
da lui posto a fondamento della « filo- sofia prima » cioè della scienza
dell’E. in quanto E., è da lui inteso come il principio che postula la ne-
cessità dell’E., che si realizza nella sostanza. Dice Aristotele: « Se la
verità ha un significato, neces- sariamente chi dice uomo dice animale bipede:
giacchè questo significa uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che
l’uomo non sia ani- male bipede: la necessità significa infatti proprio questo
che è impossibile che l’E. non sia» (Mer., IV, 4, 1006 b 30). L’aspetto per cui
è necessario che un E. sia (che è il solo aspetto per cui l’E. è oggetto di
scienza giacchè dell’E. accidentale non c'è scienza, /bid., VI, 2, 1027 a) è la
sostanza del- l’essere. « Uno solo, dice Aristotele, è il significato dell’E. e
questo è la sostanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa non è altro che
indicare l’E. proprio di essa » (/bid., IV, 4, 1007 a 26). La sostanza è
pertanto, secondo Aristotele, il senso primario dell’E.; ed è pure il senso
fondamentale, quello a cui gli altri significati dell'E. possono essere
ricondotti; giacchè appunto come aspetto o manifestazione della sostanza
Aristotele considera ogni distinta o distinguibile determinazione dell’E.
(4bid., VII, 17) (v. SOSTANZA). Questo punto di vista aristotelico è rimasto
deci- sivo per lo sviluppo ulteriore del problema dell’es- sere. Il significato
primario e fondamentale dell’E. è rimasto, e ancora rimane per una larga zona
della filosofia, quello della necessità, con gli attri- buti, che reca seco,
della immutabilità, eternità, unità, ecc. Anche quando questi attributi sono
stati riferiti (come dal neoplatonismo antico e arabo e dall’aristotelismo
medievale) non più alla struttura formale dell'’E. ma ad un ente privile-
giato, e cioè non a tutte le sostanze ma alla sostanza più alta cioè a Dio, la
derivazione delle altre so- stanze da questa o la loro partecipazione ad essa è
stata intesa come derivazione e partecipazione della necessità e dei suoi
attributi. Così, secondo S. Tommaso, la partecipazione delle cose create all'E.
di Dio è partecipazione alla perfezione e al- l’immutabilità di Lui (S. 7h., I,
q. 65, a. 1). Ma il concetto che ha dominato la metafisica medievale e,
attraverso di essa, quella moderna e contemporanea, è quello esposto da
Avicenna nel sec. xi: la neces- sità dell’E. come tale. Tutto l’E. in quanto
tale è necessario. « Se una cosa non è necessaria in rap- porto a se stessa,
diceva Avicenna, bisogna che sia possibile in rapporto a se stessa, ma
necessaria rispetto a una cosa diversa » (Mer., II, 1, 2). La proprietà
essenziale di ciò che è possibile è proprio questa: aver bisogno di un’altra
cosa che lo faccia esistere in atto. Ma appunto per questo ciò che esiste in
atto, esiste sempre necessariamente: sol- tanto che la necessità gli deriva
talvolta da altro (4bid., II, 2, 3). Gli stessi concetti venivano espressi da
Algazel (Mer., I, I, 8) e divennero la base della scolastica giudaica e
cristiana. Nel mondo moderno, il concetto dell’E. come necessità ha trovato le
sue riaffermazioni principali in Spinoza e Hegel. Spinoza ha visto l’E. di Dio
nella necessità e lE. delle cose nella necessità con cui derivano dalla sostanza
divina (Er., I, 8, scol. II). Ed Hegel ha espresso lo stesso concetto nel suo
aforisma famoso che è la base dell’intera sua filosofia: « Ciò che è razionale
è reale; e ciò che è reale è razionale ». La razionalità del reale è la sua
necessità per la quale esso, nelle sue deter- minazioni fondamentali, non può
essere che quello che è. Perciò Hegel dice che « intendere ciò che è, è il
còmpito della filosofia poichè ciò che è, è la ragione » (Fil. del dir.,
Pref.). Perciò, ancora, nonc’è un dover E., un ideale, una perfezione che sia
diversa dall’E. e nel cui nome si sia autorizzati a criticare o a dar lezioni
all’E. stesso. « Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente e la
ragione come realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa e in
questa non lascia tro- vare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astra-
zione, che non si è liberata e non si è fatta con- cetto » (Zbid., Pref.). In
altre parole solo per una falsa astrazione si distingue ciò che dovrebbe es-
sere da ciò che è, la razionalità dall’E. reale: il che vuol dire che l’E.
reale è tutto quel che deve essere e che la sua modalità, il suo senso
primario, è questa necessità. D'altronde l’intera filosofia di Hegel è diretta
appunto a mostrare la necessità delle determinazioni dell’E.: cioè a mostrare
come l’E. è, nella sua realtà, tutto ciò che dev'essere (Enc., $ 1). La
necessità rimane il carattere primario dell’E. in concezioni filosofiche
disparate. Quando Fichte dice che l’E. e l’attività dell’io sono la me- desima
cosa, egli riconosce come carattere essen- ziale di questa attività la
necessità con cui essa pone se stessa e il non io (Wissenschaftslehre, 1798, $
1). Che l’E. si concepisca come «Co- scienza » o come « Materia », non fa
differenza: le determinazioni qualitative non influiscono sulla sua
determinazione formale primaria. L’Assoluto degli idealisti (Green, Bradley,
ecc.) come la materia dei materialisti sono, l’uno e l’altro, E. necessari. Ne-
cessaria è la Storia di cui parla Croce, come ne- cessario è l’Atto puro di cui
parla Gentile. «La necessità dell’E. coincide con la libertà dello spi- rito »
(Teoria generale, XII, $ 20), diceva Gentile. Lo stesso Rosmini che aveva posto
l’idea dell’E., intesa come «E. possibile», a fondamento della, conoscenza
umana, vede nella necessità e nell’uni- versalità i caratteri primari dell’E.
(Nuovo saggio $ 428-29). E Husserl afferma con molta energia la necessità di
quell’E. che egli riconosce come pri- mario cioè dell’E. della coscienza: «
Alla tesi del mondo, che è accidentale, si contrappone la tesi del mio puro io
e del vivere dell’io, che è necessaria e indubitabile. Ogni data cosa, anche se
è presente in carne ed ossa, può non essere; ma un’espe- rienza vissuta data in
carne ed ossa non può non essere. Questa è la legge essenziale che de- finisce
questa necessità e quella accidentalità » (Ideen, I, $ 46). Una caratteristica
tipica di questa concezione dell’E. o, come meglio si direbbe un suo teorema
fondamentale, è quella identificazione di E. e ra- zionalità che è assunta da
Hegel come principio della sua filosofia. Talvolta questa identificazione è
stata intesa come immanentismo (v.) intendendosi con questa parola l’immanenza
dell’E. nella co- scienza. Per quanto anche questa sia una tesi he- geliana,
non ha tuttavia nulla a che fare con l’altra. Quella fu espressa per la prima
volta da Parmenide che, appunto in questo senso, identificò 1’E. con il pensare
(Fr. 5; Fr. 8, 34-36, Diels). Certamente la tesi di Parmenide non aveva nulla a
che fare con l’immanentismo perchè la nozione di coscienza non era neppur nata
(v. CosciENZA): esprimeva soltanto il carattere razionale della necessità on-
tologica. Questo stesso carattere veniva espresso da Aristotele con la dottrina
che la determinazione fondamentale della sostanza è l’essenza necessaria, che è
la ragion d'essere (/ogos) della cosa (De part. an., I, 1, 639 b 15). E Rosmini
considerava lE. possibile come la forma stessa della ragione (Nuovo saggio, $
396). Il teorema in questione mentre esprime la necessità dell’E. postula, dall’altro
lato, un corrispondente concetto della ragione in gene- rale (v. RAGIONE).
Sembra che si sottragga a questa tradizione la ontologia di Nicolai Hartmann
che assume come significato primario dell’E. non la necessità ma l’effettualità
(Wirklichkeit) alla quale sarebbero ri- ducibili possibilità e necessità.
L’effettualità è la terza alternativa della modalità dell’E., quella del-
l’assertorietà. L'E. al quale il dover essere e il poter essere si riducono è,
secondo Hartmann, l’E. semplicemente esistente, nella sua pura effet- tualità o
attualità, 1’E. che nel dominio della realtà di fatto si presenta «così e non
altrimenti» cioè come esistenza analoga alla materia. Ma gli enun- ciati in cui
si esprime, secondo Hartmann, la ridu- zione del necessario e del possibile
all’attuale fanno vedere come in realtà l’effettualità non sia che ancora e
sempre necessità. Quegli enunciati sono infatti i seguenti; 1° ciò che è
realmente possibile è anche realmente effettuale; 2° ciò che è realmente ESSERE
effettuale è anche realmente necessario; 3° ciò che è realmente possibile è
anche realmente necessario. E negativamente: 4° ciò il cui E. è realmente im-
possibile è anche realmente ineffettuale; 5° ciò che è realmente ineffettuale è
anche realmente impossi- bile; 6° ciò il cui non E. è realmente possibile è
anche realmente impossibile (Mboglichkeit und Wirk- lichkeit, 1938, pag. 126).
Così il primato dell’asser- torietà non ha un significato diverso dal primato
della necessità. L’ontologia di Hartmann ha vo- luto prospettare la terza
soluzione teoricamente possibile del problema dell’E.; ma questa soluzione si
dimostra identica, nella sua stessa enunciazione, con l’interpretazione,
propria della vecchia meta- fisica, dell’E. come necessità. R) La concezione
dell’E. primario come pos- sibilità è stata per la prima volta formulata da
Platone. Essa è presentata da Platone come rispon- dente a due esigenze
fondamentali: in primo luogo a quella che si renda conto perchè si dice che
«sono » sia le cose corporee sia quelle incorporee (Sof., 247 d); e in secondo
luogo che si tenga conto del fatto che l’E. è o può essere conosciuto (/bid.,
248 e). La prima esigenza esclude che la materialità o l’immaterialità possano
entrare nella definizione dell’E. La seconda esclude che possano entrare nella
definizione dell’E. determinazioni necessarie; per es., che l’E. sia
necessariamente immobile (cioè che «tutto sia immobile »), o che l’E. sia
necessariamente in movimento (cioè che « tutto sia in movimento +), ecc.
(/bid., 249 d). Posto ciò, Pla- tone afferma che l’essere non è altro che
possi- bilità (Sivauu) e che pertanto si deve dire che è qualsiasi cosa si
trovi in possesso di una qualsiasi possibilità o di fare o di subire, da parte
di qualche altra cosa, anche insignificante, una azione anche minima e anche
per una sola volta (/bid., 247 e). La possibilità in questo senso non ha nulla
a che fare con la potenza di Aristotele. La potenza in- fatti è tale solo nei
confronti di una attualità che, essa sola, è l’E. primario (v. ATTO). Ma per
Pla- tone per l’appunto l’E. primario è possibilità. E possibilità sono i
rapporti reali tra gli enti: questi non si mescolano tutti insieme, nè evitano
assolutamente di mescolarsi ma presentano deter- minate possibilità di
rapporti. Come avviene per le lettere dell’alfabeto e per i suoni, che alcuni
possono mescolarsi e altri no, così avviene anche per tutte le cose: sicchè è
còmpito della filosofia non già enunciare la tesi universale della necessità o
dell’impossibilità della comunicazione, ma stu- diare in particolare quali sono
le cose che possono (#0£Xew) unirsi tra loro e quali no (/bid., 252-53). Questa
concezione non dà luogo ad una metafisica simmetrica e opposta a quella che
interpreta l’E. come necessità: non dà luogo ad alcuna metafisica. ESSERE 345
Questo è il suo tratto caratteristico. Difatti, se l’E. è possibilità, esso non
ha determinazioni univoche necessitanti: non è necessario che esso sia uno e
non molti, immutabile e non mutevole, immobile e non in movimento, eterno e non
temporale, ecc. Di due determinazioni opposte o contraddittorie, non è
necessario che una gli appartenga e l’altra no: entrambe possono appartenergli
in determinate ma diverse condizioni. Non è possibile quindi elen- care, una
volta per sempre, le determinazioni uni- voche dell’essere. Platone aveva
raggiunto questa conclusione nel Parmenide; in questo dialogo si mostra che
l’E. non è uno o molti, ma uno e molti assieme, nel senso che può esser uno
come esser molti (144 e); e che lo stesso vale per le altre sue determinazioni
eventuali. La sconcertante chiusa di questo dialogo è che « l’uno, sia o non
sia, esso stesso e le altre cose, rispetto a se stesso e tra loro, tutte, e in
tutto, sono e non sono, appaiono e non appa- iono » (166 c): le quali parole
riconoscono la pos- sibilità di determinazioni opposte dell’E. ed esclu- dono
che esso possa dirsi «uno» o «molti» o anche semplicemente «E.» in un senso
unico ed assoluto. Da questo punto di vista, una metafisica che sia l'elenco
sistematico delle determinazioni univoche ed assolute dell’E. è manifestamente
un non senso. Nell’àmbito della concezione in esame pertanto non possiamo
aspettarci di trovare formulazioni si- stematiche, analoghe o corrispondenti
alla filosofia prima di Aristotele cioè alla metafisica classica. Al contrario
possiamo dire che questa concezione tènde ad affacciarsi ogniqualvolta la
determinazione delle caratteristiche universali e necessarie dell’E. tènde a
cedere il posto alla ricerca empirica: quest’ultima è ricerca di possibilità,
non di determinazioni ne- cessarie. Da questo punto di vista può dirsi che la
tradizione empiristica della filosofia è l’erede e la rappresentante maggiore
di quella concezione del- l’E. che ha trovato la sua prima formulazione nel
Sofista platonico. Una possibilità può essere deter- minata unicamente sulla
base dell'esperienza cioè dell’osservazione dei fatti, mai per via puramente
razionale o a priori. Attribuire all’E. il significato della possibilità
significa aprire la via a indagini specifiche, dirette a determinare, in ogni
caso, di quale possibilità si tratti. Sul fondamento della concezione a, le
determinazioni dell’E., anche se mutano, è necessario che mutino, sicchè il
muta- mento è sin da principio determinato e assoluta- mente prevedibile. Per
la concezione f, invece, ogni determinazione, in quanto determinazione
possibile, può essere accertata soltanto da un’in- dagine ad hoc. Sappiamo che
gli Stoici vedevano il significato del- l’E. nella possibilità di agire o di
subire un’azione e perciò chiamavano enti solamente i corpi (PLUTARCO, Comm.
Not., 30, 2, 1073; Diog. L., VII, 56); ma questo principio, se li indirizzò
verso il materialismo, non costituì per essi la base di un empirismo coe-
rente. L’empirismo invece si affaccia tutte le volte che compare la negazione
del teorema fondamentale della concezione opposta cioè la negazione della
riducibilità dell’E. a predicato. Questa negazione si può assumere come teorema
tipico di questa con- cezione, com’è teorema tipico dell’altra l’identifi-
cazione di E. e razionalità. Sul finire della scola- stica, Ockham formulava la
tesi che l’E. o il non E. di una cosa si può attingere solo con una « cono-
scenza intuitiva » che è la stessa esperienza (/n Sent., II, q. 15 H; /bid.,
Prol., q.1Z); e in tal modo poteva affermare l’irriducibilità dell’E. a una
determinazione concettuale e il suo significato di possibilità. « Alla
questione se /a cosa esista, egli dice, si può rispondere solo quando si
conosca se la cosa esiste: il che accade se si conosce una proposizione nella
quale l’E. esistenziale sia pre- dicato del soggetto. Ora una tale proposizione
dubitabile... in nessun modo si può conoscere con evidenza, se la cosa
significata dal soggetto non si conosce intuitivamente ed in sè: per es., se
essa non è percepita da un senso particolare o se non è un intelligibile
nonsensibile che sia visto dall’in- telletto in modo analogo a quello in cui la
facoltà visiva esterna vede l’oggetto visibile. Sicchè nessuno può conoscere
con evidenza che il bianco è o può essere se non ha visto un qualche oggetto
bianco; e sebbene io possa credere a coloro che mi raccon- tano che c’è il
leone o il leopardo e così via, non conosco tuttavia con evidenza queste cose »
(Summa Log., III, 2). Qui il senso primario dell’E. è posto nella possibilità dell’esperienza.
Conseguentemente Ockham riconosce la necessità solo alle proposi- zioni
condizionali (« Se l’uomo è, l’uomo è un animale ragionevole +), mentre nega
che una qual- siasi proposizione affermativa possa essere neces- saria. Tutte le proposizioni
affermative sono contin- genti giacchè la proposizione « L'uomo è animale
ragionevole» sarebbe falsa per falsa implicazione, se l’uomo non ci fosse
(Quodl., V, q. 15). Queste nota- zioni implicano due tesi fondamentali: 1° l’E.
non è riducibile a un predicato; 2° l’E. è una possibi- lità che può essere
espressa solo da una proposizione contingente. Quest'ultima tesi rivela la
modalità primaria che le notazioni di Ockham attribuiscono all’E.: questa
modalità è la possibilità. L'em- pirismo classico del Sei-Settecento si attiene
a questa stessa modalità. Locke contrappone la cer- tezza delle proposizioni
universali, che però non riguardano la realtà, alla contingenza delle propo-
sizioni particolari che concernono l’esistenza. « Le proposizioni universali,
della cui verità o falsità possiamo avere una conoscenza certa, non riguar- 346
dano l’esistenza; le affermazioni o negazioni parti- colari, che non sarebbero
certe se venissero rese generali, si riferiscono soltanto all’esistenza, di-
chiarando esse soltanto l’accidentale unione o se- parazione delle idee in cose
esistenti, idee che, nella loro natura astratta, non hanno tra loro nes- suna
unione o ripugnanza conosciuta» (Saggio, IV, 9, 1). Pertanto, con la sola
eccezione dell’esi- stenza di Dio, conosciuta attraverso la dimostrazione cioè
attraverso il rapporto che essa ha con altre esistenze, l’esistenza è
conosciuta secondo Locke in modo contingente e immediato, attraverso un
rapporto diretto con l’oggetto: rapporto che è in- tuizione nel caso dell’esistenza
del proprio io, sen- sazione nel caso dell’esistenza delle cose. Ciò esclude
che l’esistenza sia un predicato o che comunque possa essere ridotta a una
determinazione concet- tuale. « Non essendovi, dice Locke, nessuna con-
nessione necessaria di qualsiasi altra esistenza, tranne quella di Dio, con
l’esistenza di alcun uomo particolare, ne consegue che nessuno in par- ticolare
può conoscere l’esistenza di un altro essere se non quando, operando questo su
di lui, fa in modo di essere da lui percepito. Il fatto che si abbia l’idea di
una cosa nella nostra mente non dimostra l’esistenza di quella cosa più che il
ritratto di un uomo faccia testimonianza dell’essere egli nel mondo o che le
visioni di un sogno costituiscano di per sè una storia veridica » (/bid., IV,
11, 1). Questo con- cetto della sensazione come organo di conoscenza di ciò che
esiste non è altro che il vecchio concetto stoico della rappresentazione
catalettica: che è quella che « deriva da un ente sussistente ed è impressa e
marcata da esso in modo da essere conforme con esso » (Diog. L., VII, 46; Sesto
EMPIRICO, Ad. Math., VII, 248). La dottrina equivale a definire l’E. delle cose
come possibilità del manifestarsi di esse alla percezione o della percezione
medesima. La definizione dell’E. come possibilità viene espli- citamente
ripresa dalla filosofia tedesca del ’700 e in particolare da Wolff. Dice Wolff:
« Ente è ciò che può esistere e conseguentemente la cui esi- stenza non
ripugna» (Ontol., $ 134). Ma poichè ciò che può esistere è possibile, ciò che è
possibile è l’ente (Ibid., $ 135). Ma in questa definizione tutto dipende
ovviamente dal significato di possi- bile. E Wolff riprende a questo proposito
un con- cetto che rimonta forse a Duns Scoto (In Sent., I, d. 2, q. 7) e si
trova già formulato in Leibniz (Théod., II, $ 224): « possibile è ciò che non
implica contraddizione, vale a dire ciò che non è impossi- bile » (Onrol., $
85). Da questo punto di vista, la possibilità era definita come semplice
assenza della impossibilità, cioè come necessità negativa. La con- cezione
dell’E. in termini di possibilità era pertanto, in questa dottrina, una
semplice apparenza. Kant ESSERE ha, con molta fermezza, visto che cosa si
nascon- deva dietro questa apparenza. «Il gioco di pre- stigio, egli ha detto,
per cui la possibilità logica del concetto (che non si contraddice) si scambia
con la possibilità trascendentale delle cose (per cui al concetto corrisponde
un oggetto) può gabbare e contentare soltanto gli inesperti ». La « possibilità
reale » è quella data da una intuizione sensibile cioè dall’esperienza attuale
o possibile (Critica R. Pura, Analitica dei princìpi, cap. III). Per con-
seguenza «E. non è un predicato reale cioè un concetto di qualche cosa che si
possa aggiungere al concetto di una cosa... Se io dico Dio è o c’è un Dio, non
affermo un predicato nuovo del con- cetto di Dio, ma soltanto il concetto in sè
con tutti i suoi predicati e l’oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi
devono avere esattamente lo stesso contenuto e però nulla si può aggiungere di
più al concetto che esprime semplicemente la possibilità quando ne penso
l’oggetto come dato (con l’espressione: ‘ Egli è ”)» (/bid., L'ideale della
ragion pura, sez. IV). Da questo punto di vista risulta chiaro il carattere
limitato e condizionale di ogni possibilità od E. e pertanto il carattere
fittizio o fantastico di una « possibilità assoluta » cioè di una possibilità
che valga sotto ogni aspetto (Ibid., Analitica dei principi, Confutazione
dell’idea- lismo). Nella filosofia contemporanea fanno rife- rimento a questa
interpretazione del significato del- l’E. le seguenti dottrine: a) le teorie
che nella matematica, nella fisica e in generale nella scienza definiscono
l’esistenza come modo d°E. particolare, per es., come « as- senza di
contraddizione» o « possibilità di costru- zione » o « possibilità di
verificazione ». La modalità non necessaria dell’E. che risulta così definita è
evidente (v. ESISTENZA); b) le forme dell’empirismo che riconoscono l’E.
soltanto agli oggetti di esperienza possibile. La possibilità della
sperimentazione e dell’osserva- zione definisce in questo caso il significato
dell’E. (v. ESPERIENZA); c) le teorie filosofiche che affermano il primato
della possibilità. Tali teorie trovano il loro prece- dente nella filosofia di
Kierkegaard che per primo ha proposto una interpretazione dell’esistenza umana
in termini di possibilità (v. ESISTENZA, 3). Dall’altro lato lo stesso punto di
vista si può riconoscere in qualche aspetto della fenomenologia di Husserl e
nelle dottrine che si rifanno ad essa. Per quanto Husserl privilegi l'E. della
coscienza e lo ritenga, a differenza della realtà delle cose, necessario,
l’ana- lisi fenomenologica è per lui un’analisi di possibi- lità: per essa,
come ha detto Heidegger (Sein und Zeit, $ TO): «la possibilità sta più in alto
della realtà ». Dice Husserl: « Il fatto che una natura, ESTASI che un mondo
della cultura e degli uomini, con le loro forme sociali, ecc., esistano per me
significa che le esperienze corrispondenti mi sono possibili, cioè che,
indipendentemente dalla mia esperienza reale di questi oggetti, io posso a ogni
istante rea- lizzarli e svilupparli in un certo stile sintetico. Questo
significa poi che altri modi di coscienza che corrispondono a queste esperienze
come atti di pensiero indistinto, ecc., sono possibili per me e che la
possibilità di essere confermate o invalidate per mezzo di esperienza di un
tipo che è stabilito in anticipo è inerente a questi atti» (Cart. Med., $ 37).
Come risulta da questo significativo passo l’analisi fenomenologica è
un’analisi in termini di possibilità: il che vuol dire: la possibilità è il
signi- ficato primario che essa attribuisce all’essere. Lo stesso accade
nell’esistenzialismo. Heidegger ha detto: « L’esserci, in quanto comprensione,
progetta il suo E. in possibilità » (Sein und Zeit, $ 32); e in realtà tutte le
analisi di Heidegger hanno per loro tema le possibilità dell’Esserci le quali
costi- tuiscono il tema dell’analitica esistenziale. Allo stesso modo, per
Jaspers, le possibilità oggettive costituiscono l’esistenza stessa (Phil., $
18); e Sartre afferma che « il possibile è una struttura del per-sè cioè della
coscienza » (L’étre et le néant, pag. 34). È vero che per Sartre da questa
struttura si distin- guerebbe l’E. in sè cioè l’E. del fenomeno che non sarebbe
nè possibile nè necessario, ma semplice- mente esistente. Senonchè Sartre
attribuisce a questo stesso E. il carattere della contingenza e non ri- tiene
possibile una analisi dell’E. in sè se non a partire dall’E. per sè cioè dalla
coscienza: il primato della possibilità è quindi evidente in questa dottrina. È
tuttavia da osservare che uno dei caratteri della concezione in esame è il
rifiuto esplicito o l'abbandono del tentativo di una soluzione sem- plice e
globale del problema dell’E. e pertanto della trattazione « metafisica » di
questo problema. Il riconoscimento del significato dell’E. come pos- sibilità
esige infatti che si passi immediatamente alla considerazione e allo studio
delle possibilità stesse, nei campi specifici nei quali esse trovano il loro
condizionamento e quindi la loro «realtà ». Non è pertanto possibile svolgere
una metafisica della possibilità, sul modello o in sostituzione della
metafisica classica della necessità. Un tentativo di questo genere non avrebbe
come risultato che il ritorno puro e semplice alla metafisica della neces-
sità: come è stato mostrato dallo stesso Heidegger che, una volta abbandonato
il terreno dell’analisi esistenziale per l’elaborazione del « problema del-
l’E. in generale » è ritornato alle tesi classiche della metafisica
tradizionale col riconoscimento della ne- cessità dell’E. (EinfUhrung in die
Metaphysik, Tù- bingen, 1953). 347 ESSERE GETTATO. V. DeIEzIONE; EFFET- TIVITÀ.
ESSERE, GRANDE (franc. Grand Étre). Così Comte ha chiamato l’umanità come prima
per- sona della trinità positivistica, della quale il Grande Feticcio, cioè la
Terra, e il Grande Mezzo, cioè lo Spazio, sarebbero la seconda e la terza
persona (Synthèse subjective ou système universel des con- ceptions propres è
l’humanité, 1856). ESSERE PER SÈ. V. Per sè. ESSOTERICO. V. EsotERICO. ESTASI
(gr. txotaow; lat. Exrasis; inglese Ecstasy; franc. Extase; ted. Ekstase). 1.
La fase ultraintellettuale dell’ascesa mistica verso Dio: cioè la fase nella
quale la ricerca intellettuale di Dio cede il posto al sentimento di una
stretta comu- nione con lui o addirittura di una identificazione. La parola
(che nel linguaggio comune significa, oltrecchè spostamento, intontimento o
agitazione) fu adoperata nel senso sopra enunciato dagli indi- rizzi religiosi
della filosofia alessandrina e special- mente dai neoplatonici. Filone
caratterizzava lE. come « trasformazione dell’intelligenza » e precisa- mente
come trasformazione operata non già dalla intelligenza stessa ma direttamente
da Dio (All. leg., II, 31-32). Plotino caratterizza l’E. come l’aboli- zione
dell’alterità tra colui che vede e la cosa vista e come l’identificazione
totale ed entusiastica del- l’anima umana con Dio. « Questo non è più una
visione, egli dice, ma un modo diverso di vedere: estasi e semplificazione e
dedizione di se stesso e desiderio di contatto e quiete e comprensione di
congiunzione » (Enr., VI, 9, 11). Il linguaggio del- l’amore e specialmente
dell’amore inteso come unità (v. AMORE) è spesso adoperato dai Mistici per de-
scrivere lo stato di estasi. Così fa Plotino frequen- temente (per es., Enz.,
VI, 7, 34). Così faranno i Mistici medievali, ai quali la nozione arriva so-
prattutto attraverso le opere del falso Dionigi l’Areopagita. Questi vede il grado
più alto della ascesa mistica nella deificazione (v.) cioè nella tra-
sformazione dell’uomo in Dio (De mystica theol., I, 1). A questo modo intende
l’E. anche Bernardo di Chiaravalle (sec. x1) che la chiama anche excessus
mentis e la considera come il supremo grado della contemplazione: quello nel
quale l’anima si unisce con Dio come una goccia d’acqua caduta nel vino si
dissolve in esso ed assume il sapore ed il colore del vino (De diligendo Deo,
11, 28). Allo stesso modo considerano l’E. i Mistici di S. Vittore. Se- condo
Ricardo, essa è il culmine dell’ultimo grado dell’ascesa a Dio cioè della
alienazione della mente da se stessa (De praeparatione ad contemplationem, V,
2). E S. Bonaventura a sua volta vede nell’estasi l’elevazione di sè al di
sopra di sè, sino alla fonte dell'amore superintellettuale. Essa è uno stato di
348 ignoranza dotta, nel quale l’oscurità dei poteri conoscitivi diventa luce
soprannaturale (2revilo- quium, V, 6). La nozione passava senza mutamenti ai
Mistici tedeschi del xrv secolo (Eckhart, Su- sone, Tauler). Giordano Bruno
usava la termi- nologia mistica dell’E. (raptus mentis, excessus mentis) nel
suo dialogo Degli eroici furori per in- dicare il congiungimento
dell’intelletto «eroico » con «il proprio oggetto che è il primo vero o la
verità assoluta » (I, 4): la quale è poi la natura stessa. Nell’età moderna
l’E. in questo senso ha attratto soprattutto l'attenzione degli psicologi e
degli psi- chiatri; i quali non hanno saputo scorgere nessuna differenza,
tranne che nel contenuto intellettuale, tra l’E. religiosa e l’E. determinata
da condizioni anor- mali della vita psichica o da droghe (cfr. J. H. LEUBA, The
Psychology of Religious Mysticism, 1925, spe- cialmente cap. IX). Secondo
Pierre Janet, l’E. è in ogni caso caratterizzata da tre cose: 1° dalla
soppressione quasi completa della attività motrice e da una disposizione
all’immobilità; 2° da un’at- tività più o meno grande del pensiero interno; 3°
da un grande sentimento di gioia (De /° Angoisse à l’Extase, 1928, pag. 497).
2. Da Heidegger e Sartre sono state chiamate E. (nel senso letterale del
termine, come « esser fuori » o «uscir fuori») le tre determinazioni del tempo
cioè il passato, il presente o il futuro in quanto ognuna di esse muove o va
verso l’altra, il pre- sente verso il passato, il presente verso il futuro, il
futuro verso il presente. Dice Heidegger: « La temporalità è l’originario fuori
di sè in sè e per sè. Noi chiamiamo i fenomeni caratterizzati come av- venire,
passato e presente, le E. della temporalità » (Sein und Zeit, $ 65). In séguito
Heidegger ha visto nelle E. temporali le manifestazioni dell’Essere (Was ist
Metaphysik?, 6* ediz., 1951, pag. 14). Ana- logamente Sartre parla del «
rapporto estatico in- terno» come della «sorgente della temporalità » (L’étre
et le néant, pag. 256) (v. TEMPO, 3). ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA (in- glese
Thesis of Extensionality; franc. Thèse d'exten- sionalité). Così è stata
chiamata da Russell (Principia Mathematica, 1°, pag. XIV, 659 sgg.) e da Carnap
(Logische Syntax der Sprache, 1937, $ 67; tradu- zione ingl., pag. 245 sgg.) la
tesi che « per ogni sistema non estensionale vi è un sistema estensio- nale nel
quale il primo può esser tradotto ». Poichè i più importanti enunciati
intensionali sono quelli modali, la tesi in questione afferma la traducibilità
degli enunciati modali in enunciati non modali. Per es., gli enunciati « A è
possibile », « A = non — A è impossibile», «A o non A è necessario», «A è
contingente» equivarrebbero rispettivamente ai seguenti enunciati: «‘A’ non è
contraddittorio», ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA «"A= non A°' è
contraddittorio», «‘A o non A* è analitico », «‘A’ è sintetico» (Logische
Syntax der Sprache, $ 69; trad. ingl., pag. 250 sgg.). Lo stesso Carnap
tuttavia presentava la tesi dell’E. come una semplice supposizione, per quanto
plau- sibile, e la esprimeva paradossalmente, con un enunciato modale: « Un
linguaggio universale della scienza può essere estensionale» (/bid., $ 67; tra-
duzione ingl., pag. 245). Anche in sèguito Carnap non si è pronunciato sulla
validità della tesi (Mean- ing and Necessity, 1957, $ 32). ESTENSIONE (gr.
Suotaoi; lat. Exfensio; ingl. Extension; franc. Extension; ted. Ausdehnung). Il
carattere fondamentale dei corpi fisici, in quanto dotati delle tre dimensioni
dello spazio. In base a tale carattere Aristotele definiva il corpo (Phys.,
III, 5, 204b 20). Cartesio non fece che espri- mere questo stesso concetto
quando vide nell’E. «la natura della sostanza materiale, come il pen- siero
costituisce la natura della sostanza pensante + (Princ. Phil., I, 53). Spinoza
fece dell’E. uno degli attributi fondamentali di Dio cioè della Natura (Er.,
II, 2). Ma già Ockham nel xiv secolo aveva messo in luce il carattere
fondamentale dell’E. come attributo dei corpi. « È impossibile, egli scriveva,
che la materia sia senza E.: non c’è materia che non abbia parte distante da
parte, onde sebbene le parti della materia possano unirsi tra loro come, per
es., quelle dell’acqua o dell’aria, tuttavia mai possono esistere nel medesimo
luogo. Ora la di- stanza reciproca delle parti della materia è l'E.» (Summulae
Physicorum, I, 19). Appunto come carat- teristica del corpo, l’E. è, secondo
Hobbes, lo spazio reale cioè la grandezza stessa del corpo, distinta dallo
spazio imaginario che è lo spazio puro e semplice o spazio vuoto (De corp., 8,
4). Le nota- zioni di Leibniz non sono molto diverse. L'E. è insieme con
l’antitipia (v.), uno dei caratteri fonda- mentali della materia. Essa è la
continuità nello spazio per cui le sue modificazioni costituiscono la varietà
delle grandezze e delle figure (Op., ed. Erdmann, pag. 463). Locke
identificava, come già Cartesio, l’E. con lo spazio (Saggio, II, 13, 3). Con
Berkeley l’E. comincia ad essere ridotta a un fenomeno soggettivo. L'E. è
dichiarata da Ber- keley un'idea, la quale esiste in quanto è percepita
(Principles of Knowledge, I, $ 9): un'affermazione che Hume ribadì dicendo che
l’E. non è altro che una copia di qualche impressione (7rearise, I, 2, 3).
Questa soggettivazione dell’E., che l’empirismo set- tecentesco fa dal punto di
vista della intuizione sensibile, è operata dall’idealismo romantico dal punto
di vista della ragione speculativa. Schelling pretende di dimostrare a priori
perchè «la materia debba necessariamente considerarsi come estesa se- condo tre
dimensioni »: ed effettua questa sedicente ESTERIORITÀ, dimostrazione deducendo
le tre dimensioni dello spazio dal modo di operare della forza di attrazione e
di repulsione (System des transzendentale Idea- lismus, 1800, III, 2, Deduzione
della materia, Cor.). In modo analogo Maine de Biran riteneva di poter dedurre
« necessariamente» l’idea di E. dall’idea dello sforzo e della resistenza che
esso implica, nel senso che l’E. sarebbe una « continuità di resi- stenza »
(Fond. de la Psychologie, CEuvres, ed. Na- ville, II, pag. 272). E un tentativo
simile è quello di Bergson, che cerca di intendere l’E. come il movimento
opposto a quello della vita cioè come il movimento per il quale l’io,
abbandonandosi alla fantasticheria, si sparpaglia in una molteplicità di
sensazioni esterne l’una all’altra. L’E. sarebbe la distensione dello sforzo
dell'io (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 220). Concetti simili a quelli
esposti da Schelling, Maine de Biran e Bergson sono assai comuni nella
filosofia della seconda metà dell'800 e dei primi decenni del nostro se- colo.
Ma questo tipo di speculazione ha perduto ogni interesse filosofico o
scientifico negli ultimi decenni, per i mutamenti che sono sopravvenuti, ad
opera della fisica relativistica, nella nozione di corpo (v.). La nozione di
corpo come particolare intensità di un campo di energia non ha più bi- sogno di
essere definita in termini di E.; o, se si preferisce, l’E. può essere intesa
soltanto come la possibilità della misura dell’intensità di energia in un dato campo.
ESTENSIONE ED INTENSIONE. Vedi INTENSIONE ED ESTENSIONE. ESTENSIVO ED INTENSIVO
(ingl. Exten- sive and Intensive; franc. Extensif et intensif; te- desco
Extensiv und intensiv). La distinzione fra grandezza E. e grandezza intensiva è
stata fatta da Kant. Secondo Kant è E. « quella quantità nella quale la
rappresentazione delle parti rende possi- bile la rappresentazione del tutto (e
perciò neces- sariamente la precede)»; per es., le parti dello spazio o del
tempo sono quantità E. in questo senso perchè le quantità spaziali o temporali
sono sempre intuite come aggregati o molteplicità di parti precedentemente
date. La quantità intensiva invece è quella « che è appresa soltanto come unità
e in cui la molteplicità può essere rappresentata solo per approssimazione alla
negazione = 0». Cioè la quantità intensiva è quella che ha sempre gradi; per
es., il rosso ha un grado che per quanto piccolo non è mai minimo e così il
calore, la pesan- tezza, ecc. Queste sono le qualità continue 0, come Kant dice
con termine newtoniano, fiuenti (Critica R. Pura, II, 2, sez. 3, Assiomi
dell’intuizione). ESTERIORITÀ, INTERIORITÀ (inglese Exterlority, Interiority;
franc. Extériorité, Intério- rité; ted. Aeusserlichkeit, Innerlichkeit). Il
tema filo- INTERIORITÀ 349 sofico del contrasto tra interiorità ed E. nasce
con- temporaneamente con la nozione di coscienza (v.) ed esprime il contrasto
tra ciò che è estraneo alla coscienza e ciò che le è proprio. La predicazione
popolare stoica ha per la prima volta sfruttato ampiamente questo tema: il
quale ricorre continua- mente nelle pagine di Epitteto, Marco Aurelio e Seneca.
Dice Epitteto: « Stato e contrassegno del- l’uomo comune si è nè benificio nè
danno aspet- tarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e
contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o
temere da sè mede- simo » (Manuale, 48). E Marco Aurelio: « Le cose per se
stesse non arrivano a toccar l’anima, nè vi banno alcun accesso, nè possono
mutarla o ri- muoverla. È invece l’anima che da sè sola si muta e si muove; e
quali sono i giudizi che essa stima degna di sè fare intorno alle cose esterne,
tali essa fa che siano per lei le dette cose » (Ricordî, V, 19). Se- neca
contrappone «la gioia che nasce dall’interno » a quella che deriva dalle cose
esterne (Ep., 23). Neoplatonismo e Cristianesimo operarono l’iden- tificazione
dell’interiorità con la sfera della coscienza e dell’E. con la sfera del mondo
cui appartengono le cose naturali e gli altri esseri. Il tema del con- trasto
tra interiorità ed E. divenne così il tema classico di ogni filosofia che
facesse appello alla coscienza come a una sfera di realtà privilegiata sia per
la sua certezza sia per il suo valore. Il lin- guaggio comune ha accolto i
significati filosofici delle due parole che significano in esso proprio la
contrapposizione da ciò che è coscienza e ciò che non lo è. La metafisica dello
spiritualismo (v.) e il metodo dell’introspezione (v.) utilizzano ugual- mente
questo tema tradizionale. Sarebbe molto fa- cile mostrare il carattere
puramente metaforico, e perciò l’assenza di significato preciso, delle espres-
sioni in cui ricorrono i termini in questione o i corrispondenti aggettivi. «
Realtà interna » e « realtà esterna », « mondo interno » e «mondo esterno »,
«oggetti interni» e «oggetti esterni» sono espres- sioni, che propriamente
parlando, non hanno senso sia perchè non vien fatto riferimento all'àmbito
chiuso rispetto al quale un «esterno» e un « in- terno » si può determinare,
sia perchè tale àmbito chiuso, quando viene determinato, non è spaziale perchè
è la coscienza stessa. Hegel ha fatto un uso abbondante di questi termini che,
attraverso la sua opera appunto, sono penetrati nella terminologia filosofica.
Egli identificava l'interno con la « ragion d’essere» e l’esterno con la sua
manifestazione (Enc., $ 138-39). Ma aveva il buon senso di ag- giungere: «
L’uomo, com'è esteriormente cioè nelle sue azioni (di certo non nella sua E.
soltanto cor- porea) è interno; e quand’egli è solo interno — cioè virtuoso,
morale, solo in intenzioni, disposi- 350 zioni, ecc. — e il suo esterno non è
con ciò identico, allora l’uno è così vuoto come l’altro » (Ibid., $ 140).
ESTETICA (ingl. Aesthetics; franc. Esthétique; ted. Aesthetik). Con questo
termine si designa la scienza (filosofica) dell’arte e del bello. Il nome è
stato introdotto da Baumgarten verso il 1750 in un libro (Aesthetica) nel quale
si sosteneva la tesi che oggetto dell’arte sono le rappresentazioni con- fuse
ma chiare, cioè sensibili ma « perfette », mentre oggetto della conoscenza
razionale sono le rappre- sentazioni distinte (i concetti). Il nome significa
propriamente « dottrina della conoscenza sensibile +; e Kant, che pure parla
(nella Critica del giudizio) di un giudizio estetico che è per l'appunto il
giudizio sull’arte e sul bello, chiama «E. trascendentale » (nella Critica
della Ragion Pura) la dottrina delle forme a priori della conoscenza sensibile.
Già per Kant il nome E,, riferito all’arte e al bello, ha tuttavia cessato di
aver riferimento alla dottrina di Baumgarten; ed oggi il nome designa qualsiasi
analisi, indagine, speculazione che abbia per og- getto l’arte ed il bello, a
prescindere da ogni dot- trina o indirizzo specifico. Si è detto «l’arte e il
bello» perchè le indagini dirette all’uno e all’altro di questi due oggetti
coin- cidono o almeno sono strettamente intrecciate nella filosofia moderna e
contemporanea. Non così ac- cadeva invece nella filosofia antica, dove le
nozioni di arte e di bello erano ritenute diverse e reciproca- mente indipendenti.
La dottrina dell’arte era chia- mata dagli antichi, col nome del suo stesso
oggetto, poetica cioè arte produttiva, e produttiva di ima- gini (PLAT., Sof.,
265 a; ARIST., Ret., I, 11, 1371 b 7); mentre il bello (in quanto non incluso
nel novero degli oggetti producibili) cadeva fuori della poetica e veniva
considerato a parte (v. BeLLO). Così per Platone il bello è la manifestazione
evidente delle Idee (cioè dei valori) ed è perciò la più facile e ovvia via
d’accesso a tali valori (Fedr., 250 e); mentre l’arte è imitazione delle cose
sensibili o degli eventi che si svolgono nel mondo sensibile e costituisce
piuttosto un rifiuto di muovere al di là dell’appa- renza sensibile verso la
realtà e i valori (Rep., X, 598 c). Aristotele, a sua volta ritiene che il bello
consiste nell’ordine, nella simmetria e in una gran- dezza che si presti ad
essere facilmente abbracciata dalla vista nel suo complesso (Poet., 7, 1450b 35
sgg.; Met., XIII, 3, 1078 b 1); mentre riprende e fa sua la teoria dell’arte
come imitazione, pur sottraendola, con la nozione della catarsi, a quella
specie di confinamento alla sfera sensibile cui Pla- tone l’aveva condannata
(v. oltre). A partire dal *700 le due nozioni dell’arte e del bello appaiono
connesse come oggetti di un’unica investigazione; e la connessione fu operata
mediante ESTETICA il concetto del gusto inteso come facoltà di di- scernere il
bello, sia dentro che fuori dell’arte. La ricerca di Hume sulla Regola del
gusto (1741) suppone già questa identificazione come la suppone quella di
Burke, Sull’origine delle idee del sublime e del bello (1756; cfr. V, 1), e il
saggio di G. SPAL- LETTI, Sopra la bellezza (1765; cfr. $ 19-20). Ma fu
soprattutto Kant a stabilire l'identità dell’artistico e del bello affermando
che « la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte »; e che «l’arte non
può essere detta bella se non quando noi, pur essendo coscienti che è arte, la
consideriamo come na- tura » (Crit. del Giud., $ 45). Finalmente Schelling
invertiva il rapporto tradizionale tra arte e natura, facendo dell’arte la
regola della natura invece che della natura la regola dell’arte. L’arte è
difatti per Schelling la necessaria e perfetta realizzazione di quella bellezza
che la natura attinge solo in modo parziale e casuale (System des transzendentalen
Idea- lismus, 1800, VI, $ 2; cfr. lo scritto « Le arti figu- rative e la
natura», 1807, in Werke, VII, pag. 289 e seguenti). Tuttavia un tentativo di
separare la scienza del- l’arte dalla dottrina del bello è stato fatto più
recentemente in Germania, allo scopo di istituire su basi positive una «scienza
generale dell’arte » (E. UTITZ, Grundlegung der allgemeinen Kunstwissen-
schaft, 2 voll., Stuttgart, 1914 e 1920; M. Dessorr, Aesthetik und allgemeine
Kunstwissenschaft, Stutt- gart, 1923). Tale scienza avrebbe dovuto avere come
oggetto l’arte nei suoi aspetti tecnici, psico- logici, morali e sociali,
lasciando invece all’E. la considerazione, per essa tradizionale, del bello:
con- siderazione peraltro ritenuta insufficiente a dar conto di tutti i fenomeni
artistici, in quanto l’arte dei primitivi, per es., e buona parte dell’arte mo-
derna sembrano sfuggire alla categoria del bello. Queste considerazioni
tuttavia non sono apparse decisive. La nozione di « bello » è abbastanza estesa
nell’uso comune e anche in quello colto (proprio dei critici d’arte e dei
filosofi) per qualificare qual- siasi opera d’arte riuscita, anche se
rappresenta cose o persone che, per se stesse, non potrebbero dirsi « belle »
in base ai canoni correnti. Non si è ravvisato pertanto l’opportunità di una
separazione tra l’E. come scienza filosofica del bello e la scienza dell’arte
come tale (cfr. B. C. HevL, New Bearines in Esthetics and Art Criticism, 1943,
pag. 20 sgg.). D'altronde, problemi di ordine psicologico, sociale, morale,
ecc., sono sempre più largamente dibattuti nel dominio stesso dell’E. e non
pare che esigano una sede a parte per la loro trattazione. La pro- posta in
questione perciò è servita soltanto a sotto- lineare l’esigenza che l’E.
includa sempre più am- piamente tali problemi nella sua considerazione. Più
fortuna ha avuto la proposta di Paul Valéry ESTETICA di distinguere dall’E. una
poetica che dovrebbe consistere, secondo le sue parole, « nell’analisi com-
parata del meccanismo dell'atto dello scrittore e delle altre condizioni meno
definite che quest’atto sembra esigere» (Variéré, 1944, V, pag. 292). Col nome
di poetica si indica oggi spesso l’insieme delle riflessioni che un artista fa
sulla propria atti- vità o sull'arte in generale; e se con l’uso di questa
parola non s'intende alludere a una forma di E. minore, depotenziata o
provvisoria, l’uso stesso non suscita obiezioni. La storia dell’E. presenta una
grande varietà di definizioni dell’arte e del bello. Sebbene ognuna di queste
definizioni abbia di regola la pretesa di esprimere in modo assoluto l’essenza
dell’arte, si va facendo oggi strada l’idea che la maggior parte di esse
esprimano tale essenza solo dal punto di vista di un particolare problema o
gruppo di pro- blemi. È, per es., abbastanza chiaro che la defini- zione
dell’arte come imitazione è la soluzione di un problema totalmente diverso da
quello di cui la definizione dell’arte come piacere si presenta come soluzione:
difatti, la prima concerne il rap- porto tra l’arte e la natura, la seconda il
rapporto tra l’arte e l’uomo. Le teorie E. non possono perciò essere presentate
se non in riferimento ai problemi fondamentali di cui sono (0 pretendono
essere) la soluzione; e occorre preliminarmente prospettare quali sono tali
problemi per poter accennare, a proposito di ciascuno di essi, alle soluzioni
più importanti che sono state o sono attualmente pro- poste. Ora i problemi
fondamentali intorno ai quali si possono raggruppare tutti quelli che si
dibattono nel dominio dell’E. e che pertanto consentono di orientarsi nella
varietà degli indirizzi di questa scienza sono tre e precisamente: 1° il
rapporto tra l’arte e la natura; 2° il rapporto tra l’arte e l’uomo; 3° il
compito dell’arte. 1° Molte definizioni dell'arte sono determina- zioni del
rapporto tra l’arte e la natura (o in ge- nerale la realtà). Poichè si può
intendere l’arte come dipendente dalla natura, o indipendente da essa o
condizionata da essa, si possono distinguere tre diverse concezioni dell’arte
sotto questo profilo e cioè: a) l’arte come imitazione; b) l’arte come
creazione; c) l’arte come costruzione. a) La più antica definizione dell’arte
nella filosofia occidentale, quella di imitazione, è intesa a subordinare
l’arte alla natura o alla realtà in ge- nerale. Platone insiste sulla passività
dell’imitazione artistica: il pittore non fa che riprodurre l’apparenza
dell’oggetto costruito dall’artigiano (Rep., 598 b); il poeta non fa che
copiare l’apparenza degli uo- mini e delle loro attività senza intendersi
veramente delle cose che imita e senza la capacità di effet- tuarle (/bid., 599
b). Per Aristotele, il valore del- 351 l’arte deriva dal valore dell’oggetto
imitato: per es., devono essere propri dell'oggetto che la tragedia imita, cioè
del mito, i caratteri che garantiscono alla tragedia la sua riuscita. « Come i
corpi degli esseri viventi devono, per essere belli, avere una grandezza che
possa facilmente nel suo insieme essere abbracciata dallo sguardo, così il mito
deve avere un’estensione che possa facilmente essere ab- bracciato nel suo
insieme dalla mente» (Poer., VII, 1451 a 2). All’artista appartiene tutt’al
più, da questo punto di vista, il merito dell’opportuna scelta dell’oggetto
imitato; ma, scelto l’oggetto, egli altro non può che riprodurlo nelle sue
carat- teristiche proprie. Non fa differenza che l’oggetto imitato sia una cosa
naturale o un'entità trascen- dente o intelligibile: la passività
dell’imitazione ri- mane. Così Seneca dice che quando l’artista tiene rivolto
lo sguardo a un esemplare da lui stesso concepito, quest’esemplare è in realtà
contenuto nella mente divina (Zp., 65): cioè non è creato. Allo stesso modo
Plotino osserva: «Se qualcuno disprezza le arti perchè non fanno che imitare le
cose naturali, bisogna dire in primo luogo che le stesse cose naturali imitano
altre cose e in secondo luogo bisogna sapere che le arti non imitano di-
rettamente gli oggetti visibili ma si rivolgono alle regioni dalle quali essi
dipendono e così sono in grado di far molte cose per conto loro e di aggiun-
gere ciò che manca alle cose naturali» (Enn., V, 8, 2). Così, secondo Plotino
ciò che l’arte aggiunge alla natura è da essa attinto alla realtà superiore
(intelligibile) cui tiene rivolto lo sguardo. La teoria dell’imitazione si
trova ancora oggi difesa e seguita dai sostenitori del realismo dell’arte,
soprattutto nei paesi comunisti o tra coloro che si ispirano all’ideologia
comunista. Ma spesso l’interpreta- zione che si dà dell’imitazione le toglie
proprio quel carattere di passività che la caratterizzava nella sua formulazione
classica. Così Lukacs, che definisce l’arte come « rispecchiamento della realtà
», intende poi questa realtà come il risultato del rap- porto reciproco tra la
natura e l’uomo: rapporto che è mediato dal lavoro e dalla società in ogni suo
momento storico. Perciò vede nell'arte «il modo di espressione più adeguato e
più alto del- l’autocoscienza dell’umanità» (Astherik I, 1963, cap. VII, $ III;
trad. it. pag. 575). È, da questo punto, di vista l’imitazione non si distingue
dalla creazione. b) Il concetto dell’arte come creazione è proprio del
Romanticismo e fu fatto valere in tutta la sua forza da Schelling. « In che
cosa il pro- dotto E., egli diceva, si distingua dal comune prodotto artigiano
è facile giudicare perchè ogni creazione E. è nel suo principio assolutamente
/i- bera, in quanto l’artista può essere spinto ad essa 352 solo da una
contraddizione che si trovi nella parte più alta della sua natura, mentre ogni
altra crea- zione è occasionata da una contraddizione che è esterna a chi crea
e ha perciò il suo scopo fuori di sè » (System, cit., VI, $ 2). Per Schelling
l’arte è la stessa attività creatrice dell’Assoluto perchè il mondo è un «
poema » (/bid., VI, $ 3) e l’arte umana è una continuazione, specialmente
attraverso il genio, dell’attività creatrice di Dio. Questo concetto ve- niva
ripreso da Fichte negli scritti del secondo pe- riodo e cioè nei Caratteri del
tempo presente (1806), nell’Essenza del dotto (1805) e nella Destinazione del
dotto (1811) (cfr. PAREYSON, L'E. dell’idealismo tedesco, 1950, pag. 388 sgg.).
Come si vede, la tesi romantica dell’arte come creazione si com- pone di due
tesi diverse: I, l’arte è originalità assoluta e i suoi prodotti non si
lasciano ricondurre alla realtà naturale; II, come originalità assoluta, l'arte
è parte (o continuazione o manifestazione) dell’attività creativa di Dio. Sono
queste le tesi fondamentali che Hegel illustrò nelle sue Lezioni di Estetica. «
Si potrebbe imaginare, egli disse, che l’artista debba raccogliere nel mondo
esterno le forme migliori e riunirle o debba fare una scelta delle fisionomie,
delle situazioni, ecc., per trovare le forme più adatte al suo contenuto. Ma
quando egli abbia così raccolto e trascelto, non ha ancora fatto nulla: giacchè
l’artista dev'essere creatore e nella sua propria fantasia, con la conoscenza
delle forme vere e con un senso profondo e una viva sensibilità, deve
spontaneamente e di un sol getto formare ed esprimere il significato che lo
ispira» (Vorlesungen iîiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 240).
Dall’altro lato, proprio per questo suo carattere di creazione, l’arte
appartiene alla sfera dello Spirito assoluto ed è, con la religione e la
filosofia, una delle manifestazioni o realizzazioni di esso nel mondo. «L'arte,
dice Hegel, in quanto si occupa del vero come dell’assoluto oggetto della
coscienza appartiene alla sfera assoluta dello spi- rito e si colloca perciò,
in base al suo contenuto. sullo stesso piano della religione e della filosofia,
Giacchè anche la filosofia non ha altro oggetto che Dio ed è così essenzialmente
una teologia razionale e un perpetuo culto divino al servizio della verità »
(Ibid., I, pag. 147-48). Croce non fece, su questo punto, che ripetere, quasi
alla lettera, la dottrina di Hegel. « Come posizione e risoluzione di pro-
blemi (fantastici o estetici) l’arte non riproduce alcunchè di esistente, ma
produce sempre alcunchè di nuovo, forma una nuova situazione spirituale, e
perciò non è imitazione ma creazione. Del pari creazione è il pensiero il quale
anch’esso non con- siste in altro che in posizione e risoluzione di problemi
(logici o filosofici o speculativi che si dicano); e non mai in riproduzione di
oggetti o di ESTETICA idee » (Nuovi Saggi di E., 1920, DB: 156). Nello stesso
senso Gentile ha scritto: « E difficile rinun- ziare a vedere nell’artista un
libero spirito creatore. Ci saranno pure difficoltà, pel pensiero comune, a
rendersi chiaro conto di questa creatività dell’uomo; ma, ancorchè oscura,
quest'idea dell’artista che crea un mondo suo, è fitta profondamente in ogni
uomo che si accosta all’opera d’arte» (Fil. del- l’arte, 1931, II, $ 4).
Nell’àmbito della concezione romantica dell’arte, il principio che l’arte è
crea- zione appare come una verità evidente. Il corollario principale di questa
concezione è la scarsa importanza attribuita ai mezzi tecnici della espressione
e l’insistenza sulla natura « spirituale » cioè coscienziale dell’arte. Diceva
a questo propo- sito Hegel: «L’opera d’arte raggiunge solo alla superficie
l’apparenza della vita giacchè nel suo fondo essa è pietra, legno, tela, 0, nel
caso della poesia, lettere e parole. Ma questo aspetto della esistenza esterna
non è quello che costituisce l’opera d’arte; l’opera d’arte si origina dallo
spirito, appar- tiene al dominio dello spirito, ha ricevuto il bat- tesimo dello
spirito ed esprime soltanto ciò che si è formato sotto l’ispirazione dello
spirito » (Vor/e- sungen ilber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 55). Croce
a sua volta ha confinato nel dominio della « pratica » e considerato come
semplice espediente di comunicazione la tecnica espressiva dell’arte:
«L'artista, che abbiamo lasciato vibrante di im- magini espresse che prorompono
per infiniti canali da tutto l’esser suo, è uomo intero e perciò anche uomo
pratico; e, come tale, avvisa ai mezzi di non lasciar disperdere il risultato
del suo lavorio spi- rituale e di rendere possibile e agevole, per sè e per gli
altri, la riproduzione delle sue imagini; onde promuove atti pratici, che
servono a quel- l’opera di riproduzione. Questi atti pratici sono guidati, come
ogni atto pratico, da conoscenze e perciò si dicono tecnici; e, come pratici,
distin- guendosi dalla intuizione che è teorica, paiono esterni a questa e
perciò si dicono fisici; e tanto più facilmente prendono questo nome, in quanto
vengono dall’intelletto fissati ed astratti » (Breviario di E., in Nuovi Saggi
di E., II, pag. 39-40). E Gentile ribadiva: « Posto che l’elemento estetico
consista nella soggettività sentimentale che informa di sè un pensiero, la
rappresentazione in cui questo pensiero si sviluppa e attua, riguarda
unicamente i mezzi tecnici dell’espressione. Alfieri è lo stesso poeta nei
sonetti e nelle tragedie, ecc.» (Fil. del- l’arte, VII, $ 8). c) Il concetto
dell’arte come costruzione si ha quando non si considera l'attività E. nè come
pura ricettività nè come pura creatività ma come un incontro tra la natura e
l’uomo o come un prodotto complesso in cui l’opera dell’uomo si ESTETICA
aggiunge, senza distruggerla, a quella della natura. Questo fu propriamente il
concetto che dell’arte ebbe Kant: che concepì l’attività E. come una forma del
giudizio riffettente: cioè della facoltà che fa scorgere la subordinazione
delle leggi naturali alla libertà umana o il finalismo della natura rispetto
all'uomo. Il finalismo della natura non è secondo Kant nè «un concetto della
natura» nè « un con- cetto della libertà »: cioè non appartiene propria- mente
nè soltanto alla natura nè soltanto all’uomo, ma all'incontro tra la natura e
l’uomo dovuto al fatto che l’uomo deve realizzare proprio nella na- tura i suoi
fini e perciò prova un sentimento di piacere (cioè di liberazione da un
bisogno) quando questa realizzazione gli appare possibile: quando cioè la
natura gli si dimostra adatta a servire i fini umani (Cri. del Giud., Intr.,
V). Nello stesso concetto dell'attività E., Kant includeva così quello di un
incontro tra il meccanismo naturale e la libertà umana: incontro per il quale
l’arte non prescinde dalla natura ma la subordina a sè e l’uomo gode di questa
subordinazione come di un bisogno appagato. Il concetto col quale Kant più
frequentemente espresse il carattere costruttivo (nè imitativo nè creativo)
dell’arte fu quello di giuoco. Come attività liberale o non mercenaria, l’arte
è « un semplice giuoco cioè un’occupazione di per se stessa piacevole che non
abbisogna di altro scopo » (/bid., $ 43). E la nozione di giuoco fu poi
adoperata per definire alcune singole arti, specialmente l’eloquenza, la poesia
e la musica (Ibid., $ 51). Lo stesso significato ha il concetto di giuoco nella
dottrina di Schiller. L'uomo, essendo insieme natura e ragione, è dominato da
due ten- denze contrastanti, la tendenza materiale e la ten- denza formale: e
queste tendenze sono conciliate dalla tendenza al giuoco, che mira a realizzare
la forma vivente cioè la bellezza (Uber die aesthetische Erziehung des
Menschen, 1793-95, XV; trad. ital., pag. 71). La tendenza al giuoco armonizza
la li- bertà umana con la necessità naturale. « Con libertà illimitata, dice
Schiller, l’uomo può congiungere le cose che la natura separò e può separare
quelle che la natura congiunse... Ma possiede tale diritto di sovranità solo
nel mondo dell’apparenza, nel- l’irreale regno dell’imaginazione e solo finchè
si astiene scrupolosamente, nel campo della teoria, dall’affermarne l’esistenza
e, nella pratica, dal voler produrre da esso un’effettiva esistenza» (/bid.,
XXVI, pag. 134). L'apparenza E. (o sfera del giuoco) è pertanto il dominio in
cui l'uomo e la natura collaborano insieme, la natura limitando e condizionando
la libertà umana e la libertà umana, dal canto suo, procedendo a comporre e
unificare i dati naturali. Questo è proprio il concetto della costruzione che,
23 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 353 non mancò di fare qualche
apparizione nella stessa E. romantica del sec. xx. Il più grosso (se non il più
grande) monumento di questa E., l’E. 0 Scienza del bello (1846-57) di F. T.
Vischer, pur assumendo come principio proprio del mondo dell’arte l’Idea
hegeliana, cioè la Ragione autocosciente, conside- rava l’Idea stessa in lotta
incessante con ostacoli e influenze che Vischer complessivamente chiamava il
«regno del caso». Tutta la vita dello spirito è secondo Vischer « la storia
dell’'annullamento e del- l'assimilazione del caso » (Aesthetik oder Wissen-
schaft des Schbnen, $ 41): ma soltanto nella bellezza, il caso non è distrutto
ma assimilato e organizzato. Ciò equivaleva a vedere nell’arte un’opera, non di
creazione, come Hegel l'aveva concepita, ma di costruzione condizionata.
Nell’E. contemporanea il concetto dell’arte come costruzione domina il campo.
Esso è stato esplici- tamente difeso da Valéry che, sul fondamento di esso, ha
affermato l’eccellenza dell'architettura su tutte le altre arti. « Colui che
costruisce o crea, ha scritto Valéry, impegnato com°’è con il resto del mondo e
con il movimento della natura che tendono perpetuamente a dissolvere, a
corrompere o a rovesciare quel che egli fa, deve ravvisare un terzo principio
che egli tenta di comunicare alle proprie opere e che esprime la resistenza che
vuole sia da questi opposta al proprio destino di perituro. Crea insomma la
solidità e la durata » (Eupalinos; trad. ital., pag. 142). Lo stesso concetto
si trova variamente ripetuto nelle considerazioni estetiche di molti poeti
contemporanei (v. POESIA) e Dewey lo esprime nella forma più propria di
collaborazione o contrasto tra il fare e il subire: « L'arte nella sua forma
accomuna in una stessa relazione il fare e il subire, l'energia che esce ed
entra, che fa sì che un’esperienza sia esperienza. Il prodotto è un’opera
d’arte E. a causa dell’eliminazione di tutto ciò che non contribuisce alla
mutua organizzazione dei fat- tori sia dell’azione che della ricezione
reciproca e a causa della selezione propria di quegli aspetti e tratti che
contribuiscono alla loro interpretazione + (Art as Experience, 1934, cap. III;
trad. ital., pa- gina 60). L. Pareyson nello studiare la formazione dell’opera
d’arte e nel darne la teoria ha delineato i caratteri della costruzione
artistica. « Fare inven- tando insieme il modo di fare; considerare la riu- scita
come criterio a se stessa; produrre l’opera inventandone la regola individuale;
far coincidere l’invenzione con la produzione; l’ideazione con la
realizzazione, il concepimento con l’esecuzione; ope- rare in modo che l’opera
d’arte sia insieme la legge e il risultato della propria formazione: ecco tante
espressioni equivalenti a designare il processo for- mativo dell’arte e a
indicare la coincidenza di tentativo e organizzazione nel procedimento arti-
354 stico» (E., 1954, pag. 126). Il teorema fonda- mentale di questa concezione
dell’arte è l’identità della produzione artistica con la sua tecnica: al modo
in cui la distinzione radicale tra tecnica e produzione è il teorema
caratteristico della conce- zione dell’arte come creazione. La cosiddetta arte
astratta che più delle altre insiste sull’identità di tecnica e produzione è,
nel suo complesso, una manifestazione di questo modo d’intendere l’arte. 2° Il
secondo problema fondamentale dell’E. è quello del rapporto tra l’arte e l’uomo
cioè della situazione o posizione dell’arte nel sistema delle facoltà o delle
categorie spirituali. Si possono distinguere a questo proposito tre concezioni
fon- damentali: 4) quella che considera l’arte come co- noscenza; 8) quella che
la considera come attività pratica; C) quella che la considera come
sensibilità. A) Che l’arte appartenga alla sfera della co- noscenza sembra
suggerito dalla dottrina aristote- lica per quanto (come si vedrà) Aristotele
abbia esplicitamente attribuito l’arte alla sfera dell’atti- vità pratica. Ma
egli osserva che l’arte ha origine da quella tendenza all’imitazione che è un
aspetto del desiderio di conoscere (Poet., IV, 1448 b 5); e a proposito della
poesia, in un luogo famoso, afferma che essa è più filosofica della storia
(/bid., 9, 1451 b 5): il che sembra voler dire che essa ha maggior valore
teoretico della storia in quanto è più vicina alla prima scienza teoretica. Ma
fu so- prattutto il Romanticismo a insistere sul valore conoscitivo dell’arte,
scorgendo in essa addirittura con Schelling, «l’organo generale della filosofia
» in quanto l’arte fa cogliere quell’« Identità della attività cosciente e
dell’inconscia +, che è Dio stesso o l'Assoluto (System, cit., VI, 1). Hegel
faceva ar- retrare l’arte di un passo, ponendola al di sotto della filosofia e
della religione; ma ne riconfermava il valore teoretico attribuendola alla
sfera di quello « Spirito assoluto » che è la più alta conoscenza (o «
autocoscienza +) che l’Assoluto può attingere di sè (Enc., $ 556). L’E. di
Croce e tutte quelle che su di essa si modellano seguono questa attribuzione.
Fin dalla prima formulazione della sua dottrina, Croce insistette sulla
definizione dell’arte come primo grado del conoscere cioè « conoscenza
intuitiva o del particolare » (E., 1902, cap. I). E ha sempre insistito sulla
tesi che l’arte è «una teoresi, un conoscere », che riannoda il particolare
all’universale e perciò ha sempre un’impronta di universalità e totalità (La
poesia, 1936). Questa stessa tesi è anche il presup- posto dell’E. di Gentile:
nella quale la definizione dell’arte come sentimento significa soltanto la
ridu- zione dell’arte a pensiero « inattuale » cioè che non ancora si è
realizzato in un oggetto (La filosofia del- l’arte, 1931, cap. IV). La stessa
dottrina bergso- niana dell’arte, formulata a proposito della funzionedel
comico, riduce l’arte all’intuizione che è l’or- gano della conoscenza
filosofica (Le rire, 1908, pag. 160). Infine quell’indirizzo di critica delle
arti figurative che è stato chiamato della « visibilità pura » perchè vede
nelle forme e nei gradi di quelle arti forme e gradi del vedere ha condiviso
talora questa nozione dell’arte come conoscenza. Così ha detto, ad es., K.
Fiedler: « Solo verità e conoscenza appaiono l’unica occupazione degna
dell’uomo e se si vuole assegnare all’arte un posto fra le più alte tendenze
dello spirito occorre indicarle come fine solo lo slancio alla verità, la
spinta al conoscere » (Aphorismen, in Schriften Uber Kunst, 1914, II, 8, pag.
147 sgg.). B) L'attribuzione dell’arte alla sfera dell’at- tività pratica è la
tesi esplicita di Aristotele. Data la grande divisione tra scienze feoretiche o
conosci- tive, che hanno per oggetto il necessario, e scienze pratiche che
hanno per oggetto il possibile, l’arte appartiene, secondo Aristotele, al dominio
pratico e costituisce l’oggetto della poetica cioè della scienza della
produzione, mentre l’altra suddivisione della pratica è la scienza dell’azione
(Et. Nic., VI, 4, 1140a 1). Nonostante la potente suggestione di Aristotele (o
forse perchè tale suggestione è stata annullata dall’altra di cui si è detto),
la concezione dell’arte come attività pratica è ritornata solo ra- ramente
nella storia dell’estetica. Può essere com- presa in questa rubrica la
concezione dell’arte come giuoco. Questa fu esposta per la prima volta da H.
Spencer che considerò l’arte come un giuoco che si è svincolato dal suo scopo
di addestramento biologico ed è diventato fine a se stesso (Principles of
Psychology, 1855, $ 535-36). Con alcune varianti la teoria fu ripresa da K. Groos
che riportò l’arte alla «esperienza sensoria del giuoco » (Spiele des Menschen,
1889). Ma è stato soprattutto Nietzsche a insistere sul carattere pratico
dell’arte, vedendo in essa una manifestazione della volontà di potenza. L’arte
è condizionata secondo Nietzsche, da un sentimento di forza e di pienezza,
quale si verifica nell’ebrezza. La bellezza è l’espressione di una vo- lontà
vittoriosa, di una coordinazione più intensa, di un’armonia di tutti i voleri
violenti, di un equi- librio perpendicolare infallibile. « L'arte, dice Nietz-
sche, corrisponde agli stati di vigore animale. È da una parte l’eccesso di una
costituzione florida che trabocca nel mondo delle imagini e dei desideri;
dall’altra, l’eccitamento delle funzioni animali, me- diante le imagini e i
desideri di una vita intensi- ficata; è una esaltazione del sentimento della
vita e uno stimolante della vita» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 361).
Essenziale all’arte è la perfezione dell’essere, l'avviamento dell’essere alla
pienezza; l’arte è essenzialmente l’affermazione, la divinizza- zione
dell’esistenza. Lo stesso stato apollineo (v.) non è che la risultanza estrema
dell’ebrezza dio- nisiaca: è il riposo di certe sensazioni estreme di ebrezza.
C) L'attribuzione dell’arte alla sfera della sensibilità è una tesi platonica,
che ricompare nel 700 con segno di valore mutato. Platone aveva confinata
l'arte nella sfera dell’apparenza sensibile e l’aveva caratterizzata con il
rifiuto ad uscire da questa sfera mediante l’uso del calcolo e della mi- sura
(Resp., X, 602c-d). Ma nel 700 la nozione dell’arte come sensibilità non è più
diminuzione o condanna: l’arte appare come la perfezione della sensibilità
stessa. La nascita e l’elaborazione del concetto di gusto (v.), parallela alla
nascita e alla elaborazione della categoria del sentimento (v.) con- diziona il
nuovo apprezzamento della sfera sensi- bile, che è proprio della filosofia del
700, e la assegnazione, a tale sfera, del mondo dell’arte. Baumgarten riteneva
che «il fine dell’E. è la per- fezione della conoscenza sensibile in quanto
tale» e che questa perfezione è la bellezza (Aesthetica, 1750-58, $ 14). È ben
vero che egli considerava le rappresentazioni E. come rappresentazioni chiarema
confuse e così poneva una differenza solo di grado tra esse e le
rappresentazioni razionali (che sono chiare e distinte): il che, come Kant ebbe
spesso ad osservare, non è una distinzione suffi- ciente tra sensibilità e
intelligenza (Cri. R. Pura, $ 8; cfr. Crit. del Giud., Intr., $ III. Ma è pur
vero che, sia pure con concetti imperfetti, Baumgarten aveva di mira proprio la
rivendicazione dell’auto- nomia della sfera sensibile. Alla stessa sfera ridu-
ceva Vico la poesia, in polemica con quanto « del- l'origine della poesia si è
detto prima da Platone, poi da Aristotele, infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri,
Castelvetri » (Sc. Nuova, 1744, II, Della metafisica poetica). La tesi di
questi autori era, secondo Vico, che la poesia fosse «sapienza riposta » cioè «
me- tafisica ragionata ed astratta»; mentre la tesi di Vico è che la poesia fu
metafisica «sentita ed im- maginata » quale poteva essere propria di uomini
«ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie »
(/bid., 1744, II, Della me-tafisica poetica). Ora, secondo Vico metafisica
(cioè conoscenza) e poesia sono tra loro totalmente op- poste: quella purga la
mente dei pregiudizi della fanciullezza, questa tutta ve l’immerge e rovescia
dentro; quella resiste al giudizio dei sensi, questa ne fa principale sua
regola; quella infievolisce la fantasia, questa la richiede robusta; infine
quella non dà che pensieri astratti e scevri d’ogni pas- sione; questa invece
non dà che pensieri concreti e corpulenti, che muovono con straordinaria vio-
lenza gli animi umani (Sc. Nuova Prima, 1725, IIl, 26, in Opere, ed. Ferrari,
IV, pag. 227). La fantasia, che è l’organo della poesia, è definita da Vico
come la facoltà che « altera e contraffà» le cose (Sc. Nuova, 1744, III,
Dell’inarrivabile facultà poetica d’Omero); e in generale la fantasia è tanto
più robusta quanto è più debole il raziocinio (Ibid., I, Elementi, 36). Kant
infine segnava l’atto ufficiale di nascita della «facoltà del sentimento » e a
tale facoltà attribuiva il giudizio E. cercando di deter- minarne
conseguentemente i caratteri (Crir. del Giud., Intr., $ IID. E a tale facoltà
l’arte è stata più comunemente assegnata nell’E. contemporanea. Secondo
Santayana «la bellezza è un piacere con- siderato come la qualità di una cosa »
ed è perciò sempre « un’emozione, un’affezione della nostra na- tura volitiva e
valutativa » (The Sense of Beauty, 1896, $ 11). Per Dewey ugualmente l’arte è «
una forma di sentimento» (Art as Experience, 1934, cap. IV). 3° Il terzo punto
di vista dal quale possono essere considerate le teorie estetiche è quello del
còmpito che attribuiscono all’arte. Tutte le teorie cadono in due gruppi
fondamentali che rispetti- vamente considerano l’arte: «) come educazione; 8)
come espressione. Come educazione, l’arte è strumentale; come espressione, è
finale. a) La teoria dell’arte come educazione è di gran lunga la più antica e
la più diffusa. Platone condannò l’arte imitativa perchè la ritenne non
educativa ed anzi anti-educativa (Rep., X, 605 a-c); ma accettò e difese quelle
forme artistiche in cui vide utili strumenti d’educazione (/bid., III, 395 c).
Aristotele affermava che «la musica non va pra- ticata per un unico tipo di
beneficio che da essa può derivare ma per usi molteplici, poichè può ser- vire
per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il
sollevamento del- l’anima e la sospensione delle fatiche » (Polir., VIII, 7,
1341 b, 35). Ciò che egli dice per la musica vale, ovviamente, per tutte le
arti; ed altrettanto ovviamente la catarsi (v.) e il divertimento sono
anch’essi procedimenti educativi. Il concetto del- l’arte come educazione è
durato per tutto il Me- dioevo e non è stato sensibilmente mutato o innovato
dalle discussioni estetiche del Rinascimento. La accentuazione del carattere
catartico dell’arte non è che l’accentuazione della sua strumentalità edu-
cativa. Di questa non dubitava neppure Vico che insisteva sui «tre lavori che
deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti
all’intendimento popolaresco, e che perturbi al- l’eccesso, per conseguire il
fine, ch’ella si ha pro- posto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare
com’essi [i poeti] l’insegnarono a sè medesimi » (Sc. Nuova, II, Della
metafisica poetica). Questo è ancora il punto di vista tradizionale che fa
dell’arte uno strumento di perfezionamento morale. Ma la stessa teoria
dell’arte come conoscenza appartienall’àmbito di una concezione strumentale o
educa- tiva dell’arte. Hegel ha espresso la cosa con tutta la chiarezza
desiderabile. Cercando di determinare lo scopo dell’arte nella introduzione
delle sue Le- zioni di E. egli elimina le teorie che lo scopo del- l’arte sia
l’imitazione o l’espressione (nel qual caso sarebbe vera la formula dell’arte
per l’arte) o il perfezionamento morale, per insistere sul punto che scopo
dell’arte è l’educazione alla verità at- traverso la forma sensibile di cui
l’arte riveste la verità stessa: e che il perfezionamento morale è una
conseguenza inevitabile dell’educazione teo- retica. « Bisogna ammettere, dice
Hegel, che l’arte debba rivelare la verità nella forma della rappre- sentazione
sensibile, che debba rappresentare la opposizione riconciliata [tra forma
sensibile e con- tenuto di verità] e che pertanto abbia il suo scopo finale in
se stessa, in questa rappresentazione e manifestazione » (Vorlesungen ilber die
Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 89). Ma l’educazione allaverità non è meno
educazione dell’educazione mo- rale; e il compito dell’arte è secondo Hegel
quello di produrre la morte dell’arte cioè il passaggio a quelle forme
superiori di rivelazione della Verità assoluta che sono la religione e la
filosofia (/bid., III, pag. 579 sgg.). Con qualche attenuazione o confusione
questo punto di vista è stato ripetuto da Croce il quale riconosce che la
conoscenza E. si conserva nella conoscenza filosofica come si con- serva
nell’arte l’esigenza morale o la coscienza del dovere (Breviario di E., III).
Alle teorie che vedono nell’arte uno strumento educativo ai fini della mo- rale
e della conoscenza si sono aggiunte ora quelle che vedono in essa uno strumento
di educazione politica. Sono queste le dottrine che parlano del- l'impegno
(engagement) politico dell’arte e che esi- gono che l’artista assuma una
precisa direttiva politica, che coordini la sua opera con le classi 0 i gruppi
sociali più estesi e meno privilegiati (o con i partiti che li rappresentano o
pretendono rap- presentarli) e le aiuti nello sforzo di liberazione e perciò di
conquista e di conservazione del potere politico. Questa tesi che è propria
delle dottrine estetiche che si ispirano all’ideologia comunista non è,
filosoficamente parlando, più scandalosa delle dottrine tradizionali, che
pongono come còmpito dell’arte l'educazione morale o conoscitiva. Vero è che la
politica ha esigenze più mutevoli e più ar- bitrarie della morale o della
conoscenza: sicchè l’engagement politico rischia di limitare in modo assai più
drastico dell’engagement morale o cono- scitivo le direzioni in cui si possono
compiere o sviluppare i tentativi artistici e perciò di bloccare in anticipo
tentativi che potrebbero riuscire fe- condi. Ma l’autonomia, cioè il carattere
finale, non strumentale dell’arte, non è garantita neppure dalldottrina che
vede nell’arte un impegno conoscitivo o morale. 8) La teoria dell’espressione
consiste nel vedere nell’arte una forma finale delle esperienze, delle attività
o in generale degli atteggiamenti umani (v. EsprESSIONE). Il proprio
dell’atteggia- mento espressivo è che esso prospetta come fine ciò che per
altri atteggiamenti vale come mezzo. Per es., il vedere, che è un mezzo per
orientarsi nel mondo e per servirsi delle cose, diventa un fine nell’arte
sicchè il pittore non vuol altro che vedere e far vedere. Perciò anche si dice
che l’espressione chiarifica e trasporta su un altro piano il mondo comune
della vita: le emozioni, i bisogni e anche le idee o i concetti che dirigono
l’esistenza umana. Ha detto Dewey: «L'emozione che fu elaborata in ultimo da
Tennyson nella composizione In Me- moriam non era identica col sentimento di
dolore che si manifesta con il pianto e con un aspetto abbattuto: la prima è un
atto di espressione, la seconda di sfogo. Tuttavia è evidente la continuità
delle due nozioni, cioè il fatto che l’emozione E. è l’emozione originaria,
trasformata attraverso il materiale oggettivo al quale è stato affidato il suo
sviluppo e il suo compimento » (Art as Experience, 1934, cap. IV; trad. ital.,
pag. 94-95). Da questo punto di vista l’arte non è natura ma, come dice Dewey
«natura trasformata dalla sua entrata in nuove relazioni + (/bid., 1934, cap.
IV; trad. ital., pag. 94-95); o, come anche si potrebbe dire, ritorno alla
natura. E non fa meraviglia che spesso, dal Rinascimento all’Impressionismo, il
ritorno alla na- tura sia servito a rinnovare profondamente e con successo lo
stile e il gusto dell'arte. La concezione dell’arte come espressione è forse
adombrata nelle affermazioni di coloro che insi- stono sul carattere teoretico
o contemplativo del- l’arte. Ma è malamente adombrata quando (come fa Croce,
Breviario di E., III) nello stesso tempo si ironizza sulla formula dell’arte
per l’arte che è la migliore definizione del carattere espressivo del- l’arte.
Su questa formula hanno insistito poeti ed artisti moderni, che si sono avvalsi
di essa per difendere l’arte da ogni tentativo di asservimento o manipolazione
a fini che esigerebbero la sua completa subordinazione e le toglierebbero ogni
li- bertà di movimento. I testi relativi sono riportati nella voce Poesia. La
formula che essi difendono dev'essere a tutt'oggi considerata come la migliore,
cioè più efficace, difesa dell’attività E. e delle con- dizioni della sua
fecondità. Infatti poichè questa attività, come ogni altra, procede per
tentativi e ben poco si può dire in anticipo sul valore di un tentativo, il
prescriverne alcuni e bandirne altri, in nome di una funzione morale o conoscitiva
o po- litica dell’arte, significherebbe aumentare enorme- ETÀ mente il rischio
di un insuccesso totale, giacchè nulla garantisce che il tentativo più
promettente non sia fra quelli eliminati o condannati in anti- cipo. Il
carattere espressivo dell’arte significa pure che le possibilità di vedere, di
contemplare, di go- dere, che l’arte realizza, le nuove aperture sul mondo che
essa dischiude, quando riescono espresse nell’opera, rimangono a disposizione
di chiunque sia in condizione di intendere l’opera stessa. L’espres- sione è
per natura sua comunicazione. La capacità di giudicare le opere d’arte di un
certo stile si chiama gusto; e il gusto tènde a diffondersi e a divenire uni-
forme in periodi di tempo determinati o in deter- minati gruppi d’individui. Ma
indubbiamente le possibilità comunicative di un’opera d’arte riuscita sono
praticamente illimitate e sono anche relativa- mente indipendenti dal gusto
dominante. Questo significa che non tutti devono necessariamente ve- dere in
un’opera d’arte la stessa cosa o goderla allo stesso modo. Le risposte
individuali di fronte ad essa possono essere innumerevoli e presentare o meno
tra loro uniformità di gusti. Ma l’importante non è quest’uniformità, ma la
possibilità lasciata aperta a nuove interpretazioni, a nuovi modi di fruire
dell’opera stessa. Quelli che godono di una stessa opera d’arte (per es., gli
ascoltatori di un pezzo di Beethoven) non sono come i membri di una setta o gli
adepti di una stessa credenza. Costituiscono tuttavia una comunità legata insieme
da un interesse comune, e aperta nel tempo e nello spazio. ESTETISMO (ingl.
Aestheticism; franc. Esthé- tisme; ted. Asthetizismus). Ogni dottrina o atteg-
giamento che ritenga fondamentale e primari i valori estetici e riduca o
subordini ad essi tutti gli altri (anche e soprattutto quelli morali). In tal
senso si può chiamare E. sia una dottrina come quella di Novalis o di Schelling
che vede nell’arte la rivelazione dell’Assoluto; sia un atteggiamento come
quello di Oscar Wilde o di D'Annunzio, che dia la prevalenza ai valori estetici
nella let- teratura e nella vita. L'E. fu caratterizzato da Kierkegaard come
l’at- teggiamento di chi vive nell’istante, cioè vive per cogliere ciò che vi è
d’interessante nella vita tra- scurando tutto ciò che è banale, insignificante
e meschino. L’uomo estetizzante perciò evita la ri- petizione, che implica
sempre monotonia e toglie l'interessante alle vicende più promettenti. Il
sim-bolo o l’incarnazione dell’E. è perciò Don Giovanni il seduttore. Lo sbocco
finale della vita estetizzante è, secondo Kierkegaard, la noia e quindi la
dispe- razione (Werke, II, pag. 162). ESTRAPOLAZIONE (ingl. Extrapolation;
franc. Extrapolation; ted. Extrapolation). 1. Il cal- colo dei valori di una
funzione per argomenti che 357 sono al di là di quelli per i quali i valori
della funzione sono già conosciuti. 2. Le stesso che analogia (v.). ESTREMO
(gr. tè toyarov; lat. Extremum; ingl. Extreme; franc. Extréme; ted.
Aeusserste). Ciò che è primo o ultimo in una qualsiasi serie. Così il termine fu
inteso da Aristotele il quale notò che gli E. non sono sostanze ma limiti
(Mer., XIV, 3, 1090 b 9). In questo senso si dice che il punto è l’E. della
linea, la linea del piano e il piano del solido. Nello stesso senso si parla di
una specie E. (ultima) che è quella più vicina all’individuo (/bid., III, 3,
998b 15). E. (ultimo) è anche il motore immobile perchè è il primo nella serie
dei movimenti (Fis., VIII, 2, 244 b 4). E. sono pure i due termini del
sillogismo che compaiono nella conclusione e il cui rapporto viene stabilito ad
opera del termine medio (An. pr., I, 4, 25b 30). La parola si può dire abbia
conservato a tutt'oggi lo stesso signi- ficato (v. ULTIMO). ESTRINSECO,
INTRINSECO (ingl. Extrin- sical, Intrinsical; franc. Extrinsèque, Intrinséque;
ted. Aeusserlich, Innerlich). In generale si dice in- trinseco ciò che
appartiene all’essenza o alla natura di una cosa, E. ciò che le è estraneo.
Secondo la logica tradizionale, è intrinseco ad un oggetto il carattere che
entra nella definizione dell’oggetto stesso; per es., la razionalità, se l’uomo
viene de- finito «animale ragionevole ». Dal punto di vista di una logica che
non si fondi sulla nozione di essenza necessaria o di sostanza (v.), le
determina- zioni E. od intrinseco hanno un significato molto più elastico
perchè diventano relative ai vari signi- ficati di un oggetto qualsiasi (v.
SIGNIFICATO)., ETÀ (gr. yévoc; lat. Aetas; ingl. Age; franc. Age; ted.
Zeitalter). La nozione della successione di E. diverse nella storia degli
uomini sulla Terra è stata spesso utilizzata dai filosofi. Il suo primo
documento letterario, nel mondo occidentale, è probabilmente quello lasciatoci
da Esiodo nelle Opere e giorni. Esiodo distingueva cinque E. del mondo: 1° L’E.
dell’oro, nella quale gli uomini vivevano come di- vinità, privi di
inquietudini, al riparo dalla fatica e dalla miseria e nell’abbondanza di tutti
i beni; 2° lE. dell'argento, inferiore alla prima nella quale gli uomini
difettavano soprattutto di saggezza e sirifiutavano di onorare gli dèi; 3° l’E.
de/ bronzo, nella quale gli uomini furono soprattutto guerrieri, violenti e
brutali; 4° l’E. degli eroi, che furono invece saggi e forti e perciò furono
chiamati se- midei; e infine 5° lE. degli uomini, soggetti a ogni sorta di mali
e inquietudini, ma che godono anche di beni (Op., 109-79). Queste cinque E.
furono ridotte a tre da Platone. Nel Critia, facendo la storia della guerra tra
l’Atlantide e l’Attica, Pla- tone narra che gli dèi un tempo si divisero a
sorte 358 tutta la terra e colonizzarono così le diverse regioni, allevando gli
uomini come i pastori allevano oggi le greggi. Ma Efesto ed Atena che avevano
avuto da governare l’Attica, cioè la regione « natural- mente adatta alla virtù
e al pensiero» vi fecero nascere, quali autoctoni, uomini eccellenti nei quali
istillarono la nozione di una ordinata costituzione politica. Di questi uomini
si sono serbati solo i nomi mentre i fatti « per l’estinzione di quelli che ne
avevano ereditato il ricordo e per la lunghezza dei tempi, caddero nell’oblio
». E fra questi nomi Platone enumera quelli di Cecrope, Eretteo, Erit- tonio,
Erisittone, come degli eroi che si ricordano anteriori a Teseo. Quando a questa
E. degli eroi è successa l’E. degli uomini, di quella non è rimasta che
un’oscura tradizione; giacchè gli uomini, ri- masti sprovvisti per molte
generazioni delle cose necessarie alla vita, sono stati per molto tempo
dominati dalla cura dei bisogni e hanno trascurato gli eventi anteriori e
remoti (Crifia, 109 b sgg.). In questo racconto le tre E. degli Dèi, degli Eroi
e degli Uomini sono chiaramente distinte. Vico riprendendo nel sec. xvm questa
divisione delle E. umane, l’attribuirà (Sc. Nuova, Idea dell’opera) all’erudito
romano Marco Terenzio Varrone che l’avrebbe esposta nella sua grande opera
Rerum divinarum et humanarum libri andata perduta; ma ricavava probabilmente la
notizia da Diodoro Si- culo (Bibliotheca Historica, I, 44). La dottrina delle
E. costituisce, nell’antichità greca, un'autentica interpretazione della storia
nella sua totalità e precisamente un’interpretazione della storia come
decadenza (v. STORIA). Quando, nella filosofia moderna, viene ripresa da Vico,
essa perde il suo carattere pessimistico per assumere un ca- rattere
ottimistico e progressivo. Inoltre il fonda- mento della divisione delle E.
muta: non è più storico-mitico, come ancora nel racconto platonico, ma
antropologico: ciascuna E. segnerebbe il pre- valere di una particolare facoltà
umana sulle altre. Secondo Vico, infatti, la successione delle E. è determinata
dal fatto che «gli uomini prima sen- tono senza avvertire, dappoi avvertiscono
con animo perturbato e commosso, finalmente riflet- tono con mente pura » (Sc.
Nuova, 1744, degn. 53). In base a questo principio si differenziano e si suc-
cedono le varie età. Ognuna di esse è contrassegnata da una specifica natura
umana: quella divina è robusta di sensi e debole di raziocismo; quella eroica è
nobile e saggia; quella umana intelligente e modesta, benigna e ragionevole,
«la quale rico- nosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere ». A queste
tre specie di natura corrispondono poi tre specie di costumi, di diritti
naturali, di go- verni, di lingue, ecc. (v. STORIA, 3 d). Nel Ro- manticismo,
Fichte ha ripreso la concezione delle ETÀ E. del mondo. Nello scritto
intitolato Caratteri fondamentali dell’E. contemporanea (1806), Fichte distinse
cinque E. della storia umana. La prima sarebbe quella dell’istinto, in cui la
ragione governa la vita senza la partecipazione della volontà. La seconda è
l’E. dell’autorità (o degli eroi) in cui l’istinto della ragione si esprime in
personalità potenti che impongono la ragione con la forza. La terza è la
liberazione dall’istinto e la rivolta contro l’autorità. La quarta è quella in
cui la ra- gione riconosce la propria legge nel libero arbitrio e accetta una
disciplina universale. La quinta è quella in cui la legge della ragione cessa
di essere un semplice ideale per diventare pienamente reale nel mondo
giustificato e santo, nell’autentico regno di Dio (Werke, VII, pag. 7 sgg.).
Più semplice- mente Hegel distingueva tre E. corrispondenti al progressivo
svegliarsi dello spirito alla consapevo- lezza del suo potere creativo. Nella
prima E. lo spirito «è ancora tuffato nella naturalità » per cui «uno solo è
libero ». È questa l’E. rappresentata dal mondo orientale. La seconda E. è
quella in cui lo spirito viene a conoscenza, ma solo imperfetta- mente e
parzialmente, della sua libertà per cui in essa «alcuni sono liberi». Questa
seconda E. è rappresentata dal mondo greco-romano. Nella terza E. lo spirito si
eleva « dalla libertà particolare alla pura universalità (l’uomo come tale è
libero) al- l’autocoscienza e all’autosentimento dell’essenza della
spiritualità » Questa E. è rappresentata dal mondo cristiano-germanico (Phil.
der Geschichte, ed. Lasson, pag. 136-37). Una divisione delle E. si può vedere
anche nella «legge dei tre stati» enunciata da Augusto Comte nel Corso di
filosofia positiva (1830): legge secondo la quale « ciascuna delle nostre
concezioni principali, ciascuna branca delle nostre conoscenze, passa
successivamente per tre stati teorici differenti: lo stato teologico o
fittizio; lo stato metafisico o astratto; lo stato scientifico 0 positivo ».
Questi stati ricorrerebbero, ugualmente, secondo Comte, nello sviluppo dell’in-
dividuo; il quale sarebbe « teologo nell’infanzia, me- tafisico nella
giovinezza e fisico nella virilità » (Phil. pos., I, Jez. I, $ 2). Con il
progredire della conoscenza storica nel mondo moderno e contem- poraneo la
nozione di E. caratterizzabili con pochi tratti mitici o antropologici e
succedentisi secondo una regola costante è caduta in disuso: essa infatti
contrasta con l’indirizzo individuante della moderna indagine storica. Si fa
invece frequente riferimento alla nozione di epoca (v.) che è quella di un periodo
storico caratterizzato da un avvenimento imma- nente e fondamentale. Nella
nozione di E., quello che importa è la legge secondo cui le E. si succe- dono.
Nella nozione di epoca, quello che importa è l'avvenimento che dà il carattere
al periodo. Le due nozioni andrebbero tenute distinte. Non sempre tuttavia lo
sono nell’uso corrente; e si parla di «E.» della tecnica mentre si dovrebbe
parlare di «epoca » della tecnica. ETERE (gr. al0n6;
lat. Aether; ingl. Ether; franc. Éther; ted. Ether). Il termine, che Empe- docle usò (Fr., 100.5,
Diels) come equivalente di aria e Anassagora (Fr., 15, Diels) come equivalente
di fuoco, fu adoperato da Aristotele a indicare la sostanza che compone i
cieli, in quanto si diffe- renzia, per la sua ingenerabilità, incorruttibilità
e inalterabilità, dai quattro elementi che costituiscono le cose sublunari.
Aristotele attribuisce l’uso di questo termine, che ritiene il più adatto ad
indicare i cieli come sedi della divinità, ad una tradizione assai antica. «
Gli uomini, egli scrive, volendo in- dicare che il primo corpo è alcunchè di
diverso dalla terra, dal fuoco, dall’aria e dall’acqua, chia- marono il più
alto luogo con il nome di E., derivato dal fatto che esso ‘corre sempre’ per
un’eternità di tempo. Anassagora tuttavia, fraintese malamente il nome,
scambiando l’E. per il fuoco » (De Cuel., I, 3, 270b 20). L’E. fu poi chiamato,
ma non da Aristotele « quinto corpo » o « quinta sostanza » o «quinto elemento»
(P/acit., I, 3, 22; 2, 25, 7; 2, 6, 2). Dell'E. fa menzione nello stesso senso
di Aristotele l’Epinomide attribuito a Platone (981 c, 984 b). Gli Stoici a
loro volta identificarono l’E. con il fuoco di Eraclito, attribuendogli però la
stessa funzione e la stessa dignità che Aristotele. « Più in alto di tutti c’è
il fuoco, che chiamano E., dal quale è costituita sia la prima sfera immobile
dei cieli sia le altre sfere mobili » (Dio. L., VII, 137). Cicerone così
illustrava questa teoria stoica: 4 Dall’E. sorgono innumerevoli astri
fiammeggianti di cui primo è il Sole che tutto illumina con la sua luce
splendente ed è molte volte più grande e più esteso dell'intera Terra, poi gli
altri astri di smisu- rata grandezza » (De nat. deor., II, 36, 92; Acad., I, 7,
25). La nozione rimane fissata nella tradizione medievale in questi termini,
finchè si credette alla differenza di natura tra sostanza celeste e sostanza
sublunare: differenza che fu per la prima volta negata da Cusano (De docta
ignor., II, 12). Il nome fu riesumato da Fresnel (nei primi de- cenni dell’800)
per designare un ipotetico mezzo elastico che facesse da supporto alle onde
luminose. L’ipotesi dell’E. è stata mantenuta nella fisica sino a che la teoria
della relatività generale di Einstein l’ha resa inutile. ETERNITÀ (gr.
didiémne, alby; lat. Aeter- nitas; ingl. Eternity; franc. Éternité; ted.
Ewigkeit). Il termine ha due significati fondamentali: 1° du- rata indefinita
nel tempo; 2° intemporalità come contemporaneità. La filosofia greca ha
conosciuto entrambi questi significati. Eraclito ha espresso primo, affermando che
il mondo «era da sempre, è e sarà fuoco sempre vivo che si accende a inter-
valli e a intervalli si spegne » (Fr., 30, Diels). Par- menide invece ha
espresso il secondo: « L’essere non era nè sarà ma è nel presente tutto
insieme, uno, continuo » (Fr., 8, Diels). Platone ha espli- citamente
contrapposto i due significati: « Della sostanza eterna, egli dice, noi diciamo
a torto che era, che è, e che sarà, mentre ad essa in verità non compete che
l’è ed invece l’era ed il sarà si devono predicare solo della generazione che
pro- cede nel tempo» (Tim., 37 e). Aristotele ha utiliz- zato entrambi i
concetti. Da un lato infatti il mondo fuori del quale non c’è nè spazio nè
vuoto nè tempo abbraccia l’intera estensione del tempo ed è eterno (De Caelo,
I, 9, 279 a 25). L’E. in questo senso è durata (x\&v). Dall'altro lato, le
sostanze immobili, i motori dei cieli, sono eterni in un altro senso: nel senso
di essere fuori del tempo. « Gli enti eterni (tà «el &vra) in quanto
eterni, dice Aristotele, non sono nel tempo: infatti non sono abbracciati dal
tempo nè il loro essere è misurato dal tempo; il segno di questo è che essi non
subiscono affatto l’azione del tempo, non essendo nel tempo » (Fis., IV, 12,
221b 3). Questa distinzione aristotelica è rimasta classica. Plotino identificò
l’E. («lwv) col modo d'essere proprio del mondo intellegibile cioè con «ciò che
persiste nella sua identità, che è sempre presente a se stesso nella sua
totalità, che non è ora questo e poi quello ma è, tutto insieme, perfezione
indivi- sibile, come quella di un punto in cui s’uniscano tutte le linee senza
che si spandano al di fuori: un punto che persista in se stesso nella sua
identità e non subisca modificazioni, che esista sempre nel presente, senza
passato nè futuro, ma sia ciò che è e lo sia sempre » (Enn., III, 7, 3).
Plotino ripete a questo proposito la notazione parmenidea e pla- tonica: eterno
è ciò che non era nè sarà ma soltanto è. S. Agostino impostava la sua analisi
del tempo sulla contrapposizione tra il tempo e l’E. (Conf., XI, 11; De civ.
dei, XI, 4, 6). E Boezio esprimeva correttamente la distinzione tra i due
concetti di E.: «Ciò che subisce la condizione del tempo, egli diceva, anche
se, come Aristotele credette del mondo, non ha nè principio nè fine, e anche se
la sua vita si prolunga nell’infinità del tempo, non ancora tuttavia si può
legittimamente credere eterno. Infatti la sua vita pur essendo infinita non
comprende nè abbraccia la propria intera durata giacchè non comprende e non
abbraccia ancora il futuro e non abbraccia più il passato. Pertanto solo ciò
che abbraccia e possiede ugualmente nella sua totalità la pienezza di una vita
senza limiti, sicchè non gli manchi nulla dell’avvenire e nulla gli sia
sfuggito del passato, solo questo è l’essere che si deve rite- nere eterno:
necessariamente esso si possiede in- teramente nel presente e possiede nel
presente l’infinità del tempo » (Phil. Cons., V, 6, 6-8). Dopo Boezio la
distinzione è diventata un luogo comune della filosofia. S. Tommaso fissava con
accuratezza la relativa terminologia. L’E. come «totale simul- taneo e perfetto
possesso di una vita senza limiti » è caratterizzata: 1° dall'assenza del
principio e della fine; 2° dall’assenza di successione in quanto è un eterno
presente. La durata (aevum) invece è propria delle cose che sono soggette al
movimento locale e per il resto sono immutabili, come è il cielo; ed è perciò
qualcosa di intermedio fra l’E. e il tempo (S. 7A., I, q. 10, a. 1, 5). Questo
concetto dell’E. è rimasto proprio anche del razionalismo moderno. Spinoza
identifica l’E. con l’esistenza stessa della Sostanza in quanto implicita
nell’es- senza di essa e quindi necessaria. E chiarisce: « Una tal esistenza in
quanto verità eterna è con- cepita come l’essenza della cosa; e però essa non
può essere spiegata per mezzo della durata o del tempo, anche se la durata si
concepisca senza prin- cipio e senza fine » (£r., I, def. 8, chiar.). Pertanto
concepire le cose sotto l’aspetto dell’E. (sub specie aeternitatis) significa
concepirle come manifesta- zioni dell’essenza divina e derivate necessariamente
dalla sua natura (/bid., V, 30). Leibniz afferma, contro Locke, la precedenza
di una «idea dell’as- soluto » che sarebbe a fondamento della nozione dell’E.
(Nouv. Ess., II, 14, 27). E l’intera filosofia hegeliana è concepita dal punto
di vista di un’E. così intesa. Hegel nega che l’E. possa essere intesa
negativamente come astrazione o negazione del tempo o come se venisse dopo il
tempo (Enc., $ 258). L'E. è per lui il forum simul delle determina- zioni
dell’Idea. « L’Idea, eterna in sè e per sè, si attua, si produce e gode se
stessa eternamente come spirito assoluto » (/bid., $ 577). « Intemporalità » e
«presente eterno» sono le espressioni che più frequentemente ricorrono, anche
nella filosofia contemporanea, quando si avvale della nozione di eternità.
L’ultima espressione è quella che ricorre, per es., nell'opera di Lavelle, Il
tempo e l’E. (1945) come in molti altri idealisti e spiritualisti
contemporanei. Già però McTaggart aveva osservato che concepire l’E. come «
eterno presente » è una metafora non del tutto appro- priata perchè significa
fare pur sempre riferimento al tempo, dato che il presente è una parte del
tempo e suppone passato e futuro. E aveva per suo conto proposto di considerare
l’eterno come situato nel futuro, alla fine o alla consumazione dei tempi (in
Mind, 1909, pag. 355). Ed è infatti oggi abbastanza chiaro che la concezione 2
dell’E., quale è stata espressa, con impressionante unifor- mità, da Parmenide
a noi, non è altro che un’ima- gine ridotta del tempo: è il tempo stesso
ridotto ad una delle sue determinazioni e precisamente alla contemporaneità (il
totum simul) che, come oggi tutti sanno, è non solo temporalità ma temporalità
misurabile. Quanto alla concezione dell’E. come aevum, cioè come durata
temporale indefinita, essa va incontro a quelle obiezioni che già Kant esponeva
nella sua critica alla cosmologia razionale del xviri secolo (v. COSMOLOGIA).
ETEROGENEITÀ, LEGGE DI. V. Omo- GENEITÀ. ETEROGENESI DEI FINI (ted. Herero-
gonie der Zwecke). Wundt ha chiamato col nome solenne di «legge dell’E. dei
fini» l'osservazione non molto peregrina che i fini che la storia realizza non
sono quelli che gli individui o le comunità si propongono, ma sono piuttosto la
risultante della combinazione, del rapporto e del contrasto delle volontà umane
tra loro e con le condizioni oggettive (Ethik, 1886, pag. 266; System der
Phil., 1889, I, pag. 326; II, pag. 221 sgg.). Si può ricordare che Vico aveva
espresso lo stesso concetto in una pa- gina famosa: « Perchè pur gli uomini
hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio
incontrastato di questa Scienza, dappoichè disperammo di ritruovarla da
filosofi e da filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una
mente spesso diversa ed alle volte tutta con- traria e sempre superiore ad essi
fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti
mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare
l’umana generazione in questa Terra » (Sc. Nuova, 1744, Concl. dell’opera).
ETEROLOGICO. V. AuroLocico. ETERONOMIA. V. AUTONOMIA. ETEROZETESI (lat.
Heterozetesis). Lo stesso che /gnoratio Elenchi (v.). ETICA (gr. tà }0wd; lat.
Erhica; ingl. Ethics; franc. Éthique; ted. Erhik). In generale, la scienza
della condotta. Esistono due concezioni fondamen- tali di questa scienza e
cioè: 1 quella che la con- sidera come scienza del fine cui la condotta degli
uomini dev’essere indirizzata e dei mezzi per rag- giungere tale fine; e deduce
sia il fine che i mezzi dalla natura dell’uomo; 2* quella che la considera come
la scienza del movente della condotta umana e cerca di determinare tale movente
in vista di di- rigere o disciplinare la condotta stessa. Queste due
concezioni, che si sono variamente intrecciate nel- l’antichità e nel mondo
moderno, sono profonda- mente diverse e parlano due linguaggi diversi. La prima
parla infatti il linguaggio dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua
natura, e per con- seguenza della « natura » o «essenza » 0 « sostanza »
dell’uomo. La seconda parla invece dei « motivi + o delle «cause» della
condotta umana o delle ‘ forze » che la determinano e pretende di attenersi al
riconoscimento dei fatti. La confusione tra questi due punti di vista
eterogenei è stata resa possibile dal fatto che entrambi si presentano
abitualmente nella forma apparentemente identica di una defini- zione del bene.
Ma l’analisi della nozione di bene (v.) mostra sùbito l’ambiguità che essa
cela: giacchèbene può significare o ciò che è (per il fatto che è) o ciò che è
oggetto di desiderio, di aspirazione, ecc.: e questi due significati
corrispondono esattamente alle due concezioni dell’E. sopra distinte. Difatti è
propria della concezione 18 la nozione del bene come realtà perfetta o
perfezione reale, mentre è propria della concezione 23 la nozione del bene come
oggetto di appetizione. Sicchè quando si af- ferma «Il bene è la felicità», la
parola «bene» ha un significato completamente diverso da quello che essa trova
nell’affermazione «Il bene è il piacere ». La prima asserzione (nel senso in
cui essa è fatta, per es., da Aristotele e da S. Tom- maso) significa: «La
felicità è il fine della con- dotta umana, deducibile dalla natura razionale
del- l’uomo »j mentre la seconda asserzione significa: «Il piacere è il movente
abituale e costante della condotta umana ». Poichè il significato e la portata
delle due asserzioni sono pertanto completamente diversi, la distinzione tra
etiche del fine ed etiche del movente deve essere tenuta continuamente pre-
sente nelle discussioni sull’etica. Tale distinzione, mentre spacca in due la
storia dell’E., consente di riconoscere come irrilevanti molte delle discus- sioni di cui essa è tessuta e che non
hanno altra base se non la confusione fra i due significati 1° Entrambe le
dottrine etiche elaborate da Platone, cioè sia quella che trova la sua migliore
espressione nella Repubblica sia quella che trova la sua migliore espressione
nel Filebo, si inscrivono nella prima delle concezioni che abbiamo distinto.
L'E. esposta nella Repubblica è infatti un’E. delle virtù; e le virtù sono
funzioni dell'anima (Rep. I, 353b) le quali sono determinate dalla natura
dell'anima e dalla divisione delle sue parti (/bid., IV, 434 e). Il
parallelismo tra le parti dello Stato e le parti dell'anima consente a Platone
di deter- minare e definire le virtù particolari nonchè quella che le comprende
tutte: la giustizia come rispon- denza di ogni parte alla sua funzione (/bid.,
443 d). Analogamente, l’E. del Filebo procede in primo luogo a definire il bene
come forma di vita mista di intelligenza e di piacere; e consiste nel determi-
nare la misura di questa mescolanza (Fil., 27 d). L'E. di Aristotele è poi il
prototipo stesso di questa concezione. Aristotele procede a determinare il fine
della condotta umana (la felicità) ricavandolo dalla natura razionale dell’uomo
(Er. Nic., I, 7); e pro- cede poi a determinare le virtù che sono la con-
dizione della felicità. A sua volta l’E. degli Stoici, con la sua massima
fondamentale del « vivere se- condo ragione» intende dedurre le regole della
condotta dalla natura razionale e perfetta della realtà (StoBEO, Ec/., II, 76,
3; Dios. L., VII, 87). Il misticismo neoplatonico pose come fine della condotta
umana il ritorno dell’uomo al suo prin- cipio creatore e l’immedesimarsi con
esso. Secondo Plotino, questo ritorno è «la fine del viaggio» dell’uomo; è un
allontanamento da tutte le cose esterne, «la fuga di uno solo verso uno solo»
cioè dell’uomo nel suo isolamento verso l'Unità divina (Enn., VI, 9, 11). Per
quanto diverse siano le dottrine cui si è fatto cenno, nelle loro interne
articolazioni, la loro im- postazione formale è identica. Esse procedono: a) a
determinare la natura necessaria dell’uomo; b) a dedurre da tale natura il fine
cui dev'essere indirizzata la sua condotta. Tutta l’E. medievale si mantiene
fedele a questo schema. Così, ad es., l’intera E. di S. Tommaso è dedotta dal
principio « Dio è l’ultimo fine dell’uomo» (S. 7h., II 2, q. 1, a. 8):
principio dal quale si deduce la dottrina della felicità e quella della virtù.
Si può scorgere una istanza critica contro questa impostazione nel punto di
vista di Duns Scoto e molti Scolastici del ’300: che le norme morali sono
fondate sul puro e sem- plice comando divino, tranne appunto la norma che
impone di ubbidire a Dio, che sarebbe la sola « naturale » (Op. Ox., III, d.
37, q. 1; cfr. OCKHAM, In Sent., II, q. SH). E difatti questo appello al-
l’arbitrio divino è il risultato della riconosciuta impossibilità di dedurre
dalla natura dell’uomo il fine ultimo della sua condotta (Op. Ox., IV, d. 43,
q. 2, n. 27, 32). Ma con ciò non è tuttavia aperta alla ricerca etica
un’alternativa diversa. Nella filosofia moderna i Neoplatonici di Cam- bridge
riprendono la concezione stoica di un or- dine dell’universo che vale anche a
dirigere la condotta dell’uomo; e pertanto insistono sull'inna- tezza delle
idee morali come in generale di tutte le idee generali o direttive di cui
l’uomo è in possesso (CupwortH, The True Intell. System, 1678, I, 4; MORE,
Enchiridion, 1679, III). E la filosofia roman- tica ha dato la forma più
radicale a questa con- cezione dell’etica. Fichte esige che l’intera dottrina
morale sia dedotta dalla « autodeterminazione del- 1’Io » (Sitrenlehre, Intr.,
$ 9). Il fine della morale è perciò da lui posto nell’adeguamento dell’io empi-
rico all’Io infinito, adeguamento che non è mai completo e perciò provoca un
progresso all’infinito, la progressiva liberazione dell’io empirico dai suoi
limiti (/bid., in Werke, II, pag. 149). Secondo Hegel, il fine della condotta
umana, che è nello stesso tempo la realtà nella quale tale condotta trova la
362 sua integrazione e la sua perfezione, è lo Stato. Perciò l’E. è per Hegel
una filosofia del diritto. Lo Stato è «la totalità etica », Dio che si è
realiz- zato nel mondo (Fil. del Dir., $ 258, Zusatz). Lo Stato è il culmine di
quella che Hegel chiama « eti- cità » (Siftlichkeit) cioè la moralità che trova
corpo e sostanza in istituzioni storiche che la garantiscono; mentre la «
moralità » (Moralitàt) di per se stessa è semplicemente intenzione o volontà
soggettiva del bene. Ma a sua volta il bene non è altro che « l’es- senza della
volontà nella sua sostanzialità e uni- versalità » ovvero «la libertà
realizzata, l’assoluto scopo finale del mondo » (/bid., $ 139-42): cioè lo
Stato stesso. Sicchè si può dire che per Hegel la moralità non è che
l’intenzione o la volontà sog- gettiva di realizzare ciò che si trova
realizzato nello Stato. Il concetto dello Stato è il punto di partenza e il
punto di arrivo dell’E. di Hegel. Conforme all’E. tradizionale del fine è l’E.
di Ro- smini, secondo la quale il bene si identifica con l’essere, sicchè la
massima fondamentale della con- dotta si può formulare così: « Volere o amare
l’essere ovunque lo si conosca, secondo l’ordine che esso presenta
all’intelligenza » (Princ. della scienza morale, ed. naz., pag. 78). Ma sia che
la realtà si definisca come Essere sia che si definisca come Spirito o
Coscienza, la struttura delle dottrine morali che pretendono dedurre la morale
dal fine mostrano una grande uniformità di procedimenti e di conclusioni. Si
considerino, per es., nella filo- sofia contemporanea, l’E. di Green e quella
di Croce. Secondo Green, la Coscienza infinita, cioè Dio, è ab aeterno tutto
ciò l’uomo ha la possibilità di diventare: e cioè il Bene o Fine supremo che è
l’oggetto della buona volontà umana: bene che la ragione ha il compito di
concepire e di porre come a fondamento della sua legge (Prolegomena to Ethics,
3* ediz., 1890, pag. 198, 214). Volere il bene significa perciò volere la
Coscienza assoluta, cercare di realizzare quello che è presente in essa. Allo
stesso modo per Croce l’attività etica è « vo- lizione dell’universale »; ma
l’universale «è lo Spi- rito, è la Realtà in quanto è veramente reale, cioè in
quanto unità di pensiero e volere; è la Vita in quanto è còlta nella sua
profondità come unità stessa; è la Libertà, se una realtà così concepita è
perpetuo svolgimento, creazione, progresso » (Filo- sofia della pratica, 1909,
pag. 310). Agire moralmente significa perciò volere lo Spirito infinito,
assumerlo come Fine: un'impostazione dell’E. che (come quella di Fichte, Hegel,
Green) non si distingue dall’E. tra- dizionale che (come quella di Platone,
Aristotele, S. Tommaso e Rosmini) fa appello alla Realtà o all’Essere. Una
forma più complessa e moderna della stessa E. del fine si può scorgere nella
dottrina di Bergson. ETICA Bergson ha distinto una morale chiusa e una mo- rale
aperta. La morale chiusa è ciò che s’intende comunemente con questo termine.
Essa corrisponde nel mondo umano a ciò che è l’istinto in certe società
animali: tènde cioè al fine di conservare le società stesse. « Supponiamo un
istante, dice Bergson, che la natura abbia voluto all’altra estremità della
linea [cioè all’estremità della linea evolutiva del- l’intelligenza in quanto
diversa da quella dell’istinto] ottenere società in cui una certa latitudine
fosse lasciata alla scelta individuale: essa avrà fatto sì che l’intelligenza
ottenga qui risultati paragona- bili, quanto alla loro regolarità, a quelli
dell’istinto nell’altra: avrà fatto ricorso ad abitudini. Ciascuna di queste
abitudini, che si potranno chiamare ‘mo- rali” sarà contingente; ma il loro
insieme, cioè l’abitudine di contrarre abitudini, essendo alla base stessa
delle società, avrà una forza paragonabile a quella dell’istinto sia come
intensità che come regolarità » (Deux Sources, I; trad. ital., pag. 23).
Dall’altro lato però c’è la morale dei profeti e degli innovatori, dei mistici
e dei santi. Questa è la mo- rale in movimento, fondata sull’emozione, sul-
l’istinto, sull’entusiasmo: una morale che è un impulso di rinnovamento
coincidente con lo stesso slancio creatore della vita. Questa dualità di forze
è a fondamento di ogni morale secondo Bergson. « Pressione sociale e slancio di
amore non sono che due manifestazioni complementari della vita, normalmente
applicate a conservare all’ingrosso la forma sociale che fu caratteristica
della specie umana fin dall’origine, ma eccezionalmente capaci di trasfigurarla
grazie a individui di cui ognuno rappresenta, come avrebbe fatto l'apparizione
di una nuova specie, uno sforzo di evoluzione crea- trice » (/bid., pag. 101).
Bergson ha così dedotto dall’ideale del rinnovamento morale l’esistenza di una
forza destinata a promuovere tale rinnova- mento; come ha dedotto dal concetto
di una « so- cietà chiusa » la sua nozione della morale corrente. La sua E.
pertanto obbedisce alla classica impo- stazione dell’E. del fine. Quando nella
filosofia contemporanea la nozione di valore (v.) ha cominciato a sostituire
quella di bene, la vecchia alternativa tra l’E. del fine e l’E. della
motivazione ha assunto una forma nuova. Il valore infatti si sottrae
all’alternativa propria della nozione di bene che può essere interpretata in
senso oggettivo (come realtà) o in senso sogget- tivo (come termine di
appetizione). Il valore possiede un modo d'essere oggettivo nel senso di poter
essere inteso o appreso indipendentemente dall’appeti- zione; ma è nello stesso
tempo dato in una qualche forma di esperienza specifica. Il valore viene per-
tanto costantemente riconosciuto dotato di tre ca- ratteri: @) l’oggettività;
5) la semplicità, per cui e indefinibile e indescrivibile nel senso in cui lo è
una qualità sensibile elementare; c) la necessità 0 la problematicità. Quest’ultima
è per l’appunto l’alternativa che sostituisce nell'àmbito della no- zione di
valore quella tra soggettività e oggettività propria della nozione di bene. Ora
le dottrine che riconoscono la necessità del valore cioè la sua as- solutezza,
eternità, ecc., hanno una stretta parentela con le dottrine etiche tradizionali
del fine; mentre le dottrine che riconoscono la problematicità del valore sono
strettamente imparentate con le dot- trine etiche della motivazione. Le
dottrine di Scheler e Hartmann sono tra quelle che affermano la ne- cessità del
valore. Scheler ha elaborato la sua «E. materiale dei valori» proprio allo
scopo di rendere l’E. immune da quel relativismo cui con- duce un’E. materiale
del bene cioè un’E. che vede nel bene il semplice oggetto dell’appetizione. Se-
condo Scheler, le appetizioni (o aspirazioni o im- pulsi o desideri) hanno i
loro fini in se stesse cioè «in un contemporaneo o precedente sentimento dei
loro componenti axiologici ». I fini dell’appetizione possono diventare scopi
della volontà, quando ven- gono rappresentati e scelti e così divengono un
dover essere reale, cioè i termini di un’esperienza oggettiva. Ma i valori sono
dati anteriormente e indipendentemente sia dai fini che dagli scopi e anche
sono date indipendentemente da tali fini e scopi le preferenze dei valori, cioè
la loro gerarchia. « Possiamo infatti, dice Scheler, sentire i valori, anche
morali, nella comprensione degli altri, senza che essi vengano fatti oggetto di
aspirazione o siano immanenti ad una aspirazione. Similmente possiamo preferire
o posporre un valore ad un altro, senza con ciò scegliere tra le aspirazioni
che si dirigono a tali valori. Tutti i valori possono es- sere dati e preferiti
senza alcuna aspirazione 1 (For- malismus, pag. 32). In altri termini, l’E. non
è fondata nè sulla nozione del bene nè su fini imme- diatamente presenti alla
aspirazione e su scopi deliberatamente voluti ma sull’intuizione emotiva,
immediata e infallibile dei valori e dei loro rapporti gerarchici; intuizione
che è alla base di ogni aspi- razione, desiderio e deliberazione volontaria.
Hart- mann ha espresso in modo più scolasticamente chiaro ed efficace la stessa
concezione dell'etica. «C’è, egli dice, un regno di valori sussistente in sè,
un autentico ‘ mondo intellegibile * che sta al di là della realtà come al di
là della coscienza, una sfera ideale etica, non costruita, inventata o sognata,
ma effettivamente esistente e afferrabile nel feno- meno del sentimento
axiologico, la quale sussiste accanto a quella ontica reale e a quella
gnoseolo- gica attuale (Erhik, 1926, pag. 156). L’«essere in sè » dei valori
sottolinea la loro indipendenza dalla stessa intuizione axiologica in cui sono
dati e perciò la loro necessità e assolutezza che, nell’in- tenzione di
Hartmann, dovrebbe sbarrare la strada al «relativismo axiologico di Nietzsche»
(/bid., pag. 139). Tuttavia il « relativismo axiologico di Nietzsche » ha la
stessa struttura formale, cioè la stessa impo- stazione, dell’E. di Hartmann e
in generale del- l’E. tradizionale del fine, perchè si fonda anch’esso su una
gerarchia assoluta di valori. Scheler e Hart- mann ritengono che tale
gerarchia, come i valori stessi, sia completamente indipendente dalla scelta
umana, e che ogni scelta anzi la presupponga, sia o no ad essa conforme. Ma
questa è precisamente anche la credenza di Nietzsche. Soltanto che, per
Nietzsche, tale gerarchia è diversa: è una gerarchia dei valori vitali, dei
valori in cui s’incarna la Vo- lontà di Potenza. «I valori morali, dice
Nietzsche, hanno occupato fino ad oggi il rango superiore; chi potrebbe
dubitare di essi? Ma togliamo a questi valori il loro posto e muteremo tutti i
valori: ca- povolgeremo il principio della loro gerarchia pre- cedente» (Wille
zur Macht; trad. franc. Bianquis, III, 503). L’immoralismo di Nietzsche, il suo
« relati- vismo axiologico», per il quale egli si fa critico della morale
corrente e vede in essa forme camuffate di egoismo ed ipocrisia, è
semplicemente la proposta di una nuova tavola dei valori fondata sul prin-
cipio dell’accettazione entusiastica della vita, sulla preminenza dello spirito
dionisiaco. È proprio per questo che Nietzsche intende sostituire alle virtù
della morale tradizionale le nuove virtù în cui si esprime la volontà di
potenza. È virtù ogni passione che dice sì alla vita ed al mondo: «la fierezza,
la gioia e la salute, l’amore sessuale, l’inimicizia e la guerra, la
venerazione, le belle attitudini, le buone maniere, la volontà forte, la
disciplina dell’intel- lettualità superiore, la volontà di potenza, la rico- noscenza
verso la terra e verso la vita; tutto ciò che è ricco e vuol dare, vuol
gratificare la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla » (/bid., $ 479).
Nietzsche ha dedotto così da quella che egli ha ritenuta la narradell’uomo,
cioè dalla volontà di potenza, la tavola dei valori morali, che dovreb- bero
indirizzare alla realizzazione della stessa vo- lontà di potenza in un mondo di
superuomini. La struttura della sua dottrina non è perciò diversa da quella di
molte altre che, utilizzando lo stesso procedimento, tendono a conservare e
giustificare le tavole dei valori tradizionali, deducendole dalla natura
dell’uomo o dalla struttura dell'essere. 2° La seconda concezione fondamentale
dell’E. è quella che si configura come una dottrina del movente della condotta.
La caratteristica di questa concezione è che in essa il bene non viene definito
in base alla sua realtà o perfezione ma solo come oggetto della volontà umana o
delle regole che la dirigono. Sicchè mentre nella prima concezione le norme
sono derivate dall’ideale che si assume come proprio dell’uomo (la perfezione
della vita razio- nale secondo Aristotele, lo Stato secondo Hegel, la società
chiusa o aperta secondo Bergson, ecc.); nella seconda concezione si mira
anzitutto a deter- minare il movente dell’uomo, cioè la regola alla quale egli
ubbidisce in linea di fatto; e conseguen- temente si definisce come bene ciò a
cui si tènde in virtù di quel movente o che è conforme alla regola in cui esso
si esprime. Così quando Prodico formulava la sua morale nella forma di
proposizioni condizionali o imperativi ipotetici, dava luogo a un’E. del
movente che è tra le prime che siano state proposte. Egli diceva: «Se vuoi che
gli dèi ti siano benevoli, devi venerare gli dèi. Se vuoi essere amato dagli
amici, devi beneficare gli amici. Se desideri essere onorato da una città, devi
essere utile alla città. Se aspiri ad essere ammirato da tutta la Grecia, devi
sforzarti di far bene alla Grecia, ecc.» (Senor., Memor., II, i, 28). Allo
stesso modo un’E. del movente è quella a cui mira Protagora quando riconosce
che il rispetto reci- proco e la giustizia sono le condizioni per la so-
pravvivenza dell’uomo. Questo è il senso del mito di Prometeo, che Platone fa
esporre a Protagora nel dialogo omonimo (Pror., 322 c). E lo scritto sofistico
che va sotto il nome di Anonimo di Giam- blico ribadisce questo punto di vista.
« Se anche ci fosse, come non c’è, un uomo invulnerabile, insen- sibile, con un
corpo e un’anima d’acciaio, solo alleandosi alle leggi e al diritto e rafforzandole
e usando la sua forza per esse e per ciò che le favorisce, egli potrebbe
salvarsi, giacchè altrimenti non po- trebbe resistere » (Anon. Jambl., 6, 3).
In queste formulazioni, ciò che si ténde a mettere in luce è il meccanismo dei
moventi che sono a fondamento delle regole del diritto e della morale: per
soprav- vivere, l'uomo si conforma a tali regole e non può agire altrimenti. In
tali formulazioni il movente della condotta umana è il desiderio o la volontà
di sopravvivere. In altre formulazioni del genere, questo movente è il piacere.
Aristippo affermava che solo il piacere è desiderato di per se stesso; e vedeva
la conferma di questo nel fatto che sin da bambini gli uomini, senza deliberata
volontà, cercano il piacere e quando lo hanno raggiunto non cercano altro,
mentre fuggono il dolore che ne è l’opposto (Diog. L., II, 88). Lo stesso
signi- ficato di semplice riconoscimento di quello che è, in linea di fatto, il
movente della condotta umana ha il principio dell’E. di Epicuro: « Piacere e
do- lore sono le due affezioni che si ritrovano in ogni animale, l’una
favorevole l’altra contraria, attra- verso le quali si giudica ciò che si deve
scegliere e ciò che si deve fuggire » (Diog. L., X, 34).Questa concezione
dell’E. è rimasta assente per tutto il Medioevo e viene ripresa soltanto nel
Ri- nascimento. Lorenzo Valla la ripresentò per primo nel De voluptate,
affermando che il piacere è l’unico fine dell’attività umana e che la virtù non
consiste in altro che nella scelta del piacere (De vol., II, 40). E Telesio
ripresentava l’altra alternativa tradizio- nale della stessa concezione,
derivando le norme dell’E. dal desiderio, che è in ogni essere, della propria
conservazione (De rer. nat., IX, 2). In modo rigoroso e sistematico Hobbes
poneva questo stesso principio a fondamento della morale e del diritto. «Il
primo dei beni, egli scrive, è la conservazione di sè. La natura infatti ha
provveduto perchè tutti desiderino il proprio bene; ma affinchè possano essere
capaci di questo, bisogna che desiderino la vita, la salute e la maggiore
sicurezza possibile di queste cose per il futuro. Di tutti i mali invece il
primo è la morte, specialmente se si accompagna con il tormento; giacchè i mali
della vita possono essere tanti che, se non si prevede vicina la loro fine,
fanno annoverare la morte tra i beni» (De hom., XI, 6). In questa tendenza alla
propria con- servazione e in generale al conseguimento di tutto ciò che giova,
Spinoza vide la stessa azione ne- cessitante della Sostanza divina. «La
ragione, egli dice, non richiede nulla contro la natura, ma ri- chiede di per
sè, innanzi tutto, che ognuno ami se stesso, ricerchi l’utile che sia veramente
tale per lui e desideri tutto quello che conduce l’uomo a una perfezione
maggiore; e in modo assoluto che ciascuno si sforzi, per quanto è in lui, di
conservare il proprio essere. Il che è, di necessità così vero, quanto è vero
che il tutto è maggiore della parte + (Et., IV, 18, scol.). Locke e Leibniz
erano d’ac- cordo sullo stesso fondamento dell’etica. Diceva Locke: « Poichè
Dio ha messo un legame indisso- lubile fra la virtù e la pubblica felicità, e
ha reso la pratica dellavirtù necessaria alla conservazione della società umana
e visibilmente vantaggiosa per tutti coloro con cui hanno a che fare le persone
dabbene, non bisogna meravigliarsi se ciascuno vuole non solamente approvare
queste regole, ma altresì raccomandarle agli altri, essendo persuaso che, se le
osserveranno, ne verranno vantaggi a lui stesso » (Saggio, I, 2, 6). E Leibniz
a sua volta riconosceva come fondamento della morale il prin- cipio «Seguire la
gioia ed evitare la tristezza », ritenendolo tuttavia affidato più all’istinto
che alla ragione (Nouv. Ess., I, 2, 1). Come si vede, l’E. del ’600 e del *700
manifesta un alto grado di uniformità: non solo essa è una dottrina del mo-
vente ma anche la sua oscillazione fra la «ten- denza alla conservazione» e la
«tendenza al pia- cere» come base della morale non implica una diversità
radicale giacchè il piacere stesso non è che l’indice emotivo d’una situazione
favorevole alla conservazione (v. EMozioNE). Ciò con cui una E. siffatta è in
opposizione radicale, è l’E. del fine, cioè l'’E. nella sua impostazione
tradizionale pla- tonico-aristotelico-scolastica. La caratteristica fon-
damentale della filosofia morale inglese del °700, la quale ha un’importanza
tutta particolare nella storia dell’E., consiste nell’aver portato alla luce e
nell'aver assunto come tema principale di discus- sione per l'appunto il
contrasto tra l’R. del movente e l’E. del fine: un contrasto che apparve come
quello tra ragione e sentimento. Dice Hume: « C°è una controversia nata da
poco, molto più degna di esame, intorno ai fondamenti generali della morale: se
essi cioè siano derivati dalla ragione o dal senti mento: se giungiamo alla
loro conoscenza per via di un séguito di argomenti e di induzioni o per via di
un sentimento immediato e di un fine senso in- teriore » (Ing. Conc. Morals,
I). Hume afferma che il primo ad accorgersi di questa distinzione è stato Lord
Shaftesbury; e in realtà Shaftesbury parlò di un senso morale che è una specie
di istinto naturale o divino, specificazione nell’uomo del prin- cipio
d’armonia che regola l’universo (Caratteri stiche di uomini, maniere, opinioni
e tempi, 1711). Già Hutchinson interpretava il senso morale come tendenza
diretta a realizzare «la massima felicità del maggior numero possibile di
uomini » (Ricerca sulle idee di bellezza e di virtà, 1725, III, 8): una formula
che sarà fatta propria da Beccaria e da Bentham. E fu Hume a trovare la parola
che espri- meva questo nuovo indirizzo: il fondamento della morale è l’urilità.
In altri termini l’azione buona è quella che procura « felicità e
soddisfazione» alla società; e l’utilità piace perchè risponde a un bi- sogno o
tendenza naturale: quello che inclina l’uomo a promuovere la felicità dei suoi
simili (7g. Conc. Morals, V, 2). La ragione e il sentimento entrano perciò
egualmente nella morale, secondo Hume: «La ragione ci istruisce sulle diverse
direzioni del- l’azione, l’umanità ci fa stabilire la distinzione a favore di
quelle che sono utili e benefiche » (/bid., App. I. Il sentimento di umanità,
cioè la tendenza a godere della felicità del prossimo, è perciò, se- condo
Hume, il fondamento della morale cioè il movente fondamentale della condotta
umana. Alcuni anni più tardi Adamo Smith chiamerà simpatia questo stesso
sentimento in quanto è proprio di uno spettatore imparziale che guardi e
giudichi la propria e altrui condotta (The Theory of Moral Sentiments, 1759,
III, 1). Che la dottrina morale di Kant abbia voluto inserirsi proprio in
questa tradizione ed essere una dottrina del movente, non del fine, risulta
chiaro dal fatto che essa risponde alle caratteristiche fon- damentali di una
dottrina del movente. Difatti in primo luogo Kant ritiene che «il concetto del
bene e del male non dev'essere determinato prima della legge morale (di cui
apparentemente dovrebbe es- sere il fondamento) ma soltanto dopo di essa e
attraverso di essa » (Crit. R. Prat., I, 1, 3). Questo vuol dire che Kant
condivide la concezione 2 del bene, che corrisponde a un’E. del movente. In se-
condo luogo è appunto in base ai moventi (Bestim- mungsgriinde) che Kant
classifica le diverse conce- zioni fondamentali del principio della moralità
(Ibid., I, 1, $ 8, nota 2). In terzo luogo, la legge morale è considerata da
Kant come un fatto (Factum) perchè «non si può dedurre da precedenti dati della
ragione, per es., dalla coscienza della libertà » ma s'impone per se stessa
come un sic volo, sic iubeo (Ibid., $ 7). In tal modo Kant ha trasferito dal
«sentimento » alla « ragione » il movente della condotta, utilizzando l’altro
corno del dilemma proposto dai moralisti inglesi. Con questo ha vo- luto
garantire la categoricità della norma morale cioè quell’assolutezza del comando
per cui essa si distingue dagli imperativi ipotetici delle tecniche e della
prudenza. Per questa esigenza l’E. kantiana condivide indubbiamente con la
concezione 1 del- l’E., la preoccupazione fondamentale di ancorare la regola
della condotta alla sostanza razionale dell’uomo. Ma se si prescinde da questa
preoccu- pazione assolutistica (che va messa sul conto del «rigorismo »
kantiano), l'E. di Kant si presenta assai affine a quella dei moralisti inglesi
del '700 (verso i quali d'altronde Kant, negli scritti precri- tici, non ha
celato le sue simpatie) non solo nella sua impostazione fondamentale ma anche
nei suoi risultati. Se il sentimento, cui si appellavano i mo- ralisti inglesi
era la tendenza alla felicità altrui, la ragione cui si appella Kant è
l’esigenza di agire secondo una massima che gli altri possono far propria. Per
quanto questa formula possa apparire più rigorosa, e nello stesso tempo più
astratta, di quelle adoperate dai filosofi inglesi, il suo signi- ficato è lo
stesso. Ciò che l’una e le altre intendono suggerire come principio o movente
della condotta è il riconoscimento dell’esistenza di a/ri uomini (o come voleva
Kant di altri «esseri razionali +) e l’esigenza di comportarsi nei loro
confronti sulla base di questo riconoscimento. La formula kan- tiana dell’imperativo
per la quale si deve trattare l'umanità, nella propria persona come
nell’altrui, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo, non è che
un’altra espressione di questa stessa esigenza, che i moralisti inglesi
chiamavan « senso morale » o «senso di umanità +». Sfortunatamente, gli
sviluppi che la filosofia morale di Kant ha su- bito da Fichte in poi hanno
fatto leva più frequen- temente sul suo armamentario dogmatico e asso-
lutistico anzichè sulla sua impostazione fondamentale e sulla sostanza dei suoi
insegnamenti morali. Tali insegnamenti, come l’impostazione da cui dipen- dono,
sono in accordo con l’E. settecentesca, cioè con l’indirizzo morale
dell’Illuminismo; ma non è in accordo con tale indirizzo la contrapposizione
stabilita da Kant fra il mondo morale e il mondo naturale e perciò tra l’E. e
la scienza della natura. Questo contrasto deriva alla dottrina di Kant proprio
dall’armamentario assolutistico della sua E. cioè da quell’aspetto per cui essa
divenne la crea- tura prediletta dei metafisici moralisti dell’800 e il
pretesto per innumerevoli (e inoperanti) disquisi- zioni intorno
all’assolutezza del dovere e all’accesso, che esso consentirebbe, a una Realtà
superiore in- condizionata (quella del « noumeno +) senza nessun rapporto con
quella fenomenica e condizionata della natura. Ancora oggi, nell’E. di Kant,
amici e avversari vedono, il più delle volte, esclusivamente questo aspetto: i
primi per esaltarla come l’anco- raggio sicuro di tutte le certezze concernenti
la vita morale, i secondi per condannarla come il ba- luardo delle illusioni
metafisiche nel campo morale. Ma una considerazione di quest’E. che si
sottragga a tali alternative e la scorga nel quadro dell’E. set- tecentesca, di
cui condivise l’impostazione e che pretese fondare con necessità rigorosa,
consente forse una più adeguata valutazione di essa. Può infatti aprire la via
ad una utilizzazione delle ana- lisi kantiane in vista di una impostazione
dell’E. come tecnica della condotta, indipendente da pre- supposti metafisici.
Nel frattempo, l’E. del movente assumeva, nel clima positivistico, la pretesa
di valere come scienza esatta della condotta. Già Helvétius diceva: « Ho
creduto che si deve trattare la morale come tutte le altre scienze e fare una
morale come una fisica sperimentale » (De l’esprit, 1758, I, pag. 4). Ma questa
pretesa caratterizza soprattutto l’utilitarismo dell’800 che ha il suo
caposcuola in Bentham. Secondo Bentham, i soli fatti su cui si possa far leva
nel dominio morale sono i piaceri e i dolori. La condotta dell’uomo è
determinata dall’attesa del piacere o del dolore; e questo è l’unico possibile
motivo di azione. Su questi fondamenti la scienza della morale diventa esatta
come la matematica, sebbene sia assai più intricata ed estesa (/ntroduction to
the Principles of Morals and Legislation, 1789, in Works, I, pag. V). Da questo
punto di vista, coscienza, senso morale, obbligazione morale sono concetti
fittizi o «non entità». La realtà che tali concetti celano è il calcolo dei
piaceri e dei dolori sul quale riposa il comportamento morale del- l’uomo:
calcolo di cui Bentham volle stabilire i princìpi, fornendo la tavola completa
dei moventi di azione, tavola che doveva servire come guida per ogni futura
legislazione. In realtà l’opera di Bentham ispirò l’azione riformatrice del
liberalismo inglese e ancor oggi i suoi principi rimangono in- corporati nella
dottrina del liberalismo politico. L’utilitarisjmo di Giacomo Mill e di
Giovanni Stuart Mill non è che la difesa, l’illustrazione delle tesi fondamentali
di Bentham. Il positivismo si ispirò allo stesso punto di vista: la morale
dell’al- truismo, di cui si fece banditore Comte e che ha il suo principio
nella massima «Vivere per gli altri », è affidata anch'essa, quanto alla sua
realiz- zazione, a istinti simpatici che, secondo Comte, l’educazione può
sviluppare gradualmente sino a renderli predominanti sugli istinti egoisti
(Caté- chisme positiviste, 1852, pag. 48). L’E. biologica di Spencer fa proprie
queste tesi. Spencer vede nella morale l’adattamento progressivo dell’uomo alle
sue condizioni di vita. Ciò che all'uomo sin- golo appare come dovere od
obbligazione morale è il risultato delle esperienze ripetute e accumulate
attraverso il succedersi di innumerevoli generazioni: è l’insegnamento che tali
esperienze hanno fornito all'uomo nel suo tentativo di adattarsi sempre meglio
alle sue condizioni vitali. Spencer prevede anche una fase in cui le azioni più
elevate, richieste per lo svolgimento armonico della vita, saranno fatti così
comuni come lo sono ora le azioni infe- riori cui ci spinge il semplice
desiderio; in quella fase, perciò, l’antitesi tra egoismo e altruismo sarà
priva di senso (Data of Ethics, $ 46). Si può dire che l’E. dell’evoluzionismo
non è che l’espressione, nei termini dell’ottimismo positivistico, di quell’E.
fon- data sul principio dell’autoconservazione che Telesio e Hobbes avevano
reintrodotta nel mondo moderno. Nella filosofia contemporanea questa concezione
dell’E. non ha realizzato mutamenti o progressi sostanziali. Bertrand Russell
si è limitato a ripro- porla nella forma più semplice e rozza, affermando che
«l’E. non contiene affermazioni vere o false, ma consiste di desideri di una
certa specie generale » (Religion and Science, 1936). Dire che qualcosa è un
bene o un valore positivo è un altro modo di dire « Mi piace »; e dire che
qualcosa è cattivo significa esprimere ugualmente un atteggiamento personale e
soggettivo. Russell ritiene tuttavia possibile in- fluire sui propri desideri
rafforzandone alcuni e deprimendone o distruggendone altri. E ritiene pure che
ciò va fatto se si vuol mirare alla felicità o al- l'equilibrio della vita. Ma
è chiaro che questa po- sizione è contraddittoria: se l’E. non ha a che fare
che con desideri, manca ogni motivo o criterio per agata o per far prevalere
sugli altri uno di essi. andato perduto, nell’E. di Russell, uno degli aspetti
fondamentali dell’E. inglese tradizionale: l’esigenza di un calcolo di tipo
benthamiano cioè di una disciplina delle scelte fra i desideri o per meglio
dire fra le alternative possibili di condotta. Eppure proprio a questo punto di
vista così muti- lato si è agganciata la concezione dell’E. prevalente nel
positivismo logico, secondo la quale i giudizi etici non fanno che esprimere «i
sentimenti di chi parla ed è perciò impossibile trovare un criterio per
determinare la loro validità » (Aver, Language, Truth and Logic, pag. 108; cfr.
STEVENSON, Ethics and Language, pag. 20). Questo non è altro ovvia- mente che
lo stesso punto di vista di Russell, se- condo il quale l’E. ha da fare con
desideri e non con asserzioni vere o false; è un punto di vista che segna la
rinuncia alla comprensione dei feno- meni morali piuttosto che un passo
qualsiasi verso questa comprensione. Più fecondo si presenta il punto di vista
di Dewey la cui E. si collega con la nozione di valore. Dewey condivide con
buona parte della filosofia del valore (v.) la credenza che i valori siano, non
solo oggettivi ma anche semplici e perciò indefinibili; ma non condivide con
essa la credenza che siano assoluti o necessari. I valorisono, secondo Dewey,
qualità immediate su cui perciò non c’è nulla da dire; solo in virtù di un
procedimento critico e riflessivo possono essere preferiti o posposti (Theory
of Valuation, 1939, pag. 13). Ma essi sono fuggitivi e precari, negativi e
positivi e anche infinitamente diversi nelle loro qualità. Di qui l’importanza
della filosofia che, come una « critica delle critiche +, ha in primo luogo lo
scopo di interpretare gli eventi per farne stru- menti e mezzi della realizzazione
dei valori; ed in secondo luogo quello di rinnovare il significato dei valori
stessi (Experience and Nature, pag. 349 sgg.). Questo còmpito della filosofia è
condizionato dalla rinuncia alla credenza nella realtà necessaria e nel valore
assoluto. « Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e
immutabile può sem- brare un sacrificio. Ma questa rinuncia è la condi- zione
per impegnarsi in una vocazione più vitale La ricerca dei valori che possono
essere assicurati e condivisi da tutti, perchè connessi ai fondamenti della
vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali ma
coadiutori gli uomini di buona volontà » (The Quest for Certainty, pag. 295).
Queste considerazioni di Dewey circoscrivono certamente il quadro in cui deve
muoversi la ricerca etica con- temporanea, ma non offrono ancora a questa
ricerca strumenti efficaci. Manca ancora, nell’E. contem- poranea una teoria
generale della morale che cor- risponda alla teoria generale del diritto (v.)
cioè una teoria che consideri la morale come una tecnica della condotta e si
applichi a considerare le carat- teristiche di questa tecnica e le modalità con
cui essa si realizza in gruppi sociali diversi. Ovviamente, una teoria generale
della morale non partirebbe da un impegno preventivo nei confronti di una
deter- minata tavola dei valori: il suo impegno sarebbesemplicemente quello di
considerare la costituzione delle tavole dei valori che si offrono allo studio
storico e sociologico della vita morale e di scoprire, se è possibile, le
condizioni formali o generali di tale costituzione. Ma essa potrebbe (e
dovrebbe) ampiamente utilizzare l’E. del °700 e in generale l’E. della
motivazione e presentarsi come la con- tinuazione di tale concezione. A
proposito dei rapporti tra morale e diritto, va qui riaffermato ciò che si dice
a proposito del diritto e cioè che tali rapporti possono essere di- versamente
configurati, ma mai specificati come rapporti di eterogeneità o indipendenza
reciproca. L’E., come tecnica della condotta, sembra a prima vista più estesa
del diritto come tecnica della coe- sistenza. Ma se si riflette che ogni specie
o forma della condotta è una forma o specie della coesi- stenza, o
reciprocamente, si vede sùbito come la distinzione dei due campi sia pura
materia di opportunità per delimitare particolari problemi o gruppi di problemi
o campi specifici di considera- zione o di competenza. ETICHE, VIRTÙ (gr. Oral
dpetal; lat. Vir- tutes morales; ingl. Ethical Virtues; franc. Vertus morales;
ted. Ethische Tugenden). Sono, secondo Aristotele, le virtù che corrispondono
alla parte appetitiva dell'anima, in quanto è moderata o guidata dalla ragione
(Zf. Nic., I, 13, 1102b 16) e che consistono nel giusto mezzo (v. MEDIETÀ) tra
due estremi di cui uno è vizioso per eccesso, l’altro per difetto (/bid., II,
6, 1107 a 1). Le virtù E. sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la
magna- nimità, la mansuetudine, la franchezza, e infine la giustizia che è la
maggiore di tutte (/bid., III-V). Cfr. le singole voci. i ETICITÀ (ted. Sitrlichkeit).
Hegel ha distinto dalla moralità, che è la volontà soggettiva cioè individuale
o privata del bene, l’E. che è la realiz- zazione del bene stesso in realtà
storiche o istitu- zionali, che sono la famiglia, la società civile e lo Stato.
L’E., dice Hegel, «è il concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura
dell’autoco- scienza + (Fil. del dir., $ 142). Le istituzioni etiche hanno una
realtà superiore a quella della natura perchè si tratta di una realtà «
necessaria e interna » (Ibid., $ 146). La più alta manifestazione dell’E., lo
Stato, è Dio stesso che è entrato nel mondo, un « Dio reale » (/bid., $ 258,
Zusatz). Questa di- stinzione tra moralità ed E. è stata ripetuta soltanto
nell’àmbito della scuola hegeliana. ETICO-RELIGIOSE, ANTINOMIE (te- desco
Ethisch-religiose Antinomien). Le antitesi in cui si esprime il conflitto tra
il punto di vista etico e il punto di vista religioso. Esse sono state enun-
ciate da Nicolaj Hartmann nel modo seguente: x 1° l’etica è radicata nell’al di
qua, la religione 368 tènde a un’esistenza che è al di là di questa; 2° l’etica
si rivolge all’uomo, la religione a Dio; 3° l’etica af- ferma l’autonomia dei
valori, la religione li subor- dina alla volontà di Dio; 4° l’etica si fonda
sulla li- bertà umana, la religione trasferisce ogni iniziativa a Dio (Erhik,
1926; 3* ediz., 1949, pag. 811-17). ETIOLOGIA (ingl. Etiology; franc.
Étiologie; ted. Aetiologie). La ricerca 0 determinazione delle cause di un
fenomeno. Il termine è usato quasi esclusivamente in medicina. ETNOGRAFIA
(ingl. Ethnography; francese Ethnographie; ted. Ethnographie). Lo stesso che
EtnoLOgiA. Talvolta, il primo stadio della ricerca antropologica:
l’osservazione e la descrizione, il la- voro sul campo (Lévi-STrAUSS,
Anthropologie structu- rale, 1958, cap. XVII). ETNOLOGIA (ingl. Ethnology;
franc. Ethno- logie; ted. Ethnologie). Una delle discipline del ceppo
sociologico. Essa ha per oggetto i modi di vita di gruppi sociali ancora
esistenti o dei quali comunque si conservi un’abbondante documenta- zione. L’E.
si dirige soprattutto a studiare la cul- tura dei popoli « primitivi ». Essa
non si distingue dalla sociologia se non per l’accentuata tendenza dei suoi
cultori a insistere sui caratteri individuali dei gruppi sociali studiati e
pertanto a prescindere dai problemi sociologici generali. Lévi-Strauss con-
sidera l’E. come il primo passo, dopo la descrizione etnografica, verso la
sintesi antropologica: la sintesi etnologica può essere geografica, storica o
sistema- tica (Anthropologie structurale, 1958, cap. XVID. ETOLOGIA (dal gr. 606;
ingl. Ethology; fran- cese Éthologie; ted. Ethologie). Termine coniato da Wundt per designare lo studio
storico descrittivo dei costumi e delle rappresentazioni morali (Logik, Il, 2,
369). E. comparata è lo studio comparativo dei comportamenti animali sia nel
loro aspetto ontogenetico che in quello filogenetico (K. LORENZ, in
Phisiological Mechanism in Animal Behaviour, 1950; N. TinBERGEN, The Study of
Istinct, 1951). ETOLOGIA (dal gr. $00g; ingl. Etho/ogy; fran- cese Éthologie;
ted. Ethologie). Termine coniato da Stuart Mill per designare la scienza che
studia le leggi della formazione del carattere. Tali leggi de- riverebbero da
quelle generali della psicologia, ap- plicate però alle influenze che le
circostanze am- bientali hanno sulla formazione del carattere. L’E. si
distinguerebbe dalla sociologia in quanto la prima sarebbe la scienza del
carattere individuale, la seconda la scienza del carattere sociale o collettivo
(Logic, VI, 5, $ 3). La parola non ha avuto fortuna, mentre è stata quasi
universalmente accettata, per designare la stessa scienza, la parola
caratterologia (v.). EUBULIA (gr. ebfovMa; lat. Eubulia). È, se- condo
Aristotele, la buona deliberazione cioè il corretto giudizio sulla rispondenza
dei mezzi al fine. Il deliberare bene è proprio dei saggi e la sag- gezza
costituisce appunto il giudizio vero intorno alla rispondenza dei mezzi al fine
(Er. Nic., VI, 9, 1142 b 5). Nello stesso senso la definisce S. Tom- maso (S.
7h., I, II, q. 57, a. 6). EUCOSMIA (gr. eòxoo pla). Comportamento ordi- nato,
buona condotta (cfr. ARIST., Po/.,IV,1299b 16). EUCRASIA (gr. eòxpuota).
Temperamento. Pro- priamente, giusta mescolanza degli elementi che compongono
il corpo (ARIST., De part. an., 673 b 25; GALENO, VI, 31, ecc.). EUDEMONIA. V.
FELICITÀ. EUDEMONISMO (ingl. Eudemonism; fran- cese Eudémonisme; ted.
Eudamonismus). Ogni dot- trina che assume la felicità come principio e fon-
damento della vita morale. Sono eudemonistiche in questo senso l’etica di
Aristotele, l’etica degli Stoici e dei Neoplatonici, l’etica dell’empirismo
inglese e dell’Illuminismo. Kant ritiene che l’E. sia il punto di vista
dell’egoismo (v.) morale, cioè della dottrina « di chi restringe tutti i fini a
se stesso e non vede nessun utile fuori di ciò che giova a lui » (Antr., I, $
2). Ma questo concetto dell’E. è troppo ristretto perchè nel mondo moderno, a
partire da Hume, la nozione di felicità ha un significato sociale, quindi non
coincide con egoismo od egocentrismo (v. FELICITÀ). EUNOMIA (gr. ebvopia). Il
«buon ordine umano » contrapposto alla Aybris cioè all’atteggia- mento di chi
disconosce i limiti degli uomini e il posto subordinato che essi hanno nel
mondo (PLAT., Sof., 216 b). EUPRASSIA (gr. eòrpabla). Il comportarsi bene cioè
ordinatamente o secondo le leggi. Senofonte designa con questa parola l’ideale
morale di So- crate (Mem., III, 9, 14). Aristotele adopera la stessa parola in
opposizione a disprassia che indica la con- dotta disordinata (Et. Nic., VI, 5,
1140 b 7). EURISTICA. Parola moderna coniata dal verbo greco ebploxw = trovo:
ricerca o arte della ri- cerca. Diversa da Eristica (v.). EUTASSIA (gr.
eòvatta). La condotta bene or- dinata o conforme all’ordine cosmico. È un
concetto stoico (Stoicorum Fragmenta, III, 64), che Cicerone si è fermato ad
illustrare (De Officis, I, 40, 142). EUTIMIA (gr. eòtvula; lat. Tranquillitas).
Era il titolo di una delle opere di Democrito e signifi- cava la soddisfazione
tranquilla, diversa dal piacere, che consiste nell’assenza di timori, di
superstizioni e di emozioni (Dio. L., IX, 45). I latini tradussero il termine
con tranquillitas (SENECA, De tranquilli- tate animi, II, 3). EVANGELO ETERNO
(lat. Evangelium aeternum). Origene adoperò questa espressione per designare la
rivelazione delle verità più alte che Dio fa ai sapienti in tutte le epoche del
mondo e che è in grado di integrare e correggere la rivelazione conte- nuta
nell’E. storico (De princ., IV, 1; InJohann., 1,7). EVEMERISMO (ingl.
Euhemerism; francese Evhémérisme; ted. Evhemerismus). La dottrina di Euevemero
o Evemero di Messina (sec. rv-II1 a. C.), autore di una Sacra Scrittura
tradotta in latino da Ennio, nella quale si voleva dimostrare che gli dèi sono
uomini coraggiosi o illustri o potenti diviniz- zati dopo la morte (CiceR., De
nat. deor., I, 119). EVENTO (ingl. Event; franc. Événement; te- desco
Geschehen). Nella fisica contemporanea, una porzione del continuo
spazio-temporale. In questo senso, una cosa, per es., un corpo, è un evento. Il
concetto fu chiarito da Einstein nel 1916 (Teoria spec. e gen. della
relatività, $ 27). Da allora è apparso come un concetto fondamentale della
fisica: l’E. è, propriamente parlando, l’oggetto specifico della fi- sica,
quello a cui si riferiscono i suoi mezzi di os- servazione: esso è
caratterizzato dalle tre coordinate spaziali e dalla coordinata temporale. « Il
mondo degli E. può venir descritto dinamicamente mediante una imagine che muti
col tempo, prospettata sullo sfondo dello spazio tridimensionale. Ma può anche
venir descritto mediante un’imagine statica, pro- iettata sullo sfondo del
continuo spazio temporale a quattro dimensioni. Dal punto di vista della fisica
classica, le due imagini, la dinamica e la statica, sono equivalenti. Ma dal
punto di vista della rela- tività, l’imagine statica è più conveniente e più
obiettiva » (EINSTEIN-INFELD, Evolution of Physics, III; trad. ital., pag.
218). Generalizzando il concetto di Einstein, Whitehead ha parlato di «E.
punti- formi» che sono quelli che possiedono una posi- zione l’uno rispetto
all’altro. Tali E. entrerebbero a costituire i punti di un sistema
spazio-temporale. Ogni sistema avrebbe un particolare gruppo di punti propri
cioè una propria definizione della « posizione assoluta » (Concept of Nature,
1920, cap. 5). Queste notazioni si riferiscono al tentativo di Whitehead di
tradurre la fisica contemporanea in una metafisica evoluzionistica. Dal suo
canto P. W. Bridgmann ha messo in dubbio l’importanza della nozione di E., non
ritenendo che tutti i ri- sultati delle misure fisiche possano essere espressi
in termini di coincidenze spazio-temporali. Per es., egli nota, la differenza
fra un elettrone negativo e uno positivo non è contemplata nella specificazione
delle coordinate (Logic of Modern Physics, 1927, cap. III; trad. ital., pag.
153). Ma nonostante queste riserve, il concetto di evento continua ad avere
un’importanza fondamentale nella fisica contempo- ranea ed essere considerato
dai fisici come la mi- gliore caratterizzazione dell’oggetto proprio di essa.
EVIDENZA (gr. &vépyew; lat. Evidentia; in- glese Evidence; franc. Évidence;
ted. Evidenz). Il presentarsi o manifestarsi di un oggetto qualsiasi 24 —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 369 come tale. Così intendevano l’E. gli
antichi, e spe- cialmente gli Epicurei e gli Stoici che l’assumevano come
criterio di verità. Gli Epicurei identificavano l’E. con l’azione stessa degli
oggetti sugli organi di senso (Dioc. L., X, 52). Gli Stoici intendevano per E.
il presentarsi o darsi delle cose ai sensi o all’intelligenza, in modo che esse
risultino s com- prese » (Sesto E., /p. Pirr., II, 7). La rappresenta- zione
catalettica (v.) è appunto la rappresentazione evidente. Da questo punto di
vista l’E. non è un fatto soggettivo ma oggettivo: non è legata alla chiarezza
e distinzione delle idee, ma al presentarsi e manifestarsi dell’oggetto (quale
che sia). Sicchè gli stessi Scettici non rifiutano ciò che si presenta come
evidente, per quanto evitino l’asserzione re- lativa (Sesto E., /pot. Pirr.,
II, 10). Cartesio ha invece dato luogo al concetto sog- gettivo dell’evidenza.
La «regola dell’E.», che egli espone nel Discorso prescrive «di non accettare
mai alcuna cosa per vera a meno che non la si riconosca evidentemente per tale;
cioè di evitare diligentemente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere
nei propri giudizi se non ciò che si presenta così chiaramente e distintamente
al proprio spirito, da non aver alcuna occasione di metterlo in dubbio» (Disc.,
II). In questa regola l’E. è stata ridotta alla chiarezza e distinzione (v.)
delle idee e i problemi relativi si sono spostati dal dominio dell’oggetto al
dominio dell'idea, ripre- sentandosi però in quest’ultimo come problemi og-
gettivi. Cartesio stesso aveva (soprattutto nelle Re- gole per la direzione
dello spirito) collegato l’E. con la facoltà dell’intuizione: con la quale
parola aveva inteso, non già la testimonianza dei sensi o il giu- dizio
dell’imaginazione, ma «la concezione ferma di uno spirito puro e attento, che
nasce dalla sola luce della ragione e che, essendo più semplice, è anche più
sicura della deduzione » (Regulae ad di- rectionem ingenii, III). L’E. sarebbe
così il carattere dell’intuizione e costituirebbe la certezza propria di
quest’ultima; allo stesso modo che la necessità razionale costituisce la
certezza della deduzione. Questi concetti hanno dominato buona parte della
filosofia moderna; anche perchè sono stati accet- tati sia da Locke, che fa
dipendere dall’intuizione dell'accordo o del disaccordo tra le idee « tutta la
certezza e l’E. della nostra conoscenza » (Saggio, IV, 2, 1); sia da Leibniz
(Nouv. Ess., IV, 11, 10). Il carattere soggettivo dell’E. e la sua connessione
con una facoltà umana più o meno misteriosa e miracolosa detta intuizione, sono
rimasti in tutta la filosofia moderna; e soltanto la filosofia con- temporanea
ha mostrato di ritornare all’antico con- cetto dell’E. oggettiva. La critica
dell’E. come «una mistica voce che da un mondo migliore ci gridi: qui è la
verità!» 370 è stata fatta da Husserl; il quale ha trovato per l’E. la
definizione di « riempimento dell’intenzione ». Questa significa che l’E. si ha
quando l’intenzione della coscienza, diretta ad un oggetto, viene riem- pita
dalle determinazioni per cui l’oggetto stesso si individua, si definisce e da
ultimo appare presente alla coscienza stessa in carne ed ossa (Logische
Untersuchungen, II, $ 39; Ideen, I, $ 145; Erfahrung und Urteil, pag. 12). Di
conseguenza per tutta la filosofia contemporanea che si ispira alla fenomeno-
logia, l’E. ha riacquistato il suo carattere oggetti- vistico, tornando a
designare il presentarsi o manifestarsi di un oggetto come tale, qualunque sia
l’oggetto e quali che siano i metodi con cui s'intende certificare o garantire
la sua presenza o manifestazione. In questo senso Scheler ha parlato di «E.
preferenziale» per indicare quei rapporti gerarchici oggettivi dei valori che
guidano e sugge- riscono le scelte umane (Formalismus, pag. 87). Nello stesso
senso si dicono talvolta evidenti pro- posizioni analitiche o tautologiche la
cui verità risulta dai loro stessi termini, come, ad es., «Il triangolo ha tre
lati ». EVOLUZIONE (ingl. Evolution; franc. Évo- lution; ted. Evolution). La
parola conserva ancora il suo senso generico di sviluppo (v.); ma più spesso è
adoperata a designare una particolare dottrina che si chiama «teoria dell’E.».
Ora con questa espressione si possono intendere due cose diverse: 1° la teoria
biologica della trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra: che è
l’ipotesi fonda- mentale delle discipline biologiche da un secolo a questa
parte; 2° la teoria metafisica dello sviluppo progressivo dell’universo nella
sua totalità: che è un’ipotesi ammessa o presupposta da molte dot- trine
filosofiche moderne e contemporanee. Per quanto questi due significati abbiano
storicamente agito l’uno sull’altro, è opportuno tenerli distinti. Per il
secondo, v. la voce EVOLUZIONISMO. Il termine E. è stato probabilmente
introdotto da Spencer nel suo saggio sul Progresso del 1857; ma la parola
stessa, come il concetto, non avrebbero avuto la fortuna che hanno avuto senza
i successi del tras- formismo biologico, che si iniziarono con l’Origine delle
specie di Carlo Darwin (1859). L’opera di Darwin (come è anche dimostrato dal
suo successo senza precedenti) era, da un certo punto di vista, piuttosto una
conclusione che un principio: la con- clusione di un lungo lavoro di ricerche e
di vari tentativi di generalizzazione. La dottrina tradizionale
dell’immutabilità (o fissità) delle specie viventi era stata il riflesso, nel
dominio biologico, della dot- trina della sostanza (v.) cioè della dottrina
della necessità della struttura ontologica del mondo. Questa dottrina fu fatta
prevalere da Aristotele nel mondo della filosofia e della scienza antica e
EVOLUZIONE medievale; e si spiega così perchè l’ipotesi di una trasformazione
della specie, affacciata, sia pure in forma fantastica, da Anassimandro (Ps.
PLUT., Strom., 2) e da Empedocle (Fr., 56-61, Diels) non abbia lasciato
traccia. Tutte le forme sostanziali sono, secondo la metafisica aristotelica,
immutabili perchè necessarie: il che vuol dire che non possono essere nè create
nè distrutte. Come forme sostan- ziali, le specie viventi condividono tali
caratteri- stiche. Questo principio aristotelico, con la sola correzione della
creazione da parte di Dio, ha co- stituito per molti secoli l’impalcatura
generale della ricerca filosofica e scientifica. Soltanto a partire dagli inizi
del sec. xvi alcuni naturalisti comin- ciarono a considerare la possibilità
della trasfor- mazione delle specie biologiche. Ipoteticamente ammetteva questa
possibilità Buffon, che pur si di- chiarava esplicitamente partigiano della
fissità della specie (Histoire naturelle, 1749-1804). Dallo stesso Buffon, Kant
trasse probabilmente l’ispirazione per l’ipotesi, da lui prospettata (nel 1790)
nella Critica del giudizio ($ 80), di una «reale parentela » delle forme
viventi e di una loro derivazione da una « madre comune », nonchè di uno
sviluppo continuo della natura dalla nebulosità primitiva agli uomini. Queste
tuttavia erano solo intuizioni generiche, non suffragate da un sistema
coordinato di osservazioni. Il primo a prospettare in forma scientifica la dot-
trina del trasformismo biologico fu Gian Battista Lamarck nella sua Philosophie
zoologique (1809): egli tuttavia fondava l’E. degli organismi sulle dif-
ferenze prodotte in questi dall’uso maggiore o mi- nore degli organi:
differenze che si sarebbero poi fissate con l’eredità. Si sa oggi che i
mutamenti che nascono dalle abitudini non possono essere eredi- tati; pertanto
il merito di Lamarck non è quello di aver scoperto il principio dell’E. ma
quello di aver insistito sulla dottrina generale e su qualche aspetto
importante di essa, come quello dell’adat- tamento all’ambiente. Soltanto
l’Origine delle specie (1859) di Carlo Darwin ha fondato la moderna teoria
dell’E. biologica. La teoria di Darwin ammette due ordini di fatti: 1°
l’esistenza di piccole variazioni organiche che si verificano negli esseri
viventi a intervalli irregolari di tempo; variazioni che in parte, per la legge
della probabilità, sono vantag- giose agli individui che le presentano; 2° la
lotta per la vita che si verifica tra gli individui viventi, per la tendenza di
ogni specie a moltiplicarsi se- condo una progressione geometrica. Quest'ultimo
presupposto era suggerito a Darwin dalla dot- trina di Malthus (Essay on
Population, 1798). Da questi due ordini di fatti segue che gli individui presso
i quali si manifestino mutamenti organici vantaggiosi hanno maggiori
probabilità di soprav- vivere nella lotta per la vita; e in virtù del principio
EVOLUZIONE 371 di eredità ci sarà in essi un’accentuata tendenza a lasciare in
eredità ai loro discendenti i caratteri accidentali. Questa è la /egge della
selezione naturale che Darwin ritenne come la principale molla del- l’E. (Or.
delle specie, IV, 18). Mentre la teoria di Darwin da un lato subiva gli
attacchi dei partigiani della vecchia metafisica, dall’altro veniva estesa e
generalizzata in una teoria dell’E. cosmica, nuove ipotesi, in contrasto col
principio della selezione naturale, venivano pre- sentate circa il come l’E.
avrebbe luogo. Da un lato i neo-lamarkiani (fra i quali specialmente il
francese Giard [1846-1908] e l’americano Cope [1840-97] insistettero sulla
relazione dell’organismo all'ambiente, attribuendo a questa relazione la ca- pacità
di produrre le novità organiche che sareb- bero poi trasmesse con l’eredità.
Dall'altro lato i neo-darwiniani, che si raccolsero specialmente in- torno al
biologo tedesco Weissmann (1834-1914), insistettero sull’importanza della
selezione naturale come unico principio dell’evoluzione. Entrambi questi
indirizzi, nello sforzo di dimostrare la loro tesi, produssero fatti e
osservazioni nuove in favore della teoria generale dell’E.; ma nessuno di essi
riuscì, si può dire, a dimostrare la falsità della tesi dell’altro. Che
l’adattamento all’ambiente (tesi dei lamarkiani) e la selezione naturale (tesi
dei dar- winiani) abbiano funzioni importantissime nell’E. della vita, risulta
ormai certo; ciò che non risulta è che l’uno porti alla esclusione dell’altra.
In questa incertezza, si sono inserite le nuove forme del vitalismo (v.) cioè
della dottrina che, ritenendo la vita non spiegabile in linea di principio con
fattori fisico-chimici, riconosce a fondamento di essa un principio spirituale
che agisca finalisticamente. Il vitalismo insiste su quello che sembra un
carattere fondamentale dell’E. biologica: il finalismo. Il fina- lismo, che è
strettamente collegato con la dottrina della struttura sostanziale del mondo
cioè con la metafisica aristotelica, è la parte più dura a morire di questa
metafisica. Il suo campo privilegiato è, come già notava Kant, proprio quello
dei fenomeni vitali. Questi fenomeni non sembrano verificarsi a caso. Anche
quando De Vries osservò la subitanea e casuale apparenza di nuove varietà di
piante e assunse questo fatto come la base reale dell’E. (Teoria delle
mutazioni, 1901), il carattere casuale e arbitrario dell’intero processo
evolutivo sembrò difficile a difendersi. Da questa difficoltà hanno attinto la
loro forza le teorie vitalistiche. La più famosa fra tali teorie nel mondo
contemporaneo è quella di Bergson, che attribuisce l’E. allo slancio vitale
cioè ad una grande corrente di coscienza che è lanciata nella materia e ténde a
dominarla, riuscendovi meglio in una direzione, peggio in un’altra, e
progredendo soprattutto nelle due dire- zioni fondamentali dell’istinto degli
artropodi e dell’intelligenza dell’uomo (Év. créatrice, 1907). Ma la teoria
bergsoniana dell’E., per quanto rigetti l’idea di un piano totale predisposto o
predeter- minato (che sarebbe, dice Bergson, «un mecca- nismo rovesciato +) è
ancora finalistica e soggiace alla stessa obiezione che Bergson stesso fa al
vita- lismo: di assumere a principio di spiegazione la ignoranza della
spiegazione. Come ha notato Huxley, attribuire l’E. a un é/an vital non spiega
la storia della vita più che attribuire il movimento di una macchina a vapore
ad un é/an locomotifnon spieghi il funzionamento della macchina stessa. Il
ricorso a un termine metafisico, che non fa che coprire una zona di ignoranza
mascherandola come sapere e quindi distogliendo o scoraggiando la ricerca
positiva diretta a diminuirla, è anche evidente nelle altre forme del vitalismo
contemporaneo. Così Driesch ricorre all’entelechia, un vecchio concetto
aristotelico, cui attribuisce la funzione direttiva nella costruzione del-
l'organismo (Philosophie des Organischen, 1908-09). Gli studi di genetica (v.)
hanno avviato la teoria dell’E. su un terreno positivo di ricerche. La teoria
stessa è diventata il quadro complessivo degli stru- menti e delle direzioni
possibili della ricerca biolo- gica, evitando la dogmatizzazione di princìpi
par- zialmente provati, che era stata la caratteristica della fase precedente.
I capisaldi della odierna teoria dell’E. possono essere così ricapitolati: 1°
La separazione dell’idea dell’E. dall’idea di progresso. L’E. non è
necessariamente progresso, tanto meno progresso unilineare, necessario e co-
stante. Quale che sia il criterio che si scelga per giudicare il corso dell’E.,
si troverà che la storia della vita fornisce esempi non solo di progressi,
rispetto a questo criterio, ma anche di regressi e di degenerazioni. Huxley ha
suggerito come criterio obiettivo di progresso quello della dominazione
successiva di un gruppo biologico: criterio che por- terebbe a costituire una
successione di età: « Età degli invertebrati +, « Età dei pesci +, « Età degli
an- fibi », « Età dei rettili», « Età dei mammiferi», ed «Età dell’uomo » (E.,
The Modern Synthesis, 1942). Ma anche questa successione di età non è del tutto
oggettiva perchè è ovviamente suggerita dal cri- terio dell’approssimazione
all’uomo. Altre linee di progresso possono essere definite in base all’espan-
sione vitale o all’'adattamento all’ambiente: criteri che suggeriscono
l’ordinamento delle specie animali secondo la misura in cui esse realizzano
meglio l’una o l’altra di queste due cose. Un altro criterio che i biologi
adoperano spesso è la cosiddetta legge di Willinston secondo la quale « le
parti di un organismo tendono a ridursi nel loro numero e a specializzarsi
nella loro funzione» cioè tendono verso la semplificazione più che verso la
compli- 372 cazione. Altri indicano come criterio l’energia generale
dell’organismo o il livello del processo vitale (SEWERTZOFF, Morphologische
Gesetzmdssig- keiten der E., 1931). Ognuno di questi criteri porta a costruire
un ordine determinato delle specie vi- venti, o dei loro maggiori gruppi,
ordine coincidente solo parzialmente e occasionalmente con quelli ri- sultanti
dagli altri criteri. 2° L'esigenza che i fattori invocati a spiegare l’E.
spieghino non solo ciò che avviene a disegno nell’organizzazione della vita ma
anche ciò che avviene a caso, non solo l’adattamento ma anche la mancanza di
adattamento e in generale non solo gli aspetti favorevoli e progressivi delle
trasforma- zioni vitali ma anche quelli sfavorevoli e negativi. La prima
conseguenza di questo punto di vista è il riconoscimento che è inutile e
scientificamente illegittimo privilegiare un fattore evolutivo, per es., la
selezione naturale e considerarlo come l’unico e fondamentale secondo quanto
hanno fatto i neo- darwinisti. La seconda conseguenza è l’abbandono completo
del punto di vista finalistico, che esige la presenza di uno scopo finale
nell’E. (cfr., per es., J. B. S. HALDANE, The Causes of E., 1932). 3°
L'eliminazione di ogni pregiudizio necessi- taristico nella considerazione del
ciclo vitale delle specie biologiche: la loro nascita, sviluppo e morte non
obbedisce a schemi prestabiliti e tanto meno si modella sul ciclo dell'organismo
singolo. Nor- malmente, un tipo di organizzazione persiste fino a quando i suoi
rapporti di adattamento all’am- biente continuano ad essere possibili.
Talvolta, la stessa specificità dell'adattamento produce l’estin- zione,
giacchè rende l’organismo inadatto ad af- frontare i mutamenti dell’ambiente di
portata mag- giore dell’usuale. In questo caso, ovviamente, la estinzione del
gruppo è provocata dalla stessa ten- denza all’adattamento, che è un fattore di
soprav- vivenza. 4° Finalente — ed è la caratteristica più importante della
teoria generale dell'’E. — l’uso della nozione di possibilità consente di
evitare le dogmatizzazioni presentate dalle alternative: ordine- disordine,
fine-caso e così via. La vita tende a sfruttare le possibilità che le sono
offerte. Qualche scienziato ha considerato l’incremento della somma totale
della materia vivente nel mondo come la principale legge dell’E. (A. J. Lorka,
in Human Biology, 1945, pag. 167 sgg.). Ciò vuol dire che la vita sembra
appigliarsi a tutte le possibilità di- sponibili. Simpson parla a questo
proposito della « natura essenzialmente opportunistica del processo dell’E. »
(The Meaning of Evolution, 1949, cap. 12). Tuttavia neanche nello sfruttamento
delle opportu- nità che gli si offrono, tale processo appare perfet- tamente
sistematico. Opportunità evidenti non sonostate sfruttate e gli intervalli fra
le specie viventi non sempre sono stati riempiti. « La regola che tutte le
opportunità della vita tendono a essere utilizzate non è senza eccezioni. L’estinzione
dei dinosauri precedette di molto la rioccupazione di molti dei loro modi di
vita da parte dei mammiferi e non pare che tutti siano stati ancora rioccupati.
Gli ittiosauri furono estinti per molti milioni di anni prima che i delfini e i
loro parenti abbiano affer- rato questa opportunità. Non vi è ragione evidente
per la quale il modo di vita degli ammoniti, untempo così numerosi, non possa
essere ora seguito da gruppi ugualmente abbondanti ma che invano si
cercherebbero oggi nel mare. Si sono estinti molti tipi che hanno lasciato
aperto un modo di vita, un'opportunità che nonèstataimmediata- mente afferrata
perchè nessun altro gruppo ha una base strutturale o una riserva di mutazioni
ap- propriate al cambiamento» (/bid., pag. 185-86). Tuttavia il numero
altissimo delle possibilità uti- lizzate spiega i prodotti più riusciti e
complessi dell’E.: per es., fra le innumerevoli risoluzioni del problema della
fotoricezione due soluzioni riusci- rono meglio: l’occhio dell’octopus (che è
un mol- lusco) e quello dell'uomo. Ma anche gli altri fun- zionano benissimo al
loro proprio livello. Questo dimostra che la complessità di un organo non è
stata progettata in anticipo come un piano da rea- lizzare ma è il prodotto
dello sfruttamento di possi- bilità favorevoli che si sono presentate. S° Le
caratteristiche specifiche dei fenomeni vitali non vengono ignorate o
trascurate dalla teoria dell’E.; ma tuttavia non vengono assunte come
fon-damento per affermare la tesi della « irriducibilità » o della «originalità»
della vita. Tale tesi infatti sconsiglierebbe dal continuare a sottoporre i fe-
nomeni della vita agli strumenti oggettivi di inda- gine di cui la scienza
dispone e per conseguenza fermerebbe la ricerca biologica. Questa pertanto
utilizza gli strumenti a sua disposizione e ritiene «spiegato » solo ciò che
può essere raggiunto con l’aiuto di tali strumenti. È questo un materia- lismo
metodico che ha poco o nulla a che fare colmaterialismo dottrinale dell’800 (v.
GENETICA; VITA; VITALISMO). EVOLUZIONISMO (ingl. Evolutionism; fran- cese
Évolutionnisme; ted. Evolutionismus). Con questo termine bisogna intendere non
già la teoria generale dell'evoluzione come quadro fondamentale delle ri-
cerche biologiche (per la quale v. EVOLUZIONE), ma il complesso delle dottrine
filosofiche che vedono nell’evoluzione il tratto fondamentale di ogni tipo o
forma di realtà e perciò il principio adatto a spiegare la realtà nel suo
complesso. L’E. è in altri termini una dottrina metafisica, concernente la
realtà come un tutto; e per quanto si avvalga dello ipotesi e dei risultati
della teoria biologica del- l'evoluzione, la sua tesi va molto al di là di
tutto ciò che ogni possibile teoria scientifica può legitti- mamente
convalidare. In questo senso, l’E. è stato assunto come schema fondamentale di
molte me- tafisiche, sia materialistiche sia spiritualistiche. Il tratto
fondamentale che queste metafisiche scorgono nell'evoluzione è il progresso.
Per esse, evoluzione significa essenzialmente progresso. Così fu certa- mente
per Spencer che iniziò la serie delle meta- fisiche evoluzionistiche con un
saggio pubblicato nel 1857 col titolo Progresso. Il progresso investe, secondo
Spencer tutti gli aspetti della realtà. « Sia che si tratti, egli dice nel
saggio citato, dello svi- luppo della Terra, sia che si tratti dello sviluppo
della vita alla sua superficie o dello sviluppo della società o del governo o
dell’industria o del com- mercio o del linguaggio o della letteratura o della
scienza o dell’arte, sempre in fondo ad ogni pro- gresso è la stessa evoluzione
che va dal semplice al complesso attraverso differenziazioni succes- sive». Nei
Primi principi Spencer dava dell’evo- luzione questa definizione: «L'evoluzione
è una integrazione di materia e una concomitante dissi- pazione di movimento;
durante la quale la materia passa da una omogeneità indefinita e incoerente ad
una eterogeneità definita e coerente; e durante la quale il movimento
conservato soggiace ad una trasformazione parallela » (First Principles, $
145). Questa determinazione dell’evoluzione come pas- saggio dall'omogeneo
indifferenziato all’eterogeneo differenziato era indubbiamente suggerita a
Spencer dall’evoluzione biologica, che sembra andare dal- l’ameba agli
organismi superiori. Il senso generale dell’evoluzione è ottimistico, secondo
Spencer. La evoluzione è un progresso e per di più un progresso necessario che,
per ciò che riguarda l’uomo, ter- minerà soltanto con «la più grande perfezione
e la più completa felicità » (/bid., $ 176). A differenza di ciò che è accaduto
nella teoria dell’evoluzione biologica, la quale ha ben presto svincolato la
nozione di evoluzione da quella di progresso, nel- l’E. filosofico il senso
ottimistico e necessaristico della nozione di progresso continua per molto
tempo a costituire il tratto fondamentale dell’evo- luzione. Sia l’E.
materialistico sia lE. spiritualistico condividono questo tratto. Nessuno di
questi indirizzi riesce ad una riela- borazione del concetto in questione.
Quando Ar- digò definisce l'evoluzione come « il passaggio dal- l’indistinto al
distinto » (Opere, 1884, II, pag. 350) assumendo perciò come modello evolutivo
lo svi- luppo psichico anzichè quello biologico, i tratti formali
dell'evoluzione non sono mutati: essa è sempre, e soltanto, progresso
universale necessario. L’E. materialistico trovò nel biologo tedesco Er- nesto
Haeckel il suo maggiore rappresentante. Gli Enigmi del mondo (1899)
costituirono per i primi decenni del nostro secolo il catechismo di questo
materialismo, che vedeva in tutte le forme della realtà gradi di evoluzione,
progressivamente ordi- nati, della materia. Dall’altro canto, l’E. spiritua-
listico, che vede nelle varie forme della realtà gradi di sviluppo di un
principio spirituale, si iniziò con Guglielmo Wundt, che riconobbe questo
principio spirituale nella volontà (System der Phil., 1889). Un pensiero
analogo ispirava l’opera del francese Alfredo Fouillée il quale vedeva
nell’idea-forza il substrato dell’evoluzione (L’E. des idées-forces, 1890). Ma
indubbiamente la più notevole manife- stazione dell’E. spiritualistico è la
dottrina di Bergsoe ha visto nell’evoluzione il prodotto di uno slancio vitale
che è coscienza, libertà e crea- zione (Évolution créatrice, 1907). In un senso
ana- logo C. Lloyd Morgan parlò di Evoluzione emergente (1923): intendendo che
ogni fase dell'evoluzione non è la semplice risultante meccanica delle fasi
precedenti, ma contiene un elemento nuovo che denuncia il carattere progressivo
e creativo della evoluzione stessa. Ma il concetto dell’evoluzione come
progresso costituisce anche lo sfondo o il presupposto di altre dottrine che
tuttavia non assumono l’evoluzione come tema fondamentale delle loro
elaborazioni. Così la nozione di evoluzione emergente è assunta da Alexander
nel suo libro Spazio, Tempo e Deità (1920) per spiegare lo sviluppo complessivo
della realtà di cui spazio e tempo (che stanno tra loro come materia e spirito)
sarebbero la sostanza. E il concetto di processo assunto come fondamentale da
Whitehead (Process and Reality, 1929) non è che lo stesso concetto di
evoluzione, contaminato col concetto hegeliano di divenire; mentre l’evoluzione
in senso naturalistico è lo sfondo di tutta l’opera di Santayana (cfr.
specialmente il Realm of Mind, 1940). Questi richiami devono essere considerati
solo come esemplificativi della vastissima diffusione che l’E. ha avuto nel
dominio della filosofia mo- derna e contemporanea, e quindi in tutte le forme
della vita intellettuale. La credenza che la realtà è un processo unico,
continuativo, e necessaria- mente progressivo si legge fra le righe di dottrine
filosofiche disparatissime ed ha potentemente in- fluenzato l’impostazione di
ricerche storiche, so- ciologiche, morali, ecc. Questa credenza tuttavia non è
suffragata da nulla; e nell'unico dominio in cui una teoria dell'evoluzione è
suffragata da prove di fatto, cioè nel dominio biologico, l’evolu- zione ha
perso proprio i caratteri che i filosofi hanno dimostrato di apprezzare
maggiormente in essa: l’unità, la continuità, la necessità e il pro- gresso.
Nessuno di tali caratteri viene oggi assunto 374 nel contesto dell'evoluzione
biologica. Pertanto l’ipo- tesi che la realtà costituisca un processo fornito
di tali caratteri non trova riscontro nel sapere scienti- fico ed è da
considerarsi come una pura ipotesi metafisica, al di là di ogni possibile, sia
pure indi- retta, verifica. Quest'ipotesi tuttavia continua a ri- scuotere un
certo successo presso scienziati-filosofi. Così Teilhard de Chardin ha
riconosciuto nell’evo- luzione il postulato generale al quale ogni teoria o ipotesi
o sistema deve adeguarsi; e conseguente- mente ha considerato l’evoluzione
della sostanza vivente sparsa sulla terra come quella di un solo gigantesco
organismo. Il termine finale dell’evo- luzione sarebbe allora un « Punto
Omega?» e cioè una « Super Coscienza universale » formata da una pluralità
unificata di pensieri individuali che si combinano e si rafforzano nell’atto di
un Pensiero EX PRAECOGNITIS ET PRAECONCESSIS unanime (Le phenomène humaine,
1955). Il carattere metafisico dell'evoluzione è evidente in questa e simili
speculazioni. EX PRAECOGNITIS ET PRAECON- CESSIS. Formula con cui s’abbrevia il
principio esposto da Aristotele agli inizi degli Analitici po- steriori: « Ogni
dottrina e ogni disciplina discorsiva nasce da una conoscenza preesistente »
(An. Post., I, 1, 7la 1). Boezio sottolineava l’importanza di questa massima
(P. L., 64°, col. 741) che diveniva un luogo comune della scolastica. Locke
riteneva fallace la massima, convinto com’era che il fondamento della
conoscenza sia la conoscenza intuitiva (Saggio, IV, 2, 8). Ma Leibniz
rivendicava, contro Locke la va- lidità della massima, in quanto esprime il
pro- cedimento delle matematiche (Nouv. Ess., IV, 2, 8). EXTRAPOLAZIONE. V.
ESTRAPOLAZIONE. F F. Nella Logica medievale, i sillogismi i cui nomi mnemonici
cominciano con questa lettera, sono riducibili al quarto modo della prima
figura (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20).FABBRICAZIONE (franc.
Fabrication). L’at- tività propria dell’intelligenza, secondo Bergson. Questa è
infatti «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare utensili
per fare altri uten- sili, e di variarne indefinitamente la F. +». Da questo
punto di vista, la vera definizione dell’uomo non è Homo sapiens ma Homo faber
(Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 151; Pensée et Mouvant, 3* ediz., 1934,
pag. 97). FABULAZIONE (franc. Fabulation). Bergson ha così chiamata la facoltà
o l’atto creatore di finzioni o superstizioni, nel quale consiste essen-
zialmente la religione statica: che cerca, appunto mediante finzioni più o meno
consolanti, di difen- dere la vita contro il potere disgregatore dell’intel-
ligenza (Deux Sources, cap. Il). FACOLTÀ (gr. duyîic eidoc o pépiov; lat. Fa-
cultas; ingl. Faculty; franc. Faculté; ted. Vermògen). 1. S'intendono con
questo nome i poteri dell’anima cioè le specie o parti in cui si possono
classificare e dividere le sue attività o i princìpi cui tali atti- vità sono
attribuite. La distinzione fra i poteri del- l’anima, c pertanto la nozione
stessa di potere in quanto riferita all'anima, nascono dall’ovvia con-
siderazione della diversità delle operazioni che si attribuiscono all’anima
stessa e dal fatto che tali operazioni possono venire in contrasto fra
loro.Proprio su questo fondamento Platone distinse tre poteri, che egli chiamava
specie (et3n, Rep., IV, 440 e) dell’anima: il potere razionale che è quello per
cui l’anima ragiona e domina gl’impulsi cor- porei; il potere concupiscibile o
irrazionale che è quello appunto che presiede agli impulsi, ai desideri, ai
bisogni e concerne il corpo; e il potere irascibile che è un ausiliario del
principio razionale e si sdegna e lotta per ciò che la ragione ritiene giusto
(Rep., IV, 439-40). Aristotele distinse invece: a) la parte (uéprov) vegetativa
che è la potenza nutritiva e riproduttiva propria di tutti gli esseri viventi a
cominciare dall’uomo; 5) la parte sensitiva che comprende la sensibilità e il
movimento ed è propria dell’animale; c) la parte intellettiva (dianoetica), che
è propria dell’uomo. Il principio più elevato può far le veci di quelli
inferiori, ma non viceversa. Così nell’uomo l’anima intellettiva compie anche
le funzioni che negli animali sono compiute dal- l’anima sensitiva e nelle
piante da quella vegetativa (De an., II, 2, 413 a 30 sgg.). A sua volta il
prin- cipio dianoetico o anima intellettiva si divide in due parti che sono
rispettivamente la parte appe- titiva o pratica (la volontà) e la parte
intellettiva o contemplativa (l’intelletto) (/bid., III, X, 433a 14; Et. Nic.,
VI, 1, 1139a 3; Pol., 1133 a).Questa partizione aristotelica doveva rimanere,
per lunghi secoli, la più accettata e diffusa. Gli Stoici tuttavia ne avevano
proposta un’altra, consistente di quattro princìpi: a) il principio direttivo o
ege- monico che è la ragione; 5) i sensi; c) il seme o principio spermatico; d)
il linguaggio (Dio. L., VII, 157; Sesro E., Adv. Math., IX, 102). Nella
filosofia medievale la partizione aristotelica, che finisce col prevalere sul
finire della Scolastica, e che è ripetuta da molti pensatori (per es., da Al-
berto Magno, S. Tommaso, Duns Scoto, Ockham) s’intreccia con quel tipo di
partizione che era stato inaugurato da S. Agostino e che consiste nel rite-
nere le parti dell'anima modellate sulla Trinità di- vina. S. Agostino aveva
infatti distinto tre facoltà dell’anima, memoria, intelligenza e volontà, cor-
rispondenti alle tre persone della Trinità definite 376 rispettivamente come
Essere, Verità e Amore (De trin., X, 18). Questa partizione o partizioni
analoghe, s'incontrano frequentemente nella Scolastica (è ri- petuta, per es.,
da S. AnseLMO, Monol., 67). Da Cartesio in poi la sola partizione ammessa fu
quella che Aristotele aveva riconosciuta propria dell'anima intellettiva o
dianoetica, tra volontà (o appetizione o desiderio) ed intelletto vero e
proprio: cioè la partizione fondata sull’uso pratico e sull’uso teo- retico
della ragione. Per Cartesio infatti l’anima è soltanto l’anima «razionale »
giacchè le funzioni vegetativa e sensitiva non appartengono nè al- l’anima
razionale nè ad altra specie di anima in quanto sono funzioni meccaniche, che
vengono esplicate dal meccanismo corporeo (Discours, V). La partizione tra
intelletto e volontà viene enunciata da Cartesio (Passions de l’dme, I, 17)
come quella tra le azioni dell'anima, che comprendono tutti i desideri, tra i
quali Cartesio fa rientrare la volontà (Ibid., 18), e le passioni che
comprendono « tutte le specie di percezioni o forme di conoscenza ». partizione
viene meglio chiarita dall’uso che Cartesio ne fa nella sua teoria dell’errore.
Questo dipende dal concorso di due cause, dell’intelletto e della volontà. Con
l'intelletto l’uomo non afferma nè nega nulla, ma concepisce soltanto le idee
che può affermare o negare. L’atto dell’affermazione o della negazione è
proprio della volontà. Ora, la volontà è libera: come tale è assai più estesa
del- l’intelletto e può quindi affermare o negare anche ciò che l’intelletto
non riesce a percepire chiara- mente e distintamente (Méd., IV; Princ. Phil.,
I, 34). Con ciò la distinzione fra intelletto e volontà veniva stabilita e
rimaneva sino a Kant un dato comune- mente accettato. Spinoza nega bensì che
esistano nell’anima F. separate adducendo che esse « o sono fittizie o sono
entità metafisiche o sono universali che noi formiamo dalle cose particolari»
(Et., II, 48). Ma questo significa per lui che « volontà e intelletto sono la
medesima cosa» (/bid., 49, coroll.): col che la distinzione viene polemicamente
presupposta. Locke stesso la riconosce quando, a proposito dell’idea di forza,
afferma che la volontà e l'intelletto sono le due forze che spiegano i mu-
tamenti che avvengono nel nostro spirito (Saggio, II, 21, $ 5-6). Leibniz dice
che i due princìpi agenti nella monade sono la percezione e l’appetizione
(Monad., $ 14-15). Cristiano Wolff a sua volta riconosceva nella conoscenza e
nell’appetizione le due funzioni fondamentali dello spirito umano e sulla base
di questa partizione modellava quella della filosofia nelle due branche
fondamentali, filo- sofia teoretica o metafisica e filosofia pratica (Log.,
Disc. Prael., $ 60-62). Kant, traendo le somme dalle analisi degli em- piristi
inglesi interponeva tra l’intelletto e la volontà FALANSTERIO una terza F. che
chiamava « sentimento di piacere e dispiacere». Con ciò le F. dell'anima
venivano portate a tre (F. di conoscere, F. del sentimento, F. di desiderare)
(Crif. del Giud., Introd., IX) e questa partizione diventava classica e venne
spesso appoggiata da una presunta testimonianza della co- scienza (v. EMOZIONE,
SENTIMENTO). Nessuna tuttavia di queste dottrine implicava che le F. dell'anima
fossero poteri distinti ed indipen- denti. Come già gli antichi, sia Cartesio
(Regulae, XII, 79) sia Locke (Saggio, II, 21, 6); sia Leibniz (Nouv. Ess., II,
21, 6) riconoscono esplicitamente che la divisione delle F. è un’astrazione che
non distrugge l’unità dell’attività mentale. Sicchè non rappresenta una grande
novità la critica di Herbart alla dottrina delle F. e la sua tesi che le F.
stesse (intelletto, sentimento e volontà) sono semplici «concetti di classe»
mediante i quali si ordinano i fenomeni psichici (Einleitung in die Phil., $
159). La psicologia associazionistica condivideva questo punto di vista ma
manteneva la stessa tripartizione (per es., Barn, Mental and Moral Science,
1868, pag. 2; Logic, II, 275) e il Neo-criticismo della Scuola di Marburgo
(Cohen, Natorp) riconosceva soltanto tre scienze filosofiche, la logica,
l’estetica e l’etica, corrispondenti appunto alle tre attività dello spirito.
Soltanto nella psicologia e nella filosofia contem- poranea, specialmente per
influenza del comporta- mentismo e della teoria della forma, la dottrina delle
parti dell'anima, comunque intesa, ha perso la sua importanza e non costituisce
più tema di indagine e di dibattiti. Come oggetto d’indagine, infatti, il
comportamento implica la messa in opera simultanea e la fusione di tutti i
principi o parti di- stinti o distinguibili nell'attività dell'anima o della
coscienza o dell’organismo, sicchè tali distinzioni di- ventano prive
d’interesse e si parla di « comporta- mento razionale + o « comportamento
emotivo + in un senso in cui la distinzione stessa non ha più nulla da fare (v.
COMPORTAMENTISMO; COMPOR- TAMENTO). 2. Nel significato più generale, lo stesso
che Potere (v.). FALANSTERIO (ingl. Phalanstery; francese Phalanstère). Termine
adoperato da Carlo Fourier per designare l’organizzazione sociale utopistica da
lui preveduta: un gruppo di circa 1600 persone vi- venti a regime comunistico,
con libertà di rapporti sessuali e regolamentazione della produzione e del
consumo dei beni (Trattato di associazione dome- stica e agricola o teoria
dell'unità universale, 1822). FALLACIA (gr. o6piopa; lat. Fallacia; ingl. Fal-
lacy; franc. Sophisme; ted. Fallacie). Termine con cui gli Scolastici
indicarono il «sillogismo sofi- stico » di Aristotele. F., disse Pietro Ispano,
è la FANATISMO idoneità a far credere che sia ciò che non è me- diante qualche
fantastica visione; cioè, l’apparenza senza esistenza (Summul. log., 7.03).
Aristotele aveva diviso i ragionamenti sofistici in due grandi classi cioè in
quelli attinenti al modo di esprimersi o come dicono gli Scolastici, in
dictione e in quelli indipendenti dal modo di esprimersi o extra dic- tionem. I
primi sono sei e cioè: l’equivocazione, l’anfibologia, la composizione, la
divisione, l’accen- tuazione, la figura dictionis. I secondi sono sette e
precisamente: l’accidente, il secundum quid, l’igno- rantia elenchi, la
petizione di principio, la non causa pro causa, il conseguente,
l'interrogazione multipla (EI. Sof., 4). La dottrina delle F. fu una delle parti
meglio coltivate della logica medievale ma ha perso quasi ogni importanza nella
logica moderna. Una buona metà delle Sumunulae logicales (sec. xm) di Pietro
Ispano è dedicata alla confutazione delle fallacie. Ma già nella Logica di
Portoreale si de- dica ad essa un solo capitolo (il XIX della parte III) che è
la ventesima parte circa dell’intera trattazione. Nella logica contemporanea
questa parte della trat- tazione è completamente sparita: giacchè non pos- sono
essere ridotti a sofismi le antinomie (v.) di cui essa tratta. Sotto i nomi dei
singoli sofismi si troverà ciò che la logica antica e medievale inten- deva per
essi. G. P.-N. A. FALLIBILISMO (ingl. Fallibilism). Termine creato dal Peirce
per indicare l'atteggiamento del ricercatore che ritiene possibile l’errore a
ogni istante della sua ricerca e perciò cerca di migliorare i suoi strumenti di
indagine e di controllo (Coll. Pap., 1.13; 1.141-52). Dewey ha sottolineato
l’impor- tanza di questo atteggiamento (Logic, cap. II; trad. ital., pag. 79).
E. Popper l’ha fatto proprio, contrapponendolo a quello del « verificazionismo
+ e definendolo come il procedimento che consiste nel formulare conget- ture e
sottoporle a confutazioni, anche in base aosservazioni empiriche, con la
rinuncia ad ogni pretesa di certezza nel campo della scienza (Co- njectures and
Refutations, 1965, pag. 228 sgg.). FALSIFICABILITÀ (ingl. Falsifiability; fran-
cese Falsificabilité; ted. Falschungsmòglichkeit). È il criterio suggerito da
Karl Popper per l’accogli- mento delle generalizzazioni empiriche. Il metodo
empirico, secondo Popper, è quello che « esclude quei modi di evadere la
falsificazione che sono logi- camente ammissibili ». Da questo punto di vista,
le asserzioni empiriche sono decidibili solo in un senso cioè nel senso della
falsificazione, e possono essere sottoposte a prova solo da tentativi
sistematici di coglierle in fallo. In tal modo l’intero problema del-
l’induzione e della validità delle leggi di natura sparisce (Logic of
Scientific Discovery, $ 6). Cfr. ESPERIENZA; VERIFICAZIONE. 377 FALSO (gr.
veu8nc; lat. Falsum; ingl. False; franc. Faux; ted. Falsch). V. FALLIBILISMO;
VERITÀ. FAMIGLIA (ingl. Family; franc. Famille; te- desco Familie). Interessa
qui registrare soltanto l’uso logico e metodologico di questo concetto, che è
recentissimo. Una «F. di concetti» è un in- sieme di concetti fra i quali
intercorrono relazioni diverse, non riducibili tuttavia a un unico concetto o
principio. È precisamente quello che si verifica tra i membri di una F. umana,
i quali non sempre hanno un’unica proprietà in comune; e anche quando l’hanno,
essa non assomma o esaurisce l’intera somiglianza familiare. L’uso di questa
no- zione implica perciò l'impegno a cercare sempre nuovi rapporti fra i
concetti, senza che sia neces- sario ridurre tali rapporti ad un unico tipo. Il
primo a proporre e adoperare la nozione in questione è stato WITTGENSTEIN,
Philosophical Investigations, $ 110. Quest'opera è stata pubblicata soltanto
nel 1953; ma già da alcuni anni i suoi concetti fondamentali erano noti e del
concetto di F. si era avvalso Waismann nella sua /ntroduzione al pensiero
matematico (Einfihrune in das mathema- tische Denken, 1936; trad. ital., 1939).
Cfr. sullo stesso concetto: ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, passim.
FANATISMO (ingl. Fanaticism; franc. Fana- tisme; ted. Fanatismus). Questa
parola (da fanum = = tempio) fu adoperata a partire dal 700 scambie- volmente
con entusiasmo (v.) per indicare lo stato di esaltazione di chi si crede
invasato da Dio e quindi immune dall’errore e dal male. Nell'uso moderno e
contemporaneo, «F.» ha finito per soppiantare « entusiasmo » per indicare la
certezza di chi parla in nome di un principio assoluto e pertanto pretende per
le sue parole questa stessa assolutezza. Già Shaftesbury diceva: « Ed è questo
[l'entusiasmo] che ha fatto nascere la denomina- zione di F. nel senso
originale in cui l’usavano gli antichi, di apparizione che rapisce la mente»
(Letter on Enthusiasm, 7; trad. ital, Garin, pa- gina 78-79). In realtà già
Cicerone parlava di « filo- sofi superstiziosi e quasi fanatici» (De div., 2,
57, 118). Leibniz chiamava fanatica la filosofia che at- tribuisce tutti i
fenomeni a Dio «immediatamente per miracolo» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op.,
ed. Erdmann, pag. 204). Ma certo la migliore defì- nizione filosofica del F. fu
data da Kant. Nel senso più generale, F. «è una trasgressione, intrapresa
secondo princìpi, dei limiti della ragione umana ». C'è poi il F. morale che è
«l’oltrepassare i limiti che la ragione pura pratica pone all'umanità, vie-
tando di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al
dovere, cioè il movente mo- rale di esse, in qualche altra cosa che non sia la
legge stessa ». Il F. morale consiste nella pretesa di 378 fare il bene per
ispirazione, per entusiasmo, per un impulso naturalmente benefico della propria
natura; e perciò nel sostituire alla virtù, che è « l'intenzione morale in
lotta», «la santità del creduto possesso della purezza perfetta delle
intenzioni della volontà » (Crit. R. Prat., I, 1, 3). Il fanatismo in questo
senso è stato sempre l'oggetto polemico dell’opera di Kant che ne ha
individuate e combattute le ma- nifestazioni principali, nel suo sforzo di
determinare i limiti dei poteri umani e la validità di tali poteri nei loro
limiti. In uno scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensare, Kant
poneva in guardia contro la pretesa di superare i limiti della ragione
appellandosi a facoltà o poteri che si pre- tendono «superiori ». I suoi
riferimenti polemici andavano a Jacobi e Mendelssohn; ma egli vedeva la stessa
pretesa nello spinozismo e contro spino- zismo e fanatismo, ribadiva l’esigenza
di determi-nare con precisione i limiti della ragione. Queste osservazioni di
Kant appaiono, a chi le consideri oggi, come una critica anticipata del
Romanticismo che fu, sotto questo rispetto, il grande ritorno dello spinozismo.
Tuttavia Hegel stesso parlò di F., limitandolo però al campo politico e
religioso. Nel campo politico « il F. vuole una cosa astratta non
un’organizzazione »: il suo esempio è la Rivo- luzione francese (Fil. del Dir.,
$ 5, Zusatz). Nel campo religioso, il F. consiste nella subordinazione dello
Stato alla religione sicchè il suo motto è in questo campo: « Ai religiosi non
sia data alcuna legge » (/bid., $ 270, Zusatz). Ma Hegel non si accorge che la
stessa onnipotenza dello Stato, da lui teorizzata, è un fanatismo. La parola F.
ha conservato oggi il significato di atteggiamento o punto di vista o dottrina
che, in qualsiasi campo o dominio, trascuri o ignori i limiti dell’uomo. L’età
contemporanea ha cono- sciuto un’altra più sinistra forma di F.: il F. poli-
tico che pur non essendo una novità dal punto di vista dottrinale ha operato
nel dominio politico l’abolizione dei limiti umani con la conseguente
esaltazione o divinizzazione di punti di vista poli- tici e di individui che li
incarnavano. La parola stessa F. ha perduto, nel dizionario di alcuni movi-
menti politici, la connotazione negativa che aveva fin dall’antichità, per
significare il pregio di una fedeltà a tutta prova, incurante di obiezioni come
di limiti. L'esperienza ha mostrato come questa fe- deltà è la più fragile di
tutte e si capovolge, alla prima occasione, nel suo contrario. Come già di-
ceva Kant, la ragionevolezza, col riconoscimento dei limiti che essa implica, è
la sola garanzia di ogni autentico impegno teoretico o pratico. FANTASIA (ingl.
Fancy; franc. Fantaisie; te- desco Phantasie). 1. Lo stesso che immagina-
zione. FANTASIA 2. A partire dal sec. xvm l’uso contemporaneo dei due termini
F. e immaginazione favoriva una distinzione di significati secondo la quale «
F.» co- minciò a indicare un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Già nella
Logica di Portoreale si dice che l’immaginazione è «la maniera di concepire le
cose mediante l’applicazione del nostro spirito alle immagini che sono dipinte
nel nostro cervello » (che è un concetto cartesiano esposto nella Re- gula
XII), e si distinguono queste immagini, che sono le idee delle cose dalle
immagini « dipinte nella fan- tasia » (I, 1). Si contrappongono, in altri
termini le immagini che sono idee, proprie dell'immagina- zione, alle immagini
fittizie, proprie della fantasia. Analogamente Kant diceva che la F. è «
l’immagina- zione in quanto produce immagini senza volerlo +; onde è «un
fantastico » colui che è abituato a ri- tenere tali immagini per esperienze
interne o esterne (Antr., I, $ 28). E osservava: « Noi giochiamo spesso e
volentieri con l'immaginazione; ma l'immagina- zione, in quanto è F., gioca
altrettanto spesso, e talvolta male a proposito, con noi » [/bid., $ 31, a)].
In questo senso la F. è un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Questo è uno
dei significati che la parola ha conservato a tutt'oggi soprattutto nel
linguaggio comune, per il quale la F. è «la pazza di casa». 3. Accanto a questo
significato, il Romanticismo ne ha elaborato un altro per il quale la F. viene
intesa come immaginazione creatrice, diversa di qualità più che di grado dalla
comune immagina- zione riproduttiva. In tal senso Hegel vedeva nella F.
«l'immaginazione simboleggiante, allegorizzante e poetante» quindi «creatrice»
(Enc., $ 456-57). I Romantici esaltarono la F. così intesa. Per No- valis essa
è «il massimo bene» (Fragmente, 535). «La F., egli diceva, è il senso
meraviglioso che può sostituire per noi tutti i sensi. Se i sensi esterni
sembra che sottostiano a leggi meccaniche, la F. evidente- mente non è legata
al presente nè al contatto di sti- moli anteriori » (/bid., 537). In tal modo,
il carattere disordinato o ribelle dell’immaginazione fantastica che faceva apparire
questa forma dell’immagina- zione inferiore alle altre durante il sec. xvm,
diventa nel xrx un elemento positivo, un pregio, il contras- segno di una
libertà creatrice. L'estetica romantica si è attenuta a questa valutazione
della fantasia. Dice Croce: « L'estetica del sec. xx foggiò la di- stinzione,
che si ritrova in non pochi dei suoi filo- sofi, tra F. (che sarebbe ìa
peculiare facoltà arti- stica) e immaginazione (che sarebbe facoltà extra
artistica). Ammucchiare immagini, trasceglierle, ta- gliuzzarle, combinarle,
presuppone nello spirito la produzione e il possesso delle singole immagini; e
la F. è produttrice laddove l’immaginazione è sterile e adatta a combinazioni
estrinseche e non FATTO a generare l’organismo e la vita » (Breviario di este-
tica, 1913, pag. 35-36). In un senso analogo Gentile chiamava F. l’attività
artistica come puro senti- mento o «inattuale forma subiettiva » dello spirito
(Fil. dell’arte, $ 5). Ma in questo significato roman- tico la F. cessa di
essere un'attività o un’operazione umana, definibile o descrivibile nelle sue
possibilità e nei suoi limiti per diventare, come manifestazione di un’attività
infinita, essa stessa infinita, e situarsi perciò al di là di ogni possibilità
di analisi e di accertamento. Si tratta, in altri termini, di un con- cetto
magico-metafisico che non può essere utiliz- zato fuori del clima romantico che
lo creò o pre- dilesse. FANTASMA. V. IMMAGINE. FAPESMO. Parola mnemonica usata
dagli Sco- lastici per indicare l’ottavo dei nove modi del sillo- gismo di
prima figura e precisamente quello che ha per premesse una proposizione
universale afferma- tiva e una proposizione universale negativa e per
conclusione una particolare negativa come nel- l'esempio: « Ogni animale è
sostanza, Nessuna pietra è animale, Dunque qualche sostanza non è pietra +
(Pietro Ispano, Summul. logic., 4.09; ARNAULD, Logique, III, 8). FATALISMO
(ingl. Fatalism; franc. Fatalisme; ted. Fatalismus). Già Leibniz aveva distinto
dal fato stoico e cristiano il «fato maomettano +? o «destino alla turca»
secondo il quale «gli effetti accadrebbero anche se se ne evitasse la causa,
essendo dotati di necessità assoluta » (Op., ed. Erd- mann, pag. 660, 764).
Wolff adoperava, per indicare questa dottrina, che egli attribuì a Spinoza, il
ter- mine F. nello scritto De differentia nexus rerum sapientis et fatalis
necessitatis (1723) che è per l'appunto diretto contro Spinoza. In realtà però
tutte leconcezioni del fato (o destino), elaborate dai filosofi ammettono che
di esso fanno parte, come cause che determinano bensì altre cause ma sono a
loro volta determinate dalle antecedenti, le stesse azioni umane dirette ad
evitare o a rag-giungere certi risultati. F. è perciò un termine po-lemico col
quale i filosofi abitualmente designano quella forma di necessitarismo che non
condividono. Più esattamente, il termine può essere adoperato a designare, non
una dottrina filosofica, ma un at-teggiamento: l'atteggiamento di chi si
abbandona al corso degli eventi senza cercare di modificarlo e senza reagire.
FATO (ingl. Fate; franc. Fatalité; ted. Fatum). Il destino nel significato 1°
del termine, come ne- cessità sconosciuta, perciò cieca, che domina gli esseri
del mondo in quanto parti dell’ordine totale. La nozione di fato venne a
distinguersi da quella di destino quando si volle accentuare l’inclusione, fra
le cause che costituiscono quest’ultimo, dellavolontà e dell’azione umana.
Leibniz contrappose, in questo senso al fato maomettano (fatum maho-metanum),
che considera gli eventi futuri indipen- denti da ciò che l’uomo può volere e
fare, la nozione di destino (o di provvidenza) per la quale ciò che avverrà nel
futuro è anche, almeno in parte, deter- minato dall’azione umana (7héod., I, $
55). In un senso analogo Kant contrappone il F. alla neces- sità condizionale,
quindi intelligibile della natura (Crit. R. Pura, Postulati del pensiero
empirico). La nozione di F. è nella filosofia moderna una nozione polemica, che
non viene ritenuta valida da coloro che l’adoperano: perciò è alquanto bastarda
in filosofia. Essa non ha questo significato deteriore nell’espressione amor
fati, che è la definizione mo- derna del destino (v.). E al suo significato
deteriore ha anche cercato di sottrarla Peirce: «Il F., egli ha detto,
significa semplicemente ciò che siamo sicuri si avvererà e che non può essere
in nessun modo evitato. È una superstizione supporre che una certa specie di
eventi sia sottoposta al F. e lo è anche supporre che la parola F. non possa
mai essere liberata dal suo carattere superstizioso. È il F. di noi tutti di
morire» (Chance, Love and Logic, I, cap. 2, $ 4, nota; trad. ital., pag. 41).
FATTICITÀ (ingl. Factuality; ted. Tatsachlich- keit). Husserl ha chiamato con
questo termine il modo d’essere del fatto, in quanto essenzialmente «casuale»
cioè in quanto può essere diverso da ciò che è (Zdeen, I, $ 2). Heidegger ha
distinto « la F. del factum bru- tum di una semplice presenza» cioè di una cosa
dalla effettività (v.) dell’esistenza (Sein und Zeit, $ 29). FATTIZIO (ingl.
Factitious; franc. Factice; te- desco Gemacht). Termine che si adopera quasi
esclusivamente in riferimento alla classificazione car- tesiana delle idee in
innate, avventizie e fattizie: queste ultime sono le idee «fatte e inventate»
da noi (Med., III). FATTO (ingl. Fact; franc. Fait; ted. Tatsache). In
generale, una possibilità oggettiva di verifica- zione, di accertamento o di
controllo e perciò pure di descrizione o di previsione: oggettiva nel senso che
ognuno può farla propria nelle condizioni adatte. « È un F. che x» significa
che x può essere verificato o accertato da chiunque sia in possesso dei mezzi
adatti o può essere descritto o previsto in modo controllabile. La nozione di
F. è una no- zione moderna, più ristretta e specifica che non quella di realtà;
ed è nata soprattutto per indicare gli oggetti della ricerca scientifica, che
devono poter essere riconosciuti da qualsiasi ricercatore capace. Il F. si
presenta perciò, quanto alla sua validità, indipendente da opinioni e
pregiudizi e anche da giudizi e valutazioni che non siano quelli inerenti
all'uso degli strumenti adatti per accertarlo. Esso si presenta così fornito di
due caratteristiche fon-damentali: a) il riferimento a un metodo appro- priato
di accertamento o di controllo; 5) l’indipen- denza dalle credenze soggettive o
personali di chi adopera il metodo stesso. Per l’appunto in vista di queste due
caratteristiche, la «capacità di guar- dare i fatti» o «di tener conto dei
fatti» o «di accettare i fatti per quello che sono » è oggi con- siderata come
uno dei requisiti fondamentali non soltanto dello scienziato e in generale del
ricerca- tore, ma di ogni cittadino. Nonostante l’importanza che la nozione ha
as- sunto nella cultura moderna, l’attenzione dei filo- sofi si è solo
raramente portata su di esso. La storia delle analisi di questa nozione è assai
magra. Si può dire che s’inizi nel 1600, quando, con la distinzione tra «
verità di ragione» e « verità di F.» si comincia anche a distinguere, almeno
implicita- mente, la sfera propria del fatto. Questa distinzione è stata fatta per
la prima volta da Hobbes: « Vi sono, egli diceva, due specie di conoscenza, di
cui una è la conoscenza di F., l’altra la conoscenza della conseguenza di
un'affermazione dall’altra. La prima non è altro che senso e memoria ed è cono-
scenza assoluta, come quando vediamo un F. ac- cadere o lo ricordiamo; e questa
è la conoscenza richiesta in una testimonianza. L’altra è chiamata scienza ed è
condizionale... » (Leviath., I, 9). Come Hobbes, Leibniz e Hume sono d’accordo
nel ri- tenere che tale sfera è l’esperienza. Secondo Leibniz, le verità di F.
sono contingenti mentre quelle di ragione sono necessarie perchè fondate sul
principio di contraddizione sicchè il loro contrario è impos- sibile (Nouv.
Ess., IV, 2, 1). Secondo Hume, delle verità di F. «è possibile sempre il
contrario, poichè non implica mai contraddizione ed è concepito dallo spirito
con la stessa facilità e chiarezza che se fosse conforme alla realtà » (Zng.
Conc. Underst., IV, 1). Sia Leibniz che Hume sono infine d’accordo nel ritenere
che il fondamento della verità di F. è il principio di causalità. Da questa
analisi risulta perciò che il fatto è: a) una realtà contingente, attinta o
testimoniata dall’esperienza; è) una realtà fondata su una certa connessione
causale. Una no- zione di fatto così configurata è quella che pro- priamente
oggi si direbbe la nozione di avvenimento cioè di una realtà contingente,
appartenente al- l'ordine della natura. Quest'ultima qualifica è quella che
viene espressa dal ritenere la verità di F. fon- data sul principio causale.
Pertanto questa non è ancora una nozione di F. sufficientemente estesa, cioè
tale da poter valere nei confronti dell’intera estensione della ricerca
scientifica: per essa le ve- rità matematiche non sarebbero verità di fatto.
L’estensione della nozione fu realizzata da Kant. Secondo Kant, «i fatti sono
gli oggetti dei concetti di cui si può provare la realtà oggettiva, sia me-
FATTO diante la ragione, sia mediante l’esperienza: nel primo caso, in base a
dati teoretici o pratici, in ogni caso per mezzo di una intuizione corrispon-
dente » (Crit. Giud., $ 91). Sono fatti in questo senso, secondo Kant, le
proprietà geometriche delle gran- dezze in quanto possono essere dimostrate a
priori; le cose o le qualità delle cose che possono essere provate mediante
l’esperienza o mediante testimo- nianze; ed anche l’idea della libertà, la cui
realtà come una specie particolare di causalità si può mostrare a partire
dall’esperienza morale (/bid., $ 91). Questa analisi di Kant è importante
perchè: a) consente di distinguere nettamente la nozione di F. da quella di
avvenimento come nozione più gene- rale, corrispettiva della possibilità d’uso
di qual- siasi strumento di accertamento. Da questo punto di vista
l'avvenimento è una specie particolare di F., precisamente è un F. naturale; b)
consente di rico- noscere il carattere empirico del F. come alcunchè di diverso
dal suo confinamento alla sfera della sensibilità: la ragione stessa ha a che
fare con fatti che non le sono esterni e imposti dall'esterno, ma che trova in
se stessa, come condizioni del suo fun- zionamento. Da questo punto in poi, la
nozione di F. viene talora avvicinata a quella di fenomeno, talaltra a un
elemento o condizione della ragione. Si avvicina il F. al fenomeno quando si
parla di « F. bruto » o «grezzo» o di «mero F.», giacchè si allude in tal caso
al dato immediato, alla semplice o grosso- lana apparenza così come si presenta
prima facie. Ma è chiaro che non si può procedere molto oltre sulla via di
questa identificazione. Il F. non è il fenomeno: per es., la spezzatura di un
bastone nell'acqua è un fenomeno ma non un fatto. È pure un fenomeno il moto
apparente dei cieli che sin dagli inizi l'astronomia cercò in vari modi di
ridurre a « F.». Il F. implica una sistemazione o interpretazione del fenomeno
per la quale il fenomeno stesso cambia faccia, diventa suscettibile di essere
descritto, previsto e controllato. Lo stesso Comte che adopera il più delle
volte scambievol- mente le due parole sembra talora accennare ad una
distinzione come nel passo seguente: « Questo F. generale (cioè la
gravitazione) ci è presentato come una semplice estensione di un fenomeno che
ci è eminentemente familiare e che perciò conside- riamo come perfettamente
conosciuto, la pesantezza dei corpi alla superficie della terra » (Phil. Pos.,
I, $ 4). Ma nell’ambito stesso del positivismo, Claude Bernard accentuò la
subordinazione dei fatti alla ragione. « Senza dubbio, egli scrisse, io ammetto
che i fatti sono le sole realtà che possano dare la formula all’idea sperimentale
e nello stesso tempo servirle di controllo; ma ciò alla condizione che la
ragione li accetti... Nel metodo sperimentale,come dappertutto, il solo
criterio reale è la ragione. Un F. non è niente di per se stesso, vale soltanto
per l’idea che gli si connette o per la prova che fornisce » (Intr. à l’étude
de la médecine expérimental, I, 2, 7). Questa interpretazione del fatto sembrò
confermata quando si vide la parte preponderante che nella costruzione del «F.
scientifico» ha la teoria (P. DUHEM, La théorie physique: son objet et sa
structure, 1906). La stretta connessione del F. con l'attività ra- zionale,
espressa in vari modi, viene in generale riconosciuta nella filosofia
contemporanea. La fe- nomenologia ha elaborato la nozione di stato di cose
(Sachverhalt) come l’oggetto corrispondente di ogni giudizio valido e ha
considerato come un fatto lo stato di cose in cui è coinvolta un’esistenza
indi- viduale. In questo senso una cosa non è un F.: ma è un F. che questa cosa
esista che abbia questo o quel carattere, ecc. (HussERL, /deen, I, $ 6). La no-
zione di stato di cose è stata ripresa da Wittgenstein nel Tractatus
logico-philosophicus che però ha con- cepito in diversa maniera il rapporto di
esso col fatto perchè ha visto nello « stato di cose» l’ele- mento semplice che
entra a comporre il fatto. Lo stato di cose sarebbe perciò il « F. atomico » il
com- ponente elementare dei fatti (Tracr., 2). Quel che c’è di caratteristico
in queste notazioni è la definizione del fatto (o dei suoi componenti) come oggetto
del giudizio o della proposizione valida. Lo stato di cose o F. atomico non è,
secondo Wittgenstein che l’oggetto di una proposizione elementare (/bid., 4,
21). S’intende perciò come, sulla linea di sviluppo di questa concezione, i
fatti siano stati addirittura identificati con le proposizioni.
L’identificazione è stata proposta da Ducasse (in «Journal of Philo- sophy +,
1940, pag. 701-11) e accettata da Carnap,nel senso che un F. sarebbe una
proposizione che sia: 1° vera; 2° contingente; 3° dotata di un certo grado di
completezza cioè di determinazione (Mean- ing and Necessity, $ 6, 1). Bisogna
avvertire che, per Carnap, il termine proposizione non signi- fica nè
un’espressione linguistica, nè un avveni- mento mentale o soggettivo ma
qualcosa di ogget- tivo che può o meno trovare esempi in natura ed è pertanto
paragonabile a « proprietà » (/bid., $ 6). La « proposizione vera + che Carnap
identifica col F. significa perciò semplicemente un « oggetto valido » o un
reale « stato di F. ». Il chiarimento che deriva da queste riduzioni
linguistiche è puramente ver- bale; e, se può riuscire di qualche utilità in
una trattazione logica, poco o nulla dice intorno alla natura e ai caratteri
del fatto. Denuncia, al più la tendenza a ricondurre il F. stesso a condizioni
concettuali o linguistiche. Dall’altro lato, il pragma- tismo con Dewey ha
insistito sul carattere « opera- zionale » del F.: nel senso che i F. «sono
soltanto risultati di operazioni e di osservazioni compiute con l’aiuto degli
organi sensoriali e di strumenti ausiliari prodotti dalla tecnica, e perciò
vengono scelti e ordinati nell’espresso intento di farli servire come dati per
una ricerca ordinata (Logic, VI, 5, $ 4). L’analisi contemporanea della nozione
ignora pertanto l’antitesi tra fatti e ragione. L'eliminazione di questa
antitesi si fa indubbiamente sentire anche nell’elaborazione del concetto di
ragione (v.). Per ciò che riguarda la nozione di F., esso, nei con- fronti
della ragione, si viene a configurare come una condizione limitativa delle scelte
razionali. In un campo determinato, per es., nella fisica, un F. è ogni
possibile oggetto di osservazione cioè ogni stato o situazione che può essere
accertata e con- trollata con gli strumenti di cui dispone la fisica. Ma i
fatti fisici in questo senso sono i limiti o le condizioni dell’attività
razionale nel campo della fisica cioè di ogni costruzione teoretica o ipotesi.
Allo stesso modo, nel campo della logica, le im- plicazioni analitiche o
tautologiche valgono come fatti, cioè come condizioni o limiti della ricerca
logica (AsBAGNANO, Possibilità e libertà, VI, 7). In generale si può dire che
mentre il F. è una « pos- sibilità di accertamento » che in ogni campo assume
l’aspetto specifico dovuto agli strumenti d’indagine disponibili nel campo stesso,
esso è pure, nei con- fronti della ragione, la condizione di altre possi-
bilità cioè di scelte o di operazioni che a loro volta si determinano o
specificano secondo la natura dei singoli campi d’indagine. FAUSTISMO (ted.
Faustismus). Secondo Spen- gler, il carattere della cultura occidentale, in
quanto si contrappone all’apollinismo della cultura antica. L’anima faustiana
ha come suo simbolo lo spazio puro illimitato. Faustiane sono, secondo
Spengler, la dinamica di Galilei, la dogmatica cattolica e protestante, le
grandi dinastie con la loro politica di gabinetto, il destino di Lear e
l’ideale della Madonna dalla Beatrice di Dante alla fine del se- condo Faust di
Goethe (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $ 6). Ovviamente si tratta di una
caratteriz- zazionearbitrariaefantastica. FAVOLA (lat. Fabula; ingl. Fable;
franc. Fable; ted. Fabel). Dal Rinascimento in poi la convinzione che le « F.
antiche » avessero un valore di sintomo o di rivelazione indiretta della verità
condusse a una reinterpretazione degli antichi miti che furono talora piegati
(come si vede nelle opere di Bruno) a significati filosofici particolari. Sul
valore delle F. stesse Bacone e Vico segnano gli atteggiamenti fon- damentali.
Bacone pensava che le F. sono qual- cosa di intermedio tra il silenzio e
l’oblio delle età perdute e la memoria e l'evidenza delle età più vicine di cui
possediamo testimonianze scritte. « Le F., egli scrisse, non sono nè un
prodotto delle 382 loro età nè frutto dell’invenzione poetica ma quasi sacre
reliquie e tenui aure di tempi migliori, che dalla tradizione delle nazioni più
antiche sono ar- rivate fino alle trombe e ai flauti dei Greci» (De sapientia
veterum, 1609, Pref.). Bacone propendeva pertanto a scorgere nelle F. un
significato allegorico che vi sarebbe stato intenzionalmente racchiuso. Che è
per l’appunto la tesi negata e combattuta, il secolo dopo, da Vico: secondo il
quale le F. sono tali soltanto dal punto di vista dei dotti, mentre per i
popoli primitivi che le crearono erano nar- razioni vere. «I filosofi, dice
Vico, diedero alle F. interpretazioni fisiche o morali o metafisiche o di altre
scienze, come l’oro o l’impegno o il capriccio ne riscaldasse le fantasie;
sicchè essi piuttosto con le loro allegorie erudite le finsero favole. I quali
sensi dotti i primi autori di quelle F. non intesero, nè per la loro rozza ed
ignorante natura potevano intendere: anzi per questa stessa loro natura con-
cepirono le F. per narrazioni vere... delle loro divine ed umane cose» (Sc.
Nuova, II, Della metafisica poetica). Questa idea di Vico è rimasta a fonda-
mento della moderna filosofia delle forme simbo- liche (v. MITO). FEDE (gr.
riot; lat. Fides; ingl. Faith; fran- cese Foi; ted. G/aube). La credenza
religiosa, cioè la fiducia nella parola rivelata. Se la credenza in generale è
l'impegno nei confronti di una nozione qualsiasi, la F. è l’impegno nei
confronti di una nozione che si ritiene rivelata o testimoniata dalla divinità.
In questo senso usava già la parola Sesto Empirico parlando di quei
ragionamenti che sem- brano dipendere « dalla F. e dalla memoria » come il
seguente: « Se un Dio ti ha detto che costui di- venterà ricco, costui
diventerà ricco. Ma questo Dio qui (e indico, supponiamo, Zeus) t’ha detto che
costui diventerà ricco. Dunque diventerà ricco ». In questi casi, nota Sesto,
assentiamo alla conclu- sione non per la necessità delle premesse ma in quanto
abbiamo F. nella dichiarazione della divi- nità (Ip. Pirr., II, 141). S. Paolo
ha riassunto le caratteristiche fondamentali della F. religiosa nelle celebri
parole: « F. è sostanza delle cose sperate e argomento delle non parventi»
(Mebr., 11, 1). S. Tommaso ha chiarito nel modo seguente le pa- role di S.
Paolo: « In quanto si parla di argomento, si distingue la F. dall’opinione, dal
sospetto e dal dubbio, nelle quali cose manca la ferma adesione dell’intelletto
al suo oggetto. In quanto si parla di cose non parventi, si distingue la fede
dalla scienza e dall’intelletto, nei quali qualcosa diventa appa- rente. E in
quanto si dice sostanza delle cose sperate si distingue la virtù della F. dalla
F. nel comune significato [cioè dalla credenza in generale] la quale non è
diretta alla beatitudine sperata » (S. 7H., Il, 2, q. 4, a. 1). Gli Scolastici
si attennero, con poche FEDE varianti, a questa descrizione della fede. Col
misti- cismo tedesco del xrv secolo cominciò ad affac- ciarsi la dottrina del
carattere privilegiato della F. come via d’accesso originale, diretta e
immediata alle realtà supreme e specialmente a Dio. Maestro Eckhart vede nella
F. il mezzo attraverso il quale l’uomo raggiunge la realtà ultima di sè e di
Dio: la F., egli dice è la nascita di Dio nell’uomo. Questo tema ritornava
nella cosiddetta « filosofia della F. + del sec. xvi: Hamann e Jacobi
attribuiscono alla F. lo stesso sfarus privilegiato, la stessa capacità di
mettere l’uomo direttamente a contatto, scavalcando i limiti e le incertezze
della ragione, con le realtà ultime e specialmente con Dio. Per quanto Jacobi
includa nella F. religiosa anche la parte che pro- priamente spetta alla
credenza («Noi crediamo, egli dice, di avere un corpo; crediamo all’esistenza
delle cose sensibili », Werke, IV, 211; III, 411), è sul carattere religioso
della F. che egli fonda la certezza privilegiata di essa: ogni F., egli dice, è
necessariamente F. della rivelazione e questa è necessariamente F. in Dio, cioè
religione (Ibid., Il, 274, 284 sgg.). I Romantici spesso riconfer- marono
questo status privilegiato della fede. Così fece Fichte che esaltò la F. nelle
opere popolari del secondo periodo, per es., nella Missione del- l’uomo (1800)
dove afferma che «la F., dando realtà alle cose, impedisce ad esse di essere
vane illusioni: è la sanzione della scienza» e ripete la parola di Jacobi: «
Tutti nasciamo nella F. » (Werke, II, pag. 254-55). Accenti analoghi risuonano
ta- lora negli scritti di Schelling (Werke, I, 10, 183) e Novalis dice che la
scienza è soltanto una delle metà e la F. è l’altra metà (Fragmente, 391).
Verso la fine della Scolastica si era cominciato ad accentuare un altro aspetto
della F.: il suo ca- rattere pratico che non consiste nella sua dipendenza
dalla volontà ma nella sua capacità di dirigere l’azione. Duns Scoto fu il
primo ad insistere su questo carattere: « La F., egli dice, non è un abito
speculativo nè il credere è un atto speculativo, nè la visione che segue al
credere è una visione spe- culativa, ma pratica » (Op. Ox., prol., q. 3). Per «
pratico» Duns Scoto intende ciò che serve a di- rigere la condotta e perciò
egli chiama pratica l’intera teologia in quanto le verità che essa in- segna
non sono teoretiche cioè necessarie e dimo- strabili ma servono unicamente a
dirigere l’uomo verso la beatitudine eterna (/bid., prol., q. 4, n. 42). La
stessa antitesi tra l’hkabitus della F. e quello della scienza era ammessa da
Ockham che riteneva i due abiti incompatibili tra di loro e osservava che chi
crede a qualcosa di cui ha dimenticato la dimostrazione non si può dire
veramente che ha «F.» perchè l’oggetto della sua credenza è pur sempre la
dimostrazione (/r Sent., III, q. 8 R). FEDE ANIMALE Nel mondo moderno il
carattere pratico della F. veniva difeso da Spinoza. «La F., egli dice, con-
siste nell’avere, nei confronti di Dio, quei senti- menti tolti i quali viene
tolta l’obbedienza a Dio, e che sono posti necessariamente quando è posta tale
obbedienza » (7ract. Theol.-Pol., 14). La F. è perciò l’insieme delle credenze
che condizionano l'obbedienza alla divinità, secondo Spinoza. Ed è questo un
concetto che doveva essere ripreso da Kant, per il quale la credenza
teoricamente insuffi- ciente può, soprattutto nel suo aspetto pratico, esser
detta fede. Kant generalizza il concetto pratico della F., riconoscendo in essa
l’atteggiamento im- pegnativo che può dirigere sia l’abilità, cioè l’atti- vità
che ha in vista fini arbitrari e accidentali, sia la moralità che ha in vista
fini assolutamente ne- cessari. La F. che dirige l’abilità è la F. prammatica
la quale difficilmente spinge il suo impegno sino alla scommessa. C’è invece
una F. dortrinale che è più impegnativa ma che neppure arriva alla cer- tezza
della F. morale. Quest'ultima specie di F., dà una certezza che non si può
comunicare e non è quindi di natura logica ma è una « certezza mo- rale» che
poggia su fondamenti soggettivi. « Così io non devo dir mai: è moralmente certo
che c’è un Dio, ecc., ma: io sono moralmente certo, ecc. Cioè: la F. in Dio e
in un altro mondo è talmente intrecciata col mio sentimento morale che, come
non corro rischio di perdere questo, così non temo che quella possa essermi
tolta» (Crit. R. Pura, Canone della Ragion Pura, sez. 3). La F. religiosa può
essere secondo Kant o «F. religiosa pura » che è la stessa F. morale o «F.
storica» che è F. nelle leggi statutarie cioè nelle leggi che indicano il modo
in cui Dio vuol essere onorato ed obbedito (Religion, III, I, $ 6). Ciò che gli
Scolastici chiamavano il carattere pratico della F. è diventato per Kant (e per
i mo- derni) il carattere impegnativo della F. stessa cioè il carattere per il
quale la F. è innanzi tutto un atto esistenziale, una direzione impressa alla
vita dell’individuo, capace di trasformarla e non priva di rischio. Questi
tratti appaiono chiari nell'ultima grande teoria della F. che la filosofia ha
elaborato: quella di Kierkegaard. Kierkegaard ritiene che il cristianesimo ha
invertito il rapporto tra F. e scienza. Nell’antichità classica la F. è
qualcosa di inferiore alla scienza perchè si rapporta al verosi- mile; nel
cristianesimo la F. è superiore alla scienza perchè indica la certezza più
alta, una certezza che si rapporta al paradosso, quindi all’inverosimile: essa
è «la coscienza dell’eternità, la certezza più appassionata che spinge l’uomo a
sacrificare tutto, anche la vita» (Diario, X*, A 635). Il carattere im-
pegnativo della F. consiste nel suo legame con l’esistenza: aver F. significa esistere
in un certo 383 modo. « Per aver F., dice Kierkegaard, è necessaria una
situazione e questa situazione dev’essere pro- dotta con un passo esistenziale
dell’individuo » (Ibid., X*, A 114). Questo passo segna la rottura col mondo e
col suo ideale di intelligibilità. Che cosa è credere? È volere (ciò che si
deve e perchè si deve) in obbedienza riverente e assoluta, difen- dersi contro
i pensieri vani di voler comprendere e contro le vane immaginazioni di poter
compren- dere » (/bid., X!, A 368). Da questo punto di vista la F. non è fatta
di certezze, ma di decisione e di rischio. La F., dice Kierkegaard in Timore e
tre- more, è la certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sè e di
un nascosto rapporto con Dio. L’uomo può pregare Dio che gli conceda la F.; ma
la possibilità di pregare non è in se stessa un dono divino? Così c’è nella F.
una contraddizione ineliminabile che la rende paradossale. L'uomo è posto di
fronte al bivio: credere e non credere. Da un lato è lui che deve scegliere e
dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perchè Dio è tutto e da Lui deriva
anche la fede. Questo concetto è stato so- stanzialmente ripreso da Karl Barth
che ha inter- pretato la F. come l’inserzione della Eternità nel tempo, della
Trascendenza nell’esistenza (Commento all’Epistola ai Romani, 1919).
All’iniziativa divina attribuisce la F. anche Rudolf Bultmann che, tut- tavia
ha affermato l’esigenza di liberare la F. stessa, e in particolare quella
cristiana, dai miti cosmo- logici con i quali essa tradizionalmente si presenta
unita e di procedere alla sua demitizzazione (v.). E andando oltre su questa
strada, Dietrich Bon- hoeffer ha addirittura contrapposto la F. alla religione
(v.), considerata come un’espressione mi- tica o contingente della F. e
divenuta inaccetta- bile nell’età contemporanea dominata dal razio- nalismo,
dalla scienza e dalla tecnologia. Da questo punto di vista si accentua il
carattere pratico della F. che diventa una morale naturale ed umana, che si
fonda sull’unità del mondo e di Dio, dell’umanità e di Cristo (£tica, 1949;
Resistenza e Resa, 1951). A questo concetto della F., intesa come azione
rinnovatrice del mondo umano, si ispira il panteismo umanistico dei co-
siddetti « nuovi teologi » (v. Dio e Dio, MORTE DI). Da un punto di vista filosofico
ha insistito sul- l’identità di esistenza e fede Karl Jaspers che tuttavia ha
continuato a riconoscere nella F., sulle orme di Kierkegaard, un rapporto
diretto con la Trascendenza (Der Philosophische Glaube, 1948). FEDE ANIMALE
(ingl. Animal Faith). Così Santayana chiamò la credenza nella realtà in quanto
prodotta nell’uomo da esperienze animali: fame, sesso, lotta, ecc. (Scepricism
and Animal Faith, 1923) (v. CREDENZA). 384 FEDE, FILOSOFIA DELLA (ted.
G/aubens- philosophie). Con questo nome o con quello di « filosofia del sapere
immediato » si indica la filo- sofia di un gruppo di filosofi tedeschi della
seconda metà del 700 che fecero parte dello Sturm und Drang (v.). Le principali
figure di questa filosofia furono G. G. Hamann (1730-88), detto «il mago del
Nord +»; G. G. Herder (1744-1803) e F. E. Ja- cobi (1743-1819) al quale si deve
l’espressione « filosofia della F.». Questa filosofia accettava da Kant la
dottrina dei limiti della ragione solo per affermare la superiorità della F.
sulla ragione. Essa considerava la F. come un rapporto immediato, quindi non
soggetto a incertezze o a dubbi, con le realtà supreme e specialmente con Dio.
Jacobi espresse queste idee nelle Lerrere sulla dottrina di Spinoza a Mosé
Mendelssohn (1785), e nello scritto David Hume e la F. (1787). Hegel nella
logica del- l’Enciclopedia considerò la dottrina di Jacobi come «Terza
posizione del pensiero rispetto all’oggetti- vità » e criticò l'immediatezza
nella quale vide il carattere fondamentale della F. di cui parlava Jacobi
(Enc., $ 61-74). FEDE E SCIENZA. V. SCOLASTICA. FEDELTÀ (ingl. Loyalty). La
volontaria, pra- tica, completa devozione di una persona ad una causa. Così
definì la F. Royce nel suo libro Filo- sofia della F. (1908) assumendola come
principio generale dell’etica. La F. include infatti la solida- rietà con gli
altri individui o meglio con una co- munità di individui e contiene il criterio
per giudicare del valore delle cause giacchè consente di ricono- scere come
cattiva una causa che renda impossibile o neghi la F. altrui. La F. alla F. fu
quindi ritenuta da Royce il criterio della vita morale. FELAPTO. Parola
mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il secondo dei sei modi del
sil- logismo di terza figura e precisamente quello che consiste di una premessa
universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una con-
clusione particolare negativa come nell’esempio: « Nessun uomo è pietra, Ogni
uomo è animale, Dunque qualche animale non è pietra» (Pretro Ispano, Summul.
logic., 4.14). FELICITÀ (gr. evdaruovia; lat. Felicitas; inglese Happiness;
franc. Bonheur; ted. Glickseligkeit). In generale uno stato di soddisfazione
dovuto alla propria situazione nel mondo. Per questo rapporto con la
situazione, la nozione di F. si differenzia da quella di beatitudine (v.) la
quale è l'ideale di una soddisfazione indipendente dal rapporto dell’uomo col
mondo e perciò ristretta alla sfera contempla- tiva o religiosa. Il concetto di
F. è umano e mon- dano. Così è nato nella Grecia antica, dove Talete riteneva
felice « colui che ha un corpo sano, buona fortuna e un’anima bene educata»
(Dioc. L., I, FEDE, FILOSOFIA DELLA 1, 37). La buona salute, la fortunata
riuscita della vita e il successo della propria formazione, che co- stituiscono
gli elementi della F., sono inerenti alla situazione dell’uomo nel mondo e fra
gli altri uomini. Democrito, in modo pressocchè analogo, definiva la F. come
«la misura del piacere e la proporzione della vita», cioè come il tenersi
lontani da ogni difetto e da ogni eccesso (F7., 191, Diels). Comunque, F. e
infelicità appartengono all’anima (Fr., 170, Diels) giacchè solo l’anima «è la
dimora della nostra sorte » (Fr., 171, Diels). La connessione che è stata
spesso stabilita tra F. e piacere ha lo stesso significato, cioè è connessione tra
lo stato definito come F. e il rapporto col proprio corpo, con le cose e con
gli uomini. La tesi che la F. sia il sistema dei piaceri, fu espressa con tutta
chiarezza da Aristippo che distinse anche il piacere dalla felicità. Solo il
piacere è il bene perchè solo esso viene desiderato di per se stesso e quindi è
il fine in sè. « Il fine è il piacere particolare, la F. è il sistema dei
piaceri particolari, in cui si sommano anche i passati e i futuri » (Diog. L.,
II, 8, 87). Egesia che negava la possibilità della F., la negava proprio per il
fatto che i piaceri sono troppo rari e labili (Ibid., II, 8, 94). Dall’altro
lato, Platone negava che la F. consistesse nel piacere e la riteneva in- vece
connessa con la virtù. «I felici sono felici per il possesso della giustizia e
della temperanza e gli infelici, infelici per il possesso della cattiveria »,
egli dice nel Gorgia (508 b) e nel Convito (202 c) sono detti felici «coloro
che posseggono bontà e bellezza ». Ma giustizia e temperanza sono virtù; «
possedere bontà e bellezza » significa ancora es- sere virtuosi; e la virtù non
è altro, secondo Pla- tone, se non la capacità dell'anima di adempiere al
proprio compito, cioè di dirigere l’uomo nel modo migliore (Rep., I, 353 d
sgg.). Sicchè anche la nozione platonica della F. è relativa alla situa- zione
dell'uomo nel mondo, e ai compiti che qui lo attendono. Quanto ad Aristotele,
egli ha bensì insistito sul carattere contemplativo della F. nel suo grado
eminente, cioè della beatitudine (v.), ma ha dato della F. una nozione più
estesa defi- nendola come « una certa attività dell’anima svolta conformemente
a virtù » (Er. Nic., I, 13, 1102 b); la quale non esclude, ma include la
soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni mondane. Le per- sone felici,
secondo Aristotele, devono possedere tutte e tre le specie di beni che si
possono distinguere, cioè quelli esterni, quelli del corpo e quelli del-
l’anima (/bid., 1153 b 17 sgg.; Pol., VII, 1, 1323 a 22). È vero tuttavia che
«i beni esteriori, come ogni strumento, hanno un limite entro il quale adem-
piono la loro funzione di essere utili, come mezzi, ma oltre il quale diventano
dannosi o inutili per chi li possiede. E che i beni spirituali invece, FELICITÀ
385 tanto più sono abbondanti tanto più sono utili ». Ma in generale si può
dire che « Ciascuno merita tanta F., per quanto virtù, senno e capacità di
agire in conformità egli possiede e si può chiamare a testimonio la divinità
che è felice e beata non per beni esteriori ma di per se stessa, per quello che
è per natura » (Po/., VII, 1, 1323 b 8). La F. è perciò più accessibile al
saggio che più facilmente basta a se stesso (Er. Nic., X, 7, 1177 a 25) ma è
ciò a cui in realtà devono tendere tutti gli uomini e le città. L'etica
post-aristotelica si occupa invece esclu- sivamente della F. del saggio; la
netta divisione degli Stoici tra saggi e pazzi rende infatti ovvia- mente
inutile occuparsi di questi ultimi. Il saggio è colui che basta a se stesso e
che perciò trova in sè esclusivamente la sua F. che meglio si direbbe beatitudine.
Plotino rimprovera alla nozione ari- stotelica di F. che, consistendo essa per
ogni essere nel compiere la sua funzione e nel raggiungere il proprio fine, può
applicarsi benissimo non solo agli uomini ma anche agli animali e alle piante
(Enn., I, 4, 1 sgg.). E agli Stoici Plotino rimpro- vera l’incoerenza di porre
la F. nell'indipendenza dalle cose esterne e nello stesso tempo di additare
come oggetto della ragione proprio queste cose stesse. Per Plotino, la F. è la
vita stessa; perciò mentre appartiene a tutti gli esseri viventi, appar- tiene
nel grado più eminente alla vita più completa e perfetta che è quella
dell’intelligenza pura. Il saggio, in cui tale vita si realizza, è bene a se
stesso: non ha bisogno che di se stesso per essere felice e non cerca le altre
cose o almeno le cerca solo perchè sono indispensabili alle cose che gli appar-
tengono (per es., al corpo) e non a lui stesso. La F. del saggio non può essere
distrutta nè dalla cat- tiva fortuna nè dalle malattie fisiche e mentali nè da
alcuna circostanza sfavorevole, come non può essere aumentata dalle circostanze
favorevoli (/bid., I, 4, 5 sgg.): è perciò la stessa beatitudine di cui godono
gli Dei. La filosofia medievale ha ribadito e fatto propri questi concetti,
talora adattando ad essi (come ha fatto S. Tommaso) la stessa dottrina
aristotelica: e solo estendendoli alla generalità degli uomini. Dali’ Umanesimo
in poi la nozione di F. comincia a essere strettamente legata — com'era già
stata per Cirenaici ed Epicurei — con quella di piacere. Il De voluptate di
Lorenzo Valla è imperniato su questa connessione; e tale connessione si
accentua nel mondo moderno. Essa trova concordi Locke e Leibniz. Locke dice che
la F. «è il massimo pia- cere di cui siamo capaci e l’infelicità è la massima
pena; e l’infimo grado di ciò che può essere chia- mato F. è di essere tanto
liberi da ogni pena e di aver tanto piacere presente da non poter essere 25 —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. contenti con meno » (Saggio, II, 21, 43). E
Leibniz: «Io credo che la F. sia un piacere durevole, ciò che non potrebbe
accadere senza un progresso con- tinuo verso nuovi piaceri » (Nouv. Ess., II,
21, 42). La nozione della F. come piacere o come somma o meglio come «sistema»
di piaceri, secondo la espressione del vecchio Aristippo, comincia con Hume ad
acquistare un significato sociale: la F. diventa piacere diffusibile, il
piacere del maggior numero e in questa forma la nozione di F. diventa la base
del movimento riformatore inglese dell’800. Nel frattempo Kant, che riteneva
impossibile porre la F. a fondamento della vita morale, ne chiariva tuttavia
efficacemente la nozione senza ricorrere a quella di piacere. « La F., dice
Kant, è la condizione di un essere razionale nel mondo al quale, nel- l’intero
corso della sua vita, tutto avvenga secondo il suo desiderio e la sua volontà »
(Crif. R. Pratica, Dialettica, Sez. 5). Si tratta perciò di un concetto che
l’uomo non trae dagli istinti e non deriva da ciò che in lui è animalità, ma
che egli si forma in modi diversi e che cambia spesso e spesso arbitra-
riamente (Crit. del giud., $ 83). Kant ritiene che la F. faccia parte
integrante del sommo bene, il quale è per l’uomo la sintesi di virtù e
felicità. Ma come tale il sommo bene non è realizzabile nel mondo naturale; e non
è realizzabile sia perchè nulla garantisce in questo mondo la perfetta pro-
porzione tra moralità e F. in cui il sommo bene consiste; sia perchè nulla
garantisce quel soddisfa- cimento pieno di tutti i desideri e tendenze del-
l’essere razionale in cui la F. consiste. Nel mondo naturale pertanto la F. è
dichiarata da Kant impos- sibile e rinviata in un mondo intelligibile che è «il
regno della grazia » (Crif. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. II, sez. 2).
Kant ha avuto il merito, in primo luogo, di enunciare in modo rigoroso la
nozione di F. e in secondo luogo quello di mo- strare che tale nozione è
empiricamente impossibile, cioè irrealizzabile. Non è possibile infatti che
siano soddisfatte rutte le tendenze, inclinazioni, volizioni dell’uomo perchè da
un lato la natura non si preoc- cupa di venire incontro all’uomo in vista di
tale soddisfazione totale e dall’altro perchè gli stessi bisogni e inclinazioni
non rimangono mai fermi nella quiete dell’appagamento (Crir. del giud., $ 83).
Ricondotta al concetto di soddisfazione assoluta e totale — sul quale insiste
anche Hegel (Enc., $ 479- 480) — la F. diviene l’ideale di uno stato o
condizione inattingibile, salvo che in un mondo soprannaturale e per intervento
di un principio onnipotente. Non fa quindi meraviglia che tutta quella parte
della filosofia moderna che è passata attraverso il filtro del kantismo abbia
trascurato la nozione di F. e non se ne sia avvalsa per l’analisi di ciò che
l’esistenza umana è e deve essere. Tut- 386 tavia l’empirismo inglese aveva
iniziato con Hume (come già si è detto) un nuovo sviluppo in senso sociale
della nozione, sviluppo che è proprio del- l’utilitarismo. Hume aveva osservato
che « nel far le lodi di qualche persona benefica e umana » non si manca mai di
mettere in luce « la F. e la soddisfa- zione che derivano alla società umana
dalla sua azione e dai suoi buoni uffici » (/ng. Conc. Morals, II, 2). E
pertanto aveva identificato ciò che è mo- ralmente buono con ciò che è utile e
benefico. Dopo di lui Bentham riprendeva, come fondamento della morale, la
formula di Beccaria: « La massima F. possibile del maggior numero possibile di
per- sone + formula a cui si ispirarono anche James Mill e Stuart Mill,
accentuandone sempre più il carat- tere sociale. Non si trova in questi autori
un con- cetto rigoroso di F.; ma non si trova neppure in essi
quell’irrigidimento e assolutizzazione della no- zione che essa aveva subito in
Kant e che l’aveva resa inservibile. Essi sanno anche che la F., di- pendente
com'è da condizioni e circostanze ogget- tive oltrecchè dagli atteggiamenti
dell’uomo, non può appartenere all'uomo nella sua singolarità, ma all'uomo in
quanto è membro di un mondo sociale. E se collegano la F. col piacere,
distinguono pia- cere da piacere, ammettendo l’identificazione solo per
l’ambito di quei piaceri che sono socialmente partecipabili. Nella tradizione
culturale inglese e americana, la nozione di F. è rimasta viva in questa forma
e ha ispirato oltrecchè il pensiero filosofico, il pensiero sociale e politico.
Il principio della mas- sima felicità è rimasto per lungo tempo la base del
liberalismo moderno di stampo anglosassone. La Costituzione americana ha
incluso fra i diritti na- turali e inalienabili dell’uomo « la ricerca della F.
». A questa tradizione si collega Bertrand Russell, che è stato uno dei pochi a
difendere oggi la nozione di F., sia pure in un libro a carattere popolare (La
Conquista della F., 1930). Ciò che Russell ag- giunge di nuovo alla nozione
tradizionale di F. (oltre alla persuasiva analisi che egli fa delle odierne
situazioni di «infelicità »), è una condizione che ritiene indispensabile, cioè
la molteplicità degli in- teressi, dei rapporti dell’uomo con le cose e con gli
altri uomini, perciò l’eliminazione dell’ ego- centrismo », della chiusura in se
stessi e nelle proprie passioni. Si tratta di una condizione che pone la F. al
polo opposto di quella autosufficienza del saggio in cui gli antichi ponevano
il grado più alto di essa. Dall’altro lato i filosofi, non riuscendo più a uti-
lizzare la nozione di F. come fondamento o prin- cipio della vita morale, si
sono, di regola, disinte- ressati della nozione stessa. A questo disinteresse
ha contribuito anche la tendenza, nata dal Roman- ticismo e per lungo tempo
dominante, ad esaltare l’infelicità, il dolore, gli stati di turbamento e di
FENOMENICO, FENOMENOLOGICO insoddisfazione come esperienze positive e intrin-
secamente gioiose. La F. difatti, nei gradi e nelle forme in cui si può
ritenere realizzabile, è uno stato di calma, una condizione di equilibrio
almeno re- lativo, di soddisfazione parziale e tuttavia effettiva, che è
direttamente l’opposto della irrequietudine romantica. La filosofia
contemporanea non si è finora fermata ad analizzare la nozione di F. nei limiti
in cui essa può servire a descrivere situazioni umane effettive e ad
orientarle. E tuttavia che si tratti di una nozione importante è dimostrato
dalla importanza che alcune nozioni negative come « fru- strazione »,
«insoddisfazione +, ecc., hanno nella psicologia individuale e sociale, normale
e pato- logica. Queste nozioni e altre analoghe indicano infatti l'assenza più
o meno grave di quella con- dizione di almeno relativo soddisfacimento che la
parola F. tradizionalmente designa. E l’importanza di esse per l’analisi di
stati o condizioni più o meno patologici denuncia l'importanza che la
corrispon- dente nozione positiva ha per le condizioni normali della vita
umana. FENOMENICO, FENOMENOLOGICO (ingl. Phenomenal, Phenomenological; franc.
Phéno- ménal, Phénoménologique; ted. Phinomenal, Phano- menologisch). La
distinzione fra i due aggettivi, che non vanno confusi, è stata bene espressa
da Hei- degger: « Per fenomenico s’intende ciò che è dato ed esplicabile nel
processo con cui il fenomeno viene incontro, per cui si parla di ‘strutture feno-
meniche ’. Fenomenologico è invece tutto ciò che è inerente al modo del
mostrare e dell’esplicare e tutto ciò che esprime la concettualità implicita in
questa ricerca » (Sein und Zeit, $ 7). In altri termini si può parlare di «
oggetto fenomenico » o « realtà fenomenica +», ma si deve parlare di « ricerca
feno- menologica » di «epoché fenomenologica?, ecc. L’aggettivo F. qualifica
l’oggetto che si rivela nel fenomeno, l’aggettivo fenomenologico qualifica il
manifestarsi dell’oggetto nella sua « essenza » nonchè la ricerca che rende
possibile questo manifestarsi. FENOMENISMO (ingl. Phenomenalism; fran- cese
Phénoménisme; ted. Phinomenalismus). La dot- trina che la conoscenza umana è
limitata ai fenomeni, nel significato 2° del termine. La parola designa sia le
filosofie che tuttavia ammettono l’esistenza di una realtà diversa del fenomeno
(come quelle di Kant o di Spencer) sia le filosofie che negano ogni realtà che
non sia il fenomeno (Renouvier, Hodgson). Il termine è stato coniato nell’800.
Ma la filosofia fenomenistica è nata nel ’700 ed è la filosofia del-
l’Hluminismo. FENOMENO (gr. tà pawéueva; ingl. Pheno- menon; franc. Phénomène;
ted. Phanomen). 1. Lo stesso che apparenza (v.). In questo senso il F. è
l'apparenza sensibile, che si contrappone alla realtà, FENOMENOLOGIA della
quale per altro può essere assunto come la manifestazione; o al fatto col quale
per altro può essere considerato identico (v. FATTO). È questo il significato
solitamente assunto dalla parola nel linguaggio comune (anche quando questo
allude a un’apparenza paradossale e insolita, per es., mo- struosa) ed è anche
il significato che ricorre in Bacone (nel De /nterpretatione naturae proemium,
1603), in Cartesio (Princ. Phil., III, 4),
in Hobbes (De Corp., 25, $ 1) e in Wolff (Cosm., $ 225). 2. A partire dal sec. xvni e in connessione con la
rivalutazione dell’apparenza come manifestazione della realtà ai sensi e
all’intelletto dell’uomo, la parola F. comincia a designare l’oggetto specifico
della conoscenza umana in quanto appunto appare sotto particolari condizioni,
caratteristiche della struttura conoscitiva dell’uomo. In questo senso la
nozione di F. è correlativa con quella di cosa in sè (v.) e la richiama per
opposizione contraria. A misura che si riconosce che gli oggetti della co-
noscenza si rivelano nei modi e nelle forme proprie della struttura conoscitiva
dell’uomo e che perciò essi non sono le «cose in se stesse» cioè le cose quali
sono o potrebbero essere al di fuori del rap- porto conoscitivo con l’uomo,
l’oggetto della co- noscenza umana si configura come F. cioè come cosa
apparente in quelle condizioni: il che ovvia- mente non vuol dire cosa
ingannevole o illusoria. È la filosofia del ’700 che fa questo passo. Hobbes
che ha in linea di principio rivalutato il F. come apparenza in generale (De
Corp., 25, $ 1; v. Ap- PARENZA) non conferisce alcun significato limita- tivo o
correttivo alla parola F. con cui designa ogni oggetto possibile della
conoscenza umana. Maupertuis che nelle Lettere del 1752 afferma che l’estensione
è un F. come tutte le cose corporee (CEuvres, 1756, II, 198 sgg.) esprime
invece la convinzione, assai comune al suo tempo, di una limitazione della
conoscenza umana; ed è da questa convinzione che ha preso le mosse Kant per la
sua distinzione tra F. e noumeno. Secondo Kant, il F. è in generale l’oggetto
della conoscenza in quanto condizionato dalle forme dell’intuizione (spazio e
tempo) e dalle categorie dell’intelletto. « F. dice Kant è ciò che non
appartiene all’oggetto in se stesso ma si trova sempre nel rapporto di esso col
soggetto ed è inseparabile dalla rappresentazione che questo ne ha. Giustamente
perciò i predicati dello spazio e del tempo sono attribuiti agli oggetti dei
sensi come tali, e in ciò non c’è illusione. AI contrario, se attribuisco alla
rosa in sè il color rosso, a Saturno gli anelli o a tutti gli oggetti esterni
in sè l’estensione, senza considerare il rap- porto di questi oggetti con il
soggetto e senza li- mitare il mio giudizio a questo rapporto, allora nasce
l’illusione » (Crif. R. Pura, Estetica trascen- 387 dentale, $ 8, Osserv. gen.,
nota). Tale significato nel quale veniva fissato un diffuso filosofema del sec.
XVI è rimasto come uno dei significati fonda- mentali del termine e
precisamente quello in rap- porto al quale si parla di fenomenismo. Questo
significato è contrassegnato dalla limitazione di va- lidità che importa nella
conoscenza umana. F. è in questo senso non l’oggetto che si manifesta ma
l’oggetto che si manifesta all’uomo nelle particolari condizioni limitative che
questo rapporto con l’uomo implica. 3. Tuttavia nella filosofia contemporanea,
a par- tire dalle Ricerche logiche (1900-01) di Husserl, F. ha cominciato a
indicare non solo ciò che ap- pare o si manifesta all’uomo in particolari
condi- zioni, ma ciò che appare o si manifesta in se stesso, cioè com'è in sè,
nella sua essenza. Vero è che per Husserl il fenomeno in questo senso non è una
manifestazione naturale o spontanea della cosa: esige altre condizioni che sono
quelle poste dalla ricerca filosofica come fenomenologia (v.). Il senso
fenomenologico di F. come «rivelazione di essenza » (HusseRL, /deen, I, Intr.)
si aggiunge perciò al signi- ficato critico di F., senza eliminarlo. Su esso ha
insistito Heidegger considerando il F. come puro e semplice apparire
dell'essere in sè e distinguen- dolo pertanto dalla semplice apparenza
(Erscheinung o blosse Erscheinung): che è l’indizio o l’annunzio dell’essere
(il quale però rimane nascosto) e che perciò è il non manifestarsi o il
nascondersi del- l’essere stesso (Sein und Zeit, $ 7, A). Ovviamente in questo
senso la nozione di F. non si contrappone più a quella di cosa in sè: il F. è
l’in sè della cosa nel suo manifestarsi: il quale pertanto non costi- tuisce
un’apparenza della cosa stessa ma si iden- tifica col suo essere. Possiamo
allora ricapitolare nel modo seguente i tre significati tuttora in uso della
parola F.: 1° l’apparenza grezza (o il fatto bruto) sia che la si consideri o
meno come manifestante la realtà o il fatto reale; 2° l’oggetto della
conoscenza umana, qualificato e delimitato dal rapporto con l’uomo; 3° il
rivelarsi dell’oggetto in sè. FENOMENOLOGIA (ingl. Phenomenology; franc.
Phénoménologie; ted. Phanomenologie). La descrizione di ciò che appare o la
scienza che ha come suo compito o progetto questa descrizione. Il termine è
stato probabilmente coniato nella scuola wolfiana. Lambert lo adopera come
titolo della quarta parte del suo Nuovo organo (1764) ed intende per esso lo
studio delle fonti di errore. Qui l’apparenza, di cui la F. è la descrizione, è
intesa come apparenza illusoria. Da Kant invece il termine viene adoperato per
indicare quella parte della teoria del movimento che considera il movi- mento o
la quiete della materia solamente in rap- 388 porto con le modalità in cui essi
appaiono al senso esterno (Meraphysische Anfangsgriinde der Natur-
wissenschaft, 1786, Pref.). A sua volta Hegel chiamò «F. dello spirito» la
storia romanzata della co- scienza che, dalle sue prime apparenze sensibili,
giunge ad apparire a se stessa nella sua vera natura cioè come Coscienza
infinita o universale. In questo senso la F. dello spirito è da lui
identificata col «divenire della scienza o del sapere»; ed Hegel scorge in essa
la via attraverso la quale il singolo individuo ripercorre i gradi di
formazione dello Spirito universale, come figure già deposte o tappe di una via
già tracciata e spianata (Phénomen. des Geistes, Pref., ed. Glockner, pag. 31).
Ancora un altro significato dette al termine Hamilton inten- dendo con esso
(Lectures on Logic, 1859-60, I, pag. 17) la psicologia descrittiva e in questo
signi- ficato cioè come pura descrizione dell’apparenza psichica, preparatoria
per la spiegazione dei fatti psichici, il termine è stato frequentemente adope-
rato nella cultura filosofica tedesca della seconda metà del sec. xx e dei
primi anni del ‘900. Eduardo Hartmann intitolò F. della coscienza morale (Phà-
nomenologie des sittliche Bewusstseins, 1879) la rac- colta dei dati empirici
della coscienza morale, in- dipendente dalla loro interpretazione speculativa.
Ma l’unica nozione oggi viva di F. è quella (correlativa al significato 3° di
fenomeno) annun- ziata da Husserl nelle Ricerche logiche (1900-01, II, pag. 3
sgg.) e poi da lui stesso sviluppata nelle opere successive. Husserl medesimo
si è preoc- cupato di eliminare la confusione tra psicologia e fenomenologia.
La psicologia, egli ha detto, è una scienza di dati di fatto; i fenomeni che
essa con- sidera sono accadimenti reali e si inseriscono, in- sieme con i
soggetti a cui appartengono, nel mondo spazio-temporale. La F. invece (che egli
chiama 4 pura » o «trascendentale ») è una scienza di es- senze (perciò
«eidetica +) e non di dati di fatto; ed è resa possibile solamente dalla
riduzione eide- tica che per l'appunto ha il compito di purificare i fenomeni
psicologici dalle loro caratteristiche reali o empiriche e di portarli sul
piano della generalità essenziale. La riduzione eidetica, cioè la trasforma-
zione dei fenomeni in essenze, è anche riduzione fenomenologica in senso
stretto perchè trasforma tali fenomeni in irrealtà (Ideen, I, Intr.). In questo
significato, la F. costituisce un indirizzo filosofico particolare che pratica
la filosofia come ricerca fe- nomenologica cioè avvalendosi della riduzione fe-
nomenologica e della epoché (v.). I risultati fon- damentali cui questa ricerca
ha condotto per opera di Husserl possono essere ricapitolati nel modo seguente:
1° il riconoscimento del carattere intenzionale della coscienza (v.), per il
quale la coscienza è un movimento di trascendenza verso FENOMENOLOGIA l'oggetto
e per il quale l’oggetto stesso si dà o si presenta alla coscienza «in carne e
ossa? o «in persona +; 2° l’evidenza della visione (intuizione) dell’oggetto
dovuta alla presenza effettiva dell’og- getto stesso; 3° la generalizzazione
della nozione di oggetto, che comprende non solo le cose mate- riali ma anche
le forme categoriali, le essenze e in generale gli «oggetti ideali » (/deen, I,
$ 15); 4° il carattere privilegiato della « percezione immanente » cioè della
coscienza che l'io ha delle proprie espe- rienze, in quanto apparire ed essere
coincidono perfettamente in questa percezione, mentre non coincidono nella
intuizione dell’oggetto esterno il quale non si identifica mai con le sue
apparizioni alla coscienza ma rimane al di là di esse (/bid., $ 38). Non tutti
questi capisaldi sono accettati dai pen- satori contemporanei che si avvalgono
della ricerca fenomenologica: soltanto il primo di essi cioè il riconoscimento
del carattere intenzionale della co- scienza per cui l’oggetto è trascendente
rispetto ad essa € tuttavia presente «in carne e ossa? trova credito non solo
presso questi pensatori ma in una ampia cerchia di filosofi contemporanei.
Della ri- cerca fenomenologica si è avvalso Nicolai Hart- mann per la
fondazione del suo realismo (v.) meta- fisico; Scheler per la sua analisi delle
emozioni (v.) e Heidegger come metodo per la sua ontologia. Quest'ultimo
esprime con tutta chiarezza il carat- tere proprio della F. quando afferma: «
L’espres- sione ‘ F.’ significa prima di tutto un concetto di metodo. Essa non
caratterizza la consistenza di fatto dell'oggetto dell’indagine filosofica,
bensì il suo come... Il termine esprime un motto che po- trebbe venir formulato
così: alle cose stesse! E ciò in contrapposizione alle costruzioni campate in
aria e ai trovamenti causali; in contrapposizione all’accettazione di concetti
solo apparentemente giustificati ed ai problemi apparenti che si impon- gono da
una generazione all’altra come veri pro- blemi » (Sein und Zeit, $ 7). Pertanto
ciò che la F. mostra è ciò che innanzitutto e per lo più mon si manifesta, ciò
che è nascosto; ma che tuttavia è tale da esprimere il senso e il fondamento di
ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta. E in questo senso la F. è la
sola possibile ontologia (Ibid., $ 7 C). In modo analogo la F. viene intesa da
Sartre (L’étre et le néant, Intr., $ 1-2) e da Merleau-Ponty (Phénoménologie de
la perception, Pref.). L'impostazione fenomenologica della filo- sofia non
implica pertanto la riduzione dell'esi- stenza all’apparenza e non si può a
nessun titolo scambiare per fenomenismo (v.). Il concetto stesso di fenomeno
cui si fa riferimento è in questo caso diverso. Essa d’altronde non implica
neppure la eliminazione della differenza tra l’apparire e l’es- sere, sebbene
venga senz’altro eliminato il vecchio FIDEISMO dualismo. Dice, per es., Sartre:
« Il fenomeno d’es- sere esige la transfenomenalità dell’essere. Ciò non vuol
dire che l’essere si trovi nascosto dietro i fe- nomeni (abbiamo visto che il
fenomeno non può mascherare l'essere), nè che il fenomeno sia una apparenza che
rinvia a un essere distinto (solo in quanto apparenza il fenomeno è, esso cioè
si indica sul fondamento dell’essere). Ma l’essere del feno- meno, per quanto
coestensivo col fenomeno, deve sfuggire alla condizione fenomenica — che è
quella per cui si esiste solo in quanto ci si manifesta — e per conseguenza
trascende e fonda la conoscenza che se ne ha» (L’érre et le néant, Intr., $ 2).
Il rapporto tra l’apparenza e l’essere, nell’ontologia fenomenologica, può
essere variamente definito o analizzato, ma tuttavia non si modella sul
rapporto tradizionale di apparenza e realtà. FENOMENO ORIGINARIO. V. UrpHANo-
MENON. FERIO. Parola mnemonica usata dagli Scola- stici per indicare il quarto
modo della prima figura del sillogismo, precisamente quello che consiste di una
premessa universale negativa, di una premessa particolare affermativa e di una
conclusione partico- lare negativa come nell’esempio: « Nessun animale è
pietra, Alcuni uomini sono animali, Dunque al- cuni uomini non sono pietra»
(Pretro IsPano, Summul. logic., 4.07). FERISON. Parola mnemonica usata dagli
Sco- lastici per indicare il sesto dei sei modi del sillogismo di terza figura
e precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una
pre- messa particolare affermativa e di una conclusione particolare negativa
come nell'esempio: « Nessun uomo è pietra, Qualche uomo è animale, Dunque
qualche animale non è pietra» (Pietro IsPaNO, Summa. logic., 4.15). FESPAMO.
Parola mnemonica usata dalla Lo- gica di Portoreale per indicare l’ottavo modo
del sillogismo di prima figura (cioè il Fapesmo) con la modificazione di
assumere per premessa mag- giore la proposizione in cui entra il predicato
della conclusione. L'esempio è il seguente: « Nessuna virtù è una qualità
naturale, Ogni qualità naturale ha Dio come primo autore, Dunque ci sono qua-
lità che hanno Dio per autore, che non sono virtù » (ARNAULD, Logique, III, 8).
FESTINO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il terzo dei
quattro modi della seconda figura del sillogismo e precisamente quello che
consiste di una premessa universale negativa, di una premessa particolare
affermativa e di una conclusione particolare negativa, come nell’esempio:
Nessuna pietra è animale, Qualche uomo è ani- male, Dunque qualche uomo non è
pietra » (Pietro Ispano, Sunmul. logic., 4.11). 389 FETICISMO (ingl. Ferishism;
franc. Fétichisme; ted. Fetichismus). Propriamente la credenza nel po- tere
soprannaturale o magico di particolari oggetti materiali (fericci dal
portoghese fetico = artificiale). Più generalmente, l’atteggiamento di chi
consideri animati gli oggetti materiali, e i tipi di religione o di filosofia
fondati su questa credenza. In questo secondo significato il termine è ora
caduto in disuso perchè sostituito da animismo (v.). I filosofi adoperano la
parola più spesso in senso dispregia- tivo; per es., Mach chiamò F. la credenza
nei con- cetti di causa e di volontà (Popularwissenschaftliche Vorlesungen,
1896, pag. 269). Comte aveva esaltato il F. considerandolo in qualche modo
affine al positivismo: in quanto entrambi vedono in tutti gli esseri una
attività che è analoga o simile a quella umana e così stabiliscono quell’unità
fondamentale del mondo che è espressa nella teoria del Grande Essere (Politique
Positive, III, pag. 87; IV, pag. 44). Kant, dall’altro lato, chiamò F. la
religione magica cioè la religione di chi si serve di certe azioni, che di per
sè non contengono nulla di gradito a Dio cioè di morale, come mezzi per
acquistare il favore divino e per soddisfare i propri desideri. In questo senso
il sacerdozio è « la costituzione di una chiesa in cui regna un culto
feticista, il quale si incontra là dove, non già principi di moralità, ma
coman- damenti statutari, regole di fede e osservanze co- stituiscono il
fondamento e l’essenza del culto» (Religion, IV, sez. 2, $ 3). FICHTISMO. V.
ROMANTICISMO. FIDEISMO (ingl. Fideism; franc. Fidéisme; ted. Fideismus). Si
chiamò con questo termine l’indirizzo filosofico-religioso sostenuto, nei primi
decenni del sec. xrx, dall’abate Bautain, da Huet, da Lamennais e da
quest’ultimo specialmente nell'opera Essais sur l’indifférence en matière de
religion (1817-23): indirizzo che consiste nel contrap- porre alla ragione «
individuale » una ragione « co- mune » che sarebbe una specie di intuizione
delle verità fondamentali comuni a tutti gli uomini. Questa intuizione
troverebbe la sua origine in una rivela- zione primitiva e si trasmetterebbe
mediante la tradizione ecclesiastica; essa sarebbe perciò a fon- damento della
fede cattolica. La dottrina era diretta a giustificare il primato della
tradizione ecclesia- stica. In realtà negava alla chiesa la prerogativa di
essere l’unica depositaria della tradizione au- tentica e negava alla
tradizione l’appoggio della ragione. Dopo la condanna della chiesa (1834), il
termine assunse, presso gli scrittori cattolici, un significato peggiorativo.
Si continuò tuttavia e si continua a usare, per indicare in generale ogni
atteggiamento che veda nella fede uno strumento di conoscenza superiore alla
ragione e indipendente dalla ragione stessa. 390 FIGURA (gr. oyfpua; lat.
Figura; ingl. Figure; franc. Figure; ted. Figur, Gestalt). 1. Con questo
termine sono tradizionalmente chiamate le forme fondamentali del sillogismo,
distinte dai modi (v.) che sono specificazioni di tali forme. Aristotele di-
stinse le varie figure del sillogismo a seconda della funzione del termine
medio che è quello che serve a dimostrare l’inerenza del predicato al soggetto
della conclusione. Nella prima F., il termine medio fa da soggetto nella
premessa maggiore e da pre- dicato nella premessa minore. Nella seconda F., fa
da predicato in entrambe le premesse, una delle quali è negativa, e la
conclusione è anche negativa. Nella rerza F., fa da oggetto in entrambe le
premesse e la conclusione è particolare. La tradizione at- tribuisce a Galeno,
il famoso medico e filosofo aristotelico del rr secolo d. C., la distinzione di
una quarta F., cioè quella nella quale il termine medio funge da predicato nella
premessa maggiore e da soggetto nella premessa minore: i modi di questa F.
erano stati compresi da Aristotele tra quelli della prima. La separazione fu
fatta perchè si definì come premessa maggiore quella che comprende il predi-
cato della conclusione e come premessa minore quella che comprende il soggetto
della conclusione stessa (PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 570 sgg.). Ogni
F. si distingue a sua volta in un certo numero di modi a seconda della qualità
e della quantità delle proposizioni costituenti le premesse e la conclusione:
cioè a seconda che le premesse e la conclusione sono, ciascuna, universale o
partico- lare, affermativa o negativa. Poichè nella Scolastica si adoperò la
lettera A per indicare la proposizione universale affermativa, la lettera E per
indicare quella universale negativa, la lettera Z per indicare la proposizione
particolare affermativa e la let- tera O per indicare laproposizione
particolare ne- gativa (donde i versi: A affirmat, negat E, sed uni- versaliter
ambae, I firmat, negat O, sed particulariter ambae), si formarono parole
mnemoniche per in- dicare i vari modi del sillogismo cioè parole, nelle quali
le prime due vocali indicano le premesse e la terza la conclusione. Così i nove
modi della prima F. furono indicati con le parole: Barbara, Celarent, Darii,
Ferio, Baralipton, Celantes, Debitis, Fapesmo, Frisemorum. I quattro modi della
seconda F. furono indicati con le parole: Cesare, Camestres, Festino, Baroco. I
sei modi della terza F. furono indicati con le parole: Darapti, Felapto,
Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Gli ultimi quattro modi della prima F. sono
quelli che si attribuiscono alla quarta F., quando viene distinta. Le iniziali
delle parole mnemoniche hanno anche un signifi- cato. Tutti i modi indicati da
una parola che co- mincia con 8 sono riducibili al primo modo della prima F.;
quelli indicati da una parola che co- FIGURA mincia con C sono riducibili al
secondo modo della prima F.; quelli indicati da una parola che comincia con D
al terzo e quelli indicati con una parola che comincia con F al quarto modo
della prima F. (cfr. sull’uso delle parole mnemoniche Pietro Ispano, Summ.
Log., 4.18 sgg.). Per i sin- goli modi, v. le relative parole. 2. Con lo stesso
termine, che traduce il tedesco Gestalt, si indicano le determinazioni della
feno- menologia dello spirito di Hegel. Queste determina- zioni sono « figure
della coscienza » (Phdnomen. des Geistes, pref., ed. Glockner, pag. 36 e
passim) o « gradi della via già tracciata e spianata » dallo Spi- rito universale;
cioè tappe attraverso le quali la coscienza è giunta alla coscienza di sè come
Co- scienza infinita o assoluta. Come è noto, tra le F. della fenomenologia
Hegel include anche crea- zioni fantastiche: il che stabilisce una differenza
fra tali F. e le caregorie che costituiscono l’oggetto dell’Enciclopedia. Le
categorie sono infatti deter- minazioni necessarie e necessariamente reali.
FIGURAE DICTIONIS (FALLACIA). Pa- ralogismo in dictione (v. FALLACIA),
consistente in un erroneo uso grammaticale nelle premesse, che genera
conseguenze paradossali o conseguenze gram- maticalmente impossibili (a Omnis
homo est albus, mulier est homo, ergo mulier est albus»). Cfr. ARI- STOTELE,
Soph. El., 4, 166b 10; Pietro IsPano, Summ. Log., 7.34 sgg.; JunGIUs, Logica
Hamb., VI, 7; ecc. G. P. FILANTROPIA (gr. puav9porta; lat. Philan- thropia;
ingl. Philanthropy; franc. Philanthropie; ted. Philanthropie). L'amicizia
dell’uomo verso l’altro uomo. Così la intesero Aristotele (Et. Nic., VIII, 1,
1155, a. 20) e gli Stoici, i quali la attribui- rono al legame naturale per cui
tutta l'umanità costituisce un solo organismo. «Ne deriva, dice Cicerone, che è
naturale anche la reciproca solida- rietà degli uomini tra loro, per cui
necessariamente un uomo non può risultare un estraneo per un altro uomo, per il
fatto stesso che è uomo» (De fin., III, 63). Diogene Laerzio ne attribuisce il
con- cetto anche a Platone, che l’avrebbe diviso in tre aspetti: il saluto,
l’aiuto, l’ospitalità (Diog. L., III, 98). Nel linguaggio moderno, il significato
del termine si è ristretto al secondo degli aspetti di- stinti da Platone.
L'atteggiamento generale di be- nevolenza verso gli uomini è spesso oggi
chiamato altruismo (v.). FILAUTIA. V. AMOR DI sè. FILODOSSIA (gr. quodotta;
lat. Philodoxy; franc. Philodoxie; ted. Philodoxie). La parola (che
propriamente significa «amore di gloria +) fu ado- perata da Platone per
indicare gli «amanti della opinione » in contrapposizione agli « amanti della
scienza » che sono i filosofi. Gli amanti dell’opi- FILOSOFIA nione sono quelli
a cui piace ascoltare belle voci, guardare bei colori, ecc., ma che sono alieni
dal considerare il bello come un essere a sè (Rep., V, 480 a). Kant ha chiamato
F. l’atteggiamento di coloro che rigettano non solo il metodo della cri- tica,
da lui proposto, ma anche il metodo della fondazione di Wolff, che consiste nel
procedere stabilendo i princìpi, definendo i concetti e cercando il rigore
nelle dimostrazioni (Crift. R. Pura, Pre- fazione alla 28 ediz.). FILOGENESI.
V. BiogENETICA, LEGGE. FILOLOGIA (gr. quoroyla; lat. Philologie; ingl.
Philology; franc. Philologie; ted. Philologie).
Amore dei discorsi, intendeva Platone (Teer., 161 a) con questa parola che,
nell’età moderna, è passata a designare la scienza della parola o meglio lo
studio storico del linguaggio. Vico contrappose filo- sofia e F.: « La
filosofia contempla la ragione onde viene la scienza del vero; la F. osserva
l’autorità dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo + (Scienza
Nuova, degn. 10). Compito dei filo- logi sarebbe « la cognizione delle lingue e
dei fatti dei popoli ». F. e filosofia si completano nel senso che i filosofi
dovrebbero « accertare » le loro ragioni con l'autorità dei filologi e i
filologi dovrebbero «avverare » le loro autorità con la ragione dei filo- sofi.
Nel concetto moderno, la F. è la scienza che ha per fine la ricostruzione
storica della vita del passato attraverso il linguaggio e quindi i docu- menti
letterari di esso. I progetti e i risultati di questa scienza, così come si è
venuta formando soprattutto nel sec. xIx, vanno perciò molto al di là del
modesto compito, al quale avrebbero vo- luto confinarla i filosofi
dell’idealismo romantico. Già Hegel polemizzava contro «i filologi » cioè gli
storici che facevano il loro mestiere, in nome della storia filosofica, la sola
capace di scoprire a priori il piano provvidenziale del mondo (Philosophie der
Geschichte, ed. Lasson, pag. 8 sgg.). Croce nello stesso senso chiamava storia
filologica la storia degli storici alla quale contrapponeva la storia « specu-
lativa » che identificava con la filosofia (CROCE, Teoria e storia della
storiografia, 1917; La storia come pensiero e come azione, 1938). In realtà, la
storia filologica è la storia degli storici, mentre la storia speculativa non è
che la concezione provvidenzialistica del mondo storico, che non ha nulla a che
fare con la storiografia scien- tifica (v. STORIOGRAFIA). L'aggettivo
filologico non può neppure essere applicato a designare forme piatte e mal
riuscite di storiografia giacchè la F. non è per nulla responsabile di esse. E
anche quella funzione di conservazione e di ripristino del ma- teriale
documentario e delle fonti che Nietzsche chiamò storia archeologica (v.) non è
un tipo infe- riore di storia, perchè è possibile solo sul fonda- 391 mento di
un interesse intelligente che guidi le scelte opportune e le faccia servire
all’opera della critica e della ricostruzione storica. FILOSOFEMA (gr.
quootpnua; lat. Philoso- phema; ingl. Philosopheme; franc. Philosophème; ted.
Philosophem). In generale, discorso filosofico. Nella logica di Aristotele
(Top., VIII, 11, 162 a 15) è il «ragionamento dimostrativo». Fuori della
logica: concetto o luogo comune filosofico. In questo secondo senso è usato da
Aristotele stesso (De caelo, II, 13, 294a 19) e dalla tradizione po- steriore.
G. P.-N. A. FILOSOFIA (gr. quocopla; lat. Philosophia; ingl. Philosophy; franc.
Philosophie; ted. Philoso- phie). La disparità delle F. si riflette ovviamente
nella disparità dei significati di « F. » senza tuttavia impedire di riconoscere
in essi alcune costanti. Fra esse, meglio si presta a connettere e articolare i
significati diversi del termine la definizione illu- strata nell’Eutidemo
platonico: la F. è l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo. Platone osserva che
a nulla servirebbe possedere la scienza di conver- tire le pietre in oro se non
si sapesse servirsi del- l'oro; a nulla servirebbe la scienza che rendesse
immortale se non si sapesse servirsi dell’immorta- lità; e via dicendo. Occorre
dunque una scienza nella quale coincidono il fare e il sapersi servire di ciò
che si fa; e questa scienza è la F. (Eurid., 288 e-290 d). Secondo questo
concetto, la F. im- plica: 1° il possesso o l'acquisto di una conoscenza che
sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile; 2° l’uso di questa
conoscenza a vantaggio dell’uomo. Questi due elementi ricorrono frequen-
temente nelle definizioni che sono state date della F. in epoche diverse e da
diversi punti di vista. Essi si riscontrano, per es., nella definizione di
Cartesio, secondo la quale «questa parola F. significa lo studio della saggezza
e per saggezza non s’intende soltanto la prudenza negli affari ma una perfetta
conoscenza di tutte le cose che l’uomo può cono- scere sia per la condotta
della sua vita sia per la conservazione della sua salute e l’invenzione di
tutte le arti» (Princ. Phil., Pref.). Si ritrovano ugualmente nella definizione
di Hobbes, per la quale la F. è da un lato conoscenza causale, dal- l'altro
utilizzazione di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo (De Corp., 1, $ 2, 6);
e in quella di Kant che definisce il concetto cosmico della F. (cioè il
concetto di essa che interessa necessariamente ogni uomo) come quello di « una
scienza della re- lazione di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione
umana» (Crift. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III). Questo fine
essenziale è la « feli- cità universale»: la F. pertanto «riferisce tutto alla
saggezza, ma per la via della scienza» (/bid., in fine). Non diverso
significato ha la definizione 392 della F. data da Dewey come «critica dei
valori » cioè « critica delle credenze, delle istituzioni, dei co- stumi, delle
politiche, rispetto alla loro portata sui beni» (Experience and Nature, pag.
407). Queste definizioni (che si adducono qui solo come esempi) si lasciano
tutte ricondurre alla formula platonica che abbiamo citato in principio. Quella
formula ha il vantaggio di non assumere nulla circa la natura e i limiti del
sapere accessibile all'uomo o circa gli scopi cui l’uso può essere indirizzato.
Si può per- tanto intendere quel sapere sia come rivelazione o possesso sia
come acquisto o ricerca; e l’uso di esso può essere inteso come diretto alla
salvezza ultra- mondana o terrena dell’uomo come all’acquisto di beni
spirituali o materiali o alla realizzazione di rettifiche o mutamenti nel
mondo. Pertanto quella formula appare adatta ugualmente ad esprimere i compiti
disparati che la F. si è di volta in volta assunti. E, per es., essa esprime
egualmente bene sia il compito delle F. positive o dogmatiche sia quello delle
F. negative o scettiche. Quando lo scetticismo antico si propone di realizzare,
mediante la sospensione dell’assenso, l’imperturbabilità del- l’anima (Sesto
E., /p. Pirr., I, 25-27) non fa che intendere la F. come l’uso di un certo
sapere per conseguire un vantaggio. Analogamente quando, nella F.
contemporanea, Wittgenstein afferma che lo scopo della F. è quello di far
sparire gli stessi problemi filosofici e di eliminare la F. stessa o di «
guarire» da essa (Philosophical Investigations, $ 133) non fa appello ad un
concetto diverso di F.: la liberazione dalla F. è il vantaggio che l’uso del
sapere (che è in questo caso la rettificazione lin- guistica di esso) può
procurare. I due elementi riconoscibili della definizione della F., che si è
ritenuta adatta ad apprestare il quadro delle articolazioni principali del
significato del termine, costituiscono già di per se stessi la prima di tali
articolazioni. Si possono in altri ter- mini distinguere i significati
storicamente dati del termine: 1° rispetto alla natura o alla validità del
sapere cui la filosofia fa riferimento; 2° rispetto alla natura dello scopo cui
la F. intende indiriz- zare l’uso di questo sapere. Infine, 3° si possono
distinguere i significati del termine rispetto alla natura del procedimento che
si ritiene proprio della filosofia. I. La filosofia e il sapere. — L’uso del
sapere al quale l'uomo, a qualsiasi titolo, accede, è, in primo luogo, un
giudizio sull’origine o la validità di tale sapere. E a proposito del giudizio
sulla va- lidità del sapere, si offrono subito due alternative fondamentali che
stabiliscono la distinzione fra due tipi diversi ed opposti di filosofia. La
prima alter- nativa stabilisce l’origine divina del sapere: esso è per l’uomo
una rivelazione o un dono. La seconda FILOSOFIA alternativa stabilisce
l’origine umana del sapere: esso è un acquisto o una produzione dell’uomo. La
prima alternativa è la più antica e la più fre- quente nel mondo, dal momento
che è quella di gran lunga prevalente nelle F. orientali. La seconda
alternativa è quella sorta in Grecia e di cui il mondo occidentale moderno è
l’erede. A) Secondo la prima alternativa, il sapere è una rivelazione o
illuminazione divina di cui sono stati privilegiati uno o più uomini e che si
tra- smette per tradizione in un gruppo altrettanto pri- vilegiato di uomini
(casta, setta o chiesa). Esso non è quindi accessibile ai comuni mortali se non
per il tramite di coloro che ne sono i depositari; nè è possibile, ai comuni e
non comuni mortali, incre- mentarne il patrimonio o giudicarne la validità. Fa
parte integrante di questa interpretazione dell’ori- gine del sapere la
credenza che anche l’uso di esso a vantaggio dell'uomo — vantaggio che in
questo caso è la «salvezza» — sia dettato o prescritto dalla rivelazione o
illuminazione divina. Sembra dunque che questa interpretazione elimini o renda
superfluo il «lavoro » filosofico che verte appunto su quest’uso. Ma in realtà
ciò accade di rado. L'esigenza di avvicinare la verità rivelata alla co- mune
comprensione umana, di adattarla alle cir- costanze e far sì che essa risponda
ai problemi nuovi o mutati che gli uomini si pongono, di di- fenderla contro
negazioni, deviazioni, incredulità dichiarate o nascoste, fa sì che il lavoro
filosofico trovi, in questa concezione del sapere, un vasto campo per
esplicarsi e compiti molteplici cui far fronte. Tale lavoro rimane però
subordinato e ancillare: non è e non può essere decisivo, quando si tratta
delle interpretazioni fondamentali e delle istanze ultime. Trova nella rivelazione
e nella tra- dizione limiti insuperabili che gli vietano ogni pos- sibilità di
sviluppo in direzioni diverse da quelle che esse determinano. Non può
combattere e di- struggere le credenze stabilite, opporsi radicalmente alla
tradizione, promuovere o progettare rinnova- menti radicali. La sua funzione è
quella di con- servare le credenze stabilite, non di rinnovarle o rettificarle:
è perciò una funzione subordinata e strumentale, priva della autonomia e della
dignità di una forza direttiva. Si è già detto che quasi tutte le F. orientali
sono di questa natura: il che ha fatto talora dubitare che possano chiamarsi
filosofie. Ma in realtà lo stesso mondo occidentale offre frequentemente esempi
di F. di questo genere, per quanto nes- suna di esse presenti in tutto il loro
rigore i ca- ratteri ora esposti. Dal nome del più importante di questi esempi,
le forme che questo tipo di F. ha assunto nel mondo occidentale si possono
chia- mare scolastiche. Una scolastica, a differenza di una FILOSOFIA F. di
schietto tipo orientale, presuppone una F. au- tonoma e si avvale di essa; ma
se ne avvale per la difesa e l'illustrazione di una verità religiosa cioè per
confermare o difendere credenze la cui validità si ritiene stabilita in
anticipo e indipendentemente da ogni conferma o difesa. Una scolastica, come
dice la parola stessa, è essenzialmente uno stru- mento di educazione: serve ad
avvicinare l’uomo, per quanto è possibile, a un sapere ritenuto immu- tabile
nelle sue linee fondamentali, perciò non su- scettibile di essere rettificato o
rinnovato. Tra i compiti, d’altronde molteplici come sono molte- plici le vie
di accesso dell'uomo alla verità e gli ostacoli che si incontrano su queste
vie, che una F. scolastica riconosce a se stessa, non c’è l’eventuale abbandono
delle credenze di cui essa è l’interprete. Le sètte filosofico-religiose del n
secolo a. C. (per es., gli Esseni), le dottrine di Filone di Alessandria (1
secolo d. C.) e di molti Neoplatonici, la F. isla- mica e giudaica, la
Patristica e la Scolastica nonchè, nel mondo moderno, l’occasionalismo,
l’immate- rialismo, la Destra hegeliana e buona parte dello spiritualismo
contemporaneo, sono scolastiche nel senso ora chiarito: cioè F. che consistono
nell’uti- lizzare una determinata dottrina (il platonismo, l’aristotelismo, il
cartesianesimo, l’empirismo, l’idea- lismo, ecc.) per la difesa e
l’interpretazione di cre- denze che non possono, attraverso questo lavoro,
essere revocate in dubbio, rettificate o negate. Cer- tamente queste diverse
scolastiche posseggono gradi di libertà diversi e tali gradi variano talvolta,
per ciascuna di esse, da un periodo all’altro. S. Tom- maso, per es., mentre
conferisce alla « F. umana» una certa autonomia in quanto riconosce propria di
essa la considerazione e lo studio delle cose create in quanto tali cioè la
loro natura e le loro proprie cause (Contra Gent., II, 4), ritiene tuttavia
impossibile che essa possa contraddire le afferma- zioni della fede cristiana
la quale dev’essere assunta come regola del corretto procedere della ragione
(Ibid., 1, 7). Per quanto F. di questo genere pos- sano conseguire risultati
importanti, che entrano a far parte del patrimonio filosofico comune, il loro
ambito è strettamente delimitato dal problema su cui sono impostate, della
difesa delle credenze tradizionali: le loro possibilità non si estendono alla
rettificazione e al rinnovamento di tali cre- denze. B) Per la seconda
alternativa, il sapere è un acquisto o una produzione dell’uomo. Il fonda-
mento di questa concezione è che l’uomo è un « ani- male ragionevole » e che
perciò « tutti gli uomini, come dice Aristotele all’inizio della Metafisica
(980 a 21), tendono per natura al sapere»: ten- dono vuol dire qui che non solo
lo desiderano ma possono conseguirlo. Il sapere, da questo punto di 393 vista,
non è privilegio o patrimonio riservato di pochi; ognuno può contribuire al suo
acquisto e al suo incremento e ha perciò voce in capitolo per giudicarlo: cioè
per approvarlo o rigettarlo. La ricerca e l’organizzazione del sapere è, da
questo punto di vista, il compito fondamentale della filo- sofia. Quando
Tucidide (II, 40) fa dire a Pericle: «Noi amiamo il bello con moderazione e
filoso- fiamo senza timidezza» esprime certamente l’at- teggiamento dello
spirito greco dal quale è nata la F. in questo secondo significato del termine.
Pericle non alludeva a una disciplina specifica ma alla ricerca del sapere
condotta senza impegni pre- giudiziali o con l’unico impegno di saggiare e
mettere a prova ogni credenza possibile. In questo senso la F. è una creazione
originale dello spirito greco e una condizione permanente della cultura
occidentale. Essa è l’impegno che ogni ricerca, in qualsiasi campo condotta,
obbedisca soltanto alle limitazioni o alle regole che essa stessa riconosca
valide in vista della propria possibilità e della propria efficacia
discopritrice o confermatrice. La F. in questo senso si contrappone alla
tradizione, al pregiudizio, al mito, e in generale alla credenza infondata o
non giustificata che i Greci chiamavano opinione. Il contrasto tra l’opinione e
la scienza, tra l’amore dell’opinione e l’amore della sapienza, è quello su cui
più frequentemente insiste Platone nel chiarire il concetto di F. (Rep., V, 480
a). La F. come ricerca è da Platone contrapposta da un lato all’ignoranza dall’altro
alla sapienza. L'ignoranza è l’illusione della sapienza e distrugge l'incentivo
della ricerca (Conv., 204 a). Dall’altro lato la sa- pienza, che è il possesso
della scienza rende inutile la ricerca: gli Dei non filosofano (/bid., 204 a;
Teet., 278 d). La ricerca definisce lo status proprio della filosofia. Già
Eraclito aveva detto: « È neces- sario che gli uomini filosofi siano buoni
indagatori di molte cose» (Fr. 35, Diels). In quanto ricerca, la F. è
«acquisto», come diceva Platone (Eutid., 288 d), o « sforzo », come dicevano
gli Stoici (SESTO EMPIRICO, Adv. Math., IX, 13) o «attività », come dicevano
gli Epicurei (/bid., XI, 169). Ma se la F. è l’impegno che fa del sapere una
ricerca, essa condiziona il sapere effettivo, che è «conoscenza » o «scienza ».
Nel giudizio che la F. stessa dà su di esso, questo condizionamento può
assumere tre forme che definiscono tre conce- zioni fondamentali della F.,
quella metafisica, quella positivistica e quella critica. 1° Per la prima di
esse, la F. è l’unico sapere possibile e le altre scienze, in quanto tali,
coincidono con essa o sono parti o preparazione di essa; 2° per la seconda di
esse, la conoscenza è propria delle scienze particolari e la F. ha il compito
di coordinare o unificare i loro risultati; 3° per la terza di essa, la F. è
giudizio 394 sul sapere cioè valutazione delle sue possibilità e dei suoi
limiti, in vista del suo uso umano. 1° La prima concezione della F. è quella
me- tafisica, dominante nell’antichità e nel Medioevo e che ancora oggi è propria
di molti indirizzi filosofici. La sua caratteristica principale è la negazione
di ogni possibilità di ricerca autonoma fuori della filo- sofia. Una conoscenza
o è conoscenza filosofica o non è conoscenza affatto. Si ammette spesso che
esista, fuori della F., un sapere imperfetto, provvi- sorio o preparatorio; ma
si nega che tale sapere possegga, per suo conto, validità conoscitiva. Così
Platone da un lato chiama « F.» la geometria e le altre scienze specialmente in
riferimento alla loro funzione educativa (Teer., 143 d; Tim., 88 c); dall'altro
considera tali scienze (aritmetica e geo- metria, astronomia e musica) come
semplicemente propedeutiche alla F. vera e propria cioè alla dia- lettica, la
quale avrebbe fra l’altro il compito di «scoprire la comunanza e la parentela
reciproca delle scienze e dimostrare le ragioni per cui sono connesse l’una con
l’altra » (Rep., VII, 531 d). Ari- stotele definisce la F. come la «scienza
della ve- rità » (Mer., II, 1, 993b 20) nel senso che essa comprende tutte le
scienze teoretiche cioè la F. prima, la matematica e la fisica e lascia fuori
di sè soltanto l’attività pratica: ma anche questa deve ricorrere alla F. per
essere in chiaro della propria natura e dei propri fondamenti. Sia Platone che
Aristotele ammettono come scienza prima una di- sciplina determinata, che per
Platone è la dialettica, per Aristotele è la F. prima o teologia; ma questa
disciplina determinata è per essi anche la più ge- nerale. La dialettica
infatti, come si è visto, con- sente di intendere il collegamento e la natura
comune delle scienze; e la F. prima, come scienza dell’es- sere in quanto
essere, ha per oggetto specifico quell’essenza necessaria o sostanza, che è
compito di ogni scienza indagare nel suo campo particolare (De part. anim., I,
5, 645 a 1). Altre volte, invece, la F. viene risolta nelle discipline
particolari senza che nessuna di esse risulti privilegiata. Così facevano gli
Epicurei che la dividevano in canonica, fisica ed etica (Dio. L., X, 29-30); e
gli Stoici che la di- videvano in logica, fisica ed etica (AEZIO, Plac., I, 2)
considerando queste tre parti unite fra loro come le membra di un animale
(Dios. L., VII, 40). Questa concezione, che identifica l’intero sapere con la
F. e si rifiuta di riconoscere che ci sia o possa esserci un sapere autentico
fuori di essa, è sopravvissuta anche alla costituzione delle scienze
particolari in discipline autonome e s’è conservata sostanzialmente immutata,
in certe correnti filoso- fiche, sino ai giorni nostri. La definizione che
Fichte dette della F. come di una «scienza della scienza in generale» (Uber den
Begriff der Wissenschafts- FILOSOFIA lehre oder der sogenannten Philosophie,
1794, $ 1) non lascia alcuna autonomia alle scienze particolari perchè, secondo
quella definizione, la dottrina della scienza « deve dare la sua forma non
soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre scienze possibili » e costituire
così, il « sistema compiuto ed unico nello spirito umano » (/bid., $ 2). Questa
pretesa si è mantenuta inalterata in tutte le definizioni che l’idealismo
romantico ha dato della filosofia. Non altro significato hanno le notazioni di
Schelling, secondo il quale il compito della F. è di chiarire l'accordo (che è
poi identità) dell’oggettivo e del soggettivo cioè della natura e dello spirito,
e nel portare così a compimento la « tendenza necessaria di tutte le scienze
naturali » (System des transzenden- talen Idealismus, 1800, Intr., $ 1).
Esplicitamente Hegel affermava che «le scienze particolari si oc- cupano degli
oggetti finiti e del mondo dei feno- meni » (Geschichte der Philosophie, Intr.,
A, $ 2; trad. ital., I, pag. 69); e che «altra cosa è il pro- cesso di origine
e i lavori preparatori di una scienza, altra cosa la scienza stessa» nella
quale quelli scompaiono per essere sostituiti dalla « necessità del concetto »
(Enc., $ 246). Questo vuol dire che sola la F. è scienza perchè solo essa
dimostra «la necessità del concetto », utilizzando e manipolando a suo modo
(come Hegel in realtà fece) il ma- teriale apprestato dalle cosiddette scienze
empi- riche. Pertanto Hegel riservava alla F. il privi- legio di essere «la
considerazione pensante degli oggetti » (/bid., $ 2). La conoscenza preliminare
o preparatoria è quella che si appoggia su rap- presentazioni; la conoscenza
vera e propria si ha quando, con la F., «lo spirito pensante, attra- verso le
rappresentazioni e lavorando sopra di esse, progredisce alla conoscenza
pensante e al concetto » (Zbid., $ 1). È chiaro che, espresso in questa forma,
il concetto della F. come totalità del sapere è una professione di superbia
filosofica, che era estranea a questo stesso concetto nell’età clas- sica. In
questa età, infatti, quel concetto agiva come lo specifico impegno delle
discipline scientifiche che da esso venivano immesse nella sfera della ricerca
disinteressata e incoraggiate e sorrette nel loro costituirsi concettuale. Ma
nella concezione del- l’idealismo romantico, le scienze particolari ven- gono
abbassate alla funzione di una mera mano- valanza, priva di qualsiasi validità
intrinseca. A questa stessa funzione riducono la scienza sia l’idea- lismo, sia
lo spiritualismo. La definizione della F. come «teoria generale dello spirito »
porta Gentile a considerarla come la coscienza che l'Io assoluto ha di se
stesso: coscienza di cui le conoscenze em- piriche, fondate sulla distinzione
dell’oggetto dal soggetto e degli oggetti tra di loro, è una falsa astrazione
(Teoria generale dello spirito, 1916, ca- FILOSOFIA pitolo 15, $ 2). E
nonostante la meno appariscente formulazione, la definizione data da Croce
della F. come « metodologia della storiografia », implica la stessa superbia
filosofica. Per Croce la conoscenza storica è l’unica conoscenza possibile,
dato che la storia è l’unica realtà: pertanto la riduzione della F. a
metodologia di tale conoscenza equivale a negare che sia conoscenza il sapere
scientifico: che, infatti, è, per Croce, non un sapere ma un insieme di espe-
dienti pratici (La storia, 1938, pag. 144; Logica, 1908, I, cap. 2). Dall'altro
lato, lo spiritualismo contemporaneo segue prevalentemente la stessa strada.
Bergson fa dell’intuizione l’organo della F. perchè vede nell’intuizione « la
visione diretta dello spirito da parte dello spirito» (La pensée et le mouvant,
3* ediz., 1934, pag. 51) cioè lo strumento per attingere, immediatamente e
infallibilmente, quella « durata reale » che è la realtà assoluta. Il suo
riconoscimento della scienza come conoscenza adeguata del mondo materiale o
delle «cose» è puramente fittizio: nè la materia nè le cose hanno per Bergson
realtà come tali perchè non sono che coscienza e la coscienza può essere
autenticamente conosciuta soltanto dalla coscienza stessa: « Son- dando la sua
propria profondità la coscienza non penetra pure nell’interno della materia,
della vita, della realtà in generale? Si potrebbe contestarlo solo se la
coscienza si aggiungesse alla materia come un accidente, ma noi crediamo d’aver
mostrato che una simile ipotesi è assurda o falsa, secondo il lato per cui la
si prende, contraddittoria in se stessa o contraddetta dai fatti » (/bid., pag.
156-57). Il concetto della F. come conoscenza privilegiata (su qualsiasi titolo
poi si appoggi il privilegio) non è che una delle tante espressioni del vecchio
concetto della F. come sapere unico ed assoluto. Le tendenze che si sogliono
chiamare « metafi- siche+ del pensiero moderno sono appunto ca- ratterizzate da
questo concetto della filosofia. Hus- serl così espone l’ideale cartesiano
della F. che egli dichiara di far proprio: « Ricordiamo l’idea diret- tiva
delle Meditazioni di Cartesio. Essa mira a una riforma totale della F. per fare
di questa una scienza a fondamenti assoluti. Questo implica, per Car- tesio,
una riforma parallela di tutte le scienze giacchè queste non sono che membri di
una scienza univer- sale che non è altro che la filosofia. Solo nell’unità
sistematica di questa, esse possono diventare ve- ramente scienze» (Carr. Med.,
1931, $ 1). Nella sua ultima opera Husserl poneva, come prima con- dizione
della filosofia: « un’epoché da qualsiasi as- sunzione delle nozioni delle scienze
oggettive, da qualsiasi presa di posizione critica intorno alla ve- rità o
falsità della scienza, un’epoché persino dal- l’idea direttiva della scienza,
dall’idea di una cono- scenza oggettiva del mondo» (Krisis, $ 35). 395 Alla
stessa negazione della scienza mettono capo, nonostante l’ampio riconoscimento
della validità del metodo scientifico, le considerazioni di Jaspers sulla
natura della F., giacchè negano autonomia di strut- tura e di validità alle
scienze particolari (Phil., I, pag. 53 sgg.; Existenzphil., 1938, Intr.). Una
svalu- tazione ancora più radicale delle scienze particolari è effettuata da
Heidegger, per il quale i presupposti della scienza moderna sono l'oblio
dell'essere, la ri- duzione dell’uomo a soggetto e del mondo a rap- presentazione
(Brief Qber den « Humanismus», in Platos Lehre von der Wahrheit, 1947, pag.
88). 2° La seconda concezione della F. come giu- dizio sul sapere è quella che
tende a risolverla nelle scienze particolari, affidandole talvolta la fun-
zione specifica di unificare le scienze stesse o di raccoglierne i risultati in
una « visione del mondo ». L’origine di questa concezione si può vedere in
Bacone; il quale concepì la F. come una scienza che in primo luogo dividesse e
classificasse le scienze particolari e poi mettesse tali scienze in possesso
del loro metodo, del materiale di cui disporre e delle tecniche con cui
utilizzare questo materiale a vantaggio dell’uomo. Nel De Dignitate et
augmentis scientiarum (1623), abbozzando il piano di una en- ciclopedia delle
scienze su base sperimentale, Bacone affidava alla « F. prima» da lui
considerata come «scienza universale e madre delle altre scienze » il compito
di raccogliere « gli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma
comuni a più scienze (De Augm. Scient., III, 1). Hobbes a sua volta
identificava la F. con la conoscenza scienti- fica. «La F., egli dice, è la
conoscenza acquisita, attraverso il corretto ragionamento, degli effetti o
fenomeni a partire dai concetti delle loro cause o generazioni; o reciprocamente
la conoscenza acqui- sita delle generazioni possibili a partire dagli effetti
conosciuti » (De Corp., 1, $ 2). Da questo concetto della F. come coincidente
con la conoscenza scien- tifica e come impegno di chiarirla ed estenderla
derivò quell’uso inglese del termine sul quale già Hegel richiamava
l’attenzione (Enc., $ 7 e nota; Geschichte der Phil., Intr., A, 2; trad. ital.,
I, pag. 70) secondo il quale il termine si applicava non solo alla scienza
della natura ma anche a certi strumenti come termometri, barometri, ecc.,
nonchè ai prin- cìpi generali della politica: un uso, quest’ultimo, che si è
conservato nei paesi anglosassoni. Per io stesso Cartesio, la F. comprendeva «
tutto ciò che lo spirito umano può sapere » e così veniva in larga misura a
coincidere con le ricerche scientifiche, che d'altronde Cartesio voleva tutte
ricondotte a certi principi fondamentali (Princ. Phil, Pref.). L'intero
Illuminismo condivise il concetto della F. come conoscenza scientifica. «
Filosofo, amatore della saggezza cioè della verità», diceva Voltaire 396 (Dicr.
Phil., art. Philosophe). E lo stesso Wolff ammetteva, accanto alle scienze «
razionali » in cui divideva la F., corrispondenti scienze empiriche, dotate di
un metodo autonomo, che è quello spe- rimentale. Per es., accanto alla
cosmologia generale o scientifica, Wolff ammette una cosmologia spe- rimentale
« che trae dalle osservazioni la teoria che è stabilita o è da stabilirsi nella
cosmologia scienti- fica » (Cosm., $ 4); e riconosce che è possibile, seb- bene
non facile che l’intera teoria della cosmologia generale sia derivata dalle
osservazioni (Zbid., $ 5). Nell'ambito di questo significato, il positivismo
sottolineò la funzione propria della filosofia di riu- nire e coordinare i
risultati delle scienze singole, in modo da realizzare una conoscenza unificata
e generalissima. Questo fu il compito che alla F. as- segnarono Comte e
Spencer. Comte vuole che accanto alle scienze particolari ci sia uno « studio
delle generalità scientifiche », che egli fa corrispon- dere alla «F. prima» di
Bacone. Questo studio dovrebbe « determinare esattamente lo spirito di ciascuna
scienza, scoprire le relazioni e il concate- namento fra le scienze,
riassumere, possibilmente, tutti i loro princìpi propri nel minimo numero di princìpi
comuni, conformandosi incessantemente alle massime fondamentali del metodo
positivo » (Cours de phil. positive, lez. 1, $ 7; lez. 22, $ 3). Il concetto
della F. come scienza generalizzatrice e unificatrice dei risultati delle altre
scienze è stato ed è largamente diffuso nella F. moderna e contem- poranea. È
stato infatti accettato non solo dalle cor- renti positivistiche ma anche da
dottrine spirituali- stiche; le quali ultime talora hanno aggiunto ad esso una
determinazione o condizione limitatrice: quella generalizzazione e unificazione
deve costi- tuire un'immagine del mondo che soddisfi i bisogni del cuore.
Questa è la definizione appunto che della F. dette Wundt: che riconobbe la sua
fun- zione nella « ricapitolazione delle conoscenze parti- colari in una
intuizione del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell’intelletto e i
bisogni del cuore » (Syst. der Phil., 4* ediz., 1919, I, pag. l; Einleitung in
die Phil., 3* ediz., 1904, pag. 5). Da questo punto di vista la F. «è la
scienza universale che deve unificare in un sistema coerente le cono- scenze
universali fornite dalle scienze particolari »: un concetto che ricorre molto
frequentemente nella letteratura filosofica degli ultimi decenni del se- colo
xrx e nei primi del sec. xx in quanto permette alla F. di utilizzare ampiamente
i risultati che la ricerca positiva consegue sia nel campo delle scienze
naturali sia in quello delle scienze dello spirito. Talvolta si tende ad
accentuare, in questa direzione, il carattere unitario e totalitario di questa
scienza universale; in tal caso, come nella definizione di Wundt, la si
considera come una intuizione o FILOSOFIA visione del mondo. Questo concetto è
una deter- minazione ulteriore del concetto della F. come «scienza universale »
cioè unificatrice e generaliz- zatrice. Dice Mach: « Il filosofo cerca di
orientarsi nell’insieme dei fatti in un modo universale, il più completo
possibile... Solo la fusione delle scienze speciali apporterà la concezione del
mondo verso la quale tendono tutte le specialità » (£r- kenntniss und Irrtum,
cap. 1; trad. franc., pag. 14-15). Dilthey mostrò bene questa connessione tra
la F. e le scienze speciali quando scrisse: « La storia della F. trasmette al
lavoro filosofico sistematico i tre problemi della fondazione, della
giustificazione e della connessione delle scienze particolari, insieme al
compito di affrontare il bisogno inesauribile della riflessione ultima
sull’essere, sul fondamento, sul valore, sullo scopo e sulla loro connessione
nella intuizione del mondo, quali che siano la forma e la direzione incui tale
compito viene eseguito » (Das Wesen der Philosophie, in fine; trad. ital., in
Critica della ragione storica, pag. 487). Il rapporto tra la fondazione e
l’unificazione delle scienze e l’intuizione del mondo (in cui propriamente con-
siste la metafisica) è da Simmel configurato come la distinzione tra i due
limiti che definiscono il campo della ricerca filosofica. «L'uno comprende le
condizioni, i concetti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare i
quali non possono in questa trovare soddisfacimento poichè stanno piut- tosto
già alla sua base; nell’altro questa ricerca particolare viene condotta a
completamento e a connessione e messa in rapporto con questioni e concetti che
non hanno nessun posto entro l’espe- rienza e il sapere oggettivo immediato.
Quella è la teoria della conoscenza, questa è la metafisica del campo
particolare in questione» (Soziologie, 1910, pag. 25; cfr. P. Rossi, Lo
storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, pag. 242 sgg.). Ora il primo di
questi compiti è quello che la F. critica aveva riconosciuto proprio della F.
(v. oltre); il secondo di essi è invece quello che aveva attribuito alla F.
l’indirizzo positivistico che fa capo a Bacone. L’ultima manifestazione di questo
concetto della F. nel pensiero contemporaneo è la nozione di « scienza
unificata », propria del neo-empirismo, alla quale è dedicata l’Enciclopedia
internazionale della scienza unificata (dal 1938 in poi). In quest'opera
tuttavia il concetto stesso di unificazione è incerto ed è inteso in modo
diverso dai suoi diversi sostenitori. Neurath la intende come la combinazione
dei risul- tati delle varie scienze e l’assiomatizzazione di essi in un sistema
unico; Dewey come esigenza di esten- dere il posto e la funzione della scienza
nella vita umana; Russell come unità di metodo; Carnap come unità formale o
linguistica; e Morris come dottrina generale dei segni (Intern. Encycl. of
Unified Science, FILOSOFIA I, 1, pag. 20, 33, 61, 70). Il concetto della filosofia
come unificazione o generalizzazione del sapere scientifico continua tuttavia a
ripresentarsi nel mondo contemporaneo; Whitehead, ad es., lo sostiene
(Adventures of Ideas, 1933, IX, $ 2). 3° La terza concezione della F. come
giudizio sul sapere è quella che si può chiamare critica e che consiste nel
ridurre la F., sotto questo rispetto, a dottrina della conoscenza o a
metodologia. Se- condo questa concezione la F. non accresce la quantità del
sapere stesso: essa perciò, non può propriamente chiamarsi « conoscenza ». Il
suo com- pito è piuttosto di saggiare la validità del sapere, determinando i
limiti e le condizioni di esso: le sue possibilità effettive. L’iniziatore di
questo con- cetto della F. è Locke. Già l’intero Saggio è nato, come egli
avverte nella « Epistola al lettore» che vi è premessa, dal bisogno di «
esaminare la capacità della mente umana e vedere quali oggetti siano alla sua
portata e quali invece superiori alla sua comprensione ». Più esattamente
ancora la F. tende a scoprire «quali sono le possibilità dell’intelli- genza,
quale sia l’estensione di queste possibilità, a quali cose esse siano in certa
misura proporzio- nate e dove il loro soccorso ci viene a mancare » (Saggio,
Intr., $ 4). I limiti delle capacità umane sono da Locke chiaramente riassunti
nel terzo capitolo del libro IV del Saggio. Ma ancora più chiaramente, per ciò
che riguarda la F., tali limiti risultano dall’ultimo capitolo dell’opera
dedicato alla divisione delle scienze. Si distinguono in esso tre scienze
principali: la F. naturale o fisica il cui compito è «la conoscenza delle cose,
quali sono nel loro essere proprio, e la loro costituzione, le loro proprietà e
operazioni »; la F. pratica o etica che è «l'arte di ben dirigere i nostri
poteri e i nostri atti al raggiungimento di cose buone e utili »; e la dottrina
dei segni o semiotica o /ogica il cui compito è di «considerare la natura dei
segni di cui fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose o per tra-
smettere ad altri la sua conoscenza» (/bid., IV, 21, $ 2-4). In questa
divisione delle scienze manca la F.: il che vuol dire che la F. per Locke non è
una scienza nel senso in cui la fisica, l’etica o la logica lo sono, cioè come
conoscenza di oggetti, ma è giudizio sulla scienza stessa cioè critica. Questo
punto di vista costituisce uno dei filoni principali della F. moderna e
contemporanea. Hume riconosceva il compito della F. accademica o scet- tica, da
lui professata, nella «limitazione delle nostre ricerche a quelle materie che
meglio si adat- tano alla ristretta capacità dell’intelligenza umana » (Ing.
Conc. Underst., XII, 3). Da Kant la limi. tazione della conoscenza è assunta
come fondamento della validità della conoscenza stessa, secondo un concetto che
già Locke aveva utilizzato. Per Kant 397 infatti sia le condizioni a priori
della conoscenza (intuizioni pure, categorie), sia le condizioni @ po- steriori
di essa (il dato empirico o intuizione) de- terminano e limitano le possibilità
conoscitive nel senso che non solo escludono certi campi di indagine ma anche fondano
la validità o l’effettività delle possibilità stesse. Kant esprimeva l’intero
campo della F. con le seguenti domande: 1° che cosa posso sapere?; 2° che cosa
devo fare?; 3° che cosa posso sperare?; 4° che cosa è l'uomo? « La metafisica,
aggiungeva Kant, risponde alla prima questione, la morale alla seconda, la
religione alla terza, e l'antropologia alla quarta; ma in fondo si potrebbe
tutto ricondurre all’antropologia, perchè le tre prime questioni si riportano
all’ultima. Il filosofo deve per conseguenza poter determinare: 1° la sor-
gente del sapere umano; 2° l’ambito dell’uso pos- sibile e utile di tutto il
sapere; e infine 3° i limiti della ragione » (Logik, Intr., IIl). L’obiezione
di Hegel contro questo punto di vista, che « voler conoscere prima che si
conosca è assurdo non meno del saggio proposito di quel tale scolastico di
imparare a nuotare prima di arrischiarsi nel- l’acqua » (Enc., $ 10), è una
pura boutade. Giacchè la F. come critica suppone che si sappia già nuo- tare,
che ci sia già un sapere costituito (quello della scienza), a partire dal quale
si possono inda- gare le possibilità di conoscere e determinare i loro limiti.
Della dottrina kantiana, il neocriticismo contemporaneo ha modificato il punto
concernente la religione; e, mantenendo fermo il concetto della F. come critica
del sapere, ha riconosciuto tre di- scipline filosofiche e precisamente la
logica, l’etica e l’estetica; per logica intendendo, il più delle volte, la
teoria della conoscenza. Questa dottrina veniva difesa dalla cosiddetta scuola
di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer) nonchè dal criticismo francese
(Renouvier, Brunschvicg). Il primato che la gno- seologia o teoria della
conoscenza ha tenuto nella F. contemporanea (e non solo presso le correnti
neocriticistiche) è una conseguenza del concetto della F. come critica del
sapere. La gnoseologia o teoria della conoscenza (v.) è tuttavia caratterizzata
da particolari presupposti e problemi; pertanto il concetto della F. come
critica del sapere non im- plica l’identificazione della F. con la dottrina
della conoscenza o gnoseologia. Quel concetto rimane infatti, anche dopo la
crisi e l’abbandono della gnoseologia ottocentesca, nella forma di analisi dei
procedimenti effettivi della conoscenza scientifica e determinazione dei loro
limiti e della loro validità. Questa analisi è il tema proprio della merodo-
logia (v.). La metodologia si può pertanto consi- derare l’ultima incarnazione
della F. come critica del sapere. Come parte della metodologia o come ulteriore
restrizione del suo compito, si può in- 398 tendere la definizione della F.,
come «analisi del linguaggio » che è stata proposta per la prima volta da
Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922). Wittgenstein,
attribuendo «la totalità delle proposizioni vere» alla scienza naturale, nega
che la F. sia una scienza naturale: questa parola, egli dice « deve significare
qualcosa che sta al di sopra o al di sotto delle scienze della natura, non a
fianco di esse » (7racr., 4. 111). Compito della F. diventa allora la chiarificazione
logica del linguaggio. «La F. non è una dottrina ma un'attività. Un'opera
filosofica consiste essenzialmente in delucidazioni. Frutto della F. non sono ‘
proposizioni filosofiche * bensì il chiarificarsi delle proposizioni. La F.
deve rendere chiare e delimitare con precisione le idee che altrimenti
sarebbero, per così dire, torbide e confuse » (/bid., 4. 112). II. La filosofia
e l’uso del sapere. — Il secondo punto di vista dal quale possono essere
cercate costanti nei significati storicamente attribuiti alla F. e quindi
effettuare divisioni o articolazioni di tali significati è quello espresso
nella seconda parte della definizione che è stata assunta come punto di
partenza di questo articolo: cioè quello per il quale la F. è l’uso umano del
sapere. Due interpre- tazioni fondamentali sono state storicamente date di
questo aspetto della F., e precisamente: a) quella per cui la F. è
contemplativa e costituisce una forma di vita che è fine a se stessa; 5) quella
per cui la F. è attiva e costituisce lo strumento di modificazione o di
correzione del mondo naturale od umano. Secondo la prima interpretazione, la F.
si esaurisce nell’individuo che filosofa; per la seconda inter- pretazione, la
F. trascende l’individuo e concerne propriamente i rapporti con la natura o con
gli uomini, quindi la vita umana associata. Per servirsi di un termine di
chiaro significato storico, si può chiamare « illuministica » questa seconda
interpre- tazione della filosofia. a) Il concetto della F. come contemplazione
è proprio, in primo luogo, delle F. di tipo orientale che pongono come scopo
della F. la salvezza del- l’uomo. La salvezza è difatti la liberazione da ogni
rapporto con il mondo e pertanto la realiz- zazione di uno stato in cui ogni
attività è impos- sibile o priva di senso. In Occidente, il concetto della F.
come contemplazione non è stata la prima forma che il lavoro filosofico ha
assunto (e che è stata invece quella della «saggezza» cioè della F. attiva e
militante) ma è stata la prima carat- terizzazione esplicita di questo lavoro.
Il fondamento di tale caratterizzazione è la natura « disinteressata » della
ricerca filosofica. Quando Erodoto (I, 30) fa dire da re Creso a Solone: «Ho
udito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per ve- dere molti paesi»
allude ovviamente al carattere FILOSOFIA disinteressato di questi viaggi che
non sono stati intrapresi per scopi di lucro o di politica ma solo a scopo di
conoscenza. Platone stesso contrappo- neva lo spirito scientifico dei Greci
all'amore del guadagno proprio degli Egiziani e dei Fenici (Rep., IV, 435 e). E
che la ricerca del sapere non possa essere subordinata o piegata a fini
estranei è cosa che risulta dalla stessa nozione di questa ricerca, quale
appunto si è venuta configurando nella Grecia antica (cfr. I, B). Ma già nel
racconto riferito a Pitagora che deriva da uno scritto di Eraclide Pontico
(Diog. L., Proemium, 12) col quale si intende giustificare il nome di F., c’è
qualcosa in più della semplice esigenza del disin- teresse della ricerca. Secondo
quella tradizione, riportata da Cicerone nelle Tusculane (V, 9), Pita- gora
paragonava la vita alle grandi feste di Olimpia dove alcuni convengono per
affari, altri per parte- cipare alle gare, altri per divertirsi e alfine alcuni
soltanto per vedere ciò che avviene: questi ultimi sono i filosofi. Qui è
sottolineato il distacco tra il filosofo, interessato solo a vedere, cioè a
contem- plare disinteressatamente, e la comune umanità de- dita alle sue
faccende. La superiorità della contem- plazione sull’azione è pertanto
implicita in questo racconto; che probabilmente aveva lo scopo di nobilitare,
col richiamo a Pitagora, il concetto della F. che si andava formando nella
scuola di Aristo- tele. Il carattere contemplativo della F. (che non ha nulla a
che fare con il carattere disinteressato della ricerca in generale), come una
delle risposte possibili al problema dell’uso umano del sapere, è stato per la
prima volta affermato e giustificato da Aristotele. Quel carattere è infatti
fondato sulla natura necessaria dell’oggetto della F., che è ciò che « non può
essere altrimenti da quello che è» (Et. Nic., VI, 3, 1139b 19). Da questo punto
di vista la F. è sapienza, non saggezza: giacchè la saggezza consiste nel
deliberar bene, ma nulla c’è da deliberare intorno alle cose che non possono
essere altrimenti (/bid., VI, 5, 1140 a 30). Su questa base Aristotele
stabilisce un contrasto tra saggezza e sapienza (v.). Uomini come Anassagora e
Talete sono sapienti e non saggi: essi non indagano sui beni umani, non conoscono
ciò che giova a loro stessi ma solo cose eccezionali, meravigliose, diffi- cili
e divine. « Nessuno, dice Aristotele, delibera intorno a ciò che non può essere
altrimenti o in- torno alle cose che non hanno un fine o il cui fine non è un
bene realizzabile » (/bid., VI, 7, 1041 b 10). Ma qual è, da questo punto di
vista, l’uso possibile del sapere? Uno solo: la realizzazione di una vita
contemplativa cioè dedita alla conoscenza del ne- cessario. L'attività
contemplativa è pertanto con- siderata da Aristotele come la più alta e
beatifica: essa fa dell’uomo qualcosa di superiore all’uomo FILOSOFIA stesso
perchè è conforme a ciò che di divino c’è in lui (/bid., X, 7, 1177 b 26). La
dottrina di Ari- stotele ha così fissato i punti seguenti intorno all’uso umano
del sapere: 1° la F., in quanto ha per og- getto il necessario, non offre
all’uomo nulla da fare ed è perciò contemplazione; 2° la contempla- zione è una
forma di vita individuale privilegiata perchè è la beatitudine stessa. Le due
tesi sono ti- piche di questa concezione della F., che ricorre frequentemente
nella storia del pensiero occidentale. Intanto essa domina tutta la F. greca
postaristote- lica; la quale coltiva l’ideale del «sapiente» cioè di colui nel
quale si realizza la vita contemplativa. Epicurei, Stoici, Scettici e
Neoplatonici concordano nel ritenere che il sapiente solo può esser felice
perchè egli soltanto, come puro contemplante, è autosufficiente. Il fine che
questi filosofi attribuiscono alla F. è individuale e privato: la realizzazione
di una forma di vita che chiude il sapiente in se stesso e nella sua
contemplazione solitaria. Anche da questo punto di vista, ovviamente, la F. è
uno sforzo di trasformazione o di rettificazione della vita umana; perciò non è
vera alla lettera l’afferma- zione di Aristotele che essa non dà nulla da fare.
Questa affermazione significa solo che essa non mo- difica la struttura del
mondo, della conoscenza che concerne il mondo e delle forme di vita associata;
mentre può modificare la vita dell’individuo ren- dendolo sapiente e beato. È
facile riconoscere da questi tratti l’atteggia- mento contemplativo in
filosofia. Quando Spinoza dice: «L'uomo forte considera principalmente che
tutte le cose seguono dalla necessità della natura divina e che quindi tutto ciò
che crede molesto e cattivo e tutto ciò che inoltre appare empio, or- rendo,
ingiusto e turpe nasce dal fatto che egli concepisce le cose stesse
torbidamente, parzial- mente e confusamente » (Er., IV, 73, scol.) esprime,
nella sua forma classica, il concetto contemplativo della filosofia. E quando
Hegel afferma che la F., come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul
far del crepuscolo, giunge sempre a cose fatte e quindi troppo tardi per dire
come deve essere il mondo, esprime lo stesso concetto (Fil. del Dir., Pref.).
Difatti per Hegel, come per Aristotele e Spinoza, l’oggetto della F. è il
necessario; il suo compito è precisamente quello di mostrare la ne- cessità di
ciò che esiste, cioè la razionalità del reale (Enc., $ 12). Da questo punto di
vista la F. è la giustificazione razionale della realtà: per realtà
intendendosi non solo quella della natura ma anche quella delle istituzioni
storico-sociali cioè del mondo umano. Non molto diverso, era da questo punto di
vista il concetto che della F. aveva Schopenhauer. « Rispecchiare
astrattamente, universalmente e limpi- damente in concetti l’intera essenza del
mondo, egli 399 diceva, e così, quale immagine riflessa, deporla nei permanenti
e ognora disposti concetti della ragione: questa e non altro è F.» (Die Welt,
I, $ 68). Nella F. contemporanea il concetto della F. come contemplazione
rimane nella fenomenologia e nello spiritualismo. La fenomenologia è lo sforzo
di rea- lizzare, mediante l’epoché, il punto di vista di uno « spettatore
disinteressato » cioè di un soggetto che non sia a sua volta sottoposto alle
stesse condizioni limitative che egli prende a considerare. Dice Hus- serl:
«L'io della meditazione fenomenologica può divenire lo spettatore imparziale di
se stesso, non soltanto nei casi particolari ma in generale; e questo ‘se
stesso’ comprende ogni oggettività che esista per lui, tale quale esiste per
lui » (Cart. Med., $ 15). E nell’ultima opera Husserl vede nella filosofia « il
movimento storico della rivelazione della ragione universale, innata come tale
nell’umanità » (Krisis, $ 6) e le attribuisce il compito di portare la ra-
gione « alla propria autocomprensione, a una ra- gione che comprenda
concretamente se stessa, che comprenda di essere un mondo, un mondo che è nella
propria verità universale » (/bid., $ 73). Dal- l’altro lato Bergson,
distinguendo la F. come in- tuizione o coscienza della durata temporale (cioè
del divenire della coscienza) dalla scienza come conoscenza dei fatti, vede
nella scienza «l’ausi- liare dell’azione » e nella F. un’attività contempla-
tiva. «La regola della scienza, egli dice, è quella che è stata posta da
Bacone: obbedire per coman- dare. Il filosofo non obbedisce nè comanda: cerca
di simpatizzare » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 158). L’idoleggiamento
del «sapiente » come di una condizione umana privilegiata o per- fetta o della
F. come della forma finale e conclusiva dell’essere sono due dei tratti
caratteristici da cui si può riconoscere la concezione della F. come
contemplazione. A questa concezione appartengono le forme dello scetticismo
antico e moderno. Quando Sesto Empirico addita come fine della F. scettica
l’imperturbabilità che essa consente di realizzare (Ip. Pirr., 1, 25); o quando
Hume riduce il motivo del suo filosofare, che ritiene incapace di agire sulle
credenze più radicate dell’uomo, al piacere che ne ricava (7reatise, I, 4, 7;
Ing. Conc. Underst., XII, 3); entrambi attribuiscono alla F. una fun- zione
contemplativa che si esaurisce nell’ambito della vita individuale. E nello
stesso ambito si esau- risce la funzione della F. come « terapia » della F.,
cioè come liberazione dai dubbi filosofici, della quale parlano Wittgenstein
(Philosophical Investiga- tions, $ 133) e alcuni filosofi inglesi suoi seguaci
(cfr. Revolution in Phil., 1956, pag. 106, 112 sgg.). Non sembra infatti che
questi filosofi attribuiscano alla terapia filosofica altra funzione se non
quella di liberare l’individuo dai dubbi filosofici e così 400 permettergli di
« sentirsi meglio » al modo in cui Hume si sentiva meglio coi suoi dubbi
scettici. 5) Il concetto della F. come attività direttiva o trasformatrice è
già presente nella leggenda dei Sette Savi che è stata per la prima volta
riportata da Platone (Prot., 343 a). I Sette Savi furono mo- ralisti e politici
e i loro motti si riferiscono alla con- dotta della vita e ai rapporti con gli
uomini (v. SAVI). Ma il primo grande esempio di una F. esplicita- mente
concepita allo scopo di trasformare il mondo umano è quella di Platone, la
quale è diretta interamente a modificare la forma della vita associata e a
fondarla sulla giustizia. L'educazione del filosofo culmina, non già nella
visione del bene ma nel «ritorno nella caverna »: giacchè il filosofo deve
porre a disposizione della comunità i risultati della sua speculazione e
utilizzarli per la guida e la direzione di essa. « Ciascuno di voi, dice
Platone, deve a sua volta discendere nella dimora comune e abituarsi a
contemplare gli oggetti nelle tenebre: perchè abituandosi a queste, vedrà assai
meglio di quelli che sono rimasti sempre laggiù e riconoscerà i caratteri e
l'oggetto di ciascuna immagine, perchè ha visto i veri esemplari della
bellezza, della giu- stizia e del bene. Così noi e voi costituiremo e
governeremo la città da svegli e non già sognando, come avviene ora nella
maggior parte delle città per colpa di coloro che si combattono a causa di
ombre e si contendono il potere come se fosse un bene » (Rep., VII, 520c). La
F. platonica è intera- mente dominata da questo impegno educativo e politico:
còmpito della F. non è, per Platone, quello di dare a un certo numero di uomini
la beatitudine della contemplazione, ma quello di dare a tutti la possibilità
di vivere secondo giustizia (Ibid., 519 e). Questa concezione attiva della F. è
rimasta per lungo tempo inoperante. Solo nel Ri- nascimento essa fu ripresa
dagli Umanisti che in- tesero la F. come saggezza. Nel De Nobilitate Legum et
Medicinae Coluccio Salutati (1331-1406) diceva: « Molto mi stupisco che tu
sostenga che la sapienza consista nella contemplazione a cui sarebbe serva la
prudenza, che starebbe con essa nel rapporto di un amministratore con il
padrone; e che tu dica che la sapienza è la maggiore delle virtù, propria della
parte migliore dell'anima, cioè dell’intelletto; e che la felicità consiste nell’operare
secondo sapienza. E soggiungi che, essendo la me- tafisica la sola scienza
libera, il filosofo vuole che la speculazione preceda in tutto l'azione... Ma
la vera sapienza non consiste, come tu credi, nella pura speculazione. Se togli
la prudenza non tro- verai nè il sapiente nè la sapienza... Chiameresti infatti
sapiente chi abbia conosciuto cose celesti e divine ma non abbia provveduto a
se stesso, gio- vato agli amici, alla famiglia, ai congiunti e alla FILOSOFIA
patria? ». Nello stesso spirito Leonardo Bruni nel- l’Isagogicon Moralis
disciplinae (1424) affermava la superiorità della F. morale su quella
teoretica. Il successivo affermarsi di questa concezione at- tiva della F.
caratterizza l’inizio dell’età moderna. Gli umanisti credevano che solo la F.
morale fosse attiva; per Bacone è attiva anche la F. che ha per oggetto la
natura perchè è diretta a dominare la natura. E Bacone non esita a chiamare «
pasto- rale » la stessa F. di Telesio, che molto apprezzava e in parte seguiva,
perchè gli sembrava che essa « contemplasse il mondo placidamente e quasi per
ozio» (Works, III, pag. 118). Hobbes insisteva sulla stessa funzione della F.
(De Corp., I, $ 6). Cartesio a sua volta la riteneva diretta a conseguire la
saggezza e la scienza di tutto ciò che riesce utile o vantaggioso per l’uomo
(Princ. Phil, Pref.). Lo stesso scopo direttivo e correttivo attribuirono alla
F. Locke e gli Illuministi. Con Locke, la F. diventa critica della conoscenza e
sforzo di libera- zione dell’uomo da ignoranze e pregiudizi. E tale si mantiene
per l’Illuminismo del sec. xvi, che vede nella F. lo sforzo della ragione di
investire il mondo umano, liberarlo dagli errori e di farlo progredire.
D’Alembert così descriveva l’azione che la F. esercitava nel suo tempo: « Dai
princìpi delle scienze profane sino ai fondamenti della rivelazione, dalla
metafisica sino alle materie di gusto, dalla musica sino alla morale, dalle
dispute scolastiche dei teologi sino agli oggetti del commercio, dai di- ritti
dei princìpi sino a quello dei popoli, dalla legge naturale sino alle leggi
arbitrarie delle nazioni, in una parola dalle questioni che ci toccano di più a
quelle che ci interessano di meno, tutto è stato discusso e analizzato o almeno
agitato. Una nuova luce su alcuni oggetti, una nuova oscurità su molti altri,
sono stati il frutto o la conseguenza di questa effervescenza generale degli
spiriti, come l’effetto del flusso e riflusso dell'oceano è quello di portare
sulla riva qualcosa e di allontanarne qualche altra » (CEuvres, ed. Condorcet,
pag. 218). Il concetto il- luministico della F. era partecipato da Kant secondo
il quale la F., determinando le possibilità effettive dell’uomo in tutti i
campi, deve illuminare e diri- gere il genere umano nel suo doveroso progresso
verso la felicità universale (Recensione alle « Idee sulla F. della storia » di
Herder, 1784-85; cfr. Critica R. Pura, Dottrina trascendentale del metodo, ca-
pitolo III, in fine). Il Romanticismo, insistendo sul carattere ne- cessario,
perchè razionale, dell’essere, ha costituito, nel suo complesso, un ritorno
alla concezione con- templativa della filosofia. Lo stesso positivismo che
intendeva esplicitamente rifarsi alla dottrina baco- niana del sapere come
possibilità di dominio sulla natura, non sempre rimane fedele al riconoscimento
FILOSOFIA del carattere attivo della filosofia. Se per il posifi- vismo (v.) di
stampo sociale (St.-Simon, Proudhon, Comte, Stuart Mill) la F. è
prevalentemente uno strumento di trasformazione della società umana, per il
positivismo evoluzionistico la F. ha più ca- rattere contemplativo che attivo.
La difesa del mistero che Spencer pone tra i compiti della F., cioè il
riconoscimento dell’insolubilità dei cosid- detti problemi ultimi, porta la F.
sullo stesso piano contemplativo della religione. La discussione in- torno alla
solubilità o insolubilità dei cosiddetti « enigmi del mondo + cade interamente
sul piano della F. contemplativa. Il positivismo di Ardigò come il monismo
materialistico (Haeckel) e l’evo- luzionismo spiritualistico (Wundt, Morgan,
ecc.) sono ugualmente contemplativi. In realtà il clima romantico è presente
nel positivismo come nell’idea- lismo e indirizza quello come questo verso il
con- cetto della F. come contemplazione di una realtà necessaria. Contro tale
concetto costituisce una protesta il « nuovo materialismo » di cui si fece
partigiano Marx, polemizzando, dall’altro lato, contro il materialismo
teoretico di Feuerbach. «I filosofi, egli diceva, hanno finora soltanto diver-
samente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo » (Tesi su
Feuerbach, 11). Ma per quanto Marx insista sull’impegno di trasformazione che
deve caratterizzare la F. come tale, il fonda- mento stesso della F. come
contemplazione rimane saldo nella sua dottrina. Quel fondamento è in- fatti la
necessità del reale; e per Marx la trasfor- mazione della società, cioè il
passaggio dalla società capitalistica a quella senza classi, avverrà « con la
fatalità che presiede ai fenomeni della natura» (Capit., I, 24, $ 7). Su questa
base, il compito della F. appare quello di una profetica Cassandra anzichè
quello di promuovere e orientare la trasformazione stessa. Sotto questo
rispetto, si sottrae talvolta al clima romantico il neocriticismo. Nella
Ucronia Renouvier si propose di eliminare « l'illusione della necessità
preliminare per la quale il fatto compiuto sarebbe il solo, fra tutti gli altri
immaginabili, che avrebbe potuto realmente accadere» (Uchronie, 2* ediz., 1901,
pag. 411). La «F. analitica della storia » ha, secondo Renouvier, il compito di
de- terminare le concatenazioni generali dei fatti storici per dirigere lo
sviluppo della storia stessa (/nir. d la phil. analytique de l’histoire, 1864,
pag. 551-52). Dall'altro lato la determinazione della F. come «visione del
mondo», determinazione che la F. subì, nella seconda metà del sec. xxx, ad
opera di pensa- tori di provenienza neocriticistica o positivistica, ha un
chiaro significato contemplativo. Contro l’inter- pretazione contemplativa
della F. si è invece schie- rato polemicamente il pragmatismo sin dalla sua
origine, che si può vedere nel saggio Come render 26 — ABBAGNANO, Dirionario di
filosofia. 401 chiare le nostre idee (1878) di C. S. Peirce. In questo saggio
Peirce affermava che l’intera funzione del pensiero è di produrre abitudini
d'azione (o credenze) e che pertanto il significato di un concetto consiste
esclusivamente nelle possibilità d’azione che esso definisce. Ma queste
affermazioni di Peirce sono importanti anche da un altro punto di vista. Peirce
negava esplicitamente il presupposto stesso della F. come contemplazione, cioè
il carattere necessario del reale. Peirce mostrava difatti come la regola- rità
e l’ordine degli eventi nonchè i legami condi- zionali tra gli eventi stessi
non hanno niente a che fare con la necessità, che implicherebbe la possibilità
della previsione infallibile (Chance, Love and Logic, II, cap. 2). La
definizione data da Dewey della F. come « critica dei valori » (Experience and
Nature, pag. 407) esprime, proprio sui presupposti stabiliti da Peirce, la funzione
direttiva della filosofia. Se- condo Dewey, il compito della F. è quello
antico, iscritto nel significato etimologico della parola: ri- cerca della
saggezza; dove la saggezza differisce dalla conoscenza per essere «
l'applicazione di ciò che è conosciuto alla condotta intelligente delle
faccende della vita umana » (Problems of Man, 1946, pag. 7). Non diverso
significato ha la definizione data da Morris: « Una F. è un’organizzazione
sistematica che comprende le credenze fondamentali: credenze sulla natura del
mondo e dell’uomo, su ciò che è bene, sui metodi da seguire nella conoscenza,
sul modo in cui la vita dev'essere vissuta» (Signs, Language and Behavior,
1946, VIII, $ 6; tradu- zione ital, pag. 314). Per Morris, infatti, come per
tutto il pragmatismo, la credenza non è che una regola di comportamento: e la
F., come or- ganizzazione delle credenze fondamentali, costituisce perciò
quello che Sartre ha chiamato «il progetto fondamentale di vita ». Nell'opera
stessa di Sartre si può scorgere il passaggio dalla concezione con- templativa
della F., espressa ne L’éfre er le néant (1943) a quella attiva o illuministica
espressa nella Critique de la raison dialectique (1960). Nel primo scritto,
Sartre progettava una ricerca detta « psica- nalisi esistenziale » il cui scopo
era quello « di met- tere in luce, in una forma rigorosamente oggettiva, la
scelta soggettiva per la quale ciascuna persona si fa persona cioè si fa
annunziare a se stessa ciò che essa è» (L’étre et le néant, pag. 662). Il
risultato di una ricerca di questo genere avrebbe dovuto essere, secondo
Sartre, la classificazione e il con- fronto dei vari tipi di condotta
possibili, quindi il chiarimento definitivo della realtà umana come tale
(/bid., pag. 663). Il carattere contemplativo di una disciplina siffatta è
evidente. Ma nella sua se- conda opera Sartre intende la F. come « totalizza-
zione del sapere, metodo, Idea regolatrice, arma offensiva e comunità di
linguaggio » nonchè come 402 uno strumento che agisce, per trasformarle, sulle
società in decadenza e che può costituire la cultura o addirittura la natura di
un'intera classe (Critique de la raison dialectique, pag. 17). Nel primo caso
la F. non dava nulla da fare agli uomini giacchè l’uomo nulla poteva fare:
Sartre definiva l’uomo come « passione inutile» cioè come passione im-
possibile di essere Dio (L’éfre et le néant, pag. 708). Nel secondo caso, la F.
s’inserisce come forza umana finita ma efficace, nel mondo, e tende a
trasformarlo. Sottratta al destino del fallimento e a quello del successo, la
nozione di progetto si presta ad esprimere il carattere direttivo e operativo
che alla F. attribuiscono gli indirizzi neoilluministici contemporanei. Un
progetto difatti fa leva sulle conoscenze disponibili e ne determina l’uso
possi- bile al fine di garantire l'esistenza e la coesistenza degli uomini. Una
F. che progetti in questo senso (che è poi quello già chiarito da Platone)
l’uso umano del sapere è ovviamente la determinazione di tecniche di vita che
possono essere messe a prova, rettificate o rigettate. III La filosofia e î
suoi procedimenti. — Il terzo punto di vista dal quale si possono individuare
costanti di significato che consentano di ricono- scere articolazioni
fondamentali nelle interpreta- zioni storicamente date del concetto di F., è
quello del procedimento o metodo che si ritiene proprio della filosofia. Da
questo punto di vista le F. si possono distinguere in «) F. sintetiche o
creative che procedono producendo concettualmente il loro oggetto, senza
riconoscere limiti o condizioni a questo lavoro di costruzione; e 8) F.
analitiche che riconoscono l’esistenza di defi e procedono a descrivere o
analizzare questi dati stessi. Il carat- tere proprio delle F. analitiche è la
limitazione cui si ritengono sottoposte da parte del dato, comunque poi
intendano la natura di esso. Il carattere proprio delle F. sintetiche sta
invece nel non riconoscere questa limitazione e nel pretendere che il proprio
metodo è interamente costruttivo cioè capace di esaurire senza residui l’intero
oggetto della filosofia. a) Il procedimento sintetico non può far ap- pello al
controllo di situazioni, fatti o elementi che siano indipendenti da sè; la sua
caratteristica è pertanto quella di valere come controllo a se stesso. Ogni
qualvolta una F. assume che la validità dei propri risultati dipende
esclusivamente dalla organizzazione interna della stessa F. e può essere perciò
riconosciuta e stabilita una volta per tutte, senza bisogno che i risultati
stessi siano messi a prova e convalidati da tecniche o procedure indi- pendenti
da essa, il suo metodo può essere ritenuto sintetico. La sua procedura infatti
equivale in questo caso alla creazione o composizione ex novo del suo oggetto,
in una forma che non esige FILOSOFIA conferme nè teme smentite. La F. di Hegel
costi- tuisce l’incarnazione più pura di questo tipo di filosofia. Quando Hegel
dice: « La F. non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter
presupporre i suoi oggetti come immedia- tamente dati dalla rappresentazione, e
come già ammesso, nel punto di partenza e nel procedere successivo, il metodo
del suo conoscere » (Enc., $ 1), egli afferma per l’appunto l’esigenza che la
F. co- struisca da sè, interamente, il suo oggetto e il suo metodo. Ma
producendo da sè sia l’oggetto che il metodo, essa non ha neppure da render
conto ad altre scienze o ad altri eventuali punti di vista dei suoi risultati
quali che siano. Hegel insiste sul ca- rattere assolutamente indipendente o
incondizionato del suo metodo. «Il metodo (egli dice, per es.) così come nella
scienza il concetto, si svolge da se stesso ed è soltanto una progressione
immanente e una produzione delle sue determinazioni » (Fil. del Dir., $ 31). E
ancora: «La più alta dialettica del concetto è produrre e intendere la
determinazione, non semplicemente come limite o posizione, ma traendo da essa
il contenuto e il risultato posi- tivi; in quanto unicamente con ciò essa è
sviluppo e progresso immanente. Questa dialettica non è un fare esterno di un
pensiero oggettivo ma l’anima propria del contenuto, la quale fa germogliare i
suoi rami e i suoi frutti organicamente » (/did., $ 31). La differenza tra
questo metodo produttivo o, come meglio si direbbe, creativo del suo oggetto e
il metodo analitico, che Hegel riconosce proprio delle scienze dopo Cartesio, è
espressa da Hegel stesso nel modo seguente: « Il metodo iniziato da Cartesio
rifiuta tutti i metodi rivolti a conoscere ciò che per il suo contenuto è
infinito; si abbandona perciò allo sfrenato arbitrio delle immaginazioni e
asserzioni, ad una presunzione di moralità e or- goglio di sentimento o ad uno
smisurato opinare e raziocinare il quale si dichiara nel modo più ener- gico
contro la F. e i filosofemi » (Enc., $ 77). Questa concezione attribuisce al
procedimento filosofico la produzione del suo oggetto e fa del- l’oggetto,
l’infinito stesso cioè l'Assoluto o Dio, che risolve o annulla in sè ogni fatto
o cosa finita. Prima di trovare in Hegel la sua forma tipica, tale concezione
era stata esposta da Fichte come esi- genza che la F., quale dottrina della scienza,
dia forma sistematica non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre
scienze possibili e garantisca per tutte la validità di questa forma (Uber den
Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Fichte ri- teneva infatti che,
insieme alla sua forma, la dot- trina della scienza dovesse produrre anche il
conte- nuto; e che il contenuto della dottrina della scienza racchiudesse in sè
ogni possibile contenuto e fosse perciò «il contenuto assoluto » (/bid., $ 1).
Risa- FILOSOFIA lendo ancora più in là, la concezione del metodo sintetico si
può vedere in Spinoza: secondo il quale il procedimento filosofico (che egli
chiama conoscenza intuitiva o terzo genere di conoscenza o amore intellettuale
di Dio) è quello che ha per oggetto la necessità con cui tutte le cose derivano
dalla natura divina. L’amore intellettuale di Dio è lo stesso amore con cui Dio
ama se stesso (£t., V, 36): ciò vuol dire che la conoscenza della neces- sità
con cui le cose derivano da Dio è la conoscenza stessa che Dio ha di sè. Il procedimento
matema- tico dell’Erica acquista, da questo punto di vista, un rilievo
fondamentale nella filosofia di Spinoza: esso non è un artificio espositivo ma
l’adeguazione del metodo della F. al procedimento necessario con cui le cose
derivano da Dio. Considerato in questa prospettiva, il metodo sintetico si
rivela nella sua caratteristica più appariscente: nella sua pretesa di valere
come un colpo d'occhio divino gettato sul mondo, come la conoscenza stessa che
Dio ha di sè e dei suoi effetti creati. Èfacileallora vedere come questa
pretesa sia stata spesso avan- zata dalla filosofia. « Questa scienza soltanto,
di- ceva Aristotele, è divina e lo è in un duplice senso: perchè propria di Dio
e perchè concerne il divino. Essa sola ebbe in sorte entrambi questi privilegi:
Dio infatti appare come la causa e il principio di tutte le cose e solo o
principalmente una scienza siffatta può essere propria di Dio» (Met., I, 2,
983a 5). Aristotele chiamava pertanto seologia la F. prima. Vero è che la F.
prima è tale per la sua universalità e che essa è universale solo in quanto è
scienza dell’essere in quanto essere (/bid., VI, 1, 1026 a 30). Ma la stessa
scienza dell’essere in quanto essere è teologia perchè è la scienza della causa
o ragion d’essere e questa causa o ragion d’essere è Dio. La F. aristotelica ha
perciò dichiaratamente carat- tere sintetico e può anzi essere considerata come
il primo e classico esempio del procedimento sin- tetico. Ovviamente, essa non
lo è soltanto perchè ha Dio come oggetto della sua investigazione; ma anche
perchè si considera coincidente con la cono- scenza che Dio ha di sè. E da
questo tratto può essere agevolmente riconosciuta ogni F. sintetica come tale.
$) Il procedimento analitico della F. si rico- nosce negativamente dalla mancanza
della pretesa di valere come conoscenza divina del mondo e positivamente dal
riconoscimento di un limite delle sue possibilità e di un controllo dei suoi
risultati. Il procedimento analitico non è, di conseguenza, la costruzione ex
novo del suo oggetto, ma la ri- soluzione di esso negli elementi che lo
lasciano intendere cioè nelle sue condizioni. In questi ter- mini, la
determinazione del procedimento filosofico è stata fatta da Kant dapprima in
uno scritto 403 precritico del 1764 Sulla distinzione dei principi della
teologia naturale e della morale poi nella seconda parte principale della
Critica della Ragion Pura. Nel primo di questi scritti Kant contrapponeva il
me- todo analitico della F. al metodo sintetico della matematica. « Ad ogni
concetto generale, egli di- ceva, si può pervenire per due strade: o attraverso
un collegamento arbitrario dei concetti oppure iso- lando quelle conoscenze che
sono state chiarite per suddivisione. La matematica arriva sempre alle sue
definizioni seguendo la prima strada... Le definizioni filosofiche invece sono
del tutto diverse. Qui il concetto delle cose è già dato ma in modo confuso e
non sufficientemente determinato. Bi- sogna suddividerlo, confrontare nei vari
casi le note che si sono separate con il concetto dato, per poi determinare e
render compiuta questa idea astratta » (Untersuchung Uber die Deutlichkeit der
Grundsatze der natilrlichen Theologie und der Moral, 1, I, $ 1). Nella Critica
della Ragion Pura, Kant distinse la conoscenza filosofica come conoscenza per
concetti dalla conoscenza matematica che consiste nella co- struzione di
concetti. La matematica, dice Kant, può costruire concetti perchè dispone di
una intuizione pura che è quella dello spazio-tempo. Ma la F. non dispone di
una intuizione pura ma soltanto di una intuizione sensibile: gli oggetti della
F. devono quindi essere dati e possono pertanto solo essere analizzati, non
costruiti, dal procedimento filosofico (Critica R. Pura, Dottrina del metodo,
cap. I, sez. I). Kant mette pertanto in guardia i filosofi contro la pretesa di
voler organizzare la loro scienza secondo il mo- dello matematico. In F., non
ci sono propriamente definizioni (che siano costruzioni di concetti) nè as-
siomi, cioè verità evidenti, nè dimostrazioni, cioè prove apodittiche. Dice
Kant a proposito di queste ultime: « L'esperienza ci insegna ciò che c'è, ma
non che non può essere altrimenti. Princìpi empirici di prova non possono darci
nessuna prova apodit- tica. Da concetti a priori (nella conoscenza discor-
siva) non può nascere mai una certezza intuitiva cioè un’evidenza, per quanto
il giudizio possa es- sere apoditticamente certo + (/bid., Dottrina del metodo,
cap. I, sez. I). Da questo punto di vista, il procedimento della F. è ben
lontano dal poter dare all’uomo una conoscenza paragonabile a quella posseduta
da Dio. «La determinazione dei limiti della nostra ragione non può farsi se non
su prin- clpi a priori; ma la limitatezza della ragione, che viene ad essere la
conoscenza, sia pure indetermi- nata, di un’ignoranza mai completamente
elimina- bile, può anche essere conosciuta a posteriori vale a dire da questo
che, in ogni sapere, ci resta sempre ancora da sapere » (/bid., Della
impossibilità di un appagamento scettico). La F. non è mai una scienza
perfetta, che si possa insegnare od apprendere. 404 4 Si può imparare soltanto
a filosofare cioè ad eser- citare il talento della ragione nell’applicazione
dei suoi princìpi universali a determinate ricerche, ma sempre con la riserva
del diritto della ragione stessa a indagare quei principi alle loro sorgenti e
a con- fermarli o rifiutarli» (/bid., Dottrina del me- todo, cap. III). Queste
notazioni di Kant costituiscono un con- cetto relativamente compiuto o maturo
del proce- dimento analitico in filosofia. Il precedente imme- diato di esso è
Locke. « Non è affar nostro, in questo mondo, aveva detto Locke, conoscere
tutte le cose, bensì quelle che riguardano la condotta della nostra vita. Se
dunque possiamo trovare le regole mediante le quali, una creatura ragionevole,
qual è l’uomo, considerato nello stato in cui si trova in questo mondo, può e
deve condurre le sue opinioni e le azioni che ne dipendono; se, dico, possiamo
giungere a tanto, non dobbiamo farci un cruccio se altre cose sfuggono alla
nostra cono- scenza » (Saggio, Intr., $ 6). Il concetto della F. come
procedimento analitico cioè diretto a deter- minare le condizioni e perciò i
limiti delle attività umane, ispirò l’intero Illuminismo settecentesco. Ma
sotto questo rispetto e con la diversità dovuta alla differenza dei mezzi
culturali disponibili, l’Il- luminismo settecentesco riprendeva l’ideale
dell’Il- luminismo antico, quello dei Sofisti e di Socrate, che intesero la F.
come diretta alla formazione dell’uomo nella comunità. Di questo Illuminismo,
secondo il quale la F. è uno strumento per l’uomo, si può ritenere una
manifestazione lo stesso con- cetto platonico della filosofia. Platone infatti
ne- gava che la F. potesse essere propria della divinità. Essa, come l’amore, è
mancanza perchè è desiderio di saggezza da parte di chi la saggezza non
possiede per propria natura. L’uomo è filosofo perchè «sta in mezzo tra il
sapiente e l’ignorante » mentre la divinità che possiede già la sapienza, non
ha bi- sogno di filosofare (Conv., 204 a-b). Dall'altro lato, la dialettica, che
è il metodo della F., è concepita da Platone come analisi, cioè come un
procedimento che consente di distinguere il discorso vero dal di- scorso falso,
mostrando le cose che possono com- binarsi tra loro e quelle che non possono
combinarsi (Sof., 252 d-e). Per mostrare quali sono le cose che possono e
quelle che non possono combinarsi, la dialettica procede componendo varie
determina- zioni in un unico concetto e poi dividendo questo concetto stesso
nelle sue articolazioni, come fa un abile scalco (Fedro, 265 e). Essa quindi
suppone a ogni passo la scelta opportuna delle determinazioni da comporre in un
concetto solo e dei punti in cui far cadere la divisione del concetto stesso:
scelta che suppone, come ogni altra scelta, un’uti- lizzazione di dati: onde il
metodo platonico è FILOSOFIA stato giustamente considerato come un metodo em-
pirico (TavLor, Pilato, 4* ediz., 1937, pag. 377). Che la F. sia un'attività
umana cioè limitata nella sua portata e nella sua validità; che essa consista
nell’effettuare scelte e non già nel costruire in toto il suo oggetto, sono le
caratteristiche fonda- mentali della concezione analitica della filosofia. Da
questi due caratteri deriva il terzo, che è forse il più ovvio e appariscente:
quello per cui questo metodo è, tra l’altro e in primo luogo, riconosci- mento
ed utilizzazione di dari cioè di fatti, elementi o condizioni che non sono
prodotti dal metodo stesso. La scelta dei dati e la loro elaborazione in vista
di una soluzione possibile costituisce il pro- blema (v.). Le F. analitiche
sono in genere contras- segnate dal fatto che in esse la nozione di problema è
fondamentale, mentre non esiste o è considerata secondaria e trascurabile nelle
F. sintetiche (come accade in quelle di Aristotele e Hegel). Un’ulte- riore
determinazione di questa concezione (una de- terminazione che essa acquista
solo nel mondo con- temporaneo) è quella concernente il campo dal quale la F.
può o deve trarre i suoi dati e col quale l’in- terpretazione di questi dati
può o deve essere messa a confronto. È solo un’idea recente che i risultati
della F., come quelli di ogni altra indagine, non sono definitivi ma hanno
bisogno di essere messi a prova e saggiati. Dewey ha chiamato a questo
proposito la F. critica delle critiche. « Può sembrare ad alcuni un tradimento,
egli ha detto, concepire la F. come il metodo critico per sviluppare i metodi
della critica. Ma anche questo concetto della F. attende di essere messo alla
prova, e la prova che lo confermerà o lo condannerà consiste nella riuscita
eventuale. L'importanza della conoscenza che ab- biamo acquistato e
dell’esperienza che è stata ravvi- vata dal pensiero consiste nell’evocare e
nel giusti- ficare la prova » (Experience and Nature, pag. 437). Tuttavia
questa esigenza diventa operante solo quando si determini il campo dal quale la
F. tragga i suoi dati e nel quale trovi le sue possibilità di conferma. La
determinazione di questo campo co- stituisce la caratteristica propria della F.
analitica dei tempi nostri. Ora i campi a cui si può fare riferimento sono
soltanto due: 1° l’esistenza sin- gola; 2° l’esistenza associata. 1° Le F. che
fanno appello all’esistenza singola per la ricerca dei dati e per la eventuale
messa a prova delle soluzioni considerano abitualmente l’esi- stenza singola
come coscienza e vedono nella co- scienza il dominio proprio della filosofia.
Nel mondo contemporaneo, la più conosciuta e tipica F. di questa specie è
quella di Bergson, che esplicitamente si organizza come ricerca dei « dati
immediati della coscienza » e che utilizza questi dati per soluzioni che
possono a loro volta essere messe a prova FINALISMO soltanto nell’ambito della
coscienza. A questo tipo di F. si riconnette anche la fenomenologia concepita
da Husserl come « un ritorno radicale all’ego cogito puro, per far rivivere i
valori eterni che ne deri- vano + (Cart. Med., $ 2). Il difetto metodologico di
questo tipo di F. consiste nel fatto che in esse il dato, che deve servire come
limitazione o con- trollo del procedimento analitico, non è veramente
indipendente da questo procedimento, perchè può essere scoperto o assunto solo
sulla base dei pre- supposti che lo ispirano. 2° Le F. che fanno appello
all’esistenza asso- ciata hanno il loro capostipite nella F. di Platone, che
per l’appunto intendeva mettere a prova i ri- sultati della F. nella vita
associata. Allo stesso genere appartiene la F. di Kant, secondo la quale i
risultati della F. devono essere messi a prova nel dominio morale e politico
cioè nel campo dei rapporti umani in generale e costituire uno stru- mento di
progresso in tale campo [cfr. lo scritto Se il genere umano sia in costante
progresso verso il meglio, del 1798, nonchè quello Sull’illuminismo, 1784, e
quelli precedentemente citati in questo ar- ticolo, II, b)]. L'esperienza
inter-umana è anche quella cui fa riferimento Dewey per la messa a prova dei
risultati della F. cioè delle proposte che essa formula per la condotta
intelligente della vita (Experience and Nature, cap. X). Dall'altro lato,
l’esistenzialismo di Heidegger, per quanto non pro- getti di mettere a prova i
risultati delle sue analisi, assume i dati di questa analisi dall’esistenza
comune quotidiana, da ciò che accade fra gli uomini « in- nanzi tutto e per lo
più » (Sein und Zeit, $ 9). Infine a questo stesso orizzonte si può ricondurre la
F. in- tesa come analisi del linguaggio in quanto scorge nel linguaggio il
fatto inter-soggettivo fondamentale e quindi nel chiarimento e nella
rettificazione di esso lo strumento più adatto per l’eliminazione degli
equivoci e la rettificazione dei rapporti inter- soggettivi. Questa almeno
sembrerebbe il significato più importante di una siffatta filosofia. Ma non è
il caso di questo significato, se essa viene intesa semplicemente (come alcuni
l’intendono) quale una «terapia» diretta a liberare dai dubbi, ritenuti fit-
tizi, prodotti dalla filosofia. In questo caso, poichè nessuno, tranne
l’interessato, può giudicare se si senta o meno sufficientemente « guarito +,
la messa a prova della F. avrebbe per suo campo proprio la vita privata
dell’individuo. FILOSOFIA PRIMA (gr. rpém puocopla; lat. Prima philosophia;
ingl. First Philosophy; fran- cese Philosophie première; ted. Ersten
Philosophie). Così Aristotele chiamò talvolta la F. come scienza dell’essere (o
teologia) per distinguerla dalla fisica (F. seconda) e dalla matematica (Fis.,
I, 9, 191 a 36; Met., VI, 1, 1026a 16; ecc.). Bacone adoperò il 405 termine per
indicare la «scienza universale + che è come l’albero da cui si dipartono, come
tanti rami, le scienze particolari e ha per oggetto i princìpi co- muni delle
scienze (De Augm. Scient., III, 1): (v. Frrosoria). Nel significato
aristotelico il termine è stato sostituito da quello di metafisica (v.).
FINALISMO (ingl. Finalism; franc. Finalisme; ted. Finalismus). La dottrina che
ammette la cau- salità del fine, nel senso che il fine sia la causa totale
dell’organizzazione del mondo e la causa dei singoli eventi. La dottrina
implica due tesi: 18 il mondo è organizzato in vista di un fine; 23 la
spiegazione di ogni evento del mondo consiste nell’addurre il fine cui l'evento
è diretto. Queste due tesi si trovano spesso congiunte o confuse in- sieme; ma
talvolta sono distinte e si cerca di am- mettere l'una senza ammettere l'altra.
Secondo la testimonianza di Platone e di Aristotele, Anassa- gora fu il primo degli
antichi ad ammettere la causalità del fine (PLAT., Fed., 97 c; ARIST., Met., I,
3, 984b 18). Platone presenta la sua propria dottrina come una conseguenza del
principio di Anassagora che l'intelligenza è la causa ordinatrice del mondo. «
Se l'intelligenza ordina tutte le cose e ciascuna cosa dispone nel modo
migliore, egli dice, trovare la causa per la quale ciascuna cosa si ge- nera,
si distrugge O esiste, significa trovare qual è per essa il modo migliore di
esistere o di modifi- carsi o di agire + (Fed., 97 c). Ciò che è « meglio » o
«eccellente » è, da questo punto di vista la « vera » causa delle cose mentre
sono cause secondarie o concause quelle di natura fisica che solitamente si
adducono (Tim., 46 d; Fil., 54c). Ma la dottrina che ha fatto prevalere la
concezione finalistica nella metafisica antica e recente è quella aristotelica.
Le due tesi proprie del F. sono parti integranti della metafisica aristotelica.
Da un lato Aristotele af- ferma che « tutto ciò che è per natura esiste per un
fine » (De an., III, 12, 434 a 31) e identifica il fine con la stessa sostanza
«0 forma o ragion d'essere della cosa» (Mef., VIII, 4, 1044a 31). Dall’altro
lato, ritiene che l’intero universo è subordinato ad un unico fine che è Dio
stesso, dal quale dipende l’ordine e il movimento dell’universo stesso (/bid.,
XII, 7, 1072 b). Su queste basi, Aristotele difende la causalità del fine
contro la tesi che egli chiama della « necessità »: la quale consiste
nell’ammettere che le cose non avvengono in vista del loro risultato migliore,
ma che il risultato migliore è, talvolta, l’effetto accidentale della
necessità. Difatti come si dice che di necessità, date certe cause, è piovuto e
che la pioggia ha accidentalmente prodotto la perdita del raccolto, senza che
questa fosse il fine della pioggia, così si potrebbe tentare di spiegare allo
stesso modo la forma degli organismi animali (Fis., II, 8, 198 b 17). Contro
questo modo di ra- 406 gionare Aristotele osserva che ciò che accade sempre o
per lo più non si può spiegare col caso, ma suppone la necessità d’azione del
fine (/bid., II, 9, 200a 5). Non si trova però in Aristotele quella forma popo-
lare della teleologia che s’inizia con gli Stoici e che consiste nel mostrare
che le cose del mondo son fatte dalla natura a vantaggio dell’uomo. Il
fondamento di questa teleologia è espresso da Ci- cerone: « Per chi dunque si
potrebbe dire che è stato realizzato il mondo? Evidentemente per gli esseri
viventi dotati di ragione cioè per gli dèi e per gli uomini; non vi è nulla
infatti che sia più eccellente di essi, dato che la ragione è superiore a
tutto: diviene così credibile che il mondo e tutto ciò che nel mondo esiste è
stato fatto per gli dèi e per gli uomini» (De nar. deor., II, 133). Data la sua
stretta connessione con la teologia, si intende perchè il F. è stato sempre
assunto a fondamento dalla metafisica teologica. Gli Scolastici insistono sulla
superiorità causale del fine che chiamano «causa delle cause ». S. Tommaso,
sulle orme di Aristotele, risolve nella causalità del fine la neces- sità
propria dei movimenti naturali. « La necessità naturale che inerisce alle cose
e le dirige, egli scrive, viene alle cose stesse impressa da Dio in quanto le
dirige ad un fine: al modo stesso in cui la ne- cessità con cui si muove la
freccia e per cui è di- retta verso il bersaglio è stata impressa ad essa da
chi l’ha lanciata e non appartiene alla freccia » (S. Th., I, q. 103, a. 1).
Questo è proprio il pensiero fondamentale che domina e rende straordinaria-
mente uniformi tutte le teorie finalistiche di cui è ricca la storia della F.
fino ai nostri giorni. Sembrò a Hegel una grande novità la sua propria dottrina
del fine come del «concetto stesso nella sua esi- stenza » e della finalità
come una determinazione immanente alla natura stessa; ed egli infatti con-
trappose questa dottrina a quella, che riteneva propria della tradizione, di un
intelletto «extra- mondano » che dall’esterno imponga i suoi fini alla natura
(Wissenschaft der Logik, III, sez. II, cap. III; trad. ital, pag. 216 sgg.).. Ma
in realtà, come provano i testi finora citati, non esiste, nella storia della
F., la dottrina di una finalità estrinseca e imposta da un intelletto extra
mondano; giacchè per finalità del mondo Aristotele, come gli Stoici e come S.
Tommaso, intendono la ragion d’essere propria del mondo, la sua necessità
immanente: e S. Tommaso esplicitamente identifica l’impressio di Dio sulla
natura con la « necessità inerente alle cose». Una finalità se è tale è sempre
immanente alla totalità di cui costituisce l'organizzazione. E come già notava
Aristotele, il F. sotto questo aspetto non muta, sia che si tratti di totalità
naturali sia che si tratti di totalità artificiali; nella costruzione di una
casa il fine pervade il materiale di cui ci si FINALISMO serve e inerisce ad
esso in maniera non diversa da come inerisce alle parti di un organismo (Zis.,
II, 9, 200a 34). In tutti i casi il F. è, per adoperare l’espressione
hegeliana, il concetto stesso nella sua esistenza: la realizzazione di un
concetto che sin da principio dirige e governa questa stessa realiz- zazione.
Pertanto la polemica contro « l’intelletto extra-mondano » di Hegel è una
polemica teolo- gica: la contrapposizione di una tesi panteistica ad una tesi
teistica; ma non concerne il finalismo. Diverso significato ha la distinzione
tra finalità interna e finalità esterna fatta da Schopenhauer, il quale
tuttavia mantiene immutato il concetto tradizionale di F., nonostante la sua
tesi del ca- rattere irrazionale e disordinato della forza che regge il mondo.
La finalità interna è per Schopenhauer «l’armonia di tutte le parti di un
organismo sin- golo, in modo tale che la conservazione di esso e della sua
specie si presenti come lo scopo di questa stessa armonia ». La finalità
esterna è invece la «relazione della natura inorganica con l’organica o di
parti della natura organica tra loro, che rende possibile la conservazione
dell’intera natura orga- nica o delle singole specie» (Die Welt, I, $ 28).
Dall'altro lato non costituisce una innovazione del F. tradizionale la dottrina
di Bergson al ri- guardo. Bergson si è pronunciato, a proposito della finalità
organica, sia contro il « meccanismo radicale » sia contro il « F. radicale »,
in entrambi i quali ha riconosciuto la negazione del carattere «imprevedibile »
o «creativo» dell'evoluzione vi- tale. L'armonia, egli dice, deve trovarsi
all’indietro piuttosto che in avanti di questa evoluzione. « L’av- venire non è
contenuto nel presente sotto la forma di un fine rappresentato. Tuttavia una
volta realiz- zato, esso spiegherà il presente come il presente lo spiegava, e
ancora meglio; dovrà essere considerato come un fine altrettanto e più che come
un risul- tato. La nostra intelligenza ha il diritto di conside- rarlo
astrattamente dal suo punto di vista abituale, giacchè essa stessa è
un’astrazione operata sulla causa da cui emana » (Évol. créatr., 8 ediz., 1911,
cap. 1, pag. 57). Ma anche questa determinazione bergsoniana non innova gran
cosa nel concetto classico del F.; la cui natura non consiste, come Bergson
ritiene, nel negare i caratteri imprevedibili o nuovi che emergono nel corso
della realizzazione del fine, ma unicamente nell’ammettere la causa- lità del
fine stesso e nel ritenere questa causalità come principio di spiegazione. La
dottrina di Bergson non porta nessuna innovazione a questi due punti. Essa si
lascia pertanto ricondurre interamente alla concezione classica del F.; come
alla stessa conce- zione si riconducono le dottrine, che pur ammet- tendo il
meccanismo, lo ritengono incluso e su- bordinato al F. generale della natura,
come fanno FINALISMO Leibniz (Op., ed. Gerhardt, III, pag. 607; IV, pag. 284),
Lotze (Mikrokosmus, 1856, I) e con loro molti spiritualisti contemporanei. Una
innovazione significativa del F. si ha sol- tanto con l’interpretazione kantiana.
Questa in- terpretazione infatti nega la tesi 2* del F. stesso cioè quella per
la quale spiegare un fenomeno si- gnifica addurre lo scopo. Per Kant, la
spiegazione dei fenomeni può essere soltanto causale; ed il giudizio
teleologico è riflettente non determinante cioè coglie, non un elemento
costitutivo delle cose, ma un modo soggettivo, per quanto inevitabile per
l’uomo, di rappresentarsele. « V'è un’assoluta dif- ferenza tra il dire che la
produzione di certe cose della natura, o anche di tutta la natura, non è pos-
sibile se non mediante una causa che si determina ad agire secondo fini, e il
dire che, secondo la par- ticolare natura della mia facoltà conoscitiva, io non
posso giudicare della possibilità delle cose e della loro produzione se non
concependo una causa che agisca secondo fini e quindi un essere che produca
analogamente alla causalità di un intelletto. Nel primo caso voglio affermare
qualcosa dell’oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva del
concetto che ammetto; nel secondo caso la ragione non fa che determinare l’uso
delle mie facoltà co- noscitive, conformemente alla loro natura e alle
condizioni essenziali della loro portata e dei loro limiti » (Crif. del Giud.,
$ 75). Dal secondo punto di vista, che è quello proposto da Kant, il F. non è
che un concetto regolarivo dell’uso dell'intelletto umano: uso opportuno e
necessario per il fatto che l'intelletto umano incontra limiti ben precisi
nella spiegazione meccanica del mondo ed è perciò portato a ricorrere ad una
considerazione comple- mentare. Questa tuttavia non può mai valere come una
spiegazione; e la sua sola funzione è quella di aiutare a ricercare le leggi
particolari della natura (Ibid., $ 78). Questo punto di vista kantiano (che
recentemente è stato rinnovato da N. HARTMANN, Philosophie der Natur, 1950),
mentre nega al F. ogni valore conoscitivo e scientifico gli riconosce una
specie di validità soggettiva, tra estetica e mo- rale, validità dovuta alla
limitazione inevitabile della conoscenza umana. Ovviamente l’interpretazione
kantiana del F. poggia sulla tesi propria degli avversari del F. cioè sulla
negazione del potere esplicativo del F. stesso. Soltanto questa negazione
costituisce in realtà l'abbandono del F. e solo le ragioni che l'appoggiano
costituiscono un'autentica critica di esso. Il F. difatti non è una
generalizzazione empi- rica a partire dalla considerazione di un certo nu- mero
di esempi teleologici; e pertanto neppure una « disteleologia » cioè
un’elencazione di casi con- trari al F. è una critica decisiva del F. stesso.
La 407 dottrina di Platone e di Aristotele al riguardo, e specialmente quella
di quest'ultimo, mostra chiara- mente quale sia il fondamento del F.: la
credenza che l’unica spiegazione possibile degli eventi è quella che adduce lo
scopo per cui avvengono. Lo scopo infatti, per Platone e per Aristotele, è la
forma o ragion d’essere della cosa; e la deter- minazione dello scopo è la
spiegazione causale della cosa stessa. Ora di questo principio si è co-
minciato a dubitare solo nell’età moderna. L'’epi- cureismo che, con Lucrezio,
negava il F. adducendo che esso mette prima quel che viene dopo, per es., la
vista prima dell’occhio (LucREZIO, De rer. nat., IV, 829 sgg.) non costituisce
la negazione di quel principio. La prima critica di esso si può invece trovare
nella scolastica del ’300 ed è opera di Gu- glielmo Ockham. Ockham in primo
luogo fa vedere che l’azione del fine non può consistere se non nel muovere ad
agire la stessa causa efficiente; in se- condo luogo fa vedere che quest’azione
è pura- mente metaforica (/n Sent., II, q. 3 G). Ockham osserva che l’azione
del fine non potrebbe con- sistere se non nell’essere desiderato od amato; e
che questo appunto dimostra il carattere metafo- rico di tale azione. Nelle
azioni naturali, che si verificano con uniformità, non ha senso chiedersi la
causa finale; per es., non ha senso chiedersi per qual fine il fuoco si genera:
infatti non si richiede l’esistenza del fine affinchè l’effetto si produca
(Quodl., IV, q. 1). Questa è, probabilmente, la prima critica che sia stata
rivolta al valore esplica- tivo del finalismo. Qualche secolo dopo, la causa
finale veniva completamente trascurata nella spie- gazione che Telesio tentava
del mondo naturale (De rerum natura, 1565). E Bacone eliminava esplicita- mente
la considerazione del fine dalla ricerca spe- rimentale (Nov. Org., II, 2). «
La ricerca delle cause finali, egli diceva, è sterile: come una vergine con-
sacrata a Dio, non partorisce nulla» (De augm. scient., III, 5). A loro volta
Galilei (Op., VII, pag. 80) e Cartesio (Princ. Phil., III, 3) eliminavano dalla
scienza la considerazione della causa finale. E Spi- noza contrappose la
necessità con cui le cose deri- vano dalla natura divina al F. da lui
considerato come un pregiudizio contrario all'ordine del mondo e alla
perfezione di Dio (Er., I, 36, App.). Da questa epoca in poi, cioè dalle
origini della scienza mo- derna, il F. ha cessato di valere come procedimento
di spiegazione scientifica. È ben vero che esso si è sempre insinuato nelle
crepe della spiegazione meccanica del mondo ed è stato spesso considerato come
un completamento di questa spiegazione al di là dei limiti da essa
raggiungibili. Ciò è accaduto soprattutto nel do- minio delle scienze
biologiche o nella speculazione filosofica sui risultati di queste scienze.
Nonostante 408 i successi ottenuti in questo campo dalla conside- razione
fisico-chimica dei fenomeni biologici, il mancato raggiungimento o addirittura
l’irraggiun- gibilità di una riduzione meccanica di tali fenomeni è stata frequentemente
riconosciuta. Le varie forme del vitalismo (v.), sono per l’appunto contrasse-
gnate da questo riconoscimento e pertanto dal ri- corso ad una spiegazione
teleologica dei fenomeni vitali. Questo ricorso tuttavia è apparso inevitabile
solo nella misura in cui scienziati e filosofi hanno formulato ipotesi globali
sull’origine e la natura della vita; giacchè il lavoro propriamente
scientifico, quello a cui sono dovuti i successi della biologia e della
medicina contemporanea, non ha adoperato altri strumenti, materiali o
concettuali, che quelli propri delle scienze naturali. Questo lavoro pertanto
non ha mai avuto bisogno dell’ipotesi finalistica. Dall'altro lato, la
situazione odierna è caratteriz- zata: 1° dal riconoscimento dell’originalità
dei fe- nomeni organici rispetto a quelli fisico-chimici, senza che tale
originalità si faccia consistere nel carattere finalistico di essi (v.
EVOLUZIONE; VITA- LisMo); 2° dall'abbandono dell’ideale della spiega- zione
meccanica, sicchè la differenza radicale che si era venuta stabilendo, in base
alla riuscita di questa spiegazione, tra fenomeni fisici da un lato e fenomeni
biologici e antropologici dall’altro lato è venuta a cadere (v. CausALITÀ;
SPIEGAZIONE). In virtù di questa situazione, da un lato si è espunta la
causalità del fine dal dominio dell’evoluzione organica, dall'altro l’azione
stessa di questa cau- salità, quale si ammette nell'uomo, può non esser
considerata diversa da quella dalla causalità na- turale. Sul primo punto,
Simpson afferma: « Lo scopo e il piano non sono le caratteristiche della
evoluzione organica e non sono la chiave per nes- suna delle sue operazioni. Ma
lo scopo e il piano sono caratteristiche della nuova evoluzione [cioè
dell'evoluzione sociale o storica] perchè l’uomo ha scopi e fa piani. Qui scopo
e piano entrano defini- tivamente nell’evoluzione, come un risultato e non come
causa dei processi che la lunga storia della vita ci mostra. Gli scopi e i
piani sono nostri, non dell’universo, il quale mostra indizi convincenti della
loro assenza» (7he Meaning of Evolution, 1952, pag. 292). Ma dall’altro lato
gli scopi e i piani non costituiscono una forma di causalità a parte, che
faccia del mondo in cui essi si verificano un dominio privilegiato o speciale
dell’essere. Nel mondo umano, la causalità del fine o è stata ricondotta alla
moti- vazione (v.) che non differisce formalmente dalla spiegazione causale (C.
G. HeMPEL-P. OPPENHEIM, «The Logic of Explanation», in Readings in the Phil. of
Science, 1953, pag. 327-28); oppure è stata descritta in termini di
comportamento che implicano ancora meno il riferimento a un tipo di FINALITÀ
spiegazione specifica (ROSEBLUETH-WIENER-BIGELOW, in « Philosophy of Science»,
1943, pag. 18 sgg.). In conclusione, il F., riconosciuto oggi inutile in tutti
i campi della spiegazione scientifica, rimane la caratteristica di quegli
indirizzi metafisici che ritengono troppo modesto per la filosofia il còmpito
di criticare i valori per rettificarli o renderne possi- bile la conservazione
e si propongono invece quello di dimostrare che i valori sono garantiti dalla
stessa struttura del mondo in cui l’uomo vive e costitui- scono il fine di
essa. Il F. ha perduto completamente il carattere scientifico che aveva alle
sue origini nella Grecia antica e rimane solo come una delle tante speranze o
illusioni cui l’uomo fa appello in mancanza di procedimenti efficaci o in
sostituzione di essi. FINALITÀ (ingl. Purposiveness, Finality; fran- cese
Finalité; ted. Zweckmdssigkeit). La rispondenza di un complesso di cose o di eventi
ad un fine. Così, per es., la F. di un piano o progetto è la rispondenza o
l’adeguazione di esso al fine cui è diretto. La F. della natura è la
rispondenza della natura a quelli che si presumono suoi fini; ecc. La parola
non si applica quindi esclusivamente alla causalità dei fini della natura (cui
si applica la parola finalismo), ma designa in generale una certa forma di
organizzazione o di ordine. FINE (gr. 606, où évexa; lat. Finis; inglese End,
Purpose; franc. Fin, But; ted. Zweck). La parola ha i seguenti significati
principali: 1° termine, nel senso in cui Aristotele dice: «la natura cerca
sempre il F.» cioè « fugge l’infi- nito » (De gen. anim., I, 1, 715b, 16 15).
Nello stesso senso ha usato la parola Dewey: « Possiamo concepire il F. come
dovuto al compimento, al raggiungimento perfetto, alla sazietà, all’esauri-
mento, alla dissoluzione, a qualcosa che è venuto meno o ha ceduto»; e in altri
termini i F. sono solo «termini o conclusioni di episodi temporali » favorevoli
o sfavorevoli, buoni o cattivi che siano (Experience and Nature, pag. 97 sgg.);
2° compimento o perfezione, nel senso che ha frequentemente la parola greca
ié/os. In questo senso si dice « giunta al F. + o « giunta a buon F.» di una
cosa che è stata portata a compimento; 3° scopo o causa finale, nel senso della
quarta delle quattro cause aristoteliche (v. CAuSALITÀ). In questo significato
la parola italiana scopo, quella francese but e quella inglese purpose sono
meglio adoperate. Lo scopo ha carattere oggettivo, sia che s’intenda come
immanente alla natura sia che si intenda come F. di un comportamento umano: è
il termine del progetto o piano cui si riferisce; 4° intento 0 mira, cioè lo
scopo nel suo aspetto soggettivo, come ciò che è il termine di una certa FINITO
intenzione ma che può essere anche diverso dal termine cui questa intenzione
mette capo in realtà. FINI, REGNO DEI (ted. Reich der Zwecke). È, secondo Kant,
la comunità ideale degli esseri ragionevoli in quanto obbediscono unicamente
alla legge della ragione. Il regno dei F., dice Kant è «il concetto in virtù
del quale ogni essere ragione- vole deve considerarsi come fondatore di una le-
gislazione universale per mezzo di tutte le massime della sua volontà, in modo
da poter giudicare se stesso e le sue azioni da questo punto di vista +
(Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II). In tale regno, inteso come
«l’unione sistematica di vari esseri ragionevoli sotto leggi comuni +, ogni
membro è nello stesso tempo legislatore e suddito e vale pertanto come « fine
in se stesso » (Zbid., II). Vedi DIGNITÀ. FINITISMO (ingl. Finitism; franc.
Finitisme; ted. Finitisnus). Con questo termine, usato molto raramente,
s'intende ogni dottrina che affermi la finità del mondo cioè che faccia sue le
resi delle antinomie cosmologiche esposte nella Critica della Ragion Pura di
Kant. FINITO (gr. rnenepacpévov; lat. Finitus; inglese Finite; franc. Fini;
ted. Endlich). Il termine ha i seguenti significati principali, i primi tre dei
quali corrispondono ai significati di infinito: 1° come disposizione o qualità
di una gran- dezza, cioè in senso matematico, il F. è: a) ciò che è completo o
esauribile, cioè non ha parti fuori di sè: il contrario dell’infinito
potenziale; 5) l’in- sieme non auto-riflessivo cioè non equipotente ad una sua
propria parte o sottoinsieme (nel senso stabilito nella teoria degli insiemi di
Cantor e Dedekind). 2° Ciò che è stato condotto a termine, quindi è compiuto e
perfetto. In questo senso si parla comunemente di « lavoro F. » o di « opera
d’arte F. » per significare un lavoro accurato, che si è condotto sino in
fondo, o un'opera d’arte portata alla sua forma perfetta. Questo significato
corrisponde al- l’uso greco del termine. Platone considera F. ciò che ha
ordine, misura e armonia (Fil., 23c sgg.). Aristotele afferma a sua volta: «La
cosa che non ha niente al di là di sè è finita ed intera perchè noi definiamo
l’intero come ciò che non manca di niente... Ora intero e perfetto hanno la
stessa natura, o pressapoco. Ma niente è perfetto che non ha termine, e il
termine è limite» (Fis., III, 6, 207 a 7). 3° Nel senso teologico, ciò che
incontra limiti od ostacoli alla sua possibilità di essere cioè alla sua
potenza. Questo concetto del F. si può far risalire a Plotino, il quale è il
primo che ha inteso l'infinito come illimitatezza della potenza (Enn., IV, 3,
8; VI, 6, 18). Ma questo è soprattutto il 409 concetto di F. sul quale ha fatto
leva il Romanti- cismo per affermare la realtà dell’infinito. Per Hegel,
l’infinito è la realtà stessa in quanto illi- mitata potenza di realizzazione
cioè in quanto Assoluto. Il F. è ciò che non ha abbastanza potere per
realizzarsi, l’ideale, il dover essere (Enc., $ 95; Wissenschaft der Logik,
cap. II, sez. I; trad. ital., I, pag. 163). Da questo punto di vista il F. è «
ir- reale » e trova la sua realtà soltanto nell’infinito e come infinito. 4°
Ciò che può essere o agire solo in deter- minate condizioni. Questo è il senso
in cui la parola è stata intesa da Kant. Egli chiama l’uomo un « essere
pensante F.+, in quanto le sue possibilità conoscitive sono limitate
dall’intuizione sensibile cioè da un’intuizione che dipende da oggetti dati
(Crit. R. Pura, $ 8, rv). Dal punto di vista morale l’uomo è un essere F. in
quanto la sua volontà non si identifica con la ragione e la legge di questa
vale per essa solo come un imperativo (Crif. R. Pra- tica, $ 1, scol.). Infine,
l’intera facoltà del giudizio estetico e teleologico è fondata sulla natura F.
del- l'uomo cioè sulla limitazione delle sue possibilità conoscitive in quanto
non determinano interamente il loro oggetto ma solo la forma di esso (Crit. del
giud., $ 77). Questo significato della parola è ri- masto in espressioni come
«intelletto F.», «es- sere F.», « natura F.», ecc.: nelle quali il F. non
esprime una limitazione spaziale o temporale ma il carattere condizionale di
certe possibilità, che non sono tali da garantire l’onniscienza, l’onnipo-
tenza e l’infallibilità. Nello stesso significato, il termine è assunto
dall’esistenzialismo contempo- raneo. Heidegger vede il carattere F. dell’uomo
nel fatto che ogni suo progetto del mondo è già dominato dal mondo stesso, che
limita le possibi- lità progettabili. Dice Heidegger: «Il progetto di
possibilità, conformemente alla sua essenza, è via via più ricco del possesso
in cui il progettante si trovava anteriormente. Ma un possesso siffatto può
appartenere all’Esserci solo perchè esso, in quanto progettante, si sente
immerso nel mezzo dell’ente. Ma con ciò sono già sortratte all’Esserci
determinate altre possibilità e lo sono in conse- guenza della sua effettività...
Che il concreto progetto del mondo acquisti forza e divenga un possesso solo
nella sottrazione, è un documento trascenden- tale della finitudine della
libertà dell’Esserci. Non si annuncia qui forse proprio l’essenza F. della
libertà in generale? (Vom Wesen des Grundes, Ill; trad. ital., pag. 68-69). In
questo senso, «F.+ è qualità propria solo dell’uomo o delle possibilità umane;
e finitudine è il termine astratto corrispon- dente. Ogni filosofia
dell’esistenza è una filosofia del F. perchè è l’interpretazione dell'esistenza
in termini di possibilità condizionate (v. ESISTENZA, 3°). 410 FINZIONE (ingl.
Fiction; franc. Fiction; te- desco Fiktion). Una filosofia della F. o
finzionismo (Fiktionalismus) è la « Filosofia del come se » (1911) di Vaihinger,
la quale si propone di dimostrare che tutti i concetti, le categorie, i
princìpi e le ipotesi di cui si avvalgono il sapere comune, le scienze e la
filosofia sono F. prive di qualsiasi validità teo- retica, spesso intimamente
contraddittorie, che sono accettate e mantenute solo in quanto utili. Vaihingre
ritiene che questa non sia una situazione patologica ma normale e che l’unica
alternativa che essa pro- spetti è quella di un uso consapevole e scaltrito
delle F. come tali. Ovviamente in questo senso la F. non è un’ipotesi perchè
non esige di essere verifi- cata; si avvicina di più al concetto di mito (v.).
La filosofia della F. è uno degli sviluppi che ha avuto il concetto kantiano
nella filosofia contem- poranea del come se (v.). FISICA (gr. quow; lat. Physica;
ingl. Physics; franc. Physique; ted. Physik).
La disciplina che ha per oggetto lo studio della natura, le cui caratteri-
stiche e i cui metodi sono pertanto in relazione con ciò che s’intende per
narura (v.). Come disci- plina specifica, essa si può dire nata con Aristotele
che la considerò come la «filosofia seconda» di- stinguendola, nel gruppo delle
scienze teoretiche, da un lato dalla feologia dall’altro dalla matematica
(Met., XI, 7, 1064b 1). Si possono distinguere tre concetti fondamentali di
questa scienza, che si sono succeduti storicamente: 1° il concetto della F.
come teoria del movimento; 2° il concetto della F. come teoria dell’ordine
necessario; 3° il concetto della F. come previsione dell’osservabile. 1° Alla
sua nascita, con Aristotele, la F. è la teoria del movimento e tale si è
mantenuta sino alle origini della scienza moderna. Aristotele ri- tiene infatti
che la F. ha per oggetto «quella so- stanza che ha in se stessa la causa del
suo movi- mento » (Mer., VI, 1, 1025b 18); e che pertanto il modo in cui la F.
considera le sostanze dipende dalla natura dei movimenti di cui sono dotate.
Ora dei quattro movimenti distinti da Aristotele (sostanziale, cioè generazione
e corruzione; quali- tativo, cioè mutamento; quantitativo, cioè aumento o
diminuzione; /ocale, cioè traslazione; Fis., VIII, 7, 261 a 26), il movimento
di traslazione è il primo e fondamentale: tutti gli altri possono infatti
essere spiegati con la traslazione dei corpi (/bid., VIII, 7. 260 a-b). La
determinazione delle varie sostanze fisiche deve perciò essere fatta in base al
movimento di traslazione che è proprio di ciascuna di esse. Ora il movimento di
traslazione è di tre specie: dall’alto verso il centro del mondo, dal centro
verso l’alto, intorno al centro o circolare. I primi due movimenti sono
contrari tra loro e (poichè la ge- nerazione e la corruzione consistono nel
passaggio FINZIONE da un contrario all’altro) sono propri dei corpi soggetti
alla generazione e alla corruzione cioè dei corpi terrestri o sublunari, che
risultano composti di quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco. Il
movimento circolare invece non ha contrari perchè muoversi da destra a sinistra
o da sinistra a destra circolarmente non modifica la circolarità del movi-
mento stesso (De cael., I, 4). Esso sarà allora proprio della sostanza che
compone i corpi ingenerabili e incorruttibili cioè i corpi celesti, e questa
sostanza è l’etere. Dei quattro elementi che compongono il mondo sublunare due,
aria e fuoco, si muovono dal basso in alto; due, acqua e terra, dall’alto in
basso. La F. aristotelica è pertanto una F. qua- litativa nel senso che ritiene
un determinato movi- mento proprio di un determinato elemento e sta- bilisce
così una netta divisione qualitativa degli elementi tra loro e di tutti gli
elementi dall’etere. Da questa impostazione segue il principio generale della
F. aristotelica che è: « Ogni elemento si muove verso la sua sfera, se non è
impedito » (Fis., IV, 1, 208 b 10); principio il quale implica o stabilisce
l’esistenza di luoghi assoluti che sono le sedi na- turali degli elementi e ai
quali pertanto gli elementi stessi ritornano quando ne sono allontanati. Questi
luoghi sono, secondo Aristotele, determinati dal peso degli elementi. Al centro
del mondo c’è la terra che è l’elemento più pesante (come risulta, per es., dal
fatto che la pietra cade o affonda nel- l’acqua). Attorno alla terra c'è la
sfera dell’acqua; e attorno alla sfera dell’acqua quella dell’aria che è ancora
più leggera, come dimostra il fatto che una bolla d’aria rotta nell’acqua sale
alla superficie. Attorno alla sfera dell’aria c’è quella del fuoco, che è
l’elemento più leggero, come dimostra il fatto che le fiamme accese sulla
superficie della terra tendono verso l’alto cioè alla sfera che è al di sopra
dell’aria. Su questa base Aristotele determina i caratteri del mondo: che è
unico perchè gli ele- menti si addensano ognuno nella sua sfera; finito perchè
compiuto e perfetto; e come tale anche ordinato ad un unico fine, che è Dio
stesso. Questa dottrina, fondata su poche ma comuni esperienze, e ammirevole
per la sua eleganza e semplicità, è stata la maggiore espressione, nel pensiero
antico, di una sintesi delle conoscenze naturali. Di fronte ad essa, la F.
atomistica degli Epicurei e la F. pan- teistica degli Stoici hanno più
carattere di specula- zione che di conoscenza scientifica. Tale infatti è il
giudizio che ne fecero gli scienziati antichi, i quali le trascurarono
completamente, per rifarsi invece costantemente alla F. aristotelica: sulla
quale To- lomeo stesso (I1 secolo) innestò la sua astronomia. La F.
aristotelica ha dominato incontrastata per molti secoli; e nonostante i dubbi
che alcuni sco- lastici del sec. xiv avanzarono su di essa, il suo FISICA
abbandono si ha soltanto con Leonardo, Copernico, Keplero e Galilei, ai quali è
dovuta la prima orga- nizzazione della scienza moderna. 2° Il secondo concetto
fondamentale della F. è quello che la considera come lo studio dell’ordine
sperimentabile della natura. A questo concetto hanno contribuito gli Aristotelici
del Rinascimento con la difesa della necessità dell’ordine naturale; i
Platonici dello stesso Rinascimento, e specialmente Cusano, con l’affermazione
del carattere matema- tico dell'ordine naturale; infine la magia con la sua
pretesa di attingere ed esercitare un dominio effettivo sulla natura. Il
concetto della natura, che è già chiaro in Galilei, è quello di un ordine
ogget- tivo, scritto in caratteri matematici, necessario e privo di finalità,
attingibile mediante l’esperimento. Su questo concetto di ordine si fondava la
nozione di armonia che Keplero poneva a base della scienza della natura
(Hermonices mundi, 1619, IV, 1). L’opera di Newton portava alla sua maturità il
corrispondente concetto della fisica. Còmpito della F. diveniva esplicitamente
e unicamente la descri- zione dell'ordine naturale. La F. aristotelica, come
teoria del movimento, era diretta allo studio delle cause del movimento: le
quali cause coincidevano con le sostanze (forme o cause finali) delle cose.
Newton chiariva il senso nel quale la determina- zione dell’ordine naturale
deve essere oggetto della scienza, proprio negando, in polemica con la scienza
aristotelica, che la F. fosse scienza delle cause (Optice, 1740, III, q. 31).
Nel 1764 Kant così de- scriveva il concetto newtoniano della scienza: « Con
esperienze sicure e nel caso anche con l’ausilio della geometria, si devono
ricercare le regole se- condo le quali si svolgono certi fenomeni della natura
» (Untersuchung ilber die Deutlichkeit de Grundsdtze der natiirlichen Theologie
und der Moral, 1763, II). Queste regole sono le leggi naturali: leggi che
delineano l’ordine dei fenomeni naturali cioè il modo necessario, perciò
uniforme e costante, in cui essi si connettono l’uno con l’altro. De- scrivere
questa connessione è il compito della fisica. L’illuminismo e il positivismo
fecero pre- valere questo concetto della F.: sul quale insi- steva D'Alembert
(É/ements de phil., 1759, $ 4) e che è alla base della nozione della scienza
espressa da Comte. « Il carattere fondamentale della F. po- sitiva, diceva
quest’ultimo, è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a /eggi naturali
invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al mi- nimo numero
possibile sono gli scopi di tutti i nostri sforzi, considerando come assolutamente
inaccessi- bile e priva di senso la ricerca di quelle che si chia- mano cause,
sia primarie sia finali » (Cours de Phil. Positive, lez. I, $ 4). Le leggi non
sono infatti altro che le espressioni dell’ordine necessario della natura. 411
Il concetto della F. come teoria dell’ordine na- turale si contrappone al
concetto della F. come teoria del movimento per la sua pretesa di limitarsi a
descrivere la natura nel suo ordine invece che a spiegarla nelle sue cause. Da
Newton in poi la descrizione viene opposta alla spiegazione, come còmpito
proprio della fisica. Oppure, il che ha lo stesso significato, si considera la
spiegazione cui la F. deve legittimamente aspirare come la determina- zione di
un rapporto tra due fenomeni in confor- mità di una legge: il che è per
l’appunto ciò che, sotto un altro aspetto, è una semplice descrizione. Questo
concetto della F. ha pertanto, come sua caratteristica propria, il
riconoscimento delle con- nessioni necessarie tra i fenomeni, nelle quali si
concreta o prende corpo l’ordine naturale, nonchè la credenza nella
sperimentabilità, cioè accertabi- lità empirica, di tale connessione. Il
concetto del- l’ordine naturale coincide con quello della causalità necessaria
(v. CAUSALITÀ) e pertanto con quello della prevedibilità infallibile dei
fenomeni naturali. Se la natura è l’ordine necessario, la F. come studio di
quest’ordine può stabilire regole che consentono la previsione infallibile dei
fenomeni. Questa è la credenza che ha costituito la base della F. classica sino
ai primi decenni del sec. xx e che ha sorretto altresì l'ipotesi fondamentale
sulla quale essa si reggeva: il meccanicismo (v.). Questa ipotesi aveva fra
l’altro il vantaggio di rendere possibile una descrizione visuale del corso dei
fenomeni: una descrizione cioè che faceva appello a immagini vi- sive e
pretendeva di rappresentare con tali imma- gini (cioè mediante particelle in
movimento) la struttura effettiva dei fenomeni. Ma proprio da questa pretesa
cominciarono a sorgere le prime difficoltà, quando, con la F. relativistica, il
concetto di campo (v.) cominciò a sostituire la rappresenta- zione visiva delle
particelle in movimento. « Oc- correva una coraggiosa immaginazione
scientifica, notano Einstein e Infeld, per riconoscere che l’es- senziale per
l'ordinamento e la comprensione degli eventi può essere non già il
comportamento dei corpi bensì il comportamento di qualcosa che si interpone fra
di essi, vale a dire del campo » (The Evolution of Physics, IV; trad. ital.,
pag. 302). La F. quantistica costituiva un passo ulteriore nella distruzione
della possibilità di una descrizione vi- sualizzante. Notava Bohr: «
Nell’adattamento del- l’esigenza relativistica al postulato del quantum
dobbiamo prepararci ad andare incontro a una rinuncia alla visualizzazione (nel
senso ordinario del termine) ancora più radicale di quella incontrata nella
formulazione delle leggi quantiche considerate finora. Noi ci troviamo qui sul
cammino intrapreso da Einstein nell’adattare i nostri modi di percezione,
desunti dalle sensazioni. alla conoscenza gradual- 412 mente più approfondita
delle leggi di natura» (Atomic Theory and the Description of Nature, 1934, pag.
90). La rinuncia alla visualizzazione era in realtà anche la rinuncia alla
descrizione; giacchè l'impossibilità di visualizzare l’intero corso dei fe-
nomeni non è che l’impossibilità di descrivere il loro ordine necessario nella
sua interezza. Difatti questa impossibilità fu riconosciuta nella F. con
l'introduzione del cosiddetto « principio di inde- terminazione » di Heisenberg
(1927) con il quale la causalità rigorosa dei fenomeni fisici veniva per la
prima volta negata, stante l’impossibilità di pre- vedere con esattezza il
comportamento della parti- celle atomiche singole (v. CAUSALITÀ; INDETERMI-
NAZIONE). Caduta la pretesa della causalità rigorosa e per conseguenza quella
della descrizione dell’or- dine totale dei fenomeni, la F. non poteva più
essere intesa come una teoria dell’ordine necessario della natura. 3° Il terzo
concetto della F., che si è venuto delineando a partire dal 1930, fa leva su di
una determinazione che era già ritenuta fondamentale dalla nozione della F. che
l’ha preceduta. Già Comte infatti sulle orme di Bacone, aveva insistito sulla
esigenza della scienza di stabilire previsioni che consentano il dominio sulla
natura. « Scienza, donde previsione; previsione, donde azione +, aveva detto
(Cours de Phil. Positive, lez. II, $ 3). Nel 1894 Hertz nei suoi Principi di
meccanica insisteva sullo stesso concetto: « Il più diretto e in un certo senso
il più importante problema che la nostra consapevole conoscenza della natura
deve renderci capaci di risolvere è l’anticipazione degli eventi futuri, per la
quale possiamo organizzare le nostre faccende presenti sulla base di tale
anticipazione ». A_ misura che il còmpito della descrizione totale dell’ordine
degli eventi veniva considerato fuori delle possibi- lità effettive della F.,
il còmpito della previsione acquistava un sempre maggiore rilievo. Il limitarsi
a questo compito ha accresciuto enormemente il potere d’azione o di
trasformazione della fisica. Il principio di complementarità espresso da Bohr
nel 1927 segna l’abbandono definitivo, da parte della F., della sua pretesa di
valere come teoria dell’ordine necessario. Quel principio infatti dice che: «
Una descrizione spazio-temporale rigorosa e una con- nessione causale rigorosa
dei processi individuali non possono essere realizzati simultaneamente: o l'una
o l’altra dev'essere sacrificata ». Questo vuol dire che la catena delle cause
e degli effetti potrebbe essere quantitativamente verificata solo se l'intero
universo fosse considerato con un unico sistema; ma in questo caso la F.
sarebbe svanita e rimarrebbe solo uno schema matematico (HEISENBERG, Die phy-
sikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Da questo punto di
vista, mentre non può FISICALISMO essere descritto l’intero corso di un
fenomeno, si può calcolare con esattezza il risultato di una os- servazione
futura. « Ad un certo istante, dice Hei- senberg, si misurino certe grandezze
fisiche tanto esattamente quanto è possibile in linea di principio; si hanno
allora in ogni istante successivo grandezze il cui valore può essere calcolato
esattamente, cioè per le quali il risultato di una misura può essere predetto
con esattezza, purchè il sistema da osser- varsi non sia sottoposto ad alcuna
perturbazione tranne la misura stessa » (7bid., IV, $ 1). Dirac ha espresso lo
stesso concetto della F. dicendo: «Il solo oggetto della F. teorica è di
calcolare risultati che possono essere paragonati con l’esperimento ed è del
tutto inutile che sia data una descrizione soddisfacente dell’intero sviluppo
del fenomeno» (Principles of Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). La F. si è così
trasformata interamente in una teoria della previsione degli eventi osservabili
e ha abbandonato le esigenze descrittive della sua se- conda fase, oltre che
quelle esplicative della sua fase anteriore. Dal punto di vista filosofico,
questo carattere fondamentale della F. contemporanea è stato perfettamente
espresso dallo stesso Heisenberg quando ha detto che la F. del nostro tempo non
ci fornisce più « una immagine della natura, ma una immagine dei nostri
rapporti con la natura » (Das Naturbild der heutigen Physik, 1955, pag. 21).
FISICALISMO (ingl. Physicalism; franc. Phy- sicalisme; ted. Physikalismus).
Nome proposto da Neurath (in « Erkenntnis», 1931, pag. 393) come denominazione
del Circolo di Vienna, che vedeva nel linguaggio il campo d°’indagine della
filosofia, per sottolineare il carattere fisico del linguaggio. Il termine fu accettato
da Carnap per indicare il primato del linguaggio fisico e la sua capacità di
valere come il linguaggio universale: « Il linguaggio della fisica, dice
Carnap, è un linguaggio universale, che comprende i contenuti di tutti gli
altri linguaggi scientifici. In altri termini, ogni proposizione di una branca
del linguaggio scientifico è equipollente ad alcune proposizioni della lingua
fisicalistica e può essere pertanto tradotta in essa senza mutare il suo
contenuto» (Philosophy and Logical Syntax, 1935, pag. 89). Questa traducibilità
di ogni propo- sizione significante in una proposizione della fisica è ciò che
si è chiamato F.: il quale ha costituito l’idea direttiva della Enciclopedia
della scienza uni- ficata (v. EMPIRISMO LOGICO; ENCICLOPEDIA). Carnap ha
tuttavia, in un secondo momento, interpretato il F. come la riducibilità di
tutte le espressioni lin- guistiche significative al linguaggio cosale (v.),
piut- tosto che a quella particolare forma del linguaggio cosale che è il
linguaggio fisico (« Testability and Meaning *, in Readings in the Phil. of
Science, 1953, pag. 69-70). FONDAMENTO FISICA SOCIALE (ingl. Socia/ Physics;
fran- cese Physique sociale; ted. Sozial Physik). Con questo nome Comte indicò
lo studio dei fenomeni sociali, cioè la sociologia; della quale egli per primo
affermò l'autonomia scientifica (Cours de Phil. Positive, lez. 46) (v.
SOCIOLOGIA). FISICO-TEOLOGICA, PROVA. V. Dio, PROVE DI. FISIOCRAZIA. V.
ECONOMIA POLITICA. FISIOGNOMICA (gr. queroyvopla; ingl. Phy- siognomonics;
franc. Physiognomonie; ted. Physiogno- mik). È l’arte di giudicare
dall’apparenza visibile di un uomo e specialmente dai tratti del viso, il suo
ca- rattere, cioè il suo modo di sentire e di pensare. Ari- stotele (seguito da
molti scrittori antichi e medievali) aveva già ammessa la possibilità di
giudicare la natura di una cosa sulla base della sua forma cor- porea (An. Pr.,
II, 27, 70b 7). Cicerone parlava di un fisionomista Zopiro che si vantava di
cono- scere la natura e il carattere di un uomo con l’esame del suo corpo, cioè
dei suoi occhi del suo volto e della sua fronte (De Fato, V, 10). Ma fu soprat-
tutto nel Rinascimento che quest'arte fu coltivata in particolare, a cominciare
da Giambattista della Porta che nel 1580 pubblicava un libro Sulla F. umana. A
quest’arte fu data grande diffusione nel *700 da Lavater (Frammenti F.,
1775-78). Kant stesso riconosce il valore della F. (Antr., II, cap. III). Hegel
la distingue con lode dalle cattive arti e dai vani studi perchè essa afferma
l’unità dell’interno e dell’esterno (Phanomen. des Geistes, I, parte I, cap. V;
trad. ital., pag. 281). Ed anche in tempi mo- derni la F. trova sostenitori non
solo tra psicologi e caratteriologi ma anche tra filosofi. Spengler ha detto:
«La morfologia di ciò che è meccanico ed esteso, una scienza che scopre e
ordina rapporti causali, si chiama sistematica. La morfologia di ciò che è
organico, della storia e della vita, di tutto ciò che reca in sè direzione e
destino, si chiama F.» (Untergang des Abendlandes, 1, pag. 134). R. Kassner ha
addirittura affermata l’identità della psicologia con la F., sul fondamento che
la vecchia distinzione tra essere e apparire non ha valore: «La psicologia deve
quindi essere F., e qualsiasi altra è tediosa e banale, giacchè, tutto
consistendo nella visione, nulla ha più bisogno di venir sondato oppure sco-
perto togliendo uno strato dopo l’altro di parvenze » (Das physiognomische
Weltbild, Intr.; trad. ital., in Gli elementi dell’umana grandezza, 1942, pag.
61 e seguenti). FISIOGNOSI (ingl. Physiognosy). Termine ado- perato da Peirce
per indicare il complesso delle scienze fisiche (Coll. Pap., 1.242). FISIOLOGIA
(ingl. Physiology; franc. Physio- logie; ted. Physiologie). Nel senso in cui
Aristotele e altri scrittori antichi usano la parola, studio della 413 natura:
lo stesso che fisica. In questo senso ha anche usato talvolta la parola Kant
(Cri. R. Pura, Dottr. trasc. del met., cap. III). FISIOLOGIA PSICOLOGICA o
PSICO- FISIOLOGIA. V. PsicoLOGIA, B). FISSISMO. Termine che non trova riscontro
nelle altre lingue, col quale si indica la dottrina dell’immutabilità delle
specie viventi, in contrap- posto con evoluzionismo (v. EVOLUZIONE). FOLLIA. V.
PAZZzia. FONDAMENTO (gr. altia, x6y0g; lat. Ratio; ingl. Foundation; franc.
Fondement; ted. Grund). La causa nel senso di ragion d’essere. Questo è uno dei
significati principali del termine « causa » e pre- cisamente quello per il
quale essa contiene la spie- gazione e giustificazione razionale della cosa di
cui è causa. Dice Aristotele: « Noi crediamo di conoscere un oggetto singolo
assolutamente — cioè non accidentalmente o in modo sofistico — quando crediamo
di conoscere la causa per la quale la cosa è, e di conoscere che essa è causa
della cosa e che questa non può essere altrimenti» (Ana/. post., I, 2, 71b 8).
In questo senso la causa è ragione, logos (De part. an., 1, 1, 639 b 15):
giacchè fa com- prendere non soltanto l’accadere di fatto della cosa ma il suo
« non poter essere altrimenti » cioè la sua necessità razionale. Nella dottrina
aristotelica per- tanto, come in tutte quelle che dipendono da essa, la
causa-ragione è un concetto ontologico che esprime la necessità propria
dell'essere in quanto sostanza. In questo stesso senso adopera Hegel il
concetto: « Il F., egli dice, è l’essenza che è in sè e questa è essenzialmente
F.; e F. è soltanto in quanto fondamento di qualcosa, di un altro» (Enc., $
121). Difatti in questo senso il F. è « l’es- senza posta come totalità»
(/bid., $ 121) cioè la ragione della necessità di una cosa, come riteneva
Aristotele. Per opera di Leibniz, tuttavia, la nozione aveva acquistato un
significato diverso e specifico per il quale si distingue nettamente da quella
di causa essenziale o sostanza necessaria. Passa cioè a de- signare una
connessione priva di necessità e tuttavia tale da fare intendere o giustificare
la cosa; e il principio di questa connessione viene chiamato principio di
ragion sufficiente (Principium rationis sufficientis, Satz vom zureichenden
Grunde). Leibniz giunge alla formulazione di questo principio at- traverso la
contrapposizione tra la connessione li- bera ma determinante e la connessione
necessitante. Egli dice: « La connessione o concatenazione è di due specie:
l’una è assolutamente necessaria, tale cioè che il suo contrario implica
contraddizione, e tale connessione si verifica nelle verità eterne come sono
quelle della geometria; la seconda non è ne- cessaria che ex Aypothesi e per
così dire per acci- 414 dente ed è contingente in se stessa, giacchè il suo
contrario non implica contraddizione ». Questa se- conda connessione si
verifica nel rapporto tra una sostanza individuale e le sue azioni: per es., il
fondamento del fatto che Cesare passò il Rubicone si trova indubbiamente nella
stessa natura di Ce- sare, ma ciò non dice che quel fatto sia necessario in se
stesso o che il suo contrario implichi contrad- dizione. Allo stesso modo Dio
sceglie sempre il meglio, ma lo sceglie liberamente e il contrario di ciò che
sceglie non implica contraddizione. « Ogni verità fondata su questi tipi di
decreti è contingente, per quanto sia certa, perchè questi decreti non mutano
affatto la possibilità delle cose; e per quanto Dio, come ho già detto, scelga
sempre in- dubbiamente il meglio, ciò non impedisce che ciò che è meno perfetto
non sia e non rimanga possi- bile in se stesso, benchè non accadrà, dato che
non è la sua impossibilità che lo fa respingere ma la sua imperfezione. Ora,
nulla è necessario il cui opposto sia possibile » (Discours de Métaphysique,
1686, $ 13). Come appar chiaro da questi testi di Leibniz, il F. o ragion
sufficiente ha una capacità esplicativa diversa dalla causa o ragion d’essere
di Aristotele. Quest'ultima infatti spiega la necessità delle cose, il perchè
la cosa non possa essere altri- menti da com'è. Il fondamento o ragion
sufficiente spiega la possibilità della cosa, cioè spiega perchè la cosa può
esser o comportarsi in un certo modo. Proprio per questo Leibniz destinò il
principio di ragion sufficiente a fondamento delle verità contin- genti,
continuando ad ammettere, come aveva fatto Aristotele, il principio di
contraddizione come base delle verità necessarie (De scientia universali, in
Opera, ed. Erdmann, pag. 83). Tuttavia, soltanto Cristiano Wolff riconobbe al
principio del F. (o principio di ragion sufficiente) il rango di principio della
intera filosofia e del metodo di essa. Proprio sulla base di esso Wolff infatti
definiva la filosofia come «scienza delle cose possibili in quanto pos- sono
esistere » (Lop., Disc. prael., $ 29) e vide il còmpito fondamentale di essa
nel dare la « ragione per cui le cose possibili possono conseguire l’es- sere »
(/bid., $ 31). Da questo punto di vista, tutta l’attività filosofica consiste
nella determinazione del F. (ratio, Grund), intendendosi per F. «la ra- gione
per cui qualcosa è o accade» (Zbid., $ 4). Woiff tuttavia riconduceva il
principio di ragion sufficiente ad un significato necessaristico. Egli di-
stingueva difatti il principium essendi che contiene la ragione della
possibilità della cosa dal principium fiendi (o dell'accadere) che contiene la
ragione della realtà (Ont., $ 874). E distingueva dall’altro lato il principium
cognoscendi con il quale intendeva «la proposizione mediante la quale si
intende la verità di un’altra proposizione » (/bid., $ 876). Ora FONDAMENTO è
chiaro che sia il principium fiendi (che è poi il principio di causalità) sia
il principium cognoscendi (che è poi la dimostrazione) hanno un carattere
necessitante. Lo stesso carattere il principio as- sume nell’opera di
Baumgarten, che tende a ri- condurlo a quello di contraddizione (Mer., $ 20).
Questa tendenza prevaleva all'interno della scuola wolffiana (cfr. Cassirer,
Erkenntnissproblem, VII, cap. 3; trad. ital., II, pag. 596 sgg.) e fu soltanto
contrastata da Crusius, che insisteva sulla distin- zione del principio di ragion
sufficiente dal prin- cipio di causalità, proprio per escludere dal primo il
carattere necessitante (De usu et limitibus principii rationis determinantis,
1743, $ 4): una correzione che Kant accettava in uno dei suoi primi scritti
(Principiorum Primorum Cognitionis Metaphysicae Nova Dilucidatio, 1755). Dopo
di Crusius tuttavia il carattere non necessitante del principio di ragion
sufficiente, cioè quel carattere che aveva convinto Leibniz ad ammetterlo come
un principio a sè, andò del tutto smarrito. La stessa distinzione sta- bilita
da Crusius tra principio di ragion sufficiente e principio di causalità servì a
considerare i due princìpi come due espressioni del principio di ne- cessità.
Questa fu appunto la via tenuta da Scho- penhauer nel suo scritto Die vierfache
Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (1813). Schopen- hauer enumerava
quattro forme del principio di ragion sufficiente; cioè, accanto alle due
distinte da Crusius, poneva il principio di ragion sufficiente del- l'essere,
che regola i rapporti fra gli enti matematici e il principio di ragion
sufficiente dell’agire, che regola i rapporti fra le azioni e i loro motivi. Il
carattere non necessitante del F. è tuttavia oscura- mente riconosciuto nelle
utilizzazioni metafisiche che sono state fatte di esso. Schelling nelle Unter-
suchungen liber das Wesen der menschlichen Freiheit (1809) intese per F. la
brama o volontà di vivere da cui dipende l’esistenza sia dell’uomo che di Dio.
Il F. in questo senso non è, ovviamente, una causa necessitante. In un senso
analogo Heidegger ha detto: «la libertà è il F. del F.». «La libertà, egli
spiega, in quanto è il fondo di questo F. è anche l’abisso (senza fondo)
dell’Esserci. Non che sia infondato il singolo libero rapportamento, ma nel
senso che la libertà, nella sua essenziale natura di trascendenza, pone
l’Esserci, come poter essere, in possibilità le quali si distendono innanzi
alla sua scelta finita, cioè nel suo destino » (Vom Wesen des Grundes, 1928,
IIl; trad. ital., pag. 77-78). In altri termini, il F. è per l’esistenza umana
quel radi- carsi nel mondo per cui le possibilità progettate sono limitate e
comandate dal mondo stesso. Il F. esprime il condizionamento che il mondo
esercita sull’uomo in virtù del radicarsi stesso dell’uomo nel mondo. FORMA Affiora
chiaramente da questi testi il tratto ca- ratteristico della nozione in esame,
che è quello di esprimere un condizionamento non necessitante. Questo è infatti
il significato più comune e gene- rale del termine sia nel linguaggio comune
che in quello filosofico. Il F. è ciò che dà ragione di una preferenza, di una
scelta, della realizzazione di una alternativa piuttosto che un’altra. Si parla
di F. ogni qualvolta la preferenza o la scelta è giustifi- cata o la
realizzazione dell’alternativa è spiegabile. Similmente un principio «
fondamentale » è un prin- cipio che stabilisce la condizione prima e più ge-
nerale perchè qualcosa possa esserci; e una scienza fondamentale è quella che
contiene le condizioni che rendono possibili le altre scienze (e in questo
senso Wolff chiamava Grundwissenschaft l’onto- logia). Si può dire pertanto che
nell’uso moderno la parola ha un significato non diverso da con- dizione (v.).
L’illuminismo tedesco del *700, che ha elaborato il concetto di F., ha anche
elaborato la nozione del metodo del F. (ted. Grundlichkeit) di cui lo stesso
Wolff ha dato le regole nel IV capitolo del Discorso preliminare della
Philosophia rationalis e che Kant così riassumeva nella prefazione alla se-
conda edizione della Critica della Ragion Pura: «Ci toccherà un giorno, nel
sistema futuro della metafisica, di seguire il metodo del celebre Wolff, il più
grande dei filosofi dogmatici il quale per primo diede l’esempio (e per questo
esempio di- venne in Germania il creatore di quello spirito di Grundlichkeit
che non si è ancora smarrito) di come si possa prendere il sicuro cammino della
scienza stabilendo regolarmente i princìpi, deter- minando chiaramente i
concetti, cercando il rigore delle dimostrazioni e rifiutandosi ai salti nel
trarre le conseguenze +». Il metodo della fondazione con- siste nell’addurre il
F., cioè la ragione giustificativa, di ogni passo del filosofare; ed è il
metodo dal quale ancora la filosofia può attendersi una salva- guardia
dall’arbitrio. FORMA (gr. uoppf, el8oc; lat. Forma; inglese Form; franc. Forme;
ted. Form). Il termine ha i seguenti significati principali: 1° L’essenza
necessaria o sostanza delle cose che hanno materia. In questo senso che è
quello aristotelico la F. non soltanto si oppone alla ma- teria, ma la richiama.
Aristotele adopera pertanto questo termine in riferimento alle cose naturali
che sono composte di materia e F.; e osserva che la F. è «natura » più della
materia giacchè di una cosa si dice che è ciò che essa è in atto (la F.),
piuttosto che ciò che è in potenza (Fis., Il, 1, 193b 28; Met., IV, 1015 a 11).
Da questo punto di vista non possono dirsi F. le sostanze immobili (Dio e le
in- telligenze motrici) che sono prive di materia; ma 415 sono F. le sostanze
naturali in movimento. Di qui la polemica condotta da Aristotele contro il
plato- nismo, allo scopo di affermare l’inseparabilità della F. della materia.
Gli Scolastici non si sono attenuti rigorosamente a questa terminologia
aristotelica e hanno esteso il termine F. a ogni sostanza, parlando di « F.
separate » per indicare le idee esistenti nella mente di Dio (ALBERTO Magno, S.
7h., I, q. 6; S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 15, a. 1) e di «F. sussi- stenti » per
indicare gli angeli che sono privi di corpo e così di materia (S. Tommaso, .S.
7h., I, q. 50, a. 2). Essi inoltre parlavano di « F. sostan- ziali o di F.
accidentali» (/bid., I, q. 76, a. 1) la quale ultima espressione è, da un punto
di vista aristotelico, poco meno che contraddittoria. Gil- berto Porretano
(sec. xn) aveva distinto nel De sex principiis le F. inerenti, corrispondenti
alle quattro prime categorie aristoteliche (sostanza, qua- lità, quantità,
relazione) e le F. assistenti che cor- rispondono alle altre categorie
aristoteliche e co- stituiscono caratteri non costituenti la sostanza delle
cose. In ogni caso, la F. conserva i caratteri che Aristotele le aveva
riconosciuti: è la causa 0 ragion d’essere della cosa, ciò per cui una cosa è
quello che essa è; è l’atto o l’attualità della cosa stessa, perciò il
principio e il fine del suo divenire. Il concetto di F. così inteso è stato ed
è adope- rato anche fuori dell’aristotelismo e dei suoi deri- vati. Non
possiede determinazioni diverse da quelle accennate, la F. di cui parla Bacone
come oggetto proprio della scienza naturale: questa F. è atto e causa
efficiente, proprio come la F. aristotelica (Nov. Organ., II, 17) e si
distingue da questa sol- tanto perchè non si lascia afferrare, come riteneva
Aristotele, dal procedimento deduttivo o dall’in- telletto intuitivo ma solo
dall’induzione sperimen- tale. Al significato tradizionale della parola fa
riferimento Cartesio quando nega che esistano «quelle F. o qualità di cui si
disputa nelle scuole » (Discours, V). E nello stesso significato è assunta da
Bergson quando afferma che «la F. è un’istantanea presa su di una transizione »
cioè una specie di immagine media cui si avvicinano le immagini reali nel loro
mutamento e che viene assunta come «l’essenza della cosa o la cosa stessa »
(Évol. Créatr., IV ed., 1911, pag. 327). A questo concetto di F. si avvicina il
senso in cui la parola è usata da Hegel, come «totalità delle determinazioni »,
che è poi l’essenza nel suo manifestarsi come fenomeno (Enc., $ 129). La F. in
questo senso è il modo di manifestarsi dell’essenza o sostanza di una cosa in
quanto quel modo di manifestarsi coincide con l’essenza stessa. Questo è il
senso in cui Hegel usava la parola abitualmente, per es., quando diceva: « Il
contenuto umano della 416 coscienza, prodotto dal pensiero, appare dapprima non
in F. di pensiero, ma come sentimento, intui- zione, rappresentazione, F. che
sono da distinguere dal pensiero come F.» (Enc., $ 2). Questo è preci- samente
il senso nel quale Croce e Gentile hanno parlato di « forme dello spirito »,
sia per stabilirne sia per negarne la diversità. 2° Una relazione o un
complesso di relazioni (ordine) che può mantenersi costante col variare dei
termini tra i quali intercorre. Per es., la relazione « Se p, allora g + può
essere assunta come la F. del- l’inferenza, perchè rimane costante quali che
siano le proposizioni p e q tra le quali intercorre. Simil- mente si dice di
solito che la matematica è una scienza formale nel senso che ciò che essa
insegna non vale soltanto per certi insiemi di cose, ma per tutti gli insiemi
possibili, vertendo appunto su certe relazioni generali che costituiscono
l’aspetto for- male delle cose. In questo senso, la parola F. è stata per la
prima volta usata da Tetens che intese per essa le relazioni che il pensiero
stabilisce tra le rappresentazioni sensibili che costituirebbero, dal canto
loro, ia « materia » del conoscere (Philoso- phische Versuche iber die
menschliche Natur, 1776, I, pag. 336). Analoga distinzione Kant faceva nella
dissertazione del 1770: « Alla rappresenta- zione appartiene, in primo luogo,
qualcosa che si può chiamare materia e che è la sensazione e, in secondo luogo,
ciò che si può chiamare F. o specie delle cose sensibili, la quale serve a
coordinare, mediante una certa legge naturale del- l’anima, le varie cose che
colpiscono i sensi + (De mundi sensibilis et intelligibilis forma et ratione, $
4). Questa distinzione fra materia e F. divenne il punto di partenza
dell’intera filosofia kantiana; ma Kant mantenne sempre fisso il significato di
F. come relazione o complesso di relazioni cioè ordine. « L'elemento formale
della natura, egli scrisse, per es., nei Prolegomeni ($ 17) è la regolarità di
tutti gli oggetti dell’esperienza ». Analogamente la F. dei principi morali è
il semplice rapporto in cui una legge si trova con gli esseri ragionevoli cioè
la sua validità per tutti questi esseri, la sua univer- salità (Crir. R.
Pratica, $ 4). Da Kant in poi il senso della parola è rimasto pertanto fissato
in quello di relazione generalizzabile, ordine, coordinazione o, più
semplicemente, universalità. In tal senso, Kant distingueva materia e F. nel
concetto: «La materia del concetto è l’oggetto; la F. di esso è l’universalità
» (Logik, Elementarlehre, $ 2). Questo è il senso in cui i logici si avvalgono
oggi della parola per caratterizzare l'oggetto della loro scienza. Ad esso
faceva riferimento Peirce (Coll. Pap., 4.611); e ad esso più recentemente fanno
riferimento Strawson (/nir. to Logical Theory, 1952, pag. 4l), Prior (Formal
Logic, 1955, $ 1) e Church (/ntro- FORMA duction to Mathematical Logic, 1956, $
00). Carnap ha detto: « Una teoria, una regola, una definizione o simili
dev'essere chiamata formale quando non fa alcun riferimento al significato dei
simboli (per es., delle parole) o al senso delle espressioni (per es., degli
enunciati) ma unicamente alle specie e all'or- dine dei simboli con le quali le
espressioni sono costruite » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 1). Allo
stesso significato di ordine o relazione si riconnette l’uso della parola F.
(Gestalt) da parte della psicologia contemporanea quando intende sot- tolineare
il fatto sperimentale che impressioni si- multanee non sono indipendenti l’una
dall'altra come fossero pezzi di un mosaico, ma costituiscono un’unità che ha
un ordine definibile (v. PSICOLOGIA). Nello stesso senso, Born ha proposto che
siano con- siderate come «F. delle cose fisiche le invarianti delle equazioni,
che hanno la stessa realtà oggettiva delle cose che ci sono familiari »
(Experiments and Theory in Physics, 1943, pag. 12-13). Nell’estetica stessa c’è
almeno un significato nel quale la pa- rola F. può essere ricondotta a quello
di ordine od organizzazione delle parti; ed è il significato chiarito da Dewey:
« Solo quando le parti costitutive di un tutto hanno l’unico fine di
contribuire alla perfe- zione di un’esperienza cosciente, disegno e figura
perdono il carattere sovrapposto e diventano F.+ (Art as Experience, cap. VI;
trad. ital., pag. 140). Allo stesso significato si avvicina l’uso che della
parola ha fatto Focillon: «Le relazioni formali in un’opera e tra le varie opere
costituiscono un ordine, una metafora dell’universo + (Vie des Formes, 1934;
trad. ital., pag. 53). In generale si può dire che, nell’ambito di questo
significato, si passa alla considerazione della F. ogni qualvolta una certa
relazione viene generalizzata cioè ritenuta valida per un certo numero di
termini o di casi possibili; oppure quando si prescinde dai termini tra i quali
un ordine intercorre per ritenere importante o si- gnificativo solo
quest’ordine. 3° Una regola di procedura. In questo senso si parla di F. nel
diritto, per il quale una « que- stione di F. » concerne il rapporto del caso
in esame con le regole della procedura e non già il problema che costituisce la
sostanza o il contenuto del caso. In modo analogo si dice «rispettare le F.»
per indicare il rispetto delle regole delle buone maniere o simili. Talvolta il
ricorso o l’appello alla « F.» esprime l’esigenza dell'autonomia di una proce-
dura o di una tecnica determinata. Questo è, spesso, il significato
dell’insistenza sul carattere formale dell’arte. Quando, nell’arte, l’appello
alla F. non esprime l’esigenza della organizzazione e dell’or- dine (che è un
ricorso al significato 2°) esprime l’esigenza che i procedimenti o le tecniche
dell’arte siano indipendenti dai procedimenti o dalle tecniche FORMULA di altre
attività come la conoscenza, la morale, ecc. (cfr. Croce, Breviario di
Estetica, pag. 53). In questo senso, il passaggio alla considerazione for-
male, in un certo campo, si ha quando si riconosce l'indipendenza delle
tecniche adoperabili in questo campo da quelle proprie di altri campi. FORMA,
PSICOLOGIA DELLA. V. Psi- COLOGIA. FORMALE (ingl. Formal; franc. Formel; te-
desco Formal). 1. Corrispondentemente al significato 1° di forma: ciò che
appartiene all’essenza o so- stanza della cosa, perciò: essenziale,
sostanziale, at- tuale. In questo senso adoperano la parola gli Sco- lastici,
nonchè Cartesio (Méd., III; ZI Réponses, def. IV) e Spinoza (Er., II, 8). A
questo significato si riferisce anche l’uso che fa del termine Duns Scoto nelle
espressioni « distinzione F.» o «ragione F.». La distinzione F. è infatti una
distinzione di essenza o natura che però non implica una separazione numerica:
essa intercede, per es., tra la natura comune e l’individualità delle cose o
tra le varie perfezioni di Dio (Op. Ox., I, d. 8, q. 4, n. 17). 2.
Corrispondentemente al significato 2° di forma: ciò che appartiene a una
relazione genera- lizzabile o all'ordine o alla coordinazione delle parti. In
questo senso la parola è adoperata nella logica, nella matematica moderna e in
estetica. In logica questo termine è stato ampiamente usato, con un senso
intuitivamente abbastanza chiaro ma non mai del tutto determinato. Nella Logica
medievale formalis ha il significato fon- damentale di «inerente alla forma»,
quindi «es- senziale »; ma anche, di conseguenza, « universale ?, «valido per
ogni contenuto empirico relativo ad una certa forma +; perciò, come ultimo
significato, anche « indipendente dalla natura empirica dei con- tenuti ». È in
questo senso che il termine è passato nella Logica moderna e contemporanea, in
cui, a partire da Leibniz, i termini «forma» (per es., gli arguments en forme
nella terminologia leibniziana) e « F. » stanno ad indicare certi schemi,
formule, ecc., in cui i termini descrittivi sono sostituiti da simboli («
variabili ») e pertanto le proprietà, relazioni, con- seguenze, ecc., dello
schema o formula vigono indipendentemente da ogni possibile designazione dei
termini significativi in essa presenti. 3. Corrispondentemente al significato
3° della parola « forma »: ciò che appartiene alla procedura, sia essa quella
legale o del galateo, ecc. G.P.-N. A. FORMALI, SCIENZE. V. Scienze, CLASSI-
FICAZIONE DELLE. FORMALISMO (ingl. Formalism; franc. For- malisme; ted.
Formalismus). Ogni dottrina che faccia appello alla forma, in uno qualsiasi dei
significati del termine. Verso la fine del sec. xv si chiamarono « formalisti»
i seguaci della metafisica di Duns 27 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 417
Scoto, i quali si opponevano ai « terministi », se- guaci di Ockham (GERson, De
conceptibus, pag. 806). F. è stato chiamato il punto di vista kantiano
nell’etica perchè fa appello alla forma generale delle massime, prescindendo
dai fini cui sono di- rette. F. è stato chiamato in matematica il procedi-
mento che intende prescindere da qualsiasi signifi- cato dei simboli matematici
e perciò specialmente l’indirizzo di Hilbert. F. si chiama pure l’accentua-
zione dell'importanza della procedura nel diritto o di certe regole di
comportamento nei rapporti tra gli uomini. FORMALIZZATO, LINGUAGGIO. V. Sr
STEMA LOGISTICO. FORMALIZZAZIONE (ingl. Formalisation; franc. Formalisation;
ted. Formalisation). Questo termine è caratteristico della logica e della
filosofia della scienza contemporanea. Con «F. di una teoria » si intende il
procedimento con il quale viene costruito un sistema meramente sintattico di
simboli S, retto da alcuni assiomi (ed, eventual- mente, da regole operative di
formazione e deriva- zione delle formule) dai quali, secondo le regole sintattiche
del sistema stesso, si fanno derivare formule che risultino trasformazioni
tautologiche del gruppo di assiomi. Questo sistema sintattico puro S
costituisce una F. di una data teoria 7 (per es., dell’aritmetica dei numeri
interi, o della teoria degli insiemi, o del calcolo logico elementare) quando 7
risulti essere una interpretazione vera, e possibilmente Z-vera, di S. In
generale tutte le teorie fondamentali delle matematiche pure con- temporanee
hanno ricevuto F.; rimane ancora non del tutto risolto il problema della F.
della logica, e in genere dei metalinguaggi impiegati per la F. delle teorie
matematiche stesse. Tra l’altro, una delle maggiori difficoltà di tale
formalizzazione di secondo grado è data da un noto teorema (di Gédel) per cui
una teoria formalizzata non può contenere la prova della propria
non-contradditto- rietà (v. ASSIOMATIZZAZIONE; MATEMATICA). G. P. FORMAZIONE
(ted. Bildung). Nel significato specifico che questa parola assume in filosofia
e in pedagogia, in relazione con il termine tedesco cor- rispondente, essa
indica il processo di educazione o di civilizzazione, che si esprime nei due
significati di cultura; intesa da un lato come educazione, dall’altro come
sistema di valori simbolici (vedi CULTURA). FORME, PLURALITÀ DELLE. V. Aco-
STINISMO. FORMULA (ingl. Formula; franc. Formule; ted. Formel). 1. L’elemento
di un calcolo (v.). In questo senso la F. si distingue dalla proposizione che è
l’elemento di un sistema semantico (CARNAP, Foundations of Logic and
Mathematics, $ 9). 418 2. Lo stesso che enunciato o proposizione. 3. Più in
generale: una sequenza finita lineare di simboli primitivi. Così ha definito la
formula A. Church, che ha chiamato «F. ben formata» quella che risponde a certe
regole fondamentali di un linguaggio (/ntr. to Mathematical Logic, 1956, $ 7).
FORMULA IDEALE. Così Gioberti chiamò «la proposizione che esprime l'/dea in
modo chiaro, semplice e preciso » cioè la seguente: « L’Ente crea l'esistente,
l’esistente ritorna all’Ente + (Zrnr. allo studio della filosofia, 1840, II,
pag. 147, 174; III, pag. 3). La F. I. esprime il concetto neoplatonico della
derivazione del mondo da Dio e del ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo.
FORO INTERIORE (franc. For intérieur). L'espressione deriva dalla vecchia frase
francese, tuttora in vigore, e significa il tribunale della coscienza (v.).
FORONOMIA (ingl. Phoronomics; franc. Pho- ronomie; ted. Phoronomie). Parola
coniata da Lam- bert per indicare la dottrina che studia le leggi del movimento
(Neues Organon, 1764) e ripresa da Kant in un senso analogo (Meraphysische
Anfangs- grilnde der Naturwissenschaft, 1786). FORTEZZA. V. Coragoro. FORTUITO.
Ciò che è dovuto alla fortuna o al caso (v.). FORTUNA (gr. viyn; lat. Fortuna;
ingl. For- tune; franc. Fortune; ted. Glick). Secondo Aristo- tele si distingue
dal caso (v.) perchè si verifica nel dominio delle azioni umane e perciò non
possono andare incontro a F. o a sfortuna gli esseri che non possono agire
liberamente. « Gli esseri inani- mati, le bestie, i bambini, non fanno niente per
F. perchè non hanno scelta; e la buona o la mala F. si attribuisce ad essi
soltanto per similitudine, al modo in cui Protarco disse che le pietre di un
altare sono fortunate perchè sono onorate mentre le loro com- pagne sono
calpestate dai piedi» (Fis., II, 66,197 b 1). Questo significato si è mantenuto
anche nell’uso moderno della parola. Il suo concetto filosofico è pertanto lo
stesso di quello di caso (v.). FORZA (lat. Vis; ingl. Force; franc. Force; ted.
Kraft). Propriamente l’azione causale, non in quanto esplicativa o
giustificativa (come ragion d’essere) ma in quanto produce immancabilmente il
suo effetto. Quindi, più in generale, ogni tecnica atta a garantire
immancabilmente un effetto o che pretenda di garantirlo. In tal senso si dice
«il di- ritto come F. » 0 «lo Stato come F. » per sottolineare l’immancabilità
della realizzazione del diritto o della volontà dello Stato. In tal senso Kant
diceva che ci sono quattro specie di combinazioni della F. con la libertà e la
legge: a) legge e libertà senza F.: anarchia; b) legge e F. senza libertà:
dispotismo; c) F. senza libertà e senza legge: barbarie; 4) F. con FORMULA
IDEALE libertà e legge: repubblica (An:r., II, Delineazione del carattere del
genere umano, 2). In senso analogo Hegel parlava di « F. dell’esistenza » nel
dominio delle relazioni giuridiche fra gli Stati, alludendo alla frase di
Napoleone: «La repubblica francese non ha bisogno di riconoscimento » (Fil. del
Dir., 331, Zusatz). La nozione di F. dev’essere considerata sotto due aspetti
fondamentali e cioè: 1° nell’uso che la scienza ha fatto di essa; 2° nella
interpretazione che la filosofia ne ha dato. 1° Considereremo qui la nozione di
F. esclu- sivamente quale si è venuta configurando agli inizi della scienza
moderna escludendo cioè dal suo ambito le nozioni di potenza, di causa
efficiente o formale, di qualità occulta, ecc., cioè tutte le no- zioni di
carattere metafisico o teologico cui si può retrospettivamente (e
grossolanamente) riferire il termine forza. Tutti questi termini hanno infatti
una portata storica e problematica completamente diversa dal termine in
questione e tale che non può addurre alcuna luce sul suo significato o sui pro-
blemi ad esso attinenti. Intenderemo perciò con il termine F. l’azione causale
infallibile in quanto: a) venga ritenuta diversa o indipendente da qual- siasi
agente o forma metafisica; è) venga ritenuta diversa o indipendente da
qualsiasi forma o agente psichico; c) venga ritenuta suscettibile di
trattamento matematico. La nozione di F. dev'essere anche te- nuta distinta da
quella di energia, nonostante che gli stessi scienziati abbiano talora confusi
i due termini parlando (come fecero, per es., Mayer e Helmholtz) di
conservazione della F., laddove si trattava della conservazione dell'energia.
In questo senso la nascita della nozione di F. si può scorgere nelle
osservazioni di Keplero che con- siderò la virtù (virtus) cui sono dovuti i
movimenti gravitazionali come soggetta a tutte le « necessità matematiche »
(Astronomia nova, III, pag. 241) e negò che essa potesse essere identificata
con l'anima (Mysterium Cosmographicum, 1621, in Opera, edi- tore Frisch, I,
pag. 176). Ma la nozione fu esatta- mente definita solo quando fu esattamente
definito, come principio fondamentale della fisica, il prin- cipio d'inerzia:
cioè con Cartesio. Galilei si serve frequentemente della nozione (per es., nei
Disc. sulle nuove scienze, in Op., VIII, pag. 155, 344, 345, 442, 447, ecc.) ma
non la definisce perchè non defi- nisce neppure la nozione d’inerzia di cui
egualmente si serve. Direttamente in rapporto con quest’ultima, la F. è
definita da Cartesio. Egli dice: «La F. con cui un corpo agisce contro un altro
corpo o resiste alla sua azione, consiste in questo solo che ogni cosa persiste
sin che può nel medesimo stato in cui si trova, conformemente alla prima legge
che è stata esposta [cioè alla legge d’inerzia]. Sicchè un corpo FORZA che è
congiunto ad un altro corpo possiede una F. per impedire che ne sia separato; e
quando ne è separato c’è qualche F. per impedire che gli sia congiunto; e così,
quando esso è in quiete, ha una F. per rimanere in quiete e per resistere a ciò
che potrebbe farlo cambiare; e così, se si muove, ha una F. per continuare a
muoversi con la stessa velocità e verso la medesima banda » (Princ. Phil., II,
43). Ma colui che generalizzò la nozione di di F. e le dette un’espressione
matematica precisa fu Newton. Il secondo principio della dinamica newtoniana
cioè la proporzionalità tra la F. e l’accelerazione impressa (F= m a) fa della
F. una relazione fra due grandezze, che non ha alcun ri- ferimento alle essenze
o qualità nascoste delle quali lo stesso Newton dichiarava l’inutilità per la
fisica. «Io intendo, egli diceva, dare soltanto una nozione matematica delle
forze, senza considerare le loro cause o le loro sedi fisiche (Philosophiae
naturalis Principia mathematica, 1760, pag. 5). La genera- lizzazione
newtoniana consentiva di parlare di F. di gravità, come di F. elettrica o forza
magnetica; sicchè nella seconda metà del xvm secolo il con- cetto di F. divenne
uno dei più popolari e dif- fusi. Ma contemporaneamente esso suscitava le
diffidenze degli scienziati, che spesso si rifiutavano di vedere in esso
qualcosa in più della semplice relazione causale. D’Alembert osservava che se
la relazione tra causa ed effetto è considerata, non di natura logica, ma
fondata solo sull’esperienza, la F. a distanza (cioè la gravità) non
rappresenta un enigma maggiore della trasmissione del mo- vimento attraverso
l’urto: essa infatti non fa che esprimere, precisamente come quest’ultima, una
relazione testimoniata dall’esperienza (Elements de phil., 1759, $ 17). Per gli
stessi motivi, Maupertuis voleva che il concetto di F. come «causa della
accelerazione » fosse eliminato dalla meccanica e sostituito dalle semplici
determinazioni della mi- sura dell’accelerazione (Examen philosophique de la
preuve de l’existence de Dieu, 1756, II, $ 23, 26). Kant non fa che esprimere
lo stesso concetto quando dice che «la F. non è altro che il rap- porto della
sostanza A a qualch’altra cosa 8» e che tale rapporto può essere solo dato
dall’esperienza (De mundi sensibilis et intelligibilis forma et prin- cipiis, $
28); o che la F. non è che «la causalità della sostanza + cioè « il rapporto
del soggetto della causa- lità con l’effetto » (Crit. R. Pura, Anal. dei
Principi, cap. II, sez. III, Seconda analogia dell’esperienza). Già da questo
punto di vista l’interpretazione della F. come un agente causale misterioso e
inaccessibile, quale si ritrova, per es., in Spencer (First Prin- ciples, $ 26)
cade interamente fuori della scienza. Ma anche nel suo specifico significato
galileiano o newtoniano la nozione di F. non esercitò a lungo 419 nella scienza
un compito predominante. Già Leibniz aveva scoperto e chiarito il concetto di
F. viva, che è il prodotto della massa per il quadrato della velo- cità:
concetto che è il punto di partenza della mo- derna nozione di energia
(Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 218 sgg.). La sua dottrina
della superiorità della F. sulla materia, che fa da termine medio per la
risoluzione della materia stessa nell’energia spirituale (v. oltre), è per
l’ap- punto fondata su questo concetto di energia. Ma nel secolo successivo, la
scoperta della conserva- zione dell’energia (1842) dovuta a Roberto Mayer e
l’opera di Helmholtz e di Hertz condussero alla formulazione di quello che si
chiamò l’energetismo della meccanica (cfr. PorNcARÉ, La science et l’hy-
pothèse, pag. 148). L’energetismo nega che la F. sia « causa » del movimento e
che perciò sia presente prima del movimento; e considera l’idea della energia
anteriore a quella di forza. Quest'ultima è introdotta da una semplice
definizione e le sue proprietà vengono dedotte dalla definizione e dalle leggi
fondamentali. Nell’energetismo pertanto l’idea di F. non implica più alcuna
difficoltà; è un sem- plice concetto convenzionale. Sulla stessa linea sono i
Principi di meccanica (1894) di Hertz, che con- siderano come fondamentali
soltanto le idee di tempo, spazio e massa, considerando derivata non solo
l’idea di F. ma anche quella di energia. Il concetto di energia tuttavia
conservava la sua im- portanza nella fisica, soprattutto in riferimento al
concetto di campo (v.); mentre il concetto di F. rimaneva quello che
l’energetismo aveva mostrato che fosse: un nome per definire certe relazioni
fra alcune grandezze fisiche. Ha detto Russell a questo proposito: « Si suppone
che la F. sia causa del- l’accelerazione... Ma l’accelerazione è una semplice
finzione matematica, un numero, non un fatto fisico... Quindi una F., se è causa,
è causa di un effetto che non ha luogo » (Principles of Mathema- tics, 1903,
pag. 474). 2° Le interpretazioni filosofiche del concetto di F. seguono molto
alla lontana e poco fedelmente lo sviluppo scientifico dello stesso concetto.
Esse obbediscono tutte ad uno schema uniforme; con- sistono nel ricondurre la
nozione di F. ad una esperienza umana. Questa riduzione può tuttavia avere un
duplice significato. Può: a) essere intesa a giustificare la nozione stessa e a
farne un con- cetto metafisico; 5) essere intesa a criticare la no- zione e a
mostrarne, col carattere antropomorfico, la mancanza di fondamento. Leibniz è
il capostipite dei tentativi nel primo senso, Locke lo è dei tenta- tivi nel
secondo senso. a) Nel Système nouveau de la nature (1695) Leibniz racconta che,
dopo essersi affrancato dal giogo di Aristotele, aveva creduto nel vuoto e 420
negli atomi ma che dopo molte meditazioni si era accorto che le unità ultime
non possono essere ma- teriali e perciò non possono essere atomi di materia ma di
spirito. « Bisognava dunque, egli aggiunge, riabilitare le forme sostanziali
così screditate oggi- giorno ma in un modo che le rendesse intelligibili e che
separasse l’uso che se ne deve fare dall’abuso che se n’è fatto. Trovai dunque
che la loro natura consiste nella F. e che da questo segue qualcosa d’analogo
alla coscienza e all’appetito; e che così bisognava concepirle ad imitazione
della nozione che abbiamo delle anime» (Systéme, ecc., $ 3). Questo mostra il
fondamento del primato che Leibniz ha poi sempre concesso alla nozione di F.
nelle sue interpretazioni fisiche e metafisiche: la F. è qualcosa d’analogo
alla coscienza (sentiment) e all’appetito cioè ad esperienze interne dell’uomo.
Vero è che Leibniz intendeva per F. la vis activa che, come si è detto, è
piuttosto energia. Ma la cosa non fa differenza dal punto di vista della sua
metafisica, che è una metafisica della F. spirituale (cfr. Nouv. Ess., II, 21,
$ 1). Questa dottrina di- venta l’archetipo di tutto l’indirizzo filosofico che
ha avuto come suo secondo fondatore, ai princìpi del sec. xrx, Maine De Biran.
Maine de Biran infatti assume la percezione interna e immediata, cioè la
coscienza che l’io ha di sè, come F. volente ed attiva, come la rivelazione
dello stesso carattere originario della realtà, che perciò appunto sarebbe essa
stessa F. « La percezione interna o immediata, eglidice, è la coscienza di una
F. che è il mio stesso io e che serve di tipo esemplare a tutte le no- zioni
generali e universali di causa e di F. (Nouveaux essais d’anthropologie,
1823-24, in (Euvres, ed. Na- ville, III, pag. 5). Quasi contemporaneamente
Scho- penhauer effettuava lo stesso passaggio dalla psi- cologia alla
metafisica, riconoscendo come unica F. costituente l’essenza del mondo quella
che l’uomo percepisce immediatamente in se stesso, cioè la volontà (Die Welt
als Wille und Vorstellung, 1819). Ciò va inteso nel senso che all'uomo appare
come volontà quella stessa potenza attiva che nelle altre parti della natura si
manifesta come F.: «Se quindi dirò: la F. che fa cadere a terra la pietra,
nella sua essenza, in sè, e fuori di ogni rap- presentazione, è volontà; non si
attribuirà a questa affermazione l’insano significato che la pietra si muova
secondo un motivo conosciuto per il fatto che nell'uomo la volontà si manifesta
in questo modo » (Die Welt, I, $ 19). Questa identificazione della F. di cui
l’uomo è conscio nell’esperienza in- teriore con la F. che agisce nel mondo è e
rimane alla base delle filosofie spiritualistiche. La dottrina di Bergson
secondo la quale uno s/ancio vitale, che alla coscienza umana si rivela come
durata reale, dà origine alla vita penetrando la materia e orga- FORZA
nizzandola (Évol. créatr., cap. I) obbedisce alla stessa impostazione
fondamentale. Ma a questa im- postazione obbediscono d’altronde anche le
dottrine materialistiche: ammettere, come faceva, per ces., Haceckel (Die
Weltratsel, 1899), un’unica F. che spieghi tutto il divenire dell’universo e
che sia ana- loga a quella che si rivela alla coscienza dell’uomo significa obbedire
alla stessa interpretazione della nozione di forza. b) Dall'altro lato la
riduzione di questa no- zione a una esperienza interna ha talora significato
una critica della nozione stessa perchè è stata as- sunta come un segno del suo
carattere arbitrario. Locke a questo proposito aveva messo in luce la
derivazione dell’idea del potere (Power) dalla ri- flessione dello spirito
sulle sue stesse operazioni (Saggio, II, 21, 4). Berkeley, allo scopo di
difendere la sua concezione dell’universo come linguaggio o manifestazione di
Dio, fu a sua volta portato a togliere ai concetti della scienza il loro
carattere realistico: « La F., la gravità, l’attrazione e simili termini, egli
diceva, sono comodi allo scopo di ragionare e di effettuare calcoli sul
movimento e sui corpi che si muovono ma non allo scopo di comprendere la natura
del movimento stesso » (De Motu, $ 17; Siris, $ 234). Hume a sua volta mostrò
che nè dall’esperienza interna nè da alcuna altra fonte lo spirito può
attingere una chiara e reale idea di forza. « Noi ignoriamo è vero, disse Hume,
la maniera con la quale i corpi operano l’uno sul- l’altro, e la loro F. o
energia ci è del tutto incom- prensibile; ma siamo egualmente ignoranti della
maniera o F. con la quale una mente, anche la suprema, opera sia su se stessa
che sui corpi. Da che cosa, domando, riusciamo a farcene una idea?... Che cosa
è più difficile concepire, che il moto nasca da un urto o che nasca da un atto
di volontà? Tutto quello che sappiamo è la nostra ignoranza profonda in
entrambi i casi » (/ng. Conc. Underst., VII, 1). Questa critica di Hume è
rimasta classica e, per un certo aspetto, definitiva. Mach considerava come un
«feticismo» l’uso del con- cetto di F. come d'altronde di quello di causa che
egli voleva sostituito dal concetto di funzione (Analyse der Empfindungen, 9*
ediz., 1922, pag. 74; Popularwissenschaftlichen Vorlesungen, 1896, pa- gina
259; trad. ingl., 1943, pag. 254). Dall’altro lato il fatto che questo concetto
abbia perduto nella scienza ogni còmpito lo sottrae anche all’in- teresse della
critica metodologica. Esso si presenta oggi pertanto come un concetto
scientifico anti- quato, che serve di pretesto (ma ormai sempre più raramente)
a speculazioni metafisiche (cfr. Max JAMMER, Concepts of Force, 1957: opera
ricca di informazione per quanto incerta e confusa nel de- limitare la nozione
che ne è l’oggetto). FUNZIONALE FRECCIA (gr. 8tox6q=epvq Df che si legge: «p
implica g» equivale per defini- zione a «non-p 0 g»; dove pe q stanno rispetti-
vamente, per l’antecedente e il conseguente e il ferro di cavallo > sta per
il segno dell’I. materiale. Corrispondentemente, si è chiamata /. formale
quella che, oltre a rispondere alla condizione di validità dell’I. materiale,
esige, per esser valida, altre con- dizioni. Negli esempi numerati di sopra
solo l’(8) è una pura I. materiale perchè può essere espressa dicendo «0 x non
è un genio filosofico o io sono l’imperatore della Cina ». Le altre, pur
rispettando questa condizione, ne esigono (come si è visto) altre che ne costituiscono
il fondamento. Sicchè si può dire che tutte le I. formali sono materiali, ma
non tutte le I. materiali sono formali. L’I. ma- teriale sarà perciò definita
dalla seguente tavola di verità (nella quale p e 9g stanno per proposizioni
qualsiasi e V e F per vero e falso): P q P29 V V V V F F F V V F F V (v. TAVOLE
DI VERITÀ). 474 L’I. materiale può apparire paradossale dal punto di vista del
senso comune e delle scienze empiriche. Essa, per es., consente di riconoscere
come vera I’I. «Se 2 x 2= $, allora New York è una città piccola +; e come
falsa quest’altra «Se 2x 2=4 allora New York è una città piccola » (cfr.
TARSKI, Introduction to Logic, 1941, $ 8) nelle quali non appare alcuna
connessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente: ma la prima
significa «0 2 x 2 non è = 5 o New York è una città piccola » e la seconda
significa o 2 x 2 non è = 4 o New York è una città piccola ». L’I. mate- riale
è soprattutto usata nelle matematiche e Hilbert ha fondato su di essa gli
assiomi della logica delle proposizioni (« Die Logischen Grundlagen der Ma-
thematik », in Mathematische Annalen, 1923, pa- gine 151-65). In forma di
assioma, I’I. materiale significa che «il vero segue da ogni cosa + perché se q
è vero di per sé stesso segue a qualsiasi p, non importa se vero o falso; e che
«ogni cosa segue dal falso » perché se p è falso, da esso può seguire qualsiasi
g sia vero che falso. In realtà, l’I. materiale astrae completamente da ogni
con- nessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente (che può
avere fondamenti assai diversi) e costituisce soltanto la condizione minima
sufficiente per la validità di rutte le implicazioni. Alcuni logici tuttavia
hanno cercato di rendere meno astratto il concetto di I. avvicinandolo di più
al significato che ha nell’uso comune. Così l'americano C. I. Lewis (cfr. Lewis
and LANGFORD, Symbolic Logic, 1932, pag. 174 sgg., 248 sgg.) ha parlato di
un'/. stretta secondo la quale «p im- plica g » sarebbe sinonimo di « q è
deducibile da p » nel senso che sarebbe contraddittorio affermare l'antecedente
p e negare il conseguente g. Questo concetto fa ricorso al concetto di
possibilità logica e sarebbe perciò espresso dalla formula —M (pr> g), dove
M sta per « possibile », e che si legge: «non è possibile che p sia vero e gq
non lo sia». Una relazione analoga di I. è stata chiamata entailment da molti
scrittori inglesi, a partire da Moore che l’ha illustrata dal modo seguente: «
Sa- remo in grado di dire veramente che °p entails (involve) g” quando e solo
quando siamo in grado di dire veramente che ‘9 segue da p’ o ‘è dedu- cibile da
p° nel senso in cui la conclusione di un sillogismo in Barbara segue dalle due
premesse prese come una proposizione congiuntiva » (Philo- sophical Studies,
1922, cap. IX; ed. 1960, pag. 291). Carnap a sua volta ha distinto la
C-implicazione, o I. sintattica che è quella materiale di cui si è detto, dalla
L-implicazione o I. semantica che corrisponde all’I. stretta di Lewis
(Introduction to Semantics, 8 9, 14). Nella logica medievale il termine I. era
usato soltanto per indicare una forma della restrizione (v.): IMPLICITO come
nell’esempio « l’uomo, che è bianco, corre » nel quale l’I. è costituita dalla
proposizione « che è bianco», che restringe ai bianchi gli uomini che corrono.
Nei manuali di logica del sec. xvi la parola implicat fu adoperata come
abbreviazione per implicat contradictionem e l’uso ricorre anche nel De
Intellectus Emendatione (1662) e nei Cogitata Metaphysica (1663) di Spinoza
(cfr. W. KNEALE and M. KNEALE, The Development of Logic, 1962, ag. 300).
IMPLICITO (ingl. Implicit; franc. Implicite; ted. Verflechten). Questo
aggettivo ha tre significati principali: 1° I., nel senso logico della implica-
zione (v.) e in questo senso si riferisce esclusivamente a enunciati, proposizioni
o asserzioni; 2° non espli- cito, cioè suggerito da un certo contesto di di-
scorso, come quando si dice «x ha implicitamente ammesso che... »; 3°
potenziale o virtuale. Questo ultimo uso è improprio. IMPOSIZIONE (lat.
Impositio; ingl. Imposi- tion; franc. Imposition). Nella Logica medievale è
l’atto per il quale un nome viene destinato a signi- ficare una cosa (cfr.
Pietro Ispano, Summul. Logic., 6.03). IMPOSSIBILE. V. PossiBILE. IMPREDICATIVA,
DEFINIZIONE (in- glese Zmpredicative Definition; franc. Definition im-
prédicative). Poincaré indicò con questa espres- sione la definizione del
membro di una classe che fa riferimento alla totalità dei membri della classe,
e che pertanto contiene un circolo vizioso. Da tali definizioni sorgono le
antinomie logiche che Poin- caré voleva evitare stabilendo il principio che non
consente tali definizioni (PorNcARÉ, in « Revue de Métaphysique et de Morale»,
1906, pag. 294-317; cfr. anche Dernières Pensées, 1913, IV) (v. ANTI- NOMIA).
IMPRESSIONE (gr. tinwar; lat. Impressio; ingl. Impression; franc. Impression;
ted. Eindruck). La teoria che la conoscenza consista in una impronta o
impressione fatta dalle cose sull’anima nasce con gli Stoici. Essi infatti
dicevano che: « l’imma- gine è un’impronta nell’anima », prendendo il nome
dalla figura che il sigillo imprime sulla cera (Droa. L., VII, 45). Cicerone
cercò di togliere all’I. il suo carattere fisico (7usc. Disp., I, 61). Il
termine fu diffuso nella filosofia e nel linguaggio moderno da Hume che intese
per I. « tutte le nostre sensazioni, passioni ed emozioni, alla loro prima
apparenza nell’anima » (7reatise, I, 1, 1). E distinse le I dalle idee che sono
copie sbiadite di esse (/bid., I, 1, 2). IMPROPRIO, SIMBOLO. V. SINCATEGORE-
MATICO. IMPULSO (ingl. Impulse, Urge; franc. Impul- sion; ted. Impuls). Una
spinta subitanea, tempo- INCONCEPIBILITÀ ranea, e difficilmente controllabile,
ad un’azione determinata. «Impulsivo» dicesi chi è soggetto frequentemente a
spinte di questo genere. Il termine non va confuso nè con istinto (v.) nè con
«ten- denza +, che corrisponde al termine tradizionale appetizione (v.).
IMPUTABILITÀ (gr. altia; lat. Imputatio; ingl. Imputability; franc.
Imputabilité; ted. Zu-’ rechenbarkeit). La possibilità di riferire un’azione a
un agente come a sua causa, in quanto diversa dalla responsabilità (v.).
INAUTENTICO. V. AUTENTICO. INCARNAZIONE (lat. Incarnatio; ingl. In- carnation;
franc. Incarnation; ted. Menschwerdung). L’unità della natura divina e della
natura umana nella persona di Cristo. È questo uno dei due dogmi fondamentali
del Cristianesimo, l’altro es- sendo quello della Trinità. Dopo le discussioni
patristiche che portarono nel sec. v ad alcune interpretazioni che la Chiesa
condannò come ere- tiche, questo dogma è stato nella Scolastica uno dei banchi
di prova della capacità delle filosofie di servire all’interpretazione e alla
difesa delle cre- denze religiose. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che
la maggiore capacità in questo senso sia stata dimostrata dal tomismo che ha
dato la più semplice ed elegante interpretazione del dogma. S. Tommaso prende
lo spunto polemico appunto dalle due eresie simmetriche e opposte del sec. v.
L’interpretazione di Eutichio, insistendo sull’unità della persona di Cristo,
riduceva anche le due na- ture ad una sola e precisamente a quella divina,
considerando semplicemente apparente la natura umana rivestita da Cristo.
L’interpretazione di Ne- storio invece, insistendo sulla dualità delle nature
ammetteva in Cristo anche due persone coesistenti insieme, la persona umana
come strumento o ri- vestimento di quella divina. La distinzione reale tra
l'essenza e l’esistenza nelle creature e la loro unità in Dio forniscono a S.
Tommaso la chiave dell’interpretazione. L'essenza o natura divina è in Dio
identica con l’essere; dunque Cristo, che ha natura divina, sussiste come Dio,
cioè come per- sona divina ed è una sola persona, quella divina. Dall'altro
lato, la separabilità della natura umana dall’esistenza fa sì che Cristo possa
assumere la na- tura umana (che è anima razionale e corpo) senza essere persona
umana (Contra Gent., IV, 49; S. Th., III, q. II, a. 6). Questa interpretazione
tomistica co- stituisce la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica.
INCETTIVA, PROPOSIZIONE (franc. Pro- position inceptive ou désistive). La
Logica di Porto- reale chiamò così la proposizione che afferma che una cosa ha
cominciato o ha cessato di essere tale; per es.: «La lingua latina ha cessato
di essere volgare in Italia da molti secoli » (ARNAULD, Log., II, 10, 4). 475
INCLINAZIONE. V. TENDENZA. INCLUSIONE (ingl. Inelusion; franc. Inclu- sion;
ted. Einschliessung). Nella Logica delle classi, il rapporto di I. tra due
classi a e f (simbolo ta > 8») sussiste quando tutti gli elementi della
classe « appartengono anche alla classe 8, ma non necessariamente viceversa
(l’I. è riflessiva e transi- tiva, ma non simmetrica). Al rapporto di I. corri-
sponde un rapporto di implicazione tra i concetti- classe corrispondenti. Per
es., la classe uomo è inclusa nella classe mortale perchè tutti gli uomini sono
mortali. G. P. INCOERENZA. V. CorrENZA. INCOMPATIBILITÀ. V. COMPATIBILITÀ.
INCOMPLETO, SIMBOLO (ingl. Incomplete Symbol). In logica matematica si chiama
così un simbolo che non ha significato per suo conto ma acquista significato
solo in un contesto, al cui significato a sua volta contribuisce. INCOMPLEXUM.
V. CompLesso. INCONCEPIBILITÀ (ingl. /nconceivability; franc. Inconcevabilité;
ted. Unbegreiflichkeit). Il cri- terio cartesiano di accettare per vero tutto
ciò che è evidente per la ragione ha, come suo correlativo negativo, il
criterio di rigettare ciò che non appare tale o che, in generale, è
incompatibile con la ra- gione. Questo è propriamente il criterio delle incon-
cepibilità. Di esso si avvalse soprattutto Leibniz, che esplicitamente lo
difese; «Io riconosco in ve- rità, egli scrisse, che non è permesso di negare
ciò che non s’intende, ma aggiungo che si ha il diritto di negare (almeno
nell’ordine naturale) ciò che non è assolutamente nè intellegibile nè espli-
cabile.. La concezione delle creature non è la misura del potere di Dio ma la
loro concepibilità o forza di concezione è la misura del potere della natura,
giacchè tutto ciò che è conforme all’ordine naturale può essere concepito o
inteso da qualche creatura» (Nouv. Ess., Avant-Propos., Op., ed. Erd- mann,
pag. 202). In altri termini si può ammettere che sia reale in natura ciò che
non s'intende (cioè che non si sa spiegare) ma non ciò che è inconcepi- bile,
cioè « incompatibile con la ragione ». Ma che cosa poi debba intendersi per
incompatibilità con la ragione, non fu spiegato da Leibniz; come non fu
spiegato da coloro (e sono moltissimi), che hanno fatto riferimento allo stesso
criterio. Una critica del quale si trova per la prima volta nella Logica di
Stuart Mill, a proposito dell’uso che di esso avevano fatto Hamilton (Lectures
on Metaphy- sics and Logic, 1859-60) e Spencer (Principles of Psy- chology,
1855). Stuart Mill notava come gli antipodi erano dichiarati impossibili dagli
antichi che trova- vano inconcepibile che ci fossero persone che aves- sero la
testa nella direzione dei nostri piedi; e che uno dei più diffusi argomenti
contro il sistema 476 copernicano era stata l’I. dell'immenso spazio vuoto
richiesto da quel sistema (Logic, V, 3, $ 3; cfr. II, 5,86; 7,8 1-3). In realtà,
l’incompatibilità con la ragione, che è la definizione dell’I., non può avere
altro signifi cato preciso se non quello di incompatibilità con il sistema di
credenze cui si fa riferimento. Ovvia- mente una tale incompatibilità non può
valere come criterio di giudizio per l’attendibilità di una nozione qualsiasi.
Se poi per I. si intende la contraddit- torietà (come talora accade) bisogna
ricordare che il giudizio sulla contraddittorietà o meno di due asserzioni deve
fare riferimento a un campo de- terminato, nel quale siano implicitamente o
espli- citamente definite le regole della coerenza o della compatibilità. Può
darsi, ad es., che non sia con- traddittorio in fisica ciò che sarebbe
contraddittorio in matematica o viceversa; e, per es., la fisica non ritiene
contraddittorio concepire i fenomeni elettro- magnetici insieme come
corpuscolari e come ondu- latori. Ma per questi significati ristretti e
specifici della contraddittorietà, la parola I., con il suo si- gnificato
assoluto, è completamente inadatta. Per- tanto la filosofia contemporanea l’ha
messa in disparte, insistendo, non sull’antitesi razionale- inconcepibile, ma
piuttosto su quella significanza- insignificanza (v. SIGNIFICATO).
INCONDIZIONATO (ingl. Unconditioned; frane. Inconditionné; ted. Unbedingt).
Hamilton (Discussions on Philosophy, 1852) e Mansel (7fe Philosophy of the
Conditioned, 1866), hanno chia- mato I. l’Infinito o l’Assoluto, cioè Dio in
quanto sfugge a tutte le limitazioni del pensiero umano ed è perciò
inconcepibile. Per il significato generico del termine v. Con- DIZIONE.
INCONOSCIBILE (ingl. Unknowable, Incogni- zable; franc. Inconnaissable; ted.
Unerkennbar). Ter- mine adoperato da Hamilton per indicare l’ Assoluto o
Infinito, in quanto ritenuto al di là di ogni possi- bilità di conoscenza e
oggetto solo di fede. « Pen- sare è condizionare, diceva Hamilton (Discus-
sions on Philosophy, 1852, pag. 13) e una limitazione condizionale è una legge
fondamentale delle possi- bilità del pensiero... L’Assoluto non è concepibile
che come una negazione della concepibilità ». Tut- tavia la sfera della
credenza è più estesa di quella della conoscenza: sicchè l’Infinito per quanto
non possa essere conosciuto, può e deve essere creduto (Lectures on Metaph.,
II, pag. 530-31). Questa no- zione fu ripresa da Spencer il quale anch’egli
affermò l’inconoscibilità dell’Assoluto e nello stesso tempo la necessità di
ammetterlo per rendere pos- sibile il relativo (First Principles, 1862, $ 26).
La no- zione dell’I. divenne così correlativa con quella di agnosticismo (v.);
e come quest’ultima fu estesa INCONDIZIONATO anche a designare la dottrina di
Kant della cosa in sè e della inconoscibilità di essa. Kant tuttavia non
ammetteva l’inconcepibilità della cosa in sè, come faceva Hamilton rispetto all’Assoluto;
e non ammetteva quella specie di corrispondenza ipote- tica tra l’I. e il
fenomeno che Spencer chiamava realismo trasfigurato (Ibid., $ 50). Il concetto
di I. non ha mai superato i confini del positivismo evo- luzionistico di stampo
spenceriano (v. Cosa IN SÉ). INCONSCIO (ingl. Unconscious; franc. Incon-
scient; ted. Unbewusst). Il primo ingresso di questa nozione nella filosofia è
dovuto a Leibniz che sot- tolineò l’importanza delle « percezioni insensibili +
o «piccole percezioni» cioè delle percezioni non accompagnate dalla
consapevolezza o riflessione. Sono tali percezioni che secondo Leibniz «
formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle qualità sensibili,
chiare nell’insieme ma confuse nelle parti; quelle impressioni che i corpi che
ci circondano fanno su di noi e che involgono l’in- finito; quel legame che
ciascun essere ha con tutto il resto dell’universo » (Nouv. Ess., Avant-propos,
Op., ed. Erdmann, pag. 197). L'esistenza di questa zona inconscia divenne un
luogo comune nella scuola wolfiana (cfr. WoLFF, Psychol. rationalis, $ 58 sgg.)
e fu ammessa da Kant: il quale rispon- deva all’obiezione di Locke che non si
possono avere rappresentazioni di cui non si è coscienti perchè l’averle
significa precisamente l’esserne co- scienti (Saggio, I, 1, 5) affermando che «
possiamo essere coscienti mediatamente di una rappresenta- zione di cui non
siamo coscienti immediatamente + (Antr., $ 5). Ma fu soltanto con Schelling che
l’L divenne l'elemento fondamentale di una co- struzione metafisica cioè uno
degli aspetti essenziali dell’Assoluto come Identità di natura e spirito (cioè
per l’appunto di I. e coscienza). « Questo eterno I., diceva Schelling, che,
come il sole eterno del regno degli spiriti, si nasconde nel suo proprio lume
sereno e, benchè non divenga mai oggetto, imprime alle azioni libere la sua
identità, è lo stesso per tutta l’intelligenza ed è insieme la radice in-
visibile di cui tutte le intelligenze non sono che le potenze; è l’eterno
intermediario tra il soggettivo, che si autodetermina in noi, e l’oggettivo o
intuente; ed è il fondamento dell’uniformità nella libertà e della libertà
nell’uniformità oggettiva» (System der transzendentalen Idealismus, IV, F;
trad. ital., pag. 280). Ancora più radicalmente Schopenhauer riteneva I. quella
volontà di vivere che costituisce il noumeno del mondo. «La volontà, egli
diceva, considerata in se stessa è I.: è un cieco, irresistibile impeto, quale
noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, come anche nella
parte vege- tativa della nostra vita» (Die Welt, I, $ 54). E come sintesi dello
Spirito assoluto di Hegel, della INDETERMINAZIONE, RELAZIONI DI Volontà di
Schopenhauer e dell’I. di Schelling, Eduardo Hartmann presentava il principio
della sua filosofia: un principio che egli chiamava per l'appunto l’I. e del
quale lo spirito e la materia sarebbero state due diverse manifestazioni
(Philo- sophie des Unbewussten, 1869). Si può considerare appartenente a questa
stessa linea di pensiero la filo- sofia di Bergson: il quale difendeva I’I.
osservando che la ripugnanza a concepire stati psicologici in- consci viene dal
fatto che si considera la coscienza come la proprietà essenziale degli stati
psichici. « Ma, egli osservava, se la coscienza è soltanto il segno
caratteristico del presente, di ciò che è attualmente vissuto, ovvero di ciò
che agisce, allora ciò che non agisce potrà cessare d’appartenere alla co-
scienza senza cessare necessariamente di esistere in qualche modo» (Matière et
mémoire, cap. III, pag. 147). Con l’I. così inteso s’identifica per Bergson il
ricordo puro cioè la corrente della co- scienza che è poi lo stesso slancio
vitale. Ma mentre così l’I. veniva utilizzato nella me- tafisica e mentre,
dall’altro lato, la psicologia lo ammetteva, sia pure malvolentieri, come un
dato di fatto, esso riceveva un contenuto completamente nuovo ad opera di
Freud. Lo stesso Freud così presentava le due tesi fondamentali della
psicanalisi: «La prima di queste premesse è che i processi psichici sono in se
stessi inconsci e che quelli co- scienti sono soltanto atti isolati, frazioni
della vita psichica totale ». La seconda proposizione che la psicanalisi
proclama come una delle sue scoperte è l’affermazione che tendenze le quali
possono es- sere qualificate solo come sessuali, nel senso ri- stretto o largo
della parola, agiscono come cause determinanti di malattie nervose o psichiche
e che le stesse emozioni sessuali hanno una parte impor- tante nelle creazioni
dello spirito umano nei campi della cultura, dell’arte e della vita sociale »
(Einfi- rung in die Psychoanalyse, 1917, Intr.; trad. franc., pag. 32-33). In
tal modo la psicanalisi toglieva all’I. il carattere indeterminato o amorfo che
esso aveva sino a quel momento conservato nelle interpretazioni dei filosofi e
degli psicologi per acquistare un conte- nuto preciso ed identificarsi con le
tendenze sessuali inibite o negate o comunque camuffate o nascoste. Dapprima
l’estesissima voga, poi l’importanza scien- tifica che la psicanalisi ha
conservato e conserva nel mondo contemporaneo (v. PSICANALISI), hanno fatto
passare in seconda linea la difficoltà teorica connessa con lo stesso
riconoscimento dell’esistenza dell’in- conscio. Ovviamente, l’obiezione di
Locke, tante volte ripetuta, che « esistere », per uno stato mentale significa
«esser percepito » o «esser oggetto di co- scienza » e che pertanto uno stato
mentale inco- sciente è una contraddizione nei termini, ha perduto tutto il suo
valore. Uno stato mentale, per es., 477 un’emozione, una tendenza, una
volizione, può «esistere », anche se non viene « percepita», nel senso che essa
può essere opportunamente posta in luce e riconosciuta, con procedimenti
appropriati (che sono quelli appunto adoperati dalla psicanalisi), come la
condizione di una situazione psichica nor- male o patologica. Freud stesso ha
insistito a questo proposito sulla nozione di sintomo: « Un sintomo, egli dice,
si forma a titolo di sostituzione al posto di qualche cosa che non è riuscito a
manifestarsi al di fuori. Certi processi psichici, non avendo potuto svilupparsi
normalmente, in modo da arri- vare sino alla coscienza, hanno dato luogo a un
sintomo nevrotico » (/bid., trad. franc., pag. 303). L’I. quindi esiste in
primo luogo a titolo di sintomo. Si tratta della stessa soluzione teorica che
Kant aveva visto dicendo che l’I., pur non essendo per- cepito immediatamente,
può essere percepito me- diatamente; ma questa soluzione teorica è assai
migliorata perchè in Freud l’I., come sintomo, non ha neppure bisogno di essere
« percepito +: è un fatto che l’osservazione clinica può constatare.
INCONSEGUENZA (ingl. Inconsistency; fran- cese Inconséquence; ted.
Folgewidrigkeit). L'assenza di compatibilità (v.) delle proposizioni
costituenti un sistema simbolico. Ad es., un insieme di propo- sizioni è
inconseguente quando esso implica una contraddizione cioè quando da esso deriva
formal- mente sia una certa proposizione p sia la nega- zione di p. In
generale, si può dire che l’I. di un sistema qualsiasi è la possibilità di una
contraddi- zione nel sistema stesso. INCONSISTENZA. V. COMPATIBILITÀ. INDAGINE.
V. Ricerca. INDEFINITO (ingl. /ndefinite; franc. Indéfini; ted. Unbegrenzi).
Ciò che non ha limiti nello spazio o nel tempo e che è quindi infinito nel
senso nega- tivo del termine. Questo è almeno il significato della parola che
fu stabilito da Cartesio, il quale pertanto distingueva l’indefinitezza delle
cose dalla infinità di Dio il quale « non ha limiti nelle sue perfezioni » ed è
perciò il solo essere infinito (Prince. Phil., I, 27; I Résp., X capoverso). La
parola equi- vale pertanto a illimitato (v.). Non viene invece usata per dire «
non definito » cioè non espresso da una definizione. INDETERMINATO. V.
DETERMINAZIONE. INDETERMINAZIONE (ingl. Indetermina- tion; franc.
Indétermination; ted. Unbestimmtheit). 1. L'assenza della determinazione logica
(v. DETER- MINAZIONE). Talvolta lo stesso che vaghezza (vedi VAGO). 2.
L’assenza della determinazione causale (vedi INDETERMINISMO). INDETERMINAZIONE,
RELAZIONI DI (ingl. Uncertainty Relations; franc. Relations d’in- 478
détermination; ted. Unbestimmtheitsrelationen). Con questa espressione o con
quella di « principio di I. + si indica, dal 1927, il riconoscimento, nella
fisica subatomica, dell'azione reciproca tra l’oggetto e l’osservatore e
pertanto la perturbazione che l’os- servazione produce sullo stesso oggetto
osservato. Fu Heisenberg a mettere in luce per primo questo aspetto essenziale
della fisica quantistica. Ecco come egli stesso lo esprime: « Nelle teorie
classiche l’in- terazione tra l'oggetto e l’osservatore veniva con- siderata o
come trascurabilmente piccola o come controllabile, in modo da poterne
eliminare l’in- fluenza per mezzo di calcoli. Nella fisica atomica invece tale
ammissione non si può fare perchè, a causa della discontinuità degli eventi
atomici, ogni interazione può produrre variazioni parzialmente incontrollabili
e relativamente grandi. Questa cir- costanza ha come conseguenza il fatto che,
in generale, le esperienze eseguite per determinare una grandezza fisica
rendono illusoria la conoscenza di altre grandezze ottenute precedentemente;
esse in- fatti influenzano il sistema su cui si opera in modo incontrollabile,
quindi i valori delle grandezze pre- cedentemente conosciute ne risultano
alterati. Se si tratta questa perturbazione in modo quantitativo, si trova che
in molti casi esiste, per la conoscenza contemporanea di diverse variabili, un
limite di esattezza finito, che non può essere superato» (Die physikalischen
Prinzipien der Quantentheorie, 1930, I, $ 1). Per l’influenza che la scoperta delle
relazioni di I. ha avuto nel campo scientifico-filo- sofico v. CAUSALITÀ;
CONDIZIONE. INDETERMINISMO (ingl. /Indeterminism; franc. Indéterminisme; ted.
Indeterminismus). Ter- mine introdotto nel linguaggio filosofico nella se-
conda metà del sec. xvm per designare la dottrina che nega il determinismo dei
motivi cioè la de- terminazione della volontà umana da parte dei motivi stessi
(v. DETERMINISMO). Diceva Leibniz: «Quando si pretende che un avvenimento
libero non può essere previsto, si confonde la libertà con l’indeterminazione o
con l'indifferenza piena o di equilibrio; e quando si vuole che la mancanza
della libertà impedirebbe all'uomo d’essere col- pevole si allude a una libertà
priva, non di deter- minazione o di certezza, ma di necessità e di co-
strizione » (77iéod., III, 369). Kant a sua volta affermava: «Non c’è alcuna
difficoltà nel conci- liare il concetto della libertà con l’idea di Dio in
quanto essere necessario: perchè la libertà non consiste nella contingenza
dell’azione (nel fatto che l'azione non è determinata da alcun motivo cioè
nell’I.) ma nell’assoluta spontaneità, la quale sol- tanto è in pericolo col
predeterminismo, giacchè per esso il motivo determinante dell’azione è an-
tecedente nel tempo, quindi l’azione non è più INDETERMINISMO attualmente in
mio potere ma nella mano della natura ed io sono da tale motivo
irresistibilmente determinato » (Religion, I, Osservazione generale, Nota).
L’I. inteso in questo senso, cicè come nega- zione del determinismo dei motivi,
è uno dei tratti salienti dello spiritualismo francese (Ravaisson, La- chelier,
Boutroux, Hamelin, Bergson, ecc. Confronta A. LEvI, L'I. nella filosofia
francese contemporanea, Firenze, 1904) (v. LIBERTÀ). INDICE (ingl. Index).
Termine adoperato da Peirce per indicare la relazione oggettiva (non men- tale)
tra il segno e il suo oggetto. Indici in questo senso sono tutti i segni
naturali e i sintomi fisici. «Chiamo I. uno di tali segni, dice Peirce, perchè
un I. puntato è il tipo della classe » (Co//. Pap., 3.361). INDIFFERENTI. V.
ADIAFORÀ. INDIFFERENZA, LIBERTÀ DI. V. Li- BERTÀ. INDIFFERENZA, PRINCIPIO DI
(inglese Principle of Indifference; franc. Principe d’indiffé- rence; ted.
Indifferenzprinzip). Con questo nome o con quello di « principio di
equiprobabilità » o di « principio di nessuna ragione in contrario » si indica
l’enunciato che gli eventi hanno la stessa proba- bilità quando non c’è ragione
di assumere che uno debba accadere a preferenza dell'altro. Questo principio fu
esposto nell’Essai philosophique sur les probabilités (1814) di Laplace come
secondo prin- cipio del calcolo delle probabilità (cap. 2); ed è a fondamento
della teoria a priori della probabilità, cioè della teoria che cerca di
definire la probabilità indipendentemente dalla frequenza degli eventi cui essa
si riferisce. Il principio è stato pertanto abban- donato da alcune teorie
moderne sulla probabilità (Lewis, Analysis of Knowledge, 1946, cap. X; REI-
CHENBACH, Theory of Probability, 1949, $ 68) (v. PROBABILITÀ). INDIMOSTRABILE
(ingl. Undemonstrable; franc. Indémontrable; ted. Unerweislich). 1. Ciò che non
ha bisogno di dimostrazione perchè la sua verità è evidente. In questo senso
sono I. i prin- cìpi primi della logica di Aristotele (v. ASssioMI) e gli
anapodittici degli Stoici (v. ANAPODITTICO). 2. Le proposizioni primitive o in
generale gli antecedenti di un qualsiasi sistema simbolico in quanto tali
antecedenti sono a fondamento delle regole di dimostrazione proprie del
sistema. In questo senso, sono indimostrabili gli assiomi, le definizioni e le
regole di trasformazione di ogni sistema simbolico. 3. Le proposizioni
indecidibili cioè le proposizioni che non possono essere dette vere o false
nell’am- bito di un dato sistema simbolico ma possono essere decise in sistema
più vasto, nel quale però rina- scono in altra forma. In questo senso, sono
indi- mostrabili le proposizioni costituenti le antinomie INDIVIDUALITÀ logiche
(v.); ed è I. la non contraddittorietà della matematica e in generale dei
sistemi simbolici (vedi ANTINOMIE; MATEMATICA; SISTEMA). 4. Ogni credenza o
pretesa che non possa essere suffragata da prove. Questo è il significato più
generale e indeterminato col quale il termine viene adoperato frequentemente
nel linguaggio comune. Così si chiamano I. certe credenze religiose; e si chiama
I. la pretesa di un credito se non è appog- giata da documenti o testimonianze.
Asserzioni concernenti fatti sono spesso dichiarate I. per la stessa ragione.
INDIPENDENTE (ingl. Independent; fran- cese /Indépendant; ted. Unabhdngig). Ciò
che non deriva da altro il suo essere, la sua validità o la sua capacità
d’azione. Così un uomo o uno Stato si dice I. quando la sua vita o la sua
condotta non dipende da quella di un altro uomo o di un altro Stato. Un evento
si dice I. da un altro quando non dipende causalmente da quest’altro. E una
proposizione qualsiasi è I. da un’altra proposizione o da un sistema di
proposizioni se non è derivabile dall’una o dall'altro. Il requisito
dell’indipendenza reciproca si richiede per la determinazione degli assiomi di
un sistema simbolico. Difatti sarebbe inutile assumere come assioma una
proposizione che si potesse derivare dagli altri assiomi del sistema (v.
ASSIOMA). INDISCERNIBILI. V. IDENTITÀ DEGLI. INDISTINTO. Termine adoperato da
Ardigò per definire l'evoluzione, in sostituzione dell’ omo- geneo » di
Spencer. L’evoluzione sarebbe il pas- saggio dall’I. al distinto: termini che
sono desunti dall’esperienza psichica, mentre quelli di Spencer erano desunti
dalla biologia (ArRDIGÒ, Opere, II, pag. 189 e passim). INDIVIDUALE,
PSICOLOGIA. V. Psico- LOGIA, E). INDIVIDUALISMO (ingl. Individualism; fran-
cese Individualisme; ted. Individualismus). Ogni dot- trina morale o politica
che riconosca all’individuo umano un prevalente valore di fine rispetto alle
comunità di cui fa parte. L’estremo di questa dot- trina è ovviamente la tesi
che l’individuo ha valore infinito e la comunità valore nullo. Tale è la tesi
dell’anarchismo (v.). Ma l’I. è abitualmente assunto nell’accezione più
moderata che si è proposta; e in tal senso è il fondamento teoretico che il
libe- ralismo si è dato al suo primo affacciarsi nel mondo moderno. È difatti
il presupposto comune del giusnaturalismo, del contrattualismo, del liberismo e
della lotta contro lo Stato che costituiscono gli aspetti fondamentali della
prima fase del liberalismo (v.). 1° Il giusnaturalismo consiste nel riconoscere
all'individuo diritti originari e inalienabili che egli conserva, sia pure in
forma diversa o limitata, in 479 tutti i corpi sociali che entra a comporre (v.
GIUSNA- TURALISMO). 2° Il contrattualismo consiste nel considerare la società
umana e lo Stato come risultato di una convenzione fra gli individui: dottrina
che nell’età moderna cioè a cominciare dalle Vindiciae contra tyrannos (1579)
dei Calvinisti di Ginevra è stata spesso adoperata come negazione
dell’assolutismo statale o strumento per limitarlo (v. CONTRAT- TUALISMO). 3°
Il liberismo economico, proprio dei fisio- cratici e della scuola classica
dell'economia poli- tica, è la lotta contro l’ingerenza dello Stato negli
affari economici e la rivendicazione all’individuo dell’iniziativa economica.
Questo è un aspetto ca- ratteristico del liberalismo individualistico (v. Eco-
NOMIA; LIBERALISMO). 4° La lotta contro lo Stato e la tendenza a stabilire
limiti all’azione dello Stato è il carattere globale dell’individualismo. In
questo senso uno dei più significativi documenti del liberalismo mo- derno è
l’opera di SPENCER, L’uomo contro lo Stato (1884) nel quale viene combattuta
l’ingerenza dello Stato (quindi anche del Parlamento) anche nel dominio
dell’igiene e dell’istruzione pubblica, ol- trechè nel dominio economico. Il
postulato soggiacente a tutti questi diversi aspetti dell’I. è la coincidenza
dell'interesse dell’in- dividuo con l'interesse comune o collettivo. L'or- dine
naturale che Adamo Smith riteneva nella Ricchezza delle Nazioni (1776) esser
proprio dei fatti economici, serviva appunto a garantire quella coincidenza. In
questa stessa coincidenza credevano Geremia Benthan e Giacomo Mill. Quando, con
l’osservazione delle anomalie dell’ordine economico e con il riconoscimento che
la semplice limitazione dei poteri dello Stato non elimina nè queste ano- malie
nè il disordine o le disuguaglianze sociali, questa credenza cominciò a
scuotersi, la fase in- dividualistica del liberalismo venne al termine e
s’iniziò quella che si appellava all’azione dello Stato e tendeva perciò ad
esaltare lo Stato stesso. Da questo nuovo punto di vista l’I. fu contrasse-
gnato e criticato: come «atomismo» perchè pre- tendeva far nascere la società
da un insieme di atomi sociali, gli individui; come «anarchismo» perchè
pretendeva che l’individuo non sottostasse all’azione dello Stato; e come
«egoismo» perchè voleva che le attività economiche si volgessero se- condo le
direttive dell’interesse privato. In tal modo però venivano trascurati i motivi
storici che avevano provocato l'indirizzo individualistico del liberalismo e
veniva inconsapevolmente preparata la via a nuove vittorie dell’assolutismo
statalista. INDIVIDUALITÀ (lat. Individualitas; ingl. In- dividuality; franc.
Individualité; ted. Individualitàt). 480 Termine di origine medievale: il modo
d’essere dell’individuo. INDIVIDUAZIONE (lat. Individuatio; inglese
Individuation; franc. Individuation; ted. Individua- tion). Il problema dell’I.
è il problema della costi- tuzione dell’individualità a partire da una sostanza
o natura comune: per es., della costituzione di questo uomo o questo animale a
partire dalla so- stanza «uomo»? o sostanza «animale». Il primo a formulare il
problema fu Avicenna (v. ARABA, FiLosoria) dal quale fu trasmesso alla
Scolastica cristiana. Il presupposto da cui esso nacque è il principio della
necessità della sostanza, che Avi- cenna esprime dicendo: « Tutto ciò che è, ha
una sostanza per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità e l’essere
di ciò che è» (Logica, I, ed. Venezia, 1508, fol. 3 v.). In base a questo prin-
cipio, «l’animale è in sè qualcosa ed è la stessa cosa, sia che sia percepito
sia che sia appreso dal- l'intelletto; ed in sè non è nè universale nè singo-
lare » (/bid., III, fol. 12 r.). Ma se è così, che cosa lo fa essere
individuale, cioè che cosa fa della sostanza « animale» questo o quell’animale?
Ecco, secondo Avicenna, il problema dell’individuazione. Ed Avicenna trovava
nello stesso Aristotele la risposta al problema: l’individualità dipende dalla
materia. Aristotele infatti aveva detto: « Tutte le cose che sono numericamente
molte hanno ma- teria: giacchè il concetto di tali cose, per es., del- l’uomo,
è uno e identico per tutte, mentre Socrate (che ha materia) è unico +» (Mer.,
XII, 8, 1074 a 33). Questa soluzione viene accettata da Avicenna (/n Met., XI,
1) e attraverso quest’ultimo da Alberto Magno (/n Mer., III, 3, 10) e da molti
altri scolastici. S. Tommaso presentò una variante di questa so- luzione,
affermando che il principio di I. non è la materia comune (giacchè tutti gli
uomini hanno carne e ossa e quindi non si diversificano in questo); ma la
materia signata o, come egli anche dice, «la materia considerata sotto
determinate dimen- sioni» (De ente et essentia, 2). In altri termini, un uomo è
diverso dall'altro perchè unito a un determinato corpo, diverso per le
dimensioni, cioè per la sua situazione nello spazio e nel tempo, da quello
degli altri uomini (S. 7A., III, q. 77, a. 2). Questo stesso tipo di soluzione
si trova ri- prodotto nell’età moderna da Schopenhauer che, considerando la
volontà come la sostanza unica e comune di tutti gli esseri, vide il principio
d’I. nello spazio e nel tempo. « Infatti, egli disse, per mezzo dello spazio e
del tempo, ciò che è tutt'uno nell’essenza e nel concetto apparisce invece
diverso, come pluralità giustapposta e succedentesi» (Die Welt, I, $ 23).
Dall’altro lato, la corrente agostiniana della scolastica fu portata a
riconoscere il principio di I. INDIVIDUAZIONE nella forma, più che nella
materia, delle cose. Bonaventura riteneva che la forma è l’essenza che
restringe e definisce la materia ad un determinato essere; e poneva il
principio d’I. nella comunica- zione (communicatio) tra la materia e la forma
in quanto l’individuo è un hoc aliquid in cui l’hoc è costituito dalla materia,
l’aliguid dalla forma (In Sent., III, d. 10, a. 1, q. 3). Allo stesso tipo di
soluzione appartiene l’interpretazione che molti sco- lari di Duns Scoto dettero
della haecceitas come di una forma finale che completa e integra una serie di
forme costitutive dell’oggetto naturale (cfr. Herveus NATALIS, De pluralitate
formarum, 5). Infine una terza soluzione del problema è quella autenticamente
scotistica. Duns Scoto nega che la materia o la forma possano valere come
principio d’individuazione. La materia, che è il soggetto indistinto, non può
essere il principio della distin- zione e della diversità (Op. Ox., II, d. 3,
q. 5, n. 1). La forma è poi la stessa sostanza o natura comune che è
antecedente (e indifferente) sia all’universalità che all’individualità.
L’individualità consiste invece in una « ultima realtà dell’ente » la quale
determina e contrae la natura comune all’individualità, ad esse hanc rem.
Quest'ultima realtà, o come egli anche la chiama «entità positiva » (/bid., II,
d. 3, q. 2), è la determinazione ultima e compiuta della materia, della forma e
del loro composto. Da questo punto di vista l’individuo non è caratteriz- zato
dalla semplicità della sua costituzione ma piut- tosto dalla complessità e
ricchezza delle sue deter- minazioni. Come si è detto, il problema dell’I.
nasce dal carattere privilegiato attribuito alla sostanza comune che
esisterebbe in qualche modo prima e indipenden- temente dagli individui. Il
problema pertanto sparisce quando viene negato il carattere privilegiato della
sostanza comune: il che accade col nominalismo empiristico dell’ultima
scolastica. Ockham riconosce nella sostanza comune una forma dell’universale e
la coinvolge nella negazione recisa di ogni realtà universale: « Nessuna cosa
fuori dell’anima, nè di per sè nè per alcunchè di reale o di mentale che le
venga aggiunto, e comunque la si consideri o la s’intenda, è universale:
giacchè tanta è l’impossi- bilità che una cosa fuori dell’anima sia in qualche
modo universale (se non per convenzione arbitraria, al modo in cui la voce
‘uomo che è singolare diventa universale) quanta è l’impossibilità che l’uomo,
per qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino» (In
Sent., I, d. 2, q. 7, S-T). Da questo punto di vista il problema stesso dell’I.
si dissolve. Dice ancora Ockham: « È da ritenersi indubitabilmente che
qualsiasi cosa esistente immaginabile, di per sè, senza che nulla le venga
aggiunto, è una cosa singolare ed una di INDIVIDUO numero: sicchè nessuna cosa
immaginabile è sin- golare per qualcosa che le venga aggiunta, ma la
singolarità è una proprietà che appartiene imme- diatamente a ogni cosa, perchè
ogni cosa è di per sè o identica o diversa dall'altra » (Expositio aurea. Liber
Predicabilium, Proemium). Quando Leibniz in uno dei suoi primi scritti
affermava che « ogni individuo è individuato dalla sua totale entità » non
faceva che esprimere in termini scotistici la stessa posizione di Ockham, come
egli stesso riconosceva (De Principio Individui, 1663, $ 4): giacchè l’entità
totale non è altro che la stessa cosa esistente in quanto tale. B la stessa
implicita negazione del problema dell’individuazione si può scorgere nella
soluzione apparente che a questo problema dà Wolff: « Il principio d’I. è la
determinazione com- pleta di tutte le cose che sono inerenti a un ente in atto»
(Ontolog., $ 229). D'altra parte Locke aveva detto: «Da ciò che si è detto è
facile sco- prire cosa sia il principium individuationis intorno al quale tanto
si è indagato: è chiaro che esso è l'esistenza stessa, la quale determina un
essere, di qualunque specie, in un particolare tempo e in un particolare luogo,
incomunicabili a due esseri della medesima specie » (Saggio, II, 27, 4). Queste
sedicenti «soluzioni » in realtà sono ne- gazioni del problema: il quale
sparisce completa- mente (salvo che in rare eccezioni) nella filosofia moderna
per l’avvenuta dissoluzione del suo presup- posto: la priorità ontologica della
sostanza comune. INDIVIDUO (gr. &topov; lat. Individuum; in- glese
/ndividual; franc. Individu; ted. Individuum). In senso fisico: l’indivisibile,
ciò che non può es- sere ulteriormente ridotto con un procedimento di analisi.
In senso logico: l’impredicabile, ciò che non si può predicare di più cose. Per
Aristotele VI. è, nel primo senso, la specie, in quanto, ri- sultando dalla
divisione del genere, non può essere a sua volta divisa (Anal. Post., II, 13,
96b 15; Mer., V, 10, 1018 b 5). Alla determinazione della indivisibilità, i
logici del v secolo aggiunsero, per caratterizzare l’I., quella della
impredicabilità. Dice Boezio: «Si dice I. ciò che non si può dividere per
nulla, come l’unità o la mente o ciò che non si può dividere per la sua
solidità, come il dia- mante; o ciò che non si può predicare di altre cose
simili, come Socrate » (Ad Isag., II, in P. L., 64, col. 97). Questa notazione
divenne fonda- mentale per la logica medievale che l’utilizzò per definire
I°I.: «I. è ciò che si predica di una sola cosa, come Socrate e Platone», dice
Pietro Ispano (Summ. Log., 2.09). S. Tommaso parla di un I. vago (vagum), che
corrisponde all’individualità della specie e di un I. singolo: «L’I. vago, per
es., l’uomo, significa una natura comune con un de- terminato modo d'essere che
compete alle cose 31 — ADDAGNANO, Dizionario di filosofia. 481 singole, cioè
che sia sussistente per sè e distinto dagli altri. Ma l’I. singolo significa
invece qualcosa di determinato e che distingue; così il nome So- crate
significa questa carne e questo volto » (S. 7h., I, q. 30, a. 4). L’I. vago non
è ovviamente che l’unità solo numericamente distinguibile da altre unità. E
così infatti lo definiva Duns Scoto: « I., cioè uno di numero, si dice ciò che
non è divisibile in molte cose e si distingue numericamente da ogni altra » (Ir
Met., VII, q. 13, n. 17). Tuttavia nello stesso Duns Scoto ci sono le pre-
messe di un concetto diverso dell’individuo. Questo è caratterizzato, nel suo
modo d'essere cioè nella sua singolarità, da una determinazione ultima o «
ultima realtà » della natura che lo costituisce (vedi INDIVIDUAZIONE): sicchè
include un insieme illi- mitato di determinazioni, in virtù delle quali la
natura comune si contrae sino a diventare questo determinato ente. Da questo
punto di vista, l’I. non è caratterizzato dalla sua indivisibilità ma dalla
infinità delle sue determinazioni. Questo concetto venne espresso chiaramente
da Leibniz. « Per quanto possa sembrare paradossale, egli diceva, ci è im-
possibile avere la conoscenza degli I. e trovare il mezzo di determinare
esattamente l’individualità di una cosa, a meno di non considerarla in se
stessa. Infatti, tutte le circostanze possono ritornare; le differenze minime
ci sono insensibili; il luogo © il tempo ben lungi dall’essere determinanti, hanno
bisogno essi stessi d’essere determinati dalle cose che contengono. Ciò che v'è
di più considerevole in questo è che l’individualità involge l’infinito e che
solo colui che è capace di comprenderlo può avere la conoscenza del principio
di individuazione di questa o quella cosa: il che deriva, a compren- derlo
sanamente, dall’influenza che tutte le cose dell'universo hanno l’una
sull’altra. È vero che non sarebbe così, se ci fossero gli atomi di Demo-
crito; ma allora non ci sarebbe neppure differenza tra due I. diversi della
stessa figura e della stessa grandezza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 6). Il
presupposto di questa dottrina è che in natura esistono sol- tanto I. cioè cose
singole: presupposto che, insieme con gli altri punti principali, fu espresso
con tutta chiarezza da Wolff. Questi comincia con l’affer- mare che I’I. è «ciò
che percepiamo col senso interno o col senso esterno o che possiamo im-
maginare, in quanto è una cosa singola» (Log., $ 43), per procedere a definire
l’I. come « l’ente che è determinato sotto tutti i rapporti (ens omni- mode
determinatum) cioè nel quale sono determinate tutte le cose che ad esso
ineriscono » (/bid., $ 74). Questa nozione dell’I. come di ciò che è assolu-
tamente o infinitamente determinato è stata spesso utilizzata dalla metafisica
moderna. È stata per l'appunto questa nozione che ha permesso ad 482 Hegel (e a
molti altri dopo il suo esempio) di par- lare di «I. universale» senza
avvolgersi in una contraddizione nei termini. « Il compito di accom- pagnare
l’I. dal suo stato incolto fino al sapere, dice Hegel, era da intendersi nel
suo senso generale e consisteva nel considerare l'I. universale, lo Spi- rito
autocosciente, nel suo processo di formazione. Per ciò che concerne la
relazione di quei due modi di individualità, nell’I. universale ogni momento si
mostra nell’atto in cui guadagna la forma con- creta e la sua propria
configurazione. L’I. partico- lare è lo spirito non compiuto: una figura
concreta, in tutto il cui essere determinato domina una sola determinatezza e
nella quale le altre sono presenti soltanto di scorcio» (Phanomen. des Geistes,
Pref. II, $ 3; trad. ital., I, pag. 24). Dal punto di vista del concetto di I.
come infinità di determinazioni, Hegel poteva certamente parlare di I. univer-
sale: giacchè un'infinità di determinazioni può essere proprio solo di un I.
assoluto o infinito. Di fronte ad esso, l’I. finito è, come dice Hegel, quello
caratterizzato da una sola determinazione e a cui le altre sono presenti solo
di scorcio. Allo stesso concetto dell’I. fa riferimento Bergson quando afferma
che « l’individualità comporta una infinità di gradi e che in nessuna parte,
neanche nell’uomo, essa è realizzata pienamente » (Évo/. Créatr., cap. I, ed.
1911, pag. 13). Ovviamente, questo concetto dell’I. porta o ad ipostatizzare
l’individualità di un I. assoluto, come ha fatto Hegel o a dichiararla
irraggiungibile, come ha fatto Bergson. Ma questo appunto dimostra che si
tratta di un concetto in- servibile. Nella filosofia contemporanea pertanto
l’I. (come la nozione analoga di elemento [v.]) viene definito rispetto alle
esigenze prevalenti in questo o quel campo d'indagine, o meglio rispetto a
questa o a quella esigenza analitica. Nel campo morale o politico l'’I. è la
persona. Nel campo biologico, l’I. può essere per certi scopi l’organismo, per
altri scopi la cellula. Ma è soprattutto nel campo delle scienze storiche che
la nozione di I. è stata utilizzata dalla filosofia e dalla metodologia con-
temporanea. Windelband (Praludien, II, pag. 145) e Rickert (Grenzen der
naturwissenschaftlichen Be- griffsbildung, pag. 420) hanno messo in luce il
carattere individualizzante delle scienze dello spi- rito, di fronte al
carattere generalizzante delle scienze naturali. La conoscenza storica mira a
rappresen- tare l'I. nel suo carattere singolare e irrepetibile, cioè non come
il caso particolare di una legge, ma come irriducibile agli altri I. con cui è
in connessione causale. L'I., che è in questo caso l'evento storico (fatto,
persona, istituzione, ecc.) è ca- ratterizzato, da questo punto di vista, da
due caratte- ristiche: la singolarità e la irrepetibilità (v. STORIA).
INDUZIONE INDUZIONE (gr. trayovh; lat. Inductio; in- glese /nduction; franc.
Induction; ted. Induktion). « L’I. è il procedimento che dai particolari porta
all’universale »: questa definizione di Aristotele (Top., I, 12, 105a 11) ha
trovato concordi tutti i filosofi. Aristotele stesso vede nell’I. una delle due
vie attraverso le quali riusciamo a formare le nostre credenze; l’altra è la
deduzione (sillogismo) (An. Pr., II, 23, 68 b 30). Egli inoltre attribuisce a
Socrate il merito di aver scoperto i « ragionamenti induttivi » (Met., XIII, 4,
1078 b 28). Tra VI. e il sillogismo, Aristotele stabilisce tuttavia una grande
differenza di valore. Nel sillogismo deduttivo (« Tutti gli uomini sono
animali, Tutti gli animali sono mortali, Dunque tutti gli uomini sono mortali»)
il termine medio (ani- male) costituisce la sostanza o la ragion d'essere della
connessione necessaria tra i due estremi: gli uomini sono mortali perchè sono
sostanzialmente animali. Nel ragionamento induttivo invece (s L'uomo, il ca-
vallo e il mulo sono longevi, L’uomo, il cavallo e il mulo sono animali senza
fiele, Dunque gli animali senza fiele sono longevi »), il termine medio (l’es-
sere senza fiele) compare nella conclusione: il che vuol dire che esso non è un
perchè sostanziale ma un semplice fatto (An. Pr., II, 23, 68b 15). L’indu-
zione è quindi priva di valore necessario o dimo- strativo, per quanto sia più
chiara del sillogismo; e il suo ambito di validità rimane quello del fatto cioè
della totalità dei casi in cui è stata effettiva- mente riscontrata valida.
Essa può perciò essere usata a fini di esercizio, nella dialettica, o a fine di
persuasione, nella retorica (Rher., I, 2, 1356b 13): ma non costituisce
scienza, perchè la scienza è necessariamente dimostrativa (An. Post., I, 2, 71
b 19). Nella filosofia post-aristotelica gli Epicurei ritennero l'I. l'unico
procedimento d’inferenza le- gittima, mentre gli Stoici ne negarono il valore.
Il De Signis di Filodemo ci dà un preciso resoconto della polemica che ci fu a
questo proposito tra le due scuole. Gli Stoici dicevano che non basta
constatare che gli uomini che ci sono intorno sono mortali per dire che in ogni
dove gli uomini sono mortali: bisognerebbe stabilire che gli uomini sono
mortali proprio in quanto uomini, per dare a quell’inferenza la sua necessità
(De Signis, III, 35; IV, 10; De Lacy, Philodemus on Methods of Inference, 1941,
pag. 31). Il problema dell’I. si affacciava già in questa difficoltà proposta
dagli Stoici. Ad essi gli Epicurei opponevano che, finchè niente si oppone alla
conclusione, la generalizza- zione induttiva è valida (Z/bid., VI, 1-14; XIX,
25-36; De Lacy, pag. 34, 66). Sesto Empirico non faceva che ripresentare in
forma più radicale la critica degli Stoici, partendo dalla distinzione tra I.
completa e I. incompleta. « Poichè vogliono, egli diceva, confermare per via
dell’I. l’universale INDUZIONE movendo dai particolari, faranno questo percor-
rendo o tutti i particolari o soltanto alcuni. Se soltanto alcuni, l’I. sarà
incerta, rimanendo possibile che all’universale contrasti qualcuno dei
particolari tralasciati nell'induzione. Se tutti, intraprenderanno una fatica
impossibile perchè i particolari sono in- finiti e illimitati » (Jp. Pirr., II,
204). Era stato Ari- stotele ad affermare che l’I. si facesse movendo da tutti
i casi particolari possibili (Ar. Pr., II, 23, 68 b 29); mentre gli Epicurei
avevano affermato il valore dell’I. incompleta. Bacone pertanto non fece che
riprendere l'alternativa epicurea quando di- chiarò puerile l’I. completa o per
enumerationem simplicem. «Questa I., dice Bacone, può essere rovesciata da una
qualsiasi istanza contraria; inoltre considera sempre le stesse cose e non
raggiunge il suo fine. Per le scienze occorre invece una forma d’I. che vagli
le esperienze e concluda necessaria- mente, dopo le debite esclusioni ed
eliminazioni » (Nov. Org., Distrib. Op.). Questa forma di I. che Bacone, sia
pure dubitativamente, fa risalire a Platone (/bid., 105) deve invertire
l’ordine della dimostrazione. « Finora, dice Bacone, si usava tra- passare di
volo dai dati del senso e dalle cose particolari alle generalissime, come a
poli fissi della disputa, facendo poi da queste derivare tutte le altre, per
via delle cose intermedie. È questa una scorciatoia, ma troppo scoscesa, per la
quale non si incontra mai la natura, ma soltanto questioni. Si devono invece
estrarre gli assiomi per gradi successivi; e solo da ultimo giungere a quelli
ge- neralissimi i quali non sono semplici nozioni ma fatti ben determinati e
tali che la natura li riconosce veramente per suoi e inerenti all’essenza delle
cose » (/bid., Distrib. Op.). In altri termini la cer- tezza dell’I. consiste,
secondo Bacone, nel fatto che da ultimo l’I. mette capo alla determinazione
della forma della cosa naturale, intendendosi per forma «la differenza vera o
natura naturante o fonte di emanazione » che spieghi il processo latente e lo
schematismo occulto dei corpi (2bid., II, 1). In tal senso, la forma non è che
la stessa «so- stanza » aristotelica: il principio o ragion d’essere della
cosa. Aristotele riteneva che tale sostanza si potesse cogliere col
procedimento sillogistico cioè intuitivo-dimostrativo; Bacone ritiene che essa
si può cogliere con un procedimento induttivo che sceveri e ordini le
esperienze. La vera differenza pertanto tra Bacone e Aristotele è che Bacone
crede che la nuova disciplina del procedimento induttivo da lui proposta
(disciplina che consiste nella formazione di tavole che scelgano e classi-
fichino gli esperimenti e nella istituzione di espe- rimenti di controllo)
renda possibile attingere con certezza quella sostanza cui, secondo Aristotele,
l’I. può solo avvicinare in modo incerto o appros- 483 simativo, e che può
essere attinta nella sua necessità solo dal procedimento deduttivo. Per questa
in- terpretazione del procedimento empiristico nei ter- mini della metafisica
aristotelica, Bacone ha potuto riconoscere all’I. incompleta quella « necessità
» che Aristotele riconosceva al procedimento sillogistico. Da questo punto di
vista, il problema dell’I., nei termini in cui l’aveva prospettato la critica
degli Stoici e di Sesto Empirico non sorgeva neppure. Dall’altro lato il
cartesianesimo non era interessato a porsi il problema dell’I., riservando ad
essa quella stessa funzione preparatoria e subordinata che Aristotele le aveva
riconosciuto. « L’I. da sola, dice la Logica di Portoreale, non è mai un mezzo
certo per acquistare una scienza perfetta perchè la considerazione delle cose
singole è solo una occasione per il nostro spirito di fare attenzione alle sue
idee naturali, secondo le quali giudica della verità delle cose in generale.
Così è vero, per es., che io non avrei mai preso in considerazione la natura
del triangolo se non avessi visto un trian- golo che mi ha dato occasione di
pensarci; tuttavia non è stato l’esame particolare di questi triangoli a farmi
concludere generalmente e certamente che l’area di tutti i triangoli è uguale
al rettangolo co- struito sulla base diviso la metà dell’altezza (giacchè
quest’esame è impossibile) ma la sola considera- zione di ciò che è incluso
nell’idea del triangolo, che trovo nel mio spirito» (ARNAULD, Log., III, 19, $
9). Pertanto, solo dopo che le scienze avevano incominciato ad usare ampiamente
il pro- cedimento induttivo, come avvenne nella seconda metà del ’600, il
problema dell’I. come problema della validità del procedimento induttivo e del
di- ritto di usarlo, fu di nuovo posto ed affrontato. A porlo chiaramente fu, allora,
il dubbio scettico di Hume. Diceva Hume: « Tutte le inferenze tratte
dall’esperienza suppongono, come loro fondamento, che il futuro rassomiglierà
al passato e che poteri simili saranno uniti a simili qualità sensibili. Se ci
fosse qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il
passato non servisse di regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe
inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna in- ferenza o conclusione. È
impossibile perciò che argomenti tratti dall’esperienza possano provare la
rassomiglianza del passato con il futuro: giacchè tutti gli argomenti siffatti
sono fondati sulla suppo- sizione di quella rassomiglianza. Sia pure ammesso
che il corso delle cose è stato sempre regolare: questo solo, senza alcun
argomento o inferenza nuova, non prova che per il futuro continuerà così» (Ing.
Conc. Underst., IV, 2). In questi termini il problema dell’I. è stato
costantemente posto nel mondo moderno. Ad esso sono state date tre soluzioni
fondamentali: 484 1° la soluzione oggettivistica; 2° la soluzione
soggettivistica; 3° la soluzione pragmatica. Que- st’ultima soluzione segna il
passaggio dalla con- cezione necessitaristica (presupposta dalle altre due) ad
una concezione probabilistica dell’induzione. 1° La soluzione oggettivistica
consiste nel ri- tenere che esiste un’uniformità della natura che consente la
generalizzazione delle esperienze uni- formi. Questa soluzione è assai antica
perchè si trova sostenuta da Filodemo nella sua polemica contro gli Stoici. «
Dal fatto che tutti gli uomini della nostra esperienza, diceva Filodemo, sono
si- mili anche rispetto alla mortalità, noi inferiamo che tutti gli uomini
universalmente sono soggetti alla morte, dato che nulla si oppone a questa
inferenza o ci mostra che gli uomini non siano suscettibili di morte. Facendo
appello a questa simiglianza, dichiariamo che, nei rispetti della mor- talità,
gli uomini fuori della nostra esperienza sono simili a quelli che si
manifestano nella nostra esperienza » (De Signis, XVI, 16-29; De Lacy, /bid.,
pag. 58 sgg.). In questo passo ovviamente il diritto dell’inferenza induttiva
viene fondato sulla unifor- mità rivelata dalle somiglianze. In modo analogo,
alla fine della Scolastica, Duns Scoto e Ockham po- nevano a base dell’I. il
principio di causalità. Duns Scoto diceva: « Delle cose conosciute per
esperienza io dico che, sebbene l’esperienza non si abbia di tutte le cose
singolari nè sempre ma solo per lo più, l’esperto tuttavia conosce
infallibilmente che è così, sempre e in tutti i casi, sulla base di questa
proposizione esistente nell'anima: tutto ciò che deriva per lo più da una causa
non libera è l’ef- fetto naturale di questa causa » (Op. Ox., I, d. 3, q. 4, n.
9); nel qual passo, effetto narurale significa effetto uniforme perchè
necessario. Ockham a sua volta poneva come fondamento dell’I. il principio «
Cause della stessa natura (ratio) hanno effetti della stessa natura » (/n
Sent., Prol., q. 2 G). E la mede- sima soluzione veniva riproposta nel sec. xrx
da Stuart Mill. Il fondamento dell’I. è il principio delle uniformità delle
leggi di natura e tale principio non è che lo stesso principio di causalità.
Questo a sua volta, non potendo essere ridotto a un istinto infal- libile del
genere umano o a un'intuizione imme- diata, non può essere che il prodotto di
un’indu- zione. « Noi arriviamo a questa legge generale, dice Stuart Mill,
mediante generalizzazione da molte leggi di generalità inferiore. Non avremmo
mai avuto la nozione della causazione (nel significato filosofico del termine)
come condizione di tutti i fenomeni, se molti casi di causazione o in altre
parole molte parziali uniformità di successione non ci fossero diventate
precedentemente familiari. La più ovvia delle uniformità particolari suggerisce
e rende evi- dente l’uniformità generale e l’uniformità generale, INDUZIONE una
volta stabilita, ci permette di dimostrare le altre uniformità particolari
dalle quali risulta » (Logic, III, 21, $ 2). L’uniformità della natura non è
quindi che una semplice I. per enumerationem simplicem. Il circolo vizioso è
evidente. A questo circolo si riduce ogni analoga soluzione del pro- blema. 2°
La seconda soluzione del problema dell’I. è quella soggettivistica o critica
propria del kantismo. Essa fu prospettata dallo stesso Kant come risposta al
dubbio di Hume sulla possibilità della generaliz- zazione scientifica; e
consiste nell’ammettere l’uni- formità della struttura categoriale
dell’intelletto e perciò della forma generale della natura che da esso dipende.
Dice Kant: « Ogni percezione possi- bile, perciò tutto quello che può giungere
alla coscienza empirica — cioè tutti i fenomeni della natura quanto alla loro
unificazione — sottostanno alle categorie, dalle quali dipende la natura, con-
siderata semplicemente come natura in generale, come dal principio originario
della sua necessaria conformità a leggi (quale natura formaliter spectata). Ma
neanche la facoltà pura dell’intelletto arriva a prescrivere, mediante le sole
categorie, più leggi di quelle sulle quali riposa una natura in generale come regolarità
dei fenomeni nello spazio e nel tempo ». Le leggi particolari devono quindi
essere desunte dall’esperienza (Crif. R. Pura, $ 26). Questo significa che la
natura nella sua conformità alle leggi cioè nella sua uniformità, dipende dalle
ca- tegorie cioè dalla struttura uniforme dell’intelletto; e che pertanto le
uniformità o leggi che si possono ritrovare nell’esperienza sono garantite
dall’uni- formità della forma comune (intelletto-natura). Questa dottrina è
simmetrica e opposta a quella dell’uniformità naturale, ma il suo significato è
lo stesso. Una trascrizione in termini spiritualistici della stessa tesi
fondamentale è quella di Lachelier (Fon- damento dell’I., 1871), secondo la
quale la possibilità dell’I. poggia sull'ordinamento finalistico dell’uni-
verso cioè sul fatto che l’ordine della natura è stabilito dallo spirito
(Fondement de l’induction, Paris, 1907, pag. 12). A questo tipo di soluzione si
riducono tutte le giustificazioni spiritualistiche o idealistiche. 3° La
giustificazione pragmatica è stata avan- zata, nella filosofia contemporanea
quando si è riconosciuta l’impossibilità di una giustificazione teoretica ma
non si è giunti a negare la legittimità del problema cioè della richiesta di
una giustifica- zione. La giustificazione è stata, in questa direzione, cercata
mediante un’interpretazione probabilistica dell’induzione. La più semplice
espressione della regola dell’I. probabilistica è forse quella data da Kneale:
« Quando abbiamo osservato un numero di cose « e trovato che la frequenza della
cose B INDUZIONE fra esse è f, assumiamo che P (a, 8) = f, cioè che la
probabilità che una cosa a sia 8 dev'essere fa» (Probability and Induction,
Oxford, 1949, pag. 230). Espressioni più complicate della stessa regola sono
state date da Lewis (Analysis of Knowledge, 1946, pag. 272) e da Reichenbach
(Theory of Probability, 1949, pag. 446; cfr. pure Experience and Prediction,
Chicago, 1938, pag. 339 sgg.). Ma tutte equivalgono a dire che, quando un
determinato carattere ri- corre in una certa proporzione dei campioni esami-
nati, si può assumere che questa proporzione valga per tutti gli altri esempi
del caso, salvo prova in contrario. Quando la proporzione è uguale al cento per
cento dei campioni esaminati, cioè quando il carattere in questione ricorre in
tutti, si ha il caso della generalizzazione uniforme o completa. È questo il
caso quando si afferma che «tutti gli uomini sono mortali » per il fatto che
l’essere mortale si è sempre trovato costantemente congiunto con l’es- sere
uomo. Dall'altro lato quando il valore nume- rico di quella proporzione si
assume come misura della possibilità che il carattere in questione ricorra in
un nuovo esempio, si ha un giudizio di proba- bilità (v.). Ovviamente la
generalizzazione completa o il giudizio di probabilità sono aspetti della ge-
neralizzazione statistica. Stando ciò, la giustifica- zione dell’I. da un punto
di vista pragmatico può essere fatta asserendo: a) che l’I. è il solo mezzo di
ottenere previsioni; 5) che essa è il solo metodo suscettibile di autocorrezione.
a) Dice Kneale: « L’I. primaria è una diret- tiva razionale non perchè sia
certo che essa conduce al successo ma perchè è il solo modo di tentare di fare
ciò di cui abbiamo bisogno, cioè previsioni esatte» (Op. cif., pag. 235).
Contro questo argo- mento, che è condiviso da molti (cfr., per es., REI-
CHENBACH, Op. cif., pag. 475), Black osserva che, se l’I. è l’unico mezzo per
ottenere previsioni, il successo delle previsioni stesse non la conferma, come
non la confuta l’insuccesso di esse (Problems of Analysis, 1954, pag. 174
sgg.). L'argomento, come quello analogo che I’I. è il solo metodo per
controllare gli altri metodi di previsione, ha la pretesa, osserva Black, di
giustificare deduttivamente l’I. stessa cioè di giustificarla sulla base di
argo- menti che hanno, come i loro stessi proponenti riconoscono (REICHENBACH,
Op. cit., pag. 479; J. O. Wispom, Foundations of Inference in Natural Science,
1953, pag. 229) carattere analitico o tauto- logico. Gli argomenti genuinamente
pratici, osserva ancora Black, non sono deduttivi. Nella vita quoti- diana, in
una situazione che esige una decisione, gli indizi indicano, con qualche grado
di sicurezza, quella che dovrebbe essere l’azione adatta; ma questa non è
deducibile da quella indicazione nè la condotta contraria implica
contraddizione (Pro- 485 blems of Analysis, pag. 185). Questo tipo di argo-
mento non ha pertanto valore come giustificazione del procedimento induttivo.
b) Il secondo argomento fondamentale per la giustificazione pratica dell’I. è la
sua capacità di autocorrezione. Peirce per primo ha insistito su questo
carattere, scorgendo in esso l’essenza stessa dell’I. (Coll. Pap., 2.729). E
Reichenbach ha detto: «Il procedimento induttivo ha il carattere di un metodo
di rrial and error così progettato che per le serie che abbiano un limite delle
frequenze esso condurrà automaticamente al successo in un nu- mero finito di
passi. Può essere chiamato un metodo autocorrettivo o asintotico » (Op. cit.,
pag. 446, $ 87; cfr. KNEALE, Op. cit., pag. 235). Contro questo argomento Black
ha osservato che il termine auto- correttivo non è esatto, giacchè è vero che
l’I. in- clude la possibilità costante della revisione ma per dire che le
revisioni siano correzioni, sarebbe ne- cessario mostrare che esse sono
progressive cioè dirette in un’unica direzione e in quella buona. Ma è proprio
questa sicurezza che manca (Problems of Analysis, pag. 170). Ora si può
concedere a Black che neanche questo argomento sia veramente una
«giustificazione » dell’I. nel senso universale o deduttivo della parola «
giustificazione ». Ma che l’autocorreggibilità sia il carattere del
procedimento induttivo come di ogni procedimento scientifico è cosa che non può
essere messa in dubbio; ed è d'altronde il carattere al quale lo stesso Black
fa appello per caratterizzare il metodo scientifico (Op. cit., pag. 23). La
revisione, che l’I. rende pos- sibile e a cui anzi l’intero suo procedimento è
intrinsecamente subordinato, è una correzione nel senso preciso del termine,
cioè come eliminazione di un errore rivelato dal procedimento stesso. Una
modificazione che non fosse revisione o correzione in questo senso non sarebbe
richiesta ed effettuata dall’induzione. Con tutto ciò, lo stato attuale del
problema dell’I. sembra bene espresso dalla conclusione di Black che una
giustificazione dell’I. non solo è impossibile, ma che il problema di essa è
privo di senso, se per giustificazione s’intende la dimostra- zione della
validità infallibile del procedimento in- duttivo. « Insistere che vi dev'essere
una conclusione sarebbe come dire che, poichè un buon giocatore di scacchi
conosce i movimenti da farsi in una partita di scacchi, egli dev’essere anche
capace di sapere i movimenti da farsi in una scacchiera con un solo pezzo. Ma
questo non è un problema di scacchi e non c’è niente che il giocatore di
scacchi debba risolvere. Il problema di ciò che dobbiamo inferire quando
conosciamo solo che alcuni A sono B non è un genuino problema induttivo e non
c’è modo di risolverlo salvo che riconoscendo 486 che sarebbe inopportuno
tentarlo » (Op. cit., pa- gine 188-89; cfr. Language and Philosophy, 1952, cap.
IM. In altri termini, il problema dell’I. in generale come problema di inferire
il futuro dal passato o i casi non osservati da quelli osservati, è un problema
privo di senso per mancanza di dati. Se questi dati sono forniti, non esiste
più un pro- blema dell'I. ma problemi appartenenti ai domini delle singole
scienze. Si deve aggiungere tuttavia che l’eliminazione del problema dell’I.
nella sua forma classica non esime il filosofo dall’analisi dei proce- dimenti
induttivi adoperati dalle singole scienze, dal confronto di tali procedimenti e
dalle genera- lizzazioni che da tale confronto possono nascere. È chiaro
tuttavia che quest'ordine di ricerche, a tutt'oggi non ancora intraprese, non
condurrà mai a una giustificazione dell’induzione. La giustifica- zione
infatti, se fosse raggiunta, avrebbe per suo effetto immediato la eliminazione
di ogni rischio dei procedimenti induttivi e la riduzione di questi procedimenti
alla certezza e alla necessità di quelli deduttivi. In realtà i procedimenti
scientifici e in generale i comportamenti e le direttive razionali dell’uomo,
consistono nel limitare il rischio cioè nel renderlo calcolabile: non
nell’eliminarlo. I pro- blemi filosofici non possono quindi essere posti in
modo che la loro soluzione significherebbe l’elimi- nazione del rischio. Il
carattere chimerico di una simile impostazione fa vedere, meglio di ogni altra
cosa, l’illegittimità del problema della giustificazione dell’induzione. In
forma estrema questa tesi è stata espressa da Popper che ha considerato l’I.
come un semplice mifo, che non è un fatto psicologico, nè un fatto della vita
ordinaria nè una qualsiasi procedura scientifica; e ha ritenuto che la scienza
procede col metodo del trial and error cioè salta di colpo, anche da una
singola osservazione, a una congettura o a un’ipotesi che poi cerca di
confutare e che viene mantenuta finchè la confutazione non è riuscita
(Conjectures and Refutations, 1965, pa- gine Sl sgg.). INDUZIONE MATEMATICA
(ingl. Ma- thematical Induction; franc. Induction mathématique; ted.
Mathematische Induktion). Si indica con questo nome il principio che serve a
stabilire la verità di un teorema matematico in un numero indefinito di casi.
Si chiama anche principio di ricorrenza o ragionamento per ricorrenza
(Porncaré, La science et l’hypothèse, I, $ 3). Peano ha così definito il
principio: « Sia S una classe, supponiamo che O appartenga a questa classe e
che tutte le volte che un individuo appartenga a questa classe, anche quello
seguente vi appartenga; allora tutti i numeri appartengono a questa classe. Si
chiama principio d’I. questa proposizione » (Formul. Mat., $ 10). Il principio
non ha niente in comune con l’I. scientifica INDUZIONE MATEMATICA salvo il
carattere di generalizzazione (cfr. MORRIS R. CoHen-ERNEST NagEL, The Nature of
a Logical or Mathematical System, $ 6, in Readines in the Phil. of Science,
1953, pag. 144). INERENZA. V. Essere, 1, A). INERZIA (ingl. Inertia; franc.
Inertie; tedesco Tragheit). La storia di questo concetto fondamen- tale della
meccanica moderna deve molto alla filo- sofia. Alla fisica di Aristotele questo
concetto era estraneo perchè essa riteneva valido un teorema che lo esclude: il
teorema che «tutto ciò che si muove è mosso necessariamente da qualche cosa »
(Fis., VII, 1, 241b 24). È ovvio che, se questo principio è vero, un corpo non
può persistere nel suo stato di movimento senza l’azione di un altro corpo. La
teoria dell’imperus, esposta dagli Scola- stici del sec. xIv, costituisce la
prima critica del principio aristotelico e il primo affacciarsi della nozione
di inerzia. A] principio aristotelico, Ockham aveva opposto l’esempio della
freccia, o di qual- siasi altro proiettile, a cui viene comunicato un impulso
che il proiettile conserva senza che il corpo che glielo ha comunicato lo
accompagni nella sua traiettoria (Zn Sent., II, q. 18, 26). Un discepolo di
Ockham, Buridano (sec. xiv) riprende questa dottrina e l’applica al movimento
dei cieli: questi possono benissimo essere mossi da un impeto loro comunicato
dalla potenza divina, impeto che si conserva perchè non viene diminuito o
distrutto da forze opposte (/n Phys., VIII, q. 12). Nicola di Oresme e Alberto
di Sassonia che appartennero anch’essi alla corrente ockhamistica che fiorì nel
sec. xIv nell’Università di Parigi riprendono e difen- dono questa teoria. Da
questa tradizione scolastica la nozione di I. passò nei fondatori della scienza
mo- derna, Leonardo e Galilei. Quest’ultimo si serve della nozione
costantemente e la appoggia a una specie di esperimento mentale. Parlando del
movimento di una palla perfetta su un piano assai liscio egli chiede: «Or
ditemi quel che accadrebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non
fosse nè acclive nè declive »; e risponde che «esso sarebbe perpetuo 1 (Op.,
VII, 273; cfr. VIII, pag. 243). Ma per quanto Galilei si servisse correttamente
della nozione di I., egli non ne formulò esplicitamente il relativo prin-
cipio; e il primo a formularlo fu in realtà Cartesio che stabili come «prima
legge della natura» il principio « Ciascuna cosa particolare continua ad essere
nel medesimo stato fintanto che può e non lo cambia se non per il suo incontro
con altre cose » (Princ. Phil., II, $ 37). Alcuni decenni dopo, ac- colto da
Newton come primo principio della dina- mica nei Principi matematici della
filosofia naturale (1687), il principio d’I. faceva il suo definitivo ingresso
nella scienza moderna, per la quale esso fu e rimane, più che una «legge di
natura+?, nel INFINITO senso in cui Cartesio intendeva il termine, o una verità
sperimentale, un postulato o principio stru- mentale che permette il calcolo
della forza (v.) o dell’energia (v.). Sulla teoria dell’impetus, cfr. DUHEM,
Études sur Léonard de Vinci, Parigi, 1909. INESPRIMIBILE (lat. Ineffabilis;
ingl. Inex- pressible; franc. Inexprimable; ted. Unaussprechlich). Nella
teologia mistica, a partire dalle antiche reli- gioni misteriosofiche, I. è ciò
che si rivela nel punto culminante dell’esperienza mistica, cioè nell’entu-
siasmo o nell’estasi (cfr. PLOTINO, Enn., VI, 9, 1l; Pseupo-DIONIGI, Myst.
Theol., I, 1; S. BONAVEN- TURA, /tinerarium Mentis in Deum, VII, 5; ecc.) Nella
filosofia contemporanea Wittgenstein, nella chiusa del Tractatus
logico-philosophicus (1922) am- metteva l’esistenza dell’I.: « C'è veramente
l’ine- sprimibile. Esso si mostra, è ciò che è mistico» (Tract., 6. 522). « Noi
sentiamo, egli diceva, che se tutte le possibili domande della scienza avessero
una risposta, i problemi della nostra vita non sa- rebbero nemmeno sfiorati.
Certo non rimarrebbe allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta »
(/bid., 6, 52). E il Tractatus si chiudeva con l’affermazione: « Di ciò di cui
non si può par- lare, si deve tacere» (/bid., 7). Dall'altra parte, Carnap
parlava di una « mitologia dell’I.» e con- siderava questa parola
particolarmente pericolosa perchè atta a produrre confusioni e incertezze.
L'enunciato « Vi sono oggetti I. », tradotto in lin- guaggio formale, suona,
per Carnap, semplicemente « Vi sono designazioni di oggetti che non sono de-
signazioni di oggetti» o « Vi sono enunciati che non sono enunciati » (Logische
Syntax der Sprache, 1934, $ 81; trad. ingl., pag. 314). INFERENZA (ingl.
Inference; franc. Inférence; ted. Inferiren). Nel latino medievale si trova
presso molti logici il termine inferre per indicare il fatto che, in una
connessione (o consequentia) di due proposizioni, il primo (antecedente)
implica (0 meglio contiene per « implicazione stretta ») il se- condo (conseguente).
Nella filosofia moderna il termine «I.» (preferito dagli Anglosassoni) è di
solito usato come sinonimo di « illazione » (prefe- rito dagli Italiani),
peraltro in un senso molto sciolto, che va da quello di implicazione (v.), per
es., in Jevons e in genere nei logici inglesi dell’800, a quello di processo
mentale operativo mediante il quale, partendo da certi dati, si arriva per
impli- cazione, o anche per induzione, ad una conclusione (Stebbing, Dewey).
Dice, ad es., Stuart Mill: « In- ferire una proposizione da una o più
proposizioni antecedenti; assentire o credere ad essa come con- clusione da
qualche cosa d’altro, questo è ragionare nel più esteso significato del
termine» (Logic, II, 1, 1). Nello stesso senso generalissimo la parola viene
adoperata da Peirce (Chance, Love and Logic, 487 cap. VI) e da molti logici
contemporanei, Lewis, Reichenbach, ecc. Dewey ha distinto l’I. come relazione
tra segno e cosa significata dall’implica- zione che sarebbe la relazione tra i
significati che costituiscono le proposizioni (Logic, Introduzione; trad.
ital., pag. 96); ma questa proposta non ha avuto sèguito. a. P. INFINITESIMALE
(lat. Infinitesimus; inglese Infinitesimal; franc. Infinitésimal; ted.
Infinitesimal). Una grandezza che può essere resa più piccola di ogni grandezza
assegnabile; o, come anche, meno propriamente, si dice, una grandezza tendente
a zero. Questo concetto fu conosciuto dai Greci che l’utilizzarono spesso. Esso
è presupposto dagli ar- gomenti di Zenone di Elea contro il movimento (v.
ACHILLE; DicoroMia; FRECCIA; STADIO); e fu chiaramente espresso da Anassagora
che disse: 4 Rispetto al piccolo non c'è un minimo ma c’è sempre un più piccolo
perchè ciò che esiste non può venire annullato » (Fr. 3, Diels). Lo stesso
concetto veniva espresso da Aristotele (Fis., III, 7, 207 b 35). Gli ultimi
scolastici ripresero questi concetti (cfr. per tutti OCKHAM, /n Sent., I, d.
17, q. 8), che fu poi messo da Leibniz a fondamento del calcolo I., il cui
primo documento importante è la memoria dello stesso Leibniz intitolata Nuovo
metodo per î massimi e i minimi (1682). INFINITO (gr. &respov; lat.
/nfinitum; ingl. In- finite; franc. Infini; ted. Unendlich). Il termine ha i
seguenti significati principali che sono tra loro variamente imparentati: 1°
l’I. matematico che è la disposizione o la qualità di una grandezza; 2° l’I.
teologico che è l’illimitatezza di potenza; 3° I’I. metafisico che è l’assenza
di compiutezza. 1° La concezione matematica dell’I. ha ela- borato due diversi
concetti di esso e cioè: a) il concetto dell’I. potenziale come limite di certe
ope- razioni sulle grandezze; 5) il concetto dell’I. attuale come una specie
particolare di grandezza. a) Il concetto dell’I. potenziale è stato ela- borato
da Aristotele. Aristotele negava che I'I. potesse essere arruale cioè reale sia
come realtà a sè (sostanza) sia come attributo di una realtà (Fis., III, 5,
204a 7 sgg.). Questo vuol dire che l’I. non è sostanza nè proprietà o
determinazione sostanziale ma «esiste soltanto in modo acciden- tale » (/bid.,
204 a 28): cioè come disposizione delle grandezze. Quale disposizione?
Aristotele dà due significati fondamentali dell’I.: per il primo, VI. è «ciò
che per natura non può essere percorso » nel senso in cui la voce è ciò che non
può essere visto. Nel secondo, l’I. è ciò che si può percorrere, ma non tutto,
perchè è senza fine; e in questo senso è I. per composizione o per divisione o
per entrambe le cose (/bid., III, 4, 204a 3). Ora VI. in senso matematico è
soltanto quest’ultimo cioè l’I. che 488 si può percorrere ma mai
esaurientemente o com- pletamente. In questo senso l’I. è tale «che si può
prendere sempre qualcosa di nuovo, e ciò che si prende è sempre finito ma
sempre diverso. Sicchè non bisogna prendere l’I. come un singolo essere, per
es., un uomo o una cosa, ma nel senso in cui si parla di una giornata o di una
lotta, il cui modo d’essere non è una sostanza ma un processo e che, se pure è
finito, è incessantemente diverso » (/bid., III, 6, 206 a 27). Non è pertanto
I. ciò al di fuori di cui non c’è nulla, come si ritiene comunemente, ma ciò al
di fuori di cui c’è sempre qualcosa; per conseguenza l’I. rientra più nel
concetto di parte che in quello di tutto (Zbid., IIl, 6, 206b 32; 207 a 27).
Questo concetto aristotelico veniva uti- lizzato da Lucrezio per difendere la
dottrina epi- curea dell’infinità dello spazio ed espresso con l'immagine di
una freccia lanciata a partire dal- l'estremo confine dell’universo,
ipoteticamente am- messo: sia che la freccia incontri un ostacolo, sia che
proceda al di là, l’estremo confine dell’universo non è più tale perchè è solo
il punto di partenza della freccia (De rer. nat., I, 967-982). Anche in
quest'immagine l’I. è ciò di cui si può prendere sempre una parte, e ciò che si
prende è sempre finito ma sempre diverso. Questo concetto dell’I. è es-
senzialmente negativo: consiste nella non esauri- bilità di certe grandezze
sottoposte a determinate operazioni che sono quelle della composizione, cioè
dell’aggiunta di una parte sempre nuova, e della divisione in parti sempre nuove.
La prima opera- zione tende all’infinitamente grande, la seconda
all’infinitamente piccolo (cioè all'infinitesimo [v.])): entrambe definiscono
il concetto dell’I. come ine- sauribilità di parti dentro parti. Ma così inteso
il concetto è ovviamente negativo: caratterizza l’ine- sauribilità o
incompletezza di una serie. Giusta- mente a questo proposito Plotino osservava
che l’I. è ciò che non può essere esaurito nella sua grandezza o nel numero
delle sue parti (Enn., VI, 9, 6). E Kant, dallo stesso punto di vista, di-
ceva: « Il vero (trascendentale) concetto dell’infinità è che la sintesi
successiva dell’unità nella misura- zione d'un quantum non può essere mai
compiuta » (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. 2, sez. 2). Questa specie di I. è
quella che i logici del Medioevo ave- vano chiamato I. sincategorematico
(syncategore- maticum): che è l’I. inteso come disposizione (non qualità) di un
soggetto e distinto dall’I. caregore- matico che sarebbe l’I. come qualità o
come so- stanza (Pietro IsPanO, Sum. Log., 12.57; OCKHAM, In Sent., I, d. 17,
q. 8). Era questo anche l’I. che nella matematica del "700 e della prima
metà del- l’800 fu definito mediante il concetto di limite (cioè come il campo
delle serie, delle successioni, ecc.) ma al quale i matematici di quel tempo
non rico- INFINITO nobbero il rango di un tipo di grandezza a sè stante. Diceva
Gauss in una lettera del 1831: « Protesto contro l’uso di una grandezza I. come
qualcosa di completo, uso che non venne mai ammesso nella matematica. L’I. è
soltanto una facon de parler; a voler essere rigorosi si parla in- vece di
limiti cui alcuni rapporti vengono vicini quanto si vuole, mentre ad altri
rapporti è per- messo crescere oltre ogni misura + (cfr. GEYMONAT, Storia e
filosofia dell’analisi infinitesimale, 1947, pag. 174-75). I Paradossi dell’I.
(1851) di Bernardo Bolzano segnano il primo avviamento decisivo verso un nuovo
concetto dell’infinito. 6) Il secondo concetto dell’I. è quello del- l’I.
categorico o (come meno propriamente si dice) attuale, cui solo la matematica
moderna ha dato forma rigorosa. A questo concetto tuttavia essa stessa è stata
avviata dalle discussioni tradizionali sui cosiddetti paradossi dell’infinito.
Già Ruggero Bacone, per confutare l’infinità del mondo, faceva vedere che, se
si ammette l’I., si deve concludere che la parte è maggiore del tutto cui
appartiene (Opus tertium, ed. Brewer, 41, pag. 141-42). E argomenti simili
furono ripetuti frequentemente nella Scolastica del ’300. Ma tale Scolastica ci
offre anche, con Ockham, una risposta a tali ar- gomenti che indica la via la
quale sarà poi seguita dalla matematica della seconda metà dell’800. Af- ferma
infatti Ockham: « Non è incompatibile che la parte sia uguale o non minore del
suo tutto perchè ciò accade ogni qualvolta una parte del tutto è I... Ciò
accade anche nella quantità discreta o in una qualunque molteplicità, una parte
della quale abbia unità non minori di quelle contenute nel tutto. Così in tutto
l’universo non ci sono parti in numero maggiore che in una fava, perchè in una fava
ci sono infinite parti. Sicchè il principio che il tutto è maggiore della parte
vale soltanto per i tutti composti di parti integranti finite » (Cenr. Theol.,
17 C; Quodl., I, q. 9). Questa coraggiosa limita- zione del valore di un
assioma, che appariva allora evidente, non ebbe tuttavia séguito per molto
tempo. Lo stesso Galilei, per evitare la possibilità di una eguaglianza tra la
parte e il tutto (a proposito del rapporto fra i quadrati e la serie naturale
dei nu- meri) affermò « gli attributi di ‘ eguale *, ‘ maggiore ’, e ‘ minore’
non aver luogo negli I. ma solo nelle quantità terminate» (Scienze nuove, Op.,
VIII, pag. 79) lasciando così inalterata la verità del pre- teso assioma. Esso
veniva a cadere e dichiarato frutto di una generalizzazione fallace (cfr.
RUSSELL, Principles of Mathematics, 1903, pag. 360) solo quando Giorgio Cantor
(nei Mathematische Annalen, fra il 1878 e il 1883) e Dedekind (Continuità e nu-
merì irrazionali, 1872; Che cosa sono e che cosa debbono essere i numeri, 1888)
enunciarono un INFINITO nuovo concetto dell’infinito. Questo consiste nell’as-
sumere come definizione dell’I. esattamente quello che era apparso sin allora
come il « paradosso + dell’I. stesso: l'equivalenza della parte e del tutto. Si
può illustrare questa concezione ricorrendo al- l’esempio fatto da Royce (The
World and the Indivi- dual, 1900-01; cfr. il Saggio complementare « L’uno, i
molti e l’I. » aggiunto al vol. I dell’opera). Suppo- niamo che ci sia una
carta geografica idealmente perfetta, tale cioè che, se A è l’oggetto
riprodotto ed A° la carta geografica, questa stia in corrispon- denza con A in
modo tale che per ogni particolare elemento di A, cioè a, è, c, possa essere
determinato in A’ qualche corrispondente elemento a’, bd’, c’, conformemente al
sistema di proiezione prescelto. Poniamo inoltre che questa carta geografica
sia disegnata entro e sopra una parte della superficie della regione
riprodotta, per es., dell’Inghilterra. Se questa carta è, come dev'essere per
ipotesi, idealmente perfetta, deve rappresentare tutto ciò che c’è sulla
superficie dell’Inghilterra, quindi la stessa carta geografica. La
rappresentazione di quest’ultima, essendo a sua volta perfetta, dovrà contenere
come parte di sè la rappresentazione di sè; e così via senza limite. Un sistema
simile è chiaramente I., non in quanto inesauribile, ma in quanto
autorappresentativo, o come meglio si dice autoriflessivo. In termini
matematici, un insieme autoriflessivo è quello che si può mettere in corri-
spondenza biunivoca con qualche suo sotto-insieme. Questo è proprio il caso
della serie naturale dei numeri che si può mettere in corrispondenza biuni-
voca con i suoi sotto-insieme, per es., con i qua- drati, con i numeri primi,
ecc. La potenza comune di due insiemi tra i quali esista una corrispondenza
biunivoca è, secondo Cantor, il «numero cardinale» dei due insiemi. Questo
numero si dirà transfinito quando l’insieme risulta equipotente ad una sua
propria parte o sottoinsieme. In tal modo, il concetto di numero cardinale I.
che era stato sempre negato come contraddittorio faceva il suo ingresso nella
mate- matica. Esso doveva rivelarsi ben presto fonte di nuove difficoltà e
problemi: difficoltà e problemi che costituiscono i « paradossi » della logica
moderna, per quanto anch’essi non fossero del tutto scono- sciuti allo logica
antica (v. ANTINOMIE). Ma il concetto dell’I. matematico non è stato modifi-
cato dalla trattazione di questi paradossi e dalle soluzioni per essi proposte.
2° Il secondo concetto di I. è di natura teologica ed è sorto nell’ultimo
periodo della filosofia greca con Filone e Plotino. Quest’ultimo aveva distinto
l’infinità del numero che è « inesauribilità » (Enn., VI, 6, 17) dall’infinità
dell’Uno che è invece « l’il- limitatezza della potenza» (/bid., VI, 9, 6). Con
489 minor precisione di linguaggio, questo concetto viene espresso
frequentemente nella Scolastica me- dievale. S. Tommaso, dopo aver osservato
che i primi filosofi ebbero ragione a ritenere I. il prin- cipio delle cose «
considerando che le cose derivano dal primo principio all’I. », distingue l’I.
della ma- teria che è imperfezione perchè la materia senza forma è incompiuta,
e l’I. della forma che invece è perfezione perchè è proprio di quella forma che
non riceve l’essere da altro ma da se stesso, cioè di Dio (S. 7A., I, q. 7, a.
1). Chiamare I. la forma di per sè sussistente sembra voler significare che
l’I. è ciò che, per essere, non ha bisogno di altro, ed è perciò illimitata
potenza di essere. Non molto diverso è il senso che sembra avere la tesi di
Duns Scoto sull’infinità come modo d’essere proprio di Dio. Duns osserva che se
si dice che Dio è sommo, gli si dà una determinazione che gli compete ri-
spetto alle cose che sono diverse da lui: è sommo fra tutte le cose esistenti.
Ma se si dice che è I., si intende che è sommo nella sua natura intrinseca,
cioè che trascende ogni grado possibile di perfezione (Op. Ox., I, d. 2, q. 2,
n. 17). L’infinità sembra esprimere qui il «quo maius cogitari nequit» di S.
Anselmo, cioè l’essere le perfezioni di Dio al di là di ogni grado
raggiungibile dalle perfezioni finite. La distinzione cartesiana tra I. e
indefinito (v.) che riserva soltanto a Dio l’attributo dell’infinità, sembra
coincidere anche meglio con la distinzione fra II. teologico e l’I. matematico:
distinzione che si trova anche in Locke (Saggio, II, 17, 1) e Leibniz (Nouv.
Ess., II, 17, 2). Ma nella filosofia moderna il concetto dell’I. come
illimitatezza della potenza fa veramente il suo ingresso con Fichte. Per
Fichte, l’Io è I. in quanto «è posto dalla sua propria as- soluta attività »
cioè in quanto la sua attività non trova limiti od ostacoli. Ponendo, nel
contempo, un non-Io, l’Io si limita e diventa finito. Ma da ultimo « la finità
deve essere annullata: tutti i limiti devono sparire e deve restare solo l'Io
I., come Uno e come Tutto» (Wissenschafislehre, 1794, II, $ 4, D). La
contrapposizione hegeliana tra « cat- tivo I.» e «vero I. + costituisce la
migliore illustra- zione di questa nozione di I. nella filosofia moderna. La
falsa infinità è l’infinità matematica del progresso all’I.; giacchè questo «
si arresta alla dichiarazione della contraddizione contenuta nel finito, che
questo, cioè, è tanto qualcosa, quanto l’altra cosa » (Enc., $ 94). Il
progresso all'I. rinvia a/ di /è del finito ma non raggiunge mai questo al di
là; perciò la sua negazione del finito è un « dover essere? che non è mai un
«essere». Il vero I. scioglie questa contraddizione: nega la realtà del finito
come tale e lo risolve in sè. Il vero I. in altri termini è ciò che è, è la
realtà. Esso «è ed è determinatamente, c’è, è presente. Solo il cattivo I. è
l’al di là, essendo 490 soltanto la negazione del finito come tale... La vera
infinità presa così in generale, quale un esserci che è posto come affermativo
contro l’astratta negazione, è la realtà in un senso più elevato che non quella
che dapprima si era determinata quale semplice realtà. La realtà ha acquistato
qui un con- tenuto concreto. Non il finito è reale, ma IL» (Wissenschaft der
Logik, I, I, sez. I, cap. II, C; trad. ital., pag. 161-62). In questo senso
l’I. è, per usare una frase dello stesso Hegel, la « forza dell’e- sistenza +
(Fil. del Dir., $ 331, Zusatz), cioè la forza per la quale la ragione abita il
mondo e lo domina ed è pertanto illimitatezza di potenza (Enc., $ ©). È ben
noto l'uso che Hegel stesso e tutta la filo- sofia romantica dell’800 hanno
fatto di questo concetto dell’I.: esso è servito a giustificare la realtà in
quanto tale, il fatto, e a respingere la pre- tesa dell’intelletto « astratto »
di giudicare la realtà stessa, di opporsi ad essa e di inserirsi in essa con un
impegno di trasformazione. La nozione della infinità di potenza infatti è
quella per la quale la realtà, ogni realtà è, in qualsiasi momento, tutto ciò
che dev'essere: dato che il principio che la regge non difetta della potenza
necessaria alla propria integrale realizzazione. 3° Il terzo concetto dell’I. è
il corrispettivo metafisico del concetto matematico tradizionale dell’I.
stesso. Si è già visto che per Aristotele l’I. non può mai essere compiuto,
quindi non può mai essere un fuffo; esso è parte, cioè incompiu- tezza e
inesauribilità. Aristotele dava pertanto torto a Melisso che aveva chiamato I.
il tutto e ragione a Parmenide che l’aveva ritenuto finito (Fis., 6, 207 a 15).
Ma tali determinazioni sono quelle che già Platone aveva riconosciuto proprie
dell’I.: I. è ciò che è privo di numero o di misura, che è suscettibile del più
e del meno e perciò esclude l'ordine e la determinazione (Fil, 24a-25b). È
questo il concetto metafisico dell’I. che fu proprio dei Greci perchè fu
strettamente connesso col loro ideale morale dell’ordine e della misura.
Storica- mente parlando, questo concetto non ha superato i confini della Grecia
dell’età classica. INFINITO, GIUDIZIO (ted. Unendlich Ur- tei). Kant chiamò
così le proposizioni in cui il predicato è costituito da una negazione, per
es., « l’anima è non-mortale » (Logik, $ 22; Crir. R. Pura, $ 9). Il termine I.
era già adoperato dalla logica medievale per indicare i nomi negativi, per es.,
non-uomo (cfr. Preto Ispano, Summ. Log., 1.04). INFLUSSO (lat. /nfluxus,
Influentia; ingl. In- flux; franc. Influence; ted. Einfluss). L’azione eser-
citata da ciò che è incorporeo su ciò che è corporeo. Cardano distingueva l’I.
in questo senso dal mu- tamento che è l’azione di un corpo su un altro corpo e
dall’afffaro che è l’azione dell’incorporeo INFINITO, GIUDIZIO sull’incorporeo
e si svolge esclusivamente nell’anima (De Subrilitate, XXI, in Opera, 1663,
III, pag. 669 b- 670 a). Il termine è stato adoperato per indicare: 1° l’azione
determinante degli astri sul destino e le vicende degli uomini, come mediatrice
del- l’azione divina (cfr., ad es.: Cusano, De Docta Ignor., II, 12; PICO DELLA
MIRANDOLA, Adv. Astro- logiam, VI, 2 e passim); 2° l’azione di governo di Dio
sul mondo. In questo senso Campanella parla dei tre « grandi I.» in cui si
concreta l’azione di Dio e che sono la necessità, il fato e l’armonia (Mer.,
IX, 1; Theol., I, 17, a. 1); 3° l’azione dell'anima sul corpo. In questo senso
la parola fu adoperata nei sec. XVII e xvIn. Dice Leibniz: « Volendo sostenere
questa opinione volgare dell’I. dell'anima sul corpo con l’esempio di Dio che
opera fuori di lui, si fa rassomigliare troppo Dio all’anima del mondo» (IV
Lettre è Clarke, $ 34). « Sistema dell’I. fisico » chiama questa dottrina
Baumgarten (Mer., $ 761). E alla stessa «opinione volgare » fa cenno, per
rigettarla, anche Kant (De mundi sensibilis, etc., IV, $ 17). INFORMAZIONE. V.
CIBERNETICA. INGEGNO (lat. /ngenium; Ingl. Ingenuity, Wit; franc. Genie; ted.
Witz). Riprendendo uno dei si- gnificati tradizionali del termine, Giambattista
Vico chiamò I. la facoltà inventiva della mente umana. Egli contrappose
pertanto l’I. alla ragione car- tesiana; e analogamente contrappose all’arte
car- tesiana della critica fondata sulla ragione, la topica come l’arte che
disciplina e dirige il procedi- mento inventivo dell’ingegno. L’I. ha tanta più
forza produttiva rispetto alla ragione, quanto meno ha, nei suoi confronti, di
capacità dimostrativa (De nostri temporis studiorum ratione, $ 5). Kant a sua
volta intendeva per I. il talento cioè «la superiorità del potere conoscitivo
che dipende dalla disposizione naturale del soggetto e non dall’inse- gnamento
» e lo distingueva in I. comparativo e in I. logicizzante (Antr., I, $ 54). V.
ToPICA. INGENUITÀ (ingl. Naivete; franc. Nalveté; ted. Naivetàt). Nel sec. xvi
questo termine cominciò ad essere adoperato per indicare un certo modo di
espressione estetica. « L’I., diceva Kant, è l’espres- sione dell’originaria
sincerità naturale dell'umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda
na- tura » (Crit. del Giud., $ 54). L’I. non va scambiata con la franca
semplicità che non dissimula la na- tura solo perchè non comprende che cosa sia
l’arte di vivere in società. È piuttosto una natura che si affaccia o si rivela
nell’arte stessa (Z/bid., $ 54). A questi concetti si ispirò Schiller nel
saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-96). « L’ingenuo, diceva
Schiller, è Ia rappresentazione della nostra infanzia perduta, che rimane per
noi ciò che c’è INQUIETUDINE di più caro e perciò ci riempie di una certa
tristezza ed è insieme quella della suprema perfezione del- l’ideale che perciò
ci eccita in una sublime emo- zione » (Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 108).
Alla poesia ingenua in questo senso si contrappone la poesia sentimentale: il
poeta ingenuo è natura; il poeta sentimentale cerca la natura (/bid., pag.
125). Fuori del dominio dell’estetica, il termine è stato talora usato per
caratterizzare le credenze filosofiche dell'uomo comune. « Realismo ingenuo» è
stato detto e si dice la credenza comune nella realtà delle cose. E per quanto
l’aggettivo abbia, in quest’uso, un certo tono dispregiativo, la critica più
recente ha mostrato che non sempre le credenze ingenue sono le più deboli (v.
REALISMO). ININTELLIGIBILE
(lat. Znexplicabilis; ingl. Unintelligible; franc. Inintelligible; ted. Unver-
stîindlich). 1. Propriamente, ciò di cui non si giunge
ad afferrare il perchè nè il come; ossia ciò di cui la causa o condizione o
significato è inafferrabile: l’inesplicabile (cfr. CicER., Acad., II, 29, 95).
Il ter- mine ha pertanto un significato diverso e più pre- ciso che
inconcepibile (v.) il quale indica soltanto una generica incompatibilità con la
ragione. Leibniz stesso stabiliva la differenza tra ciò che non s’intende e ciò
che è inconcepibile (Nouv. Ess., Avant propos, Op., ed. Erdmann, pag. 202). Una
differenza ana- loga è stabilita fra i due termini da Peirce (Chance, Love and
Logic, II, 2; trad. ital., pag. 137). 2. Detto di discorsi scritti o parlati:
oscuro, confuso, non bene esposto ai fini della comunica- zione. INNATISMO
(ingl. Inratism; franc. Innatisme; ted. Nativismus). La dottrina che esistono
nell’uomo conoscenze o princìpi pratici innati, cioè non acqui- siti con
l’esperienza o dall’esperienza, ed anteriori ad essa. Il modello di ogni I. è
la dottrina platonica dell’anamnesi (v.): « Poichè l’anima è immortale ed è
nata molte volte ed ha visto ogni cosa, sia qui che nell’Ade, non c’è niente
che essa non abbia appreso: sicchè non fa meraviglia che possa ricor- dare, sia
intorno alla virtù sia intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva » (Men., 81
c). Ma la forma con cui l’I. è passato nella tradizione filosofica è stata data
ad esso dagli Stoici. Essi ammettevano come criterio della verità, accanto alla
rappresen- tazione catalettica, l’anticipazione che è «la nozione naturale
dell’universale » (Dioc. L., VII, 54). Ci- cerone così esponeva il loro punto
di vista: « La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben presto guastati
da cattivi costumi e da false opi- nioni, le spegniamo in modo da far
scomparire il lume della natura. E invero nella nostra indole sono innati i
germi della virtù, e se fosse loro pos- sibile svilupparsi, la natura stessa ci
guiderebbe ad una vita felice» (Tusc., III, 1, 2). Questa specie 491 di I. si
ricollega alla teoria dell’istinto (v.) propria degli Stoici e viene ripresa da
dottrine che hanno l’intento di mettere al riparo dal dubbio certe cre- denze
fondamentali di natura teoretica o pratica. In questo senso l’I. fu ripreso dal
platonismo rinascimentale di cui si può considerare una con- tinuazione il
platonismo inglese del sec. xvi contro le cui tesi fondamentali è diretta la
critica del primo libro del Saggio di Locke. LI. è poi ripreso in Inghilterra
nel secolo successivo dalla scuola scoz- zese del senso comune (v.) e cioè da
Reid e Dugald Stewart. Ma già Cartesio e Leibniz avevano dato all’I. un
significato nuovo. Per Cartesio alcune idee sono innate come «capacità di
pensare e di comprendere le essenze vere, immutabili ed eterne delle cose »
(Méd., III; Lettre à Mersenne, 16-vi-1641, Cuvr., III, 383). E Leibniz
similmente considerava innate le verità che si rivelano immediatamente tali al
lume naturale, senza aver bisogno di altra ve- rifica (Nouv. Ess., I, 1, 21).
In questo senso l’inna- tezza non era più una specie di scultura che l’anima
porta con sè nascendo, secondo l’immagine che Cicerone aveva adoperato (De nat.
deor., II, 4, 12). Al vecchio adagio scolastico: « Nihil est in intellectu,
quod prius non fuerit in sensu», Leibniz aggiungeva la limitazione « nisi ipse
intellectus» in- tendendo dire con ciò che l’anima dispone per suo conto di
categorie, come l’essere, la sostanza, l’uno, lo stesso, la causa, la
percezione, il ragiona- mento, ecc.; che i sensi non potrebbero fornirle (Nouv.
Ess., II, 1, $ 2). Non grande è la distanza tra questa forma di I. e la
dottrina kantiana (che tuttavia si è soliti non designare con questo ter- mine)
della non-derivazione dall’esperienza delle forme a priori della conoscenza.
L’I. appartiene, oggi, al novero di quelle dottrine che non si dibat- tono più
perchè non si dibattono più i problemi di cui esse costituiscono le soluzioni.
Nella filosofia moderna, quando si ammette che qualcosa precede l’esperienza
(come fa, per es., l'idealismo hegeliano) questo qualcosa non è un complesso di
idee o di virtualità, ma tutta la ragione o tutto lo spirito (cfr. A PRIORI).
INQUIETUDINE (ingl. Uneasiness; francese Inquiétude; ted. Unruhe). Al termine
ha dato un significato filosofico preciso Locke, intendendo per esso il disagio
del bisogno inappagato (Saggio, II, 20, 6). Nella seconda edizione del Saggio
Locke vide nell’I. così intesa il movente principale della volontà umana. «
Dopo averci ripensato, diceva Locke, sono portato a ritenere che non sia, come
generalmente si pensa, il maggior bene che si abbia in vista, bensì un qualche
disagio (e per lo più quello più gravoso da cui l’uomo sia attualmente
afflitto) ciò che determina la volontà... Questo di- sagio possiamo anche
chiamarlo desiderio, che è 492 un disagio dello spirito per la mancanza di
qualche bene» (/bid., II, 21, 31). Leibniz accoglieva con favore questa tesi di
Locke (Nouv. Ess., II, 20, $ 6); che fu accolta e utilizzata anche da Condillac
(Traité des sensations, I, 3, $ 2). IN SÈ (gr. aùrs;
lat. In se; ingl. In itself; fran- cese En soi; ted. An sich). Ciò che si considera senza riferimento ad altro e
cioè: 1° indipendente- mente dalle relazioni con altri oggetti; 2° indipenden-
temente dalla relazione col soggetto considerante. 1° Platone e Aristotele
usano l’espressione nel primo senso. Platone parla del « bello stesso », della
«somiglianza stessa», ecc. (espressioni che di solito sono state tradotte nelle
lingue moderne come «bello in sè», «somiglianza in sè», ecc.) per indicare il
bello, la somiglianza, ecc., fuori delle loro relazioni con le cose che ne
partecipano (Fed., 65d, 75c; Parm., 130b, 150c, ecc.). Ari- stotele adopera
l’espressione nello stesso senso per indicare una qualità o una sostanza, per
es., « ani- male » che si consideri indipendentemente dalle relazioni con le
sue specie (cfr., ad es., Mer., VII, 14, 1039 b 9). Questo significato è anche
alla base del valore che Hegel dette all’espressione indicando con essa ciò che
è astratto e immediato, privo di sviluppo, di riflessione, di relazione. «In
sè» è pertanto il concetto nella sua immediatezza, quale è considerato dalla
prima parte della logica cioè dalla Dottrina dell’essere (Enc., $ 83), nel
senso che non è per sè (v.) cioè non è risolto nella co- scienza. In tal senso
Hegel dice: « Le cose si dicono essere in sè in quanto si astrae da ogni esser
per altro, il che in generale significa: in quanto sono pensate senza alcuna
determinazione o come dei nulla » (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap.
II, B, a; trad. ital., pag. 124). In riferimento a questo significato Hegel usò
l'espressione per indicare ciò che è in potenza, cioè che non si è ancora
sviluppato e che solo perciò può essere considerato indipendentemente dalle
relazioni con le altre cose. Il contrario del- l’iîn sè è in questo senso il
per sè che è l’attualità o l’effettualità di una cosa per cui la cosa stessa,
nel suo svolgimento si arricchisce mediante le sue relazioni con le altre.
(Cfr. Geschichte der Philo- sophie, I, Intr., A, 2). 2° Nell’età moderna, a
cominciare da Car- tesio, l’espressione assunse prevalentemente il signi-
ficato di «indipendentemente dalla relazione col soggetto conoscente +,
soprattutto nell'espressione Cosa in sè (v.). Analogamente Sartre ha inteso per
« essere in sè » l'essere oggettivo, in quanto esterno e indi- pendente dalla
coscienza; mentre ha chiamato la coscienza essere per sè (L’étre et le néant,
pag. 30, 115 sgg.). In senso più ristretto, N. Hart- IN SÈ mann ha inteso
l’essere in sè dei valori come la loro «indipendenza dall’opinare del soggetto
» (Ethik, 2% ediz., 1935, pag. 149). Un significato, questo, abbastanza
frequente nell’uso filosofico: Bolzano aveva parlato di una «proposizione in sè
», della «rappresentazione in sè» e della «ve- rità in sè » intendendo per « in
sè » in queste espres- sioni il puro significato logico-obiettivo della pro-
posizione, della rappresentazione o della verità, indipendentemente dal loro
esser pensate od espresse (Wissenschaftslehre, 1837, $ 19, 25, 48). INSIEME (ingl.
Ser, Oggaegate; franc. Ensemble; ted. Menge). Georg Cantor il fondatore della
teoria degli insiemi, defini l’I. come + l’aggregazione in un unico tutto di
oggetti definiti e separati della nostra intuizione o del nostro pensiero:
oggetti che sono detti elementi dell’I. » (Beitràge zur Be- grilndung der
Transfinite Mengenlehre, 1895, $ 1). Questa nozione (già implicita nei
precedenti lavori di Cantor, a partire dal 1878) attribuisce agli insiemi le
seguenti caratteristiche: 1° L’I. esiste ogni volta che un molteplice si lascia
pensare come uno cioè ogni volta che un molteplice può essere legato I.
mediante una regola. 2° L’I. è internamente derer- minato, nel senso che, in
virtù della regola che lo costituisce e del principio del terzo escluso, si può
sempre decidere se un oggetto qualsiasi appartiene o no all’insieme stesso. 3°
L’I. è una molteplicità coerente nel senso che gli elementi di esso possono
stare insieme (zusammensein) senza contraddizione. In questo senso la «totalità
di tutti gli oggetti pensabili» non è un I. perché è contraddittoria. 4°
L'esistenza dell’I. è oggertiva cioè indipendente dal pensiero o dal linguaggio
che lo esprime. 4° Come unità, l'I. può sempre costituire l'elemento di un
altro insieme. In base a tali caratteri, Cantor paragonava VI. all’idea di
Platone, che è anch'essa l’unità oggettiva di una molteplicità (v. IpeAa).
Cantor utilizzò la teoria degli I. come fondamento del concetto dell’infinito
attuale (v. INFINITO); e da Cantor in poi essa è stata adoperata per l’assiomatizzazione
della matematica. Mentre i logici in generale non stabiliscono dif- ferenze tra
I. e classe (v.), tranne che per sottoli- neare il carattere astratto della
classe nei confronti del carattere concreto dell’I. (come fa per es. QuINE,
From a Logical Point of View, VI, 3) alcuni indirizzi dell’assiomatica moderna
(von Neumann, Gédel), ritengono che il concetto di I. è più ristretto di quello
di classe, cioè che esistono classi che non sono insiemi. Da questo punto di
vista, mentre gli insiemi sono entità logiche ben determinate, le classi sono
estensioni di predicati, cioè totalità aperte che possono essere continuamente
arricchite me- diante operazioni astrattive effettuate sul mondo INTELLETTO
degli I. (Cfr. BetH, Les fondements logique des mathématiques, 1955, V).
INSOLUBILIA. Con questo nome o con quello di Impossibilia si chiamarono nella
logica medievale a partire dal sec. x1v, quelli che nella logica mega-
rico-stoica erano chiamati ragionamenti ambigui o convertibili e furono anche
chiamati dilemmi (v.) e più tardi antinomie (v.). INSTABILITÀ (ingl.
Instability). Precarietà. Uno dei tratti fondamentali dell’esistenza secondo
alcune correnti contemporanee. Dice, ad es., Dewey: «L’uomo si trova a vivere
in un mondo aleatorio; la sua esistenza implica, per dirlo crudamente, un
azzardo. Il mondo è la scena del rischio: e incerto, instabile, terribilmente
instabile. I suoi pericoli sono irregolari, incostanti, non possono essere
riportati a un tempo ed a una stagione determinata » (Expe- rience and Nature,
cap. 2). INTEGRAZIONE (ingl. Integration; francese Intégration; ted.
Integration). Questo termine ha significati specifici diversi in diverse
branche del sapere. In matematica, è il processo al limite col quale si
determina il valore di una grandezza come somma di parti infinitesimali assunte
in numero sempre crescente. In biologia, significa il grado di unità o di
solidarietà fra le varie parti di un or- ganismo cioè il grado nel quale tali
parti sono di- pendenti l’una dall’altra. Analogamente, in psico- logia
significa il grado di unità o di organizzazione della personalità; e in
sociologia il grado di orga- nizzazione di un gruppo sociale. Spencer nei Primi
Principi (1862) vedeva nell’I. una delle caratteristiche fondamentali
dell’evolu- zione cosmica in quanto passaggio da uno stato indifferenziato,
amorfo e indistinto a uno stato differenziato, formato e unificato (First
Principles, $ 94). INTELLETTIBILE (lat. Intellectibilis). Ciò che non è
sensibile e non ha rapporto con ciò che è sensibile; e in questo è diverso
dall’inze/ligibile (v.) che può somigliare al sensibile o essere appreso in
esso (In Porphirium I, P. L., 64, col. 11). La distin- zione, stabilita da
Boezio, fu ripresa da Ugo di San Vittore. L’I. è il divino o ciò che di divino
c’è nell'uomo, per es., l'anima (Didascalion, II, 3, 4). INTELLETTO (gr. vodc; lat.
Intellectus; inglese Understanding; franc. Intelligence; ted. Verstand). Il termine è stato costantemente usato dai filosofi
in un duplice significato e cioè: 1° in un signifi- cato generico come facoltà
di pensare in genere e 2° in un significato specifico come una particolare
attività o tecnica del pensare. In questo secondo significato il termine è
stato inteso a sua volta in tre modi diversi e cioè: a) come I. intuitivo; b)
come I. operativo; c) come I. comprendente o intelli- genza. 493 1° Platone e
Aristotele definiscono in generale l’I. come facoltà di pensare. Platone
infatti dà il nome di I. all’attività che pensa (Sof., 248 e-249 a) e che
pertanto dà limiti, ordine e misura alle cose (Fil., 30c; Tim., 48 a) e chiama
pensiero (vénoic) l’insieme della scienza e della dianoia cioè le atti- vità
superiori dell'anima in quanto contrapposte alla congettura e alla credenza,
raccolte insieme sotto il nome di opinione (Rep., VII, 534 a). A sua volta
Aristotele dichiara di intendere per I. «ciò per cui l’anima ragiona e
comprende » (De An., INI, 4, 429a 23). Questo significato generico era
d’altronde già stato dato al termine da Parmenide (Fr. 16, Diels) e da
Anassagora (Fr. 12, Diels). Ed è ovvio che tutti coloro che, come Anassagora,
Platone e Aristotele, attribuirono all’I. la fun- zione di ordinatore
dell’universo lo intesero, non come una specifica attività o tecnica, ma nel
si- gnificato più generico di attività pensante cioè capace di scegliere,
coordinare e subordinare. La stessa contrapposizione, così frequente negli an-
tichi e già presente nella sua forma estrema in Parmenide (Fr. 8, Diels) tra
l’I. ed i sensi, im- plica che all’I. si attribuisca il significato generico di
facoltà di pensare. Analogamente la sostanzia- lizzazione che l’I. subisce ad
opera del neoplato- nismo è quella della facoltà di pensare in genere, in tutte
le sue molteplici forme (confronta, per es., PLOTINO, Enn., III, 8, 9-10).
Questo significato generico si è conservato nella tradizione filosofica fino al
Romanticismo. San Tom- maso lo esprimeva contrapponendo l’I. ai sensi, «Il nome
di I., egli diceva, implica una certa co- noscenza intima; infelligere è quasi
un leggere dentro (intus legere). Questo è evidente a chi con- sidera la
differenza tra I°I. e i sensi: la conoscenza sensibile concerne le qualità
sensibili esterne, la conoscenza intellettiva penetra sino all’essenza della
cosa » (.S. 7A., II, 2, q. 8, a. 1). Dall'altro lato lo stesso significato generico
si ha quando il ter- mine è contrapposto a volontà, come accade, per es., in
Locke: «La capacità di pensare è ciò che si chiama I. e la capacità di volere è
ciò che si chiama volontà: due capacità o disposizioni dell’anima alle quali si
da il nome di facoltà» (Saggio, II, 6, 2). Leibniz a sua volta intendeva per I.
«la percezione distinta unita alla facoltà di riflettere, che non c'è
nell’anima delle bestie » (Nouv. Ess., II, 21, 5). Questa nozione fu poi
assunta da Wolff (Psychol. empirica, $ 275). La de- finizione dell’I. come
«facoltà di pensare» è un luogo comune nel *700; e Kant non fa che ripe- terlo.
L’I. è per Kant «la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile »,
(Crit. R. Pura, Logica, Intr., I) o «il potere di conoscere in generale »
(Antr., I, $ 6, 40). 494 Ma improvvisamente, con il Romanticismo, l’I. cessa di
avere il valore di facoltà di conoscere in generale: si scopre la «immobilità »
dell’intel- letto. Questa scoperta viene per la prima volta effettuata da
Fichte. «L’I., egli dice, è I. solo in quanto qualcosa è fissato in esso; e
tutto ciò che è fissato è fissato soltanto nell’intelletto. L’I. si può
definire come l’immaginazione fissata dalla ragione o come la ragione provvista
di oggetti dall’immaginazione. L’I. è una facoltà spirituale in riposo,
inattiva, è il puro ricettacolo di ciò che è stato prodotto dall’immaginazione
ed è stato determinato o è ancora da determinare dalla ra- gione »
(Wissenschaftslehre, 1794, II, Deduzione della rappresentazione, III; trad.
ital., pag. 184). Ma colui che ha fatto prevalere nella filosofia la nozione di
un I. « immobile », « rigido », « astratto » è stato Hegel: « Come I., egli
dice, il pensiero si ferma alla determinazione rigida e alla differenza di essa
verso altre: questo prodotto astratto e limitato vale per l’I. come per sè
stante ed esi- stente » (Enc., $ 80). L’I. è caratterizzato dall’im- mobilità
delle sue determinazioni: esso « determina e tiene ferme le determinazioni »
(Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1 ediz.; trad. ital., pag. 5). Questa
immobilizzazione è una falsificazione, come appare chiaro nel modo in cui l’I.
intende il rapporto tra infinito e finito, dando luogo al « cattivo infinito ».
« La falsificazione che l’I. intraprende con il finito e l’infinito consistente
nel tener ferma come una diversità qualitativa la relazione dell’uno con
l’altro, nell’affermarli nella loro determinazione come separati e precisamente
come separati in maniera assoluta, si fonda sulla dimenticanza di quel che è
per l’I. stesso il concetto di questi momenti » (/bid., I, I, sez. I, cap. 2,
C, c.; tra- duzione ital., I, pag. 157). In tal modo il « fissare », «
l’immobilizzare +, il «tener fermo», il « determi- nare assolutamente »
divengono le operazioni con cui si descrive l’attività dell’I.: al quale viene
contrapposta come attività autentica del pensiero la ragione, che toglie la
fissità e la rigidezza delle determinazioni intellettuali e le fluidifica e
relati- vizza. Questa contrapposizione diventa un luogo comune in buona parte
della filosofia dell’800: l’I. pertanto decade dal suo rango di facoltà di
pensare per assumere quello secondario o subor- dinato di facoltà del pensare
astratto cioè del falso pensare. La persistenza di questo luogo co- mune, privo
di qualsiasi seria giustificazione, si può vedere nel fatto che ai princìpi del
’900 Bergson riproponeva nell’Evoluzione creatrice (1907) la cri- tica dell’I.,
ritenuto, secondo lo schema hege- liano, come la facoltà che ha per oggetto
spe- cifico ciò che è immobile, inerte, rigido e morto e che pertanto è
radicalmente incapace di com- INTELLETTO prendere il movimento e la vita. In
tal modo alla contrapposizione hegeliana I.-ragione veniva sosti- tuita la
contrapposizione I.-vita o I.-coscienza, che ha ispirato e ancora ispira alcune
manifestazioni della filosofia contemporanea. Tuttavia, anche al di fuori di
queste antitesi stereotipate, la nozione dell’I. come facoltà di pensare in
generale non ricorre più nella filosofia contemporanea nella quale essa è stata
piuttosto sostituita dalla nozione di pensiero o ragione (v.). 2° Il
riconoscimento del significato generico di I. è andato talora congiunto e
talora no col rico- scimento di un significato specifico. Si possono
distinguere tre interpretazioni fondamentali della funzione specifica dell’I. e
cioè: a) l’/. intuitivo; b) 1°I. operativo; c) ’I. comprendente o intelligenza.
a) La nozione dell’I. intuitivo fu elaborata da Aristotele. Per Aristotele
l’I., oltre che essere in generale la facoltà « per cui l’anima ragiona e
comprende », è anche una particolare virtù dia- noetica, cioè un abito
razionale specifico. Come tale, è la facoltà di intuire i princìpi delle dimo-
strazioni: princlpi che non possono essere appresi nè dalla scienza, che è
soltanto un abito dimo- strativo nè dall’arte e dalla saggezza che concer- nono
« le cose che possono essere altrimenti », cioè che sono prive di necessità
(Er. Nic., VI, 6, 1140b 31 sgg.). Oltre che tali « definizioni prime », l’I. ha
anche il compito di intuire «i termini ultimi» cioè i fini ai quali dev'essere
subordinata l’azione (/bid., VI, 11, 1143 b). Ed insieme con la scienza, l’I.
costi- tuisce la sapienza « che è insieme scienza e I. delle cose più eccelse
per natura +» (/bid., VI, 7, 1151b 2) e che è perciò la più alta realizzazione
dell’uomo. Questa funzione specifica dell’I., di intuire i princìpi comuni del
ragionamento, fu ammessa da San Tommaso (S. 7%., I, q. 8, a. 1) e da molti
altri scolastici, accanto a quella generica del « pen- sare». Kant a sua volta
esplicitamente distingueva dall’I. nel senso generico un I. come facoltà spe-
cifica che sta accanto al giudizio e alla ragione. «La parola I., egli diceva,
viene intesa anche in un senso più particolare quando viene subordinato, come
membro di una divisione, all’I. inteso in senso più generale cioè alla facoltà
superiore di conoscere costituita da /, giudizio e ragione» (Antr., I, $ 40).
In questo senso specifico, l’I. è la facoltà di giudicare; e il giudizio che
gli com- pete è il giudizio determinante, cioè il giudizio le cui leggi entrano
a costituire l’oggetto naturale in generale (e precisamente la forma di tale
oggetto). Queste leggi sono all’I. « prescritte a priori +, cioè date nel suo
stesso funzionamento (Crif. R. Pura, Analitica dei concetti, sez. I; Critica
del Giudizio, Intr., $ IV). In questo senso specifico, come facoltà di
giudicare, l’I. non è intuitivo nel senso di es- INTELLETTO ATTIVO sere in
rapporto diretto con l’oggetto: esso anzi è in rapporto mediato con l’oggetto
perchè, in quanto giudizio su una rappresentazione è, secondo l’espressione di
Kant, «la rappresentazione di una rappresentazione ». Ma è intuitivo nello
stesso senso in cui è intuitivo l’I. specifico di Aristotele: è in rapporto
immediato con leggi o principi fondamen- tali che entrano a costituire l’organizzazione
della scienza e la struttura dei suoi oggetti. La differenza tra il punto di
vista aristotelico e il punto di vista kantiano si può esprimere nel modo
seguente. Dal punto di vista aristotelico l’I. ha il compito di formulare i
princìpi primi che vengono utilizzati dalla scienza dimostrativa, e di
percepirne l’evi- denza. Dal punto di vista kantiano, l’I. nell’effet- tuare il
suo compito, che è quello di giudicare, mette in opera i princìpi che lo
costituiscono anche senza bisogno di formularli esplicitamente. Queste due
alternative sono le sole che si sono storica- mente presentate
nell’interpretazione dell’I. come facoltà intuitiva specifica. b) La concezione
operativa dell’I. è stata presentata da Bergson, che l’ha innestata sul con-
cetto romantico dell’I. inteso come facoltà del- l’immobile. Da questo punto di
vista, l’I. è «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in partico- lare
utensili per fare utensili, e di variarne indefi- nitamente la fabbricazione »
(Evol. créatr., 1911, 83 ediz., pag. 151). Essa è pertanto la soluzione di un
problema che, su un altra linea evolutiva, ha portato all’istinto: inteso,
quest’ultimo come la facoltà di utilizzare strumenti organizzati. Data la sua
funzione operativa, l’intelligenza tende a co- gliere non le cose, ma i
rapporti fra le cose, perciò non la materia di esse ma la loro forma; ha per
oggetto principale il solido inorganico cioè immo- bile ed è caratterizzata da
una incomprensione na- turale del movimento e della vita (/bid., pag. 179). Questa
analisi di Bergson ha influenzato largamente la filosofia contemporanea, la
quale, nelle sue cor- renti spiritualistiche e idealistiche, ha spesso utiliz-
zato le conclusioni di essa per affermare che «1’I. astratto » è, tutt’al più,
efficace nel dominio della scienza che è conoscenza anch'essa « astratta » ma
che poco o nulla vale nel dominio della conoscenza effettiva, che sarebbe
quella filosofica. Ma anche fuori di queste intenzioni denigratorie che
involgono insieme l’I. e la scienza, la funzione operativa dell’I. cioè la
funzione per cui esso è la capacità di affron- tare con successo le situazioni
biologiche, sociali, ecc., in cui l’uomo viene a trovarsi è rimasta a
caratteriz- zare l’I. stesso; nel quale pertanto difficilmente si può oggi
scorgere un organo puramente teoretico. Il pragmatismo ha contribuito
certamente alla for- mazione di questo punto di vista, che è diventato un luogo
comune della filosofia contemporanea. 495 c) Il terzo significato specifico di
I. è quello per cui esso significa comprensione e per il quale la parola
intelligenza è più appropriata (com'è più appropriato in francese la parola
entendement e in tedesco Verstehen). Questa accezione del ter- mine può a sua
volta essere articolata in due significati. a) Un significato comune e generico
per il quale intendere significa afferrare il significato di un simbolo, la
forza di un argomento, il valore di un’azione, ecc. In tutti questi casi la
parola esprime la possibilità di effettuare correttamente un'operazione
determinata. Per es., l’intelligenza di un segno consiste nella possibilità di
effettuare cor- rettamente, cioè in base all’uso stabilito o alla regola
opportuna, il riferimento del segno al suo referente. L'intelligenza di un
argomento consisterà nella possibilità di effettuare il collegamento tra le sue
parti in modo tale che l’argomento risulti probante, ecc. L'intelligenza, in
questi casi, ha si- gnificati tanto diversi fra loro come sono diversi gli
oggetti o le situazioni cui si fa riferimento. In generale tutto ciò che può
dirsi da questo punto di vista è che l’intelligenza designa una certa capa-
cità di inserirsi nel contesto di tali situazioni e di orientarsi in esso. B)
Un significato più ristretto e specifico per il quale l’intelligenza significa
la comprensione di un certo tipo di oggetti, per es., di un uomo o di una
situazione storica. Per tale significato del termine, v. COMPRENDERE.
INTELLETTO ATTIVO (gr. vods romtiés; lat. Intellectus Agens; ingl. Active
Intellect; francese Intellect Actif; ted. Active Intellekt). Nozione di origine
aristotelica che ha dato luogo ad un pro- blema a lungo dibattuto dai
commentatori antichi di Aristotele, dalla Scolastica araba, dalla Scola- stica
cristiana e dall’Aristotelismo rinascimentale. Il problema nasce dalla distinzione
aristotelica tra I. potenziale e I. attuale. « Come in tutta la na- tura, dice
Aristotele, c'è qualcosa che fa da materia a ciascun genere e qualcosa invece
che è causalità e attività, anche nell'anima devono necessariamente esserci
queste due cose diverse. Difatti da un lato c'è I’I. che ha la potenzialità di
essere tutti gli og- getti, dall’altro c’è l’I. che li produce, il quale ul-
timo si comporta come la luce: anche questa infatti fa passare all’atto i
colori che sono solo in potenza. Questo I. è separato e impassibile e senza
mescolanza, perchè la sua sostanza è l’atto stesso + (De an., III, 5, 430a 10).
Aristotele ag- giunge che soltanto questo I. attuale e attivo è «immortale ed
eterno ». Di qui il problema: ap- partiene tale I. all'anima umana o fa parte,
per la sua incorruttibilità, eternità e attualità perfetta, della stessa
divinità? Tre sono state le soluzioni 496 principali di questo problema, e
precisamente le seguenti: 1° La separazione dell’I. attivo dall’anima umana. È
questa la soluzione difesa nell’antichità dal commentatore di Aristotele,
Alessandro di Afro- disia (sec. m) che identificò l’I. attivo con la causa
prima cioè con Dio; e ritenne proprio dell’anima umana: a) l’I. fisico o
materiale (ilico) che è l’I. po- tenziale, simile all'uomo che è capace di
apprendere un’arte ma non è ancora in possesso di essa; 5) l’I. acquisito
(imiximitéo, adeptus) che è il perfeziona- mento o il compimento del precedente
cioè l’insieme delle abilità proprie nell'uomo educato ed è simile all’artista
che è giunto a possedere la sua arte (De an., I, ed. Bruns., pag. 138-39).
Questa solu- zione, negando all’anima umana il solo I. immor- tale ed eterno
che è quello attivo, da un lato nega l'immortalità dell’anima stessa,
dall’altra accentua la dipendenza dell’attività intellettuale umana dai sensi.
Essa ricorre frequentemente nella storia della filosofia. La riprende infatti
il neoplatonismo arabo con Al Kindi (sec. rx), Al Farabi (sec. rx) e Avi- cenna
(sec. x1): il quale ultimo tuttavia non riteneva questa soluzione contraria
all’immortalità dell’anima giacchè ammetteva che la dipendenza dell’anima
dall’I. attivo e quindi da Dio si conservasse anche dopo la separazione
dell’anima dal corpo e bastasse a dare all’anima l’immortalità (De an., 10).
Ammet- tevano egualmente questa dottrina Avempace (se- colo x) e Mosé Ben
Maimon (sec. x) il più fa- moso dei filosofi giudaici del Medioevo (Guide des
égarés, I, 50-52). L’ammetteva pure Ruggero Bacone (Opus Maius, ed. Bridges,
pag. 143). Nel Rinascimento, la stessa soluzione veniva difesa da Pietro
Pomponazzi: che insisteva sulle condizioni sensibili del funzionamento dell’I.
umano e riteneva impossibile la dimostrazione dell’immortalità (De
Immortalitate animae, 9). 2° La separazione dell’I. attivo e dell’I. pas- sivo
dall’anima umana. Questa fu la soluzione proposta da Averroè. L’I. materiale o
ilico, che i sostenitori della precedente soluzione attribuivano all’uomo,
viene anch’esso ritenuto da Averroè se- parato dall’anima umana. Nell’anima
umana, l’I. materiale non è che una semplice disposizione co- municata dall’I.
attivo; e precisamente una dispo- sizione ad astrarre dalle immagini sensibili
i concetti e le verità universali. All’uomo non rimane per- tanto, che l’I.
acquisito, che Averroè chiama pure speculativo e consiste nella conoscenza
delle verità universali (De an., fol. 165 a). Questa dottrina di- venne tipica
dell’averroismo medievale: fu difesa da Sigieri di Brabante (sec. x11) nello
scritto De anima intellectiva (edito in Mandonnet, Siger de Brabante et
l’averrolsme latin au XIII‘ siècle, II, Lovanio, 1908). Numerpsi seguaci ebbe
questa soluzione nel- INTELLETTUALISMO l’aristotelismo del Rinascimento (cfr.
BRUNO NARDI, Sigierì di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, 1945).
3° L’unità dell’I. attivo e passivo con l’anima umana. Questa tesi fu sostenuta
nel sec. Iv dal com- mentatore di Aristotele, Temistio (De an., 103, 6; trad.
ital., pag. 233) in polemica con Alessandro e più tardi (sec. vi) dall’altro
commentatore Sim- plicio, anch’egli neoplatonico. Essa fu ripresa nel sec. xi,
durante la polemica contro l’averroismo che si svolse nella scolastica latina
di quel tempo. Alberto Magno e S. Tommaso polemizzano contro la separazione
averroistica e alessandristica dell’I. dall’anima umana. Essi ammettono bensì
che c’è al di sopra dell'anima umana l’I. separato di Dio; ma ritengono che
l’uomo partecipa di questo I. e che l’I. attivo fa parte della sua anima come
unaluce che è accesa in questa dall’I. divino (ALBERTO, De intellectu et
intelligibili, II, 1-2; S. Tommaso, S. Th., I,q.79,a. 4). Contro uno scritto di
Sigieri era probabilmente diretto il De unitare intellectus contra Averroistas
di S. Tommaso; al quale è a sua volta una risposta lo scritto De anima
intellectiva di Sigieri. La principale obiezione di S. Tommaso è che, se l’I.
fosse una sostanza separata, non sa- rebbe l’uomo stesso a intendere ma tale
sostanza; al che Sigieri risponde che l’I. agisce nell’uomo, non come un motore
ma operans in operando cioè come principio direttivo della sua attività. Nel
Ri- nascimento, fu soprattutto Marsilio Ficino a di- fendere l’unità dell’I.
con l’anima umana (7heologia platonica, XV, 14). Il problema dell’I. attivo è
specifico dell’aristo- telismo e non ha senso fuori di esso. Pertanto, cessa di
essere dibattuto quando l’aristotelismo cessa di fornire il quadro generale
della filosofia. Già tra la fine del sec. xm e i principi del x1v ci sono
filosofi che esplicitamente negano l’I. attivo ed evitano quindi di proporsi il
problema relativo. Du- rando di S. Pourgain dice che, come non si pone un «
senso attivo », così è inutile porre un I. attivo (In Sent., I, d. 3, q. 5,
26); e Ockham afferma che la funzione di astrarre, per la quale s’invoca l’I.
at- tivo, si svolge naruraliter cioè come un effetto delle nozioni sensibili e
non richiede l’I. attivo, la cui nozione rimane pertanto poggiata solo
sull’autorità di santi e filosofi (Z Senr., II, q. 25). Questo punto di vista è
senz'altro prevalso sin dai princìpi della filosofia moderna, che abbandona completamente
la nozione in esame. INTELLETTUALISMO (ingl. Intellectua- lism; franc.
Intellectualisme; ted. Intellektualismus). Con questo termine Hegel designava
la filosofia di Plotino, interpretando l’estasi come uscita dalla coscienza
sensibile e « puro pensare ». « L'idea della filosofia plotiniana, egli diceva,
è dunque un I. o INTENSIONE E ESTENSIONE un superiore idealismo che certamente
dal lato del concetto non è ancora idealismo perfetto» (Geschichte der
Philosophie, I, sez. III, Plotino; trad. ital., III, pag. 41). Il termine è ora
usato polemicamente dalle filosofie della vita e dell’azione per designare
l’indirizzo ad esse contrario cioè quello per il quale l'intelletto (o il
pensiero o la ragione) ha una funzione dominante nella conoscenza e nella condotta
dell’uomo. Questo termine è stato fre- quentemente usato dall’intuizionismo
bergsoniano, dalla filosofia dell’azione, dal modernismo, dal pragmatismo cioè
da tutte quelle filosofie le quali tendono a svalutare il valore
dell’intelletto come via d'accesso alla verità o come guida della con- dotta e
a ritenere assai più importante l'intuizione, la simpatia, l'istinto, la vita,
la volontà, ecc. Tal- volta il termine è stato contrapposto a vo/onta- rismo
(v.) per indicare la prevalenza attribuita all’in- telletto sulla volontà; ed è
stato in questo senso adoperato anche allo scopo di caratterizzare storica-
mente certi punti di vista. Si è parlato così dell’I. di S. Tommaso e del
volontarismo di Duns Scoto, allu- dendo al diverso peso che hanno, per questi
filosofi, le due attività umane fondamentali. Si tratta tuttavia di significati
e caratterizzazioni poco precisi. INTELLIGIBILE (gr. vontéc; lat. /ntelligi-
bilis; ingl. Intelligible; franc. Intelligible; ted. Intelli- gibel). In
generale, l'oggetto dell’intelletto. Aristo- tele aveva detto « tutti gli enti
sono o sensibili o I. » (De An., III, 8, 431b 21). L'I. è l’oggetto dell’intel-
letto come il sensibile è l'oggetto dei sensi. Questa simmetria viene mantenuta
da tutti i filosofi che am- mettono la distinzione tra sensibilità e
intelletto. Platone chiamò I. la sfera del conoscere che com- prende la dianoia
e la scienza, in quanto distinta dalla sfera dell’opinione che comprende la
conget- tura e la credenza (Rep., VII, 534 a). Per il neo- platonismo, il mondo
I. comprende le tre prime ipostasi, cioè l’Uno, l’Intelletto e l’Anima del
mondo (PLoTINO, Enn., II, 9, 1). Secondo Kant, il mondo I. è quel mondo di cui
l’uomo fa parte come « attività pura » cioè in quanto non è influen- zato dalla
sensibilità ma agisce in base alla spon- taneità della ragione. « Da una parte,
dice Kant, l’uomo, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottomesso alle
leggi della natura; dall’altra parte, come appartenente al mondo I. è
sottomesso a leggi che sono indipendenti dalla natura, quindi non empiriche, ma
fondate unicamente nella ragione» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, IID.
In questo senso il mondo I. è il mondo morale. In senso più specifico, I. si
dice ciò che può essere inteso o compreso, corrispondentemente ai significati
2°, c, di Intelletto (v.). INTENDIMENTO. Lo stesso che Intelli- genza Iv.
INTELLETTO, 2°, c)]. 32 — Annaanano, Dizionario di filosofia. 497 INTENSIONE e
ESTENSIONE (ingl. /n- tension and Extension; franc. Intension et extension; ted.
Sinn und Bedeutung). Questa coppia di termini fu introdotta da Leibniz per
esprimere la distinzione che la Logica di Portoreale aveva espresso con la
coppia comprensione-estensione (v.)e la logica di Stuart Mill esprimerà con la
coppia connotazione-denota- zione (v.). Dice Leibniz: « L'animale comprende più
individui dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più forme; l’uno ha più
esempi, l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più estensione l’altro ha più I.»
(Nouv. Ess., IV, 17, $ 9). L’uso di questi due termini fu adottato da Hamilton:
« L’interna quantità di una nozione, la sua /. o comprensione è costituita dai
differenti attributi di cui il concetto è la somma, cioè dai vari caratteri
connessi dal concetto stesso in un singolo tutto pensato. La quantità esterna
di una nozione o la sua estensione è costituita dal numero di oggetti che sono
pen- sati mediatamente attraverso il concetto » (Lecrures on Logic, 2* ediz.,
1866, I, pag. 142). L’uso di questi due termini prevale anche nella logica con-
temporanea, che li ha riferiti alla distinzione sta- bilita da Frege tra senso
e significato. « Pensando ad un segno, aveva detto Frege, dovremo collegare ad
esso due cose distinte: e cioè non soltanto l’oggetto designato, che si
chiamerà significato di quel segno, ma anche il senso del segno, che denota il
modo in cui quell’oggetto ci viene dato » (4 Ùber Sinn und Bedeutung», 1892, $
1; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag. 218). Ovviamente, l’oggetto è
l’estensione, il senso è l’intensione. La distinzione viene ripetuta o
presupposta da quasi tutta la lo- gica contemporanea. L’I. di un termine è
definita da Lewis come «la congiunzione di tutti gli altri termini ciascuno dei
quali deve essere applicabile a ciò cui il termine è correttamente applicabile
». In tal senso l’I. (o connotazione) è delimitata da ogni corretta defi-
nizione del termine e rappresenta l’intenzione di chi lo usa, perciò il
significato primo di « signifi- cato ». L'estensione, invece, o denotazione di
un termine è la classe delle cose reali alle quali il ter- mine si applica
(Lewis, Analysis of Knowledge and Valuation, 1950, pag. 39-41). Le stesse
determina- zioni sono date da Quine: l’I. è il significato, la estensione è la
classe delle entità alle quali il ter- mine può essere attribuito con verità
(From a Logical Point of View, II, 1). Analogamente sono usati gli aggettivi
inrersionale ed estensionale: quest’ultimo essendo applicato a punti di vista
che prendono in considerazione la denotazione delle proposizioni e prescindono,
per quanto è possibile, dai loro significati intensionali. D'altra parte,
l’aggettivo intensionale, soprattutto applicato al calcolo delle proposizioni o
delle fun- 498 zioni proposizionali (v.) significa che si prende in
considerazione la modalità delle proposizioni da cui invece prescinde la
considerazione estensionale che si limita a prendere in esame le funzioni di
verità delle proposizioni stesse (CARNAP, Logica! Syntax of Language, $ 67;
RUSSELL, Inquiry into Meaning and Truth, 1940, cap. 19) (v. ESTENSIONA- LITÀ, TESI
DELLA). INTENZIONALITÀ (lat. Intentionalitas; in- glese
/ntentionality; franc. Intentionnalité; ted. Inten- tionalitàt). Il riferimento
di un qualsiasi atto umano a un oggetto diverso da sè: per es., di un’idea o
rappresentazione alla cosa pensata o rappresentata, di un atto di volontà o di
amore alla cosa voluta od amata, ecc. La nozione è stata dapprima ado- perata
nei confronti dell’attività pratica: donde il significato, ancor oggi
prevalente, della parola in- tenzione (v.) che designa appunto il riferirsi
della attività pratica al suo oggetto. Il neoplatonismo arabo l’ha per la prima
volta estesa a designare il rapporto tra la conoscenza e il suo oggetto, chia-
mando intenzioni i concetti. Avicenna, nel deter- minare la differenza tra la
logica e le scienze reali, affermò che mentre queste ultime hanno per og- getto
le prime intenzioni (intensiones primo intel- lectae) cioè concetti che si
riferiscono a cose reali, la logica ha per oggetto le seconde intenzioni
(inten- tiones secundo intellectae) cioè concetti che si riferi- scono ad altri
concetti (Mer., I, 2). Alberto Magno riproduceva questa distinzione (In Mer.,
I, 1, 1), che diveniva familiare ai filosofi del sec. xm. S. Tom- maso, a sua
volta, considerava l’intenzione come «la similitudine della cosa pensata »
(Contra Gent., IV, 11): talvolta distinguendola dalla specie intelli- gibile
per la sua indifferenza all’assenza o alla presenza dell’oggetto e per il suo
astrarre dalle condizioni materiali senza le quali quest’ultima non esiste in
natura (/bid., I, 53); talvolta invece identi- ficandola con la stessa specie
intelligibile (S. 77., I, q. 85, a. 1, ad 4°). Ma il concetto di I. non
acquistò un rilievo proprio se non quando tra la fine del sec. xmi e il
principio del sec. xIV si co- minciò a mettere in dubbio la dottrina della
specie (v.) come intermediaria della conoscenza e si cessò di vedere nell’atto
conoscitivo una « similitudine + cioè una copia o immagine della cosa. Durando
di S. Pourgain affermava che l’oggetto stesso, e non la specie, è presente al
senso e all’intelletto (Ir Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10). E Pietro Aureolo
osservava a questo proposito che, se la specie fosse l’og- getto del conoscere,
questo sarebbe non la realtà ma solo l’immagine di essa. Aureolo perciò rite-
neva che l’oggetto della conoscenza fosse la stessa cosa nel suo essere
intenzionale od obiettivo, cioè assunta come termine dell’I. conoscitiva (In
Sent., I, d. 23, a. 2). L’esse intentionale o esse apparens, INTENZIONALITÀ
come anche Aureolo lo chiama, è il manifestarsi della cosa all’I. conoscitiva
della mente (/bid., I, d. 9, a. 1). Questo sembrava ad Ockham ancora un inutile
schermo tra l’intelletto e la cosa (/n Sent., I, d. 27, q. 3 CC). Per Ockham
l’atto conoscitivo è un infentio nel senso che si riferisce direttamente alla
cosa significata. Come intenzione, il concetto non è che un segno che sta in
luogo di una classe di oggetti: uno qualsiasi dei quali può essere so- stituito
al concetto stesso nei giudizi e ragionamenti nei quali ricorre (/bid., I, d.
23, q. 1, D; Quodl., IV, q. 35; Summa Log., I, 12). L'I., come riferimento
all’oggetto, era stata in tal modo ridotta, dalla scolastica medievale, al ri-
ferimento del segno al suo designato; e per molto tempo cessa di essere
utilizzata come nozione au- tonoma. Soltanto nel sec. x1x, Francesco Brentano
riesumava questa nozione per assumerla come ca- ratteristica dei fenomeni
psichici (Psychologie vom empirischen Standpunkt, 1874). Questi si possono
classificare secondo le caratteristiche della loro I., cioè del loro
riferimento all’oggetto: nella rappre- sentazione, l’oggetto è semplicemente
presente, nel giudizio viene affermato o negato, nel sentimento viene amato od
odiato. Tutti e tre questi atti si riferiscono ad un «oggetto immanente» e sono
atti intenzionali; ma la loro I., cioè il loro riferi- mento all’oggetto, è
diverso per ciascuno di essi. Dapprima Brentano ritenne che l’oggetto dell’I.
po- tesse essere indifferentemente reale o irreale; in seguito, nella
X/assification der psychischen Phino- mene (1911) affermò che l’oggetto dell’I.
è sempre reale e che il riferimento ad un oggetto irreale è indiretto cioè
effettuato per il tramite di un soggetto che affermi o neghi l’oggetto stesso.
A_ queste idee di Brentano si ispirava Husserl assumendo la no- zione di I. non
più come contrassegno dei fenomeni psichici intesi come un gruppo di fenomeni
che coesistano insieme con altri fenomeni detti fisici, ma come la definizione
dello stesso rapporto tra il soggetto e l’oggetto della coscienza in generale.
Dice Husserl a questo proposito: «La caratteri- stica delle esperienze vissute
(Erlebnisse) che può essere indicata addirittura come il tema generale della
fenomenologia orientata oggettivamente, è l’intenzionalità. Essa rappresenta
una caratteri- stica essenziale della sfera delle esperienze vissute in quanto
tutte le esperienze hanno, in qualche modo, intenzionalità... L'I. è ciò che
caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di in- dicare la
corrente dell’esperienza vissuta come cor- rente di coscienza e come unità di
coscienza » (Ideen, I, $ 84). In seguito Husserl stesso ha parlato di
«intenzionalità fungente » per la quale l’esperienza vissuta si riferisce non
soltanto al suo oggetto ma anche a se stessa ed è perciò consapevolezza di
INTERESSE sè (v. FUNGENTE). Comunque, nell’ambito della fenomenologia l’I.
veniva assunta come la carat- teristica fondamentale della coscienza; e come
tale essa è rimasta in buona parte della filosofia contemporanea e specialmente
nella fenomeno- logia e nell’esistenzialismo (v. Coscienza). Il con- cetto di
rascendenza (v.), mediante il quale Heidegger ha definito il rapporto tra
l’uomo e il mondo, non è altro che una generalizzazione della intenzionalità.
Dice Heidegger: « Se si considera ogni rapportarsi all’ente come intenzionale,
allora l’I. è possibile solo sul fondamento della trascen- denza; ma, si badi
bene, nè I. e trascendenza si identificano nè questa si fonda in quella» (Vom
Wesen des Grundes, I; trad. ital., pag. 24). INTENZIONE (lat. /ntentio; ingl. Intention;
franc. Intention; ted. Gesinnung). Propriamente, l’in- tenzionalità nel dominio
pratico cioè il riferimento di un’attività pratica (desiderio, aspirazione, vo-
lontà) al suo proprio oggetto. In questo significato l’intenzionalità dell’atto
morale può essere ricono- sciuta da qualsiasi dottrina morale. Tuttavia l’in-
sistenza sul valore dell’I. come condizione della moralità è uno dei tratti
caratteristici dell’etica del fine, in quanto distinta dall’etica del movente
(v. Etica). Nell’etica del movente infatti la mora- lità dell’azione si giudica
sul fondamento della sua efficienza a produrre il benessere, la felicità, ecc.
Nell'’etica del fine, invece, la bontà dell’azione si misura sul fondamento
della direzione che il sog- getto imprime all’azione, che è per l'appunto l’in-
tenzione. San Tommaso giustamente dice a questo proposito che «l’I. è il nome
dell’atto della vo- lontà, essendo presupposto l’ordinamento della ra- gione
che ordina qualche cosa ad un fine +; e che «l’I. appartiene primariamente e
principalmente a ciò che muove verso un fine » per cui essa è pro- priamente
«l’atto della volontà » (S. 7%., II, 1, q. 12, a. 1). In questo senso l’I. è
propria del- l’etica del fine. Pertanto la nozione di essa non si trova
nell’etica aristotelica nella quale l’analisi dell’atto morale è fatta in base
a un'etica del movente; e non si trova in tutte le etiche dello stesso genere,
per es., nell’utilitarismo. Dall’altro lato, soprattutto la morale teologica
tende ad in- sistere sul valore dell’intenzione. Abelardo diceva: « Dio tiene
conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito
ed il va- lore di colui che agisce non consiste nell’azione ma nell’I. » (Scito
te ipsum, 3). La stessa morale kantiana, soprattutto nei suoi aspetti di
predica- zione laica ed edificatoria, insiste fortemente sul valore dell’I.:
l’esaltazione della « buona volontà » con cui s’inizia la Fondazione della
metafisica dei costumi è in realtà un’esaltazione dell’intenzione. E la prima
parte della Critica della Ragion Pratica 499 si conclude anch'essa con
l'esaltazione della «I. veramente morale e consacrata immediatamente alla legge
». Per contro, la differenza tra l’etica dell’I. e l’etica oggettiva è stata
ben espressa da Max Weber: « Nella sfera della condotta personale vi sono
problemi etici specifici che l’etica non può risolvere sulla base dei suoi
propri presupposti. C’è anzitutto la fondamentale questione: a) se l’intrinseco
valore della condotta etica — la ‘ pura volontà * o ‘1’I.* come si suole chiamarla
— basti alla sua giustificazione secondo la massima cri- stiana: “il cristiano
agisce bene e lascia a Dio le conseguenze della sua azione” o 5) se la re-
sponsabilità delle conseguenze prevedibili dell’azione dev'essere presa in
considerazione. Ogni atteggia- mento politicamente rivoluzionario e
specialmente il sindacalismo rivoluzionario, hanno il loro punto di partenza
nel primo postulato; ogni politica rea- listica nel secondo. Entrambi invocano
massime etiche. Ma queste massime sono tra loro in eterno conflitto, un
conflitto che non può essere risolto per mezzo della sola etica + (« Der Sinn
der Wert- freiheit der soziologischen und 6konomischen Wis- senschaften »,
1917; trad. ingl., in The Methodology of the Social Sciences, pag. 16). L’etica
moderna e contemporanea, in quanto è prevalentemente un’etica del movente (v.
Erica) dà la prevalenza a quello che Weber ha chiamato il secondo postu- lato.
Dall'altro lato lo scetticismo assai diffuso nella filosofia contemporanea
circa la possibilità di conoscere, con sufficiente probabilità, ciò che ac-
cade nell’intimo della coscienza individuale, ha con- dotto la psicologia del
comportamento a conside- rare l’I. come l'operazione (o la parte di una
operazione) che costituisce l’esecuzione di un piano o progetto di condotta. In
questo caso la frase «Ho l’I. di vedere Giacomo significa semplicemente che
sono impegnato nella esecuzione di un piano di cui è parte l’incontro con
Giacomo (MILLER, GALANTER, PRIBRAM, Plans and the Structure of Behavior, 1960,
pag. 61). INTERAZIONE. TRANSAZIONE. INTERESSANTE (ingl. Interesting; franc. In-
téressant; ted. Interessant). Kierkegaard ha sotto- lineato l’importanza di
questo concetto, considerato da lui come « una categoria limite ai confini del-
l’estetica e dell’etica e perciò come la categoria del punto critico ». Socrate
fu, per es., il più I. degli uomini che siano vissuti e la sua vita la più I.
delle vite vissute. Ma quella esistenza gli fu asse- gnata dalla divinità e
nella misura in cui dovette conquistarla da sè, dovette conoscere pene e dolori
(Furcht und Zittern, in Werke, III, 131). INTERESSE (ingl. Interest; franc.
Intérét; te- desco Interesse). La partecipazione personale ad V. AZIONE
RECIPROCA; 500 una situazione qualsiasi e la dipendenza che ne deriva per la
persona interessata. Si tratta di un concetto moderno, che Kant utilizza nel
dominio dell’estetica, allo scopo di affermare il carattere « disinteressato »
del piacere estetico. Dice Kant: « È detto I. il piacere che noi congiungiamo
con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha
sempre relazione con la facoltà di desiderare o in quanto causa determi- nante
di esso o in quanto necessariamente atti- nente a tale causa. Ma quando si
tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere se a noi o a
chiunque altro importi o possa importare la sua esistenza, ma solo come la
giudichiamo con- templandola » (Crit. del Giud., $ 2). Hegel a sua volta
definendo l’I. come « il momento dell’indivi- dualità soggettiva e della sua attività
» intendeva con esso la presenza del soggetto all’azione (Enc., $ 475). La
nozione di I. è stata soprattutto utiliz- zata nel dominio della pedagogia.
L’I. è qui la partecipazione dell’educando al sapere, per la quale il sapere
appare all’educando stesso come utile. Era stata questa una delle regole
proposte per l’educazione nell’Emilio di Rousseau. Ma è stato Herbart a
utilizzare sistematicamente la nozione di 1., indicando come fine
dell’educazione la plurila- teralità degli interessi. Secondo Herbart, 1’I. sta
in mezzo tra l’essere spettatore dei fatti e l’inter- venirvi; è, in altri
termini, una partecipazione non ancora totalmente attiva o impegnata. L’I. poi
si distingue dal desiderio in quanto, mentre l’oggetto di quest’ultimo non
esiste ancora, l’oggetto dell’I. è già presente e reale (A//gemeine Pidagogik,
1873, lI, 1, 2, $ 3). Fra i pedagogisti contemporanei Dewey ha insistito sul
valore dell’I., definendolo come «l'accompagnamento dell’identificazione, at-
traverso l’azione, dell'io con qualche oggetto o idea, per via della necessità
di tale oggetto od idea per il mantenimento dell’autoespressione » (Educa-
tional Essays, ed. by J. J. Findlay, pag. 89). Da questo punto di vista, lo
sforzo, che si suole tal- volta, in pedagogia, contrapporre all’I., implica una
separazione tra l’io e l'oggetto che deve essere appreso o padroneggiato. I
caratteri dell’I. sono, secondo Dewey, l’attività, la proiettività e la pro-
pulsività. Per il primo, l’I. è dinamico cioè spinge all’azione. Per il secondo,
l’I. ha il proprio fine fuori di sè, in qualche oggetto o scopo al quale esso
si attacca. Per il terzo, l’I. significa una rea- lizzazione interna o un
sentimento di valore (/bid., pag. 90-91). Questa concezione dell’I., che è uno
dei punti focali della pedagogia di Dewey, ha fortemente influenzato la teoria
e la pratica del- l'educazione in tutti i paesi dell'Occidente. INTERFENOMENO
(ingl. Interphenomenon). Termine creato da H. Reichenbach per indicare gli
INTERFENOMENO eventi subatomici non osservabili cioè non imme- diatamente
inferibili dall’osservazione: per es., il movimento di un elettrone o di un
raggio lumi- noso dalla sorgente sino all’incontro con un'altra materia. «
Eventi di questa specie vengono intro- dotti attraverso catene di inferenze di
tipo molto più complicato. Essi sono costruiti sotto forma di un’interpolazione
entro il mondo dei fenomeni, e la distinzione tra fenomeni e I. è l’analogo,
nella meccanica quantistica, della distinzione tra cose osservate e quelle non
osservate» (Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, I, 6). INTERIORITÀ.
V. ESTERIORITÀ. INTERMUNDI (gr. peraxsopia; lat. Inter mundia). Gli spazi fra i
mondi, nei quali, secondo Epicuro, abitano gli Dei (Diog. L., X, 89; Cice-
RONE, De Div., II, 17, 40; De nat. deor., 16-19). INTERPRETANTE, INTERPRETE
(in- glese Interpretant, Interpreter). Nella semiotica con- temporanea, i due
termini significano rispettiva- mente: la disposizione a rispondere a un segno
e colui (in generale l’organismo) che adopera il segno o si esprime con esso
(Morris, Foundations of a Theory of Signs, $ 3) (v. SEMIOTICA). INTERPRETAZIONE
(gr. tpunvela; lat. Zn- terpretatio; ingl. Interpretation; franc.
Interprétation; ted. Interpretation, Auslegung). In generale, la pos- sibilità
di riferire un segno al suo designato; o anche l’operazione con cui un soggetto
(interprete) riferisce un segno al suo oggetto (designato). Ari- stotele chiamò
I. il libro in cui studiava il rap- porto dei segni linguistici con i pensieri
e dei pensieri con le cose. Egli infatti considerava le parole come «segni
delle affezioni dell'anima che sono le medesime per tutti e costituiscono le
im- magini di oggetti che sono identici per tutti» e considerava inoltre come
soggetto attivo di questo riferimento l’anima o l’intelletto (De Interpr., 1,
16 a, 1 sgg.). Boezio, per il tramite del quale la dottrina è passata nella
Scolastica latina, intendeva per I. «qualsiasi voce che significa qualcosa di
per se stessa » includendo perciò fra le I. i nomi, i verbi e le proposizioni
ed escludendone le congiun- zioni, le preposizioni e in generale i termini del
discorso che non significano nulla di per se stessi. Il riferimento del segno
al suo designato era perciò, per lui, l’essenziale dell’interpretazione. (In
librum de interpr. editio prima, I, in P.L., 64, col. 295). In questa
concezione, l’I. è il riferimento dei segni verbali ai concetti (le « affezioni
della mente +) e dei concetti alle cose. Le caratteristiche della dot- trina
possono essere così fissate: 1° l’I. è un evento che accade «nell'anima» cioè
un evento men- tale; 2° il segno verbale o scritto è diverso dall’af- fezione
della mente o concetto e si riferisce a INTROIEZIONE questo; 3° il rapporto tra
il segno verbale e il concetto è arbitrario e convenzionale mentre il rapporto
tra il concetto e l’oggetto è universale e necessario. Questi capisaldi sono
rimasti per lungo tempo immutati. Nonostante gli sviluppi che la teoria dei
segni ha ricevuto dalla logica stoica, medievale e moderna, la dottrina dell’I.
ha continuato a con- siderare per molto tempo il processo interpretativo come
proprio dell’anima o della mente cioè come un processo mentale. Solo nella
filosofia contem- poranea si è prospettata un’altra alternativa, secondo la
quale esso è un abito o comportamento. Per quanto non manchi anche oggi chi
consideri l’I. un processo mentale (C. K. OpGEN-I. A. RICHARDS, The Meaning of
Meaning, 1952 [1 ediz., 1923], pag. 57; Ducasse, in Journal of Symbolic Logic,
1939, n. 4), la semiotica americana ha presentato l’altra dottrina fondamentale
dell’I. che è quella comportamentistica. I presupposti di questa dot- trina si
trovano nell’opera di Carlo Peirce, che intese l’I. come un processo triadico,
intercedente fra un segno, il suo oggetto, il suo interpretante, intendendosi
per quest’ultimo il rapporto tra il primo e il secondo termine (Coll. Pap.,
5.484). Per quanto in Peirce rimangono ancora molti pre- supposti della vecchia
dottrina, egli intese l’I., non come un atto semplicemente mentale, ma come un
abito d’azione cioè come la risposta abituale e costante che l'interprete del
segno dà al segno stesso (/bid., 5.475 sgg.). Questo è il punto di vista che
Carlo Morris ha fatto prevalere nella semiotica contemporanea (Foundations of a
Theory of Signs, 1938; Signs, Language and Behavior, 1946). Da questo punto di
vista l’I. ha i seguenti caratteri: 1° non è (o non è soltanto) un abito
mentale ma un comportamento (v.) cioè la risposta oggettivamente osservabile e
costante di un orga- nismo ad uno stimolo; 2° non esiste differenza tra segni mentali
e segni verbali, nel senso che i primi siano suscettibili di un’I. necessaria e
gli altri no; 3° il riferimento dei segni ai loro oggetti non è nè necessario
nè arbitrario, ma è determinato dall’uso (nei linguaggi comuni) o da
convenzioni opportune (nei linguaggi speciali). Le notazioni precedenti
concernono la teoria dell’I. nella semiotica (v.). Bisogna però osservare che
la parola ha, nel linguaggio scientifico e filo- sofico odierno, usi specifici
diversi, che solo in- direttamente si possono riportare a quello chiarito. Si
parla di I. nella scienza quando si fa corri- spondere a un sistema assiomatico
un determinato modello (v. ASsioMaATIZZAZIONE, MODELLO): cioè un esempio
concreto o un insieme di entità che soddisfi le condizioni enunciate dal sistema
assio- matico. In questo senso la geometria ordinaria può 501 essere l’I. di un
certo sistema assiomatico, per es., dell’assiomatica di Hilbert. Un altro uso
del ter- mine è quello che si fa nelle discipline storiche, quando si parla
dell’I. di un certo evento o com- plesso di eventi o di un periodo. In questo
caso ’I. è un aspetto della scelta storiografica; e con- siste nella scelta
delle caratteristiche storiche che si assumono come dominanti e centrali,
rispetto alle quali le altre vengono a situarsi in un rango subordinato e
secondario. In questo senso si parla, per es., di I. materialistica della
storia, quando si assumono come primari e fondamentali gli aspetti materiali (o
economici) della storia stessa (v. StoRrIOGRAFIA). L’I. può avere altri sensi
specifici in altri campi di ricerca e può avere anche quello di spiegazione
(come quando si parla, per es., dell’I. di un fenomeno fisico o, come faceva
Ba- cone Nov. Org., I, 26) della natura in generale. Indipendentemente da tutti
i significati richiamati, Heidegger l’ha definita come lo sviluppo e la
realizzazione effettiva della comprensione: « L’I. non è la presa di cognizione
del compreso, ma l’ela- borazione delle possibilità progettate nella com-
prensione » (Sein und Zeit, $ 32). Questo concetto non è utilizzabile per
l’analisi dell'uso del termine nei vari campi. INTERROGAZIONE MULTIPLA (gr. 16
tà melo tpotiuata Ev rotetv; modvtanthote; lat. Plurium interrogationum
fallacia; ted. Hetero- zetesis). Una delle fallacie extra dictionem enume- rate
da Aristotele e precisamente quella che consiste nella riduzione di parecchie
domande a una sola, giocando così sull’unicità della risposta che l’av-
versario è tentato di dare (ARIST., EI. .Sof., 30, 181 a 30; Pretro Ispano,
Sumun. Logicales, 7.62- 7.64; JunGIus, Logica Hamburgensis, VI, 12, 16;
GENOVESI, Ars Logico-critica, V, 11, 12; ecc.) (v. FALLACIA). INTERSOGGETTIVO
(ingl. /ntersubjective; franc. Intersubjectif; ted. Intersubjektiv). Termine
usato nella filosofia contemporanea per designare: 1° ciò che concerne i
rapporti tra i vari soggetti umani, come quando si dice « esperienza I. +; 2°
ciò che è valido per un soggetto qualsiasi, come quando si dice «concetto I.+ o
«verifica I.» (v. UNIVER- SALE, 2). INTIMISMO (franc. Intimisme).
L'atteggiamento che consiste nel concentrarsi sulle proprie vicende interiori.
Si dice soprattutto di poeti e letterati, e in senso leggermente dispregiativo
di filosofie che intendono la filosofia come una specie di auto- biografia
mascherata (v. EGOCENTRISMO; EGOTISMO). INTRINSECO. V. EstRINSECO. INTROIEZIONE
(ingl. /ntrojection; ted. In- trojektion). Termine introdotto da Riccardo Ave-
narius (Kritik der reinen Erfahrung, 1888-90) per 502 designare il processo col
quale, falsificando l’espe- rienza, si riduce l’oggetto a una rappresentazione
interna dell’io e si ammette che anche gli altri individui hanno una simile
rappresentazione interna. Tale processo, che è una interiorizzazione dell’og-
getto, dà origine alla divisione ingannevole tra esperienza interna ed
esperienza esterna, mentre l’esperienza, secondo Avenarius, è una sola ed è
sempre un rapporto diretto tra un oggetto e un organismo. INTROSPEZIONE (ingl.
Introspection; fran- cese /ntrospection; ted. Introspektion). L’auto-osser-
vazione interiore cioè l'osservazione che l’io fa dei propri stati interni. Il
termine fu messo in uso dalla psicologia dell’800, che indicò con esso il
metodo psicologico fondamentale, ritenuto insosti- tuibile sino all'avvento del
comportamentismo (v.). Comte aveva elevato contro l’I. un’obiezione di
principio: « L’individuo pensante, aveva detto, non può dividersi in due, di
cui l’uno ragioni, mentre l’altro lo guardi ragionare. L’organo osservato e
l’organo osservatore essendo in questo caso iden- tici, come potrebbe
l'osservazione aver luogo?» (Cours de phil. positive, 1830, I, Sez. I, $ 8).
Comte aveva concluso perciò all’impossibilità della psicologia e l’aveva
espunta dalla sua enciclopedia delle scienze. Nel 1868, Peirce rispondeva
negati- vamente alla questione «se abbiamo una facoltà di I.» e concludeva che
«il solo modo di investi- gare una questione psicologica è l’inferenza dai
fatti esterni» (Coll. Pap., 5.244-249; 7.418 sgg.). Questa conclusione di
Peirce è il primo accenno dell’avviarsi dell'indagine psicologica verso il com-
portamentismo (v.). INTUIZIONE (gr. emo; lat. Insuitus, In- tuitio; ingl.
Intuition; franc. Intuition; ted. An- schauung). Il rapporto diretto (cioè
privo di in- termediari) con un oggetto qualsiasi: rapporto che perciò implica
la presenza effettiva dell’oggetto. Così l’intuito è stato costantemente inteso
nella storia della filosofia, a cominciare da Plotino che usa il termine per
designare la conoscenza imme- diata e totale che l’Intelletto divino ha di sè e
dei suoi propri oggetti (Enn., IV, 4, 1; IV, 4, 2). In questo senso l’I. è una
forma di conoscenza superiore e privilegiata; giacchè ad essa, come alla
visione sensibile su cui si modella, l’oggetto è immediatamente presente.
Boezio parlava dell’ in- tuito divino » che è il colpo d’occhio con cui Dio abbraccia
le cose senza mutarle (Phil. Cons., V, 6). E S. Tommaso diceva riferendosi a
Dio: «Il suo intuito verte su tutte le cose in quanto sono da- vanti a lui
nella loro presenzialità» (S. 7A., I, q. 14, a. 13; cfr. q. 14, a. 9). La
conoscenza di- vina si distingue per questo suo carattere dalla conoscenza
umana, che procede componendo e INTROSPEZIONE dividendo cioè mediante atti
successivi di afferma- zione e negazione (/bid., I, q. 85, a. 5). Il carattere
intuitivo della conoscenza divina si contrappone qui al carattere discorsivo
della conoscenza umana (v. DIANOIA; DISCORSIVO). Ma già la filosofia medievale
adoperò il termine per indicare una forma particolare e privilegiata della
stessa conoscenza umana e in primo luogo la conoscenza empirica. Ruggero Bacone
diceva che «l’anima non s’acqueta nell’inzuito della verità se non la trova per
via dell'esperienza» (Opus Maius, VI, 1). Duns Scoto privilegiava come co-
noscenza intuitiva (cognitio intuitiva) quella che « si riferisce a ciò che
esiste o a ciò che è presente in una certa esistenza attuale +, distinguendola
dalla conoscenza astrattiva (v. ASTRATTIVA) che astrae dall’esistenza attuale
(Op. Ox., II, d. 3, q. 9, n. 6). Questa nozione veniva accettata da Durando di
S. Pourgain (In Sent., Prol., q. 3 F) e da Ockham che, come Bacone,
identificava la conoscenza in- tuitiva con l’esperienza (/n Sent., Prol., q. 1
Z). Da questo momento in poi, e fino a Kant, il signi- ficato specifico del
termine è per l'appunto quello di esperienza (v.). Ma nello stesso tempo il
termine conserva il suo significato generico di rapporto immediato con un
oggetto qualsiasi. In tal senso Cartesio parlava dell’intuito evidente (evidens
intuitus) come di una delle due vie che conducono alla conoscenza certa
(l’altra è la « deduzione necessaria +): intendendo per esso l’apprensione
immediata di un qualsiasi oggetto mentale. « L’intuito della mente, egli
diceva, si estende sia alle cose, sia alla conoscenza delle loro reciproche
connessioni necessarie, sia infine a tutto ciò che l’intelletto sperimenta con
precisione in se stesso o nell’immaginazione » (Regulae ad directionem ingenii,
12). Nello stesso senso, Locke chiamava intuitiva la conoscenza che percepisce
la concordanza o la discordanza tra due idee imme- diatamente, cioè senza l’intervento
di altre idee (Saggio, IV, 2, 1); e chiamava I., proprio per la sua
immediatezza, la conoscenza che abbiamo della nostra propria esistenza (Ibid.,
IV, 9, 3). Ancora nel medesimo senso Leibniz diceva che si conoscono per I. le
«verità primitive» sia di ragione sia di fatto (Nouv. Ess., IV, 2, 1), cioè le
verità che l’intelletto apprende o possiede senza la mediazione di altre.
Questo significato veniva accettato da Stuart Mill: «Le verità, egli diceva, ci
sono conosciute in due modi: alcune sono co- nosciute direttamente o di per se
stesse; altre attraverso la mediazione di altre verità. Le prime sono oggetto
dell’I. o coscienza; le seconde del- l’inferenza » (Logic, Intr., $ 4). Kant a
sua volta si riferiva al senso tradizionale del termine affer- mando che «l’I.
è la rappresentazione quale sa- INTULZIONE rebbe per la sua dipendenza
dall’immediata pre- senza dell’oggetto » (Pro/., $ 8). L’I. è perciò in
generale per Kant la conoscenza alla quale l’og- getto stesso è direttamente
presente. Ma Kant distingue una I. sensibile e una I. intellettuale. L’I.
sensibile è quella di ogni essere pensante finito, a cui l’oggetto è dato: essa
è perciò pas- sività, affezione (Crit. R. Pura, Anal. dei concetti, sez. I).
L’I. intellettuale è invece originaria e crea- tiva; è quella per la quale
l’oggetto stesso è posto o creato ed è perciò propria soltanto dell’Essere
creatore, di Dio (/bid., $ 8, in fine; passim). L’I. intellettuale, è, in altri
termini, l’intuito divino della filosofia tradizionale: la presenza dell’oggetto
a questo intuito è inevitabile e necessaria perchè l’oggetto è creato
dall’intuito stesso. Questa distinzione kantiana fu conservata dal
Romanticismo, ma solo allo scopo di rivendicare per l’uomo II. intellettuale o
creativa che Kant e gli antichi riservavano a Dio. E la cosa s'intende:
giacchè, per i Romantici, la conoscenza umana è la stessa conoscenza con cui lo
Spirito assoluto o creatore conosce se stesso, o è almeno un aspetto o un
momento di essa. Così Fichte intende per I. intellettuale «la coscienza
immediata che io opero e di ciò che io opero e che è ciò per cui l’Io sa in
quanto fa» (Werke, I, pag. 463). A sua volta Schelling afferma che «la
filosofia trascendentale dev'essere costantemente accompagnata dall’I. in-
tellettuale » e che l’io stesso è « una continua I. in- tellettuale » in quanto
« produce se stesso ». « Come senza l’I. dello spazio, egli aggiunge, sarebbe
asso- lutamente incomprensibile la geometria, perchè tutte le sue costruzioni
non sono che forme e maniere svariate per limitare quell’I., così pure senza
l’I. intellettuale sarebbe impossibile la filosofia perchè tutti i suoi
concetti non sono che limitazioni di- verse del produrre che ha per oggetto se
stesso cioè dell’I. intellettuale » (System der transzenden- talen Idealismus,
sez. I, cap. I; trad. ital., pag. 39). Hegel a sua volta identificava I. e
pensiero. «Il puro intuire, egli diceva, è il medesimo del puro pensare... Fede
e I. debbono essere prese in senso più alto, come fede in Dio, come I.
intellettuale di Dio: vale a dire si deve astrarre proprio da ciò che forma la
differenza dell’I. e della fede dal pen- siero. Non si può dire che fede e I.
trasportate in questa più alta regione siano ancora diverse dal pensiero »
(Enc., $ 63). La stessa tesi è sostenuta da Schopenhauer che identifica
intelletto e I. e pre- tende che anche le connessioni logiche siano ridotte ad
elementi intuitivi (Die Welt, I, $ 15). Allo stesso ceppo di concetti
appartiene la nozione di un’I. come ricorre in Rosmini, quale apprensione immediata
dell’idea dell’essere in generale (Nuovo saggio, $ 1159; Antropologia, $ 40,
505; Psicologia, 503 $ 13). E sebbene Gioberti polemizzasse con Ro- smini circa
il carattere indeterminato e vuoto dell’idea dell’essere, accettava tuttavia la
nozione di intuito come rapporto immediato, totale e nc- cessario della mente
umana con Dio e con la sua azione creatrice (/ntr. allo studio della fil., II,
pag. 46). Questa era ancora e sempre una « I. in- tellettuale ». Ma è un'I.
intellettuale anche l’I. di cui parla Bergson per quanto carica di polemica
anti-intellettualistica o anti-razionalistica. Essa in- fatti, come organo
proprio della filosofia, possiede i caratteri della romantica I. intellettuale:
un rap- porto immediato o diretto con la realtà assoluta, cioè con la durata
della coscienza o con lo slancio creativo della vita. L’I., dice Bergson, « è
la visione dello spirito da parte dello spirito ». «I. significa dapprima
coscienza ma coscienza immediata, vi- sione che si distingue appena
dall’oggetto visto, conoscenza che è contatto e perfino coincidenza » (La
pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 35-36). Gli stessi caratteri formali
possiede l’I. eidetica o I. delle essenze di cui parla Husserl: «L'essenza è un
oggetto di nuova specie, egli dice. Come il dato dell’I. individuale empirica è
un oggetto in- dividuale, così il dato dell’I. eidetica è un’essenza pura. Non
si tratta di un’analogia esterna, bensì di una radicale affinità. Anche l’I.
eidetica è un’I. come l’oggetto eidetico è un oggetto. La genera- lizzazione
dei concetti correlativi ‘ I.’ e ‘oggetto ’ non è arbitraria ma richiesta
necessariamente dalla natura delle cose» (/deen, I, $ 3). Infine, l’I. che
Croce identifica con l’arte ha gli stessi caratteri formali: è conoscenza
originaria e immediata che perciò non distingue tra reale e irreale; ha
carattere o fisionomia individuale ed esprime direttamente l’oggetto (Estetica,
cap. 1). Ricapitolando i caratteri comuni e quelli diffe- renziali che I’I. ha
rivestito nella storia della filo- sofia, si possono fissare i primi nel modo
seguente. L’I. è un rapporto con l’oggetto caratterizzato: 1° dalla
immediatezza del rapporto stesso; 2° dalla presenza effettiva dell’oggetto.
Costantemente, in base a questi caratteri, l’I. è considerata come una forma di
conoscenza privilegiata. D’altra parte, i suoi caratteri differenziali possono
essere distinti così: 1° l’I. può essere riservata a Dio e consi- derata come
la conoscenza che il creatore ha delle cose create; 2° può essere attribuita
all'uomo e considerata come l’esperienza in quanto conoscenza immediata di un
oggetto presente e in questo senso non è che percezione (v.); 3° può essere
attribuita all'uomo e considerata una conoscenza originaria e creativa nel
senso romantico. Tutte e tre queste alternative hanno perduto buona parte del
loro interesse nella filosofia contemporanea. La prima infatti appartiene alla
sfera delle specula- 504 zioni teologiche. La seconda tende ad essere sosti-
tuita dal concetto dell’esperienza come metodo o come insieme di metodi (v.
EspeRrIENZA). La terza è strettamente legata alla metafisica del Ro- manticismo
(vecchio e nuovo) e sta e cade con esso. Nel 1868 Peirce sottoponeva a critica
il concetto di I., negando: 1° che essa potesse servire a garan- tire il
riferimento immediato di una conoscenza al suo oggetto; 2° che essa potesse
costituire la co- noscenza evidente che l’Io ha di se stesso; 3° che potesse
rendere capaci di distinguere gli elementi soggettivi di conoscenze differenti.
Nello Stesso tempo, Peirce affermava l'impossibilità di pensare senza segni e
di conoscere senza ricorrere al le- game reciproco delle conoscenze medesime
(Coll. Pap., 5.213-263). Queste negazioni e affermazioni di Peirce sono state e
sono largamente accettate dalla filosofia contemporanea. All’I. oggi fanno
appello, più che i filosofi, gli scienziati e in particolare i matematici o i
logici quando vogliono sottolineare il carattere inventivo della loro scienza.
Diceva Claude Bernard: «L’I. o sentimento genera l’idea o l'ipotesi
sperimentale cioè l’interpretazione anticipata dei fenomeni della natura. Tutta
l’iniziativa sperimentale è nell’idea giacchè essa sola provoca l’esperienza.
La ragione o il ragionamento servono solo a dedurre le con- seguenze di questa
idea e a sottoporle all’espe- rienza » (Zntr. d l’étude de la médecine
expérimentale, 1865, I, 2, $ 2). Poincaré ripeteva, con riferimento alle
matematiche, ciò che Bernard aveva detto a proposito delle scienze
sperimentali: « Con la lo- gica si dimostra, ma solo con l’I. si inventa... La
facoltà che ci insegna a vedere è l'intuizione. Senza di essa, il geometra
sarebbe come uno scrittore forte in grammatica ma privo di idee » (Science et
méthode, 1909, pag. 137). Nelle matematiche l’esi- genza logica porta secondo
Poincaré all’imposta- zione analitica, quella intuitiva all'impostazione
geometrica. « Così, la logica e l’I. hanno ciascuna il suo compito. Entrambe
sono indispensabili. La logica, che sola può dare la certezza, è lo stru- mento
della dimostrazione: l’I. è lo strumento dell’invenzione » (La valeur de la
science, 1905, pag. 29). In questo senso, come è stato talora osservato, l’I.
ha più un carattere negativo che positivo: essa anticipa ciò che mon risulta
dall’os- servazione empirica o non può essere dedotto dalle conoscenze già possedute.
Non sembra designare, pertanto, che un certo grado di libertà del ricer- catore
e non ha niente a che fare con il significato filosofico tradizionale del
termine. Ad esso invece si riconduce l’uso che fanno del termine i mate- matici
intuizionisti (v. INTUIZIONISMO, 49). INTUIZIONE DEL MONDO (ted. Weltan-
schauung). Sulla filosofia come «I.» o « visione del INTUIZIONE DEL MONDO mondo
», v. FiLosoria. K. Jaspers ha scritto una Psicologia delle visioni del mondo,
distinguendo l’immagine spazio-sensoriale del mondo, quella psichico culturale
e quella metafisica (Psychologie der Weltanschauungen, 1925; trad. ital., Roma,
1950). INTUIZIONISMO (ingl. Intuitionism; francese Intuitionnisme; ted.
Intuitionismus). Con questo ter- mine vengono indicati atteggiamenti filosofici
o scientifici diversi che hanno in comune il ricorso all’intuizione nel senso
più generale del termine. In particolare, vanno sotto il nome di I. i seguenti
indirizzi: 1° la filosofia scozzese del senso comune in quanto ammette che la
filosofia si fonda su certe verità primitive e indubitabili, conosciute per in-
tuizione (v. SENSO COMUNE); 2° la dottrina di Bergson secondo la quale
l’intuizione è l’organo proprio della filosofia; 3° la dottrina di N. Hartmann
e di Scheler secondo la quale i valori sono oggetto di un’in- tuizione che
s’identifica col sentimento (v. VALORE); 4° l’indirizzo matematico fondato da
L. E. J. Brouwer e che si ispira alle idee di Leopoldo Kronecker (1923-91): il
quale riteneva dato all’in- tuizione umana il concetto di numero naturale
asserendo che i numeri naturali li ha fatti Dio e gli altri li ha fatti l’uomo.
Le tesi tipiche dell'I. di Brouwer sono le seguenti: 1° l’esistenza degli og-
getti matematici è definita dalla possibilità di co- struzione degli oggetti stessi:
perciò « esistono + solo enti matematici che si possono costruire; 2° il
principio del terzo escluso non è valido rispetto a proposizioni in cui ricorre
il riferimento a gran- dezze infinite; 3° le definizioni impredicative non sono
valide. Il rigetto del principio del terzo escluso implica il rigetto della
doppia negazione quindi del metodo della prova indiretta. Questo metodo è
invece a fondamento dell’indirizzo for- malistico della matematica, patrocinato
da Hilbert; e in conformità di esso basta a stabilire l’esistenza di un’entità
matematica la dimostrazione che essa non implica contraddizione (cfr. A.
HerTING, Ma- thematische Grundlagenforschung, Intuitionismus und Beweistheorie,
Berlin, 1934). INVARIANTE (ingl. Invariant; franc. Inva- riant; ted.
Invariante). Una proprietà costante: più in particolare, nella teoria dei
gruppi, una proprietà che rimane la stessa sotto un gruppo di trasformazioni
(v. GRUPPO; TRASFORMAZIONE). INVENZIONE (ingl. Invention; franc. Inven- tion;
ted. Erfindung). «Inventare qualcosa, disse Kant, è del tutto diverso dallo
scoprire. La cosa che si scopre, si ammette come già preesistente, solo che non
era ancora conosciuta, come l’Ame- rica prima di Colombo; quella invece che si
in- venta, come la polvere da sparo non esisteva affatto prima di colui che la
inventò» (Antr., I, $ 57). La capacità inventiva si chiama, tradizional- mente,
genio (v.). I problemi relativi all’I. assu- mono aspetti diversi nei vari
campi. Nella logica sono stati talora dibattuti a proposito della ro- pica (v.)
o dell’intuizione (v.). Nell’arte a proposito del genio (v.). INVOLGERE (lat.
Involvere; ingl. Involve; ted. Involvieren). Implicare, contenere. Così Spi-
noza diceva, riferendosi alla Causa prima, che «la sua essenza involge
l’esistenza» (Er., I, Def. 1). Il termine corrisponde esattamente all’ingl. To
entail, usato per indicare l’implicazione stretta o formale. V. IMPLICAZIONE.
INVOLUZIONE (lat. /Involutio; ingl. Involu- tion; franc. Involution; ted.
Involution). 1. L’opposto di evoluzione. La parola fu adoperata da Kant per
indicare la teoria biologica opposta a quella della preformazione individuale,
teoria che egli chia- mava dell’evoluzione (Crit. del Giud., $ 81). Oggi, col
nome di I. si indicano i fenomeni opposti a quelli di evoluzione cioè i
fenomeni regressivi del- l'evoluzione. A. Lalande ha sostenuto la tesi che il
progresso in ogni campo dipende, non dal pas- saggio dall’omogeneo
all’etereogeneo, come voleva Spencer, ma dal passaggio dall’etereogeneo
all’omo- geneo che è la dissoluzione o I. (L’idée directrice de la Dissolution
opposée a celle de l'Évolution dans la méthode des sciences physiques et
morales, 1898, 28 ediz., col titolo Les Illusions évolutionnistes, 1931). 2.
Nella logica simbolica, il procedimento che corrisponde all’elevazione a
potenza dell’aritmetica (cfr. PEIRCE, Coll. Pap., 3.614-15). IO (lat. Ego;
ingl. /, Self; franc. Moi; ted. Ich). Questo pronome, con cui l’uomo designa se
stesso, è diventato oggetto di investigazione filosofica dal momento in cui il
riferimento dell’uomo a se stesso, come riflessione su di sè o coscienza, è
stato assunto a definizione dell’uomo. Ciò è avve- nuto con Cartesio; e da
Cartesio appunto il pro- blema dell’io è stato per la prima volta posto in
termini espliciti. « Che cosa dunque sono io?, chie- deva Cartesio. Una cosa
che pensa. Ma che cos'è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, con-
cepisce, afferma, nega, vuole o non vuole, imma- gina e sente. Certo non è poco
se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma perchè non le
apparterrebbero?... È di per sè evidente che sono io che dubito, che intendo e
che desidero e che non c'è bisogno di aggiungere nulla per spiegarlo » (Med.,
II). Come si vede la posizione del problema dell’io è qui subito accompagnata
dalla sua soluzione: l’io è coscienza cioè rapporto con se stesso,
soggettività. Questa è la prima delle interpretazioni storicamente date
dell’io. Possono poi enumerarsi le altre interpretazioni seguenti: IO 505 l'io
come autocoscienza; l’io come unità; l’io come rapporto. 1° La definizione
cartesiana dell’io come co- scienza fu immediatamente accolta e incorporata
nella tradizione filosofica. Locke la faceva sua e la rielaborava allo scopo di
giustificare una carat- teristica formale dell’io: l’unità o identità. Egli diceva:
« Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gu- stiamo, tocchiamo, meditiamo o vogliamo
una cosa, noi ci accorgiamo di farla. Altrettanto accade sempre nel caso delle
nostre sensazioni e percezioni attuali; e in tal modo ognuno è a se stesso ciò
che egli chiama se stesso: e in questo caso non si prende in considerazione il
fatto che il medesimo io si continui nelle stesse sostanze o in sostanze
diverse. Poichè la consapevolezza sempre accompagna il pen- siero ed essendo
quella che fa sì che ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso e in tal modo
di- stingue se stesso da tutte le altre cose pensanti, in ciò solo consiste
l’identità personale » (Saggio, II, 27, 11). In altri termini, secondo Locke,
l’iden- tità dell'io non è fondata sull’unità o semplicità della sostanza-anima
ma unicamente sulla coscienza; ed è, anzi, questa coscienza in quanto si
riconosce nella diversità delle sue manifestazioni. Leibniz, pure insistendo
sulla importanza di quella che egli chiamava coscienza o sentimento dell’io,
non rite- neva che essa sola costituisse l’identità personale e vi aggiungeva «
l’identità fisica e reale » (Nouv. Ess., II, 27, 10). Questo punto di vista si
trova frequen- temente espresso nella filosofia moderna e contem- poranea, che
talora ha accentuato il carattere attivo o volitivo della coscienza. Così ha
fatto, per es., Maine de Biran. «La causalità o la forza cioè l’io, egli ha
detto, resa manifesta a se stessa mediante il suo solo effetto o il sentimento
imme- diato dello sforzo che accompagna ogni movimento o atto volontario, è
precisamente come il primo raggio diretto, la prima luce che la vista interiore
della mente coglie» (Nouv. Ess. d’Anthropologie, II, 1). L’io è così, per Maine
de Biran, la coscienza originaria dello sforzo. Ma la migliore espressione della
dottrina dell’io come coscienza è stata data da Kant. Diceva Kant: «Io, come
pensante, sono un oggetto del senso interno, e mi chiamo anima. Ciò che è
oggetto del senso esterno si chiama corpo. Pertanto l’espressione io, come
essere pen- sante, designa già l’oggetto della psicologia che può dirsi la
dottrina razionale dell’anima, quando io dell'anima non voglio sapere più di
quanto, indipendentemente dall’esperienza (la quale mi de- termina più da
vicino e in concreto) può essere concluso da questo concetto dell’io presente
in ogni pensiero » (Crir. R. Pura, Dialettica, II, cap. 1). Accanto a quest’io
come «oggetto del senso in- terno » cioè coscienza (cfr. Prol., $ 46) Kant am-
506 mette poi un’altra specie di io che segna il pas- saggio a una seconda
interpretazione di questo concetto. L’interpretazione dell’io come coscienza è
rimasta frequente nella filosofia moderna e con- temporanea. Diceva Rosmini: «
La parola io al concetto generale dell’anima unisce ancora la re- lazione
dell’anima a se stessa, relazione di identità; ella contiene dunque un secondo
elemento distinto dal concetto dell’anima, è un’anima che percepisce se stessa,
si pronuncia, si esprime » (Psicol., $ 6). 2° L’'interpretazione dell’io come
Autocoscienza nasce dalla distinzione che Kant aveva fatto tra l'io come
oggetto della percezione o del senso in- terno e l’io come soggetto del
pensiero o dell’ap- percezione pura, cioè l’io della riflessione (Antr., I, $
4, nota; cfr. AUTOCOSCIENZA). Questa distin- zione che in Kant non avrebbe mai
potuto con- durre ad una sostanzializzazione metafisica dell’io, data la
funzionalità che Kant attribuisce all’io stesso, doveva essere assunta, da
Fichte, come punto di partenza per la dottrina dell’Io assoluto, L’io della
riflessione o della appercezione pura è. secondo Kant, la condizione ultima del
conoscere; Fichte ne fa il creatore della realtà. «In quanto è assoluto, egli
dice, l’Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso
non pone non è (per esso; ma al di fuori di esso non c’è nulla). Ma tutto ciò
che esso pone, esso lo pone come Io; ed esso pone l’Io come tutto ciò che esso
pone. Quindi, in questo riguardo, l’Io ab- braccia in sè tutta la realtà, cioè
una realtà infinita ed illimitata» (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, II;
trad. ital, pag. 207). Queste tesi venivano fatte proprie e amplificate da
Schelling per opera del quale divennero una delle espressioni caratte- ristiche
del Romanticismo. Nello scritto L’Zo come principio della filosofia o
l’incondizionato nel sapere umano (1795), egli identifica l’Io di Fichte con la
Sostanza di Spinoza. « Io sono diventato spinozista, scriveva in occasione di
questo scritto Schelling a Hegel; vuoi sapere come? Per Spinoza il mondo è
tutto, per me tutto è l’Io ». E per quanto Hegel negasse questa tesi
considerando come sapere as- soluto (e quindi anche come realtà assoluta) un
sapere in cui la distinzione tra l’Io e il non Io, tra il soggettivo e
l’oggettivo, è venuta a sparire, anch’egli tuttavia condivide la tesi del
carattere infinito dell’Io. « L’Io, egli dice, questa immediata coscienza di
sè, appare in primo luogo anch’esso da un lato come immediato, dall’altro poi
come noto in un senso molto più elevato che qualsiasi altra rappresentazione.
Ogni altro noto appartiene infatti certamente all’Io, ma nello stesso tempo è
ancora diverso da esso e però è subito un con- tenuto accidentale; l’Io invece
è la semplice cer- tezza di sè. Ma l’Io in generale è anche nello stesso IO
tempo un concreto o meglio l’Io è il concretissimo, la coscienza di sè come di
un mondo infinitamente molteplice » (Wissenschaft der Logik, I, libro I; trad.
ital., I, pag. 65-66). Gentile non faceva che riecheg- giare la posizione
fichtiana e romantica quando diceva: « L’io è, sì, l’individuo, ma l’individuo
come soggetto, il quale non ha nulla da contrap- porre a se stesso e che trova
tutto in sè; e perciò è il concreto attuale universale. Orbene questo Io, che è
lo stesso assoluto, è in quanto si pone; è causa sui » (Teoria generale dello
spirito, XVII, $ 7). 3° Già nell’interpretazione dell’io come co- scienza e
come autocoscienza si insiste talora su un carattere formale dell’io, cioè
sulla sua wnirà o identità. Si è visto che per Locke l’io è la co- scienza in
quanto fonda l’identità personale; e per Kant l’io della riflessione è «
l’unità dell’apperce- zione pura» (Cri. R. Pura, $ 16; v. APPERCEZIONE). Hume
stesso aveva visto in una certa forma di unità, sia pura fittizia, il carattere
fondamentale dell’io; che egli aveva paragonato ad una repubblica, che può mutare
negli uomini che la governano, come pure nella sua costituzione e nelle sue
leggi, senza perdere la sua identità. L'uomo, allo stesso modo, può mutare le
sue impressioni e le sue idee, rimanendo lo stesso io (7reatise, I, 4, 6). Tut-
tavia per Hume, come si vede da questa stessa immagine, l’unità dell’io non è
assoluta o rigorosa; è un’unità formale e approssimativa, fondata sulla
relativa costanza di certi rapporti fra le parti o i momenti dell’io. Questo
punto di vista rende forse conto, meglio di quello che afferma la rigo- rosa
unità dell’io, dei limiti e dei pericoli a cui l’io va soggetto nell'esperienza
effettiva. 4° Il concetto dell’io come rapporto nasce dal riconoscimento del
più vistoso carattere con cui l’io si presenta a questa esperienza: il
carattere della problematicità per cui esso è una formazione instabile e può
andare soggetto alla malattia e alla morte. La nozione di rapporto è difatti
più gene- rica e meno impegnativa della nozione di unità. L'unità è una forma
di rapporto necessaria, im- mutabile ed assoluta; un rapporto può essere più o
meno saldo e può rompersi. Proprio sotto l’an- golo visuale della « malattia
mortale» dell’io, che è la disperazione, Kierkegaard definì l’io come « un
rapporto che si rapporta a se stesso ». L'uomo è una sintesi d'anima e di
corpo, d’infinito e difinito, di libertà e di necessità, ecc. Una sintesi è un
rapporto; e il ritorno su questo rapporto, cioè la relazione del rapporto con
se stesso, è l’io dell’uomo (Die Krankheit zum Tode, 1849, cap. 1). Kierkegaard
aggiungeva che proprio in quanto rapporto con se stesso, l’io è rapporto con
altro: cioè con il mondo, con gli altri uomini e con Dio. Su questo secondo
rapporto insistono talora i IPOSTASI filosofi contemporanei. Diceva Santayana:
« Quando dico io, il termine suggerisce un uomo, uno fra i molti che vivono in
un mondo che è in contrasto con il suo pensiero il quale tuttavia lo domina »
(Scepticism and Animal Faith, 1923, ed. 1955, pag. 22). Da un punto di vista
diverso, Scheler giunge a un analogo concetto dell’io: « Con la parola io, egli
dice, è connesso un accenno da una parte a un rw, dall’altra ad un mondo
esterno. Dio, ad es., può essere una persona ma non già un io giacchè per lui
non ci sono nè un tu nè un mondo esterno» (Formalismus, ecc., pag. 405). E
proprio del rapporto si avvale Heidegger per definire l’io. « La stessa
assunzione dell” Jo penso qualcosa’ non può ricevere una adeguata deter-
minazione se il ‘ qualcosa * resta indeterminato. Se invece il ‘ qualcosa *
viene inteso come ente intra- mondano, allora porta con sè inespressa la pre-
supposizione del mondo. Ed è proprio questo il fenomeno che determina la
costituzione dell’essere dell'io, quando almeno esso debba poter essere
qualcosa come un ‘Io penso qualcosa ’. Il dire io si riferisce all’ente che io
sono in quanto: io-sono- in-un-mondo » (Sein und Zeit, $ 64). In forma solo
apparentemente paradossale, Sartre affermava in un saggio del 1937: « Noi
mostreremo che l’io non è nè formalmente nè materialmente nella coscienza; esso
è fuori, nel mondo. Esso è un essere del mondo, come l’io di un altro»
(Recherches Philosophiques, 1936-37; trad. ingl., The Transcendence of the Ego,
New York, 1958, pag. 32). Nello stesso senso, Merleau-Ponty afferma: « La prima
verità, è, sì ‘io penso * ma a condizione che s’intenda con ciò ‘io sono a me
stesso * essendo nel mondo » (Phenome- nologie de la perception, 1945, pag.
466). Conside- rato nel suo rapporto con il mondo, l’io viene talora
determinato in base al suo carattere attivo, alla sua capacità di iniziativa,
al suo potere pro- gettante o anticipante. Dice Dewey: « Dire in modo
significante ‘ Jo penso, credo, desidero ’ invece di dire soltanto ‘Si pensa,
si crede, si desidera’ significa accettare e affermare una responsabilità e
avanzare una pretesa. Non significa che l’io è l’origine o l’autore del
pensiero o dell’affermazione o la sua sede esclusiva. Significa che l’io, come
organizzazione accentrata di energie, identifica se stesso (nel senso di
accettarne le conseguenze) con una credenza o sentimento di origine esterna e
indipendente » (Experience and Nature, pag. 233). Proprio tali caratteri
costituiscono oggi lo schema generale per lo studio sperimentale della persona-
lità che è uno degli oggetti principali della psico- logia. Dalla personalità,
che è l’organizzazione dei modi con cui l’individuo intelligente progetta i
suoi comportamenti nel mondo, l’io si distingue sol- tanto come quella parte
della personalità stessa 507 che è nota all’individuo interessato e a cui per-
tanto egli fa riferimento nel dire «io». La perso- nalità, dall’altro lato, è
più vasta: essa include anche le zone oscure o in penombra, le sfere di
ignoranza più o meno voluta o non voluta, che caratterizzano il progetto totale
delle relazioni del- l'individuo col mondo (v. PERSONALITÀ). IO PENSO. V.
Cocrro. IO TRASCENDENTALE (ingl. Trascendental Ego; franc. Moi trascendental;
ted. Transzendentales Ich). Lo stesso che Io assoluto (v. Io). IPERBOLICO. V.
DuBgio. IPERORGANICO (franc. Hyperorganique). Termine con il quale gli
scrittori positivisti hanno caratterizzato il mondo propriamente umano cioè
psichico e sociale. IPERURANIO (gr. ùrepovpdvioc). La regione «al di là del
cielo» nella quale, secondo il mito di Platone nel Fedro (247 c sgg.),
risiedono le so- stanze immutabili che sono l’oggetto della scienza. Si tratta
di una regione non spaziale; giacchè il cielo racchiudeva per gli antichi tutto
lo spazio e al di là del cielo non c’è spazio. L'espressione è quindi puramente
metaforica; nella Repubblica, Pla- tone stesso prende in giro coloro che si
illudono di vedere gli enti intelligibili guardando in alto. « Per mio conto,
egli dice, non posso riconoscere ad altra scienza il potere di far sì che
l’anima guardi in su se non a quella che s’occupa dell’es- sere e dell’invisibile;
ma se qualcuno cerca di apprendere qualcosa di sensibile, guardando in su a
bocca aperta o a bocca chiusa, io dico che costui non apprenderà niente perchè
non c’è scienza delle cose sensibili e che la sua anima non guarda in alto ma
in basso, anche se egli studi restando sul dorso a terra o in mare» (Rep., VII,
529 b-c). IPOLEMMA (ingl. Hypolemma). Così è stata detta da W. Hamilton la
premessa minore del sillogismo, in quanto viene sussunta alla premessa maggiore
o lemma (Lectures on Logic, I, pag. 283). IPOSTASI (gr. sréotacw; ingl.
MHypostasis; franc. Hypostase; ted. Hypostase). Con questo ter- mine Plotino
chiamò le tre sostanze principali del mondo intellegibile cioè l’Uno,
l’Intelligenza e l’Anima (Emn., III, 4, 1; V, 1, 10), che egli para- gonava
rispettivamente alla luce, al sole e alla luna (Ibid., V, VI, 4). La
trascrizione latina del nome è «sostanza », che tuttavia è stato usato dalla
tra- dizione filosofica in un significato totalmente diverso (v. Sostanza).
Nelle discussioni trinitarie dei primi secoli, il termine in questione fu
preferito a quello di persona (mpécwrov) che, significando propria- mente
maschera, sembrava evocare l’immagine di qualcosa di fittizio. Da queste
discussioni, il nome di I. rimase fissato a designare la sostanza indi- viduale
cioè per l’appunto la persona. Dice S. Tom- 508 maso: «Secondo alcuni la
sostanza, nella defini- zione della persona, sta per la sostanza prima, che è
l’I.; tuttavia non è superfluo aggiungere individuale; giacchè con il nome di
I. o di so- stanza prima si esclude il rapporto tra l’universale e la parte.
Non diciamo infatti che sia I. il con- cetto di uomo o la mano» (S. 7A., I, q.
29, a. 1). Nel linguaggio moderno e contemporaneo, il termine viene usato (ma
raramente) in senso peg- giorativo: per indicare la trasformazione fallace o
surrettizia di una parola o un concetto in sostanza cioè in una cosa o in un
ente. In questo senso si parla anche di ipostatizzare (franc. Aypostasier) e di
ipostatizzazione). IPOTESI (gr. sré0e015; ingl. Hypothesis; fran- cese
Hypothèse; ted. Hypothese). In generale, un enunciato (o insieme di enunciati)
che possa essere messo a prova, attestato e controllato solo indirettamente,
cioè attraverso le sue conseguenze. La caratteristica dell'I. è pertanto che
essa non include nè una garanzia di verità nè la possibilità di una verifica
diretta. Una premessa evidente non è un’I. ma, nel senso classico del termine,
una assioma. Un enunciato verificabile è una legge o una proposizione empirica,
non un’ipotesi. Un’I. può essere vera; ma la sua verità può risultare soltanto
dalla verifica delle sue conseguenze. In questo senso intendeva l’I. Aristotele
che, pur ado- perando qualche volta il termine nel senso gene- ralissimo di
premessa di una dimostrazione (con- fronta, ad es., Mer., V, 1, 1013a 16; 1913b
20; Fis., II, 3, 195a 18), la definiva nel suo signi- ficato specifico
escludendola dal campo delle pre- messe necessarie: « Ciò che è necessario che
sia ed è necessario che appaia necessario, non è nè un'I. nè un postulato »
egli dice (An. Post., I, 10, 76 b 23). Assiomi e definizioni costituiscono le
premesse necessarie del sillogismo; I. e postulati quelle non necessarie. In
particolare, le I. stabili- scono l’esistenza delle cose definite. Le
definizioni, egli dice, debbono solo farci comprendere ciò di cui si parla; le
I. ne stabiliscono l’esistenza, per dedurne le conclusioni (/bid., I, 10, 76b
35 sgg.). Per conseguenza i ragionamenti fondati su I. pre- suppongono una
specie di convenzione o accordo preliminare (An. Pr., I, 44, 50a 33) e non
hanno il valore probativo di quelli fondati sulle definizioni (ibid., I, 23,
40b 22). Questa determinazione dell’I. come premessa di grado o qualità
inferiore, cioè priva della neces- sità che è propria delle premesse
autentiche, è caratteristica della posizione di Aristotele. Essa non si trova
in Platone. Secondo Platone le premesse devono essere scelte in base a un
giudizio compa- rativo, che si orienta su quella che è « la più forte » o «la
migliore » tra esse (Fed., 100 a; 101 d). Alle IPOTESI matematiche e in
generale alle discipline prope- deutiche, Platone fa l'appunto, non di muovere
da I., ma di «lasciarle immobili per non esser capaci di dar ragione di esse »
(Rep., VII, 533 c). E I. sono chiamate nel Parmenide tutte le possibili vie
della ricerca, senza che qualcuna sia privile- giata con un nome diverso
(Parm., 135 e). Platone dichiara talora di «indagare per via d’I.» come fanno i
geometri cioè ragionando su questa base: «Se si verificano alcune condizioni,
si otterrà un certo risultato, ma se non si verificano, il risul- tato sarà
diverso » (Men., 87a). L’uso delle I. in filosofia stabilisce una differenza
importante tra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, per ciò che
concerne il procedimento della filosofia stessa e in generale del sapere
scientifico. Tale differenza cade però all’interno della nozione generale di
I., come sopra espressa. E nell'ambito di tale nozione si possono distinguere i
seguenti significati specifici: 1° L’antecedente di una proposizione ipotetica
o condizionale o di un ragionamento anapodittico o di un sillogismo ipotetico.
La logica stoica, a differenza da quella aristotelica, privilegiò le pro-
posizioni ipotetiche e i ragionamenti anapodittici, conformamente
all'impostazione generale della lo- gica come dialettica (v. LOGICA;
DIALETTICA; Con- DIZIONALE; CONSEGUENZA; IMPLICAZIONE). 2° Una proposizione
originaria assunta a fon- damento di un discorso scientifico, per es., un
postulato o assioma della matematica. Di tali po- stulati o assiomi infatti non
si afferma nè si nega la verità, ma si riconoscono validi se e nella mi- sura
in cui rendono possibili il discorso matematico. In tal senso le matematiche
sono chiamate « sistemi ipotetico-deduttivi ». Ma proposizioni analoghe ai
postulati o assiomi delle matematiche e, com’essi, assunte ipoteticamente si
possono ritrovare in tutte le scienze che hanno raggiunto un certo grado di
elaborazione concettuale. 3° Una condizione qualsiasi. Tale è il signifi- cato
del termine nell’espressione ex Aypothesi. Ari- stotele parla di ciò che è «
necessario per I.» cioè in virtù di una determinata condizione (Fis., II, 9,
199 b 34 sgg.). 4° La spiegazione causale dei fenomeni. In questo senso la
parola fu adoperata spesso nei sec. xvII e xv. Locke avvertiva di «aver cura
che il nome di princìpi non ci inganni né ci si imponga, facendoci accogliere
come verità incon- testabile quella che, nel miglior caso, non è che una
congettura dubitabilissima: quali sono la maggior parte delle I. della
filosofia naturale: e quasi stavo per dire tutte» (Saggio, IV, 12, 13): dove è
ovvio che per Locke 1’I. è quella che enuncia i «princìpi» cioè le cause dei
fenomeni. Ancora più esplicitamente Leibniz diceva: « L’arte di sco- IPSITÀ
prire le cause dei fenomeni, o le vere I., è come l’arte di decifrare, nella
quale spesso una conget- tura ingegnosa abbrevia di molto il cammino» (Nouv.
Ess., IV, 12, 13): dove «I. vere» e « cause dei fenomeni» sono identificate. La
rinuncia di Newton « liypotheses non fingo » si riferisce appunto a questo
significato di ipotesi. Ecco infatti il testo di Newton: « Non ho potuto
dedurre finora dai fenomeni le ragioni di queste proprietà della gra- vità, e
non immagino ipotesi. Tutto ciò che non si deduce dai fenomeni è infatti da
chiamarsi I.; e le I. o metafisiche o fisiche, sia di qualità oc- culte sia
meccaniche, non hanno posto nella filo- sofia sperimentale ». A_ queste I. egli
contrappone le cause vere che sono quelle « necessarie per spie- gare i
fenomeni» (Philosophiae naturalis Principia mathematica, 1687, in fine). E
nell’Ortica (1704), Newton faceva consistere l’I. nell’appello alle qua- lità
occulte assunte come cause dalla metafisica aristotelica: alle quali egli
contrapponeva i prin- cipi (la gravità, la fermentazione, la coesione) « che,
egli diceva, io considero non come qualità occulte, che si suppongano risultare
dalle forme specifiche delle cose, ma come leggi generali di natura, dalle
quali le cose stesse sono formate e la cui verità ci è manifesta dai fenomeni,
anche se le loro cause non siano state scoperte» (Opricks, III, 1, q. 31). La
rinuncia di Newton alle I. non è dunque che la rinuncia alla spiegazione in
favore della descri- zione. Alla metà del sec. xIx l’opposizione tra
descrizione e spiegazione ipotetica veniva ribadita dal fisico inglese J.
Macquorn Rankine. « Secondo il metodo astratto, egli diceva, una classe di og-
getti e di fenomeni è definita per descrizione cioè facendo vedere che un certo
insieme di proprietà è comune a tutti gli oggetti o fenomeni della classe e
considerandole quali i sensi ce le fanno perce- pire, senza introdurre niente
d’ipotetico e solo as- segnando loro un nome o un simbolo. Secondo il metodo
iporetico, la definizione di una classe di oggetti o di fenomeni si deduce da
una concezione congetturale circa la loro natura ». E Rankine pre- vedeva
l’abbandono graduale delle teorie ipotetiche e la loro sostituzione con le
teorie astratte (Ouslines of the Science of Energetics, 1865, in Miscellaneous
Scientifics Papers, pag. 210; cfr. P. DuHEM, La théorie physique, 1906, pag.
80-81). 5° Uno speciale procedimento, che sostituisce l’induzione, per la
formulazione di princìpi da es- sere verificati sperimentalmente. Secondo
Stuart Mill, il procedimento scientifico è composto di tre parti: induzione, raziocinazione
e verificazione. Ora «il metodo ipotetico sopprime il primo di questi tre
passi, l'induzione, per accertare la legge e si limita alle altre due
operazioni, raziocinazione e verificazione: la legge in base alla quale si
ragiona 509 è assunta invece di essere provata» (Logic, III, 14, 4). Nello
stesso senso Peirce mette l’I. accanto alla deduzione e all’induzione come un
tipo di ragio- namento valido che si distingue dall’induzione perchè mentre
questa « procede come se tutti gli oggetti che hanno certi caratteri fossero
conosciuti », l’I. è «l’inferenza la quale procede come se tutti i caratteri
richiesti alla determinazione di un certo oggetto o classe fossero conosciuti
». « Mentre l’in- duzione può essere considerata come l’inferenza della premessa
maggiore del sillogismo, l’ipotesi può essere considerata come l’inferenza
della pre- messa minore dalle altre due» («Some Conse- quences of Four
Incapacities », in Values in a Universe of Chance, pag. 44 sgg.). Questo
significato del termine è rimasto raro. 6° L'argomento di un discorso, in
quanto posto o enunciato al principio del discorso stesso (ARISTO- TELE, Rer.
ad Al., 30, 1436a 36; Rer., II,18,1391b 13). 7° Una teoria scientifica o parte
di una teoria scientifica. In questo senso Mach dice: « Chiamiamo I. una
spiegazione provvisoria che ha per scopo quello di far comprendere più
facilmente i fatti, ma che sfugge alla prova dei fatti» (Erkenniniss und
Irrtum, cap. 14; trad. franc., pag. 240). Per questo significato, v. TEORIA.
IPOTETICO (gr. iro0erix6s; lat. Ayporheticus; ingl. Hypothetical; franc.
Hypothétique; ted. Hypo- thetisch). Questo termine ha significati corrispon-
denti a quelli del sostantivo. Per proposizione ipotetica, v. CATEGORICO. Per
ragionamento ipote- tico, v. SILLOGISMO; ANAPODITTICO; RAGIONAMENTO;
CONDIZIONALE; CONSEGUENZA. IPOTIPOSI (gr. srotirwar; ted. Ayporypose). Questo
termine che significa schizzo o lineamenti (in questo senso ricorre nel titolo
dell’opera di Sesto EMPIRICO, /. Pirroniane) fu adoperato dai retori per indicare
la figura per la quale un argo- mento è vividamente delineato in parole
(QUINTI- LIANO, /nst., IX, 2, 40). In senso analogo ha ado- perato la parola
Kant per esprimere il rapporto tra la bellezza e la moralità: la bellezza, come
simbolo della moralità, è l’I. di essa cioè la sua vivida manifestazione
intuitiva. Mentre le parole e gli altri segni sono semplici espressioni dei
concetti, le I. sono esibizioni o manifestazioni del concetto stesso in forma
intuitiva (Crit. del giud., $ 59). IPSE DIXIT (gr. abròs tpa). Frase con cui i
Pitagorici solevano rispondere alla richiesta di de- lucidazioni sulla loro
dottrina: «L'ha detto lui». Il lui era Pitagora. Cicerone adduce questa usanza
come esempio della prevalenza dell’autorità sulla ragione (De nat. deor., I, 5,
10). IPSITÀ (lat. Ipseitas; franc. Ipséité). Termine usato da Duns Scoto per
indicare la singolarità della cosa individuale (v. ECCEITÀ). 510 IRASCIBILE. V.
FACOLTÀ. IRONIA (gr. elpuvela; lat. Zronia; ingl. Zrony; franc. Ironie; ted.
Ironie). In generale l’atteggiamento che consiste nel dare un’importanza assai
minore del giusto (o di quella che si ritiene tale) a se stessi o alla propria
condizione o situazione o a cose o persone che hanno stretto rapporto con se
stessi. La storia della filosofia conosce due forme fonda- mentali d’I.: 1°
I’I. socratica; 2° l’I. romantica. 1° L’I. socratica è la sottovalutazione che
So- crate fa di se stesso nei confronti degli avversari con cui discute. Quando
nella discussione sulla giustizia Socrate dichiara: «Io ritengo che l’inda-
gine è al di là delle nostre possibilità e che voi che siete bravi dovete aver
pietà di noi piuttosto che arrabbiarvi con noi», Trasimaco risponde: «Ecco la
solita I. di Socrate» (Rep., I, 336e- 337 a). Aristotele non fa che enunciare
generica- mente questo atteggiamento socratico quando vede nell’I. uno degli
estremi nell’atteggiamento di fronte alla verità. Il veritiero è nel giusto
mezzo; chi esagera la verità è il millantatore e chi invece tenta di diminuirla
è l’ironico. L’I., dice Aristotele, è, sotto questo aspetto, simulazione (Er.
Nic., II, 7, 1108 a 22). Cicerone si rifaceva a questo concetto affermando che
« Socrate spesso nella disputa ab- bassava se stesso ed alzava coloro che
voleva confutare; e così, parlando diversamente da come pensava, adoperava
volentieri quella simulazione che i Greci chiamano I.» (Acad., IV, 5, 15) E a
questo concetto del termine faceva riferimento S. Tommaso che la esamina come
un forma (le- cita) di menzogna (S. 7A., II, 2, q. 113, a. 1). 2° L’I. romantica
poggia sul presupposto del- l'attività creatrice dell’Io assoluto.
Identificandosi con l’Io assoluto, il filosofo o il poeta (che molto spesso
coincidono, per i Romantici) è portato a considerare ogni realtà più salda come
un’ombra o un gioco dell’Io: è portato cioè a sottovalutare l’importanza della
realtà, a non prenderla sul serio. Secondo Federico Schlegel, l’I. è la libertà
assoluta di fronte a qualsiasi realtà o fatto. « Tra- sferirsi arbitrariamente
ora in questa ora in quella sfera come in un altro mondo, non solo con l’in-
telletto e con l’immaginazione ma con tutta l’anima; rinunciare liberamente ora
a questa ora a quella parte del proprio essere, e limitarsi completamente a
un’altra; cercare e trovare il proprio uno e tutto ora in questo, ora in
quell’individuo e dimenticare volutamente tutti gli altri: questo può solo uno
spirito che contiene in sè come una pluralità di spiriti e tutto quanto un
sistema di persone, e nel cui intimo l’universo che, come si dice, è in germe
in ogni mondo, s’è dispiegato ed è perve- nuto alla sua maturità » (Fragmente,
1798, $ 121). Queste notazioni sull’I. trovarono una sistemazione IRASCIBILE
concettuale nell’opera di C. G. F. SOLGER, Erwin (1815) nella quale l’I. veniva
interpretata dal punto di vista della soggettività che comprende se stessa come
cosa suprema e che perciò abbassa a un puro nulla tutte le altre cose, anche
ciò che c’è di più alto. Pur polemizzando contro qualche par- ticolare,
definito « platonico» della dottrina di Solger, Hegel la faceva sua nel
descrivere l’I. nel modo seguente: « Prendete una legge, e schietta- mente qual
è in sè e per sè: io ne sono perciò anche al di là e posso fare così e così.
Non la cosa è superiore, ma sono io superiore e sono il padrone, che al di
sopra della legge e della cosa, scherza con esse come con il suo piacere e in
questa coscienza ironica, nella quale lascio pe- rire il Sommo, godo soltanto
di me» (Fil. del dir., $ 140). L'I. così intesa, come coscienza della
Soggettività assoluta, la quale, come tale, è tutto e di fronte alla quale
perciò tutte le altre cose sono nulla e pertanto come coscienza dell’asso- luto
arbitrio di tale soggettività è, secondo Hegel, un risultato della filosofia di
Fichte quale è stata intesa e interpretata da Federico Schlegel (Fi/. del dir.,
$ 140, Zusatz). «Qui il soggetto si sa in sè medesimo come l’Assoluto e non dà
alcun peso a tutto il resto: esso sa distruggere sempre di nuovo tutte le
determinazioni che esso stesso si dà del giusto e del bene. Esso può dare a in-
tendere a sè ogni cosa ma non mostra altro che vanità, ipocrisia, sfrontatezza.
L’I. sa di dominare qualsiasi contenuto: essa non prende nulla sul serio,
scherza con tutte le forme» (Geschichte der Phil., III, sez. 3, C, 3; trad.
ital., III, 2, pag. 370-71). Quel concetto è rimasto a contrassegnare uno degli
aspetti fondamentali del romanticismo tedesco. Di esso Kierkegaard ha dato
un’interpretazione at- tenuata o metaforica, da un lato concependo l’I.
socratica come la superiorità di Socrate sopra la nequizia del mondo (Diario,
X*, A, 254); dal- l’altro lato intendendo in generale l’I. come «
l’infinitizzazione dell’interiorità dell’io » ma come infinitizzazione
«interiore», in un significato che non ha più la portata che Fichte attribuiva
all’in- finità stessa. «Cos'è l’I.? egli scrive. L’unità di passione etica, che
accentua in interiorità il proprio io infinitamente, e di educazione la quale
nel suo esteriore (nel commercio con gli uomini) astrae infinitamente dal
proprio io. L’astrazione fa sì che nessuno s’accorga della prima unità vissuta
ed in ciò sta l’arte per la vera infinitizzazione dell’inte- riorità» (Diario,
VI, A, 38, trad. Fabro). Poichè l’infinità dell'io è qui soltanto un'infinità «
inte- riore », cioè l’accentuazione all’infinito del valore dell’io nella
coscienza, ma non è l’infinità effettiva e creativa dell’Io assoluto dei
romantici, l’I. non ha più il suo significato romantico: è solo il con-
ISONOMIA 511 trasto tra la coscienza esaltata che l’io ha di sè e la modestia
delle sue manifestazioni esterne. IRRAZIONALISMO (ted. /rrationalismus).
Termine con il quale in italiano e in tedesco si designano le filosofie della
vita o dell’azione cioè quelle filosofie che, come, ad es., quella di Scho-
penhaver, considerano il mondo come la mani- festazione di un principio non
razionale (v. AZIONE, FILOSOFIA DELL’; VITA, FILOSOFIA DELLA). IRREVERSIBILE
(ingl. Zrreversibile; franc. Ir- réversible; ted. Irreversibel). Carattere
delle relazioni non simmetriche e dei processi che hanno un senso determinato.
Platone, nel mito del Politico, affermò la reversibilità del divenire cosmico
affermando che il mondo, una volta raggiunta la misura del tempo che gli è
stato assegnato, «riprende a girare in senso contrario » cioè inverte l’ordine
del tempo. Ciò accade perchè il mondo è da un lato la cosa più perfetta
possibile, ma dall’altro è corpo e come tale soggetto al mutamento. « Perciò
ebbe in sorte di rifare il suo giro in senso inverso, essendo questa ‘ la
minima mutazione possibile del suo mo- vimento * » (Pol., 269 c-e). Questo
concetto, che la reversibilità del processo cosmico è dovuta all’esi- genza di
realizzare la massima possibile identità con se stesso, veniva espresso da
Leibniz nei ter- mini della scienza del suo tempo. Diceva Leibniz: « La
saggezza suprema di Dio gli ha fatto scegliere soprattutto le leggi del
movimento meglio adatte e più convenienti alle ragioni astratte o metafisiche.
Si conserva nell’universo la stessa quantità di forza totale assoluta o di
azione; la stessa quantità di forza rispettiva o di reazione; la stessa
quantità di forza direttiva. In più l’azione è sempre uguale alla reazione e
l’effetto intero è sempre equiva- lente alla sua causa piena» (Princ. de la
nature et de la gréce, 1714, Op., ed. Erdmann, pag. 716). Questa perfetta
equivalenza tra la causa e l’effetto significa la reversibilità del processo
causale. La meccanica classica ammette questa reversibilità. Le equazioni che
esprimono il comportamento dei fe- nomeni meccanici non dànno nessuna
indicazione sul senso in cui scorre il tempo. Il # di queste equazioni è una
variabile continua che non ha un senso determinato, e questo significa che ogni
fenomeno meccanico è reversibile. L’irreversibilità dei fenomeni fu per la
prima volta introdotta con la scoperta del secondo principio della termodina-
mica (detto Principio di Carnot, 1824), secondo il quale il calore passa
soltanto dal corpo più caldo al corpo più freddo. In tal caso, quando, con
questo passaggio, si è raggiunto l’equilibrio della temperatura, è impossibile
tornare indietro. Dal sistema in equilibrio non si può tornare al sistema dello
squilibrio termico che solo rende possibile il passaggio del calore e quindi il
lavoro meccanico. Un sistema in equilibrio termico non può quindi fornire
lavoro meccanico. Con ciò si viene a stabi- lire l’irreversibilità dei fenomeni
naturali i quali, sotto un certo rispetto, sono tutti fenomeni termici. Il
Principio di Carnot ha quindi esclusa l’immagine di un divenire del mondo che,
come pensavano gli antichi, si svolga ciclicamente e ritorni su se stesso.
L’irreversibilità dei fenomeni naturali ha fatto pensare alla morte inevitabile
dell’universo, per il raggiungimento dell’equilibrio termico che rende- rebbe
impossibile ogni trasformazione e quindi ogni vita. E numerose sono state anche
le dottrine che hanno avanzato ipotesi destinate a lasciare intra- vedere per
il nostro universo una sorte diversa (cfr. su di esse MEvYERSON, De
/’explication dans les sciences, 1927, pag. 203 sgg.).. Ma in verità sia la
previsione della catastrofe sia quella delle possibili vie di salvezza vanno
molto al di là di ciò che è consentito dalla portata del principio di Carnot e
in generale da un principio scienti- fico. Questo infatti vale soltanto per
sistemi chiusi o almeno relativamente isolati; ed è uno strumento di previsione
nell’ambito di tali sistemi e non per l’universo o il mondo, cioè per una
totalità aperta o infinita. In un senso diverso e positivo il signifi- cato
filosofico dell’irreversibilità è stato illustrato da E. Paci, Tempo e
relazione, 1954, cap. VI e assim (v. ENTROPIA). ISOLARE (ted. /solieren). Nel
senso di astrarre, come adoperato da Kant; v. ASTRAZIONE. Wundt distingue
l’astrazione isolante che consiste nel se- parare una parte determinata da
un’apparenza com- plessa, dall’astrazione generalizzante che consiste nel
lasciar da parte, intenzionalmente, alcune note con- cettuali (Logik, II, pag.
11 sgg.). ISOMORFISMO (ingl. Isomorphism; franc. Iso- morphisme; ted.
Isomorphie). Termine adoperato in logica e in matematica per indicare la relazione
fra relazioni omogenee di due o più termini e che consiste nella corrispondenza
di termine a termine fra i termini delle relazioni (cfr. R. CARNAP, Lopical
Syntax of Language, $ 71 c; A. CHURCH, /ntro- duction to Mathematical Logic, $
55). ISONOMIA (gr. icovoplia; lat. Zsonomia). Se- condo Alcmeone di Crotone, è
il perfetto equilibrio della proprietà che costituiscono il corpo, cioè la
salute; il contrario di essa è la monarchia cioè la prevalenza di una proprietà
sulle altre, che costi- tuisce la malattia (Fr. 4, Diels). Secondo Epicuro, il
perfetto equilibrio e la perfetta corrispondenza di tutte le parti o gli
elementi del tutto nell’infinito. « Da essa deriva la conseguenza che, se così
grande è la moltitudine dei mortali, non minore è quella degli immortali, e se
gli elementi di distruzione sono innumerevoli anche quelli di conservazione
devono essere infiniti » (CIcER., De nat. deor., I, 19, 50). 512 ISTANTE. V.
ATTIMO. ISTANZA (gr. tvotaoi; lat. Instantia; ingl. In- stance; franc.
Instance; ted. Instanz). 1. Nella logica aristotelica, l’I. è «una premessa che
è contraria a un’altra premessa » (An. Pr., II, 26, 69 a 36). Aristotele
enumera quattro I. fondamen- tali: l’attacco alla premessa dell’avversario; una
nuova premessa; una premessa contraria a quella dell'avversario; l'appello a
precedenti decisioni (Top., VII, 10, 161a 1; Rer., II, 25, 1402a 34). 2. Bacone
chiamò I. i casi particolari sperimentali di un determinato fenomeno, per es.,
del calore; e chiamò «tavole delle I.» l’elenco di tali casi (Nov. Org., II, 10
sgg.) (v. TavoLE). Stuart Mill ha talora seguito questa terminologia (Logic.,
III, 9, 1, passim). ISTINTO (gr.
spui; lat. Znstinctus; ingl. In- stinct; franc. Instinct; ted. Instinkt). Una guida naturale, cioè non acquisita nè
scelta e poco mo- dificabile, della condotta animale ed umana. L’I. si
distingue dalla tendenza (v.) per il suo carattere biologico, in quanto è
diretto alla conservazione dell’individuo e della specie ed è legato ad una
struttura organica determinata; e dall’impulso per il suo carattere stabile.
Esistono due concezioni fondamentali dell’I.: 1° quella metafisica, per cui
l’I. è la forza che garantisce l'accordo delia con- dotta dell’animale con
l’ordine del mondo; 2° quella scientifica per cui l’I. è un tipo di disposizione
biologica. 1° La teoria metafisica dell’I. è stata fondata dagli Stoici. Per
essi, l'ordine provvidenziale del mondo, che tutti gli esseri sono destinati a
man- tenere, dirige la condotta animale mediante l’istinto. « L’I. primario
dell’animale in quanto l’animale è sin da principio diretto dalla natura, è
quello di prendersi cura di sè, dice CrisiPPO nel primo libro Dei Fini. Dice
infatti che la cosa che sta più a cuore a ciascun animale è la propria
costituzione e la coscienza di questa costituzione. Non è veri- simile che
l’animale si estranei da sè o che co- munque faccia in modo di estraniarsi da
sè o di non prendersi cura di sè. Occorre dunque che la natura stessa lo
costituisca in modo che egli abbia cura di sè, sicchè fugga le cose nocive e
persegua quelle favorevoli. Dal che appare falso ciò che alcuni dicono e cioè
che il piacere sia l’I. primario degli animali» (Diog. L., VII, 85). Attraverso
l’I. la natura conduce l’animale a prendersi cura di sè e a conservarsi,
contribuendo così a mantenere l'ordine del tutto. Cicerone esprimeva il
concetto stoico nei termini seguenti: « Ogni specie animale, al fine di
conservare se stessa, la propria vita ed il proprio corpo, evita per natura
quanto appare nocivo e desidera e si procaccia tutto quanto è necessario alla
vita come il cibo, il ricovero, e ISTANTE tutto il resto. È del pari comune a
tutti gli esseri animale l’I. sessuale al fine della procreazione ed una certa
qual cura delle loro creature » (Tusc., I, 4, 1l; De fin., III, 7, 23; De off, I,
28, 101). A un I. così inteso fu talora assimilato il diritto di natura, in
quanto comune non soltanto agli uomini ma anche agli animali. Nel sec. n,
Ulpiano distingueva dal diritto delle genti, che è proprio soltanto degli
uomini, il diritto naturale, che è «quello che la natura ha insegnato a tutti
gli ani- mali e perciò è proprio non solo del genere umano ma è comune a tutti
gli animali che vivono in terra, in mare e in cielo. Da questo diritto dipen-
dono il matrimonio, la procreazione e l’educazione dei figli, tutte cose di cui
anche gli animali sono esperti » (Dig., I, 1, 1-4). Questa concezione dell’I. è
rimasta sempre legata al presupposto metafisico di un ordine provvidenziale di
cui l’I. stesso sa- rebbe la manifestazione negli animali e negli uomini. S.
Tommaso adduceva a prova della tesi che la provvidenza si occupa anche delle
cose singolari contingenti, l’I. naturale da cui gli animali sono dotati e che
appare manifesto nelle api e in molti altri animali (Contra Gent., III, 75).
Dante espri- meva perfettamente questa concezione dell’I.: « In noi seminata e
infusa dal principio della nostra generazione, nasce un rampollo, che gli Greci
chia- mano lormen cioè appetito d'animo naturale... E questo appare chè ogni
animale, siccome ello è nato, sì razionale come bruto, se medesimo ama, e teme
e fugge quelle cose che a lui sono con- trarie e quelle odia » (Conv., IV, 22;
cfr. Par., I, 112-14). Kant ancora parlava dell’I. come della «voce di Dio cui
tutti gli animali obbediscono » e che « dovette originariamente guidare sulle
prime l’uomo primitivo » (Mutmasslicher Anfang der Men- schengeschichte, 1786).
I caratteri dell’I. in questa concezione restano fissati nel modo seguente: 1°
la provvidenzialità; 2° l’infallibilità, che deriva dal precedente carat- tere
e per la quale si ritiene che l’I. è in ogni caso adatto a garantire la vita
dell'animale e la con- tinuazione della specie; 3° l’immutabilità che de- riva
dai due caratteri precedenti e che si ritiene consistere nella non
perfezionabilità dell’I.; 4° la cecità nel senso che l’I. sfugge al controllo
del- l’animale e lo guida senza alcuna sua iniziativa diretta. Alcuni di questi
caratteri sono stati talora assunti o mantenuti anche nella concezione scien-
tifica dell’istinto. Essi sono però propri della con- cezione metafisica,
essendo caratteri presunti, de- dotti dalla funzione che si attribuisce all’I.
nel cosmo e tutti in contrasto con i dati dell’osserva- zione. Questi caratteri
sono anche ammessi e difesi, abitualmente, dai filosofi che hanno una
concezione provvidenzialistica del mondo biologico, per es., dai ISTINTO
filosofi spiritualisti. Hegel ha anche parlato di un «I. della ragione»
(Phénomen. des Geistes, I, cap. V, « L’osservazione della natura »; trad.
ital., I, pag. 222, 225, ecc.), attribuendo a tale I. i caratteri generali
sopra elencati. Una teoria metafisica dell’I. è anche quella di Freud,
specialmente com’è formulata nei suoi ul- timi scritti. Gli I. sono «l’ultima
causa di ogni attività e sono di natura conservatrice: da ogni stato raggiunto
da un essere, sorge una tendenza a ristabilire tale stato quando sia stato
abbando- nato ». Gli I. possono essere molteplici e possono cambiare mèta e
sostituirsi l’uno all’altro; ma da ultimo si possono riconoscere due I.
fondamentali in lotta fra loro: l’Eros o I. di vita e Thanatos I. di
distruzione (Abriss der Psychoanalyse, 1940, cap. II). V. PSICOANALISI. 2° Le
teorie scientifiche dell’I. sono di due specie: A) teorie esplicative; 8)
teorie descrittive. A) Esistono tre fondamentali teorie esplica- tive: a)
quella che lo spiega ricorrendo all’azione riflessa; 5) quella che lo spiega
ricorrendo all’in- telletto; c) quella che lo spiega ricorrendo al sen- timento
(simpatia). a) La dottrina che spiega l’I. ricorrendo all’azione riflessa è la più
antica. Essa fu difesa da SPENCER nei suoi Principi di Psicologia (1855). «
Mentre nelle forme primitive dell'azione riflessa, egli diceva, una singola
impressione è seguita da una singola contrazione; mentre nelle forme più
sviluppate dell’azione riflessa una singola impres- sione è seguita da una
combinazione di contrazioni; in questa che noi distinguiamo come I., una com-
binazione di impressioni è seguita da una combi- nazione di contrazioni; e più
alto è l'I., più complesse sono le coordinazioni direttive ed ese- cutive »
(Princ. of Psychology, $ 194). Questa tesi fu, accettata sostanzialmente e
modificata da Darwin nel senso che lo sviluppo degli I. sarebbe dovuto alla
selezione naturale degli atti riflessi che costi- tuiscono gli I. più semplici.
«La maggior parte degli I. più complessi, diceva Darwin, sembra es- sere stata
acquisita mediante la selezione naturale delle variazioni di atti più semplici.
Tali variazioni sembrano risultare dalle stesse cause sconosciute che
occasionano le variazioni leggere o le diffe- renze individuali nelle altre
parti del corpo, agi- scono anche sull’organizzazione cerebrale e deter- minano
mutamenti che, nella nostra ignoranza, consideriamo spontanei» (Descent of Man,
1871, I, cap. 3; trad. franc., pag. 69). Questa spiegazione dell’I. è rimasta
quella accettata non solo dai darwiniani e dai neodarwiniani ma anche da co-
loro che hanno elaborato la teoria dei riflessi condizionati, i quali hanno
considerato l’I. come un riflesso condizionato complesso (cfr. PAvLOV, 33 — ARBAGNANO,
Dirionario di filosofia. 513 I riflessi condizionati; trad. ital., pag. 273).
Il di- fetto della teoria è che le variazioni casuali difficil- mente
potrebbero spiegare la formazione di I. così perfezionati e complessi, come
quelli degli insetti. b) La seconda teoria esplicativa ha per l’appunto in
vista la formazione di questi I. più complessi e considera l’I. come
intelligenza degra- data o meccanizzata. Questa dottrina, presentata da Romanes
(Mental Evolution in Animals, 1883), è stata largamente accettata nella
psicologia della fine del secolo scorso. Essa equivale a fare dell’I.
un’abitudine che si è formata e perfezionata attra- verso lo sviluppo di una
specie animale. Wundt specialmente ha contribuito alla diffusione della
dottrina. «Gli I., egli dice, sono movimenti che originariamente derivano da
semplici o composti atti di volontà e che poi, durante la vita indivi- duale o
nel corso di uno sviluppo generale, ven- gono in tutto o in parte meccanizzati
» (Grundzijge der physiologischen Psych., 4% ediz, 1893, II, pag. 510 sgg.;
cfr. System der Phil., 2* ediz., 1897, pag. 590). Questa concezione è stata
talora utiliz- zata dai filosofi, in vista di una metafisica spiri- tualistica
(cfr., per es., RENOUVIER, Nouvelle Mona- dologie, 1899, pag. 83); ma contro di
sè ha il fatto bene accertato che le abitudini acquisite non sono trasmissibili
per eredità (v. EREDITÀ) e che non basta a spiegare la formazione di I.
perfezionati la ereditarietà della disposizione a contrarre più facilmente
abitudini, che sembra provata in alcuni casi (MacDougall). c) La terza teoria
esplicativa è quella che riporta l’I. al sentimento e in particolare alla
simpatia. «I. è simpatia» dice Bergson. « Nei fe- nomeni del sentimento, nelle
simpatie e antipatie irriflessive, sperimentiamo in noi stessi, sotto una forma
ben più vaga e ancora troppo penetrata d'intelligenza, qualcosa di ciò che deve
avvenire nella coscienza di un insetto che agisce per istinto. L’evoluzione ha
allontanato l’uno dall’altro, per svilupparli sino in fondo, elementi che
all’origine si compenetravano » (Évo/. créatr., 1911, 8% ediz., pag. 190-91).
L’evoluzione vitale ha allontanato fra loro intelligenza ed I. specificando
l’I. nel com- pito di utilizzare o anche di costruire strumenti organizzati e
l’intelligenza invece in quella di fab- bricare e adoperare strumenti
inorganizzati (/bid., pag. 152). La specializzazione dell’I. dipende, se- condo
Bergson, dal fatto che l’I. è per l'appunto l’utilizzazione, per un fine
determinato, d'uno strumento determinato: di uno strumento il quale per di più
è di una enorme complessità di det- taglio per quanto semplicissimo di
funzionamento. Gli strumenti fabbricati dall’intelligenza sono in- vece assai
meno perfetti ma possono continuamente mutare di forma e adattarsi alle nuove
circostanze. 514 Questo spiega anche perchè l’I. non sia cosciente o sia
cosciente in minima parte: la coscienza in- fatti misura lo scarto tra la
rappresentazione e l’azione (cioè tra le diverse possibilità d’agire e l’azione
effettiva): nell’I. questo scarto è minimo perchè una minima parte è lasciata
alla scelta (Ibid., pag. 157). Scheler, facendo riferimento a questa dottrina
di Bergson, in quanto tende a dar ragione degli I. più complicati (per es., di
quello degli imenotteri che paralizzano pungendoli ma senza ucciderli ragni o
scarabei per deporvi le loro uova, cfr. FABRE, Souvenirs entomologiques, I, 35
ediz., 1894, pag. 93 sgg.), dichiara di con- siderare probabile che « negli
atti istintivi di questa specie, nei quali ci si trova in presenza di una
concatenazione finalistica, logica, delle fasi di at- tività di più esseri, non
si tratti che di una esage- razione anormale di ciò che è la vera fusione
affet- tiva nella sfera dell’attività umana» (Sympathie, cap. I; trad. franc.,
pag. 50). Questa è una sostan- ziale accettazione del punto di vista di Bergson
con la correzione che ciò che Bergson chiama simpatia è piuttosto da intendersi
come fusione affettiva (per la differenza fra le due cose, v. SIMPATIA). La
dottrina di Bergson è stata accettata ampia- mente dai filosofi, mentre ha
trovato scarsa acco- glienza presso fisiologi e psicologi. Essa rimane come una
delle possibili alternative per una spie- gazione dell’istinto. Questo infatti
può venir ri- portato o all’una o all'altra nelle due attività che comunemente
si assume dirigano la condotta umana: cioè o all'intelligenza o al sentimento.
L’interpre- tazione 5) cerca di ricondurre l’I. all’intelligenza;
l’interpretazione c) cerca di ricondurlo al sentimento. B) Nella psicologia
contemporanea, l’influsso dell’indirizzo gestaltista, mentre determina il defi-
nitivo abbandono della teoria dei riflessi, che ten- deva a risolvere l’I. in
attività elementari (che sarebbero appunto le azioni riflesse), ha anche fa-
vorito l’abbandono di ogni teoria esplicativa e il ricorso a teorie
descrittive, fondate su ampia base di osservazioni. Da questo punto di vista,
la de- scrizione dell’I. più comunemente adottata è quella data da G. E.
Muller, che ha opportunamente modificata una definizione di MacDougall: « L’I.
è una disposizione psico-fisica, dipendente dall’ere- dità, spesso
completamente formata subito dopo la nascita, altre volte solo dopo un certo
periodo di sviluppo, disposizione che guida l’animale a fare particolare
attenzione ad oggetti di una certa specie o in un certo modo e a sentire, dopo
averli per- cepiti, una spinta verso un’attività determinata, in connessione
con essi + (cfr. D. Katz, Mensch und Tier, 1948; trad. ingl, pag. 171).
Definizioni di questa specie rendono inutile perfino il nome di I. che infatti
alcuni psicologi tendono a sostituire ISTINTO con altri termini, meno
compromessi da un uso secolare (propensione, tendenza, erg). Talvolta si
insiste sul carattere totalitario della disposizione istintiva considerandola
come uno +*schema uni- tario », che cresce e diminuisce come un tutto (cfr. R.
B. CATTELL, Personality, New York, 1950, pag. 195). L’etologia comparata
distingue nell’I. ciò che Konrad Lorenz ha chiamato i/ meccanismo innato
scatenante, che è l’insieme delle condizioni che fanno da stimolo alla condotta
istintiva, e l’atto consumatorio che è costituito da uno schema o piano,
gerarchicamente ordinato, di movimenti, che è il vero e proprio comportamento
istintivo. Questo ordinamento gerarchico del comportamento istintivo diventa
meno flessibile a misura che ci si avvicina al livello della condotta in atto.
Tinbergen ritiene che questa flessibilità dipende dai cambia- menti del mondo
esterno (The Study of Instinct, 1951, pag. 110). Lorenz ritiene che lo
scatenamento della condotta istintiva possa anche essere provo- cato da un
accumulo di energia endogena e ritiene che, nell’animale come nell’uomo, questo
accumulo di energia (prevalentemente di natura fisico-chimica) costituisce un
/. di aggressione che, se abbandonato a se stesso conduce gli uomini alla
distruzione reciproca, ma che può essere disciplinato o convo- gliato verso
mète che non mettano in pericolo la convivenza umana. Lo sfogo dell'aggressione
sopra oggetti costitutivi sarebbe il privilegio dell’uomo, che può essere
capace di mutare la direzione del suo impulso istintivo (Das sogenannte Bose,
1963, cap. XII). Questa dottrina continua tuttavia ad attribuire all’I. la
parte prevalente nella determinazione del comportamento umano, come di quello
animale, ma dall’altra parte si è pure dubitato che si possa per spiegare tale
comportamento usare il concetto di I. (cfr. il simposio su questo argomento nel
British Journal of Educational Psychol., novembre 1941). Oppure si prospetta
una concezione « stati- stica » dell’I., per la quale esso è soltanto « il fat-
tore di un gruppo innato e conativo » (BURT, « The Case for Human Instincts »
nella Riv., cit., 3* parte; cfr. J. FLucEL, Studies in Feeling and Desire,
London, 1955). Tale negazione dell’I. riguarda soprattutto l’uomo. Katz aveva
detto: « Nell’uomo gli I. de- terminano solo la forza di una spinta all’azione
e il suo schema generale. Questo schema è indefinito e varia da occasione a
occasione e da un individuo all’altro. Per es., in tutti i bambini l’I. del gioco
si sviluppa e fiorisce a un certo tempo e poi muore. Ma il modo in cui i
bambini realmente giocano varia enormemente. Ciò non di meno, proprio nel-
l’infanzia l'uomo è più soggetto all’influenza degli istinti. Più tardi, la sua
condotta di vità è così controllata dalle forze esterne che la sua base
ISTITUZIONE istintiva può difficilmente esser distinta. A diffe- renza degli
animali, egli non passa la sua vita dentro la sicurezza degli I.; ma ha la
capacità di formarseli da sè » (Animals and Men, cit., pag. 173). Nella
sociologia, l’I. è stato talora invocato come fattore formativo dominante della
cultura o dei suoi aspetti fondamentali. AIl’I. Pareto riportava le azioni «
non logiche » (Sociologia generale, 1923, $ 157). Thorstein Veblen, ricorreva,
nelle sue spiegazioni sociologiche, frequentemente all’I.: per esempio, all’I.
dell’efficienza, all’I. animistico, ecc. (cfr. The
Instinct of Workmanship and the State of Business Enterprise, 1904). Questo punto di vista è oggi spesso contraddetto: «La
cultura non è istintiva sotto nessun aspetto: essa è esclu- sivamente appresa.
A partire dalla pubblicazione dell’Z. di BERNARD nel 1924, è stato impossibile
accettare ogni teoria degli I. come la spiegazione dello schema culturale
universale o come la solu- zione di qualche problema culturale » (G. P. Mur-
DOCK, in R. LinToN, The Science of Man in the World Crisis, New York, 73 ediz.,
1952, pag. 126- 127). 515 ISTITUZIONE (lat. Institutio; ingl. Institu- tion;
franc. Institution; ted. Anstalt). 1. Nella logica terministica medievale, è
l’adozione di un nuovo vocabolo nel corso della discussione e per il tempo che
essa dura (cfr. OcKHaM, Summ. Log., III, 3, 38). Lo scopo di questa adozione è
quello di rendere il linguaggio più conciso; o quello di di- scutere di una cosa
sconosciuta; o quello di ingan- nare l’interlocutore o di permettergli di
rispondere più facilmente alle obiezioni. In quest’ultimo senso è una delle
obbligazioni (v.). 2. Nella sociologia contemporanea, il termine è di uso
frequente ed è stato assunto, per es., da Durkheim come l’oggetto specifico
della socio- logia definita per l'appunto come «scienza delle istituzioni »
(Régles de la méthode sociologique, 2* ediz., pag. xxm). L'istituzione è stata
talvolta intesa come un insieme di norme che regolano l’azione sociale (come fa
per l'appunto Durkheim); talaltra, in senso più generale, come « qualsiasi
atteggiamento sufficientemente ricorrente in un gruppo sociale » (cfr.
ABBAGNANO, Problemi di so- ciologia, 1959, IV, 2). K K. Nella logica di
Lukasiewicz la lettera K viene usata per indicare la congiunzione che più comu-
nemente è simboleggiata con un punto «.». Cfr. A. CHURCH, /ntroduction to
Mathematical Logic, n. 91. KABBALA. Una delle fonti della filosofia giu- daica
medievale. Xabalah (= tradizione) è una dot- trina segreta che fu dapprima
trasmessa oralmente, poi esposta da alcuni rabbini in un certo numero di
trattati, di cui due ci sono giunti interi o quasi Il libro della Creazione
(Yessjrah) e il Libro dello Splendore (Zohar). Questi libri (di cui non si
conosce la data della composizione), espongono una dottrina simile a quella dei
neoplatonici e dei neopitagorici dei primi secoli dell’era volgare. Dio è in sè
inac- cessibile, sfugge ad ogni conoscenza e rifiuta ogni determinazione: è la
negazione di ogni cosa deter- minata, il niente di ogni cosa. La luce divina si
con- centra e si proietta in raggi che costituiscono le sostanze emanate o
Numeri (Sephirot) che formano gli esseri intermedi e il mondo. Le prime due
sostanze sono la Saggezza (Hochma) e l’Intelligenza (Logos) che, con Dio,
formano le prime tre ipostasi nonchè il mondo invisibile che è modello di
quello visi- bile. I due mondi sono legati insieme dall’amore: il mondo
inferiore tende al superiore e in risposta a quest’impulso il mondo superiore
desidera e ama quello inferiore. — La K. ebbe molta fortuna anche nel periodo
del Rinascimento, soprattutto fra i platonici. In particolare Pico della Miran-
dola che cercò di unificare e organizzare in un nuovo spirito l’intero sapere
tradizionale, vide nella K. lo strumento adatto a penetrare nei misteri di-
vini e perciò la guida per l’interpretazione delle Sacre Scritture. Egli perciò
considerava le dottrine della K. in accordo non solo con il cristianesimo, ma
anche con le dottrine di Pitagora e di Platone, delle quali essa avrebbe
rappresentato il precedente antichissimo (De hominis dignitate, fol., 138 r).
Sulla K. confronta H. Sérouva, La Kabbale, 1947; 23 ediz., 1957). KALOKAGATIA
(gr. xadQoxaya0la). L'ideale greco della perfetta personalità umana. Si possono
trovare due definizioni di questo ideale: 1° come virtù intera, e in questo
senso è l’ideale platonico. Platone non usa il termine o lo usa (forse confor-
memente al significato corrente), per indicare i ricchi (Rep., 569 a); ma il
suo punto di vista viene riferito nell’Erica Eudemia (VIII, 15) e nei Magna
Moralia dove si dice: « Non a torto si chiama K. ciò che è perfettamente buono.
Buono e bello chiamano infatti chi è compiutamente bravo, cioè coraggioso e ha
tutte le altre virtù... L'uomo bello e buono non è corrotto dagli altri beni,
per es., dalla ricchezza e dalla potenza » (Magna Mor., II, 9, 1207 b); 2° come
virtù magnanima (v. MAgNA- NIMITÀ). Dice Aristotele: « È difficile essere ma-
gnanimi: non è possibile infatti senza K.» (Er. Nic., IV, 3, 1124a 4).
KANTISMO. V. CRITIcISMO. KARMAN. V. Buppismo. KENNETICO (Ingl. Kenneric).
Neologismo co- niato da A.F. Bentley e tratto (dallo scozzese ken o kenning che
significa conoscere) per contrassegnare l’indagine transazionale (/nquiry into
Inquiries, 1954) (v. TRANSAZIONE). È L. Posposto o anteposto a termini come
concetto, verità, ecc., significa /ogico. In generale, come dice Carnap, un
L-termine, per es., « L-vero + si applica ogni volta che il termine radicale
corrispondente, per es., «vero», si applica sulla base di ragioni semplicemente
logiche, in contrasto con ragioni di fatto (Introduction to Semantics, $ 14).
LAICISMO (ingl. Laicism; franc. Lalcisme). Con questo termine si intende il
principio dell’aufo- nomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali
attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte
dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli cui esse si inspirano.
Questo prin- cipio è universale e può essere legittimamente invo- cato in nome
di qualsiasi attività umana legittima: intendendosi per attività « legittima »
ogni attività che non ostacoli, distrugga o renda impossibile le altre.
Pertanto esso non può essere inteso solamente come la rivendicazione
dell’autonomia dello Stato di fronte alla Chiesa o per meglio dire al clero;
giacchè è ser- vito anche, come la sua storia dimostra, alla difesa
dell’attività religiosa contro quella politica e serve anche oggi in molti
paesi a questo scopo; come serve a quello di sottrarre la scienza o in generale
la sfera del sapere alle influenze estranee e deformanti delle ideo- logie
politiche, dei pregiudizi di classe o di razza, ecc. Papa Gelasio I che alla
fine del v secolo esponeva in un trattato e in alcune lettere la teoria detta
delle « due spade» fu probabilmente il primo a fare ap- pello con chiarezza al
principio del L.: il quale rimase sconosciuto all’antichità classica per il
fatto che essa non conobbe alcun conflitto di principio fra le varie attività
umane. La teoria delle due spade cioè di due poteri distinti, entrambi
derivanti da Dio, quello del papa e quello dell’imperatore, serviva a Gelasio I
per rivendicare l'autonomia della sfera religiosa nei confronti di quella
politica. Essa rimase per molti secoli la dottrina ufficiale della chiesa e
ancora nel sec. x il canonista Stefano di Tournai la esprimeva con estrema
nettezza (Summa Decretorum, Intr.). Il principio espresso in questa dottrina
rimane lo stesso, quando le parti s’inver- tono o la dottrina viene invocata a
difendere il potere politico contro quello ecclesiastico: come fa Giovanni di
Parigi nel suo trattato Su/la potestà regia e papale (1302-3); come farà Dante,
alcuni anni più tardi, nel De monarchia; e come fecero Marsilio da Padova nel
Defensor pacis (1324) e Guglielmo di Ockham nei suoi scritti politici. Cer-
tamente le dottrine politiche ed ecclesiastiche di questi scrittori erano
differenti e qualche volta opposte; ma è chiaro che la teoria dei due poteri
non è altro che l’appello all'autonomia delle sfere rispettive di attività e
che quest’ultimo non trae la sua forza dalla particolarità delle dottrine ma
dal riconoscimento dell’autonomia, che è il principio del laicismo. Questo
principio divenne un'esigenza fondamentale nella vita civile nei comuni
italiani, francesi, belgi e tedeschi (cfr. SALVEMINI, Studi sto- rici, Firenze,
1901; PIRENNE, Les Villes du moyen dge, Bruxelles, 1927; DE LAGARDE, La
naissance de l’esprit lalque, au déclin du moyen dge, Louvain-Paris, 38 ediz.,
1956); il Rinascimento e l’Illuminismo non sono che due tappe successive della
sua progressiva prevalenza nella vita politica e civile dell'Occidente. Ma,
come si è detto, il principio del L. non vale soltanto nei rapporti tra
l’attività politica e quella religiosa. Nella prima metà del sec. x1v Guglielmo
di Ockham rivendicava con energiche parole l’auto- nomia della ricerca
filosofica. A proposito della con- danna di alcune proposizioni di San Tommaso
fatta dal Vescovo di Parigi nel 1277 egli diceva: «Le asser- zioni
principalmente filosofiche, che non concernono la teologia, non debbono essere
da alcuno condan- nate o interdette, giacchè in esse chiunque dev'essere libero
di dire liberamente ciò che gli piace » (Dialogus inter magistrum et discipulum
de imperatorum et pontificum potestate, I, II, 22). Questa è stata la prima e
certo una delle più energiche affermazioni del principio del L. in filosofia; è
dovuta a un 518 frate francescano del *300. Nel sec. xvm Galilei affermava lo
stesso principio nei confronti della scienza, polemizzando contro i limiti e
gli impacci che possono venire alla scienza dall’autorità eccle- siastica. La
Sacra Scrittura e la natura, egli diceva, procedono entrambe dal Verbo divino;
ma mentre la parola di Dio ha dovuto adattarsi al limitato intendimento degli
uomini ai quali si rivolgeva, la natura è inesorabile e immutabile e mai non
tra- scende i termini delle leggi impostegli perchè non si cura che le sue
recondite ragioni siano o non siano comprese dagli uomini: sicchè « quello
degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinnanzi agli occhi
o le necessarie dimostrazioni ci conclu- dono, non debba in conto alcun esser
revocato in dubbio, non che condannato, per luoghi della Scrit- tura che
avessero nelle parole diverso sembiante » (Lett. alla Grand. Cristina, in Op.,
V, pag. 316). Galilei rivendicava così l'autonomia della scienza, negli stessi
termini in cui Ockham aveva rivendi- cato l’autonomia della filosofia. Il
principio del L. è stato il fondamento della cultura moderna ed è
indispensabile alla vita e allo sviluppo di tutti gli aspetti di questa
cultura. I soli autentici avversari del L. sono gli indirizzi politici
totalitari cioè quegli indirizzi che intendono impadronirsi del potere po-
litico e esercitarlo a/ solo scopo di conservarlo per sempre. Tali indirizzi
pretendono infatti di impadro- nirsi del corpo e dell’anima dell’uomo, per
impe- dirgli ogni critica o ribellione. Per quanto il roman- ticismo
ottocentesco abbia incoraggiato la persistenza o la reviviscenza di tali
indirizzi, essi si trovano oggi contrastati dalla stessa situazione oggettiva
che esige in ogni campo lo sviluppo del sapere po- sitivo: questo sapere a sua
volta esige l'autonomia delle sue regole, cioè il laicismo. D’altra parte un
indirizzo politico totalitario può essere agevolmente riconosciuto proprio dal
suo atteggiamento nei con- fronti del principio L.: sia che si appoggi a una
con- fessione religiosa, sia che si appoggi ad un’ideologia razzista o
classista o ad altra qualsiasi, esso tende in primo luogo a sminuire, ed al
limite a distrug- gere, l'autonomia delle sfere spirituali, come tende a
diminuire e a distruggere i diritti di libertà dei cittadini. Il L. difatti è,
sul piano dei rapporti delle attività umane fra loro, ciò che la libertà è sul
piano dei rapporti degli uomini fra loro: è il limite o la misura che
garantisce a quelle attività la pos- sibilità di organizzarsi e svilupparsi,
come la libertà è il limite e la misura che garantisce ai rapporti umani la
possibilità di mantenersi e svilupparsi. Riconosciuto nella sua struttura
concettuale e storica, il principio del L. non mostra alcun carattere di
antagonismo con alcuna forma di religiosità, neppure col cattolicesimo. In
primo luogo, esso è servito spesso ai cattolici per difendere l’autonomia
LAMARCHISMO della loro attività; e tuttora costituisce la politica ufficiale
del cattolicesimo nei paesi in cui esso non ha un partito politico a sua
disposizione, per es., nei paesi anglosassoni. In secondo luogo, è interesse
dei cattolici, come di tutti, che l'amministrazione dello stato, le scienze, la
cultura, l'educazione e in generale le sfere dell’attività umana, si
organizzino e reggano su princìpi che possano essere ricono- sciuti da tutti,
cioè che siano indipendenti dalla inevitabile disparità delle credenze e delle ideologie,
e perciò rendano efficaci e feconde le attività che su di essi si fondano. È
abbastanza ovvio che un’ammi- nistrazione politica la quale favorisca certi
gruppi di cittadini a danno degli altri, in vista delle loro credenze
religiose, è semplicemente un’ammini- strazione inefficiente e corrotta e non
può rivendicare meriti «religiosi ». Allo stesso modo, un potere giudiziario
che non applichi con scrupolo ed equità la legge valida dello stato, non offre
garanzie per nessuno, perchè è, parimenti, inefficiente e corrotto. Una scienza
che serva gli interessi di partiti, credenze e ideologie, non può a nessun
titolo considerarsi meritoria: non è affatto una scienza. Essa sarebbe simile a
un’arte medica che assumesse come criterio di diagnosi, prognosi e cura i
desideri del paziente o di altre persone; o più esattamente un’arte medica
siffatta sarebbe un caso di scienza « non laica + cioè clericale o partitica.
Il L. non è nell’interesse di questo o quel gruppo politico, religioso o
ideologico; è nell’interesse di tutti. Posto, s’intende, che l’interesse di
tutti sia lo sviluppo armonico delle attività che assicurano la sopravvivenza
dell'uomo nel mondo. LAMARCHISMO. V. EvoLUZIONE. LASSISMO. V. Ricorismo.
LATENTE (lat. Latens). F. Bacone chiamava L. il processo naturale che va dalla
causa efficiente della materia sensibile sino alla forma: cioè il processo di
costituzione della forma (Nov. Org., II, 1). I processi psichici latenti di cui
parlava la psicologia del secolo scorso sono quelli che oggi si chiamano inconsci
o subconsci. LATITUDINARIO (ingl. Latitudinarian; fran- cese Latitudinaire;
ted. Latitudinarier). Kant chiamò con questo termine colui che ammette in
alcuni casi la neutralità morale cioè l’esistenza di atti o caratteri umani
indifferenti dal punto di vista morale. « Co- storo, egli dice sono o L. della
neutralità, che am- mettono cioè che l’uomo non è nè buono nè cattivo e si
possono chiamare indifferentisti; o L. della coalizione che ammettono che
l’uomo è insieme buono e cattivo e si possono chiamare sincretisti ». L’opposto
di L. è rigorista cioè colui il quale non ammetta alcuna neutralità morale
(Religion, I, Osser- vazione). Il nome aveva originariamente indicato i
sostenitori, nella chiesa inglese del sec. xvi, di una più lata interpretazione
dei dogmi tradizionali. LAVORO LAVORO (gr. révos; lat. Labor; ingl. Labor;
franc. Travail; ted. Arbeit). L'attività diretta a uti- lizzare le cose
naturali o a modificare l’ambiente per l’appagamento dei bisogni umani. Il
concetto di L. implica perciò: 1) la dipendenza dell’uomo, quanto alla sua vita
e ai suoi interessi, dalla natura: il che costituisce il bisogno (v.); 2) la
reazione attiva a questa dipendenza, costituita da opera- zioni più o meno
complesse dirette all’elaborazione o all’utilizzazione degli elementi naturali;
3) il grado più o meno elevato di sforzo, pena o fatica, che costituisce il
costo umano del lavoro. Soprattutto su quest’ultimo aspetto si fonda la
condanna che la filosofia antica e medievale ha pronunciata sul L. manuale (v.
BanAUSIA). Per questo stesso aspetto, il L. fu considerato dalla Bibbia come
parte della maledizione divina che fa séguito al peccato originale (Genesi,
III, 19). E nello stesso testo famoso di San Paolo il precetto: «Chi non vuol
lavorare, non mangi» è derivato dall’obbligo di non addossare agli altri la
fatica e la pena del lavoro (// Tessal., III, 8-10). Nello stesso senso veniva
prescritto il L. da Sant’Ago- stino (De Operibus Monachorum, 17-18) e da San
Tommaso (S. Th., II, II, q. 187 a. 3) come precetto religioso. Dalla esigenza
di distribuire fra tutti la pena e la degradazione del L. manuale sono ispirate
l’Utopia (1516) di Tommaso Moro e la Città del sole (1602) di Campanella, che
prescri- vono per tutti i membri delle loro città ideali l’ob- bligo del
lavoro. Su questa base, la contrapposizione tra L. ma- nuale e attività
intellettuale, tra arti meccaniche e arti liberali, rimaneva salda; ed anche
nel Rina- scimento la difesa quasi unanime che letterati e filosofi fanno della
vita attiva di fronte a quella contemplativa e l’unanime condanna dell’ozio (al
quale è tolto il carattere, che l’età classica gli attri- buiva, di
disponibilità per attività superiori) non sempre conducono ad una rivalutazione
del L. ma- nuale. Un passo di Giordano Bruno afferma che la provvidenza ha
disposto che l’uomo « vegna oc- eupato ne l’azione delle mani, e contemplazione
per l’intelletto, de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza
contemplazione » (Spaccio della bestia trionfante, 1584, in Op. Ital., II, pag.
152). Ma è soprattutto negli scritti scientifici e tecnici che si afferma, a
partire dal 400, la dignità del L. manuale. Galileo esplicitamente riconosceva
il valore delle osservazioni fatte dagli artigiani mec- canici ai fini della
ricerca scientifica (Discorsi in- torno a due nuove scienze, in Op., VIII, pag.
49). Bacone poneva a fondamento del suo sperimenta- lismo le «arti meccaniche»,
che agiscono sulla natura e s’arricchiscono della luce dell’esperienza (Nov.
Org., I, 74) e riteneva pertanto indispensabili 519 le operazioni materiali o
manuali per il raggiungi- mento di un sapere che è nello stesso tempo un potere
sulla natura in vista dei bisogni e degli interessi umani (/b., I, 83). Se
Cartesio dava poca importanza alla parte tecnica o strumentale della scienza
(che per lui rimaneva un sistema rigida- mente deduttivo) e così al L. manuale,
Leibniz insisteva invece sull'importanza del L. degli arti- giani, dei
contadini, dei marinai, dei mercanti, dei musicisti, non solo ai fini della
scienza, ma anche a quelli della vita e della civiltà umana (Phil. Schriften,
VII, pag. 180 sgg.). Queste idee divennero predominanti nell’Illumi- nismo
soprattutto per opera di Bacone e di Locke; quest’ultimo riconosceva nella
ricerca sperimentale, diretta a determinare le proprietà dei corpi fisici,
l’unico strumento di cui l’intelletto umano dispone per accrescere la
conoscenza dei corpi stessi, la cui sostanza rimane sconosciuta (Saggio, IV,
II, 25). L’articolo « Arr» di Diderot nell’Encyclopedie, cri- ticava sulle orme
di Bacone la distinzione delle arti in liberali e meccaniche, considerandola un
pregiu- dizio tendente «a riempire le città di ragionatori orgogliosi e di
contemplativi superflui e le cam- pagne di tirannelli oziosi, pigri e altezzosi
». L’Illu- minismo in generale segna la rivendicazione della dignità del L.
manuale; dal quale Rousseau voleva che Emilio acquistasse la prima idea della
solida- rietà sociale e degli obblighi che essa impone (Émile, [1762], IV).
Kant, pur distinguendo il L. dall’arte non riteneva possibile una netta
separazione perché anche nelle arti liberali « è necessario qualcosa di
costretto o come si dice un meccanismo senza del quale lo spirito non
acquisterebbe corpo e svapo- rerebbe del tutto » (Crit. del Giud., $ 43). Ma
solo con il Romanticismo si cominciò a sta- bilire il rapporto tra il L. e la
natura stessa del- l’uomo. Fichte affermava che anche l’occupazione ritenuta
più bassa e insignificante, in quanto è connessa con la conservazione e la
libera attività degli esseri morali, è santificata allo stesso modo dell’azione
più elevata (Sirrenlehre, III, $ 28). Ed Hegel ha dato la prima dottrina
filosofica del L., che utilizza i risultati raggiunti da Adamo Smith
nell’economia politica (v.). Già nelle Lezioni di Jena (1803-04) Hegel
considerava il L. come « la media- zione tra l’uomo e il suo mondo »; difatti,
a dif- ferenza degli animali, l’uomo con consuma imme- diatamente il prodotto
naturale ma elabora, nei modi e per i fini più diversi, la materia fornita
dalla natura, dando così a tale materia il suo valore e la sua conformità allo
scopo (Fil. del dir., $ 196). Soltanto nella soddisfazione dei bisogni per
mezzo del L., l’uomo è veramente tale: perché si educa sia teoricamente,
attraverso le conoscenze che il L. richiede, sia praticamente perché si abitua
all’oc- 520 cupazione, adegua la propria attività alla natura della materia e
acquista attitudini universalmente valide. Perciò a differenza del barbaro che
è pigro, l’uomo incivilito è educato alla consuetudine e al bisogno dell'occupazione
(/5., $ 197 e Zusatz). Attraverso il L., «l’egoismo soggettivo si converte
nell’appagamento dei bisogni di tutti gli altri » sicché mentre «ciascuno
acquista, produce e gode per sé appunto perciò produce e acquista per il
godimento degli altri » (/b., $ 199). Hegel ha anche messo in luce la crescita
indefinita dei bisogni, l’importanza della divisione del L. e il rilievo che
acquista, in base a questa divisione, la distinzione delle classi (Ib., $$ 195,
241, 245). Ha visto pure che la divi- sione del L. porta alla sostituzione
della macchina all'uomo. Difatti, con quella divisione, si accresce sì la
facilità del L. e quindi la produzione; ma si ha pure la limitazione a una sola
abilità e quindi la dipendenza incondizionata dell’individuo dal complesso
sociale. L'abilità stessa diventa così mec- canica e ne deriva la possibilità
di surrogare al L. umano la macchina (Enc., $ 526). Questi capisaldi hegeliani
sono accettati da Marx, il quale però insiste sul carattere naturale o
materiale del rap- porto che il L. stabilisce tra l’uomo e il mondo, contro il
carattere spirituale che Hegel gli aveva riconosciuto e che gli permetteva di
considerarlo come un momento o una manifestazione della co- scienza. Gli uomini
cominciarono a distinguersi dagli animali, secondo Marx, quando « comincia-
rono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato
dalla loro organizza- zione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli
uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale » (/deologia
tedesca, I, A; trad. it. pag. 17). Il L. non è quindi solo il mezzo con cui gli
uomini si assicurano la loro sussistenza: è la stessa estrinsecazione o
produzione della loro vita è un modo di vita determinato. La produzione e il L.
non sono perciò, una condanna per l’uomo: sono l’uomo stesso, il suo modo
specifico di essere e di farsi uomo. Attraverso il L. la natura diventa «il
corpo inorganico dell’uomo » e l’uomo può as- surgere alla coscienza di sé, non
tanto come indi- viduo, ma come «specie di natura universale + (Manoscritti
economico-politici del 1844, I, trad. it. pag. 230 sgg.). Il L. fa anche
dell’uomo un ente sociale perché lo mette in rapporto oltreché con la natura,
con gli altri individui: sicché i rapporti di L. e di produzione costituiscono
la trama o la struttura autentica della storia, della quale sono un riflesso le
varie forme della coscienza. Questo accade tuttavia nel L. non alienato, cioè
non divenuto merce, quale è invece nella società capitalistica: giacché in
questo caso insorge il contrasto tra la personalità del singolo proletario e il
L. come con- LAVORO dizione di vita che gli è imposta dai rapporti in cui entra
come oggetto e non più come soggetto (Ideologia tedesca, I, C; trad. it. pag.
75). Dal punto di vista di un’etica religiosa, Kierke- gaard affermava a sua
volta la stretta connessione del L. con la dignità dell’uomo. « Quanto più
basso è il gradino in cui sta la vita umana, egli diceva, tanto meno si mostra
la necessità di lavorare; quanto più in alto sta, tanto più questa necessità si
manifesta. Il dovere di lavorare per vivere esprime l’universale umano e lo
esprime anche nel senso che è una manifestazione della libertà. Proprio con il
L. l’uomo si rende libero; il L. signoreggia la natura, con il L. egli mostra
che sta più in alto della natura » (Entweder-Oder, II, in Werke, III, pag.
301). Questa stretta connessione del L. con l’esistenza umana, che nobilita il
L. stesso e ne fa un fine oltre che un mezzo, diventa un luogo comune della
filosofia e in generale della cultura contemporanea. E anche al di fuori
dell'ambito marxista, il carat- tere penoso del L. è messo sul conto, non del
L. stesso, ma delle condizioni sociali nelle quali esso si svolge nella società
industriale. Dice Dewey: «È naturale che l’attività sia piacevole. Essa tende a
trovare una via d'uscita e il trovarla è in sé sod- disfacente perché segna una
riuscita parziale. Se l’attività produttiva è diventata così inerentemente
insoddisfacente che gli uomini hanno bisogno di essere artificialmente indotti
a impegnarsi in essa, questo fatto è un’ampia prova che le condizioni sotto le
quali il L. è svolto impediscono il com- plesso delle attività invece di
promuoverle, irritano e frustrano le tendenze naturali invece di indiriz- zarle
verso la fruizione » (Human Nature and Con- duct, II, 3, pagg. 123-24).
Nietzsche tuttavia aveva già visto nel L., un tradimento alla spiritualità
gioiosa e contemplativa che dovrebbe essere pro- pria dell’uomo. Aveva scritto
a proposito degli americani: «Il loro furibondo L. senza respiro — il vizio
peculiare del Nuovo mondo — comincia già per contagio a inselvatichire la
vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità
». Aveva notato come solo il L. dà «la buona coscienza» e che invece l’inclinazione
alla gioia, chiamata «bisogno di creazione» co- mincia a vergognarsi di sé (Die
Froehliche Wissen- schaft, 1882, $ 329). E aveva visto in un L. così concepito
«la miglior polizia, che tiene tutti sog- giogati ed è in grado di impedire
vigorosamente lo sviluppo della ragione, del desiderio violento, del gusto
dell’indipendenza » (Morgenròthe, 1881, $ 173). A queste idee di Nietzsche si
rifanno impli- citamente o esplicitamente, coloro che contrappon- gono il gioco
al L. o vogliono trasformare il L. in gioco. «Il gioco è improduttivo e
inutile, ha LEGGE scritto Marcuse, proprio perché cancella i tratti repressivi
e sfruttatori del L. e dell’agio; esso * semplicemente gioca * con la realtà».
Ma dal- l’altro lato lo stesso Marcuse afferma che un ordine « non repressivo »
del L. è un ordine di abbondanza che si ha «quando tutti i bisogni fondamentali
possono soddisfarsi con un dispendio minimo di energia fisica e psichica e in
un tempo minimo.» (Eros e civiltà, cap. 9, trad. it. pagg. 212-13). AI fondo
della negazione del valore del L. sta, più che la condanna delle forme alienate
e meccaniz- zate che il L. ha assunto nella civiltà contempo- ranea, la
nostalgia di una vita puramente contem- plativa, la fede in una vita istintiva
che, se non è repressa dal L., riporta infallibilmente l’uomo al paradiso
perduto. LEGALISMO (ingl. Lepalism; franc. Lépa- lisme; ted. Legalismus).
L’atteggiamento che in- siste sulla osservanza letterale della legge. In
morale, è lo stesso che rigorismo (v.). Fuori della morale, consiste nel dare
eccessivo valore alle prescrizioni o ai procedimenti formali. LEGALITÀ (ingl.
Legality; franc. Légalité; ted. Legalitàt, Gesetzlichkeit). La conformità di
un’azione alla legge. Kant distinse la L. così intesa dalla vera e propria moralità.
«Il puro accordo o disaccordo di un’azione con la legge, egli disse, senza
riguardo al movente dell’azione stessa, si chiama L. (conformità alla legge);
quando in- vece l’idea del dovere derivata dalla legge è nello stesso tempo
movente dell’azione si ha la moralità (dottrina morale)» (Met. der Sitten,
Intr., $ III; cfr. Crit. R. Prat., I, cap. III. Questa distinzione era stata,
in forma più attenuata, introdotta per la prima volta da Tomasio per
distinguere la norma giuridica dalla norma morale (v. Diritto); e allo stesso
scopo se ne avvale Kant nella Metafisica dei costumi. LEGGE (gr. vépoc; lat.
Lex; ingl. Law; fran- cese Loi; ted. Gesetz). Una regola dotata di necessità,
intendendosi per necessità: 1° l'impossibilità (o l’im- probabilità) che la cosa
regolata accada altrimenti; oppure 2° una forza che garantisca la realizzazione
della regola. La nozione di L. è distinta da quella di regola e da quella di
norma. La regola (che è ter- mine generalissimo) può anche essere infatti priva
di necessità; e regole sono non solo le L. naturali o le norme giuridiche ma
anche le prescrizioni del- l’arte o della tecnica. La norma poi è una regola
che concerne soltanto le azioni umane e non ha di per sè valore necessitante:
pertanto non sono norme le leggi naturali e le regole tecniche; ed una norma,
ad esempio di natura morale, non è costrit- tiva allo stesso modo di una legge
giuridica. Da questo punto di vista esistono solo due specie di L.: le L. di
natura e le L. giuridiche. Poichè la nozione 521 di L. giuridica è stata
analizzata sotto la voce Di- RITTO, rimane qui da analizzare la nozione di L.
naturale. Si possono distinguere le seguenti fonda- mentali interpretazioni di
essa: 1° la L. come ra- gione; 2° la L. come uniformità; 3° la L. come
convenzione; 4° la L. come relazione simbolica. 1° La nozione della L. come
ragione è sorta nella Grecia antica dal trasferimento al mondo naturale di quel
concetto di giustizia o di ordine ch’era stato elaborato nei confronti del
mondo umano (cfr. JAE- GER, Paideia, I, cap. 6; trad. ital., I, pag. 212 ag.).
Anassimandro per primo trasferì la nozione di dike dal mondo della polis al
mondo della natura e intese il legame causale nel nascere e nel perire delle
cose come la L. che presiede a una contesa giudiziaria nella quale tutti gli
esseri, egli dice: « debbono reciprocamente pagarsi il fio della loro
ingiustizia nell’ordine del tempo» (Fr. 9, Diels). Eraclito a sua volta
concepiva questa L. come la stessa ragione o Logos: del quale, come egli diceva
«si nutrono tutte le L. umane» (Fr. 114, Diels). Per quanto Platone (cfr. Tim.
83€) e Aristotele (De Cael., I, 1, 268 a 13) usino solo eccezionalmente
l’espressione « L. di natura », il concetto della razio- nalità della natura e
della esprimibilità di tale razionalità in proposizioni universali e necessarie
è stato fatto prevalere proprio da loro nella storia della filosofia. Lucrezio
si servì dell’espressione « patto di natura» (foedus naturae; De nat. rer., V,
57, 924; VI, 906). E il concetto stoico del destino o della provvidenza è
l’espressione dello stesso punto di vista (Diog. L., VII, 149). Plotino ammet-
teva, anche per le cose che si sottraggono al destino, una legge che deriva per
esse direttamente dall'In- telletto divino (Enn., IV, 3, 15). La
soggettivazione delle L. di natura operata da Kant nel tentativo di vedere la
loro « sorgente » nell'intelletto e precisa- mente nelle forme a priori
dell’intelletto (categorie) non muta molto il concetto di L. naturale che ri-
mane, anche per Kant, l’espressione della raziona- lità della natura e sia pure
di una razionalità che nella natura (come fenomeno) è introdotta dallo stesso
intelletto. « Le L. naturali, dice Kant, se vengono considerate come princìpi
dell’uso empirico dell’intelletto hanno insieme l'impronta della ne- cessità e
quindi almeno la presunzione di una deter- minazione derivante da princìpi
valevoli in sè a priori e antecedentemente ad ogni esperienza. Tutte le L.
della natura, senza distinzione, sottostanno ai principi superiori
dell’intelletto e applicano tali princìpi a casi particolari del fenomeno.
Questi princìpi soltanto dànno il concetto che contiene la condizione, e per
così dire l’esponente di una re- gola in generale; ma l’esperienza dà il caso
che è sottoposto alla regola» (Crir. R. Pura, Analitica dei Princ., cap. II,
sez. 3). Schelling interpretava la 522 formulazione delle L. naturali come la
progressiva trasfigurazione della natura in razionalità. «La scienza della
natura, egli diceva, toccherebbe il sommo della perfezione se giungesse a
spiritualizzare perfettamente tutte le L. naturali in L. della intui- zione e
del pensiero. I fenomeni (il materiale) deb- bono scomparire interamente e
rimanere soltanto le L. (il formale). Accade perciò che, quanto più nel campo
della natura balza fuori la L., tanto più si dissipa il velo che l’avvolge, gli
stessi fenomeni si rendono più spirituali e infine spariscono del tutto. I
fenomeni ottici non sono altro che una geometria le cui linee sono tracciate
per mezzo della luce e questa luce stessa è già di dubbia materialità » (System
des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 1; trad. ital., pag. 8-9). Si
può dire che ogni interpretazione razionalistica della scienza faccia proprie,
in un certo grado, queste tesi di Schelling. La L. non è da questo punto di vista
che l’espressione della razionalità della natura; e la sua formulazione, da
parte della scienza, non ha che lo scopo di ridurre la natura a ragione. 2° La
concezione della L. naturale come di un rapporto costante tra i fenomeni è
stata proposta per la prima volta da Hume. La L. naturale è, secondo Hume, il
risultato di « un’esperienza fissa e inalterabile » (Ing. Conc. Underst., X,
1): l’espe- rienza della « congiunzione costante di oggetti si- mili», alla
quale si riduce il rapporto causale. La connessione abituale e costante tra
eventi diversi è quella che autorizza a parlare di causalità, con- sente la
previsione degli eventi futuri ed esclude il miracolo (/bid., VII, 2). Questa
concezione veniva adottata da Comte e con lui dalla scienza positi- vistica.
«Il carattere fondamentale della filosofia positiva, diceva Comte, è di
considerare tutti i fenomeni come soggetti a L. naturali invariabili, la cui
scoperta precisa e la cui riduzione al minimo numero possibile sono lo scopo di
tutti i nostri sforzi ». Queste L. consistono non già nell’esporre «le cause
generatrici dei fenomeni » ma solo espri- mono ciò che connette i fenomeni gli
uni con gli altri mediante « relazioni normali di successione e di simiglianza»
(Cours de phil. positive, I, lez. I, $ Il). Dallo stesso punto di vista, Stuart
Mill considerava le L. come casi speciali dell’uniformità della natura. «Le
varie uniformità, egli diceva, quanto sono accer- tate da ciò che è considerata
come un’induzione suf- ficiente sono dette, nel comune linguaggio, L. di na-
tura. Scientificamente parlando, il titolo è adoperato in senso più ristretto
per designare le uniformità che sono state ridotte alla loro espressione più
semplice » (Logic, III, 4, $ 1). Questa concezione ha dominato l’intero
positivismo classico ed è entrata in crisi sol- tanto col riconoscimento del
carattere economico delle L. naturali, effettuato da Mach. LEGGE 3° Il concetto
di L. naturale come convenzione nasce sul fondamento della funzione economica
che alla conoscenza scientifica aveva riconosciuto Mach. Egli aveva, a questo
proposito, affermato il carattere soggettivo delle L. naturali. Solo i nostri
concetti e la nostra intuizione, egli diceva, prescrivono L. alla natura. « Le
L. naturali sono le restrizioni che noi, guidati dall'esperienza, prescriviamo
alla nostra aspettazione dei fenomeni » (Erkenniniss und Irrtum, cap. 23; trad.
franc., pag. 368). Il progresso della scienza conduce a una restrizione
crescente delle possibilità di previsione cioè alla loro crescente de-
terminazione e precisione. Questo riconoscimento del carattere economico o
utilitario della scienza è stato, in filosofia, largamente incoraggiato dalla
filosofia di Bergson e dal pragmatismo. La prima, attribuendo all’intelligenza
soltanto la funzione vitale di fabbricare oggetti e di orientarsi nel mondo
naturale, faceva della scienza, che è la creazione dell’intelligenza, «
l’ausiliaria dell’azione » (BERGSON, La penseé et le mouvant, 3* ediz., 1934,
pag. 158) e non poteva riconoscere alle L. scientifiche alcuna validità
teoretica. Il pragmatismo, a sua volta, generalizzando la tesi della
strumentalità della co- noscenza, incoraggiava l’interpretazione delle L.
scientifiche come semplici strumenti dell’orienta- zione pratica dell’uomo nel
mondo. Alcune forme dello spiritualismo e dell’idealismo hanno interpre- tato
questa funzione economica della scienza come segno dell’inferiorità teoretica
della scienza stessa (talvolta dell’intero pensiero discorsivo) nei con- fronti
della filosofia e dei suoi organi specifici. Eduardo Le Roy, portando
all’estremo la critica di Bergson, affermò il carattere convenzionale della
scienza e perciò la natura arbitraria delle sue leggi. Il compito della scienza
è, secondo Le Roy, quello di trovare costanti utili; ed essa le trova perchè
l’azione umana non comporta una precisione asso- luta ma esige solo che la
realtà sia approssimativa- mente rappresentata, nei suoi rapporti con noi, da
un sistema di costanti simboliche chiamate L. (Science et philosophie,
1899-1900). La stessa tesi, in un’esagerazione quasi caricaturale, si può
trovare espressa da Croce: « Appunto perchè queste L., egli diceva, sono nostre
costruzioni e dànno come fisso il mobile, non solamente esse non sono inec-
cepibili e patiscono talvolta eccezioni, ma addirittura non vi ha fatto reale
che non sia eccezione alla sua L. naturalistica ». Ciò accade perchè non ci
sono uniformità rigorose e un orsacchiotto non è mai del tutto simile ai suoi
genitori. « Onde si potrebbe definire: le L. inesorabili della natura sono L.
che a ogni attimo vengono violate; e, per converso, le L. filosofiche sono
quelle che vengono in ogni attimo osservate... Le scienze naturali, che non
forniscono conoscenze vere, hanno ancora minore LEMMA diritto (se è lecito
esprimersi così) a parlare di pre- visione » (Logica, II, cap. 5; 4* ediz.,
1920, pag. 218). Contro la natura convenzionale delle L. si espresse Poincaré
polemizzando contro Le Roy. La L. non è una creazione arbitraria dello
scienziato, ma è l’espressione, approssimativa o provvisoria, di una costanza
d’azione che permette la previsione. È ben vero che talvolta qualche L. viene
elevata a prin- cipio e così sottratta al controllo dell’esperienza e
all’incessante revisione che essa comporta; ma in tal caso la L. cessa di
essere vera o falsa per diventare soltanto comoda; e il controllo continua ad
essere esercitato sulle relazioni che esprimono «il fatto bruto
dell’esperienza» (La valeur de la science, pag. 239). Poincaré osserva pure che
«lo scienziato crea nel fatto soltanto il linguaggio nel quale lo enuncia » ma
che, una volta enunciato una predi- zione in un determinato linguaggio « non
dipende evidentemente da lui che la predizione stessa si realizzi o non si
realizzi » (/bid., pag. 233). La stessa critica veniva rivolta alla tesi del carattere
convenzio- nale delle L. scientifiche da Moritz Schlick. Utiliz- zando la
distinzione tra enunciato e proposizione la quale è un enunciato dotato di
significato (in quanto compie realmente la funzione della comuni- cazione)
Schlick ritenne che «il contenuto proprio di una legge naturale consiste nel
fatto che a certe regole grammaticali (per. es., di una geometria)
corrispondono alcune proposizioni definite come descrizioni vere della realtà
». Poichè questo fatto è completamente invariante rispetto a ogni arbitrario
mutamento delle regole grammaticali, non si può effettuare la riduzione delle
L. di natura a mere convenzioni linguistiche. «Solo le proposizioni sono vere o
false, non gli enunciati. Gli enunciati infatti sono soggetti a modificazioni
arbitrarie ma questo non concerne chi si preoccupa della conoscenza dei fatti.
Con l’aiuto delle regole dei simboli (la cui grammatica egli deve certo
conoscere perchè senza di essa gli enunciati sarebbero privi di senso per lui)
egli può sempre giungere sino alle proposizioni genuine la cui verità non
dipende dalle predilezioni dei simboli » (Gesetz, Kausalitàt, und Wahrschein-
lichkeit, Vienna, 1948; ora in Readings in Phil. of Science, 1953, pag. 181
sgg.). 4° Le critiche di Poincaré e Schlick alla tesi della natura
convenzionale della L. scientifica muovono da quella che si può chiamare la
quarta concezione fondamentale della L. stessa, cioè la concezione della L.
come rapporto simbolico tra i fatti. Questa tesi è stata espressa per la prima
volta da Duhem nel suo libro sulla Teoria fisica e veniva da lui riassunta
così: « Una L. di fisica è una relazione simbolica la cui applicazione alla
realtà concreta esige che si conosca e si accetti tutto un insieme di teorie »
(Théorie physique, 1906, pag. 274). Questo 523 vuol dire che i termini
simbolici, che una legge mette in relazione, sono astrazioni prodotte dal
lavoro lento, complicato e consapevole che è servito a ela- borare le teorie
fisiche; e che questo lavoro non è mai definitivamente compiuto. « Ogni L. fisica,
dice Duhem, è una L. approssimata: di conseguenza, per il logico rigoroso, essa
non può essere nè vera nè falsa; ogni altra L. che rappresenti le stesse espe-
rienze con la stessa approssimazione può pretendere, con lo stesso diritto
della prima, al titolo di L. vera, o per parlare più rigorosamente, di L.
accettabile » (Ibid., pag. 280). Questi concetti sono rimasti sostan- zialmente
immutati nella filosofia contemporanea. Le osservazioni di Schlick contro la
convenzionalità delle L. naturali e in favore del carattere simbolico delle L.
stesse, costituiscono una conferma sostan- ziale dal punto di vista di Duhem.
Una L. è pur sempre un enunciato grammaticale e presuppone pur sempre la
grammatica del linguaggio in cui si esprime; ma per quanto tale grammatica
possa essere considerata convenzionale, non lo è il signi- ficato della L. in
quanto si riferisce a rapporti tra fatti, verificabilmente costanti e tali da
rendere possibile una previsione probabile. Per quanto la teoria di Duhem sia
stata formulata anteriormente al riconoscimento del carattere probabilistico
della scienza, quella che egli chiamava « approssimazione delle L. di natura »
lasciava la via aperta a quello che oggi si chiama carattere probabilistico
delle L. stesse. Piuttosto, la funzione che la metodologia delle scienze tende
oggi a riconoscere sempre più come predominante alla L. scientifica è la
capacità di previsione. « Una proposizione, ha detto Peirce, non può essere
chiamata ‘legge di natura’ finchè la sua capacità di previsione non sia stata
messa a prova e confermata in modo tale che nessun dubbio rimanga su di essa »
(Values in a Universe of Chance, pag. 290). Una L. è in generale una formula
per la previsione. Da questo punto di vista la L. cessa di avere la necessità
che la prima e la seconda inter- pretazione le riconoscevano. La sua validità
si mi- sura dalla sua efficienza; e questa efficienza dalla possibilità di
ottenere con essa previsioni che risul- tino sufficientemente corrette. LEGGE
BIOGENETICA. V. BIOGENETICA. LEGGE DEI TRE STADI. V. Posirivismo. LEGGE DELLA
MINIMA AZIONE. Vedi AZIONE MINIMA. LEGGE MODALE. V. MODALE. LEGGE PSICOFISICA.
V. PsicoLOGIA, b). LEIBNIZIANISMO. V. CARATTERISTICA; SPIRITUALISMO. LEKTON. V.
SignIFICATO. LEMMA (gr. Xfuua; ingl. Lemma; francese Lemme; ted. Lemma). 1. La
proposizione che si as- sume come prima premessa di un ragionamento 524
(ARisT., Top., VIII, 1, 156 a, 21; Dio. L. VII, 76; Cicer. De Div., II, 53,
108). In questo senso Kant chiamava L. la proposizione che una scienza assume senza
dimostrazione, desumendola da un’altra scienza (Crit. del Giud., $ 68; Logik, $
39). 2. Un teorema matematico laterale o subordi- nato, fuori della catena
deduttiva (LEIBNIZ, Nouv. Ess., IV, 2, 8). LENINISMO. V. Comunismo. LETIZIA
(gr. eòpposivn; lat. Laetitia). V. Giora. LEVIATANO (ingl. Leviathan). Dal nome
di un biblico mostro (Giob., 40, 20) Hobbes chiamò così « lo stato, in latino
civitas, che è un uomo arti- ficiale, benchè di più grande statura e forza
dell’uomo naturale, per la cui protezione e difesa fu ideato » (Leviath.,
Intr.); e dette questo titolo alla sua opera politica fondamentale (1561).
LIBERALISMO (ingl. Liberalism; franc. Libé- ralisme; ted. Liberalismus). La
dottrina che si assunse la difesa e la realizzazione della libertà nel campo
politico. Tale dottrina nasce e s’afferma nell'età moderna e può essere
considerata divisa in due fasi: 1° La fase settecentesca, caratterizzata
dall’indivi- dualismo; 2° la fase ottocentesca caratterizzata dallo statalismo.
1° La prima fase è caratterizzata dai seguenti indirizzi dottrinali che
costituiscono gli strumenti delle prime affermazioni politiche del L.: a) Il
giu- snaturalismo (v.) che consiste nel riconoscere all’in- dividuo diritti
originari e inalienabili; 5) Il con- trattualismo (v.) che consiste nel
considerare la società umana e lo stato come frutto di una convenzione fra
individui; c) Il L. economico, proprio della scuola fisiocratica, che combatte
l'intervento dello stato nelle faccende economiche e vuole che queste seguano
esclusivamente il loro corso naturale (v. ECoNOMIA); d) Come conseguenza
globale delle precedenti dottrine: la negazione del- l’assolutismo statale e la
riduzione dell’azione dello stato in limiti definiti, mediante la divisione dei
poteri (v. SATO). Il postulato fondamentale di questa fase del L. è la
coincidenza dell’interesse privato con l'interesse pubblico. Un giusnaturalista
e moralista come Bentham crede che basti al singolo seguire intelligentemente
il proprio piacere perchè persegua, contemporaneamente, il piacere di tutti gli
altri. E la dottrina economica di Adamo Smith è fondata sul presupposto analogo
della coincidenza tra il be- ninteso interesse economico del singolo e
l’interesse economico della società (v. INDIVIDUALISMO). 2° La seconda fase del
L. s’inizia quando questo postulato entra in crisi. Tale crisi ha i suoi
precedenti nelle dottrine politiche di Rousseau, Burke, e Hegel nonchè nel
fatto che il L. individualistico sembrava, sul terreno politico ed economico
realizzare la difesa di una classe determinata di cittadini (la LENINISMO
borghesia) anzichè della totalità dei cittadini stessi. Il Contratto sociale
(1762) di Rousseau costituisce già il capovolgimento dell’individualismo. I
diritti che il giusnaturalismo aveva riconosciuti agli indi- vidui appartengono,
secondo Rousseau, soltanto al cittadino. « Ciò che l’uomo perde per il
contratto sociale è la sua libertà naturale e il diritto illimitato a tutto ciò
che lo tenta e che può ottenere; ciò che guadagna è la libertà civile e la
proprietà di tutto ciò che possiede ». Ma in realtà solo « l'obbedienza alla
legge che ci si è prescritta è la libertà »: cosicchè solo nello stato l'uomo è
libero (Contrat social, I, 8). L’affermata infallibilità della « volontà gene-
rale » che risulta dalla « alienazione totale di ciascun associato con tutti i
suoi diritti a tutta la comu- nità » (/bid., I, 6) trasforma quella che per
l’indivi- dualismo è la coincidenza dell'interesse singolo con l’interesse
comune nella coincidenza, preliminare e garantita, dell’interesse statale con
l’interesse sin- golo. In tal modo si veniva riaffermando quella superiorità
dello stato sull’individuo contro la quale il L. era insorto nella sua prima
fase. Tale superio- rità viene riconfermata anche da Burke. «La so- cietà è un
contratto, egli diceva. Ma se i contratti per oggetti di interesse occasionale
possono essere sciolti a piacere, non si può considerare lo stato come niente
di meglio che un accordo di parti in un commercio di pepe e caffè... Si deve
considerarlo con reverenza perchè non è la partecipazione a cose che servono
soltanto all’esistenza animale...: è una società in tutte le scienze, in tutte
le arti, in tutte le virtù e in ogni perfezione » (Reflections on the
Revolution in France, 1790; Works, II, pa- gina 368). Ma il culmine di questo
nuovo ricono- scimento dello stato si ha con la dottrina di Hegel per la quale
esso è « l’ingresso di Dio nel mondo + e per cui il suo fondamento è «la
potenza della ragione che si realizza come volontà» (Fil. del Dir., $ 258,
Zusatz). Concordava con questa esal- tazione dello stato l’altra branca del
romanticismo ottocentesco, il positivismo. Questo, con Comte, preconizzava uno
statalismo egualmente assolu- tistico di quello hegeliano (Systéme de politique
positive, 1851-54; IV, pag. 65) e con Stuart Mill, pur senza indulgere a
concessioni assolutistiche, faceva larga parte all’azione dello stato proprio
in quel dominio che il liberalismo classico voleva riservato esclusivamente
all’iniziativa individuale: il dominio economico (Principles of Political
Economy, 1848). Il saggio Su/la Libertà (1859) di Stuart Mill tendeva, nello
stesso tempo, a togliere la libertà dal novero delle condizioni indispensabili
per l’eser- cizio dell'attività morale giuridica economica, ecc. (secondo la
concezione del L. classico) e a farne un ideale o un valore in sè cioè
indipendente dalle possibilità che offre. Ciò non toglie che lo scritto LIBERTÀ
sia uno delle più nobili e appassionate difese della libertà stessa. Il sec. xx
nei suoi primi decenni ha visto la conti- nuazione di questo L. statalista.
Idealismo inglese e idealismo italiano insistettero sul carattere divino dello
stato. Così fece Bernardo Bosanquet nello scritto The Philosophical Theory of
the State (1899) e così fece Gentile identificando lo stato con l’Io assoluto
(Genesi e struttura della società, postumo, 1946). L'ispirazione hegeliana
prevaleva d’altronde anche nella dottrina di Croce il quale tuttavia rima- neva
fedele all’ideale classico della libertà, cui ren- deva pratica testimonianza nel
periodo del fascismo. Per Croce infatti il L. è la stessa dottrina dello svol-
gimento dialettico della storia, che tutto assolve e giustifica, anche
l’assolutismo e la negazione della libertà (Etica e politica, 1931, pag. 290).
Di questa stessa forma di L. (al quale direttamente si collega attraverso
Hegel) si può considerare una manifesta- zione lo stesso socialismo marzxistico
(v. MATERIA- LISMO). I partiti politici che dai primi dell’ottocento in poi
hanno innalzata la bandiera liberale si sono ispirati all’uno o all’altro degli
indirizzi fondamen- tali ora espressi cioè o all’individualismo o allo
statalismo. Pertanto un coacervo di indirizzi poli- tici disparati e talora
opposti hanno potuto richia- marsi al L. (su di essi vedi DE RucGiERO, Storia
del L. europeo, 1925). Si sono infatti richiamati ad esso partiti che hanno
negato il valore dello stato (come il radicalismo inglese del secolo scorso) e
par- titi che lo hanno esaltato (come la cosiddetta « destra storica »
nell'Italia postrisorgimentale); par- titi che hanno negato ogni ingerenza
dello stato in materia economica (come fanno tuttora alcuni par- titi liberali
europei) e partiti che invece invocano l'intervento dello stato nell’iniziativa
e nella dire- zione degli affari economici; infine partiti che hanno ritenuto
la libertà condizione operante d’ogni attività umana e partiti che l’hanno
relegata nell’em- pireo dei puri « valori ». Questi contrasti sono la
manifestazione evidente del carattere composito della dottrina liberale. E a
sua volta questo carat- tere composito dipende dal modo approssimativo e
confuso con cui è stata trattata la nozione che dovrebbe essere fondamentale
per il L.; quella di libertà. Il ricorso casuale o surrettizio all’uno o
all’altro dei concetti di libertà che sono stati ela- borati nella storia del
pensiero filosofico ha reso l’idea liberale in politica confusa e oscillante e
l'ha talora condotta alla difesa o alla accettazione della non libertà (v.
LIBERTÀ). LIBERO ARBITRIO. V. LiBERTÀ. LIBERTÀ (gr. #ev0epla; lat. Libertas;
in- glese Freedom, Liberty; franc. Liberté; ted. Freiheit). Il termine ha tre
significati fondamentali, corrispon- 525 denti a tre concezioni che si sono
intersecate nel corso della sua storia e che possono essere caratte- rizzate
nel modo seguente: 1° la concezione della L. come autodeterminazione o
autocausalità, secondo la quale la L. è assenza di condizioni e di limiti; 2°
la concezione della L. come necessità, che si fonda sullo stesso concetto della
precedente, cioè su quello di autodeterminazione, ma attribuisce
l’autodeterminazione stessa alla totalità (Mondo, Sostanza, Stato) cui l'uomo
appartiene; 3° la con- cezione della L. come possibilità o sceltà, secondo la
quale la L. è limitata e condizionata, cioè finita. Non costituiscono concetti
diversi di L. le forme che la L. assume nei vari campi, per es., la L.
metafisica, la L. morale, la L. politica, la L. economica, ecc. Le dispute
metafisiche, morali, politiche, economiche, ecc., intorno alla L. sono infatti
dominate dai tre concetti in questione, ai quali pertanto sono ricon- ducibili
le forme specifiche di L. intorno a cui tali dispute vertono. 1° La prima
concezione della L., quella per cui essa è assoluta, incondizionata e quindi
non subisce limitazioni e non ha gradi, è stata espressa dicendo che è libero
ciò che è causa di se stesso. Questa concezione è stata per la prima volta
affacciata da Aristotele. Sebbene l’analisi aristotelica della volontarietà
delle azioni, sembra che faccia appello al concetto della L. finita, la
definizione di ciò che è volontario è quella della L. infinita: volontario è
cioè che è « principio di se stesso ». Aristotele co- mincia col dire che la
virtù dipende da noi e così pure il vizio. « Nelle cose infatti, egli prosegue,
in cui l’agire dipende da noi, anche il non agire dipende da noi; e là dove
siamo in grado di dir no, possiamo anche dir si. Sicchè se il compiere
un’azione bella dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere un’azione
brutta » (Er. Nic., III, 5, 1113 b 10). Questo è quanto già Platone aveva detto
nel mito di Er. Ma per Aristotele questo significa che «l’uomo è il principio e
il padre dei suoi atti, come dei suoi figli » (/bid.). Difatti «solo per colui
che ha in se stesso il suo proprio principio, l’agire o il non agire dipende da
se stesso » (/bid., III, 1, 1110 17); sicchè l’uomo «è il principio dei suoi
atti » (/bid., III, 3, 1112 b 15-16). Questa nozione di « principio di se
stesso » è la definizione della L. incondizionata. Essa ricorre, per es., in
Cicerone. « Per i moti volontari dell'anima, egli dice, nonèda richiedersi una
causa estranea giacchè il movimento è in nostro potere e dipende da noi: nè
perciò è senza causa, dato che la sua causa è la sua stessa natura » (De Fato,
11). La nozione di L. aveva in Epicuro lo stesso significato di
autodeterminazione assoluta: autodeterminazione che egli faceva risalire agli
atomi cui attribuiva il potere di deviare dalla propria traiettoria. Dice
Lucrezio: « Noi possiamo deviare i nostri movimenti 526 senza essere
determinati nè dal tempo nè dal luogo ma secondo che ci ispira lo spirito;
giacchè senza dubbio è la volontà il principio di quegli atti e da essa. il
movimento si espande in tutte le membra» (De nat. rer., II, 260). La nozione
della L. come autocausalità o autodeterminazione (aòrtorpayia) è a fondamento
anche del concetto della L. come necessità. Gli Stoici ammettevano che fossero
libere le azioni che hanno in se stesse la loro causa o il loro principio: «
Solo il sapiente è libero, essi dicevano, e tutti i malvagi sono schiavi, giacchè
la L. non è altro che l’autodeterminazione, mentre la servitù è la privazione
dell’autodeterminazione » (Diog. L., VII, 121). Epitteto, conseguentemente
chiamava «libere » le cose che sono «in nostro potere » cioè gli atti dell'uomo
che hanno il loro principio nell'uomo stesso (Diss., I, 1). Questo concetto si
è trasmesso per tutto il Medio Evo. Origene lo ha per primo difeso nel mondo
cri- stiano, chiarendolo nel senso che la L. consiste non soltanto nell'avere
in sè la causa dei propri movimenti ma nell’essere questa causa. Questa
definizione, che si applica a tutti gli esseri viventi, privilegia l’uomo
perchè la causa dei movimenti umani è ciò che l’uomo stesso sceglie come
movente, in quanto giudice e arbitro delle circostanze esterne (De Princ., III,
5). Considerazioni analoghe ricor- rono nel De Libero arbitrio di Sant'Agostino
(cfr. ad es.: I, 12; III, 3; III, 25). «Sente che l’animo si muove da sè colui
che sente in sè la volontà » dice egli altrove (De div. quaest. 83, 8). Alberto
Magno chiamava libero l’uomo che è causa di sé e che il potere altrui non può
costringere (S. Th., II, 16, 1). E per San Tommaso: « Il libero arbitrio è la
causa del proprio movimento perchè l’uomo, per il libero arbitrio, determina se
stesso ad agire ». San Tommaso aggiunge che non è necessario, affinchè ci sia
L., che l’uomo sia la prima causa di se stesso e difatti non lo è, perchè tale
prima causa è Dio. Ma la Prima causa non toglie nulla alla autocausalità
dell’uomo (S. Th., I, q. 83, a. 1; cfr. Contra Gent., II, 48). L’ul- tima
scolastica, mantenne questo concetto di L.; accentuò anzi l’indifferenza della
volontà rispetto ai suoi possibili determinanti. Duns Scoto afferma che «la L.
della nostra volontà consiste nel potersi determinare ad atti opposti, sia successivamente
che nel medesimo istante » (Op. Ox., I, d. 39, q. 5, n. 16). E questa
determinabilità ad atti opposti esprime la perfetta indifferenza della volontà
rispetto ad ogni motivazione possibile. Ockham, pur negando la possibilità
simultanea di atti opposti, sottolinea ugualmente l'indifferenza assoluta della
volontà: «Per L., egli dice, s'intende il potere per il quale posso
indifferentemente e contingentemente porre cose diverse, sicchè posso causare e
non causare lo stesso effetto, senza che ci sia nessuna diversità LIBERTÀ
tranne che in questo potere» (Quod/., I, q. 16). Ockham non ritiene tuttavia
che si possa dimostrare che la volontà sia libera in questo senso. La L. si può
solo conoscere per esperienza giacchè « l’uomo sperimenta che, per quanto la
ragione gli detti qualcosa, la volontà può tuttavia volerla e non vo- lerla »
(/bid., I, q. 16). Buridano osservava a questo proposito che la L. non consiste
nel poter non seguire il giudizio dell’intelletto; giacchè se l’intelletto
rico- noscesse con evidenza due beni come perfettamente uguali, non potrebbe
decidersi nè per l’uno nè per l’altro; consiste invece nel poter sospendere o
impe- dire il giudizio dell’intelletto (/Zn Eth., II, q. 1-4). Così poneva le
premesse del caso che si chiamò dell’Asino di Buridano (v.): il quale, non
avendo L., muore di fame nella condizione in cui l’uomo, invece, può sospendere
il giudizio ed effettuare arbitrariamente la scelta. Il concetto di autopraghia
o causa sui ricorre frequentemente nella filosofia moderna e contem- poranea. «
La sostanza libera, dice Leibniz, si de- termina da se stessa cioè seguendo il
motivo del bene appercepito dall’intelligenza, che la inclina senza
necessitarla: tutte le condizioni della L. sono com- prese in queste poche
parole » (Théod., III, $ 288). Questo stesso concetto persuase Kant ad
ammettere il carattere « noumenico » della libertà. « Se si deve ammettere la
L., egli dice, come proprietà di certe cause dei fenomeni, essa deve, in
rapporto ai feno- meni come eventi, essere la facoltà di iniziare da sé
(sponte) la serie dei propri effetti, senza cioè che l’attività della causa
debba avere un inizio e senza che abbisogni di un’altra causa che determini
tale inizio » (Proleg., $ 53). La « facoltà di iniziare da sè un evento +, è
esattamente la causa sui del concetto tradizionale di libertà. Questa è anche
chiamata nello stesso senso «spontaneità assoluta» cioè attività che non riceve
altra determinazione che da se stessa (Crit. R. Prat., I, libro I, cap. III,
Delucidazione critica). Ma proprio come causa sui o spontaneità assoluta, «la
causa libera non può essere nei suoi stati sottomessa a determinazioni di
tempo, non dev’essere un fenomeno, dev'essere una cosa in sè e soltanto i suoi
effetti sono da ritenersi fenomeni + (Proleg., $ 53). Kant ha voluto conciliare
la L. umana, come potere di autodeterminazione, con il determinismo naturale
che per lui costituisce la razionalità stessa della natura; perciò ha
considerato la L. come noumeno, ritenendo che ciò che da un punto di vista
(quello dei fenomeni) può considerarsi come necessità, da un altro punto di
vista (quello del noumeno) può considerarsi come libertà. Ma il concetto di L.
non è stato per nulla innovato da questo artificio kantiano. Lo stesso concetto
si trova espresso da Fichte: « L’assoluta attività, egli dice, la si chiama
anche libertà. La L. è la rappre- LIBERTÀ sentazione sensibile
dell’auto-attività » (Siftenlehre, Intr., 7, in Werke, IV, pag. 9). Allo stesso
concetto fa appello anche oggi ogni forma di indeterminismo (v.). Nelle forme
spiritua- listiche dell’indeterminismo (che sono le più diffuse)
l’autodeterminazione viene considerata come una esperienza interna
fondamentale, come una specie di creazione «interiore». Essa diventa la stessa
« autocreazione dell’io ». Dice Maine de Biran: « La L. o l’idea di L., presa
nella sua sorgente reale, non è che il sentimento stesso della nostra attività
o di questo potere di agire, di creare lo sforzo costitutivo dell’io » (Essai
sur les fondements de la psychologie, 1812, in CEuvres, ed. Naville, I, pa-
gina 284). Una concezione analoga si può trovare nel Mikrokosmus di Lotze (I,
pag. 283 sgg.) e, con qualche attenuazione, nella Nouvelle Monadologie, di
Renouvier (pag. 24 sgg.). Lo spiritualismo fran- cese con Sécretan, Ravaisson,
Lachelier, Boutroux, Hamelin, si attiene strettamente allo stesso concetto. «La
conoscenza delle leggi delle cose, dice Bou- troux, ci permette di dominarle e
così, lungi dal nuo- cere alla nostra L., il meccanismo la rende efficace ».
Pertanto non solo le cose interne, come voleva Epit- teto, ma anche quelle
esterne dipendono da noi (De l’idée de loi naturelle, 1895, pag. 133, 143). Da
questo punto di vista il motivo non è la causa necessitante dell’azione umana:
la volontà dà la sua preferenza a un motivo piuttosto che a un altro e il
motivo più forte non è tale indipendentemente dalla volontà, ma proprio in
virtù di essa (La contingence des lois de la nature, 1874, pag. 124). Il
concetto bergsoniano di L. non fa che riesprimere questa stessa tesi. Bergson
afferma che il concetto che egli difende della L. è situato tra la nozione di
L. morale cioè della «indipendenza della persona di fronte a tutto ciò che non
è essa stessa » e la nozione di libero arbitrio, secondo il quale ciò che è
libero « dipende da sè come un effetto dipende dalla causa che lo determina
necessariamente ». Contro questa ultima concezione Bergson obbietta che gli
atti liberi sono impreve- dibili e che perciò ad essi non può applicarsi la
causalità, secondo la quale cause uguali hanno effetti uguali. La L. rimane
perciò indefinibile; e va identificata con lo stesso processo della vita co-
sciente, cioè con la durata reale (Essais sur /es données immédiates de la
conscience, 1899, pa- gina 131 sgg.). Ma in realtà il concetto di libero arbitrio
faceva leva proprio sulla imprevedibilità dei fatti umani (i cosidetti « futuri
contingenti +) e sulla autocausalità della volontà. La dottrina bergsoniana
nega l’indifferenza della volontà ai motivi solo per sostenere che la volontà
crea o costituisce i motivi e conferisce ad essi la forza determinante di cui
dispongono. Ma in tal modo l’autodeterminazione rimane la definizione della
libertà; e come tale ri- 527 mane anche nel concetto (proposto da F. LOMBARDI,
La libertà del volere e l'individuo, 1941, p. 192) di un atto 0 movimento che
«si riproduce o si pro- duce di continuo» e che in questa autoproduzione
trascina con sè « l’intero mondo in cui opera ». Nè ha un senso diverso la
dottrina di Sartre per la quale la L. è la scelta che l’uomo fa del suo essere
proprio e del mondo. « Ma precisamente perchè si tratta di una scelta, Sartre
dice, questa scelta, nella misura in cui si effettua, designa in generale altre
scelte come possibili. La possibilità di queste altre scelte non è nè resa
esplicità nè posta, ma è vissuta nel senti- mento d’ingiustificabilità e si
esprime nel fatto del- l’assurdità della mia scelta e, per conseguenza, del mio
essere. Così la mia L. divora la mia libertà. Essendo libero, io progetto il
mio possibile totale, ma pongo con ciò che sono libero e che posso annientare
questo primo progetto e confinarlo nel passato » (L’érre et le néant, pag.
560). Ma una scelta che non ha nulla da scegliere, cioè non è limitata da
condizioni determinate, è una scelta solo di nome; in realtà, è un’autocreazione
gratuita. La dottrina di Sartre non fa che portare all’estremo il vecchio
concetto della L. come autocausalità. A questo concetto fanno appello sia
l’indetermi- nismo che il determinismo. Ciò che il determinismo nega è ciò che
l’indeterminismo afferma: la possi- bilità di una causa sui. Si è visto come
Kant stesso la ritenesse impossibile nel dominio dei fenomeni e la rinviasse al
dominio del noumeno: così fa pure Schopenhauer che ritiene valide le ragioni
addotte da Priestley nella sua Dottrina della necessità filosofica (v.
DETERMINISMO) e afferma che la L. come autocausalità è soltanto della volontà
come forza noumenica o metafisica, della volontà come principio cosmico (Die
Welt, I, $ 55). In generale il determinismo consiste nel ritenere universale la
portata del principio di causalità nella sua forma empirica e pertanto nel
negare la causalità auto- noma. Claude Bernard in questo senso affermava
l’inerzia dei corpi viventi, come di quelli inorga- nici, cioè l’incapacità di
tali corpi e darsi da sè il movimento; e vedeva nel riconoscimento di tale
inerzia la condizione per il riconoscimento del determinismo assoluto (Intr. d
/’étude de la méde- cine expérimentale, 1865, II, 8). L’equivalente politico
della concezione della L. come auto-causalità è la nozione della L. come
assenza di condizioni o di regole, rifiuto d’ogni obbligazione e, in una
parola, anarchia. Il più delle volte, questo concetto viene utilizzato come
strumento polemico per negare la L. stessa. Così fece per primo Platone quando
volle mostrare come dalla troppa L. concessa dal regime democra- tico nascono
la tirannide e la schiavitù. Difatti il rifiuto costante di ogni limite e
restrizione 528 « rende i cittadini così ombrosi che non appena si propone
qualcosa che sembri minacciare la loro libertà, essi si dolgono e si ribellano
e finiscono per ridersi delle leggi scritte o non scritte, perchè non vogliono
in alcun modo sottoporsi a un padrone » (Rep., VIII, 563 d). La L. qui è intesa
(non tuttavia da Platone, per il quale vedi oltre) come assenza di misura,
rifiuto di ogni norma. L’illimitato potere su tutto, nel quale secondo Hobbes
consiste la L. allo stato di natura (De cive, I, $ 7) ha lo stesso significato.
Filmer credeva infatti di esprimere il significato della dottrina di Hobbes
quando diceva: « La L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, nel
vivere come gli piace, senza esser vincolato da alcuna legge » (Observations
upon Mr. Hobbes’s Leviathan, 1652, pag. 55). Ma forse la migliore e più
coerente espressione di questa no- zione di L. è l'Unico di Max Stirner:
l’individuo che non ha alcuna causa fuori di sè, che è lui la sua stessa causa
e la causa di tutto. In questa forma estrema la tesi della L. anarchica viene
difesa assai rara- mente: assai spesso invece viene presupposta come termine
polemico ed a essa vengono in buona o mala fede ricondotte le altre concezioni
della L. politica. 2° La seconda concezione fondamentale della L. è quella che
la identifica con la necessità. Questa concezione è strettamente imparentata
con la prima. Il concetto di L. cui fa riferimento è ancora quello di causa
sui; ma, come tale, la L. viene attribuita non alla parte ma al tutto: non
all’uomo singolo ma all’ordine cosmico o divino, alla Sostanza, all’Assoluto,
allo Stato. L'origine di questa conce- zione è negli Stoici. Come già si è
visto, gli Stoici ritenevano che «la L. consiste nell’autodetermina- zione e
che pertanto solo il sapiente è libero» (Diog. L., VII, 121). Ma perchè il
sapiente è libero? Perchè egli solo segue una vita conforme alla natura: egli
solo cioè si conforma all’ordine del mondo, al destino (Diog. L., VII, 88;
StoBeo, F/or., VI, 19; CiceR., De Fato, 17). La L. del sapiente coincide
pertanto con la necessità dell’ordine cosmico. Crisippo tuttavia tentò di sfuggire
a questa conse- guenza. Egli distingueva le cause perfette e principali dalle
cause ausiliarie e prossime. Il destino opera soprattutto attraverso le prime;
ma tra le ultime c'è l’assenso che l’uomo dà alle cose e di conse- guenza la
sua azione. Accade come nel caso di un cilindro cui una piccola spinta basta
per roto- lare su un piano inclinato: la natura del cilindro e del piano fanno
sì che esso continuerà a rotolare una volta che sia stato spinto, ma affinchè
ciò accada occorre la spinta. Allo stesso modo, l’ordine delle cose fa sì che
un'azione una volta iniziata continui in un certo modo; ma ad iniziarla occorre
l’assenso dell’uomo e questo assenso rimane in potere di lui (Cicer., De Fato,
18-19). Tuttavia, LIBERTÀ anche per Crisippo la L. non è che l’adeguarsi
dell’assenso umano all’ordine del mondo: le cause ausiliarie infatti non cadono
fuori dell'ordine ne- cessario del mondo più che non cadano fuori di esso le
cause principali, e la spinta che fa rotolare il cilindro appartiene a
quell’ordine come la forma del cilindro e il piano sul cui rotola. Da questo
punto di vista, negare che l’uomo come tale sia libero o affermare che esso è
libero in quanto manifestazione dell’autodeterminazione cosmica o divina, è la
stessa cosa. Tutto ciò appare chiarissimo nella formulazione spinoziana.
Secondo Spinoza, « si dice libera la cosa che esiste solo per la necessità
della sua natura e che da sè sola è determinata ad agire; mentre è necessaria o
coatta la cosa che è indotta ad esistere e ad agire da un’altra cosa, secondo
una certa e determinata ragione» (Er., I, def. 7). In questo senso Dio solo è
libero perchè egli solo agisce in base alle leggi della sua natura e senza
essere costretto da nessuno (/bid., I, 17, coroll. II); mentre l’uomo, come
ogni altra cosa, è determinato dalla necessità della natura divina e può
credersi libero solo in quanto ignora le cause delle sue volizioni e dei suoi
desideri (/bid. I app.; II, 48). Tuttavia l’uomo stesso può diventar libero se
è guidato dalla ragione (Ibid. IV, 66 scol.): se cioè agisce e pensa soltanto
come parte della Sostanza infinita e riconosce in sè la necessità universale di
essa (/bid., V, VI, scol.). In altri termini l’uomo di- venta libero mediante
l’amore intellettuale di Dio (che è per l’appunto la conoscenza della necessità
di- vina): amore che è identico con quello con cui Dio ama se stesso (/bid. V,
36 scol.). Nessuna innovazione è apportata a questo punto di vista dalla
elaborazione e amplificazione che la filosofia romantica ne ha fatto. Schelling
afferma esplicitamente la coincidenza di libertà e necessità. « L’Assoluto,
egli dice, opera per mezzo di ogni singola intelligenza, cioè la sua azione è
anche assoluta in quanto non è nè libera nè priva di L. ma l’uno e l’altro
insieme: assolu- tamente libera, perciò anche necessaria + (System des
transzendentalen Idealismus, IV, E). Le Ri- cerche filosofiche sull'essenza
della L. umana (1809) dello stesso Schelling, trasferiscono in Dio, o meglio
nella natura o fondamento di Dio, l’atto con cui l’uomo sceglie quella natura o
fondamento da cui ogni sua inclinazione o azione sarà determinata. La tendenza
ad attribuire all’Assoluto la L. e a identificarla con la necessità si
chiarisce così come la caratteristica propria della concezione romantica.
Hegel, a questo proposito, contrappone «il con- cetto astratto della L.» cioè
la L. come esigenza o possibilità, alla « L. concreta » che è la «L. reale» o
«la realtà stessa» dello spirito o degli uomini (Enc., $ 482; Fil. del dir., $
33, Zusatz). Questa L. reale che è la realtà stessa dell’uomo è lo Stato,
LIBERTÀ il quale appunto perciò è considerato da Hegel come «Iddio reale »
(Fil. del dir., $ 258, Zusatz). Lo stato è «la realtà della L. concreta»
(/bid., 8 260). Ciò significa che esso «è la realtà in cui l’individuo ha e
gode la sua L., in quanto però l’individuo stesso è scienza, fede e volontà
dell’uni- versale. Così lo stato è il centro degli altri aspetti concreti della
vita cioè del diritto, dell’arte dei co- stumi, degli agi. Nello stato la L. è
realizzata og- gettivamente e positivamente ». Questo non signi- fica che la
volontà soggettiva del singolo si realizza mediante la volontà universale, che
sarebbe quindi un mezzo per essa; ma piuttosto che la volontà universale si
realizza attraverso i cittadini che sotto questo aspetto sono suoi strumenti. «
Sono piut- tosto il diritto, la morale, lo stato, e solo essi la positiva
realtà e soddisfazione della libertà. L’ar- bitrio del singolo non è libertà.
La L. che viene limitata è l’arbitrio, concernente il momento par- ticolare dei
bisogni» (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, I, pag. 90). Questa
coincidenza di L. e necessità che conduce ad attribuire la L. stessa sol- tanto
all’Assoluto o alla sua realizzazione nel mondo, che è lo Stato, da un lato è
rimasta a caratterizzare tutte le dottrine di derivazione romantica, dall’altro
è stata utilizzata, fuori dell'ambito di tali dottrine, per la difesa
dell’assolutismo statale e per il rifiuto del liberalismo politico. Gentile e
Croce condivisero quella dottrina: il primo identificando la L. con la
necessità dialettica dell’Assoluto (Teoria generale dello spirito, XII, $ 20)
il secondo identificando la L. con «la creatività delle forze che si chiamano
individuali e coincidono con l’unità dell’ Universale » (Storiografia e
idealità morale, pag. 58). Ma la con- divise pure Martinetti affermando che la
L. non è che la spontaneità della ragione e che la spontaneità della ragione
non è che la necessità stessa sicchè in ogni caso si identificano L. e
spontaneità, spon- taneità e concatenazione necessaria (La libertà, 1928, pag.
349). In forma diversa, la dottrina ritorna in alcune manifestazioni della
filosofia contempo- ranea, per es., nel realismo di Nicolai Hartmann e nel-
l’esistenzialismo di Jaspers. Secondo Hartmann, la L. consiste nel fatto che,
per ogni piano dell’essere, al determinismo dei piani inferiori si aggiunge il
determinismo proprio del piano stesso. I piani, in altri termini, sono
contingenti l’uno rispetto all’altro in quanto ognuno ha una forma specifica di
determi- nismo non riducibile a quella dei piani inferiori; la L. non è che il
superdeterminismo di un piano dell’essere rispetto agli altri. Dice Hartmann: «
La L. in senso po- sitivo non è un minus ma un plus nella determina- zione. Il
nesso causale non permette un minus perchè la sua legge afferma che una serie
di effetti, una volta in corso, non può essere arrestata in alcun modo. Ma
ammette invece un plus — se questo c'è — 34 — ABBAGNANO, Dizionario di
filosofia. 529 perchè la sua legge non afferma che agli elementi di
determinazione causale di un processo non pos- sano aggiungersi altri elementi
di determinazione » (Erhik, pag. 649). Sul piano dello spirito, questo plus di
determinazione è costituito dalla teleologia propria dell’uomo, che impone ai processi
causali fini desunti dalla sfera dei valori. Ma è ovvio che in questo senso la
L. non è altro che l’aggiunta di un determinismo « superiore » ai determinismi
inferiori: è cioè l’autodeterminazione dei piani, che si aggiunge alla
determinazione esterna. Nello stesso senso, Jaspers afferma l’unità di L. e
necessità, espressa nella formula « io posso perchè devo + (nel senso della
necessità di fatto, /ch muss: Phil., II, pag. 186, 195). In questo caso la L.,
l’autodeterminazione, appar- tiene alla situazione esistenziale totale, di cui
l’io è l’espressione. Siamo sempre nell’ambito della conce- zione che
identifica la L. con l’autocausalità di una totalità metafisica (o politica o
sociale, ecc.) cioè con la necessità con cui tale totalità si realizza. Questa
dottrina è stata talora difesa da filosofi o scrittori di spiriti liberali, ma
è in realtà l’insegna stessa dell’antiliberalismo moderno. Difatti, sul piano
me- tafisico, essa riconosce come soggetto di L. soltanto l’essere, la
sostanza, il mondo e sul piano politico soltanto lo stato, la chiesa, la razza,
il partito, ecc.; e attribuisce alla totalità così privilegiata un po- tere di
autocausalità o autocreazione che è un altret- tanto assoluto potere di
coercizione sugli individui, che ne sono considerati le manifestazioni o le
parti. 3° Mentre le prime due concezioni della L. hanno un nucleo concettuale
comune, la terza non fa appello a questo nucleo perchè intende la L. come
misura di possibilità, quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso
la L. non è auto- determinazione assoluta e non è quindi un tutto od un nulla,
ma piuttosto un problema sempre aperto: il problema di determinare la misura,
la condizione o la modalità della scelta che può garan- tirla. Libero, in
questo senso, non è chi è causa sui o si identifica con una totalità che è
causa sui; ma chi possiede, in un grado o misura determinata, possibilità
determinate. Platone per primo ha enun- ciato il concetto che la L. consista in
una « giusta misura» (Leggi, 693€); ed ha illustrato questo concetto nel mito
di Er. In questo mito si dice che le anime, prima di incarnarsi, sono condotte
a scegliere il modello di vita cui poi rimarranno legate. « Per la virtù,
annuncia la parca Làchesi, non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a
se- conda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta,
la divinità è fuori causa? (Rep., X, 617e). Ma l’importante è che questa
scelta, di cui ciascuno è l’autore, e la cui causa- lità per ciò non può essere
addossata alla divinità, è limitata in un senso dalle possibilità oggettive,
530 cioè dai modelli di vita disponibili, ein un altro senso dalla motivazione
giacchè, come dice Platone, «la maggior parte delle anime sceglie secondo la
consue- tudine della vita precedente» (/bid., 620a). La situazione mitica qui
illustrata è esattamente quella di una L. finita cioè di una scelta tra
possibilità determinate e condizionata da motivi determinanti. Una tale L. è
delimitata: 1° dal rango delle possi- bilità oggettive che sono sempre più o
meno ristrette di numero; 2° dal rango dei motivi della scelta che possono
ancora restringere, fino all’unità, il rango delle possibilità oggettive.
Pertanto questo concetto di L. è una forma di determinismo, sebbene non di
necessitarismo: ammette la determinazione del- l’uomo da parte delle condizioni
cui la sua attività risponde, senza ammettere che a partire da tali condizioni
la scelta sia infallibilmente prevedibile. Questo concetto di L. è andato
interamente smarrito nell’antichità e nel Medio Evo per la prevalenza del
concetto di L. come causa sui. Quando si è riaffacciato, ai principi dell’età
moderna, ha assunto, in polemica con la nozione di libero arbitrio, la forma
della negazione della L. di volere e dell’affermazione della L. di fare. In
questa forma si trova espressa da Hobbes. Questi, identificando la volontà con
l’appetito, afferma che non si può non volere ciò che si vuole (non si può non
aver fame quando si ha fame, non aver sete quando si ha sete, ecc.); ma si può
fare o non fare ciò che si vuole (mangiare o non mangiare quando si ha fame,
ecc.). Esiste quindi una L. di fare, non una L. di volere (De Homine, 11, $ 2;
De Corp., 25, $ 13). Questa dottrina veniva sostanzialmente accolta da Locke,
che definiva la L. come « il fatto per cui si è in grado di agire o non agire
secondo che si scelga o si voglia» (Saggio, II, 21, 27). Ma in Locke la
dottrina stessa si complica e diventa confusa, perchè da un lato egli distingue
l’appetito dalla volontà che ritiene costituita da un potere di scelta o di
preferenza o di inibizione (cioè di sospensione del desiderio, /bid., II, 21,
48); dall’altro ammette che tale scelta o preferenza o inibizione sia
necessaria- mente determinata dal motivo (che egli identifica in un primo tempo
con il desiderio del bene, in un secondo tempo con il disagio proprio del
desiderio, Ibid., II, 21, 31). Non si vede pertanto come, da questo punto di
vista, possa parlarsi di L. di fare o di non fare, dato che la scelta stessa o
la preferenza accordata all’uno o all’altra di queste alternative è
necessariamente determinata. Comunque, l’inten- zione della dottrina di Locke è
chiara: essa tende da un lato a garantire il determinismo dei motivi, negando
il libero arbitrio come autocausalità della volontà; dall’altro a garantire la
L. dell'uomo contro il determinismo rigoroso. Molto meglio Locke è riuscito a
esprimere questo stesso concetto sul ter- LIBERTÀ reno politico, negando,
contro Filmer, che la L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, e
affermando: «La L. naturale dell'uomo consiste nell’essere libero da ogni
potere superiore sulla terra e nel non sottostare alla volontà o all'autorità
legislativa di alcuno e nel non avere per propria norma che la legge di natura.
La L. dell’uomo in società consiste nel non sottostare ad altro potere
legislativo che a quello stabilito per consenso nello stato nè al dominio di
altra volontà o alla limitazione di altra legge che quella che questo potere
legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui » (Two Treatises
of Government, II, 4, 22). Nello stato di natura la L. consiste nella
possibilità di scelta limitata dalla norma di natura, che è una norma reciproca
che prescrive di riconoscere agli altri quelle stesse possibilità che si
riconoscono a sè (Ibid., II, 2, 4). Nella società, la L. consiste nella
possibilità di scelte delimitate da una legge stabilita da un potere a ciò
destinato dal consenso dei citta- dini. In altri termini la L. politica suppone
due condizioni: 1° L'esistenza di norme che circoscrivino le possibilità di
scelta dei cittadini; 2° La possibilità dei cittadini stessi di controllare, in
una certa misura, lo stabilimento di queste norme. Da questo punto di vista il
problema della L. politica è un problema di misura: la misura nella quale i cittadini
devono partecipare al controllo delle leggi e la misura nella quale tali leggi
debbono restringere le loro possibilità di scelta. Questo è sempre stato il
problema del liberalismo classico e cioè di ogni liberalismo autentico, antico
e moderno. Montes- quieu riproponeva la dottrina della L. politica di Locke
nell’Esprit des lois (1748, XI, 3-4). Hume e l’Illuminismo riprendevano la
dottrina della L. filosofica. Il primo affermava: « Per L. non possiamo
significare che un potere di agire o di non agire secondo la determinazione
della volontà; cioè che se deliberiamo star fermi, possiamo farlo e se
deliberiamo muoverci, lo possiamo egualmente + (Ing. Conc. Underst., VIII, 1);
e nello stesso tempo metteva in luce il determinismo dei motivi, senza il quale
le leggi e le sanzioni sarebbero inoperanti. L’illuminismo, per bocca di
Voltaire, riprendeva la stessa dottrina: la L. di indifferenza è « una parola
priva di senso » giacchè essa significherebbe che c’è nell'uomo «un effetto
senza causa ». Si è liberi di fare quando si ha il potere di fare (Dictionnaire
philosophique, art. Liberté). Kant stesso si avvaleva del concetto di L. finita
per definire la L. giuridica o politica: essa è «la facoltà di non obbedire ad
altre leggi esterne tranne che a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso »
(Zum ewigen Frieden, II, art. 1, n. 1). La concezione di un determinismo non
necessitaristico è rimasta tradizionale nell’orien- tamento empiristico. Stuart
Mill mostrava come il LIBERTINISMO fatalismo scaturisce da un concetto della
necessità che non si riduce a quello della determinazione. Questa significa
soltanto « uniformità di ordine e ca- pacità di predizione +. Ma i sostenitori
della neces- sità « sentono come se ci fosse un più forte legame tra le
volizioni e le loro cause: come se, quando di- cono che la volontà è governata
dall’equilibrio dei motivi, si dicesse qualcosa in più dell’affermazione che si
può, conoscendo i motivi e la nostra abituale suscettibilità ad essi, predire
il modo in cui agiremo » (Logic, VI, 2, $ 2). Dewey traduce questa stessa
dottrina nei termini del pragmatismo cioè di un empirismo orientato verso il
futuro. «Si assume talora, egli dice, che se si può mostrare che la deli-
berazione determina la scelta ed è determinata dal carattere e dalle
condizioni, non c’è libertà. Questo è come dire che un fiore non può portare
frutti perchè viene dalla radice e dallo stelo. La questione non concerne gli
antecedenti della deliberazione della scelta ma le loro conseguenze. Che cosa
hanno esse di proprio? Questo, che ci dànno il controllo delle possibilità
future che si aprono a noi. Questo con- trollo è il nucleo della nostra
libertà. Senza di esso, noi siamo spinti dal didietro, con esso camminiamo
nella luce » (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 311). La L. di cui Heidegger
parla come «trascen- denza + e « progettazione » dell’uomo nel mondo è
anch'essa una L. finita perchè condizionata e li- mitata dal mondo stesso in
cui si progetta (Vom Wesen des Grundes, 1949, III; trad. ital., pag. 64 sgg.).
Questa dottrina della L. si è rafforzata ed è diventata più chiara e coerente
dacchè la scienza stessa, a partire dal quarto decennio del nostro secolo, ha
abbandonato l’ideale della causalità necessaria e della previsione infallibile.
La preva- lenza del concetto di condizione su quello di causa, della
spiegazione probabilistica sulla spiegazione necessitaristica, che si è
delineata, come effetto del principio di indeterminazione, nella fisica atomica
(v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE), ha reso ovviamente anacronistico la conservazione
dello schema neces- sitaristico per la spiegazione degli eventi umani. Nello
stesso tempo, l’opposizione tra scienza e coscienza, tra l’esigenza della
causalità propria della prima e la testimonianza di L. propria della seconda, è
venuto a perdere il suo significato. Da un lato si è visto che la coscienza non
testimonia una L. assoluta nè può far valere assolutamente una sua qualsiasi
testimonianza in proposito; dall’altro lato, si è visto che la scienza non
esige la causalità neces- saria, che autorizzerebbe la previsione infallibile
degli eventi, ma un determinismo condizionante che autorizza la previsione
probabile degli eventi stessi. La conclusione è che il concetto della L. come
autocausazione (quale ancora compare in Bergson e Sartre) è così poco
sostenibile come il 531 concetto del determinismo come necessità. Corri-
spondentemente, sul piano politico, il concetto della L. come potere di fare
ciò che piace e quello della L. come potere assoluto della totalità cui l’uomo
appartiene (stato, chiesa, razza, partito, ecc.) sono egualmente mistificatori.
La L. è oggi, come ai tempi in cui ne veniva per la prima volta formulata la
nozione nel mondo moderno, una questione di misura, di condizioni e di limiti;
e ciò in qualunque campo, da quello metafisico e psicologico a quello economico
e politico. Si insiste oggi sul fatto che la L. umana è « una libertà situata,
una L. inquadrata nel reale, una L. sotto condizione, una L. relativa »
(GURVITCH, Déterminismes sociaux et liberté humaine, 1955, pag. 81). Si esprime
talora questo concetto dicendo che la L. non è una scelta ma piuttosto una «
possibilità di scelta»: cioè una scelta tale che una volia effettuata può
essere ancora e sempre ripetuta nei confronti di una situazione determinata (ABBAGNANO,
Possibilità e Libertà, 1956, passim). In questa forma, la L. può essere
riconosciuta pro- pria di tutte le attività umane ordinate ed efficaci, anche e
principalmente dei procedimenti scientifici, le cui tecniche di controllo
consistono per l’appunto in possibilità di scelte nel senso suddetto. Un pro-
cedimento valido è un procedimento che può essere da chiunque efficacemente
adoperato nelle circo- stanze adatte: è una « possibilità di scelta » che si
ripresenta a chiunque si trovi nelle condizioni opportune. Analogamente, le L.
politiche sono pos- sibilità di scelta che assicurano ai cittadini la possi-
bilità di scegliere ancora. Un tipo di governo è libero non già semplicemente
se è scelto dai cittadini ma se consente ai cittadini in certi limiti una
continua possibilità di scelta, nel senso della possibilità di mantenerlo o
modificarlo o eliminarlo. Le cosid- dette «istituzioni strategiche della L.+,
come le L. di pensiero, di coscienza, di stampa, di riunione, ecc., sono per
l’appunto dirette a salvaguardare ai citta- dini la possibilità di scelta nel
dominio scientifico, religioso, politico, sociale, ecc. Pertanto i problemi
della L. nel mondo moderno non possono essere risolti da formule semplici e
totalitarie (quali sarebbero quelle suggerite da un concetto di L. anarchico o
necessitaristico), ma dallo studio dei limiti e delle condizioni che, in un
campo e in una situazione determinata, possono rendere effettiva ed efficace la
possibilità di scelta dell’uomo. LIBERTARISMO (ingl. Libertarianism). Lo stesso
che anarchismo. Libertario (ingl. Libertarian; franc. Libertaire): lo stesso
che anarchico. (v. ANAR- CHISMO. LIBERTINISMO (franc. Libertinisme). La
corrente antireligiosa che si diffuse soprattutto negli ambienti eruditi di
Francia e d’Italia nella prima metà del sec. xvii e che costituisce la
reazione, in 532 gran parte sotterranea, che accompagna in quel periodo il
predominio politico del cattolicesimo. Tale corrente non ha idee filosofiche
ben determinate. Ad essa infatti appartennero: cattolici sinceramente attaccati
alla chiesa, che tuttavia ritenevano impos- sibile accettarne integralmente
l’impalcatura dottri- nale come Gassendi, Gaffarel, Boulliau, Launoy, Marolles,
Monconys; protestanti emancipati da ogni preoccupazione religiosa come Diodati,
Prio- leau, Sorbière e Lapeyrère; e scettici dichiarati, che si rifanno alle
dottrine del paganesimo classico o almeno alla forma che esse avevano assunto
nell’umanesimo rinascimentale, come Guyet, Luil- lier, Bouchard, Naudé,
Quillet, Trouiller, Bourdelot, Le Vayer. Non si può pertanto parlare, a
proposito del L., di un corpo di dottrine coerente, ma piuttosto di un certo
numero di temi comuni, che possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° La
negazione della validità delle prove dell’e- sistenza di Dio e della
possibilità di intendere e difendere i dogmi fondamentali del cristianesimo. 2°
La negazione della morale ecclesiastica e in genere della morale tradizionale e
l’accettazione del piacere come guida o ideale per la condotta della vita. Il
significato che la parola libertino ha nell’uso corrente deriva appunto da
questo aspetto. 3° L'accettazione della dottrina dell’ordine ne- cessario del
mondo, quale era stata elaborata e difesa dagli aristotelici del Rinascimento;
e per conseguenza: a) la negazione della libertà umana; b) la negazione
dell'immortalità dell'anima; c) la negazione della possibilità del miracolo,
interpretato come frutto dell’immaginazione o come fatto naturale insolito.
Questi punti di dottrina collegano il L. con l’aristotelismo del Rinascimento.
4° La tesi che la religione è, in generale, un prodotto dell’impostura delle
classi sacerdotali. S° L'accettazione del principio della « ragion di stato »
cioè del machiavellismo politico. 6° Lo smantellamento di credenze e pratiche
religiose, l’irrisione di esse e talvolta la loro tradu- zione in imagini
oscene. 7° Il fideismo, cioè la dichiarata accettazione, sincera o meno, delle
credenze tradizionali, in con- trasto con le conclusioni della ragione, secondo
quel principio della « doppia verità» che era stato an- ch’esso proprio
dell’aristotelismo rinascimentale (e dell’averroismo medievale). 8° Il
carattere aristocratico attribuito al sapere e in particolare alla riflessione
filosofica e i limiti imposti alla loro diffusione e al loro uso per evitare
che entrino in urto con gli interessi dello Stato e delle istituzioni con esso
collegate. Quest’ultimo punto soprattutto stabilisce la dif- ferenza radicale
tra L. e Illuminismo (v.): il quale consiste propriamente nel togliere ogni freno
alla LIBERTISMO critica razionale, nel portarla in ogni campo (quindi anche nel
campo politico, oltre che in quello reli- gioso) nella volontà di far parte dei
risultati di essa a tutti gli uomini e di utilizzarli per il migliora- mento
dei loro modi di vivere. Tuttavia non c’è dubbio che il L. è un anello
importante di congiun- gimento tra lo spirito dell’Umanesimo e lo spirito
dell’Illuminismo. Il suo storico migliore, R. Pintard, così riassume il suo
giudizio su di esso: « Se si crede, come tutto conduce ad ammettere, che lo
slancio dello spirito filosofico della fine del xvIr secolo è in gran parte un
seguito del Rinascimento del xvi secolo, — bisogna anche concludere che il L.
trionfante dei Fontenelle e dei Bayle non sarebbe esistito senza il L.
militante dei Le Vayer, dei Gas- sendi e dei Naudé che fu anche un L. dolorante
— esitante, combattuto, imbarazzato da scrupoli e da timori e che arrivò ad
esprimersi solo rinnegandosi » (Le Libertinage érudit dans la première moitié
du XVII siècle, 1943, I, pag. 576). LIBERTISMO (franc. Libertisme). Questo
termine è stato adoperato da Bergson (in Revue de Métaph. et de Morale, 1900,
pag. 661) in luogo di quello più comune «Filosofia della libertà » per indicare
lo spiritualismo francese del sec. xix nel quale si inserisce la stessa
dottrina di Bergson. LIBIDO. Termine con il quale è stata designata da Freud e
dagli psicanalisti la tendenza sessuale nella forma più generale e
indeterminata. Dice Freud: « Analoga alla fame in generale, la L. designa la forza
con la quale si manifesta l’istinto ses- suale, come la fame designa la forza
con la quale si manifesta l'istinto d’assorbimento del nutri- mento ?
(Einfithrung in die Psychoanalyse, cap. 21; trad. franc. pag. 336). In questo
senso le prime ma- nifestazioni della L. si connettono ad altre funzioni
vitali: nel lattante, ad es., l’atto di succhiare pro- cura un piacere che
rimane separato da quello dell’assorbimento del cibo e viene ricercato per suo
conto. Freud pertanto designa la zona bucco- labiale come «zona erogena » e
considera il pia- cere procurato dall’atto di succhiare come un pia- cere
sessuale. La L. in questo senso può non aver niente a che fare con ciò che è in
rapporto alla sfera genitale. Freud pensa poi che non si guadagna niente a
chiamare la L. col nome di istinto, come ha fatto Jung (/bid., pag. 442 sgg.;
cfr. C. G. Jung, Wandlungen und Symbole der Libido, 1925). LICEO (gr. Avxewov).
Così fu chiamata, dal territorio in cui era situata, sacro ad Apollo Liceo, la
scuola di Aristotele o Peripato. Dopo la morte di Aristotele la scuola fu retta
da Teofrasto di Eresso, sino alla morte di costui (288 od 86 a. C.), che la
indirizzò soprattutto all’organizzazione del lavoro scientifico e alle ricerche
particolari. A Teo- frasto successe Stratone di Lampsaco che la tenne LINGUA
per 18 anni e dopo il quale la scuola continuò il suo lavoro attraverso
numerosi altri rappresentanti dei quali ci restano scarse notizie e frammenti.
Nel primo secolo avanti Cristo Andronico di Rodi pubblica le opere esoteriche
di Aristotele e dà inizio a una nuova forma di attività filosofica: il com-
mento agli scritti del maestro. In questa attività emerse specialmente
Alessandro di Afrodisia vissuto intorno al 200 d. C. (cfr. WEHRLI, Die Schule
des Aristoteles, Texte und Kommentar, Basilea, 1944 sgg.). LIMITAZIONE (lat.
Limitatio; ingl. Limitation; franc. Limitation; ted. Limitation, Begrenzung).
Nella logica del *600 cominciò a chiamarsi con questo nome ciò che nella logica
medievale era chiamato restri- zione (restrictio, cfr. Pietro Ispano, Summul.
Logic., 11.01) cioè la riduzione di un enunciato a un signi- ficato più
ristretto. Dice, ad es., Jungius: «Si dice che un enunciato viene limitato
quando si sostituisce ad esso un altro enunciato il quale dichiari che il
predicato conviene al soggetto non immediatamente ma mediante una sua parte o
accidente. Ad es., ‘l’Etiope è bianco” viene limitato da ‘l’Etiope è bianco nei
denti *» (Logica Hamburgensis, 1638, II, 8, 8). Nello stesso senso si esprime
Wolff che tuttavia distingue la proposizione restrittiva da quella limitata in
quanto la L. si assume ab intrin- seco cioè dalla parte stessa del soggetto
come nel caso dell’enunciato sull’Etiope, mentre la restri- zione si assume ab
extrinseco come nell’enunciato «L'aria è leggera rispetto ai fluidi » (Logica,
$ 1106). Kant ha chiamato L. la terza categoria della qualità, che è «la realtà
unita con la negazione» (Crif. R. Pura, $ 11), e che corrisponde al giudizio
infinito cioè alla proposizione che afferma un predicato negativo (/bid., $ 9)
(v. INFINITO, GIUDIZIO). In tutti questi casi la L. era considerata come una
restrizione applicata al soggetto della proposizione. W. Hamilton considerò
invece la restrizione appli- cabile al predicato e chiamò L. la restrizione
solo in espressioni come « La virtù è la sola nobiltà + (Lectures on Logic, 2*
ediz., pag. 262). LIMITE (gr. népas; lat. Limes; ingl. Limit; franc.
Limite; ted. Grenze). Aristotele ha perfetta- mente
distinti ed enumerati i diversi significati del termine (Met., V, 17, 1022a 4
sgg.), che sono i seguenti: 1° L’ultimo punto di una cosa cioè il primo punto
al di là del quale non c’è alcuna parte della cosa e al di qua del quale c’è
ogni parte di essa. Oggi questo concetto si esprime dicendo che il L. è un
punto che non può essere raggiunto; o che è una grandezza tale che la
differenza tra essa e gli ele- menti della serie infinita cui appartiene sia e
ri- manga inferiore a ogni grandezza assegnabile (cfr. Perrce, Coll. Pap.,
4.117; JORGENSEN, A Treatise of Formal Logic, III, pag. 87 sgg.). SEGNICA 533
2° La forma di una grandezza o di una cosa che ha grandezza. 3° Il termine: sia
il terminus ad quem o punto di arrivo sia, talvolta, il terminus a quo o punto
di partenza. 4° La sostanza o l’essenza sostanziale di una cosa; giacchè questo
è il L. di conoscenza della cosa e perciò anche della cosa stessa. In questo
senso L. significa condizione. Per Aristotele la condizione della conoscenza e
dell’essere stesso della cosa è la sostanza o essenza necessaria (v. ESSENZA;
SOSTANZA). Al primo significato del termine si connette l’uso che Kant fece
della parola. « Un L., egli scrisse, negli esseri estesi, presuppone sempre uno
spazio che è al di là di una certa superficie deter- minata e la include in sè;
il confine invece non ha bisogno di questo ma è una pura negazione che
qualifica una grandezza, in quanto non è una tota- lità assoluta e perfetta.
Ora la nostra ragione vede, in qualche modo, intorno a sè, uno spazio per la
conoscenza delle cose in sè, sebbene non possa mai averne concetti determinati
e sia puramente limitata ai fenomeni» (Prol., $ 57). In questo senso Kant,
chiamò concetto-limite il concetto di noumeno in quanto serve «a circoscrivere
le pretese della sensi- bilità e perciò di uso puramente negativo + (Crif. R.
Pura; Anal. dei Princ., cap. 3; cfr. Cosa in SÈ). Ciò che ha L. in questo senso
è il finito nel significato 4 del termine. LINGUA (lat. Lingua; ingl. Language,
Tongue; franc. Langue; ted. Sprache). Un insieme organiz- zato di segni
linguistici. La distinzione tra L. e linguaggio è stata fatta prevalere da
Saussure che ha definito la L. come « insieme delle abitudini lingui- stiche
che permettono ad un soggetto di compren- dere e di farsi comprendere » (Cours
de languistique générale, 1916, pag. 114). La L. in questo senso da un lato è
un sistema o struttura (v.) dall’altro suppone una « massa parlante » che la
costituisce come una realtà sociale. Si possono distinguere due specie di L.:
1° le L. storiche che sono quelle la cui massa parlante è una comunità storica:
per esempio l'italiano, l’inglese, il francese, ecc.; 2° le L. artificiali che
sono quelle la cui massa parlante è un gruppo distinto da una competenza
specifica; e tali sono le L. delle tecniche particolari (che talvolta, meno
propriamente, sono dette linguaggi), r es., la L. matematica, la L. giuridica,
ecc. LINGUA SEGNICA (ingl. Sign Language). Con questo termine s’intende il
linguaggio costituito da gesti il quale, secondo le cosidette teorie psicolo-
giche del linguaggio, costituisce la prima fase di ogni linguaggio. Wundt ha
distinto a questo pro- posito due specie di gesti, l’indicativo e l’imitativo.
Il gesto indicativo sarebbe derivato biologicamente 534 dal movimento di
afferrare (Die Sprache, Volkspsy- chologie, I, 2* ediz., pag. 129). Sono state
anche studiate particolari L. segniche, come quelle dei napoletani di bassa
classe, dei monaci trappisti (che hanno il voto del silenzio), degli indiani
d’America e di alcuni gruppi di sordomuti. LINGUAGGIO (gr. 26y06; lat. Sermo;
inglese Language, Speech; franc. Langage; ted. Sprache). In generale, l’uso dei
segni intersoggettivi. Per intersoggettivi si intendono i segni che rendono
possibile la comunicazione. Per uso si intende: 1° la possibilità di scelta
(istituzione, mutazione, correzione) dei segni; 2° la possibilità di combi-
nazione di tali segni in modi limitati e ripetibili. Questo secondo aspetto si
riferisce alle strutture sintattiche del L., mentre il primo si riferisce al
dizionario del L. stesso. La scienza moderna del L. ha (come si vedrà) sempre
più insistito sull’im- portanza delle strutture linguistiche cioè delle
possibilità di combinazioni che il L. delimita. Elementi come « Socrate » «
uomo 1 «è» «er «tutti » «non», ecc., sono egualmente parole cioè segni in-
tersoggettivi, ma possono entrare in un discorso solo con una funzione
determinata: cioè possono combinarsi con gli altri segni solo in modi che sono
limitati e riconoscibili. Il L. si distingue dalla lingua che è un particolare
insieme organizzato di segni intersoggettivi. La di- stinzione fra L. e lingua
è stata fatta prevalere nella scienza del L. da Ferdinando de Saussure, che
l’espri- meva nel modo seguente: « La lingua è un prodotto sociale della
facoltà del L. e nello stesso tempo un insieme di convenzioni necessarie
adottate dal corpo sociale per permettere l’esercizio di questa facoltà presso
gli individui. Preso nel suo insieme, il L. è multiforme ed eteroclito; a
cavallo di domini diversi — quello fisico, quello fisiologico e quello psichico
— esso appartiene anche al dominio indi- viduale e al dominio sociale; non si
lascia classifi- care in alcuna categoria di fatti umani perchè non si sa come
determinare l’unità » (Cours de /an- guistique générale, 1916, pag. 15). Dal
punto di vista generale o filosofico il problema del L. è il problema della
intersoggettività dei segni cioè del fondamento di questa intersoggettività.
Non è che una forma di questo problema quello della « ori- fine » del L.
dibattuto nel sec. xv e nel sec. xIx: le due soluzioni tipiche di esso non sono
infatti che due modi di garantire l’intersoggettività dei segni linguistici.
Che il L. si origini dalla convenzione significa semplicemente che quella
intersoggettività è frutto di una stipulazione, di un contratto fra gli uomini;
e che il L. si origini dalla natura significa semplicemente che quella
intersoggettività è garantita dal rapporto del segno linguistico con la cosa, o
con lo stato soggettivo, cui esso si riferisce. Si pos- LINGUAGGIO sono
distinguere quattro soluzioni fondamentali del problema della intersoggettività
del L. e pertanto quattro interpretazioni del L.: 1° L. come conven- zione; 2°
il L. come natura; 3° il L. come scelta; 4° il L. come caso. Le prime tre di
queste interpreta- zioni erano state già distinte e contrassegnate da Platone.
Le prime due hanno in comune l’affermazione del carattere necessario del
rapporto tra il segno linguistico e il suo oggetto (quale che sia). La tesi
convenzionalistica, infatti, affermando la perfetta arbitrarietà di tutti gli
usi linguistici e pertanto l’impossibilità di confrontarli e correggerli,
riconosce a tutti la stessa validità. La tesi del carattere naturale del L. è
condotta, dall’altro lato, ad ammettere le medesime conclusioni. Poichè tutti i
segni linguistici sono tali per natura e ognuno è suscitato o prodotto
dall’oggetto che esprime, tutti sono ugualmente va- lidi ed è impossibile
confrontarli, modificarli o cor- reggerli. Entrambe le tesi portano alla
conseguenza che è impossibile dire ciò che non è perchè dire ciò che non è
significa non dire. Megarici e Cinici che nella filosofia greca dei tempi di
Platone rap- presentavano le due tesi in questione, avevano in comune questo
teorema fondamentale, ch’essi de- rivavano (come Aristotele testimonia) dal
principio che « niente si può predicare di una cosa salvo il suo stesso nome»,
principio che non esprime altro che la necessità del rapporto tra il segno
linguistico e il suo oggetto (Met., V, 29, 1024 b 33; per i Megarici ed in
particolare Stilpone cfr. PLUTARCO, Ad Colot., 23, 1120 a). Sarà facile mostrare
che queste tesi caratteristiche delle due dottrine necessaristiche del L. si
ritrovano ugual- mente nelle forme che tali dottrine hanno assunto nel mondo
moderno. 1° L’interpretazione del L. come convenzione ha avuto origine con gli
Eleati. L’inesprimibilità del- l’Fssere (come necessario e unico) doveva
condurli a vedere nelle parole nient'altro che «le etichette delle cose
illusorie » come dice Parmenide (Fr. 19, Diels). Questa concezione sembra
condivisa da Empedocle (Fr. 8-9, Diels); ma solo Demo- crito la giustifica con
argomenti empirici. De- mocrito infatti fonda la tesi della convenziona- lità
su quattro argomenti: l’omonimia, per la quale cose diverse sono designate dal
medesimo nome; la diversità dei nomi per una medesima cosa; la possibilità di
mutare i nomi; e la mancanza di analogie nella derivazione dei nomi (Fr. 26,
Diels). I Sofisti insistevano con Gorgia sulla diversità tra i nomi e le cose e
sulla conseguente impossibilità che attraverso i nomi si comunicasse la
conoscenza delle cose. «Il L., diceva Gorgia, non manifesta le cose esistenti
proprio come una cosa esistente non manifesta la propria natura ad un’altra di
esse + LINGUAGGIO (Fr. 3, 153, Diels). Si è già detto come Stilpone affermasse
il teorema della impredicabilità di una cosa dell’altra: teorema che esprime la
necessità del riferimento del segno linguistico all’oggetto. Ai Megarici faceva
riferimento Platone: «O forse preferisci quel modo che dice Ermogene con molti
altri: cioè che i nomi sono convenzioni e son chiari per quelli che li hanno
stipulati e conoscono le cose cui corrispondono e che questa è la giustezza dei
nomi, sicchè non importa se si convenga secondo quanto si è già stabilito
oppure sul contrario e, per es., di chiamar grande quel che oggi chiamiamo pic-
colo 0 piccolo quel che oggi chiamiamo grande? + (Crat., 433 e). Questo
convenzionalismo schietto, che afferma la pura arbitrarietà del riferimento
linguistico, viene perduto da Aristotele in poi e non si presenta di nuovo che
nel pensiero contemporaneo. Aristotele per la prima volta inserisce tra il nome
e il suo designato l’affezione dell’anima cioè la rappresenta- zione o concetto
mentale (o l’idea o la parola interiore o com'altro si chiamerà in seguito) che
scinde ed articola il rapporto tra il nome e il suo designato. L'inserimento di
questo termine con- sente di riconoscere nello stesso tempo la conven-
zionalità del L. e la necessità dei suoi signi- ficati. Aristotele infatti
afferma che « il nome è una voce semantica secondo convenzione + intendendo 4
per convenzione + che « nessuno dei nomi è tale per natura ma solo quando è
diventato un simbolo» (De Interpr., 2, 16 a 18; 26-28). Le parole, come suoni
vocali o segni scritti, non sono le stesse per tutti. Esse tuttavia si
riferiscono alle « affezioni dell’anima che sono le stesse per tutti e
costituiscono imagini di oggetti che sono gli stessi per tutti » (/bid., I, 16
a 3-8). Si ha perciò: 1° gli oggetti sono gli stessi per tutti; 2° le affezioni
dell'anima, come imagini degli oggetti, sono le stesse per tutti; 3° le parole
scritte o parlate non sono le stesse per tutti. Sicchè il rapporto
parola-imagine mentale è convenzionale mentre il rapporto imagine mentale-cosa
è naturale. Il primo può cambiare senza che muti il secondo; e l'immutabilità o
necessità del secondo determina, essa sola, la struttura generale del L. che
dipende, non dalla convenzionalità dei segni ma dalla « unione e separazione»
dei segni stessi cioè dal modo in cui essi sono uniti e separati tra loro. Ciò
stabilisce, secondo Aristotele, il carattere privilegiato del L. apofantico:
che è quello in cui hanno luogo le determinazioni di vero e falso a seconda che
l'unione o la separazione dei segni riproduce 0 meno l’unione o la separazione
delle cose. Aristotele non nega che esistano discorsi non apofantici, per es.,
la pre- ghiera (Zbid., 4, 17a 2). Ma, privilegiando il di- scorso apofantico,
fa di esso il vero L., quello sul quale gli altri più o meno si modellano o dal
punto 535 di vista del quale debbono essere giudicati. E difatti la poetica e
la retorica, che si occupano del L. non apofantico, sono da Aristotele trattate
in connessione con l’analitica. Ora il L. apofantico non ha più nulla di
convenzionale: le sue strutture sono naturali e necessarie perchè sono quelle
stesse dell’essere, che esso rivela. Questo convenzionalismo apparente o zoppo
che può combinarsi con la tesi del carattere apofantico del L. è la forma che
il convenzionalismo assume nel Medio Evo e nell’età moderna. Il nominalismo
medievale riprende appunto in questa forma la tesi convenzionalistica. Ockham,
ad es., distingue i segni « istituiti ad arbitrio a significare più cose + cioè
le parole, dai segni naturali che sono i concetti (Summa Log., I, 14); e questa
posizione non fa che riprodurre sostanzialmente quella aristotelica. Identica è
la posizione di Hobbes il quale, mentre insiste sull’arbitrarietà del segno
linguistico, ritiene che esso sia « una nota con la quale si possa richia- mare
nell’anima un pensiero simile ad un pensiero passato » (De Corp., 2, 4). Questa
corrispondenza tra le parole e i pensieri è assunta da Locke come defi- nizione
della funzione segnica del linguaggio. « Le parole, dice Locke, che di loro
natura erano adatte a questo scopo, vennero impiegate dagli uomini come segni
delle loro idee: non per alcuna connessione na- turale che vi sia tra
particolari suoni articolati e certe idee, poichè in tal caso non ci sarebbe
fra gli uomini che un solo L., ma per una imposizione volontaria mediante la
quale una data parola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale
idea» (Saggio, III, 2, 1). L'inserimento del « segno natu- rale » o « pensiero
+ 0 «idea +» tra la parola e il suo designato toglie, come si è visto, alla
tesi convenzio- nalistica il suo carattere proprio e l’avvicina alla tesi
opposta, sino a confonderla con essa. Quella tesi si riduce infatti
all’affermazione dell’arbi- trarietà del segno linguistico isolato, della
parola intesa come suono, ma non si estende all’uso vero e proprio delle parole
(nel quale propriamente consiste il L.) e pertanto alle regole di quest’uso.
Essa equivale a dire, per es., che nel gioco degli scacchi è indifferente
chiamare pedina la torre o torre la pedina, ma che è necessario che un certo
pezzo (pedina o torre) si usi in un modo e che un altro (torre o pedina) si usi
in un altro modo. Il linguaggio è il gioco di scacchi che, in questo caso, si
dichiara necessario: la convenzionalità delle parole cioè dei semplici suoni
articolati non diminuisce tale necessità. Pertanto il ripristino della tesi
classica del conven- zionalismo si ha soltanto con l’eliminazione di qualsiasi
intermediario tra il segno linguistico e il suo designato; o in altri termini
con la dichiarazione di arbitrarietà non dei suoni isolati ma dell'uso di 536
tali suoni e cioè delle regole che lo limitano. Questa è stata la posizione del
Wittgenstein della seconda maniera (nelle Philosophische Untersuchungen). Wittgenstein ha ammesso
l’arbitrarietà e perciò l’equivalenza di tutti i « giochi linguistici » in uso,
ammettendo che tali giochi possono avere caratteri e regole diversissime sicchè
anche chiamarli tutti insieme « L.» non significa altro che essi hanno l’uno
con l’altro relazioni differenti (Philosophical Investigations, I, 65). Da
questo punto di vista ritor- nano le tesi classiche del convenzionalismo; e in
primo luogo l’impossibilità di rettificare il L., per cui L. dev’essere
dichiarato sempre vero e perfetto 0, come Wittgenstein preferisce, in ordine: «
È chiaro che ogni enunciato del nostro L. è in ordine come esso è. Cioè, noi
non stiamo perseguendo un ideale come se i nostri enunciati ordinariamente
vaghi non avessero ancora raggiunto un senso inecce- pibile e come se un L.
perfetto aspettasse di essere costruito da noi. Dall’altro lato, sembra chiaro
che dove c’è senso ci dev'essere ordine perfetto. Così ci dev'essere ordine
perfetto nella più vaga delle proposizioni + (Zbid., I, 98). Da questo punto di
vista l’ideale linguistico, la lingua perfetta è qualcosa di già esistente
nell’uso. « L'ideale, dice Wittgenstein, deve essere trovato nella realtà.
Finchè non abbiamo ancora veduto come si trova in essa, non comprendiamo la
natura di questo deve. Pensiamo che dev'essere nella realtà perchè pensiamo di
averlo già veduto » (/bid., 101). Questo punto di vista si può dire coincida
con quello di Carnap. Il « principio di tolleranza » o « di conven- zionalità
+, stabilito da Carnap, esprime la perfetta equivalenza dei sistemi
linguistici. « In logica, dice Carnap, non c’è morale. Ciascuno può costruire
come vuole la sua logica cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con
noi, deve solo indicare come lo vuol fare, e dar regolazioni sintattiche invece
di argomenti filosofici » (Logica! Syntax of Language, $ 17). Da questo punto
di vista la stessa costruzione di un L. ideale o perfetto è fatto sulla base di
ciò che un certo tipo di L. è in linea di fatto. «I fatti, dice Carnap, non
determinano se l’uso di una certa espressione sia corretto o sbagliato ma
soltanto quanto frequentemente porta all’effetto cui tende e simili. Una questione
intorno a ciò che è corretto o sbagliato deve sempre riferirsi a un sistema di
regole. A stretto rigore, le regole che elencheremo non sono regole del L. B,
come è dato di fatto, costi- tuiscono piuttosto un sistema linguistico in
corri- spondenza con 2 che chiameremo il sistema seman- tico B-S. Il L. B
appartiene al mondo dei fatti... Invece il sistema linguistico B-S è qualcosa
di costruito da noi; ha tutte e sole quelle proprietà che stabiliamo mediante
le regole. Tuttavia noi costruiamo 8-S non arbitrariamente ma con ri-
LINGUAGGIO guardo ai fatti di 8. Quindi possiamo fare l’affer- mazione empirica
che il L. B è in una certa misura in armonia con il sistema B-S» (Foundations
of Logic and Mathematics, I, 4). Il sistema seman- tico B-S ha perciò, secondo
Carnap, le seguenti proprietà: 1° costituisce il criterio in base al quale si
può giudicare della correttezza o meno del L. B; 2° le regole di B-S non sono
convenzionali perchè sono scelte sulla base di dati di fatto forniti da 8.
Carnap pertanto ammette contemporaneamente la tesi della convenzionalità dei L.
e la tesi della naturalità dei sistemi semantici cioè dei L. perfetti. 2° La
dottrina che il L. sia « per natura» e che il rapporto tra il L. e il suo
oggetto (quale che sia) venga stabilito dall’azione causale di quest’ul- timo è
anch’essa caratterizzata dal riconoscimento della necessità del rapporto
semantico. Mentre la precedente dottrina affermava che il rapporto se- mantico
è sempre esatto perchè è in ogni caso istituito ad arbitrio, la dottrina in
esame afferma che è sempre esatto perchè sfugge all’arbitrio ed è istituito
dall’azione causale dell’oggetto. Questa tesi si può far risalire ad Eraclito
(Fr. 23, Diels; 114, Diels); ma esplicitamente fu esposta dai Cinici, e
specialmente da Antistene, il cui punto di vista è espresso da Cratilo nel
dialogo omonimo di Pla- tone: « Le cose hanno i nomi per natura ed è arte- fice
di nomi non uno qualsiasi ma solo colui che guarda al nome che per natura è
proprio di ciascuna cosa e che è capace di esprimere la specie di essa in
lettere e sillabe» (Crar., 390d-e). Sappiamo d’altronde che Antistene aveva
definito il L. di- cendo che è «quello che manifesta ciò che era o è» (Dioa.
L., VI, 1, 3); e che traeva da questa dottrina le stesse conseguenze che i
Megarici con Stilpone traevano dalla tesi della convenzionalità: e cioè che « è
impossibile contraddire o anche dire il falso » (ARIST., Met., V, 29, 1024 b
33). Questa di Antistene è tuttavia una soltanto delle forme che la dottrina in
esame può assumere ed ha assunto nel corso della sua storia. Queste forme sono
di- stinguibili sul fondamento del tipo di oggetto che si assume come designato
dal linguaggio. Tutte le forme di questa dottrina asseriscono che il L. è
apofantico cioè in qualche modo rivelativo del suo oggetto; esse differiscono
tra loro nel deter- minare il tipo di oggetto che il L. rivelerebbe in modo
primario o privilegiato. Si possono così distinguere: a) la teoria
dell’interiezione; b) la teoria dell’onomatopeia; c) la teoria della metafora;
d) la teoria dell’immagine logica. a) La teoria dell’interiezione che fu detta
da Max Miiller (Lectures on the Science of Language, 1861, cap. 9; trad. ital.,
pag. 363) teoria del pu/-puh è stata esposta per la prima volta da Epicuro: «
Le parole, egli disse, non sono in principio create LINGUAGGIO per convenzione;
ma è la stessa natura umana che, influenzata da determinate emozioni e in vista
di determinate imagini, fa sì che gli uomini emet- tano l’aria in modo
appropriato alle singole emo- zioni ed imagini. Le parole sono dapprima diverse
per la diversità delle genti, che dipende anche dai luoghi; ma poi vengono rese
comuni affinchè i loro significati siano meno ambigui e più rapida- mente
comprensibili » (Dioc. L., X, 75-76). Lu- crezio esprimeva più succintamente lo
stesso con- cetto: «La natura costrinse gli uomini a emettere i vari suoni del
L. e l’utilità condusse a dare a ciascuna cosa il suo nome» (De nat. rer., V,
1027-28). In tempi moderni la dottrina è stata ripresa da Condillac (Sur l’origine
des connaissances humaines, 1746, I, $ 1 sgg.) ed esposta nel modo più
brillante da Rousseau. « Il primo L. dell’uomo, diceva quest’ultimo, il L. più
universale e più energico e il solo di cui aveva bisogno prima che gli
occorresse di persuadere uomini riuniti, è il grido di natura. Poichè questo
grido era strappato da una specie d’istinto nelle occasioni pressanti, per
implorare soccorso nei grandi pericoli o sol- lievo nei mali violenti, esso non
era di grande uso nel corso ordinario della vita in cui regnano senti- menti
più moderati. Quando le idee degli uomini cominciarono ad estendersi e
moltiplicarsi e si sta- bill tra essi una comunicazione più stretta, e si
cercarono segni più numerosi e un L. più esteso, essi moltiplicarono le
inflessioni della voce e vi aggiunsero i gesti che, per loro natura sono più
espressivi e di cui il senso dipende meno da una determinazione anteriore » (De
/’inépalité parmi les hommes, I; cfr. pure il saggio « Sull’origine delle
lingue », in (Euvres, 1877, vol. I). Ma il problema in cui questa dottrina si
urta è proprio quello del passaggio da una lingua costituita da semplici gridi
o interiezioni a una lingua oggettiva, costituita da termini generali o
astratti. Ancora nel mondo mo- derno non è mancato chi ha visto nell’interiezione
l'origine di quei suoni che, gradualmente purificati e organizzati, si
trasformarono in vero e proprio linguaggio. Così pensava, ad es., O. Jespersen
(Lan- guage, its Nature, Development and Origin, 1923, pag. 418 sgg.) e più
rigorosamente la stessa tesi è stata presentata da Grace de Laguna che ha
cercato di definire meglio il passaggio dall’interiezione al L. come un
processo di oggettivazione, per il quale alle espressioni emotive si vengono
via via sostituendo gli aspetti percepiti delle situazioni effettive (Speech,
its Function and Development, 1927, pag. 260 sgg.). Ma ciò che riesce difficile
a comprendersi è per l'appunto questo processo di oggettivazione e pu-
rificazione dei gridi emotivi: tanto più che lc stesse dottrine che si appellano
ad essi hanno messo in luce ed esplicitamente riconosciuta la differenza 537
fra le parole e le interiezioni (che non si distinguono dai gridi animali)
nonchè il fatto che le parole si affermano a danno delle interiezioni. b) La
teoria dell’onomatopeia, che Max Miiller (Lectures on the Science of Language,
1861, cap. 9) chiamò teoria del bau-bau, è quella che afferma che le radici
linguistiche sono imita- zioni di suoni naturali. La teoria era conosciuta da
Platone; il quale la critica osservando che, « in tal caso, coloro che rifanno
il verso delle pecore, dei galli e degli altri animali darebbero il nome agli
animali di cui contraffanno la voce» (Crar., 423 c). La teoria fu difesa da
Herder nel suo 7rat- tato sull'origine del L. (1772): egli considerò i suoni
naturali (per es., il belare di un agnello) come i segni di cui l’anima si
avvale per ricono- scere l’oggetto in questione. « Il suono del belare, notato
come contrassegno distintivo, diventa il nome dell’agnello. Il contrassegno
compreso per il quale l’anima si riflette chiaramente in un’idea, è la parola.
E che cos’è l’intero L. umano se nonun insieme di tali parole?» (Werke, ed.
Suphan, V, pag. 36-37). La principale obiezione contro questa dottrina è stata
portata dai glottologi: non è vero che l'origine di tutte le radici
linguistiche è onomatopeica. Neppure nella formazione dei nomi degli animali,
nella quale il principio onomatopeico si potrebbe presumere più efficace, esso
ha vera- mente una funzione dominante. Contro di esso sta poi l’obiezione
filosofica, che già Platone avan- zava, che altro è l’imitazione di un suono,
altro è l'imposizione di un nome. Tuttavia, il principio dell’onomatopeia è
stato molte volte utilizzato dai glottologi per spiegare la formazione delle
parole originali in questa o quella lingua e il loro distri- buirsi in gruppi
distinti. Lo stesso Cassirer ammette come prima fase dell’espressione
linguistica uno stadio mimetico nel quale «i suoni sembrano avvi- cinarsi
all’impressione sensoria e riprodurre la sua diversità il più fedelmente
possibile» (Phil. der symbolischen Formen, 1923, I, cap. 2, $ 2; tradu- zione
ingl., pag. 190). c) La terza forma della dottrina della natu- ralità del L. è
quella che lo considera come meta- fora. Le tesi caratteristiche in cui si
esprime questa teoria sono le seguenti: 1° il L. non è imitazione ma creazione.
Questa tesi distingue questa teoria da quella onomatopeica; 2° la creazione
linguistica mette capo non a concetti o termini generali ma a imagini, che sono
sempre individuali o particolari; 3° ciò che la creazione linguistica esprime
non è un fatto oggettivo 0 razionale ma soggettivo o sentimentale; e questo è
propriamente l’oggetto del linguaggio. Con queste caratteristiche la teoria fu
espressa per la prima volta da Vico; il quale affermò che «il primo parlare»
non fu «un par- 538 lare secondo la natura delle cose » ma « un parlare
fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine » (Scienza
Nuova, II, Della logica poetica). I primi poeti, secondo Vico, dettero «i nomi
alle cose dalle idee più particolari e sensibili; che sono le due fonti, questa
della metonimia e quella della sineddoche» (Ibid, Corollari d’intorno ai tropi,
2). Di conseguenza i primi uomini conce- pirono l’idea delle cose « per
caratteri fantastici di sostanze animate e mutoli »; e si spiegarono « con atti
o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee (quanto, per es., lo hanno
l’atto di tre volte fal- ciare o tre spighe per significare tre anni) ».
Questo, secondo Vico, è facile a osservarsi nella lingua la- tina, «che quasi
tutte le voci ha formate per tra- sporti di nature o per proprietà naturali o
per effetti sensibili »; ma « generalmente la metafora fa il maggior corpo
delle lingue appo tutte le nazioni + (Ibid., Corollari d’intorno ai tropi, 2).
Espressa in forma assai più immaginifica, questa teoria si ritrova nello Hamann
secondo il quale il L., che è «l’organo e il criterio della ragione +, non è
una semplice collezione di segni ma «il simbolo e la rivelazione della stessa
vita divina» (Schriften, II, 19, 207, 216). Nel sec. xtx la teoria della
metafora, anche senza l’impostazione metafisica o teologica con cui compare in
Haman è il tratto comune delle dottrine che sono state chiamate del din-don
cioè del carattere risonante della natura umana. Così Max Miller affermava che
il L. è il prodotto di una «facoltà creativa la quale dà a ciascuna
impressione, nel modo che penetra per la prima volta nel cervello,
un’espressione fonetica +; e che i fonemi così creati vengono poi selezionati e
com- binati naturalmente attraverso il processo storico di formazione del L.
stesso (Lectures, cit., 9; trad. ital., pag. 394). ll carattere metaforico del
L., consi- stendo nel ricorso a termini ambigui od equivoci, favorisce (secondo
questa teoria) l’origine e la for- mazione del mito. « Nel L. umano, ha detto
F. Max Milller è impossibile esprimere idee astratte se non sotto metafora e
non si esagera dicendo che l’in- tero dizionario dell’antica religione era
fatto di metafore... Di qui una sorgente continua di equivoci molti dei quali
sono consacrati nella mitologia e nella religione del mondo antico»
(Contributions on the Science of Mythology, 1897, I, 68 sgg.). Questa
connessione del L. con il mito era già stata fatta da Vico che, per di più, non
aveva equiparato ad una malattia del L. la formazione del mito. Le dottrine
moderne del mito (v.) negano questa equiparazione, ma mantengono la connes-
sione del mito col linguaggio. In senso analogo Croce ha stabilita la
connessione del L. con l’arte in generale. Il L. ha, per Croce, natura
fantastica o metaforica ed è quindi legato più strettamente con LINGUAGGIO la
poesia che con la logica. « L'uomo, dice Croce, parla a ogni istante come il
poeta, perchè come il poeta esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti nella
forma che si dice di conversazione o familiare, e che non è separata per nessun
abisso dalle altre forme che si dicono prosastiche, prosastico-poetiche,
narrative, epiche, dialogate, drammatiche, liriche, meliche, cantate, e via
enumerando » (Breviario di estetica, 1913, II). Un abisso c’è tuttavia (e Croce
lo ha affermato più tardi) tra l'espressione poe- tica che placa e trasfigura
il sentimento ed è perciò un conoscere, dagli altri tipi di espressione (o sen-
timentale o prosastica) che, vincolati strettamente al sentimento e all’idea,
non operano quella tra- sfigurazione che è propria dell’espressione autentica e
pertanto non possono neppure dirsi linguaggio. Fsse sono, secondo Croce
soltanto «suoni artico- lati » (La poesia, 1936, pag. 9 sgg.). Questa con-
clusione cui Croce, non senza coerenza, ha condotto la teoria in esame, mostra
i limiti della teoria stessa. Questa si trova nell’incapacità di spiegare il
pas- saggio dal L. metafora al L. concettuale, dal L. che è grido o gesto o
altro « carattere poetico + (secondo l’espressione di Vico) al L. che è
struttura, organiz- zazione e regola. d) La quarta forma della dottrina della
natu- ralità del L. è quella che lo considera come la espressione o l’imagine
dell’essenza o dell’essere delle cose. Questa dottrina è assai antica perchè la
sua prima manifestazione è la teoria di Anti- stene secondo la quale « il L. è
quello che manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3). Gli Stoici a loro
volta affermarono che « parlare significa pronunziare un suono che significa
l’oggetto pen- sato » (Sesto E., Adv. Math., VIII, 80). La carat- teristica di
questa dottrina è che essa porta la sua attenzione non tanto sui singoli segni
o parole ma sulle loro connessioni sintattiche cioè sulle regole del loro uso
nelle proposizioni e nei ragionamenti e pertanto sulle strutture formali del
linguaggio. A questo indirizzo appartiene propriamente la teoria che abbiamo
chiamato del convenzionalismo apparente o zoppo: cioè la teoria che, mentre i
singoli segni linguistici sono scelti ad arbitrio, i loro modi di combinarsi
non sono arbitrari ma naturali e necessari perchè corrispondono ai modi di
combinarsi dei concetti mentali che a loro volta corrispondono ai modi di
combinarsi delle cose. Questa teoria, avanzata da Aristotele, è stata ri-
prodotta più volte dall’empirismo moderno e con- temporaneo (v. sopra). In
questa forma la dottrina è caratterizzata dall’inserzione, tra il segno lin-
guistico e la cosa, del concetto mentale, attraverso il quale lo stesso segno
linguistico, nei suoi modi di combinazione, viene a partecipare della necessità
oggettiva delle cose. Un fondamento analogo ha LINGUAGGIO l’affermazione della
naturalità del L. fatta da Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1808) dove
si afferma che «esiste una legge fondamentale se- condo cui ogni concetto
assume, attraverso gli organi, un suono; quello e non un altro» (IV; trad.
ital., Allason, pag. 78), o quella di Hegel che «il L. dà alle sensazioni,
intuizioni e rappre- sentazioni una seconda esistenza, più alta di quella
immediata, un’esistenza in universale, che ha vigore nel dominio della
rappresentazione +» (Enc., $ 459). Ma la tesi della naturalità del L. è stata
ripresa nella sua forma rigorosa e perciò nei suoi teoremi classici soltanto ad
opera della logica matematica contemporanea. Questa difatti ha riaffermato il
principio di una corrispondenza di termine a ter- mine tra i segni linguistici
e le cose, principio che i Cinici avevano espresso dicendo che il L. è ciò che
manifesta quello che una cosa era od è. Questo principio che fa del L. la
riproduzione pittorica della realtà o in generale dell’essere, è stato dapprima
difeso da Russell ma ha trovato la sua formulazione più rigorosa nel Tractatus
logico-philosophicus (1922) di Wittgenstein. Il principio veniva esposto da
Russell nella forma seguente: «In ogni proposizione che possiamo apprendere
(cioè non solo in quelle la cui verità o falsità possiamo giudicare ma in tutte
quelle che possiamo immaginare) tutti i costituenti sono realmente entità di
cui abbiamo conoscenza diretta » (€ On Denoting », 1905, ora in Logic and
Knowledge, 1956, pag. 56; cfr. Mysticism and Logic, 1918, pag. 219, 221; The
Problems of Philosophy, 1912, pag. 91). Questo vuol dire che ad ogni termine
adoperato nelle proposizioni deve corrispondere un termine o entità oggettiva
di cui si abbia conoscenza diretta (acquaintance): o che dev’esserci una corri-
spondenza di termine a termine fra gli elementi che entrano a comporre le
proposizioni e le entità di cui si ha conoscenza diretta. Russell osserva a
questo proposito che « dobbiamo attribuire un signi- ficato alle parole che
usiamo se vogliamo parlare con qualche significato e non per pura chiacchera; e
il significato che attribuiamo alle parole dev’essere qualcosa di cui abbiamo già
conoscenza» (Problems of Phil., pag. 91). Questa è semplicemente la ripre-
sentazione della tesi di Antistene secondo la quale parlare significa dire
qualcosa e precisamente qual- cosa che è, sicchè non si può dire ciò che non è:
con l’aggiunta che ciò che è, vale a dire le entità corrispondenti ai termini
del L., dev'essere « diret- tamente conosciuto ». Russell fondava su questo
principio la sua teoria della denotazione: secondo la quale « quando c’è
qualcosa di cui non abbiamo conoscenza immediata ma solo una definizione per
mezzo di frasi denotanti, le proposizioni nelle quali questa cosa è introdotta
per mezzo di una frase denotante non contengono realmente la cosa 539 come
costituente ma contengono invece i costi- tuenti espressi dalle diverse parole
della frase denotante » (€ On Denoting +, /bid., pag. 55-6). Così ad es.,
poichè non abbiamo diretta esperienza dello spirito degli altri, noi non
conosciamo, se A è uno di tali spiriti, che « A ha questa e quella proprietà 1;
ma conosciamo soltanto che « Tal dei Tali ha uno spirito che ha questa o quella
proprietà ». Tuttavia, se un linguaggio ideale ci potesse essere, esso do-
vrebbe contenere unicamente elementi costitutivi ultimi sicchè in esso « non ci
sarebbe che una parola e non più di una per ogni oggetto semplice ed ogni cosa
che non fosse semplice sarebbe espressa da una combinazione di parole, ciascuna
delle quali sta- rebbe per una cosa semplice » (« The Phil. of Logical
Atomism+, Logic and Knowledge, pag. 197-98). Secondo Russell il L. dei Principia
Mathematica mira ad essere un L. di questa specie: in esso c’è solo sintassi e
niente vocabolario (/b., pag. 198). E ciò lo rende uguale al L. proposto dai
dotti dell’Accademia di Lagado di cui parla Swift nei Viaggi di Gulliver. Essi
proponevano di abolire le parole perchè « dal momento che le parole sono solo
nomi per le cose, sarebbe più comodo per tutti gli uomini portare con loro le
cose che sono ne- cessarie a esprimere le particolari faccende di cui intendono
discorrere +. Questi saggi portavano perciò con loro sacchi pieni di oggetti e
facevano conver- sazione mostrandosi reciprocamente gli oggetti stessi
(Gulliver’s Travels, III, cap. 5). Lo stesso ideale è stato espresso da
Wittgenstein (prima maniera) con formule semplici e precise. Eccone alcune: «Il
nome significa l’oggetto: l’og- getto è il suo significato » (Tractatus,
3.203). « Alla configurazione dei segni semplici nella proposizione corrisponde
la configurazione degli oggetti nella si- tuazione +» (/bid., 3.21). « Il nome
è il rappresentante dell'oggetto nella proposizione » (/bid., 3.22). Witt-
genstein ha espresso con tutta la chiarezza deside- rabile il concetto del
linguaggio (che non è altro che «la totalità delle proposizioni +, /bid.,
4.001) come raffigurazione pittorica del mondo. « A prima vista, egli dice, non
sembra che la proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta sia
un’imagine della realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non
sembra a prima vista un'imagine della musica nè la nostra scrittura fonetica (a
let- tere) sembra un’imagine del nostro L. parlato. Eppure questi simboli si
dimostrano anche nel senso ordinario del termine, imagini di ciò che
rappresentano » (/bid., 4.011). Buona parte dell’em- pirismo logico e in
generale della filosofia contem- poranea condivide o ha condiviso questa
dottrina del L. come imagine logica del mondo. L'obiezione fondamentale contro
di essa è stata bene espressa da Max Black: « Non c’è motivo che il L. debba
540 ‘ corrispondere * o © assomigliare * al ‘ mondo * più che non vi sia motivo
che debba assomigliare al mondo il telescopio con cui l’astronomo lo studia »
(Language and Philosophy, V, 4; trad. ital., pag. 173). È interessante
constatare che all’altro estremo della filosofia contemporanea, cioè
all’estremo me- tafisico o ultra-metafisico, si ha un concetto analogo del
linguaggio. Heidegger non ammette certo la corrispondenza di termine a termine
tra gli elementi del L. e gli elementi dell’essere; ma afferma tuttavia, con
energia uguale a quella di Wittgenstein, il carat- tere apofantico del L.
rispetto alla totalità dell’essere. In questo senso egli ha chiamato il L. «la
casa dell’essere ». Ed ha aggiunto: « Discorrere di casa dell'essere non
significa per nulla trasferire l’imma- gine della casa all’essere; un giorno ci
sarà possibile, muovendo da un adeguato pensamento dell’es- senza dell'essere,
giungere a comprendere che cosa significhino casa ed abitare (« Brief liber den
Huma- nismus », in P/atos Lehre von der Wahrheit, 1947, pag. 112). In altri
termini il L. è l'immediata rivela- zione dell'essere; e l’uomo accede
all’essere attra- verso il linguaggio. 3° La terza dottrina fondamentale del L.
è quella che lo interpreta come uno strumento, cioè come un prodotto di scelte
ripetute e ripetibili. Questa dottrina è stata per la prima volta presentata da
Platone. Di fronte alle due tesi opposte della con- venzionalità e della
naturalità del L., Platone evita, nel Cratilo, di decidere in favore di una di
esse. «A me piace, egli dice, che, per quanto è possibile, i nomi siano
simiglianti alle cose; ma io temo che, per dirla con Ermogene, questa
attrazione della simiglianza ci porti su di un terreno sdrucciolevole e che
perciò sia necessario servirci anche di un mezzo un pò grossolano, cioè della
convenzione, per renderci conto della giustezza dei nomi » (Crat., 435 c). I
nomi dei numeri, ad es., difficilmente si potrebbero, secondo Platone, ritenere
naturali nel senso di essere simili a ciò che indicano. Ma se nè la convenzione
nè la natura cioè nè la dissimiglianza tra la parola e la cosa nè la
simiglianza costituisce il significato, che cosa in ogni caso lo costituisce?
L'uso. Dice Platone: « Se l’uso non è una conven- zione, sarebbe meglio dire
che non la somiglianza è il modo in cui le parole significano ma piuttosto
l’uso: questo infatti, a quanto sembra, può signi- ficare sia mediante la
simiglianza sia mediante la dissimiglianza » (Crar., 435a-b). Platone ha qui
espresso una tesi fondamentale della linguistica moderna: è soltanto l’uso che
stabilisce o per dir meglio costituisce il significato delle parole. Ma questa
tesi presuppone l’altra, del carattere strumen- tale del linguaggio: tesi,
quest’ultima, che Platone ha espresso dicendo che il L. è uno strumento e che,
come tutti gli strumenti, dev'essere adatto allo LINGUAGGIO scopo (Crar. 387
a). Da questo punto di vista, l’uso è la scelta ripetuta o convalidata che ha
condotto a forgiare un determinato strumento linguistico; e come tutti gli
altri strumenti, così pure gli strumenti linguistici possono riuscire più o
meno perfetti e adeguati allo scopo. Si giustifica così quello che, secondo
Platone, è il fondamentale teorema filosofico intorno al L.: la fallibilità del
L. stesso, la possibi- lità di dire ciò che non è (Sof., 261 b). La caratte-
ristica comune delle due dottrine precedenti è, come si è visto, la negazione
di questo teorema. La tesi della convenzionalità esclude che il L. possa
includere l’errore perchè una convenzione non può avere che lo stesso valore di
un’altra. La tesi della naturalità esclude che il L. possa includere l’errore
perchè deve riconoscere che il L. rappresenta, in ogni caso, ciò che è ed è
quindi sempre nel vero. Entrambe le tesi escludono che il L. si possa giudi-
care o che abbia un senso il giudizio sulla sua cor- rettezza. La tesi del L.
come operazione, uso, scelta, include invece questa possibilità giacchè vede in
esso il prodotto di operazioni dirette a costituire uno strumento efficace e
considera come non infallibile la riuscita di queste operazioni. Il fondamento
oggettivo di quella possibilità è che «il discorso nasce dalla unione reciproca
delle specie » (.Sof. 259 d) e che le specie non sono nè tutte insieme unite nè
tutte disgiunte, ma alcune possono unirsi e altre no. Le possibilità del L.
sono pertanto limitate dalle possibilità di combinazione delle specie o forme
dell’essere (Sof., 262 c). Questa posizione platonica veniva riprodotta da
Leibniz. «Io so, egli diceva, che si suol dire nelle scuole e dappertutto che i
significati delle parole sono arbitrari (ea instituto) ed è vero che non sono
determinati da una necessità naturale, ma lo sono tuttavia per opera di ragioni
naturali, in cui il caso ha la sua parte, e talvolta morali, in cui entra una
scelta » (Nouv. Ess., III, 2, 1). Herder partiva dalla stessa considerazione
preliminare e definiva come astrazione la scelta che si fa di una qualità
dell’oggetto allo scopo di nominarlo. « L’uomo mette in atto la riflessione non
solo quando percepisce tutte le qualità di un oggetto vividamente e con
chiarezza ma anche quando può riconoscere una o più qualità come qualità
distintive... E con quali mezzi effettua questo riconoscimento? Attra- verso la
sua capacità di astrazione » (Werke, ed. Suphan, V, pag. 35). È in questa
tradizione che Humboldt formulò quella dottrina del L. che doveva avere così
vasta influenza sulla scienza moderna del linguaggio. La formazione degli
strumenti linguistici è difatti, da questo punto di vista, la for- mazione di
connessioni, di symploké (come diceva Platone) e pertanto il L. non è un
complesso ato- mistico di parole, ma è discorso organizzato. LINGUAGGIO 541
Humboldt esprimeva chiaramente questo concetto. « Non possiamo concepire il L.,
egli diceva, come avente inizio dalla designazione degli oggetti me- diante le
parole e come procedente in un secondo tempo alla organizzazione delle parole
stesse. In realtà, il discorso non è composto da parole che lo precedono, ma al
contrario le parole prendono origine dall’intero discorso» (« Einleitung zum
Kawi-Werk », Werke, VII, 1, pag. 72 sgg.). Pertanto la comunicazione non è
effettuata dalla singola parola ma dalle frasi e solo queste sono gli strumenti
particolari di cui è formato il L. (/bid., pag. 169 sgg.). Queste idee hanno
dominato e continuano a domi- nare la scienza del linguaggio. Esse si trovano
incorporate negli stessi concetti di cui questa scienza si avvale, per es., nel
concetto di fonema. Un fonema è «l’unità minima dotata di caratteristiche
sonore distintive» ed è pertanto un’unità di significato non di suono
(BLOOMFIELD, Language, 1933, 5.4). Ogni lingua sceglie i suoi fonemi; ma questa
scelta non può essere qualificata nè come « casuale + o «arbitraria » e neppure
come « naturale » o « ne- cessaria »: perchè una scelta condiziona o limita le
altre e ogni gruppo o serie di esse è condizionata dall’esigenza dell’efficacia
comunicativa del lin- guaggio. I fonemi possono pertanto essere ridotti a tipi
che la scienza del L. si propone di determinare. Le determinazione di questi
tipi fornisce il fonda- mento delle scelte che costituiscono le strutture
fondamentali del L., e perciò spiega, in qualche misura, tali strutture, senza
che ne giustifichi la perfezione o l’infallibilità. Nella linguistica contem-
poranea, la concezione del L. come strumento è sostenuta specialmente dai
funzionalisti, che vedono nel L. «uno strumento di comunicazione» per il quale
l’esperienza umana si analizza in unità o monemi che hanno un contenuto
semantico o una forma fonica: questa forma fonica a sua volta si articola in
unità distinte e successive, « fonemi, la cui natura e i cui rapporti variano
da lingua a lingua » (MAR- TINET, A Functional View of Language, 1962, cap. I).
4° La quarta concezione del L., che è quella che abbiamo chiamata del caso, è
in realtà una specifi cazione della terza o per meglio dire è una prospet- tiva
di studio aperta dalla terza concezione. Questa prospettiva è costituita dallo
studio statistico del linguaggio. È noto che azioni che sono individual- mente
mutevoli e imprevedibili presentano unifor- mità e costanza se considerate in
gran numero. Non si può certo prevedere se una particolare per- sona si sposerà
l'anno venturo, ma si può prevedere con sufficiente approssimazione il numero
delle persone che si sposeranno l’anno venturo in una determinata comunità
sulla base delle statistiche degli ultimi anni. Allo stesso modo si possono
stu- diare le frequenze statistiche con la quale espressioni determinate
ricorrono in una comunità sufficiente- mente vasta: cioè si possono fissare
certe costanti statistiche del L. e assumerle come base per lo studio delle
strutture linguistiche. Certamente tale indagine statistica non è
indispensabile per lo studio di massa del linguaggio. C'è anche l’altro metodo,
che è quello dell’osservazione sociologica, per la quale l’osservatore
linguistico può, partecipando alla vita di una comunità, descriverne gli usi
linguistici. Questo è anzi il metodo prevalentemente seguito sin ora dai
glottologi, i quali solo raramente, e quasi esclusivamente nei confronti di
opere letterarie, hanno fatto ricorso al metodo statistico. Si può ricordare a
questo proposito l’opera di Lutoslawski sullo stile di Platone (The Origin and
Growth of Plato’s Logic, 1897) che riuscì a porre su nuova e più sicura base la
cronologia degli scritti platonici. Ma non mancano oggi proposte di un ricorso
siste- matico al metodo statistico in vista della soluzione di tutti i problemi
della linguistica strutturale. Dice a questo proposito G. Herdan: « Se
consideriamo la lingua come il totale dei segni linguistici più la loro
probabilità di ricorrere nel discorso individuale e perciò come i vari modi nei
quali l’evento segno può accadere insieme con le relative frequenze dei
differenti segni nell’uso effettivo, la concezione risponde a tutte le esigenze
di quella che si chiama la popolazione statistica di tali eventi o il loro uni-
verso statistico. Ogni enunciato individuale (la parole nella terminologia di
de Saussure) compie l’ufficio di campione di quella popolazione» (Language as
Choice and Change, 1956, 1.3). Da questo punto di vista, se si esaminano testi
differenti di una stessa lingua si trova per esempio che le frequenze relative
con le quali un particolare fonema è stato usato dagli scrittori sono su per
giù le stesse. Questo autorizza a considerarle come fluttuazioni della
probabilità costante di quel particolare fonema in quel lin- guaggio. E questo
significa che il parlatore o scrit- tore obbedisce a certe leggi del caso e che
solo quando si considerano grandi masse di forme linguistiche si ha
l’impressione di una determinazione causale nel loro uso. In altri termini
avverrebbe qui ciò che accade nella fisica per la quale il determinismo
macroscopico è soltanto l’effetto di una considera- zione di massa degli eventi
microscopici. I sostenitori di questa concezione del L. affermano pertanto che
ciò che dal punto di vista intuitivo appare nel L. come una relazione di causa
ed effetto (la determi- nazione delle scelte linguistiche) è, dal punto di
vista quantitativo, soltanto caso. La teoria pertanto spiega le differenze fra
i testi non con l’intenzione dei parlanti o con un determinismo causale ma con
le leggi statistiche del caso (HERDAN, op. cif., 1.4; C. E. SHanNON and W.
WerAVER, The Mathematical Theory of Communication, Urbana, 1949). 542
LINGUAGGIO, Questo punto di vista da un lato ha reso pos- sibile la ricerca di
una grammatica generativa cioè di un «sistema di regole che in qualche modo
esplicito e ben definito, assegnino descrizioni strut- turali agli enunciati»
(CHomsky, Aspects of Theory of Syntax, 1965, pag. 8). Dall'altro lato, ha reso
possibile, nello studio del L., l’uso dei modelli (v. MopetLo) che qualche
volta sono considerati come costituenti la stessa realtà sistematica del L.
(Sapir, Language, 1921) e talaltra come costrutti cioè come strutture
ipotetiche opportunamente co- struite (REZvIN, Models of Language, 1966, $ 2).
V. STRUTTURA; STRUTTURALISMO. LINGUAGGIO, ANALISI DEL. V. Empi- RISMO LOGICO.
LINGUAGGIO CHIUSO. V. Lingcuaggio- OGGETTO. LINGUAGGIO FORMALIZZATO. V. Si-
STEMA LOGISTICO. LINGUAGGIO-OGGETTO (ingl. Object- Language). Questa nozione
nasce corrispondente- mente a quella di metalinguaggio (v.) ogni qualvolta si
assume che un L. è «semanticamente chiuso » cioè non contiene, in aggiunta alle
sue espressioni, anche i nomi di queste espressioni o termini (come «vero» e
«falso +) che si riferiscano ad esse. In tal caso, infatti, bisogna distinguere
il L. de/ quale si parla e che è l’argomento della discussione e il L. con il
quale si parla e con il quale desideriamo costruire la definizione di verità
per il primo lin- guaggio. Quest'ultimo è il metalinguaggio; il primo è il
L.-oggetto. La distinzione tra L.-oggetto e metalinguaggio fu introdotta dai
logici polacchi verso il 1919 e diffusa da Tarski (cfr. « The Semantic Conception of
Truth », 1944, in Readings in Philo- sophical Analysis, 1949, pag. 60). La distinzione fu accettata da Carnap (Foundations of
Logic and Mathematics, 1939, $ 3). A volte tuttavia il L.-og- getto e il
metalinguaggio coincidono come quando, ad es., si parla in italiano
dell’italiano. La distin- zione vale soprattutto per i linguaggi formaliz- zati
(v.). LIRICO (ingl. Lyric; franc. Lyrique; ted. Ly- risch). Aggettivo adoperato
da Croce per specifi- care l’espressione artistica come espressione del
sentimento. « Ciò che dà coerenza e unità all’intui- zione, dice Croce, è il
sentimento: l’intuizione è veramente tale solo perchè rappresenta un senti-
mento e solo da esso e sopra di esso può sor- gere... Etica e lirica, o dramma
e lirica, sono sco- lastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre lirica,
cioè espressione etica e drammatica del sentimento » (Breviario di Estetica,
1912, in Nuovi saggi di estetica, pag. 28). La liricità costituisce per Croce
il carattere soggettivo o romantico del- l’arte. ANALISI DEL LITIGIOSUS. Così
fu chiamato il dilemma di Protagora e del suo scolaro Euatlo (AuLo GELLIO,
Noct. Att., V, 10) (v. DILEMMA). LOCKISMO (ingl. Lockianism). La dottrina di
Locke assunta come l’espressione tipica dell’empi- rismo (v.). LOGICA (ingl.
Logic; franc. Logique; tedesco Logik). L'etimologia stessa (da >Aéyos, che
signi- fica « parola», « proposizione», «discorso ?, ma anche « pensiero 1) è
equivoca come è equivoca la nozione. In Aristotele, un gruppo di scritti del
quale, raccolti nell’Organon, costituiscono la prima ampia trattazione di
questa disciplina, manca qual- siasi parola per designarla. Agli inizi degli
Anglitici, lo scritto più strettamente «logico » di questa rac- colta,
Aristotele definisce, senza darle un nome, la scienza che si accinge a
ricercare come scienza della dimostrazione e del sapere dimostrativo (Anal.
Pr., I, 24a 10 sgg.) dove però, tra l’altro, il testo non è del tutto chiaro. I
suoi oggetti sareb- bero quelli elencati nel seguito del medesimo passo: la
proposizione (come enunciato apofantico, inse- rito in un discorso
dimostrativo), i termini di essa (soggetto e predicato) e finalmente il
sillogismo. Qui e in altri testi (principalmente nei 7opici e nella Rerorica)
Aristotele distingue due tipi di di- scorso, dialettico e dimostrativo: il
primo che muove dal problematico e dal probabile e termina necessariamente nel
probabile; il secondo invece che muove dal vero e termina nel vero. Ma, a parte
il valore conoscitivo della premessa, avverte che formalmente i due discorsi
sono identici, consi- stono sempre nel sillogismo e nelle sue tipiche
strutture. Ill termine Xoyiy) (sottinteso céeym) si trova invece negli scritti
degli Stoici per indicare l’arte del discorso persuasivo in genere: si divide
pertanto in reforica e dialettica, quest’ultima con- tenendo quello che sarà
l’oggetto fondamentale della L., la dottrina del discorso dimostrativo e degli
oggetti che vi si collegano (proposizione, ter- mini, sillogismo, ecc.). solo
nei commentatori peripatetici e platonici di Aristotele, o negli scritti di
eclettici che a questi si riferiscono (come Cice- rone o Galeno), gli uni e gli
altri influenzati dalla terminologia degli Stoici, che il termine «L.», usato
come stretto sinonimo di « Dialettica », viene introdotto come nome di quella
dottrina che aveva il centro negli Analitici aristotelici, cioè la teoria del
sillogismo e della dimostrazione. Boezio dà il nome di «L.» (anche qui,
alternante con « Dia- lettica ») all’insieme delle dottrine contenute nel-
l’Organon aristotelico, cui si viene ad aggiungere, come una specie di
introduzione generale, l’/sagoge di Porfirio. E così per tutto il Medio Evo,
per lo meno a partire dal x secolo, l’esposizione, lo studio e il commento
dell’/sagoge porfiriana se- LOGICA guita dai libri dell’Organon (nell’ordine,
divenuto tradizionale, di: Categorie, De Interpretatione, Primi Analitici,
Secondi Analitici, Topici, Elenchi Sofistici), spesso con i commenti e nelle
traduzioni o riduzioni boeziane, costituisce un’ars (una delle «sette arti
liberali +) detta indifferentemente Dialettica o Lo- gica. La differenza che in
essa si viene ad introdurre durante il sec. xl, tra ars verus e ars nova, non
ha poi molto rilievo, trattandosi di una distinzione meramente storica e
scolastica tra i libri di Porfirio e di Aristotele da tempo noti nella traduzione
boeziana (/sagoge, Categorie, De Interpretatione) e quelli resisi noti più
recentemente con la diffusione di nuove traduzioni latine dell’Organon. In so-
stanza, l’insegnamento di L. alla fine dell'Età an- tica e nel Medio Evo
comprendeva questi argomenti: 1° teoria delle quinque voces o predicabili
(genere, specie, differenza, proprio, accidente); 2° teoria delle categorie o
predicamenti (sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione,
avere, azione, passione); 3° dottrina delle proposizioni e regole della
conversione; 4° dottrina del sillogismo categorico; 5° dottrina del sillogismo
ipotetico; 6° dialettica: a) topica; 5) dottrina dei sofismi o fallaciae. Che
poi si potevano raggruppare in tre parti: dottrina dei termini, dottrina delle
proposi- zioni, dottrina del ragionamento (categorico oppure ipotetico,
apodittico oppure dialettico). A_ queste parti di origine aristotelica o
(tramite Boezio) stoica il pensiero medievale aggiunse alcune dot- trine che
costituiscono un apporto originale alla tradizione L. dell’Occidente — la
dottrina della designazione e denotazione (de proprietatibus ter- minorum), la
dottrina dei segni logici e delle propo- sizioni molecolari (de
syncategorematibus), la dot- trina dell’implicazione materiale (de consequentiis)
— tutte dottrine appartenenti a quella parte della L. che oggi si chiama «
semantica ». Per capire le trasformazioni intervenute, nel corso dello stesso
Medio Evo, non solo nella tradizione dottrinaria, ma nello stesso ambito di
oggetti co- perto dal nome « L. », bisogna tener presenti alcune
considerazioni. Più preoccupato di creare la nuova disciplina che non di
fondarla, e ancora più preoc- cupato di crearne le dottrine fondamentali in
vista di applicazione a problemi filosofici più « concreti » (principalmente,
alla metafisica e all'etica) che non di svolgerle e di esporle
sistematicamente, Aristotele lasciò la L. non soltanto senza un nome proprio
per designarla, ma anche equivoca nel suo status come disciplina e non ben
determinata nei riguardi della sua materia subiecta. Che sono propriamente gli
oggetti di cui si occupa la Logica? Entità reali, oppure pensieri, o forme del
discorso? Il problema si pone già nella tarda Antichità. A proposito degli
universali (categorie, generi, specie) che appaiono 543 costituire propriamente
gli elementi in cui si ri- solve il discorso logico: gli universali sono
sostanze reali, o no? Porfirio nell’/sagoge imposta il pro- blema, Boezio ne
tenta una soluzione che tuttavia si aggira in circolo e risulta insoddisfacente;
donde nel Medio Evo la disputa tra i realisti (Bernardo di Chartres, Guglielmo
di Champeaux, Anselmo di Aosta, ecc.), i quali affermano l’esistenza reale
degli universali e quindi fanno della L. una specie di Ontologia, e i
nominalisti (Roscellino, Abelardo, più tardi Guglielmo d’Ockham), i quali
negano la sussistenza ontologica degli universali. Abelardo di- scutendo la
questione degli universali per primo arriva, attraverso un profondo commento al
testo boeziano, a fissare il piano proprio della L.: questa è scientia
sermocinalis; i termini della L. sono sermones, quindi parole, discorsi, non
però meri suoni (flarus vocis, come sembra sostenesse Ro- scellino), bensì
parole con una intenzione (intentio) significativa, vale a dire volte a significare
cose, o meglio qualità, date nell’esperienza. Da allora si precisano nella L.
medievale due correnti o metodi (viae): la via antiqua (o antiquorum) fedele
alla tra- dizione realistica, quindi ontologizzante, e la via moderna (o
modernorum), che sviluppa una L. « ter- ministica », ossia puramente
sermocinalis, dove i termini del discorso sono assunti come tali, indi-
pendentemente da ogni ipotesi metafisica sull’esi- stenza reale o meno del loro
oggetto. E questo fu in sostanza il punto di vista che si impose nella L. a
partire dal sec. xn e sul quale furono impostati i testi scolastici di questa
disciplina in uso fino agli inizi dell’Età moderna, come le Summulae Logicales
di Pietro Ispano (sec. xm), essendosi oramai diffusa la convinzione che la stessa
questione degli universali appartenesse piuttosto alla meta- fisica e alla
gnoseologia che non alla L. propria- mente detta, la quale rimane relativamente
indiffe- rente alle eventuali risposte date a quel problema. Tuttavia si veniva
a porre un’altra distinzione, la quale in parte è arrivata fino ai nostri
giorni: quella per cui oggetto della L. sono fatti mentali (Duns Scoto, ma
anche Tommaso d’Aquino e d’altra parte alcuni nominalisti), e quella per cui
non sitrattapropriamente di atti mentali bensì di forme strutturali,
intenzionalmente di- rette alla costituzione di contenuti semantici ma, come
forme, indipendenti e da tali con- tenuti e dagli atti mentali in cui tali
contenuti vengono appresi (Buridano e i suoi continuatori dei sec. XIV e Xv:
Alberto di Sassonia, Nicola di Autre- court, Marsilio di Inghen, ecc.). Sarà
quest’ultima posizione che, ripresa nell’età contemporanea da E. Husserl (e in
modo meno chiaro da B. Russell e da L. Wittgenstein) determinerà l’attuale
rinascita della concezione della L. come formale pura. 544 Ma intanto si veniva
a porre un altro problema. La L. è scienza o arte? Cioè: è disciplina che,
come, per es., le matematiche, espone rapporti obiettivi sussistenti tra i suoi
oggetti (per es., tra le premesse del sillogismo e la sua conclusione), oppure
una tecnica per ottenere discorsi corretti e veri? In genere i Logici medievali
ritengono che sia una cosa e l’altra; ed anche come arte, sia in- sieme una
precettistica (Logica docens) e un eser- cizio attivo di discorso o discussione
controllato da quei precetti (Logica utens). La reazione umani- stica contro la
Scolastica porta, nel campo della L., ad un’esaltazione di quest’ultimo aspetto
e ad una aspra polemica contro il formalismo tradizionale (Coluccio Salutati,
Lorenzo Valla, ecc.). Alla L. «inglese » (cioè terministica), la quale spesso
nel- l’insegnamento e nell’esercizio scolastico si perdeva in sterili arguzie e
cavilli disputatori (come già l’antica eristica ai tempi di Platone e di
Aristotele), si contrappone una L.-retorica, per lo più di ispi- razione
ciceroniana, come ricerca dei mezzi di persuasione mediante il discorso e
insieme disci- plina euristica che guidi alla ricerca delle verità nel campo
delle cose naturali ed umane (storiche ed etiche). Questo movimento di riforma
della L. culmina nel ramismo (da Petrus Ramus, cioè Pierre de la Ramée).
Accanto a questa corrente si deve ricordare anche l’altra, di ispirazione
invece peri- patetica, fiorita a Padova nel sec. xvi e che ebbe i massimi
esponenti nel Fracastoro e nello Zaba- rella, i quali accentrarono le loro
ricerche sul pro- blema, appena accennato nella trattazione aristo- telica,
dell’inferenza induttiva, delle sue difficoltà e dei suoi presupposti. Anche in
questi logici (sebbene, naturalmente, in forma meno drastica che non nei retori
umanisti) l’interesse per le strut- ture formali del discorso deduttivo è
fortemente diminuito a vantaggio di una concezione pragma- tica e metodologica
della scienza della logica. All’inizio del Seicento Francesco Bacone porta, in
un certo senso, a compimento questo processo, tentando con il Novum Organon (il
cui nome stesso è programmatico) una radicale riforma della L. con- cepita
esclusivamente come metodologia scientifica generale. Scartata quasi per intero
la tradizione L. peripatetico-scolastica (quella che aveva il suo centro nella
teoria formale del sillogismo), anche nella L. umanistica (di Ramo, ecc.)
scevera gli aspetti più propriamente metodologici, allo scopo di farne uno
«strumento» per guidare e inqua- drare la ricerca scientifica. Con il che
l’antica no- zione di « L.» appare interamente mutata. Il disinteresse per il
formalismo logico, e in sua vece l'interesse per problemi gnoseologici,
psicolo- gici e metodologici di una Logica utens si accen- tuano nel corso dell'Età
moderna: si che nel corso LOGICA dei sec. XVII, XVII e XTX « L. » diviene il
nome sco- lastico di una serie eterogenea di insegnamenti filosofici, ed i
manuali di questa «materia» (di questo titolo) espongono varie e diverse cose:
ac- canto alla sillogistica tradizionale (spesso però ri- dotta a pochi cenni e
comunque conservata più per ragioni di tradizione che per un interesse reale),
contengono annotazioni metodologiche, schizzi di teoria della conoscenza,
analisi di certi concetti generali, ecc. Tipica a questo proposito è l’Arf de
Penser dei maestri portorealisti, nota anche col nome di Logique de Port Royal,
che rimase a lungo il testo più importante di questa disciplina e il modello
più o meno fedelmente seguito e compen- diato dagli altri trattati. Tuttavia la
« rinascita » della geometria euclidea, iniziatasi nel sec. xVI e proseguita
trionfalmente (almeno per quanto ne concerne l'aspetto logico- formale) fino
quasi ai nostri giorni, ripropone, insieme al modello del « rigore » euclideo,
il problema di fissare le strutture discorsive da cui quello stesso rigore è
costituito e risulta. Cartesio (Regulae ad directionem ingenii, Discours de la
méthode) e poi Pascal (Esprit de géométrie e Art de persuader) cominciano ad
estrapolare in forma di regole metodologiche alcuni aspetti di quel «rigore»,
riportandosi, pur in polemica con la sillogistica tradizionale, sul medesimo
terreno di indagine delle forme strutturali di un linguaggio perfetto (qui, il
linguaggio matematico), e quindi ripro- ponendo alcuni problemi fondamentali di
L. for- male, quali il problema della definizione (nomi- nale e reale) e quello
della validità della deduzione da assiomi. Contemporaneamente Hobbes, muo-
vendo egli pure dall’euclidismo della nuova scienza (galileiana) della natura,
compiva un passo decisivo verso la concezione della L. formale pura moderna.
Hobbes infatti introduce la fecondissima idea del raziocinio come « calcolo
logico +, cioè come combi- nazione e trasformazione di simboli secondo certe
regole le quali già a Hobbes apparivano — ed in seguito appariranno sempre più
— convenzionali (comunque poi si abbia ad intendere tale « conven- zionalità
+). Appariva quindi nella storia del pensiero quel convenzionalismo che era
destinato in seguito a dimostrarsi il punto di vista più efficace per togliere
alla L. ogni presupposto dogmatico e meta- fisico, per liberarla dalle
contaminazioni psicolo- gistiche (che continueranno ad incepparne lo svi- luppo
fin quasi ai nostri giorni) e ad assestarla come disciplina della strutture
formali del discorso « rigo- roso » secondo determinati modelli
ideal-linguistici. Però il punto di vista convenzionalistico non era destinato
ad agire immediatamente sul pensiero logico moderno, che dai filosofi
precedentemente nominati prese piuttosto l’idea del calcolo logico LOGICA
basato sulla distinzione delle idee in semplici e complesse, e sull’analogia
(meramente formale) tra certe operazioni logiche e certe operazioni
aritmetiche. Rappresentando i termini con simboli generici (per es., lettere
dell’alfabeto: a, b, c, ..., x, Y, z; X, Y, Z; e simili) e le operazioni
logiche con simboli vari (di solito presi in prestito dall’aritmetica: +, X, =;
ecc.) si può tentare di svolgere una dot- trina matematica (formale) del
discorso. Leibniz fece parecchi tentativi in questa direzione, tutti però
infruttuosi e da lui stesso abbandonati; e tentativi del genere, analogamente
infruttuosi, fu- rono compiuti in seno alla scuola leibniziana, per esempio da
Lambert, Holland, Castillon. Ma più che in questi tentativi, forse
sopravvalutati dai logici matematici del nostro secolo, l’importanza di Leibniz
per la rinascita della L. dopo la crisi ini- ziatasi con l’Umanesimo, sta
nell’idea, ampiamente sviluppata dai suoi seguaci tedeschi del Settecento
(Lambert, Wolff, Crusius) di una «architettonica della ragione » (concepita non
più psicologicamente, ma in modo tale da preludere al punto di vista
«trascendentale » della filosofia posteriore) espli- cantesi nelle forme e
strutture del discorso; « archi- tettonica » che costituirà l’oggetto proprio
della Logica. L’eredità leibniziana è raccolta poi da Kant: il quale nella
Logik distingue nettamente quest’ul- tima disciplina sia dalla psicologia (con
la quale tendevano a confonderla gli Illuministî) sia dal- l’Ontologia (con la
quale tendevano a confonderia alcuni leibniziani — in particolare il Crusius),
affermandone il carattere di dottrina formale pura — non però del discorso,
bensì del pensiero: donde le possibilità di ricaduta in una specie di
psicologismo trascendentale, insite nel kantismo. Infatti, com'è noto, accanto
alla L. formale pura Kant pone una L. trascendentale come dottrina delle
funzioni pure della conoscenza; gli idealisti, in particolare Fichte e Hegel,
accentuando tale interpretazione psicolo- gistico-trascendentale risolveranno
entrambe le parti della L. kantiana nella parte trascendentale, inter- pretando
poi quest’ultima come una specie di «metafisica della mente» o del « Pensiero».
Da allora in vaste zone della filosofia contemporanea, tutte più o meno
influenzate dall’idealismo, il termine « L. » ha perduto interamente il suo
senso tradizionale per ritornare all’accezione illuministica di « filosofia del
pensare » in genere. La fine dell’Ot- tocento presenta appunto questo quadro.
La L. è intesa come una «teoria del pensiero » e quindi trattata con metodi
naturalistici dai positivisti (per es. Sigwart, Wundt, ecc.), con metodi
metafisico- trascendentali dagli idealisti. Edm. Husserl (Logische
Untersuchungen, I, 1900-1901) ha criticato a fondo questo punto di vista e,
riprendendo le idee di un logico boemo dimenticato, B. Bolzano (Wissen- 35 —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 545 schaftslehre, 1838), ripropone l’idea
della L. formale pura come dottrina delle proposizioni in sè (nella loro pura apofanticità
L., indipendenti quindi sia dagli atti psicologici in cui vengono pensate, sia
dalla realtà intorno a cui vertono) e della pura deduzione di proposizioni da
proposizioni (in sè). Già in questa prima opera, ma più ancora nelle successive
(particolarmente nella Formale und trans- zendentale Logik, 1928), Husserl
riprende l’idea della ragione come « ragione formale », ossia pura
architettonica del pensiero che si esplica storica- mente nell’attività
scientifica da una parte, e nella riflessione logica dall’altra. La rinascita
della L. formale pura, caratteristica dell’epoca contemporanea, doveva però
avvenire mediante una ripresa e uno sviluppo, con idee più chiare e maggiore
indipendenza da dottrine metafi- siche, degli abortiti tentativi leibniziani
per costruire la nostra disciplina nella forma di calcolo simbolico.
Quest'opera venne iniziata da un gruppo di filosofi e matematici inglesi nella
metà del secolo scorso. G. Bentham, W. Hamilton, A. De Morgan fecero lo sforzo,
storicamente decisivo, che doveva tra- sformare la L. in disciplina matematica,
superando l’ostacolo contro il quale si erano arenati i tentativi di Leibniz:
ostacolo costituito dal fatto che nella L. aristotelica le considerazioni
quantitative venivano introdotte solo nei riguardi del soggetto della pro-
posizione, ma non del predicato. Spetta soprattutto allo Hamilton la cosidetta
« quantificazione del predicato », ossia l’analisi delle proposizioni secondo
forme che introducono quantificatori (e tutti», « qualche +) non solo per il
soggetto, ma anche per il predicato: per es., che interpreta una proposizione
del tipo « tutti gli uomini sono mortali » come « tutti gli uomini sono alcuni
mortali ». In realtà non si trattava di una mera «correzione» alla L. aristo-
telica (nella quale l’omissione di quantificatori per il predicato non era
affatto casuale), bensì dell’intro- duzione di un punto di vista nuovo, del
punto di vista puramente esferssionale, per il quale i concetti sono
considerati solo come classi o collezioni di oggetti, e le proposizioni vengono
interpretate come inclusioni (o esclusioni) totali o parziali di classi in (da)
classi («tutti gli uomini sono mortali», «la classe ‘ uomo * è inclusa nella
classe ‘mortale ’ 1). In tal modo l’Analitica aristotelica (comprendente
principalmente la teoria della conversione e quella del sillogismo) veniva
trasformata in — veniva sostituita da — una specie di calcolo delle classi.
Muovendo da questi studi, una serie di logici e matematici inglesi (G. Boole,
Jevons, Venn, Whi- tehead) e alcuni continentali (Schròder, Poretsky, Couturat)
crearono una disciplina più formalizzata e assai più indipendente dalla L.
tradizionale, l’Algebra della Logica: un calcolo ambivalente 546
(interpretabile, cioè, come calcolo delle classi e come calcolo delle
proposizioni), del tutto simile, nella sua forma esteriore, all’Algebra
simbolica ordinaria, però con alcune peculiarità, per es., che in esso le
equazioni possono assumere solo i valori 1 («universo di discorso » oppure «
vero +) o 0 («classe vuota» oppure « falso +»); che a-a=aea+a=a;ecc. Sarà
quest'Algebra della L. a fornire i concetti-base e molti materiali dottrinari
alla Logica matematica, creata tra la fine del secolo scorso e gli inizi del
nostro da G. Frege, G. Peano e B. Russell, e cul- minante nei Principia
Mathematica di B. Russell e A. N. Whitehead, pubblicati tra il 1900 e il 1913.
In quest'opera la L. veniva ad essere costituita di due discipline
fondamentali: il calcolo proposi- zionale, secondo le operazioni principali
della ne- gazione, disgiunzione o affermazione alternativa, congiunzione o
affermazione simultanea, implica- zione materiale; e il calcolo delle funzioni
proposi- zionali (enunciati contenenti variabili); quest’ultimo dà origine alla
considerazione di enunciati generali ed enunciati particolari o esistenziali,
mediante gli operatori « per ogni x» ed «esiste almeno un x tale che» (risp.
‘(x) ”. e ‘(Hx) ’.). Da quest’ultima dottrina deriva quella dei simboli
incompleti: de- scrizioni (tipo « il re di Francia +) e classi. Il calcolo
delle classi quindi non è più una dottrina fondamen- tale della L., essendo
derivabile da quello delle funzioni proposizionali: tuttavia, data la sua
impor- tanza, molti logici contemporanei ne fanno ancora un capitolo a sè (e lo
stesso si dica di quello delle relazioni). In seguito il Wittgenstein, nel
7ractasus, enuncerà una specie di seconda tesi estensionale per le
proposizioni: distinguendo proposizioni ato- miche (cioè semplici) da
molecolari (cioè complesse) affermerà che queste ultime dipendono tutte, per la
loro verità o falsità, dalla verità o falsità delle componenti atomiche più le
regole semantiche delle operazioni di composizione (per es., l’enunciato
«poqg»è vero se, e solo se, almeno p o qè vero): donde un assetto del calcolo
proposizionale sulla base di certi diagrammi logici meramente combina- tori.
Partendo da questi, nel periodo tra le due guerre mondiali, alcuni logici,
principalmente polacchi, tenteranno di elaborare delle Logiche polivalenti,
nelle quali gli enunciati oltre 1 (« vero +) e 0 (« falso 1) possono assumere
altri valori intermedi. Mancava ancora nei Principia, esclusivamente rivolti
alla fondazione dell’Aritmetica dei numeri naturali, una trattazione della
Logica modale, ossia un calcolo di valori modali come « possibile », «
necessario », ecc., la quale verrà tentata in seguito da logici come il Lewis e
il von Wright. La L. matematica aveva soprattutto due scopi: 1° di costituire
la disciplina matematica fondamen- tale, di cui tutte le altre matematiche,
secondo la LOGICA tesi /ogicistica, sostenuta appunto da Frege e da Russell,
dovrebbero costituire dei rami, più o meno complessi, ma tuttavia pur sempre
con quel mede- simo materiale concettuale e ad esso riducibili; e 2° di
costituire (secondo il programma formalistico del Peano, sviluppato poi da D.
Hilbert) metodi di assetto rigoroso e di controllo logico delle disci- pline
matematiche vere e proprie. La L. diviene così uno strumento di analisi
filosofica. Per opera di Russell e Wittgenstein essa viene a costituire una
specie di linguaggio ideale o perfetto, o meglio, lo schema generale (perchè
meramente simbo- lico) di un tale linguaggio, secondo il quale schema si
dovrebbero poi costruire linguaggi, o frammenti di linguaggi, scientifici, in
cui dovrebbero venir tradotti, e così analizzati secondo le strutture logiche
di quel linguaggio, gli enunciati delle singole discipline sotto esame. Sotto
questa luce, la L. simbolica russelliana non è più strettamente legata alle
matematiche come tali: è la L. tout court, uno strumento di analisi scientifica
in generale. E fu applicata anche all'analisi filosofica dallo stesso Russell,
da Wittgenstein, da Wisdom, e in seguito (con un deciso abbandono dei
presupposti metafisici dell’atomismo logico russelliano) dagli empiristi
logici. Ma il programma russelliano, accentrato nella nozione di linguaggio
ideale, venne sottoposto ad aspre critiche, principalmente, ma non esclusiva-
mente, da parte degli « analisti dell’uso » di Oxford. D'altra parte in altri
settori (per es., nella scuola tedesca discendente da Hilbert e da Scholze, e
nella scuola polacca di Lukasiewicz e Tarski) gli interessi matematici e
l'interesse per la L. stessa come disciplina strettamente matematica, rimasero
pre- valenti. Di qui uno scindersi (per ora soltanto par- ziale) della L. in
una serie di discipline sempre più formalizzate e matematizzate, con i
problemi, assai complessi, inerenti alla formalizzazione di una di- sciplina
matematica fondamentale (la metamate- matica), per la quale non si può usare di
un altro linguaggio formalizzante senza cadere in un circolo: donde i problemi,
affrontati da Gédel, da Hermes, da Tarski e in parte anche da Carnap. Invece in
seno alla ex-scuola di Vienna, ora scuola di Chicago, e sotto l’influenza di
altre correnti (neopositivismo inglese, pragmatismo americano) la logica si è
venuta orientando, per opera soprattutto di Morris, di Carnap, di Hempel, in
senso più analitico-filo- sofico, tendendo a diventare parte di una disci-
plina assai più ampia, la semiotica o teoria generale dei segni (di cui la
teoria del linguaggio è la parte più interessante), creata da Ch. W. Morris
sotto la doppia spinta della sintassi logica carnapiana e della Logica
deweyana. Abbandonato ogni presupposto coscienzialistico o mentalistico e ogni
velleità me- LOGOS tafisica, la scienza del pensiero diviene scienza del
linguaggio, ossia di un tipico e fondamentale com- portamento umano. L’analisi
logica diviene analisi linguistica: ma quella che la tradizione considerava
come dimensione « L. +» è soltanto una dimensione del linguaggio, o meglio due
(come distinsero Morris e Carnap, con una distinzione largamente accettata, ma
oggi anche assai controversa): la dimensione sintattica, per cui i segni che
compongono il discorso {il linguaggio) si connettono tra loro secondo regole di
formazione e trasformazione (derivazione) rela- tive alla sola forma del
discorso stesso; e la dimen- sione semantica, per cui il discorso, e gli
enunciati che lo compongono, può essere vero o falso, cioè porta su fatti ed eventi,
e di conseguenza — conse- guenza però che molti filosofi, per es., i
fenomenisti, contesterebbero — le parole che lo compongono portano su cose e
qualità. Questi sono i due aspetti fondamentali, L. matematica e L. formale
analitica, in cui si divide oggi la L., divisione tuttavia che non significa
separazione in due diverse, e tanto meno antitetiche, discipline, bensì due
diverse direzioni della ricerca logica, mosse da due tipi diversi di inte-
resse teoretico. G. P. LOGICI, PRINCIPI. V. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI;
FONDAMENTO; IDENTITÀ, PRINCIPIO DI; TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. LOGICISMO
(ingl. Logicism; franc. Logicisme; ted. Logicismus). Con questo nome si usa
designare una corrente di pensiero logico-matematico che tra la fine del secolo
scorso e gli inizi del nostro ebbe i primi e massimi rappresentanti in R.
Dedekind, G. Frege e B. Russell; e nel sec. xx ebbe molti seguaci, soprattutto
(ma non esclusivamente) in seno al cosidetto «Circolo di Vienna + (Carnap). I
pensatori di questo indirizzo sostengono che la matematica (pura) è un ramo
della Logica, ossia che tutte le proposizioni delle matematiche pure (in
particolare dell’Aritmetica, e quindi dell’Analisi) si possono enunciare con il
solo vocabolario e la sola sintassi della Logica matematica, la quale diviene
così la disciplina matematica per eccellenza. Con questa convinzione Dedekind,
Frege e Russell avevano condotte le loro celebri analisi del con- cetto di «
numero » (intero) appunto per definirlo soltanto mediante nozioni (simboli) della
Logica matematica. Al L. si oppongono il formalismo e l’intuizionismo (v.
MATEMATICA). G. P. LOGICO (ingl. Logica!; franc. Logique; te- desco Logisch).
1. Lo stesso che razionale. 2. Ciò che concerne un determinato tipo di logica.
In questo senso si chiama oggi « verità lo- gica » la verità che consiste
nell’enunciazione di una tautologia, conformemente al concetto della logica
come studio delle tautologie (v. LoGICA; RAGIONE). 547 LOGISTICA (ingl.
Logistic; franc. Logistique; ted. Logistik). Nell’Antichità (per es., nei
frammenti del pitagorico Archita di Taranto) il termine « L. »era a volte usato
per indicare l’aritmetica pura. Leibniz usò il termine come sinonimo di «
calcolo logico » o «logica matematica »: e con questo significato di «logica
simbolica +» 0 « matematica » venne proposto da Couturat e Lalande al Congresso
Internazionale di Filosofia di Parigi nel 1904. Ma, dopo aver avuto una certa
fortuna, il termine « L. » è oggi raramente adoperato. 0. P. LOGISTICO,
SISTEMA. V. SisreMma Lo- GISTICO. LOGOS (gr. x6y0c; lat. Verbum). La ragione in
quanto 1° sostanza o causa del mondo; 2° per- sona divina. 1° La dottrina del
L. come sostanza o causa del mondo è stata per la prima volta difesa da
Eraclito. « Gli uomini sono ottusi nei confronti dell’essere del L., dice
Eraclito, sia prima che dopo averne sentito parlare; e sembrano inesperti,
sebbene tutto avvenga secondo il L.» (Fr. 1, Diels). Il L. è concepito da
Eraclito come la legge stessa del mondo: « Tutte le leggi umane si alimentano
di una sola legge divina: perchè questa domina tutto ciò che vuole e basta a
tutto e prevale su tutto + (Fr. 114, Diels). Questa concezione fu fatta propria
dagli Stoici, i quali videro nella ragione il « principio attivo » del mondo,
che anima, ordina e guida il principio passivo di esso, che è la materia. «Il
principio attivo, dicevano, è il L. che è nella materia cioè Dio: esso è eterno
e attraverso la materia è l’artefice di ogni cosa » (Diog. L., VII, 134). Il L.
così inteso, cioè come principio formativo del mondo, è identificato dagli
Stoici col destino (/bid., VII, 149). Nello stesso senso Plotino afferma: « Il
L. che agisce nella materia è un principio attivo naturale: non è pensiero nè
visione ma potenza capace di modificare la materia, potenza che non conosce ma
agisce come il sigillo che imprime la sua forma o come l’oggetto che riproduce
il suo riflesso nell’acqua; come il cerchio viene dal centro, così la potenza
vegetativa o generatrice riceve d’altronde la sua potenza produttiva cioè dalla
parte principale dell’anima, la quale gliela comunica modificando l’anima
generatrice che risiede nel tutto » (Enn., II, 3, 17). In tal senso il L. è lo
stesso Intelletto divino in quanto ordinatore del mondo: « Dall’intelligenza
emana il L. e ne emana sempre, fin tanto che l’Intelletto è presente in tutti
gli esseri » (Ibid., III, 2, 2). Questa concezione è servita da modello a tutte
le forme del panteismo moderno (v. Dio). 2° La dottrina del L. come ipostasi o
persona divina trova la sua prima formulazione per opera di Filone di
Alessandria. In questa dottrina, il L. 548 è un ente intermedio tra Dio e il
mondo, il tra- mite della creazione divina. Dice Filone: « L'ombra di Dio è il
suo L., servendosi del quale come di strumento, Dio creò il mondo. Quest’ombra,
è quasi l’immagine derivata e il modello delle altre cose. Giacchè come Dio è
il modello di quella sua immagine o ombra che è il L., così il L. è il modello
delle altre cose » (Leg. A//., IHI, 31). Dal cristianesimo, il L. viene
identificato col Cristo. Il prologo del- l’Evangelo di San Giovanni, accanto
alle funzioni che già Filone attribuiva al L., aggiunge la deter- minazione
propriamente cristiana: « Il L. si è fatto carne ed ha abitato tra noi»
(Joann., I, 14). Nella sua elaborazione della teologia cristiana, i Padri della
chiesa insistettero sui due punti seguenti: 1° sulla perfetta parità del
Logos-Figlio col Dio- Padre; 2° sulla partecipazione del genere umano al L.
stesso in quanto ragione: «Noi imparammo, dice ad es. Giustino, che Cristo è il
primogenito di Dio e che è il L., del quale partecipa tutto il genere umano»
(Apol. Prima, 46). Contro gli Gnostici seguaci di Valentino, per i quali il L.
è l’ultimo degli Eoni, che, per essere più vicino al mondo, è quello destinato
a formarlo, Ireneo afferma l’uguaglianza di essenza e di dignità tra Dio padre
e il L., come di entrambi e dello Spirito Santo (Adv. haeres., II, 13, 8). Su
questi concetti dovevano fondarsi le formulazioni dogmatiche del sec. Iv,
specialmente le decisioni del Concilio di Nicea (325) intorno ai due dogmi
fondamentali del cristianesimo, la Trinità e l’Incarnazione. Ma nel frattempo
la nozione di L. continuò ad oscillare tra l’interpre- tazione che esige la
perfetta parità del L. con Dio e quella che invece stabilisce una certa
differenza gerarchica fra le due ipostasi. La dottrina di Origene, che fu il
primo grande sistema di filosofia cristiana (m secolo), inclina piuttosto verso
la seconda inter- pretazione. Origene afferma che si può dire del L., ma non di
Dio, che è l’essere degli esseri, la sostanza delle sostanze, l’idea delle
idee: Dio è al di là di tutte queste cose (De Princ., VI, 64). Pertanto, il L.
è coeterno con il Padre, il quale non sarebbe tale se non generasse il Figlio,
ma non è eterno nello stesso senso. Dio è la vita e il Figlio riceve la vita
dal Padre. Il Padre è Iddio il figlio è Dio (In Joann., II, 1-2). Come già si è
detto, la Chiesa, nelle sue assisi conciliari, si pronunciò contro questa
inter- pretazione, che rimase l’appannaggio di tentativi eretici, più volte
rinnovati nel corso della sua storia. La dottrina del L. è rimasta una dottrina
religiosa. I filosofi hanno fatto ricorso ad essa solo quando hanno voluto dare
una veste religiosa alla loro dottrina. Così ha fatto Fichte nella seconda fase
del suo pensiero. Nella Introduzione alla vita beata (1806) Fichte, ricorrendo
al prologo dell’Evangelo di San Giovanni, vuol mostrare l’accordo del suo
LOQUACITÀ idealismo con il Cristianesimo; e pertanto riconosce nel L. ciò che
egli chiama l’Esistenza o la Rivela- zione di Dio (al di là della quale rimane
l’Essere di Dio): cioè il Sapere, l’Io, l’Immagine, di cui la vita divina è a
fondamento (Werke, V, pag. 475). LOQUACITÀ (gr. dSoreoxta; lat. Loquacitas;
ingl. Loquacity; franc. Loquacité; ted. Redseligkeit). Secondo Aristotele, uno
dei caratteri delle persone anziane che sono più interessate al passato che al
futuro (che ormai promette poco per loro) e perciò godono di rievocarlo
parlando (Rer., II, 13, 1390 a 6). LOTTA PER LA VITA. V. SELEZIONE NA- TURALE.
LUCE (lat. Lux; ingl. Ligh:; franc. Lumiere; ted. Lich). Una tradizione
filosofica, che pro- babilmente ha la sua lontana origine nella reli- gione
persiana che adorò in Mitra lo « Spirito della L.» (cfr. Cumont, Oriental
Religions in Roman Paganism; trad. ingl., pag. 155), fa della L. una realtà
privilegiata di natura incorporea, tramite della comunicazione fra le regioni
superiori del mondo e l’uomo. Le caratteristiche salienti di questa dottrina
sono le seguenti: 1° la L. è una realtà superiore privilegiata, che è Dio stesso
o è da Dio; 2° la L. è incorporea e fa da tramite tra mondo incorporeo e mondo
corporeo; 3° la L. è la forma generale (cioè l’essenza o la natura) delle cose
cor- poree. Le prime due tesi sono di carattere religioso e di schietta
derivazione orientale. La terza è pro- priamente filosofica e rimane
caratteristica del- l’agostinismo medievale. Nella filosofia occidentale, la
metafisica della luce è introdotta da Parmenide. « Poichè tutte le cose si
dicono luce e notte e poichè luce e notte sono pre- senti a questa o a quella
cosa, secondo le loro possibilità, il tutto è pieno di L. e insieme di invi-
sibile tenebra e L. e tenebra sono eguali perchè nessuna prevale sull’altra »
(Fr. 9). La sostanzia- lizzazione della L. si affaccia frequentemente nelle
Enneadi di Plotino dove talora non è facile distin- guere la L. come metafora
dalla L. come sostanza (per es., Enn., V, 3, 9; IV, 3, 17). Si affaccia con
tutta chiarezza nelle speculazioni degli Gnostici che sono di diretta
derivazione manichea: « Prima che l’uni- verso visibile avesse origine
sussistevano due supremi princìpi: l’uno buono, l’altro perverso. La dimora del
primo, del Padre della grandezza, era nella regione della luce. Egli si
moltiplicava in cinque ipostasi: l’Intelletto, la Ragione, il Pensiero, la
Riflessione, la Volontà» (BuoNAIUTI, Frammenti gnostici, 1923, pag. 55). In uno
dei libri della Kabala, il Zohar, la L. viene intesa come la sostanza primitiva
che appare talvolta come cielo; e pertanto come l’elemento nel quale gli altri
si dissolveranno alla fine dei tempi (cfr. SfRouva, La XKabbale, LUME Parigi,
1957, pag. 346 sgg.). Questa dottrina passò nella filosofia ebraica del Medio
Evo e da essa nella scolastica cristiana. In questa, essa fu caratteristica
dell'indirizzo agostiniano, difeso specialmente dai Francescani. Nel sec. xm,
Roberto Grossatesta affermava che tutti i corpi hanno una forma comune, la
quale si unisce alla materia prima, anteriormente alla specificazione di essa
nei vari elementi. Questa forma prima è la luce. « La L., egli dice, si
diffonde da sè in tutte le direzioni, in modo che da un punto luminoso viene
immediatamente generata una sfera di L. grande quanto si vuole, a meno che non
le faccia ostacolo qualche corpo opaco. Dall'altro lato la corporeità è ciò che
ha per conseguenza necessaria l'estensione della materia nelle tre dimensioni »
(De inchoatione formarum, ed. Baur, 51-52). Ro- berto identificava così la
diffusione istantanea della L. in tutte le direzioni con la tridimensionalità
dello spazio, e quindi la L. con lo spazio. Quasi negli stessi termini
Bonaventura da Bagnorea affermava che la L. non è un corpo, ma la forma di
tutti i corpi. «La L. è la forma sostanziale di ogni corpo naturale». Tutti i
corpi ne partecipano più o meno e a seconda che ne partecipano hanno maggiore o
minore dignità e valore nella gerarchia degli esseri. Essa è il principio della
formazione generale dei corpi; la loro formazione speciale è dovuta al so-
praggiungere di altre forme, elementari o miste (In Sent., II, d. 13, d. 2, q.
1-2). Nella seconda metà dello stesso xm secolo la Perspectiva di Witelo espone
idee molto simili. « L'azione divina si esplica nel mondo per il tramite della
luce. Le sostanze inferiori ricevono da quelle superiori la L. derivata dalla
fonte della divina bontà; in generale l’essere di ogni cosa deriva dall’essere
divino, ogni intellig- gibilità deriva dall’intelletto divino e ogni vitalità
dalla vita divina. Di tutte queste influenze il principio il mezzo e il fine è
la L. divina dalla quale, per la quale e alla quale tutte le cose sono
disposte» (Perspectiva, ed. Bacumker, pag. 127-28). L’ottica che studia le
leggi della diffusione della L. diventa così l’intera fisica in quanto l’intero
mondo fisico è determinato dalla diffusione della L. (/bid., pa- gina 131).
Forse l’ultima manifestazione di questa fisica o metafisica della L. si può
vedere nel progetto di Cartesio di descrivere il mondo dal punto di vista della
luce. «Come i pittori non potendo rap- presentare nel quadro tutte le diverse
facce di un corpo ne scelgono una delle principali, che mettono verso la L., e
situando in ombra le altre le fanno apparire solo quel tanto che si può
vederle; così temendo di non poter mettere nel mio discorso [cioè nel
progettato libro sul Mondo che poi non pubblicò] tutto ciò che avevo nel
pensiero, progettai di esporre molto ampiamente soltanto ciò che pensavo della
L.; poi, in questa occasione, 549 di aggiungere qualcosa sul sole e le stelle
fisse perchè essa deriva quasi tutta da queste fonti; sui cieli perchè la
trasmettono; sui pianeti, sulle comete e la terra perchè la riflettono; in
particolare su tutti i corpi che sono sulla terra perchè sono o colorati o
trasparenti o luminosi; e infine sull'uomo perchè ne è lo spettatore »
(Discours, V). LULLIANA, ARTE (lat. Ars /ulliana; in- glese Lullic Art; franc.
Art lullien; ted. Lullische Kunst). Propriamente l’ars magna di Raimondo Lullo
(1235-1315) cioè la scienza universale che insegna a combinare i termini per la
scoperta sin- tetica dei princìpi delle scienze. A differenza della logica
aristotelica, l’ars magna vuol essere un pro- cedimento inventivo che non si
ferma a risolvere le verità conosciute ma procede a scoprire le nuove. La
nozione di quest’arte che trovò nel Rinasci- mento seguaci entusiasti, tra i
quali Agrippa, Bo- villo e Bruno, fu ripresa da Leibniz che la chiamò
Caratteristica generale (v. CARATTERISTICA). LUME (gr. péyyos; lat. Lumen;
ingl. Light; franc. Lumiére; ted. Licht). Il criterio direttivo del pensiero e
della condotta dell’uomo, in quanto paragonato a un L. proveniente dall’alto o
dal- l'esterno. Aristotele paragonava alla luce, che fa venire all’atto i
colori che nell’oscurità sono soltanto in potenza, l’azione dell’intelletto
attivo sull’animo umano (De An., III, 5, 430 a 15). Gli Stoici parlavano della
facoltà sensibile e della rappresentazione catalettica come di un « lume della
natura +. « Come lume di natura per il riconoscimento della verità, essi
dicevano, ci è stata data la facoltà sensibile e la rappresentazione che
attraverso di essa si genera » (Sesto E., Adv. Math., VII, 259). E Cicerone
diceva: «La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben presto guastati da
cattivi costumi e da false opinioni, le spegniamo in modo da far scomparire
totalmente il L. della natura» (7usc., III, 1, 2). Plotino a sua volta parla
del Bene come della « luce di cui l’intelletto è illuminato » (Enn., VI, 7,
24). Ma solamente in Sant'Agostino la nozione di L. divenne fondamentale e solo
attraverso l’opera di lui si diffuse e rimase viva nella tradizione occiden-
tale. Sant'Agostino riconosce agli Stoici il merito di aver visto in Dio « il
L. delle menti » (De Civ. Dei, VIII, 7). Questo L. è la condizione di ogni
conoscenza vera e di ogni comunicazione di verità. La luce della verità che,
partendo da Dio, illumina diretta- mente l’anima e la guida, è il concetto
centrale della filosofia agostiniana. « Anche gli ignoranti, dice
Sant'Agostino, quando sono bene interrogati ri- spondono correttamente intorno
ad alcune disci- pline perchè è presente ad essi, nella misura in cui lo
possono ricevere, il L. della ragione eterna, nel quale essi vedono le verità
immutabili » (Retractiones, I, 4, 4). Questo significa che il funzionamento na-
550 turale dell’intelletto umano esige la presenza della luce divina e che
pertanto la conoscenza della verità è, per l’uomo, la visione della verità
stessa in Dio, resa possibile, ogni volta, dalla diretta illuminazione divina.
Ai primordi della Scolastica questa dottrina veniva riprodotta da Scoto
Eriugena (De divis. nat., II, 23). Ma nel corso ulteriore della Scolastica essa
doveva diventare uno dei massimi punti di dissenso tra la scolastica
agostiniana e la scolastica aristotelica. Tale dissenso si può vedere
tipicamente espresso nelle posizioni di San Bonaventura e di San Tommaso. San
Bonaventura si rifà alle parole di Agostino «il quale a chiare lettere e con
ragioni dimostra che la mente, nella sua conoscenza certa, dev'essere regolata
da regole immutabili ed eterne, non attraverso una sua disposizione (habitus)
ma direttamente da queste regole stesse, che sono al di sopra di essa, nella
Verità eterna » (De Scientia Christi, q. 4). San Tommaso, dal suo canto,
ammette che «tutto ciò che si sa con certezza, deriva del L. della ragione che
per opera divina è innato interiormente all’uomo » (De Ver., q. 11, a. 1, ad
13). Ma interpreta aristotelicamente questo L. come la conoscenza innata dei
primi princìpi indimostrabili «che si conoscono per il L. dell’intelletto
agente » (Contra Gent., III, 46). In altri termini, la conoscenza umana della
verità non è visione in Dio o illumina- zione diretta da parte di Dio: ma l’uso
di una « forma » che Dio ha comunicato alla mente umana e che costituisce
pertanto il «L. naturale » di essa (S. 7h., I, g.106, a. 1). San Tommaso
distingue da questo L. naturale, il L. di gloria (/umen gloriae) che rende «
deiforme » la creatura razionale cioè la rende capace di vedere l’essenza
divina e nega che il L. di gloria possa essere una disposizione naturale
dell’uomo (/bid., I, q. 12, a. 5); e che possa esserlo il lumen gratiae cioè la
grazia giustificante (/bid., I, q.106, a. 1). Il significato agostiniano del
concetto di L. cioè quello per il quale significa l'illuminazione continua da
parte di Dio si conserva nelle dottrine che, nel mondo moderno e contemporaneo,
si rifanno all’agostinismo. Sono le dottrine per le quali la conoscenza è una «
visione in Dio». Tale essa era per Malebranche (Recherche de la vérité, III, 2,
6), per Rosmini (Nuovo Saggio, $ 396) e per Gioberti (Introd. allo studio della
fil., II, pag. 175). Dal- l’altro lato, cioè lungo la linea della seconda in-
terpretazione, il L. naturale finisce per perdere ogni connessione teologica.
Il titolo che Cartesio dette a un dialogo lasciato incompiuto, che doveva
riassumere la sua filosofia, dimostra il modo in cui egli intendeva la nozione
in esame: « Ricerca della verità con il L. naturale che, da sè, e senza il
soccorso della religione e della filosofia, deter- mina le opinioni che deve
avere un onest’uomo LUOGHI su tutte le cose che possono occupare il suo pen-
siero e penetra fino nei segreti delle scienze più curiose ». Il L. naturale,
inteso così, è quel « buon senso o ragione » che nei primi righi del Discorso
del metodo è detta «la cosa del mondo meglio distribuita »; e di cui nei
Principi di filosofia (I, 30) si dice: « La facoltà di conoscere che ci è stata
data e che noi chiamiamo L. naturale non percepisce che oggetti veri, in quanto
li appercepisce cioè in quanto li conosce chiaramente e distintamente ».
Leibniz a sua volta afferma che «il L. naturale suppone una conoscenza distinta
» (Nouv. Ess., I, 1, 21) e Cristiano Wolff intendeva per «L. del- l’anima » la
«chiarezza delle percezioni » (Psychol. empirica, $ 35). In questi usi,
l’espressione non ha più nulla del significato tradizionale, cioè di una luce
che venga dal di fuori o dall’alto a investire la mente umana e a guidarla. Il
L. naturale è qui soltanto la chiarezza del pensiero umano. Leibniz dice
parlando della massima « Bisogna seguire la gioia ed evitare la tristezza »
che: « Si tratta di un principio innato, ma che non fa parte del L. na- turale,
giacchè non lo si conosce affatto in modo luminoso » (Nouv. Ess., I, 2, 1). Il
significato che l’espressione «i L.» assunse nel periodo illumini- stico è
proprio questo chiarito da Leibniz. I L. sono la chiarezza della critica
razionale portata in tutti i campi possibili del sapere e assunta come cri-
terio direttivo del pensiero e della condotta del- l’uomo. LUOGHI (gr. r6ror;
lat. Loci; ingl. Topics; franc. Lieux; ted. Òrter). Secondo Aristotele, sono
gli oggetti propri dei ragionamenti dialettici e re- torici cioè quegli «
argomenti che sono comuni all’etica, alla politica, alla fisica e a molte altre
discipline diverse, come, per es., l'argomento del più e del meno» (Rer., I, 2,
1358 a 10). Questi sarebbero i L. comuni. Ma vi sono anche, secondo Aristotele,
L. speciali 0 propri cioè argomenti co- stituiti da proposizioni che
appartengono, per es., alla fisica ma su cui è impossibile fondare propo-
sizioni concernenti l’etica o reciprocamente. I L. co- muni non hanno oggetto
specifico perciò non ac- crescono la conoscenza delle cose; i L. propri invece,
specialmente se utilizzano proposizioni op- portunamente scelte, contribuiscono
alla conoscenza delle scienze speciali (Res., I, 2, i358a 21). I retori latini
sottolinearono l’importanza che la ricerca degli argomenti e specialmente degli
argo- menti (o L.) comuni — che non accrescono il sapere ma sono strumenti di
persuasione — ha per l’arte oratoria (CICERONE, Top., 2, 7; De orat., II, 36,
152; QuinTILIANO, /nst., V, 10, 20). E at- traverso le opere logiche di Boezio
(De diff. to- picis, I; P.L., 64°, col. 1174) la nozione passò nella logica
medievale. Pietro Ispano definisce il LUOGO L. come «la sede di un argomento o
ciò da cui si trae un argomento conveniente alla questione pro- posta »
(Summul. Log., 5.06). Come si è detto, la parte della logica che studia i L. è
la 7opica. Cicerone la interpretò come la parte inventiva della logica stessa
cioè come quella che escogita gli argomenti utili a convincere, più che
limitarsi a giudicarli dal punto di vista della loro validità. E rimproverò
agli Stoici di aver coltivata la sola dialettica e di aver trascurato la Topica
(Top., 2, 6). Ma in realtà non c’è cenno in Aristotele della capacità inventiva
della Topica: la quale è piuttosto intesa come una ricerca diretta a ricondurre
sotto un numero ristretto di capi (che sono appunto i L.) gli argomenti che
ricorrono in più scienze o in più parti di una stessa scienza. Comunque, anche
la credenza nel carattere inven- tivo della Topica passò nella tradizione
(attraverso Boezio, De diff. top., 1; P. L., 64°, col. 1173); ed anzi, quando
si cominciò a riconoscere il carattere improduttivo della logica aristotelica,
le si con- trappose l’importanza della Topica come arte del- l'invenzione. Così
fece Pietro Ramo nelle sue Dialecticae Institutiones (1543); e così fece Vico
che nel De antiquissima Italorum Sapientia (1710) con- siderò la Topica come
l’arte propria dell'ingegno che è la facoltà dell’invenzione. Ancora nella Lo-
gica Hamburgensis (1638) di Jungius c'è un’am- plissima trattazione dei L.
logici che è però con- tenuta sotto il titolo della Dialettica (libro V). Ma la
Logica di Portoreale (1662) affermava già la scarsa utilità dello studio dei
Topici: « Per formare gli uomini in un’eloquenza giudiziosa e solida, scrisse
Arnauld, sarebbe utile insegnare loro a ta- cere più che a parlare, cioè a
sopprimere e ad eliminare i pensieri bassi, comuni e falsi, piuttosto che a
produrre, come fanno, un ammasso confuso di ragionamenti buoni e cattivi dei
quali si riem- piono libri e discorsi » (Logigue, cap. 17). Lo studio dei L. di
questo genere serve perciò soltanto a riconoscerli ed a evitarli. La Logica di
Portoreale ne enumerava tre specie: quelli grammaticali, quelli logici e quelli
metafisici (Zbid., cap. 18). In seguito, lo studio dei L. ha cessato di essere
parte integrante della logica. Kant generalizza il concetto di luogo logico
intendendo per esso «ogni concetto, ogni titolo sotto il quale si raccolgono molte
cono- scenze » e parla di una «Topica trascendentale » che ha per oggetto «la
determinazione del posto che spetta nella sensibilità o nel concetto puro a
ciascun concetto, secondo la diversità del suo uso » (Cri. R. Pura, Anal. dei
princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). In questo 551
senso la Topica coincide con la « Dottrina degli elementi» della stessa Critica
della Ragion Pura. LUOGO (gr. r6rog; lat. Locus; ingl. Place; franc. Lieu;
ted. Ort). La situazione di un corpo nello spazio. Vi sono
due dottrine del L.: 1° quella aristotelica per la quale il L. è il limite che
circonda il corpo ed è quindi una realtà per suo conto; 2° quella moderna, per
la quale il L. è un certo rapporto di un corpo con gli altri. 1° Secondo
Aristotele, il L. è «il primo limite immobile che abbraccia un corpo» (Fis.,
IV, 4, 212a 20): o in altri termini è ciò che abbraccia o circonda
immediatamente il corpo. In questo senso si dice che un corpo è nell’aria
perchè l’aria circonda il corpo ed è ad immediato contatto con esso. Questa
concezione rimane lungo tutta la filo- sofia medievale ed è ripetuta
sostanzialmente anche dai critici della fisica aristotelica, per es., da Ockham
(Summulae in libros Phys., IV, 20; Quodl., I, 4). In base a questa concezione esistono
«luoghi na- turali », che sono quelli nei quali un corpo natural- mente sta o a
cui ritorna quando ne è allontanato: « Una cosa, dice Aristotele, si muove o
natural- mente o non naturalmente e i due movimenti sono determinati dai luoghi
propri e dai luoghi estranei. Un L. nel quale una cosa rimane o verso la quale
si muove non per sua natura, dev'essere il L. na- turale di qualche altra cosa,
come l’esperienza dimostra » (De Cael., I, 7, 276 a 11). L'intera fisica
aristotelica poggia su questo teorema (v. FISICA). 2° La teoria aristotelica
dei luoghi veniva sot- toposta a una critica decisiva da Galilei nei Dialoghi
dei massimi sistemi (1632, Giornata seconda). Car- tesio esprimeva, qualche
anno più tardi, con tutta chiarezza, il concetto di L. che emergeva dalle nuove
impostazioni della scienza. « Le parole ‘ L. * e ‘spazio ’, egli diceva, non
significano nulla che differisca veramente dai corpi che diciamo essere in
qualche L. e indicano solamente la loro grandezza e figura e come essi sono
situati fra gli altri corpi. Bisogna infatti, per determinare questa
situazione, riferirsi ad altri corpi che consideriamo immobili; ma potendo tali
corpi esser diversi, possiamo dire che una stessa cosa, nello stesso tempo,
muta e non muta di L.» (Princ. Phil., II, 13). E Cartesio porta qui l’esempio
dell’uomo che è seduto in una barca che si allontana dalla riva: il L. di
questo uomo non muta rispetto alla barca ma muta ri- spetto alla riva. Con
queste osservazioni, che espri- mono la relatività del movimento (relatività
gali leiana), era raggiunto il concetto moderno di L. come riferimento di un
corpo ad un altro corpo assunto come sistema di riferimento. M MACHIAVELLISMO
(ingl. Machiavellianism; franc. Machiavélisme; ted. Machiavelismus). La
dottrina politica di Machiavelli o il princìpio nel quale essa viene
convenzionalmente riassunta. La dottrina politica di Machiavelli ha esplici-
tamente lo scopo di additare la via attraverso la quale le comunità politiche
in generale (ed in parti- colare quella italiana) possono rinnovarsi conservan-
dosi o conservarsi rinnovandosi. Tale via è il ritorno ai principi,
conformemente alla concezione che il Rinascimento (v.) ha del rinnovamento
dell’uomo in ogni campo. Il ritorno ai princìpi di una comunità politica
suppone due condizioni e cioè: 1° che le origini storiche di una comunità
vengano chiara- mente riconosciute, il che può essere fatto solo da una
indagine storica obbiettiva; 2° che siano riconosciute nella loro verità
effettuale le condizioni a partire dalle quali o attraverso le quali il ritorno
dev'essere realizzato. L’oggettività storiografica e il realismo politico
costituiscono così i due capisaldi del machiavellismo originario. Il secondo di
essi fa di Machiavelli il fondatore della scienza empirica della politica cioè
di una disciplina empirica che studi le regole dell’arte di governo senz’altra
preoccupazione che l'efficacia di tali regole. Della dottrina politica di
Machiavelli fanno parte integrante il concetto della fortuna cioè del caso che
con la sua imprevedi- bilità costituisce sempre una condizione dell'attività
politica; e il connesso concetto dell’impegno poli- tico per il quale gli
uomini « debbono bene non si abbandonare mai» nel senso che non devono di-
sperare né rinunziare all’azione ma inserirsi attiva- mente negli eventi la cui
riuscita, data la presenza del caso, non è mai predeterminata (Sulla dottrina
di Machiavelli e le sue interpretazioni v. G. Sasso, N. M., Storia del suo
pensiero politico, Napoli, 1958). Per machiavellismo s'intende anche il
principio nel quale convenzionalmente, a partire dal sec. xVII, si è riassunta
la dottrina di Machiavelli: cioè che «il fine giustifica i mezzi». Tale massima
tuttavia non è stata formulata da Machiavelli, che non considera lo stato come
fine assoluto e non lo con- sidera dotato di un'esistenza superiore a quella
del- l’individuo (nel senso in cui farà, per es., HEGEL, Fil. del dir., $ 337).
Machiavelli inoltre orientava tutte le sue simpatie verso l’onestà e la lealtà
nella vita civile e politica e pertanto ammirava gli stati che si reggevano o
si erano retti su queste virtù, come, ad es., quelli dei Romani e degli
Svizzeri. Tuttavia il suo scopo era, come si è detto, di for- mulare, sulla
base dell’esperienza politica antica e nuova, regole di governo efficaci; ed
egli considerò tale efficacia indipendente dal carattere morale o immorale
delle regole stesse. Dall’altro lato, egli si rendeva conto che la morale e la
religione possono essere, e talvolta sono, forze politiche che condizio- nano,
come tutte le altre forze, l’attività politica e la sua riuscita; come pure
vedeva che talvolta ciò non accade e che l’azione politica riesce efficace
anche esercitandosi in senso contrario alle leggi della morale. Poichè questo
caso era il più frequente nella società (specialmente italiana e francese) del
suo tempo, la quale perciò è da lui detta « corrotta », e poichè Machiavelli ha
soprattutto in vista l’appli- cazione delle sue regole politiche alla società
italiana per la costituzione di uno stato unificato, si spiega la sua
insistenza su certe massime immorali di con- dotta politica: insistenza che è
malamente espressa o generalizzata nella massima che il fine giustifica i
mezzi. Questa massima fu in realtà propria dalla morale gesuitica. Hegel la
cita nella forma che essa aveva ricevuta dal padre gesuita Busenbaum MAGIA
(1602-68): « Quando il fine è lecito, anche i mezzi sono leciti » (Medulla
theologiae moralis, IV, 3, 2); e la giustifica sia formalmente cioè come
espressione tautologica, sia sostanzialmente, come « coscienza indeterminata
della dialettica dell’elemento positivo + (Fil. del dir., $ 140, d); cfr. sul
M., F. MEINECKE, Die Idee der Staatsràson in der neueren Geschichte, 1925;
trad. ingl., Machiavellianism, 1957). MACROCOSMO. V. Microcosmo. MADRE (gr. pipe)
Secondo Platone, la madre dell’universo è la materia amorfa, come il padre di
esso è il modello eterno al quale il De- miurgo lo crea simile. « Questa madre
e ricettrice di tutto ciò che di visibile e di sensibile viene creato, non
dobbiamo chiamarla nè terra nè aria nè fuoco nè acqua nè altra cosa che nasca
da queste o da cui queste nascano; ma piuttosto una specie invisibile e amorfa,
capace di accogliere tutto, partecipe del- l’intellegibile e difficile a
concepirsi» (Tim., 51 a-b). MAGIA (gr. pay) tex; lat. Magia; ingl. Ma- gic;
franc. Magie; ted. Magie). La scienza che pre- tende di dominare le forze
naturali con gli stessi pro- cedimenti con cui si assoggettano gli esseri
animati. Il presupposto fondamentale della M. è pertanto l’animismo e la migliore
definizione di essa è quella che è stata data da Reinach come «la strategia
dell’animismo » (Mythes, Cultes et Religions, II, Introd., pag. XV). Strumenti
di questa strategia sono gli incantesimi, gli esorcismi, i filtri, i talismani,
medianti i quali il mago comunica con le forze naturali o celestiali o
infernali e le persuade a obbe- dirgli. Il carattere violento o subdolo delle
opera- zioni con cui si persuadono le forze naturali a obbe- dire, è un altro
contrassegno della M.: che è una strategia d'assalto, che vuol conquistare d’un
colpo solo: a differenza di quella che sarà la strategia della scienza moderna,
la quale tende a una graduale conquista della natura, e prescinde dai mezzi
vio- lenti o subdoli. La M. è di origine orientale e si diffuse in occi- dente
nel periodo greco-romano (cfr. F. CUMONT, Oriental Religions in Roman Paganism,
cap. VID. Essa circolò più o meno nascostamente nel Medio Evo per ritornare
alla piena luce nel Rinascimento: durante il quale fu spesso considerata come
il com- pimento della filosofia naturale cioè come quella parte di essa che
consente all’uomo di agire sulla natura e di dominarla. Così, per es., la
considerava Pico della Mirandola (De MHominis Dignitate, fol. 136 v); e così la
consideravano tutti i naturalisti del rinascimento. Giovanni Reuchlin, Cornelio
Agrippa, Teufrasto Paracelso, Gerolamo Fracastoro, Gerolamo Cardano,
Giovambattista della Porta mirano tutti ugualmente a togliere alla M. il
carattere diabolico che le era stato attribuito nel Medio Evo e a farne la
parte pratica della filosofia. Della Porta 553 distinse nettamente dalla M.
diabolica, che si avvale delle azioni degli spiriti immondi, la M. naturale che
non oltrepassa i limiti delle cause naturali e le cui operazioni appaiono
meravigliose solo perchè ne rimane nascosto il procedimento (Magia natu- ralis,
1558, I, 1). Questa distinzione veniva ripetuta da Campanella; che distingueva,
inoltre, anche una M. divina che opera in virtù della grazia divina, come
quella di Mosè e degli altri profeti (De/ senso delle cose e della M., 1604,
IV, 12). Sulla M. nel Rinascimento, cfr. GARIN, Medioevo e Rinascimento, 1954,
cap. III. Il progredire della scienza, eliminando il presup- posto della M.,
cioè l’animismo, toglieva ogni base a quella strategia d’assalto in cui essa
consisteva. Francesco Bacone, che pure è l’erede maggiore di quella esigenza
operativa che la M. rappresentava, paragona la M. stessa ai romanzi
cavallereschi del ciclo di Artù; e la ritiene derivare dalla metafisica che
indaga le forme; mentre dalla fisica, che è la ricerca delle cause efficienti e
materiali nasce, come scienza operativa, la meccanica (De augm. scient, III,
5). Pertanto, nel mondo moderno, la M. è sparita dall’orizzonte della scienza e
della filosofia. Per ciò che riguarda quest’ultima, costituisce un’eccezione
l’opera di Novalis che, nel periodo romantico, difese un «idealismo magico» per
il quale è M. buona parte delle più comuni attività umane. Dice, per es.,
Novalis: « L'uso attivo degli organi non è altro che pensiero magico, tauma-
turgico, o uso arbitrario del mondo dei corpi; infatti la volontà non è altro
che magia, energica capacità di pensiero» (Fragmente, $ 1731). Egli esprimeva
così il principio del suo idealismo magico: «Il più gran mago sarebbe quello
che sapesse anche incantare se stesso sino al punto che le sue stesse magie gli
apparissero fenomeni estranei e autonomi. E non potrebbe essere questo il caso
nostro?» (/bid., $ 1744). Ma sparita dal mondo della filosofia e della scienza,
la M. rimane come una delle categorie interpretative della sociologia e della
psicologia. Sulla funzione della M. nell’uomo primitivo, così si esprime Ma-
linowski: «La M. fornisce all’uomo primitivo un numero di atti e di credenze
rituali già fatti, una tecnica mentale e pratica definita la quale serve a
superare gli ostacoli pericolosi in ogni importante impresa e in ogni
situazione critica... La sua funzione è quella di ritualizzare l’ottimismo
dell’uomo, di rafforzare la sua fede nella vittoria della speranza sulla paura»
(Magic Science and Religion, ed. Anchor Book, pag. 90). Ma l’atteggiamento
primitivo non è solo dell’uomo primitivo: l’uomo civilizzato ricade in esso in
determinate circostanze che vanno dalla mancanza di tecniche adatte per
affrontare situazioni difficili alle incapacità di trovare a utiliz- 554 zare
queste tecniche. Credenze magiche sono perciò frequenti nella vita di ogni
giorno, anche se spesso non confessate. Comportamento magico è stato chiamato,
non senza ragione, da Sartre la reazione emotiva patologica che talora è alla
base dei disturbi mentali (v. Emozione). D'altronde Jung ha visto l’origine
della M. nell’idea di una Energia univer- sale che egli ritiene latente
nell’inconscio di tutto il genere umano e che si identifica con l’idea di Dio
(Psicologia dell’inconscio, 1942, cap. 5). E Levi- Strauss ha stabilito
un’analogia tra la cura magica e la psicanalisi (v.) perchè entrambe rendono
pos- sibile, attraverso la presa di coscienza dei conflitti interni del malato,
un’esperienza specifica nella quale i conflitti possono svilupparsi e
manifestarsi libera- mente (Antropologie $tructurale, 1958, pag. 217 sgg.).
MAGNANIMITÀ (gr. usyadopuyla; lat. Ma- gnanimitas; ingl. Magnanimity; franc.
Magnanimité; ted. Grossmuth). Secondo Aristotele, la virtù che consiste nel
desiderare grandi onori e nell’esserne degni. Aristotele dà molto rilievo a
questa virtù, in quanto accompagna e « rende più grandi » tutte le altre. «Chi
è degno di piccole cose, egli dice, e si considera degno di esse sarà moderato
ma non magnanimo; la M. è indisgiungibile della gran- dezza come la bellezza da
un grande corpo, giacchè i piccoli corpi saranno graziosi e proporzionati ma
non belli » (Er. Nic., IV, 3, 1123 b 7). L’insistenza su questa virtù è il
segno della persistenza in Ari- stotele dell’etica aristocratica arcaica (cfr.
JAEGER, Paideia, I, cap. I; trad. ital., I, pag. 43 sgg.). Car- tesio
considerava la M. identica con la generosità e la identificava con la virtù che
consiste nel giu- dicare se stesso secondo il proprio valore e nel- l’esser
privo di gelosia e d’invidia verso gli altri (Passions de l’ame, art. 156-61). MAIEUTICA (gr. porvi) réxw;
ingl. Maieu- tics; franc. Maleutique; ted. Mdàeutik). L'arte della levatrice alla quale Socrate,
nel Teefeto platonico, paragona il suo insegnamento, in quanto consiste nel
portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente dei suoi allievi.
«Io ho questo in comune con le levatrici, dice Socrate: sono sterile di
sapienza; e ciò che molti da anni mi rimproverano, che interrogo gli altri ma
non rispondo mai da me perchè non ho alcun pensiero saggio da esporre, è
rimprovero giusto » (Teer., 150 c.). MALE (gr. 76 xaxéy; lat. Malum; ingl.
Evil; franc. Mal; ted. Bòse). Questo termine ha una varietà di significati
altrettanto estesa del termine bene (v.) di cui è correlativo. Dal punto di
vista filosofico, tuttavia, questa varietà si lascia ricondurre alle due
interpretazioni fondamentali che sono state date della nozione nel corso della
storia della filo- sofia, e che sono: 1° la nozione metafisica del M. secondo
la quale esso è a) il non-essere, oppure MAGNANIMITÀ b) una dualità
nell’essere; 2° la nozione soggetti- vistica, secondo la quale il M. è
l'oggetto di una appetizione negativa o di un giudizio negativo. 1° La
concezione metafisica del M. consiste o nel considerarlo come il non essere di
fronte all’es- sere che è il bene; o nel considerarlo come una dualità
dell’essere, come un dissidio o un contrasto interno all'essere stesso. a) La
concezione del M. come non essere si affaccia negli Stoici ed è chiaramente
formulata dai Neoplatonici. Ritenendo che l’esistenza dei mali condiziona
quella dei beni sicchè, ad es., non ci sarebbe giustizia se non ci fossero
offese, non ci sarebbe operosità se non ci fosse ignavia, non ci sarebbe verità
se non ci fosse menzogna, e così via, gli Stoici e in particolare Crisippo
ritenevano che i cosidetti mali non sono veramente tali perchè sono necessari
all’ordine e all’economia dell’universo (GeLLIO, Noct. Att., VII, 1). Marco
Aurelio espri- meva perfettamente questo punto di vista dicendo: t Viene
mutilata e compromessa l’integrità del tutto, ogni volta che tu tagli via una
particella qualsiasi dell’ordine e della continuità dell'universo... E vera-
mente tagli via, per quanto è in tuo potere, qual- cosa dell’universo ogni
volta che ti rammarichi dell’accaduto; in un certo senso condanni a morte così
facendo, nel tuo desiderio, l’intero universo + (Ric., V, 8). Poichè non si può
dover amare una cosa e considerarla cattiva, il punto di vista stoico equivale
a considerare buona ogni cosa esistente e a ridurre il M. al non essere. Questa
riduzione diventa esplicita nel neoplatonismo. Plotino dice: « Se tali sono gli
enti e tale è ciò che è al di là degli enti [cioè Dio] il M. non esiste nè in
quelli nè in questo, giacchè sia l'uno che l’altro è bene. Resta dunque che, se
esista, esiste in ciò che non è; e che sia una specie di non-essere e si trovi
perciò nelle cose mescolate di non-essere o partecipanti al non-essere » (Enn.,
I, 8, 3). E in questo senso Plotino identifica il male con la materia: la
materia è il non essere «Il M. non consiste in una deficienza parziale ma in
una deficienza totale: la cosa che manca parzialmente del bene non è cattiva e
può anche essere perfetta nel suo genere. Ma quando c’è deficienza totale, come
nella materia, allora c’è il vero M., che non ha alcuna parte di bene. La
materia non ha neppure l’essere che le renderebbe possibile partecipare del
bene: si può dire che essa sia solo in un senso equivoco; in verità essa è lo
stesso non essere » (/bid., I, 8, 5). L’identificazione del male col non essere
diventa tradizionale nella filosofia cristiana. Essa viene ripresa da Clemente
Alessandrino (Strom., IV, 13), da Origene (De Princ., I, 109) e da S. Agostino
che la diffonde nel mondo occidentale. Dice S. Ago- stino: « Nessuna natura è
M. e questo nome non MALE indica altro che la privazione del bene » (De Civ.
Dei, XI, 22). Pertanto « Tutte le cose sono buone e il male non è sostanza
perchè se fosse sostanza sa- rebbe bene» (Conf., VII, 12). Boezio a sua volta
affermava: «Il male è niente, perchè non lo può fare Colui che può ogni cosa»
(Phil. cons., III, 12). La scolastica è altrettanto unanime su questo punto. S.
Anselmo ribadiva la dottrina del M. come non essere negli stessi termini di S.
Agostino (De casu diaboli, 12-16). La scolastica giudaica ripete, con
Maimonide, la stessa tesi (Guide des égarés III, 10); e la ripetono nella
scolastica cristiana, sia gli agostiniani, ceme Alessandro di Hales (S. 7A., I,
q. 18,9) sia gli aristotelici come Alberto Magno (S. 77%., I, q. 27, 1) e S.
Tommaso. « Poichè bene, dice S. Tommaso, è tutto ciò che è appetibile e poichè
ogni natura appetisce il suo essere e la sua perfezione è necessario dire che
l’essere e la perfezione di qualsiasi natura è essen- zialmente bene. Non può
essere perciò che « M.» significhi un qualche essere o una qualche forma o
natura; e rimane che significhi soltanto l’assenza del bene » (S. 77., I, q.
48, a. 1). AIM. si può riferire il verbo essere solo nel senso della «verità della
proposizione » cioè nel senso in cui si dice che «la cecità è nell'occhio »; un
senso che non implica in alcun modo la realtà (enritas rei) (Ibid., I, q. 48,
a. 2). Dopo le osservazioni scettiche di Pietro Bayle sulla compatibilità del
M. (in tutte Ie sue forme) con l’onnipotenza divina e con la perfezione del-
l'universo, la teodicea di Leibniz è fondata sulla dottrina tradizionale del M.
come negazione del bene. «I Platonici, S. Agostino e gli Scolastici, dice
Leibniz, hanno avuto ragione di dire che Dio è la causa materiale del M., che
consiste nella sua parte positiva, e non della forma di esso, che consiste
nella privazione; come si può dire che la corrente è la causa materiale del
ritardo cioè della velocità di un battello, senza essere causa della forma del
ritardo stesso cioè dei limiti di questa velocità + (Théod., I, 30). Le
considerazioni di Leibniz a questo proposito sono rimaste a fondamento di ogni
ulte- riore tentativo di feodicea (v.). D’altra parte, la nullità del M. è
rimasta costantemente la tesi propria delle dottrine che identificano l’essere
col bene o, in termini moderni, con la razionalità o il dover essere: come
accade in Hegel per il quale il M., inteso come volontà cattiva, è « la nullità
assoluta » di questa volontà (Enc., $ 512). Dal punto di vista di un idealismo
assoluto come quello di Hegel e della sua scuola, si ripresenta il problema
tradizionale della teodicea, quello della possibilità del M.; e l’unica
soluzione disponibile è ancora quella tra- dizionale, la nullità del M. stesso.
Diceva Gentile: « Non errore e verità, ma errore nella verità, come 555 suo
contenuto che si risolve nella forma; nè M. e bene; ma M. onde il bene si nutre
nel suo assoluto formalismo » (Teoria generale dello spirito, XVI, 10). A sua
volta Croce affermava: «Il M., quando è reale non esiste se non nel bene, che
gli contrasta e lo vince e quindi non esiste come fatto positivo: quando invece
esiste come fatto positivo è, non già un M., ma un bene (e a sua volta ha come
ombra il M. contro cui lotta e vince) ». (Fil. della pratica, 1909, pag. 139).
Non essere o nullità o irrealtà del M. è la tesi che viene costantemente
riscoperta come nuova ogni volta che, in una forma qualsiasi, viene posta
l’identità fra essere e bene. b) La seconda concezione metafisica del M. è
quella che lo considera come un contrasto interno dell’essere, cioè come la
lotta tra due princìpi. Si tratta di una concezione per la quale il dominio
dell’essere è diviso in due campi opposti, dominati da due princìpi
antagonisti. Il modello di questa concezione è la religione persiana, cioè la
religione di Zarathustra o Zoroastro che contrapponeva alla divinità (Ahura
Mazda o Ormazd) un’antidivinità (Ahriman) che è il principio del M. (cfr.
PETTAZZONI, La religione di Zaratustra, Bologna, 1921; Du- CHESNE-GUILLEMIN,
Ormazd et Ahriman, Parigi, 1953). Questa dottrina costituisce una soluzione
estremamente semplice del problema del M.: una so- luzione che, mentre limita
la potenza delle divinità, non viene meno al monoteismo perchè concepisce la
potenza limitante come una anti-divinità. Se- condo questa soluzione, il M. è
reale allo stesso titolo del bene; e come tale ha una sua propria causa,
antitetica a quella del bene. La dottrina evita la riduzione, così poco
convincente per l’uomo comune, del M. al nulla; e fa appello allo stesso tipo
di giustificazione cui ricorre la negazione meta- fisica della realtà del male.
Il dualismo persiano ritornava nel culto di Mitra: personaggio che, secondo la
testimonianza di Plutarco, occupava un posto intermediario tra il dominio della
luce proprio di Ahura Mazda e il dominio delle tenebre proprio di Ahriman (De
Iside et Osiride, 46-47; cfr. F. Cu- MONT, Ze Mysteries of Mithra, cap. I).
Ritornava altresì, con qualche attenuazione, in qualche setta gnostica dei
primi secoli dell’era volgare e special- mente in quella di Basilide (cfr.
BuonaIUTI, Fram- menti gnostici, 1923, pag. 42 sgg.) nonchè nella setta dei
Manichei contro i quali conduce una delle sue principali polemiche S. Agostino
(v. MANI- CHEISMO). Ma la filosofia non ha mai accettata questa soluzione del
problema del M. nella forma semplice in cui l’aveva originariamente formulata
la religione persiana. Essa, cioè, non ha mai ammessa la separazione dei due
princìpi. Quando ha accettato quella soluzione l’ha modificata nel senso di
includere entrambi i princìpi in Dio: cioè di considerare sia il 556 principio
del bene sia il principio del M. come uniti in Dio, proprio in virtù del loro
contrasto. Nel sec. xv Jakob Bòhme, insistendo sulla presenza, in tutti gli
aspetti della realtà, di due princìpi in lotta, che sono poi il bene e il M.,
attribuiva la causa di questa lotta alla presenza in Dio dei due princìpi
antagonisti che egli indicava con vari nomi: lo spirito e la natura, l'amore e
l'ira, l’essere e il fondamento, ecc. Questi due princìpi sarebbero in Dio
strettamente avvinti in una specie di lotta amorosa. « La divinità, diceva
Bòhme, non se ne sta tranquilla, ma le sue potenze operano senza tregua e
lottano amorosamente, si muovono e combattono: come accade a due creature che
giocano in grande amore l’una con l’altra e si abbracciano e si stringono;
talora l’una è vinta, talora l’altra; ma il vincitore subito si arresta e
lascia che l’altra riprenda il suo giuoco » (Aurora oder die Morgenròte im Aufgane,
1634, cap. XI, $ 49). In altri termini il dualismo del bene e del M. è in Dio
stesso e in Dio stesso i due princìpi com- battono una lotta «amorosa» nella
quale nes- suno è definitivamente sconfitto. Quella sottocor- rente del
pensiero filosofico che si chiama reosofia (v.) ha sempre fatta propria questa
soluzione del pro- blema del male. La quale nel periodo romantico, ritornava
nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana (1809) di Schelling: in cui
Schelling soste- neva proprio come Bòhme, che in Dio, c’è non solo l’essere, ma
a fondamento di questo essere un substrato o natura che è distinto da lui ed è
un’oscura brama, un inconscio desiderio di essere, di uscire dall’oscurità e di
raggiungere la luce di- vina (Werke, I, VIII, pag. 359). Schelling tuttavia
affermava che, essendo questi due princìpi stret- tamente uniti in Dio, non c’è
in lui distinzione tra bene e M.: con la separazione di quei prin- cìpi
nell'uomo nasce invece la possibilità del bene e del M. e del loro contrasto
(/bid., pag. 364). Ancora in tempi relativamente recenti, e in più diretto
riferimento alla religione persiana, una solu- zione simile del problema del M.
veniva riproposta da G.T. Fechner: il quale ammetteva in Dio la stessa dualità
tra la volontà razionale e gli istinti oscuri che è riscontrabile nell'uomo
(Zend-Avesta, 5° ediz., 1922, pag. 244-245). Prospettate meno espli- citamente,
si possono scorgere soluzioni analoghe in alcune forme dello spiritualismo e
nella psicana- lisi (v.). Ma si tratta spesso di soluzioni di carat- tere
religioso o teosofico, che difficilmente possono essere considerate come vere e
proprie spiegazioni filosofiche. 2° La seconda concezione fondamentale del M. è
quella che lo considera, non già come una realtà o irrealtà, ma come l’oggetto
negativo del desiderio o in generale del giudizio di valutazione. Questa MALE
RADICALE concezione è ammessa da tutti coloro che difendono quella che è stata
chiamata la teoria soggettivistica del bene. Hobbes, Spinoza, Locke,
condividono questa teoria (v. per i relativi testi l’art. BENE); alla quale
Kant ha dato la sua forma più generale. Egli dice: «I soli oggetti di una
ragion pratica sono il bene ed il male. Col primo s’intende un og- getto
necessario della facoltà di desiderare, col se- condo un oggetto necessario
della facoltà di abbor- rire, ma entrambi secondo il solo principio della
ragione » (Crit. R. Prat., cap. 2). Kant insisteva soprattutto nel sottrarre le
determinazioni di bene e M. (in tedesco Gut e Bose) alla sfera della « facoltà
di desiderare inferiore » alla quale appartengono il piacevole e il doloroso
(in tedesco Wohl e Ùbel). «Ciò che noi dobbiamo chiamar bene, egli diceva,
dev'essere un oggetto della facoltà di desiderare a giudizio di ogni uomo
ragionevole; il M. dev'essere un oggetto di avversione agli occhi di ognuno:
sicchè per tali giudizi occorre, oltre il senso, anche la ragione» (/bid.).
Tuttavia Kant era d'accordo con la teoria soggettivistica nel ritenere che il
bene e il M. non possono essere determinati indipendente- mente dalla facoltà
di desiderare dell’uomo: il che vuol dire che essi non sono realtà o irrealtà
per loro conto. La filosofia moderna e contemporanea con- divide questo
indirizzo. Il M. è, per essa, semplice- mente un disvalore cioè l’oggetto di un
giudizio negativo di valore; e implica pertanto il riferimento alla regola o
norma sul quale il giudizio di valore si fonda (v. VALORE). Così, ad es., un
terremoto è un M. se distrugge vite umane o fonti di sussistenza o di benessere
per l’uomo, ma non lo è se non fa questo perchè in tal caso non contrasta col
desiderio o con l’esigenza umana della sopravvivenza e del benessere. Comunque
si voglia considerare tale esigenza, essa si esprime in regole o norme, con le
quali possono entrare in contrasto sia avvenimenti naturali sia comportamenti
umani. Tali avvenimenti o comportamenti sono detti mali, non perchè abbiano uno
speciale status metafisico, ma sul fondamento di quel contrasto. Proprio da
questo punto di vista Kant interpretava lo stesso « M. radicale » della natura
umana come una massima che è fondamento del comportamento di tutti gli esseri
razionali finiti: cioè come la massima di allontanarsi, occasionalmente, dalla
legge morale (Religion, I, 3). Tale massima non esprime altro che la
possibilità di contravvenire alle norme morali che sono proprie dell’uomo; e
pertanto definisce il M. radicale come la possibilità generale del disva- lore
nella condotta dell’uomo. MALE RADICALE. V. MALE. MALTHUSIANESIMO (ingl.
Malthusianism; franc. Malthusianisme; ted. Malthusianismus). 1. La dottrina
economica di Thomas Robert Malthus MASSIMA (1766-1834) esposta nel Saggio sulla
popolazione (1798): nella quale veniva riconosciuta in linea di principio la
diversa proporzione di accrescimento tra la popolazione e i mezzi di
sussistenza e consi- derati i mezzi per evitare lo squilibrio tra l’una e gli
altri. Malthus teneva presente lo sviluppo del Nord America inglese e osservava
che qui la popola- zione tendeva a crescere secondo una progressione
geometrica, raddoppiandosi ogni venticinque anni, mentre i mezzi di sussistenza
tendevano a crescere secondo una progressione aritmetica. Secondo Malthus, lo
squilibrio che così si determina fa inter- venire i mezzi repressivi (la
miseria, il vizio e altri flagelli sociali) che falciano la popolazione; e non
c'è altro modo di evitare l’azione di tali mezzi se non sostituendoli con mezzi
preventivi, che consistono nel controllo delle nascite. Malthus vedeva perciò
l’unico rimedio ai mali sociali nell’astensione dal matrimonio delle persone
che non sono in grado di provvedere al mantenimento dei figli, raccoman- dando
nello stesso tempo «una condotta stretta- mente morale durante il periodo di
questa asten- sione ». Questa dottrina ha posto un problema che rimane vivo e
attuale nella società contemporanea, tenuto conto dell'enorme proporzione di
crescita della popolazione mondiale. 2. In generale, la teoria e la pratica del
controllo volontario delle nascite. MANICHEISMO (ingl. Manicheism; fran- cese
Manichéisme; ted. Manichaismus). La dottrina del sacerdote persiano Mani (/ar.
Manichaeus) vissuto nel mi secolo che si proclamò il Paracleto cioè colui che
doveva portare la dottrina cristiana alla sua perfezione. Il M. è una
mescolanza fanta- stica di elementi gnostici, cristiani e orientali, sul fondamento
del dualismo della religione di Zara- tustra. Ammette infatti due princìpi, uno
del bene o principio della luce, l’altro del male o principio delle tenebre.
Questi princìpi sono rappresentati nell'uomo da due anime, una corporea che è
quella del male, l'altra luminosa che è quella del bene. La prevalenza
dell’anima luminosa si può raggiun- gere con una ascesi particolare che
consiste in un triplice sigillo: astenersi dal cibo animale e dai discorsi
impuri (signaculum oris); astenersi dalla proprietà e dal lavoro (signaculum
manus); aste- nersi dal matrimonio e dal concubinaggio (signa- culum sinus). Il
M. fu molto diffuso in Oriente e in Occidente e qui durò sino al sec. vu. Il
grande avversario del M. fu S. Agostino che dedicò alla cunfutazione di esso un
numeroso gruppo di opere. Cfr. H. C. PuEcH, Le manichéisme: Son fondateur, Sa
doctrine, Parigi, 1949. MANIERA
(ingl. Manner; franc. Manière; ted. Manier). A partire dal xvm secolo la parola
è stata adoperata per designare una forma parti- 557 colare, di minor pregio,
dell’espressione artistica; e precisamente quella che è il prodotto di una
ricerca fallita di originalità. Dice Kant: « La M. è una specie di
contraffazione la quale consiste nell’imitazione dell’originalità in generale e
quindi nell’allontanarsi per quanto possibile dagli imitatori senza però
possedere il talento di essere per se stesso esemplare... Il prezioso, il
ricercato, l’affettato, che vogliono distinguersi dal comune, ma riescono
senz’anima, somigliano ai modi di chi sta ad ascoltare se stesso o si muove
come se fosse sulla scena » (Crif. Giud., $ 49). Nello stesso senso, Hegel
definiva la M. come quella forma d’arte nella quale l’artista, invece di
conservare all’arte la sua « oggettività » cerca di assorbirla nella sua
individualità « parti- colare e accidentale »; e la contrapponeva perciò
all’originalità, che è la «vera oggettività» del- l’opera d’arte (Vorlesungen
iber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 391 sgg.). MANIFESTAZIONE (ingl.
Manifestation; franc. Manifestation; ted. Manifestation). Lo stesso che
espressione, rivelazione o fenomeno (v.), nel senso positivo di quest’ultimo
termine. MANTICA (gr. pavtix) rex; ingl. Mantic; franc. Mantique; ted. Mantik).
La visione anticipata o la scienza delle cose future. Così definisce la M.
Cicerone (De Divin., I, 1) il quale riporta e discute soprattutto il modo in
cui tale scienza era intesa dagli Stoici. Per essi, la M. è fondata sull’ordine
necessario del mondo, cioè sul destino: giacchè appunto interpretando
quell’ordine, si possono anticipare gli eventi che esso determina. « Gli
Stoici, dice Cicerone, affermano che soltanto il sapiente può essere indovino.
Crisippo definisce la M. con queste parole: la facoltà di conoscere, di vedere
e spiegare i segni mediante i quali gli Dei manifestano la loro volontà agli
uomini» (De Divin., II, 63, 130). MARXISMO. V. CoMunISMO, MATERIALISMO
DIALETTICO, MATERIALISMO STORICO. MASSIMA (lat. Maxima propositio; ingl. Maxim;
franc. Maxime; ted. Maxime). Questo termine ha due significati diversi: 1° proposizione
evidente; 2° regola di condotta. 1° Il significato di proposizione evidente è
il più antico e si trova stabilito a proposito dalla teoria dei luoghi logici.
Boezio chiamò +« proposizione massima » la proposizione indimostrabile ma evi-
dente (In top. Cicer., I; De diff. topicis, II; in P.L., 64°, col. 1151, 1185)
e questo significato rimase fissato nella logica medievale. « La proposizione
massima, dice Pietro Ispano, è la proposizione di cui non ce n’è un’altra più
nota o più primitiva, come ad es., ‘Ogni tutto è maggiore della sua parte ’»
(Summ. Log., 5.07). Più tardi, si accentuò talvolta il carattere di probabilità
della massima; per essa Jungius intende infatti «un enunciato universale 558
massimamente probabile » (Log. Hamburgensis, 1638, V, 3, 5). In questo
significato che è sinonimo di assioma usavano la parola sia Locke (Saggio, IV,
12, 1) che Leibniz (Nouv. Ess., IV, 12, 6). Questo significato è ora in disuso
giacchè per esso viene costantemente adoperato il termine assioma. 2° Furono i
moralisti francesi della seconda metà del ’600 i primi ad adoperare il termine
per significare una regola morale. La Rochefoucauld intitolava la raccolta dei
suoi pensieri Reffexions ou Sentences et Maximes Morales, (1665); e Kant
accoglieva quest’uso, intendendo per M. una regola di condotta in generale.
Egli distingueva la M. come « principio soggettivo della volontà » dalla legge
che è il principio oggettivo, cioè universale, della condotta. L'individuo può
assumere come sua M. sia la legge sia un’altra regola qualsiasi e perfino
quella di allontanarsi dalla legge stessa (Grundlegung zur Metaphysik der
Sitten, I, 1, nota; Crit. R. Prat., $ 1, Def.; Religion, I, Oss.). Questo
secondo significato del termine è il solo rimasto. MATEMATICA (gr. Ma@nuatuh; lat. Mathe-
matica; ingl. Mathematics; franc. Mathématique; ted. Mathematik). Le definizioni filosofiche della M. esprimono da un
lato orientamenti diversi della ricerca matematica, dall’altro modi diversi di
giu- stificare la validità e la funzione delle M. nell’in- sieme delle altre
scienze. Possono distinguersi quattro definizioni fondamentali: 1° la M. come
scienza della quantità; 2° la M. come scienza delle relazioni; 3° la M. come
scienza del possibile; 4° la M. come scienza delle costruzioni possibili. 1°
«Scienza della quantità » è stata la prima definizione filosofica della
matematica. Già implicita nelle considerazioni di Platone sull’aritmetica e
sulla geometria, le quali tendevano soprattutto a mettere in luce la differenza
tra le grandezze per- cepite dei sensi e le grandezze ideali che sono l'oggetto
della M. (Rep., VII, 525-27), questa defì- nizione veniva chiaramente formulata
da Aristotele. «Il matematico, diceva Aristotele, costruisce la sua teoria per
mezzo dell’astrazione: egli prescinde da tutte le qualità sensibili, quali il
peso e la leggerezza, la durezza e il suo contrario, il caldo e il freddo, e le
altre qualità opposte e si limita a considerare solo la quantità e la
continuità, qualche volta in una sola dimensione, qualche volta in due, qualche
volta in tre; nonchè i caratteri di queste entità in quanto sono quantitative e
continue, trascurando ogni altro aspetto di esse. Conseguentemente egli studia
le posizioni relative e ciò che ad esse inerisce, la com- mensurabilità o
l’incommensurabilità e le propor- zioni» (Met., XI, 3, 1601a 28; cfr. Fis., II,
2, 193 b 25). Questo concetto delle matematiche è durato assai a lungo e solo
nel secolo scorso è comin- ciato ad apparire insufficiente a esprimere tutti
gli MATEMATICA aspetti dell’indagine matematica. Kant stesso lo utilizzava
traducendolo nel linguaggio della sua filosofia. Egli poneva la distinzione tra
M. e filosofia in questo che, mentre la filosofia procede mediante concetti, la
M. procede mediante la costruzione di concetti: ma la costruzione dei concetti
è possibile in M. solo sul fondamento dell’intuizione a priori dello spazio,
che è poi la forma della quantità in generale. « Coloro, dice Kant, i quali
hanno creduto di distinguere la filosofia dalla M. dicendo che questa ha per oggetto
solo la quantità, han preso l’effetto per la causa. La forma della conoscenza
M. è la causa per cui essa può riferirsi unicamente a quan- tità. Soltanto
infatti il concetto di quantità si può costruire, cioè esporre a priori
nell’intuizione dello spazio » (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. I, sez.
1). Il concetto della M. come costruzione e quindi in qualche modo intuizione,
doveva ritornare nella M. contemporanea (v. oltre, n. 4). Ma quello di M. come
scienza della quantità si è trovato innumerevoli volte ripetuto dai filosofi.
Le lun- ghe e fantastiche disquisizioni di Hegel sui concetti fondamentali
della M. nella grande Logica sono fondate su di esso (Wissenschaft der Logik,
I, I, sez. II). E anche assai più tardi, Croce si riferiva imperterrito allo
stesso concetto « Le M. forniscono concetti astratti che rendono possibile il
giudizio numeratorio; costruiscono gli strumenti per contare e calcolare e per
compiere quella sorta di finta sin- tesi a priori che è la numerazione degli
oggetti sin- goli » (Logica, 1920, pag. 238). 2° La seconda concezione
fondamentale della M. è quella che la considera come scienza delle relazioni
quindi come strettamente collegata con la logica o parte di essa. L’antecedente
di questa concezione si può trovare in Cartesio, che affermava: « Per quanto le
scienze che si chiamano comune- mente matematiche abbiano oggetti diversi, esse
si accordano tutte in quanto non considerano altro che i diversi rapporti o
proporzioni che si ritrovano in essi» (Discours, II). Il concetto leibniziano
dell’ars combinatoria (v.) o M. universale si può assumere certo come inizio
del concetto della M. come logica; ma esso non impediva allo stesso Leib- niz
di aderire ancora al concetto tradizionale della M. come arte della quantità
(De Arte combi- natoria, 1666, Proemium, 7, in Op., ed. Erdmann, pag. 8).
Ovviamente, la stretta connessione della M. con la logica cominciò ad apparire
in modo evidente come tratto caratteristico delle M. quando la logica stessa
assunse la forma di un calcolo matematico. Boole affermava che poichè « le
ultime leggi della logica sono matematiche nella loro forma +, l’esibizione
della logica nella forma di un calcolo non è un modo arbitrario di presentarla,
ma qualcosa che dipende dalle stesse leggi del pen- MATEMATICA siero (Laws of
Thought, 1854, cap. I, $ 10). Le ri- cerche di Dedekind sui fondamenti
dell’aritmetica (Was sind und sollen die Zahlen?, 1887) si muo- vono nello
stesso ordine di pensieri. Ma soprat- tutto contribuì a inscrivere la M. nel
dominio della logica l’opera di Frege e la sua polemica contro lo psicologismo.
In un saggio del 1884 Frege mostrava l’importanza del concetto di re- lazione
per la definizione del numero naturale e diceva: «Il concetto di relazione
appartiene — non meno che il semplice concetto — al campo della logica pura.
Qui non interessa il contenuto speciale della relazione ma esclusivamente la
sua forma logica. Se qualcosa può venire affermata di essa, la verità di questo
qualcosa risulta analitica e viene riconosciuta a priori » (Eine /ogisch-mathe-
matische Untersuchung iber den Begriff der Zahi, 1884, $ 70; trad. ital., in
Aritmetica e logica, pag. 139). Da questo punto in poi la stretta connessione
della matematica con la logica attraverso la teoria delle relazioni, poteva considerarsi
acquisita e fu costan- temente assunta per la definizione della matematica.
Tuttavia anche le definizioni che hanno in comune questo fondamento sono state
formulate in modo diverso. La più ovvia formulazione di una defini- zione di
questo tipo è quella che considera la M. come « una teoria delle relazioni ».
Poincaré espo- neva questa definizione nella forma generale asse- rendo: « La
scienza è un sistema di relazioni. Solo nelle relazioni va cercata
l’oggettività e sarebbe vano cercarla negli esseri considerati come isolati gli
uni dagli altri» (Le valeur de la science, 1905, pag. 266). Questo concetto fu
condiviso da Russell che vedeva la coincidenza tra M. e logica proprio
nell'ambito della teoria delle relazioni e riteneva che il tema comune delle
due scienze fosse la forma degli enunciati, definita come « ciò che resta
invariato quando ogni componente dell’enunciato viene sosti- tuito da un altro
» cioè quando l’enunciato è rivolto alla pura relazione (/ntr. to Mathematical
Philosophy, 1918, cap. XVIII). Dall'altro lato Peirce, pur ammettendo la
connes- sione tra M. e logica, aveva cercato di distinguere la M. dalla logica,
affermando che mentre la M. è la scienza che deriva conclusioni necessarie, la
logica è la scienza del modo in cui derivare conclusioni necessarie. «Il logico
non si cura particolarmente circa questa o quella ipotesi o circa le sue
conseguenze eccetto in quanto queste cose possono gettar luce sulla natura del
ragionamento. Il matematico è intensamente interessato ai metodi efficienti di
ra- gionare mirando alla loro possibile estensione a nuovi problemi ma, in
quanto matematico, non si preoccupa di analizzare quelle parti del suo metodo
la cui correttezza è data come ovvia + (Coll. Pap., 4.239). Questa distinzione
era però fondata sulla 559 nozione della logica come di una scienza categorica
e normativa (/bid., 4.240): nozione che non ha avuto fortuna nella logica
contemporanea, di cui si è sempre più accentuato il carattere convenzionale (v.
CONVENZIONALISMO; Logica). Pertanto la mi- gliore definizione della M., da
questo punto di vista, è quella data da Wittgenstein: « La matematica è un
metodo logico. Le proposizioni della M. sono equazioni, dunque
pseudo-proposizioni. La propo- sizione matematica non esprime alcun pensiero. E
infatti non è mai la proposizione matematica di cui abbiamo bisogno nella vita
ma l’adoperiamo solo per concludere da proposizioni che non ap- partengono alla
M. ad altre che parimenti non le appartengono » (Tractatus, 1922, 6.2; 6.21;
6.211). Le equazioni della M. corrispondono alle tautologie della logica
(/bid., 6.22); e, come queste, non dicono nulla. Un punto di vista analogo a
questo è stato assunto da Carnap: «I calcoli costituiscono un genere
particolare di calcoli logici, distinguendosene soltanto per la loro maggiore
complessità. I calcoli geometrici sono un genere particolare di calcoli fisici
» (Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 13). Questa è la formulazione
migliore della tesi del logicismo (v.). Da questo punto di vista, si tratta in
primo luogo di costruire una logica esatta; in seguito, di derivare da essa la
M., nel modo seguente: 1° definendo tutti i concetti delle M., cioè dell’arit-
metica, dell’algebra e dell'analisi, in termini dei concetti della logica; 2°
deducendo da queste defi- nizioni e per mezzo dei princìpi della logica stessa
(inclusi gli assiomi di infinità e di scelta) tutti i teo- remi della M. (cfr.
C. G. HEMPEL, « On the Nature of Mathematical Truth +, 1925, in Readings in the
Philosophy of Science, 1953, pag. 59). 3° La terza concezione fondamentale
della M. è quella propria della corrente formalistica e si può esprimere
dicendo che per essa la M. è «la scienza del possibile »; dove per possibile
s'intende ciò che non implica contraddizione (v. PossisiLe, 1). Da questo punto
di vista, la M. non è parte della logica e non la presuppone. Nel modo in cui è
stato conce- pita da Hilbert e Bernays (Grundiagen der Mathe- matik, I, 1934;
II, 1939) la M. può essere costruita come un semplice calcolo, senza esigere
alcuna in- terpretazione. Essa diventa allora un sistema as- siomatico (v.
ASsIOMATIZZAZIONE) nel quale: 1° tutti i concetti di base e tutte le relazioni
di base siano enumerate completamente, e sia ricondotto ad essi, mediante una
definizione, ogni concetto ulteriore; 2° gli assiomi siano enumerati
completamente e da essi siano dedotti tutti gli altri enunciati in modo
conforme alle relazioni di base. In un sistema sif- fatto, la dimostrazione
matematica è un procedimento puramente meccanico di derivazione di formule; ma
560 nello stesso tempo si aggiunge alla M. formale una metamatematica che è
costituita da ragionamenti non formali intorno alla matematica. « In tal modo,
ha detto Hilbert, si realizza, mediante scambi con- tinui, lo sviluppo della
totalità della scienza mate- matica, in due modi: derivando dagli assiomi nuove
formule dimostrabili mediante deduzioni formali e d’altra parte aggiungendo
nuovi assiomi e la prova di non contraddizione, per mezzo di ragionamenti che
hanno un contenuto ». Le M. costituiscono al- lora un sistema perfettamente
autonomo; cioè che non presuppone un limite o una guida fuori di sè e che si
sviluppa in tutte le direzioni possibili: intendendosi, per direzioni
possibili, quelle che non portano a contraddizioni. È pertanto essenziale a
questo concetto della M. la possibilità di determinare la possibilità (cioè la
non-contraddittorietà) dei sistemi assiomatici. Ma proprio questa possibilità è
stata messa in dubbio da un teorema scoperto da Gédel nel 1931: secondo il
quale non è possibile dimostrare la non contrad- dittorietà di un sistema S con
i mezzi (assiomi, definizioni, regole di deduzione, ecc.) che appar- tengono
allo stesso sistema $S; ma occorre, per effettuare una tale dimostrazione
ricorrere a un sistema Si, più ricco di mezzi logici che S (« Uber formal
unentscheidbare Sitze der Principia Mathe- matica und verwandter Systeme », in
Monatschrifte fir Mathematik und Physik, 1931, pag. 173-98). Questo teorema di
Gòdel ha avuto nella M. moderna una grande risonanza. È stato possibile,
finora, dare la dimostrazione della non contraddittorietà di alcune parti delle
M., per es. dell’aritmetica (fu data da Gentzen nel 1936): ma le cose non sono
andate molto oltre su questa via; sicchè la «scienza del possibile » trova oggi
che il suo più difficile compito è quello di mostrare la « possibilità » delle
sue parti. Quanto alla possibilità dell’intera M. come sistema unico e totale,
essa è ovviamente esclusa dalla stessa formulazione del teorema di Giodel. Il
quale ha mostrato anche il limite dell’as- siomatica, perchè ha mostrato come
nessun sistema assiomatico contiene «tutti» gli assiomi possibili e che
pertanto nuovi princìpi di prova possono essere continuamente scoperti. Altra
conseguenza del teo- rema di Gédel è una limitazione delle capacità delle
macchine calcolatrici, la cui costruzione è stata enormemente facilitata dal
concetto formali- stico della matematica. Si può infatti costruire una macchina
per risolvere un problema definito, ma non una macchina che sia capace di
risolvere ogni problema (cfr. E. NagEL-G. R. NEWMAN, Gòdel’s Proof, 1958, pag.
98 sgg.). 4° La quarta concezione fondamentale della M. è quella secondo la
quale essa è la scienza che ha per oggetto la possibilità della costruzione. Si
tratta, MATEMATICA come è evidente, della nozione kantiana della M. come
«costruzione di concetti» perciò questo indirizzo è chiamato comunemente
intuizionismo; ma i suoi precedenti si sogliono scorgere nella pole- mica
antiformalistica di Poincaré, nell'opera di Kronecker (Uber den Zahibegrif,
1887) nella tendenza empiristica di alcuni matematici fran- cesi (Borel,
Lebegue, Bayre) nel filosofo viennese F. Kaufmann ecc. Secondo Brouwer, che è
uno dei principali rappresentanti dell’intuizionismo, la M. si identifica con
la parte esatta del pensiero umano: perciò essa non presuppone alcuna scienza,
neppure la logica, ma esige piuttosto un’intuizione che permetta di cogliere
l’evidenza dei concetti e delle conclusioni. Le conclusioni, pertanto, non
devono essere derivate in virtù di regole fisse contenute in un sistema
formalizzato, ma ogni conclusione deve essere direttamente controllata in base
alla sua propria evidenza. Da questo punto di vista, il procedimento di
dimostrazione matematica non ha in vista la deduzione logica ma la costruzione
di un sistema matematico. Brouwer insiste sul fatto che anche nel caso di una
dimostrazione di impossibi- lità, ottenuta mettendo in vista una
contraddizione, l’uso del principio di contraddizione è soltanto ap- parente:
in realtà si tratta dell’affermazione che una costruzione matematica, la quale
doveva soddisfare certe condizioni, non è realizzabile (cfr. A. HEy- TING,
Mathematische Grundlagenforschung. Intuitio- nismus und Beweistheorie, 1934
[trad. franc., 1955], I, 5, 1). Heyting a sua volta ha dimostrato, sulle orme
dello stesso Brouwer, che mentre il principio di contraddizione può essere
utilizzato, non così accade del principio del ferzo escluso (v.) (Die formalen
Regeln der intuitionistischen Logik, in L. B. Preusz. Akad. Wiss., 1930). L'intuizionismo,
definendo la M. come la scienza delle costruzioni possibili non fa tuttavia
appello, come faceva Kant, a una forma a priori dell’intui- zione; né ad alcuna
forma di intuizione empirica o mistica. La costruzione di cui l’intuizionismo
parla è una costruzione concettuale, che non fa riferimento a fatti empirici.
Così Heyting ha riassunto il punto di vista di Brouwer: 1° la M. pura è una
creazione libera dello spirito e non ha in sè alcun rapporto con i fatti di
esperienza; 2° la semplice constatazione di un fatto di esperienza contiene
sempre l’identificazione di un sistema matematico; 3° il metodo della scienza
della natura consiste nel riunire i sistemi matematici contenuti nelle
esperienze isolate in un sistema puramente mate- matico costruito a questo
scopo (cfr. HEYTING, Op. cit., IV, 3). Se si tengono presenti queste
conclusioni, si vede che il distacco tra formalismo e intuizionismo (cioè fra
la terza e la quarta concezione della M.) MATERIA non è così radicale come in
apparenza sembrerebbe. In primo luogo, la costruzione in cui gli intuizio-
nisti vedono l’oggetto proprio del procedimento matematico è un oggetto
formale, la cui possibilità è determinata da regole formali. Dall’altro lato, i
limiti del formalismo, messi in luce dal teorema di Gédel, mettono in valore
alcune esigenze affacciate dal concetto intuizionistico delle matematiche. E
poichè è difficile disconoscere il valore dell’aspetto linguistico delle
matematiche, che è quello su cui specialmente si fonda il /ogicismo, un certo
eclet- tismo domina il pensiero matematico contemporaneo (cfr. ad es., E. W.
BETH, Les fondements logiques des mathématiques, 2% ediz., 1955). Tuttavia, dal
punto di vista filosofico, cioè dei concetti di base e degli orientamenti
generali di ricerca, la differenza fra le definizioni enunciate nel presente
articolo rimane importante. MATERIA. In senso gnoseologico v. FORMA, 2. MATERIA
(gr. 65m; lat. Materia; ingl. Matter; franc. Matière; ted. Materie). Uno dei
princìpi costitutivi della realtà naturale, cioè dei corpi. Le definizioni
principali, che sono state date della M. sono le seguenti: {9 la M. come
soggetto; 2° la M. come potenza; 3° la M. come estensione; 4° la M. come forza;
5° la M. come legge; 6° la M. come massa; 7° la M. come densità di campo. Le prime
quattro sono definizioni filosofiche, le ultime due scientifiche. ‘1° La
definizione della M. come\soggetto) si al- terna, in Platone e Aristotele, con
quella della M. come potenza. Secondo questo concetto la M. è ricettività o
passività; e Platone in questo senso la chiama madre delle cose naturali
giacchè essa «accoglie in ‘sè tutte le cose ma non prende mai alcuna fatti che
somigli alle cose in quanto è come la(cefa)che riceve l'impronta » (7im., 50
b-d). In questo senso la M. è il materiale grezzo, amorfo, passivo e ricettivo
di cui sono composte le cose naturali. TAristotelei chiama questo materiale
sog- getto (Lroxeluevov). «Chiamo M., egli dice, il soggetto primo di una cosa,
ciò da cui la cosa si genera non accidentalmente » (Fis., I, 9, 192 a 31). Come
soggetto la M. «è ciò che rimane attraverso i mutamenti opposti: come, ad es.,
nel movimento, il mobile rimane lo stesso pur essendo ora qua e ora là e nel
mutamento quantitativo rimane lo stesso ciò che diventa più piccolo o più
grande e nel mutamento qualitativo rimane la stessa cosa quella che talvolta è
in buona salute talaltra no » (Met., VIII, 1, 1042a 27). Nel suo aspetto di
soggetto la M. è priva di forma, indeterminata, quindi di per sè inconoscibile
(/bid., VII, 11, 1037 a 27; VII, 10, 1036a 8): caratteri che sono posse- duti
in modo eminente dalla «M. prima» cioè da quella M. che non costituisce il
materiale (per es., 36 — ABBAGNANO, Distonario di filosofia. S61 il bronzo o il
legno) di cui una cosa è fatta ma il soggetto comune, e inconoscibile, di tutti
i ma- teriali (/bid., IX, 7, 1049a 18 sgg.). Il concetto della M. come soggetto
passivo fu ripreso dagli IStoici! che per l’appunto designarono la M. da questo
suo carattere (Dioc. L., VII, 134). Per questo carattere di passività, per cui
essa è pronta a ricevere l’azione creatrice della (Ragione fron che è il
principiq attivo) gli Stoici chiamarono la M. « sostanza prima » (Diog. L.,
VII, 150; cfr. SENECA, Ep., 65, 2).'Plotino non faceva che portare al limite
questa concezione della M. affermando che essa «non è anima, nè intelletto, nè
vita, nè forma, nè ragione, nè limite (giacchè è assenza di limite), nè potenza
(giacchè che cosa potrebbe creare?). Priva com’è di tutti i caratteri, non può
neppure esserle attribuito l’essere nel senso, per es., in cui si dice che c’è
il movimento o la quiete; essa è veramente il non essere, un’immagine illusoria
della massa corporea” e una aspirazione all'esistenza » (Enn., III, 6, 7).
Questo concetto della M. fu co- stantemente adoperato a scopi teologici. Nella
pa- tristica lo ripetono (Origene: (Contra Cels., III, 41; De Princ., II, 1) e
S. Agostino. Quest’ultimo con- sidera la M., secondo il concetto classico, come
« assolutamente informe e priva di qualità » e « pros- sima al nulla » ma
tuttavia ‘esistente in quanto do- tata della capacità di essere formata (Conf.,
XII, 8; De natura boni, 18). S. Tommaso a sua volta nega che la M. sia «
potenza operativa » (S. 7A., I, q. 44, ad. 3°); ed insiste sulla sua
imperfezione o incom- piutezza relativamente alla forma (/bid., I, q. 4, a. 1).
La scolastica agostiniana, pur riconoscendo alla M. una certa realtà attuale e
negando perciò che essa sia un « quasi nulla » o una pura + possi- bilità
d’essere », non ne innova il concetto. Duns Scoto, ad es., pur riconoscendo
alla M. una certa realtà (enzitas), la considera tuttavia come « ricet- tiva di
tutte le forme sostanziali e accidentali», secondo il concetto aristotelico
(Op. Ox., II, d. 12, q. 1, n. 11); e le nega la potenza attiva negando in essa
la presenza delle ragioni seminali (/bid., d. 18, q. 1, n. 3). Da questo punto
di vista la passi- vità o ricettività rimane la caratteristica fondamen- tale
della materia. A questa caratteristica fecero pure appello alcuni naturalisti
del Rinascimento come, ad es., Paracelso (Metreor., 72) e Telesio: il quale
considerò la M. come la « massa corporea ? destinata a subire l’azione delle
due « nature agenti », il caldo e il freddo (De rer. nat., I, 4). Questa con-
cezione fu condivisa da Locke che concepì la M. come « morta e inattiva »
(Saggio, IV, 10, 10); ed essa ritorna frequentemente, ancor oggi, nella filo-
sofia e nel pensiero comune. Ritorna, per es., in ‘Bergson che intende la M.
come l’arresto potenziale del movimento della vita e la considera definita 562
dalla sua «inerzia», che la contrappone al «vi- vente » (Évol. Créatr., 8*
ediz., 1911, pag. 216 sgg.). 2° Il concetto della M. come\potenza}s’intreccia
in Platone e Aristotele, con quello della M. come soggetto. Platone dice che la
M. «non perde mai la propria potenza » (Tim., 50 b).|Aristotele iden- tifica la
M. con la potenza. « Tutte le cose prodotte sia dalla natura che dall'arte
hanno M. giacchè la possibilità che ha ciascuna di essere o_non es- .sere,
questa è, per ciascuna di esse, la sua M.» (Met., VII, 7, 1032a 20). Ma la
potenza non è, secondo Aristotele, solo questa pura possibilità di essere o non
essere: è una potenza operativa € attiva; « Una casa esiste potenzialmente se
non c'è niente nel suo materiale che le impedisca di diven- tare una casa e se
non c'è nient’altro che debba essere aggiunto, rimosso o mutato... E le cose
che hanno in se stesse il principio della loro genesi esisteranno di per se
stesse quando niente di esterno lo impedisca » (Mer., IX, 7, 1049 a 9 sgg.).
Questa autosufficienza della potenza a produrre la cosa, per la quale la M. non
è solo il grezzo materiale ma una capacità effettiva di produzione, esprime un
concetto che non è più quello della M. come passi- vità o ricettività. Come
potenza operativa, la M. non ‘ è un principio necessariamente corporeo! Plotino
che da un lato, come si è visto, riduce la M. al non es- sere, dall’altro la
identifica, come potenza, con l’in- finito (En., II, 4, 15). E ammette, accanto
alla M. sensibile, una M. intelligibile che resta sempre iden- tica a se stessa
e possiede tutte le forme, sicchè ‘manca per essa la ragione di trasformarsi
(#bid., II, 4, 3). Da questa dottrina trae origine la tradizione che insiste
sull'attività della M.: tradizione che passa attraverso Scoto Eriugena (De
divis. nat., III, 14), e ha una nuova fase nella dottrina di Avicebron della
composizione ilomorfica universale. Secondo Avion anche le cose spirituali sono
composte di M. e forma e la M. si identifica con la prima delle categorie
aristoteliche, la sostanza in quanto «sostiene» le altre nove categorie (Fons
vitae, II, 6). Solo sul fondamento del carattere attivo o creativo della M.
Davide di Dinant potette iden- tificare Dio con la M. (ALBERTO Magno, S. 7h.,
I, 4, q. 20; S. Tommaso, S. 7A., I, q. 4, a. 8). Ma la M. conserva il suo
carattere di attività anche nella scolastica agostiniana, che contemporanea-
mente insisteva nel riconoscere una realtà posi- tiva alla M. e la presenza di
essa anche negli esseri spirituali, secondo il concetto di Avicebron. ‘S.
Bonaventura]dice, per es.: « La ragione seminale è la potenza attiva insita
nella M.; e questa potenza attiva è l'essenza della forma giacchè da essa si
genera la forma mediante il procedimento della natura che non produce nulla dal
nulla » (7 Sent., II, d. 18, a. 1, q. 3). Questo concetto della M. ve- MATERIA
niva trasmesso al Rinascimento attraverso Nicola Cusano che considera la M.
come la « possibilità * indeterminata » nella quale esistono, in forma con-
tratta, tutte le cose dell’universo. « La disposizione della possibilità,
diceva Cusano, dovette essere con- tratta e non assoluta: giacchè se la terra,
il sole e le altre cose non fossero nascoste nella M. come possibilità
contratte, non ci sarebbe ragione per cui esse dovrebbero venire all’atto
anzichè non venire » (De docta ignor., II, 8). In altri termini, solo per la
presenza, allo stato contratto, di possi- bilità determinate nella M., queste
possibilità ven- gono fuori con la creazione. È un concetto sul quale Giordano
Bruno doveva fondare quello della M. come principio attivo e creativo della
natura: « Quella M. per essere attualmente tutto quello che può essere, ha
tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perchè le
aveva tutte non ne ha nessuna, perchè quello che è tante cose diverse, bisogna
che non sia alcuna di quelle particolari ». In questo senso la M. coin- cide
con la forma (De la causa, IV). 3° Il concetto della M. come estensione fu
difeso da Cartesio. «La natura della M. o dei corpi in generale, egli diceva,
non consiste nell’es- sere una cosa dura o pesante o colorata o che tocca i
nostri sensi in qualche altro modo, ma solamente, nell’essere una sostanza
estesa, in lunghezza, lar- ghezza e profondità » (Princ. phil., II, 4). Questo
concetto viene largamente accettato nel 600. Hobbes, per es., identifica la M.
prima degli aristotelici con il corpo in generale cioè col «corpo considerato a
prescindere da qualsiasi forma e da qualsiasi accidente, eccetto la sola
grandezza o estensione e l’attitudine a ricevere forma e accidenti» (De Corp.,
VIII, 24). Questo stesso concetto del corpo in generale come materia è
accettato da Spinoza che anch'egli lo identifica con l'estensione (£r., II,
def. 1). Ci sono motivi per credere che questa defi- nizione della M. sia
quella implicita nell’ipotesi atomistica. Il termine « M.» ricorre, come è
noto, per la prima volta in Aristotele in significato filo- sofico; ma
Aristotele stesso parla, in riferimento a Democrito, del «corpo comune di tutte
le cose» e afferma che, secondo Democrito, tale corpo dif- ferisce, nelle sue
parti, in grandezza e figura (Fis., III, 4, 203a 33-203b 1). Ora «grandezza e
fi- gura » non sono altro che estensione. Altrove Ari- stotele enumera tre
differenze fra gli atomi cioè la figura, l’ordine e la posizione (Mer., I, 4,
985 b 15); ma figura, ordine e posizione non sono altro che estensione.
Estensione è pure la figura a cui, secondo Epicuro, si riducono tutte le
qualità dell’atomo (Dico. L., X, 54). L’ipotesi atomistica implica perciò il
concetto della M. come MATERIA estensione. Su tale concetto d’altronde
insisteva Guglielmo di Ockham nel sec. x1v: « È impossibile che ci sia M. senza
estensione: giacchè non è possibile che ci sia M. che non abbia le parti
distanti l’una dall'altra: onde sebbene le parti della M. possano unirsi come
si uniscono quelle dell’acqua e dell’aria, non possono tuttavia essere nel
medesimo luogo» (Summulae physicorum, I, 19; Quodl., IV, q. 23). 4° Il concetto
della M. come forza o energia viene dapprima difeso dai Platonici di Cambridge
del sec. xv, poi accettato da Leibniz e da molti filosofi del sec. xvm. Secondo
Cudworth, la M. è una natura plastica cioè una forza vivente che è diretta
emanazione di Dio (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 3). H.
More a sua volta riduce, con Cartesio, la M. a estensione; ma identifica
l’estensione stessa con lo spirito, ri- solvendola in particelle indivisibili
che egli chiama monadi fisiche e che non hanno più nulla di ma- teriale
(Enchiridion metaphysicum, I, 8, 8; I, 9, 3). Queste considerazioni metafisiche
assunsero un più preciso significato per opera di Newton e Leibniz. Newton
riteneva impossibile ammettere che «la M. fosse vuota di ogni tenacità e
attrito di parti e comunicazione di movimento » e la considerava perciò in
strettissima relazione con le «forze» o « principi » che si manifestano
nell’esperienza (Op- ticks, 1704, III, 1, q. 31). Leibniz ritiene che la M. sia
costituita, oltre che dall’estensione, da una forza passiva di resistenza che è
l’impenetrabilità o antitipia (v.) (Op., ed. Erdmann, pag. 157, 463, 466, 691).
La stessa dottrina fu accettata da Wolff che definiva la M. « un ente esteso
fornito di forza d'inerzia » e riteneva che essa possedesse di per se stessa
una forza attiva (Cosmol., $ 141-42). Questa interpretazione della M. divenne
uno dei temi comuni dell’Illuminismo e della polemica degli illuministi contro
Cartesio. Diceva Diderot: « Non so in qual senso i filosofi hanno supposto che
la M. sia indifferente al movimento e al riposo. È certo, invece, che tutti i
corpi gravitano gli uni sugli altri; che tutte le particelle dei corpi
gravitano le une sulle altre; che in questo universo tutto è in tra- slazione o
in nisu o in traslazione e in nisu in- sieme » (Principes phil. sur la Matière
et le Mouve- ment, in (Euvr. phil., ed. Vernière, pag. 393). Questa fu anche la
concezione accettata da Kant. « La M., egli diceva, riempie uno spazio, non
attraverso la sua pura esistenza ma mediante una particolare forza motrice »:
una forza repulsiva di tutte le sue parti (Metaphysische Anfangsgrilnde der
Naturwis- senschaft, II, Lehrsatz, 2, 3). Il concetto romantico della M. come
forza o attività quale si trova, ad es., espresso da Schelling non è che
l’amplificazione di questa dottrina. Le tre dimensioni della M. sono
determinate, secondo Schelling dalle tre forze che 563 la costituiscono: cioè
dalla forza espansiva, dalla forza attrattiva e da una terza forza sintetica:
che corrispondono nella natura rispettivamente al magnetismo, all’elettricità e
al chimismo (System des transzendentalen Idealismus, III, cap. II, Dedu- zione
della materia; trad. ital., pag. 109 sgg.). Più genericamente Schopenhauer
identificava la M. con l’attività (Die Welt, I, $ 4). Nel dominio scientifico
questo punto di vista è stato realizzato come ener- getismo (v.). G. Ostwald ha
sostenuto alla fine del secolo scorso, l’inutilità perfetta, per la scienza
della natura, del concetto di M. e la sua sostituzione con quello di energia
(Die Uberwindung des wissen- schaftlichen Materialismus, 1895). 5° Mentre la
riduzione operata da Berkeley della M. a percezioni o idee non si può chiamare
un concetto della M. perchè è la semplice negazione di essa, si può considerare
invece come definizione della M. quella data da Mach come di una « de-
terminata connessione degli elementi sensibili in conformità di una legge»
(Analyse der Empfin- dungen, XIV, 14). Questa definizione non tende in- fatti a
negare la materia o a ridurla a elementi soggettivi e psichici ma a sostituire
la stabilità rela- tiva di una legge alla rigidità e inerzia tradizional- mente
attribuite alla materia. Il concetto fondamen- tale è, in questa definizione,
quello di legge, che si intende come l’espressione di una connessione co-
stante. La M. sarebbe appunto la connessione co- stante nella quale si
presentano raggruppati gli elementi ultimi delle cose cioè le sensazioni. 6° I
precedenti usi del termine son tutti di natura filosofica anche se talora sono
stati proposti o sostenuti da scienziati. Nel dominio della scienza, e
precisamente della meccanica, la nozione di M. si identifica con quella di
massa (definita dal secondo principio della dinamica come rapporto tra la forza
e l’accelerazione impressa). La massa può essere intesa o come massa inerziale
o come peso. Il principio della «conservazione della M.+ che la scienza
dell’800 considerava come uno dei suoi pilastri, accanto a quello della «
conservazione del- l’energia », si riferisce per l'appunto alla M. intesa come
peso; giacchè il suo significato specifico gli fu dato soltanto dalle celebri
esperienze con cui Lavoisier dimostrava (1772) che nelle reazioni chi- miche
(ivi compresa la combustione) il peso del composto è la somma dei pesi dei
componenti. 7° Nella scienza contemporanea il concetto di M. tende ad essere
ridotto a quello di densità di campo. « Una volta riconosciuta l’equivalenza
tra massa ed energia, la divisione fra M. e campo appare artificiosa e non
chiaramente definita. Non potremmo allora rinunciare al concetto di M. ed
edificare una fisica del puro campo? Ciò che fa impressione sui nostri sensi
come M. è in realtà 564 una grande concentrazione di energia in uno spazio
relativamente limitato. Sembra quindi lecito assi- milare la M. a regioni
spaziali nelle quali il campo è estremamente forte » (EINsTEIN-INFELD, The Evo-
lution of Physics, cap. II; trad. ital, pag. 253). Questo indirizzo della
fisica contemporanea non si può tuttavia confondere con l’energetismo perchè
non implica la riduzione della M. a energia ma piuttosto la riduzione dei due
concetti di M. e di energia a quello di campo (v.). MATERIALISMO (ingl.
Materialism; fran- cese Matérialisme; ted. Materialismus). Questo termine fu
usato per la prima volta da Roberto Boyle nello scritto del 1674 intitolato The
Excel- lence and Grounds of the Mechanical Philosophy (cfr. EUCKEN, Geistige
Stromungen der Gegenwart, 5* ediz., 1916, pag. 168). Esso designa in generale
ogni dottrina che attribuisca la causalità soltanto alla materia. In tutte le
sue forme storicamente individuabili (fuori dell’uso polemico del termine) il
materialismo consiste infatti nell'affermare che la sola causa delle cose è la
materia. La vecchia defi- nizione di Wolff secondo la quale sono materialisti
«i filosofi che ammettono solo l’esistenza degli enti materiali cioè dei corpi»
(Psychol. rationalis, $ 33) non è sufficiente a individuare le forme storiche
del M. perchè porterebbe a includere in questa cor- rente dottrine che le
ripugnano (v. oltre). Si possono su questa base distinguere: 1° il M.
metafisico o cosmologico, che si identifica con l’atomismo filo- sofico; 2° Il
M. metodologico secondo il quale l’unica spiegazione possibile dei fenomeni è
quella che fa ricorso ai corpi e ai loro movimenti; 3° il M. pratico che è
quello che riconosce nel piacere l’unica guida della vita; 4°il M. psicofisico
che è quello che ammette la stretta dipendenza causale dei fenomeni psichici da
quelli fisiologici. Queste sono le forme storica- mente riconoscibili del M.
oltre quelle note sotto i nomi di M. dialettico e M. storico (v.), considerati
a parte. Non si può assumere invece come storica- mente legittimo il
significato che Berkeley attribuisce al termine, intendendo per materialisti
tutti coloro che comunque riconoscano l’esistenza della materia (Principles of
Human Knowledge, $ 74) perchè in questo senso sarebbero materialisti anche
Aristo- tele e gli aristotelici. Neppure si possono chiamare materialisti gli
Stoici per quanto ritenessero che tutto ciò che è in natura è corpo (Diog. L.,
VII, 1, 56; PLUT., De Com. Not.) giacchè ammettevano un principio razionale
divino come causa del mondo; e non può essere ritenuto materialista, per motivi
analoghi, Tertulliano, il quale pure afferma che «tutto ciò che esiste è corpo
» (De An., 7: De carne Christi, 11). 1° Il M. cosmologico è caratterizzato
dalle seguenti tesi: 4) Il carattere originario o inderivabile MATERIALISMO
della materia, che precede ogni altro essere e ne è la causa. Non è pertanto un
M. la dottrina di Gassendi secondo la quale gli atomi costituenti l'universo
sono stati creati da Dio. 5) La struttura atomica della materia. c) La presenza
nella materia, quindi negli atomi, di una forza capace di farli muovere e
combinarsi in modo tale da dare origine alle cose. Democrito ammetteva che gli
atomi si muovono per loro conto dall’eternità (ARIST., Fis., VII, 1, 252a 32) e
questo presupposto è rimasto in tutte le forme dell’atomismo. L'ultima forma
sto- rica che il M. ha assunto, quella che ebbe la massima diffusione negli
ultimi decenni del secolo scorso, per opera del biologo tedesco Ernesto Haeckel
am- metteva addirittura che gli atomi fossero dotati, oltre che di movimento,
anche di vita e di sensibi- lità (Die Weltràtsel, 1899). d) La negazione del
finalismo dell’universo e in generale di ogni ordine che non consista nella
semplice distribuzione delle parti materiali nello spazio. e) La riduzione dei
poteri spirituali umani alla sensibilità, cioè il sen- sismo. In questa forma,
il M. si è presentato: nell’antichità, nelle dottrine di Democrito e di
Epicuro; nell’età moderna, in quelle di alcuni il- luministi e numerosi positivisti
dell’Ottocento. 2° Il M. metodico è stato difeso per la prima volta da Hobbes e
la sua tesi fondamentale consiste nel ritenere che la nozione di materia, cioè
di corpo e di movimento, sia il solo strumento disponibile per la spiegazione
dei fenomeni. Hobbes affermava difatti che la conoscenza di una cosa è sempre
cono- scenza della sua genesi, e che la genesi è movimento. Perciò ogni
conoscenza è conoscenza del movimento; e il movimento implica corpo. Perciò
egli ha chia- mato De Corpore (1655) il suo trattato di filosofia prima. Da
questo punto di vista la spiegazione mate- rialistica è l’unica possibile anche
per ciò che riguarda lo spirito e le cose spirituali. Così Hobbes obiettava a
Cartesio: « Che diremo se il ragionamento non è altro che un insieme e una
connessione di nomi per mezzo della parola «è »? Segue da questa tesi che
mediante la ragione non possiamo concludere nulla che riguardi la natura delle
cose ma solo riguardo ai loro appellativi e cioè che con essa noi vediamo
soltanto se raggruppiano bene o male i nomi delle cose, secondo le convenzioni
che abbiamo stabilito a nostro arbitrio per i loro significati. Se è così, come
può ben darsi, il ragionamento di- penderà dai nomi, i nomi dall’immaginazione,
e l'immaginazione forse (e questo secondo la mia opinione) dal movimento degli
organi corporei e così lo spirito non sarà altro che un movimento in certe
parti del corpo organico» (/// Objections, 4). Il corpo è pertanto, secondo
Hobbes, l’unico oggetto possibile del sapere umano e la filosofia si divide in
due parti, la filosofia naturale e la filosofia civile MATERIALISMO DIALETTICO
a seconda che studia il corpo naturale cioè la natura o il corpo artificiale
cioè la società (De Corp., I, 9). Un M. metodico è stato, in tempi recenti
sostenuto dai filosofi del circolo di Vienna e specialmente da Carnap, ma in un
senso ancora diverso da quello di Hobbes e riferentesi al linguaggio: tale M. è
l’esigenza di tradurre nei termini del linguaggio fisico i dati protocollari,
per costruire con essi un linguag- gio intersoggettivo. Questo M. s’identifica
perciò col fisicalismo (v.) e non implica nessuna affermazione sull’esistenza
della materia (cfr. Erkenntnis, 1931, pag. 447). Tale M. non implica neppure la
deduci- bilità delle leggi biologiche e psicologiche dalle leggi fisiche.
L’unificazione delle leggi della scienza è senza dubbio, secondo questo punto
di vista una meta della scienza stessa; ma non si può esclu- dere nè prevedere
che questa meta sarà raggiunta (CARNAP, Logical Foundations of the Unity of
Science, 1938, pag. 61). 3° Nel suo significato pratico o morale, il M. è un
termine che appartiene al linguaggio comune più che a quello filosofico. Si
parla infatti di « epoca materialistica », di «tendenze materialistiche » o del
«materialismo » di gruppi o ceti di persone per indicare la tendenza al
benessere o, più esatta- mente, un’etica che assuma il piacere come sola guida
della condotta. Il termine filosofico per questo è edonismo (v.). L’edonismo si
accompagna spesso col M. ma non necessariamente. L’etica di Epicuro e dei
materialisti dell’800 è edonista; ma non lo è l’etica di Democrito. D'altronde
l’edonismo può essere proprio di filosofie non materialistiche; e per es. fu
accettato dai Cirenaici e degli Empiristi del xvm secolo. Nella sua forma
estrema tuttavia l’edonismo costituì una manifestazione caratte- ristica del M.
psicofisico settecentesco, che, su questo punto, fu una continuazione del
/iberti- nismo (v.). L’opera di HELVETIUS, De l’esprit (1758) è particolarmente
significativa a questo riguardo perchè contiene un’esaltazione indiscri- minata
del piacere: come l’altra di qualche anno anteriore di La METTRIE, L’art de
jouir ou l’école de la volupté (1751). 4° Il materialismo psicofisico consiste
nell’af- fermare la stretta dipendenza causale dell’attività spirituale umana
dalla materia cioè dall’organismo, dal sistema nervoso o dal cervello. Questa
tesi si è presentata in diverse forme nel xvm e xIx secolo. Una di queste forme
è la concezione del- l’uomo macchina. L'espressione fu usata dal fran- cese La
METTRIE come titolo d’una sua opera famosa (1748); ma il concetto si trova
anche espresso nell'opera di Dave HARTLEY, Observations of Man (1749) e in
quella di GiusepPE PRIESTLEY Disquisitions Relating to Matter and Spirit
(1777). Il Système de la nature di Holbach è forse la mi- 565 gliore
espressione di questo punto di vista: secondo il quale tutte le facoltà umane
sono modi d’essere e di agire che risultano dall’organismo fisico del- l’uomo,
a sua volta determinato dalla macchina dell’universo. Una più ristretta e
specifica forma di questo M. è quella che esso assunse nell’opera del medico
francese Pietro CABANIS, Rapports du physique et du moral de l'homme (1802) che
insiste sulla dipendenza delle attività psichiche dal sistema nervoso. Verso la
metà dell’800 questa dipendenza causale dei poteri spirituali umani dal sistema
ner- voso sembrò a molti filosofi e scienziati un fatto stabilito. Il M. di
quell’epoca fa leva appunto su questo fatto. Lo zoologo Carlo Vogt in uno
scritto del 1854, La fede del carbonaro e la scienza (KOhler- glaube und
Wissenschaft, 1854) affermava che «il pensiero sta al cervello nella stessa
relazione in cui la bile sta al fegato o l’urina ai reni»: una affermazione cui
faceva riscontro quella dello sto- rico e letterato francese Ippolito Taine:
«Il vizio e la virtù sono prodotti come il vetriolo e lo zuc- chero, e ogni
dato complesso nasce dall’incontro di altri dati più semplici da cui dipende »
(Histoire de la littérature anglaise, 1863, Intr.). Un’altra forma più
attenuata o se si vuole più signorile della stessa dottrina è quella secondo la
quale la coscienza è l’epifenomeno dei processi nervosi nel senso che mentre è
prodotta da essi non reagisce su di essi più che l’ombra non reagisca
sull’oggetto che la produce (Huxley, Clifford, Ribot). La Storia del M.
(Geschichte des Materialismus, 1866) di Fede- rico Alberto Lange impernia
l’esposizione del M. proprio sul M. psicofisico: nel quale egli vede un
salutare mernento contro la pretesa di estendere il sapere umano al di là di
certi limiti. Il M., secondo Lange, rinasce tutte le volte che l’uomo dimentica
questi limiti e pretende dare valore oggettivo a costru- zioni metafisiche che
hanno solo valore fantastico. Sia il M. metafisico sia il M. psicofisico della
metà dell’800 hanno un carattere romantico. Non vogliono, cioè, limitarsi ad
essere tesi filosofiche dotate di maggiori o minori possibilità di conferme ma
pretendono essere dottrine di vita, destinate a sconfiggere la religione e a
soppiantarla. Questa pretesa dà a tali dottrine un tono violentemente polemico
e profetico, per cui la « Scienza » diventa la nuova tavola della verità
assoluta. Questo atteg- giamento si chiamò scientismo (v.) e costituisce
l’avanguardia romantica della scienza dell’800. Di tale scientismo, il M.
costituì il credo: un credo che la scienza stessa in buona parte contribuì a
smantel- lare, con la crisi in cui entrava, negli ultimi decenni del secolo, la
concezione meccanistica di essa. MATERIALISMO DIALETTICO (ingl. Dia- lectical Materialism;
franc. Matérialisme dialectique; ted. Dialektischer Materialismus). S’intende
con 566 questa espressione la filosofia ufficiale del comunismo in quanto
teoria dialettica della realtà (naturale e storica). Più che di un materialismo
(v.), si tratta veramente di un dialettismo naturalistico, i cui principi
furono posti da Marx (v. DIALETTICA), ma svolti da Engels in un modo che è poi
stato più o meno pedissequamente seguìto dai filosofi del mondo comunista, che
sono i soli seguaci di tale filosofia. Secondo Engels, Hegel ha perfettamente
riconosciuto le leggi della dialettica, ma le ha consi- derate come « pure
leggi del pensiero + sicchè non sono state ricavate dalla natura e dalla
storia, ma « elargite ad esse dall’alto come leggi del pensiero ». Ma «se noi
capovolgiamo la cosa, tutto diviene semplice: le leggi della dialettica che
nella filosofia idealistica appaiono estremamente misteriose diven- tano subito
semplici e chiare come il sole» (Anti- Diihring, pref.). Tali leggi sono,
secondo Engels, tre: 1° La legge della conversione della quantità in qualità e
viceversa; 2° La legge della compene- trazione degli opposti; 3° La legge della
negazione della negazione. La prima significa che nella natura le variazioni
qualitative possono essere ottenute soltanto aggiungendo o togliendo materia o
movi- mento, cioè mediante variazioni quantitative. La seconda legge garantisce
l’unità e la continuità del mutamento incessante della natura. La terza
significa che ogni sintesi è a sua volta la tesi di una nuova antitesi che
metterà capo ad una nuova sintesi (EncELS, Dialektik der Natur, passim).
L'insieme di queste leggi determina, secondo Engels, l’evoluzione necessaria, e
necessariamente progressiva, del mondo naturale. L'evoluzione storica continua,
con le stesse leggi, quella naturale. Il senso dell’intero processo è
ottimistico. L'organizzazione della pro- duzione secondo un piano, quale si
attuerà nella società comunista, è destinato a sollevare gli uomini al di sopra
del mondo animale dal punto di vista sociale, come l’uso degli strumenti della
produzione lo ha fatto dal punto di vista della specie. Come si vede il M.
dialettico di Engels non è altro che la teoria dell'evoluzione (la quale
celebrava ai tempi di Engels i suoi primi trionfi) interpretata nei termini
delle formule dialettiche hegeliane e condotta al suo più ottimistico esito. Si
considerano abitualmente come parti integranti del M. dialettico, il
materialismo storico e il mate- rialismo metafisico. Sul primo, v. la voce a
parte. Sul secondo, hanno insistito, più che Marx e Engels, Lenin e i comunisti
russi. Lenin così recapitolava le tesi del materialismo: «1° Ci sono cose che
esistono indipendentemente dalla nostra coscienza, indipen- dentemente dalle
nostre sensazioni, al di fuori di noi. 2° Non esiste e non può esistere alcuna
differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sè. La sola differenza
effettiva è quella tra ciò che è cono- MATERIALISMO STORICO sciuto e ciò che
non lo è ancora. 3° Sulla teoria della conoscenza, come in tutti gli altri
campi della scienza, si deve ragionare sempre dialetti- camente cioè non
supporre mai invariabile e già fatta la nostra conoscenza ma analizzare il pro-
cesso per cui la conoscenza nasce dall’ignoranza o grazie al quale la
conoscenza vaga e incom- pleta diventa conoscenza più adeguata e precisa »
(Materialismus und Empiriokritizismus, 1909; tra- duzione ital., pag. 75). Come
si vede, neppure queste tesi esprimono una concezione materiali- stica, ma
costituiscono una rivendicazione del realismo gnoseologico. MATERIALISMO
STORICO (ingl. MHisto- rical Materialism; franc. Matérialisme historique; ted.
Historischer Materialismus). Con questo nome fu designato da Engels il canone
di interpretazione storica proposto da Marx e precisamente quello che consiste
nel riconoscere ai fattori economici (tecniche di lavoro e di produzione,
rapporti di lavoro e di produzione) un peso preponderante nella determinazione
degli eventi storici. Il presup- posto di questo canone è il punto di vista
antro- pologico difeso da Marx, secondo il quale la perso- nalità umana è
costituita intrinsecamente (cioè nella sua stessa natura) dai rapporti di
lavoro e di produ- zione in cui l’uomo entra per far fronte ai suoi bisogni. Di
questi rapporti la « coscienza » dell’uomo (cioè le sue credenze religiose,
morali, politiche, ecc.) è piuttosto un risultato che un presupposto. Questo
punto di vista venne difeso da Marx soprattutto nello scritto /deologia tedesca
(Deutsche Ideologie, 1845-46). Stando ciò, la tesi del materialismo sto- rico è
che le forme che la società storicamente assume dipendono dai rapporti
economici che prevalgono in una certa fase di essa. Dice Marx: « Nella produ-
zione sociale della loro vita, gli uomini entrano in determinati rapporti
necessari e indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che
corrispon- dono ad una certa fase di sviluppo delle loro forze produttive
materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
economica della società, che è la base reale su cui si edifica una
soprastruttura giuridica e politica e alla quale corri- spondono determinate
forme sociali di coscienza... Il modo di produzione della vita materiale
condiziona perciò in generale, il processo della vita sociale, po- litica e
spirituale » (Zur Kritik der politischen Oko- nomie, 1859, Pref.; trad. ital.,
pag. 17). Marx elaborò questa teoria soprattutto in opposizione al punto di
vista di Hegel: per Hegel è la coscienza che determina l’essere sociale
dell’uomo; per Marx invece è l’essere sociale dell’uomo che determina la sua
coscienza. Non bisogna tuttavia credere che Marx abbia voluto farsi sostenitore
di un fatalismo economico per il quale le condizioni economiche necessitereb-
MATRICI, METODO DELLE bero l’uomo a determinate forme di vita sociale. Negli
stessi rapporti economici, in quanto dipen- dono dalle tecniche di lavoro, di
produzione, di scambio, ecc. l’uomo entra come elemento attivo e condizionante;
e pertanto la condizionalità che la struttura economica esercita sulle
soprastrutture sociali è, almeno parzialmente, una auto condi- zionalità
dell’uomo nei confronti di se stesso (Deutsche Ideologie, I, C; trad. ital.,
pag. 69 sgg.). Engel parlò in seguito di un «rovesciamento della prassi storica
+, cioè di una reazione della coscienza umana alle condizioni materiali,
opposta all’azione di questa su quella. Ma dal punto di vista di Marx, di tale
rovesciamento non c’è bisogno: giacchè non è la soprastruttura che reagisce
sulla struttura, ma l’uomo che, intervenendo, con le sue tecniche, a mutare o a
migliorare la struttura economica, si autocondiziona attraverso di essa. Il
materialismo storico ha proposto all’attenzione degli storici un canone di
interpretazione al quale in molti casi è indispensabile far ricorso per la
spiegazione di eventi e di istituzioni storico-sociali. A questo canone fanno
infatti ricorso, in più o meno larga misura, storici di tutti i domini
dell'attività umana, in quanto esso apre alla spiegazione storica una via che,
talvolta, è la sola possibile. Tuttavia non è sempre la sola possibile. Si
tende oggi a inter- pretare il materialismo storico, non come un prin- cipio
dogmatico (quale soprattutto Engel lo pro- pose), ma come una possibilità
esplicativa cui si debba far ricorso in circostanze appropriate. In altri
termini, affermare che in ogni caso eventi o situazioni storico-sociali debbano
essere spiegate col determinismo dei fattori economici è tesi al- trettanto
dogmatica di quella che volesse esclu- dere assolutamente e in ogni caso il
determinismo di tali fattori. Lo storico si trova, in una data situazione, a
dover determinare il peso relativo dei fattori determinanti; e si tratta di
stabilirlo di volta in volta, di fronte alle situazioni partico- lari, senza
che esso possa essere deciso in anticipo e una volta per tutte. Sottratto alla
sua impostazione dogmatica, il materialismo storico ha offerto alla tecnica
della spiegazione storiografica una delle sue possibilità più feconde e un
nuovo grado di libertà alla scelta storiografica (v. STORIOGRAFIA).
MATESIOLOGIA (franc. Mathésiologie). Ter- mine adoperato da Ampère per indicare
la scienza che dovrebbe avere per oggetto « da una parte le leggi che si devono
seguire nello studio o nell’in- segnamento delle conoscenze umane, dall’altra
la classificazione naturale di queste conoscenze » (Essai sur la philosophie
des sciences, 1834, pag. 31). MATHEMA (gr. uk0nua). Tutto ciò che è oggetto di
apprendimento. In tal senso Platone chiama l’idea del bene «il più grande M.»
(Rep., 567 VI, 505 a). Sesto Empirico riteneva che il M. im- plicasse, oltre la
cosa appresa, colui che la apprende, e il modo dell’apprendimento (Adv. Math.,
I, 9) e intendeva per «matematici» tutti i cultori di scienze oltre che i
filosofi. Kant restrinse la parola a indicare le proposizioni della matematica,
che sono quelle ottenute mediante «la costruzione di concetti » (Cri. R. Pura,
II, cap. 1, sez. 1). La parola più vicina all’uso classico del termine è
disciplina (v.): una scienza in quanto si apprende o insegna. MATHESIS
UNIVERSALIS. Così Leibniz (Op., ed. Erdmann, pag. 8) chiamò l’arte combina-
toria o caratteristica universale (v.). Husserl ha ri- preso il termine per
indicare la logica formale o pura come «scienza eidetica dell’oggetto in gene-
rale », che egli caratterizza così: « Oggetto è per essa tutto ed ogni cosa e
perciò possono essere costituite le verità infinitamente molteplici che si
distribuiscono nelle molte discipline della mathesis. Queste ultime per altro
rimandano tutte ad un piccolo patrimonio di verità immediate o fonda- mentali che
nelle discipline puramente logiche fun- gono da assiomi + (Ideen, I, $ 10;
Logische Untersu- chungen, I, cap. ultimo). MATRICI, METODO DELLE (ingl.
Method of matrices; franc. Méthode des matrices). Il me- todo con cui si costruiscono le tavole di
verità (v. TAVOLA) e che consiste nell’enumerazione sistematica delle
possibilità di verità per un certo numero di proposizioni semplici cioè
nell’enumera- zione delle combinazioni possibili dei valori di verità di queste
proposizioni. Per una proposizione si hanno due possibilità (vero o falso), per
due proposizioni quattro e in generale per n proposi- zioni 2° possibilità di
verità. Questo metodo fu introdotto da Peirce in uno scritto del 1885 (Coll.
Pap., 4.359-403), fu sviluppato da Schréder (A4/- gebra der Logik, 1890)
adoperato dai logici polacchi e specialmente da Lukasiewicz per la costruzione
delle logiche polivalenti (cioè che ammettono oltre ai due valori di verità,
vero e falso, il valore possibile) (cfr. TARSKI, Logic, Semantics,
Metamathematics, 1956, cap. IV), ed è adoperato oggi su vasta scala da molti
logici matematici (cfr., ad es., BETH, Les fondements logiques des
mathematiques, 1955, $ 34). Il metodo era conosciuto nell’antichità e Filone di
Megara se ne servì nella sua analisi delle pro- posizioni condizionali. Egli
infatti asserì che tali proposizioni sono vere nei casi seguenti: 1° se sia
l’antecedente sia il conseguente sono veri; 2° se l’antecedente è falso e il
conseguente è vero; 3° se l’antecedente e il conseguente sono entrambi falsi; ma
sono false se l’antecedente è vero e il conse- guente è falso (Sesto
EmMpPIRICO, Adv. Math., 1, 309). V. CONDIZIONALE; IMPLICAZIONE. 568 Il metodo
delle M. serve in generale per rico- noscere se una proposizione del calcolo
proposi- zionale è vera e se perciò può essere enumerata fra le leggi del
calcolo (TARSKI, Introduction to Logic, $ 13; CHurc8Ò, Introduction to
Mathematical Logic, I, $ 15). MATRIMONIO (gr. l'&uoc; lat. Matrimonium;
ingl. Marriage; franc. Mariage; ted. Ehe). Qual- siasi progetto di vita in
comune tra persone di sesso diverso. Questa è una definizione generaliz- zata
che tiene conto della varietà di forme che il M. assume in gruppi sociali
diversi nonchè dei diversi concetti che ne sono stati dati. Tali con- cetti
possono essere raggruppati nel modo seguente: 1° Il M. come istituzione
naturale. Così lo concepirono Platone che vide «nella società co- niugale il
principio e l’origine di tutti gli stati » (Leggi, IV, 721 a); e Aristotele che
considerò la famiglia «anteriore e più necessaria dello Stato » (Er. Nic., 8,
12, 1162a 18 sgg.); sebbene sia Pla- tone che Aristotele ritenessero
indispensabile che lo Stato intervenisse a ordinare le modalità del matrimonio.
In questo caso, il fine esclusivo del M. è la procreazione e l’educazione della
prole. 2° Il M. come istituzione contrattuale. Così il M. venne inteso dal
diritto romano e dal diritto canonico. In tal caso, pur riconoscendosi il fine
del M. nella procreazione ed educazione della prole, si distingue da esso la
forma o essenza del M. considerato come un’associazione o comunità di vita
(consortium omnis vitae, Dig., XXI, 23, 2) o « una qualche indivisibile
congiunzione degli animi », come dice S. Tommaso (S. 7h., III, q. 29, a. 2), la
cui condizione indispensabile è il consenso espresso nelle forme stabilite
dalla legge civile o religiosa. Sull’aspetto contrattuale del M. insisteva Kant
che lo definì come «l’unione di due persone di sesso diverso per il possesso
reciproco delle loro facoltà sessuali durante tutta la vita »; lo considerò come
fonte di un diritto reale oltre che personale nel senso che ognuno delle due
persone è acquistata dall'altra proprio come una cosa; ma vide nella
reciprocità di tale acquisto il riscatto della perso- nalità dei due coniugi
(Mer. der Sitten, I, $ 24-25). Hegel invece insisteva sull’unità
etico-sentimentale del M.: «Il M., egli diceva, non è essenzialmente nè unione
meramente naturale, bestiale, nè un puro contratto civile, ma un’unione morale
del senti- mento, nel mutuo amore e fiducia, che fa di due persone una sola
persona » (Philosophische Propà- deutik, I, $ 51; Enc., $ 519; Fil. del Dir., $
162). 3° Il M. come istituzione sociale. Questo è il punto di vista degli
antropologi e sociologi che hanno riscontrato nei diversi gruppi umani, tutte
le forme possibili di M.: quello di un uomo e di una donna, di un uomo e di più
donne, di più MATRIMONIO donne e di un uomo, di più uomini e più donne (cfr.,
ad es., W. N. STEPHENS, The Family in Cross- Cultural Perspective, 1963). Da
questo punto di vista, Levi-Strauss ha considerato le regole del M. come una
specie di linguaggio, cioè un certo tipo di comunicazione: più specificamente
come la co- municazione delle donne nel seno di un gruppo (Structures
élémentaires de la parenté, 1949; cfr. An- thropologie structurale, 1958, pag.
69 sgg.). MECCANICISMO (ingl. Mechanism; francese Mécanisme; ted. Mecanismus).
Ogni dottrina che faccia ricorso alla spiegazione meccanicistica. Per
spiegazione meccanicistica si intende quella che si serve esclusivamente del
movimento dei corpi, in- teso nel senso ristretto di movimento spaziale. In
questo senso, una teoria meccanicistica della natura è quelia che non ammette
altra spiegazione possi- bile dei fatti naturali, a qualsiasi dominio apparten-
fano, se non quella che li considera come movi- menti o combinazioni di
movimenti di corpi nello spazio. Il M. può essere considerato: 1° come una
concezione filosofica del mondo; 2° come un me- todo o un principio direttivo
della ricerca scien- tifica. 1° Come concezione filosofica del mondo, il M. si
è presentato, sin dall’antichità, come asomismo (v.). La concezione del mondo
come di un sistema di corpi in movimento, cioè di una grossa macchina, è
propria dell’atomismo antico. Il materialismo del *700 e dell’800 ha ripreso
questa concezione, la quale è contrassegnata dalle seguenti caratteri- stiche:
a) la negazione di ogni ordine finalistico. La polemica fra M. e finalismo è
cominciata non appena, a partire dal ’600, il M. si è affermato col sorgere
della scienza moderna. Anche oggi, spesso, per M. non s'intende che la
negazione del fina- lismo (v.); b) il determinismo rigoroso cioè il con- cetto
di una causalità necessaria che investa tutti i fenomeni della natura. Oggi si
considera come non meccanicistica ogni concezione del mondo che neghi il
determinismo rigoroso. I due tratti precedenti si trovano tipicamente espressi
nella filosofia di Hobbes che costituisce una delle migliori espressioni del M.
filosofico (v. MATERIALISMO). Dall'altro lato, la veduta più scaltrita che le
filosofie antimeccanicistiche dell’800 assunsero di fronte al M. fu quella
espressa da Lotze nel Microcosmo (1856) e cioè che «il com- pito che spetta al
M. nell’ordinamento dell’uni- verso è universale senza eccezioni quanto alla
sua estensione, ma nel tempo stesso affatto secondario quanto alla sua
importanza» (Mikrokosmus, I, Intr.; trad. ital., pag. 10): o, in altri termini,
che il M. non è che lo strumento di cui il Principio razionale o divino
dell’universo si è avvalso per raggiungere i suoi scopi. Questo punto di vista
si è intrecciato, MECCANICISMO nella filosofia spiritualistica contemporanea,
con la critica ab extrinseco dei princìpi scientifici del mec- canicismo. Nel
frattempo, tuttavia, cioè a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, il
M. come concezione filosofica generale non trovava più so- stenitori per motivi
che saranno chiari nel seguito. 2° Il M. scientifico può essere considerato: a)
nella fisica; 5) nelle altre scienze. a) Nella fisica, il M. consiste nella
tesi che tutti i fenomeni della natura debbano essere spie- gati con le
semplici leggi della meccanica; e che pertanto la meccanica stessa possegga uno
status privilegiato fra le altre scienze, in quanto fornisce a tutte i princìpi
di spiegazione. Ora la meccanica come scienza è creazione relativamente
recente. Archimede conosceva gli elementi della srarica cioè di quella parte di
essa che tratta dell’equilibrio delle forze ma la dinamica, cioè lo studio dei
mo- vimenti dei corpi sotto l’azione delle forze, rimase sconosciuta agli
antichi ed è stata fondata da Galilei e da Newton. Il principio di D’Alembert
unificava poi la statica e la dinamica mostrando che un problema di dinamica
può essere trasformato in un problema di equilibrio di forze, quindi di sta-
tica, prendendo in considerazione forze fittizie dette « forze d’inerzia »: e
così, per es., l’orbita di un pianeta intorno al sole può essere considerata
come l’equilibrio tra la forza gravitazionale e una forza centrifuga uguale ed
opposta. Con questa concezione la meccanica era in qualche modo con- clusa
quanto ai suoi teoremi fondamentali. Da allora essa ha subìto soltanto
trasformazioni con- cettuali e linguistiche che hanno mirato a renderla più
coerente e semplice. Da questo punto di vista, una seconda fase dello sviluppo
della meccanica può essere considerato quello che essa ha subìto verso la metà
dell’800, ad opera soprattutto di Hamilton, con la sostituzione dell’idea di
energia a quella di forza. La prima fase della meccanica era caratterizzata dal
tentativo di spiegare i feno- meni naturali col ridurli a innumerevoli azioni a
distanza fra gli atomi della materia. La seconda fase si ispira all'importanza
che il principio di conservazione dell’energia (enunciato da Helm- holtz nel
1847) aveva assunto nella scienza e dalla espressione, in termini di energia
cinetica e poten- ziale, delle leggi fondamentali della meccanica. Una terza
fase fu iniziata verso la fine del secolo, da Hertz, che cercò di ridurre la
dinamica alla cine- matica, ammettendo come legge fondamentale quella del minimo
principio: ogni sistema libero persiste nel suo stato di riposo e di movimento
uniforme lungo la via più breve. Da queste vicende della meccanica è relativa-
mente indipendente il M. della fisica. Come si è detto, la caratteristica delle
teorie meccanicistiche 569 in fisica è quella di utilizzare esclusivamente le
grandezze che sono proprie della meccanica (la forza, la massa, l’energia,
ecc.). Si può distinguere: la teoria meccanistica della discontinuità e la
teoria meccanistica del conrinuo. La teoria meccanistica del discontinuo è la
teoria atomica che è stata invocata a spiegare, oltre che la luce (teoria
crepuscolare), vari fenomeni fisici come l’adesione, la coesione, la
capillarità; e che ha dato luogo alla teoria cinetica dei gas e alle prime
teorie dei fenomeni elettrici. Le teorie mec- canistiche fondate sulla
continuità furono rese pos- sibili soltanto dalla scoperta di più complicati
strumenti di calcolo differenziale; e trovano il loro esemplare nella ipotesi
di Fresnel sull’etere ela- stico come mezzo di propagazione delle onde lu-
minose. Entrambe queste teorie sono state nella fisica eliminate dalla teoria
del campo (v.) con la quale i concetti della meccanica hanno cessato di valere
come princìpi esplicativi generali della fisica. Contemporaneamente l’altra
caratteristica fondamentale del M. cioè il determinismo rigoroso o
necessitarismo veniva eliminato dall’affermarsi della teoria quantistica (v.
CAUSALITÀ). « Le leggi della fisica quantistica, dicono a questo proposito
Einstein e Infeld, non governano le vicende nel tempo di oggetti singoli ma
governano le variazioni della probabilità nel tempo» (The Evolution of Physics,
IV; trad. ital., pag. 298). Con questa tra- sformazione la fisica è uscita
dalla sua fase mecca- nistica, costituendosi come scienza della previsione
probabile (v. Fisica). b) Il M. non è stato soltanto un principio direttivo
della fisica; a partire dalla metà del se- colo xvm è stato anche il principio
direttivo di tutte le altre scienze naturali compresa la biologia, la
psicologia e la sociologia. Ovviamente, fuori della fisica, il M. ha avuto un
carattere assai meno rigoroso: non si è mai raggiunto neanche per la
spiegazione dei più semplici fenomeni biologici, psicologici o sociologici,
l’esattezza quantitativa dei modelli meccanici impiegati a spiegare, per es.,
il fenomeno della capillarità o quello dell’interfe- renza della luce. Fuori
della fisica, pertanto, il M. è stato più un’aspirazione generica, una tesi
filo- sofica o nella migliore ipotesi una generica esi- genza di metodo, che un
effettivo strumento di spiegazione. Polemicamente, esso ha fatto valere
l’istanza della necessità causale contro il finalismo; e positivamente ha
affermato in ogni campo l’esi- genza dell’analisi quantitativa. Oltre a questo,
le tesi del M., nei vari campi della scienza, sono tesi riduzionistiche: il M.
della biologia consiste nel ridurre le leggi biologiche a leggi
fisico-chimiche; il M. della psicologia consiste nel ridurre le leggi
psicologiche a leggi biologiche; e così il M. nella 570 sociologia consiste nel
ridurre le leggi sociolo- giche a leggi biologiche e psicologiche. Queste ten-
denze riduzionistiche hanno avuto la loro utilità nello sgombrare il campo
delle rispettive scienze da impalcature concettuali antiquate, da presup- posti
metafisici o teologici che impacciavano la ricerca o addirittura la bloccavano.
La scienza del sec. xx, a partire soprattutto dal terzo decennio di esso, ha
tuttavia abbandonato l’impostazione riduzionistica e perciò il M. senza
tuttavia ritornare alle posizioni cui il M. si contrapponeva. La bio- logia, ad
es., ha abbandonato il presupposto che i fenomeni vitali siano retti solo da
leggi fisico-chi- miche senza tuttavia ammettere una qualsiasi forma di
vitalismo (v. EvoLUZIONE; VITALISMO). Si può dire pertanto che il M. è stato
abbandonato; ma bisogna aggiungere che con esso sono stati abbandonati anche
gli indirizzi concettuali ai quali il M. si con- trapponeva e dei quali
rappresentava la correzione. MEDIANITÀ (ted. Durchschaittlichkeit). Se- condo
Heidegger, quel che l’uomo è in media o all’ingrosso, nella sua esistenza
quotidiana e indif- ferente: una determinazione fondamentale dell’esi- stenza
dalla quale l’analisi esistenziale deve pren- dere le mosse (Sein und Zeit, $
9). MEDIATORE PLASTICO (franc. Médiateur Plastique). Così fu chiamata da alcuni
filosofi del- 1°800 la « natura plastica » di cui parlava Cudworth come Ectipo
(v.) cioè intermediario tra Dio e il mondo (The True Intellectual System of the
Uni- verse, I, 1, 3). L'espressione si trova usata da Laromiguière (Lecons de
phil., 1815-18, II, 9) e da Galluppi (Zezioni di logica e metafisica, 1832-
1836, II, pag. 273). MEDIAZIONE (ingl. Mediation; franc. Mé- diation; ted.
Vermittelung). La funzione che mette in relazione due termini o due oggetti in
gene- rale. Tale funzione è stata riconosciuta propria: 1° del termine medio
nel sillogismo; 2° delle prove nella dimostrazione; 3° della riflessione; 4°
dei demoni nella religione. 1° Secondo Aristotele il sillogismo è determinato
dalla funzione mediatrice del termine medio che con- tiene in sè un termine ed
è contenuto dall’altro ter- mine (An. Pr., I, 4, 25b 35) (v. SILLOGISMO). 2°
Secondo la logica di Portoreale, la M. è indispensabile in qualsiasi
ragionamento. « Quando la sola considerazione di due idee non basta a far
giudicare se si deve affermare o negare l’una dell’altra, si ha bisogno di
ricorrere a una terza idea, semplice o complessa, e questa terza idea si chiama
medio » (ARNAULD, Log., III, 1). A sua volta Locke diceva: « Le idee intermedie
che ser- vono a dimostrare la concordanza tra due altre sono chiamate prove; e
quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente percepita la con-
MEDIANITÀ cordanza o discordanza, questa è detta una dimo- strazione » (Saggio,
IV, 2, 3). Nello stesso senso d’Alembert affermava: « Tutta la logica si riduce
a una regola semplicissima: per confrontare due o più oggetti lontani gli uni
dagli altri ci si serve di più oggetti intermediari. Lo stesso accade quando si
vogliono confrontare due o più idee; l’arte del ragionamento non è che lo
sviluppo di questo principio e delle conseguenze che ne risultano » (CEuvres,
ed. Condorcet, 1853, pag. 224). 3° Secondo Hegel, la M. è la riflessione in
generale (Werke, ed. Glockner, II, pag. 25; IV, pag. 553; ecc.). « Un contenuto
può essere cono- sciuto come la verità, dice Hegel, solo in quanto non è
mediato con un altro, non è finito, si media dunque con se stesso, ed è così,
tutto in uno, M. e relazione immediata con se stesso ». In altri termini, la
riflessione esclude non solo l'immediatezza, che è l'intuire astratto cioè il
sapere immediato, ma anche la «relazione astratta» cioè la M. di un concetto
con un concetto diverso (le prove di Locke) che Hegel ritiene propria (e con
ragione) del secolo dell'illuminismo (Enc., $ 74). 4° Una funzione mediatrice
tra gli dèi e gli uomini fu riservata, nell’antichità, ai demoni. Il Demiurgo
platonico incarica le divinità inferiori o demoni di creare le generazioni
mortali e comple- tare l’opera della creazione (Tim., 41 a-c). Plotino dice che
i demoni sono eterni, in relazione con noi, e «intermediari fra gli dèi e la
nostra specie » (Enn., III, 5, 6). Come mediatore era concepito Mitra e
precisamente come mediatore tra l’irrag- giungibile divinità delle sfere eteree
e il genere umano (CuMONT, The Mysteries of Mithra, pa- gina 127 sgg.). Infine
secondo la dottrina cristiana, «al solo Cristo compete di essere mediatore in
modo semplice e perfetto », mentre angeli e sacer- doti sono piuttosto
strumenti di M. (S. TomMaso, S. Th., III, q. 26, a. 1). MEDIETÀ (gr. ueoémg;
lat. Medietas; in- glese Mean; franc. Milieu; ted. Mittel). Il mezzo, o giusto
mezzo, tra gli estremi, che, secondo Ari- stotele, può essere definito o in
relazione alle cose o in relazione a noi. « Se ogni scienza, dice Aristo- tele,
adempie bene al suo compito mirando al giusto mezzo e indirizzando ad esso le
sue opere (onde siamo soliti dire delle buone opere che non c’è nulla da
togliere nè da aggiungere in quanto l’eccesso e il difetto rovinano ciò che sta
bene mentre la M. lo salva) se cioè i buoni artisti lavo- rano guardando a
questo mezzo, la virtù che è, come la natura, più accurata e migliore di ogni
arte, dovrà tendere proprio al giusto mezzo » (Er. Nic., II, 6, 1106b 8). La M.
è tuttavia la definizione soltanto della virtà etica (v.) o morale perchè solo
questa concerne passioni o azioni che MEMORIA sono suscettibili di eccesso o
difetto (cfr. pure S. Tommaso, S. 7A., I, II, q. 59, a. 1) (v. VIRTÙ).
MEDITAZIONE. V. MisticIsMO. MEGARISMO (ingl. Megarism; franc. Méga- risme; ted.
Megarismus). La scuola socratica di Megara, fondata nel sec. v a. C. da Euclide
(da non confondere col matematico Euclide che visse ed insegnò ad Alessandria
circa un secolo dopo). Altri rappresentanti della scuola sono Eubulide di
Mileto, Diodoro Crono e Stilpone che insegnò in Atene verso il 320 avanti
Cristo. La caratteristica della scuola è quella di unire l’insegnamento di
Socrate con la dottrina eleatica. Euclide riteneva che uno solo è il bene ed è
l'Unità, chiamata con vari nomi: Saggezza, Dio, Intelletto, ecc. Pertanto come
gli Eleati, i Megarici polemizzavano contro la realtà del movimento, del
mutamento e del molteplice. A confutare questa realtà miravano vari argomenti,
di natura sofistica, da essi ad- dotti: come l’argomento del sorife (v.) o del
calvo; come pure mirava la negazione della pos- sibilità fatta da Diodoro Crono
(per quest’ultima v. PossisiLiTÀà). Alcuni di questi argomenti furono ripresi
dagli Stoici, in quei ragionamenti « am- bigui » o « convertibili » che in
seguito si chiama- rono dilemmi (v.) che oggi chiamano paradossi o antinomie
(v.). MEGLIORISMO (ingl. Meliorism; frane. Mé- liorisme; ted. Meliorismus).
Parola recente, usata soprattutto da scrittori anglossassoni, per indicare un
atteggiamento di fronte al mondo non pessi- mistico nè ottimistico ma orientato
verso la speranza del meglio e la volontà di realizzarlo. MELANCONIA (gr. uérac
yo; ingl. Melan- cholia; franc. Mélancolie; ted. Melancholie). Pro- priamente,
umor nero (v. TEMPERAMENTO). Nel linguaggio comune, tristezza senza motivo.
MEMORIA (gr. uviun; lat. Memoria; ingl. Me- mory; franc. Mémoire; ted.
Gedachtnis). La possi- bilità di disporre delle conoscenze passate. Per
conoscenze passate bisogna intendere quelle che sono state già, in un modo
qualsiasi, disponibili; e non già semplicemente conoscenze de/ passato. La
conoscenza del passato può essere anche di nuova formazione: per es.,
disponiamo ora di informa- zioni circa il passato del nostro pianeta o del
nostro universo che non sono affatto ricordi. Una conoscenza passata non è
neppure, semplicemente, un’impronta, una traccia qualsiasi: un’impronta o
traccia è difatti alcunchè di presente, non di pas- sato. La tristezza o
l’imperfezione fisica lasciati da un incidente di cui si è stati vittima, non
sono la M. di questo incidente, per quanto ne siano le tracce, mentre un
ricordo può essere disponibile e pronto senza l’aiuto di alcuna traccia, come è
il caso di una formula per il matematico e in ge- 571 nerale dei ricordi che
sono affidati a formazioni o ad abiti professionali. La M. sembra costituita da
due condizioni o momenti distinti: 1° la conservazione o persistenza, in una
certa forma, delle conoscenze passate che, per esser passate, devono essersi
sottratte alla vista: questo momento è la rifentiva; 2° la possibilità di
richiamare, all’occorrenza, la conoscenza passata e di renderla attuale o
presente: che è propriamente il ricordo. Questi due momenti furono già distinti
da Platone che li chiamò rispettivamente « conser- vazione di sensazione» e
«reminiscenza» (Fil, 34 a-c); e da Aristotele che si serve degli stessi
termini. Aristotele pone anche chiaramente il pro- blema che emerge dalla
conservazione della rappre- sentazione come traccia (impressione) di una cono-
scenza passata. « Se rimane in noi, egli dice, qualcosa che è simile a
un’impronta o ad una pittura, come può la percezione di questa impronta essere
M. di qualch’altra cosa e non soltanto di sè? Infatti, chi effettivamente
ricorda non vede che questa im- pronta e solo di essa ha sensazione: come può
allora ricordare ciò che non è presente?» (De Mem., 1, 450b 17). La risposta di
Aristotele a questa difficoltà è che l’impronta nell’anima è come un quadro che
può essere considerato o per sè o per l’oggetto che rappresenta. « Come, egli
dice, un animale dipinto in un quadro è sia un animale sia un’immagine ed è
insieme entrambe le cose, sebbene il loro essere non sia lo stesso, sicchè può
essere considerato sia come animale sia come immagine; così anche l’immagine
mnemonica che è in noi dev'essere considerata un oggetto di per se stesso e
nello stesso tempo rappresentazione di qualche altra cosa» (/bid., 450b 21). La
spiega- zione dell’intero processo della M., sia come ri- tentiva sia come
ricordo, è poi, secondo Aristotele interamente fisica: a un movimento è
affidata la ritentiva e la produzione dell’impronta ed è un mo- vimento che
produce il ricordo. Il ricordo tuttavia, a differenza della ritentiva, è una
specie di dedu- zione (sillogismo); giacchè « chi ricorda deduce che ha già
ascoltato, o comunque percepito ciò che ri- corda; ed è questa una specie di
ricerca » (Ibid., 453 a 11). Il ricordo è perciò soltanto degli uomini. Con ciò
Aristotele metteva in luce un altro carat- tere fondamentale della M. come
ricordo: il suo carattere attivo di deliberazione o di scelta. L’ana- lisi
platonico-aristotelica della M. ha messo in luce i seguenti punti: a) la
distinzione tra ritentiva e ricordo; 5) il riconoscimento del carattere attivo
o volontario del ricordo di fronte al carattere naturale o passivo della
ritentiva; c) la base fisica del ricordo come conservazione di movimento o
movimento conservato. Questi punti si può dire che rimangano costanti nella
storia successiva del 572 concetto. Tuttavia le dottrine che successivamente si
presentano possono essere suddivise in due gruppi, a seconda che fanno leva,
per l’interpretazione della M., sull’aspetto per cui essa è ritentiva o conser-
vazione o sull’aspetto per cui è ricordo. A) La psicologia antica ha insistito
sull’aspetto per il quale la M. è conservazione, persistenza di conoscenze
acquisite. La trattazione misticheggiante di Plotino, oltre a negare la base
fisica della M. e a vedere dal corpo un ostacolo più che un aiuto di essa
(Enn., IV, 3, 26) proporziona la M. alla forza e alla persistenza della
conservazione: « Se l’immagine persiste nell’assenza dell’oggetto, v’è già M.,
anche se persiste per poco; se persiste per poco, la M. è corta; se dura di più
la M. aumenta perchè la forza dell’immaginazione è maggiore; e se difficilmente
vien meno, la M. è indistruttibile » (4bid., IV, 3, 29). In modo analogo,
l’elencazione che S. Agostino fa dei « miracoli » della M., poggia sullo stesso
concetto di essa come ricettacolo delle conoscenze o, secondo la sua
espressione, « ventre dell’anima » (Conf., X, 14). Questo è pure il concetto
che della M. ebbero i filosofi medievali. S. Tommaso la chiama «il tesoro e il
posto di conservazione delle specie » (S. 7%., I, q. 29, a. 7), ripetendo un
luogo comune della filosofia medievale. Ciò equi- valeva ad insistere sulla M.
come ritentiva. Ma sulla M. come conservazione insistono anche concezioni
moderne e contemporanee che, ripren- dendo la concezione agostiniana del tempo
come distensio animi o durata di coscienza, vedono nella M. la conservazione
integrale dello spirito da parte di se stesso: cioè la persistenza in esso di
tutte le sue azioni e affezioni, di tutte le sue manifesta- zioni o modi
d’essere. Questa concezione fu già esposta da Leibniz che concepiva la M. come
conservazione integrale sotto forma di virtualità o « piccole percezioni +
delle idee che non hanno più la forma di pensieri o di «appercezioni»: onde
osservava contro Locke: «Se le idee non fossero che forme o modi dei pensieri,
cesserebbero con essi; ma voi stesso, Signore, avete riconosciuto che esse sono
gli oggetti interni dei pensieri e come tali possono sussistere. E io mi
meraviglio che voi possiate fare a meno di queste potenze o fa- coltà pure, che
abbandonate, a quanto sembra, ai filosofi della scuola » (Nouv. Ess., II, 10,
2). Sotto forma di virtualità o facoltà può e deve conser- varsi integralmente
ogni atto o manifestazione dello spirito giacchè lo spirito è per l’appunto
questa auto-conservazione. Tale è la concezione della M. propria di ogni
filosofia spiritualistica o coscienzia- listica. Nel modo migliore e più
circostanziato tale concezione è stata esposta da Bergson in Materia e M.
(1896) e da lui contrapposta alla concezione della M. fondata sul ricordo. «La
M., egli ha MEMORIA detto, non consiste nella regressione dal presente al
passato, ma al contrario nel progresso dal pas- sato al presente. È nel passato
che noi ci situiamo di colpo. Partiamo da uno stato virtuale, che con- duciamo
a poco a poco, mediante una serie di piani di coscienza diversi, sino al termine
in cui esso si materializza in una appercezione attuale cioè sino al punto in
cui diviene uno stato pre- sente e agente, cioè, infine, sino a quel piano
estremo della nostra coscienza su cui si disegna il nostro corpo. In questo
stato virtuale consiste il ricordo puro» (Matiére et mémoire, 7® ediz., pag.
245). La M. pura (o ricordo puro) è la cor- rente di coscienza in cui tutto
vien conservato allo stato di virtualità. La limitazione del ricordare
effettivo non appartiene alla M. ma al ricordo attuale che Bergson identifica
con la percezione e che è una scelta operata nella M. pura per le esi- genze
dell’azione. Pertanto le lesioni cerebrali non affettano la M. vera e propria,
ma soltanto la reminiscenza dei ricordi nella percezione cioè il meccanismo attraverso
il quale la M. si inserisce nel corpo e diventa azione. Questa teoria, che
Bergson appoggiava ad una analisi dei disturbi delle funzioni mnemoniche, è
caratterizzata da due punti fondamentali: 1° la distinzione tra la M. pura e il
ricordo, intendendosi per M. pura la conservazione integrale, indipendente da
ogni cir- costanza, dello spirito da parte dello spirito. Ora è evidente che
tale M. non ha niente a che fare con la memoria osservabile; 2° la negazione di
ogni base fisiologica della M. pura e la restrizione della base fisiologica al
fenomeno della percezione. Anche questa negazione non ha alcuna conferma di
fatto mentre trova il suo precedente storico nella teoria di Plotino. Da
Cartesio in poi (Princ. Phil., IV, 196) la base fisiologica della M. non è
stata negata. La stessa conservazione integrale dello spirito da parte dello
spirito è la «corrente della coscienza » di cui parla Husserl, che anch'egli
ri- corre al concetto adoperato da Leibniz e da Bergson di virtualità o
potenzialità per contrassegnare la me- moria. « Oltre che nell’appercezione,
dice Husserl, le cose possono essere esperite nel ricordo e nelle
ripresentazioni affini al ricordo... Appartiene all’es- senza di queste
esperienze vissute quella importante modificazione che trasporta la coscienza
dal modo dell’attualità al modo dell’inattualità e viceversa. In un caso
l’esperienza vissuta è coscienza esplicita del suo oggetto; nell’altro è
coscienza implicita, soltanto potenziale» (/deen, I, $ 35). Il presup- posto è
sempre quello della totale conservazione di tutto il contenuto della coscienza:
il feno- meno del ricordo è legato al passaggio del conte- nuto dallo stato
attuale a quello potenziale o viceversa. MENTALITÀ B) Ad un secondo gruppo di
teorie della M. appartengono quelle che hanno fatto soprattutto leva sul
fenomeno del ricordo. Hobbes, per es., ha definito la M. come «il sentire di
aver già sen- tito» (De corp., 25, 1): il che significa definirla in rapporto
all’atto con cui si riconosce, in ciò che si percepisce, ciò che si è percepito
altra volta. Da questo stesso punto di vista Wolff definiva la M. come «la
facoltà di riconoscere le idee ripro- dotte e le cose da esse rappresentate»
(Psychol. rationalis, $ 278): un concetto che si ritrova anche in Baumgarten
(Me., $ 579). Da questo punto di vista si tende talvolta a riconoscere il
carattere attivo della M. cioè la funzione della volontà o della scelta
deliberata nel richiamare i ricordi. Di- ceva Locke: « In questo richiamo delle
idee riposte nella M., lo spirito stesso non è puramente passivo perchè la
rappresentazione di questi quadri dor- mienti dipende a volte dalla volontà»
(Saggio, II, 10, 7). Kant metteva in luce egualmente questo carattere attivo:
«La M., egli diceva, differisce dalla semplice immaginazione riproduttiva in
questo che, potendo essa riprodurre volontariamente la rap- presentazione
precedente, l’anima non è in balia di questa » (Anfr., I, $ 34). A questo
stesso gruppo di dottrine appartengono: a) quelle che interpretano la M. come
intelligenza; 5) quelle che interpretano la M. come meccanismo associativo. a)
Come intelligenza o pensiero la M. (sempre nel suo aspetto di ricordo) è stata
interpretata da Hegel. Hegel vede nella M. «il modo estrinseco, il momento
unilaterale dell’esistenza del pensiero ». E nota che già la lingua tedesca dà
alla M. « l’alta situazione della parentela immediata col pensiero » (Enc., $
464). La M. è, secondo Hegel, pensiero esteriorizzato, pensiero che crede di
trovare qual- cosa di esterno, cioè la cosa che viene ricordata o rievocata, ma
che in realtà non trova che se stesso perchè anche la cosa ricordata o
rievocata è pensiero. Perciò Hegel dice che lo spirito «si fa come M., in se
stesso, qualcosa di esterno; cosicchè ciò che è suo appare come qualcosa che
vien trovato » (/bid., $ 463). Qui viene teorizzata soprattutto la M. come
ricordo; ed è evidente la parentela di questa dottrina con quelle spirituali-
stiche o coscienzialistiche: l’identificazione della M. col pensiero ha lo
stesso senso dell’unificazione della M. con la coscienza o con la sua durata.
b) Il concetto della M. come meccanismo as- sociativo è stato espresso per la
prima volta da Spinoza nel modo seguente: «La M. non è altro che una certa
concatenazione delle idee implicanti la natura delle cose che sono fuori del
corpo umano; la quale si produce nella mente secondo l’ordine e la
concatenazione delle affezioni del corpo umano ». Spinoza distingue la
concatenazione propria della 573 M. da quella delle idee «che si compie secondo
l’ordine dell’intelletto e che è uguale in tutti gli uomini » (Ef., II, 18,
schol.). Non c’è dubbio per- tanto che Spinoza alludeva a un meccanismo asso-
ciativo, del tipo di quelli che fu più tardi teoriz- zato da Hume, « È evidente
che esiste un principio di connessione fra i vari pensieri o idee dello spi-
rito e che nel loro apparire alla M. o alla imma- ginazione essi si presentano
l’uno dopo l’altro con un certo grado di metodo e di regolarità» (Ing. Conc.
Underst., III). Come è noto, Hume enunciava tre leggi di associazione, la rassomiglianza
la con- tiguità e la causalità; ma soltanto le prime due furono adoperate dalla
psicologia associazionistica per la spiegazione dei fenomeni psichici (v. Asso-
CIAZIONISMO). La psicologia moderna si è fondata in gran parte sull’ipotesi associazionistica
nello studio dei feno- meni della M., sino a che la psicanalisi da un lato, la
teoria della forma dall’altro, hanno mostrato la importanza degli interessi e
degli atteggiamenti vo- litivi nel ricordo e quella dell’intera personalità nel
riconoscimento del già visto. Lo studio sperimen- tale della M. ha confermato
il detto di Nietzsche: «Io ho fatto questo, — mi dice la memoria. Non posso
averlo fatto, — sostiene il mio orgoglio che è inesorabile. Alla fine cede la
M.» (Jenseits von Gut und Bose, 1886, $ 68). L'impianto delle analisi
psicologiche moderne continua così ad essere im- perniato sul fatto del ricordo
più che su quello della ritentiva: il quale invece continua ad essere preferito
dalle teorie filosofiche della memoria. MENDELISMO. V. GENETICA. MENTALISMO
(ingl. Mentalism). Vocabolo usato per lo più da scrittori filosofici
anglosassoni per indicare cose in verità assai diverse, e cioè: o come sinonimo
di « soggettivismo + e « idealismo soggettivo » (del tipo berkeleyiano); o come
sino- nimo di psicologismo (v.), vale a dire la tendenza, vivamente combattuta
dalla Logica odierna ma tuttavia tenacemente persistente, a considerare le
forme, figure e strutture della Logica come forma- zioni, rappresentazioni ed
operazioni mentali (psi- cologiche) e le regole della Logica come «leggi del
pensiero ». Negli scritti dei seguaci della meto- dologia operativistica e dei
pragmatisti (per es., Dewey) « M.» viene usato in un’accezione lieve- mente
diversa: e cioè a designare la tendenza empiristica a risolvere l’esperienza e
i concetti em- pirici in meri «stati mentali», trascurandone gli aspetti
obiettivi (fisiologici, operativo-manuali, lin- guistici, storici, ecc.). G. P.
MENTALITÀ (ingl. Mentality; franc. Menta- lite; ted. Mentalitàt). 1. Termine adoperato
dai so- ciologi per indicare gli atteggiamenti, le disposizioni e i
comportamenti istituzionalizzati in un gruppo 574 e adatti a caratterizzare il
gruppo stesso. Per es., «la M. dei primitivi », «la M. borghese», ecc. 2.
Spaventa. chiamò « M. pura» il pensiero ri- flesso o consapevole, che egli
ritenne debba accom- pagnare anche le prime categorie della logica he- geliana
(quelle dell’essere e dell’essenza) (Scritti filosofici, 1901, passim). MENTE
(lat. Mens). 1. Lo stesso che intel- letto (v.). 2. Lo stesso che spirito: cioè
l’insieme delle fun- zioni superiori dell’anima, intelletto e volontà (vedi
SPIRITO). 3. Lo stesso che dottrina. In questo senso si dice (o meglio si
diceva perchè questo significato è an- tiquato). « La M. di Aristotele » per
dire la dottrina di Aristotele su un argomento qualsiasi. MENTITORE (gr. yevdsuevos; lat.
Mentiens; ingl. Liar; franc. Menteur; ted. Liigner). Uno degli argomenti che gli antichi
chiamavano ambigui o convertibili e i moderni chiamano antinomie o pa- radossi:
quello che consiste nell’affermare di men- tire: così, se si dice la verità, si
mente; e se si mente, si dice la verità. La conclusione è impossibile.
Attribuito a Eubulide di Megara (Diog. L., II, 108) l’argomento viene riportato
da molti scrittori an- tichi (ArIst., E/ Sof., 25, 180b 2; CICER., Acad., Il,
95; De Div., II, 4; Getto, Nocr. Att., 18, 2). Ripreso nell’ultimo periodo
della Scolastica, l’ar- gomento viene tuttora discusso dalla logica come una
delle antinomie logiche (v. ANTINOMIE). MENZIONE. V. Uso. MENZOGNA (gr. qeùsoc;
lat. Mendacium; ingl. Lie; franc. Mensonge; ted. Lige). Aristotele distingue
due specie fondamentali di M., la mil- lanteria che consiste nell’esagerare la
verità e la ironia (v.) che consiste nel diminuirla. Queste tut- cavia sono le
M. che non riguardano le relazioni d’affari nè la giustizia: in questi casi
infatti non si tratta di semplici M. ma di vizi più gravi (frode, tradimento,
ecc.) (Et. Nic., IV, 7, 1127a 13). S. Tom- maso ha dato una minuziosa
classificazione della M., dal punto di vista della morale teologica (S. 7H.,
II, 2, q. 110). MERAVIGLIA. V. AMMRAZIONE. MERITO (lat. Meritum; ingl. Merit;
francese Mérite; ted. Verdienst). Titolo per ottenere appro- vazione,
ricompensa o premio. Si dice non solo di persone ma anche di opere, per es.,
«Il M. di questo libro è... ». Il M. è diverso dalla virtù e dal valore morale
ma costituisce quanto della virtù stessa o del valore morale può essere
valutato ai fini di una ricompensa qualsiasi, sia pure quella dell’approvazione.
MESOLOGIA. V. EcoLogia. METABASI (gr. peràBao el 0 yévoc). Il passaggio,
legittimo o meno, a un altro soggetto MENTE di discorso o a un altro campo.
Dice Aristotele: «Noi non possiamo passare, al di là del corpo, ad un altro
genere, come passiamo dalla lunghezza alla superficie e dalla superficie al
corpo» (De Cael., I, 1, 268 b 1). Quintiliano considera questo passaggio come
una figura retorica (/nst. Or., IX, 3, 25). METABIOLOGIA (ingl. Merabiology;
fran- cese Métabiologie; ted. Metabiologie). Le specula- zioni metafisiche che
assumono il loro punto di partenza dai fenomeni biologici. Oppure: l’analisi
della struttura linguistico-concettuale della biologia. METACRITICA (ted.
Merakritik). Questo ter- mine compare come titolo di due opere tedesche dedicate
alla critica del kantismo; e precisamente nell'opera di HAManN, Metacritica del
Purismo della Ragione (1788) e nell’opera di HERDER, M. della Critica della
Ragion Pura (1799). Il ter- mine vuol significare «critica della critica».
METAFISICA (gr. tà perà tà puovd; lat. Mera- physica; ingl. Metaphysics; franc.
Métaphysique; ted. Metaphysik). La scienza prima cioè la scienza che ha come
proprio oggetto l’oggetto comune di tutte le altre e come proprio principio un
principio che condiziona la validità di tutti gli altri. Per questa sua pretesa
di priorità (che la definisce) la M. presuppone una situazione culturale deter-
minata: cioè la situazione nella quale il sapere si è già organizzato e diviso
in scienze diverse, rela- tivamente indipendenti l’una dall’altra e tali da
esigere la determinazione dei loro rapporti scam- bievoli e la loro
integrazione su di un fondamento comune. Questa era appunto la situazione che
si era verificata ad Atene verso la metà del rv secolo, per opera di Platone e
dei suoi discepoli, che ave- vano contribuito potentemente allo sviluppo della
matematica, della fisica, dell’etica e della politica. Il nome stesso di questa
scienza, che solitamente si attribuisce al posto in cui gli scritti
aristotelici relativi capitarono nella raccolta di Andronico di Rodi (1 secolo
a. C.), ma che Jaeger attribuisce a un peripatetico anteriore ad Andronico
(Aristoteles; trad. ital., pag. 517) si presta ad esprimere bene la natura di
essa, in quanto procede al di là della fisica, che è la prima delle scienze
particolari, per raggiungere il fondamento comune su cui tutte si fondano e
determinare il posto che a ciascuna compete nella gerarchia del sapere; e ciò
spiega, se non l’origine, almeno la fortuna che il nome ha incontrato. Platone
presentò l’esigenza di questa scienza su- prema dopo aver chiarito la natura
delle scienze particolari che costituiscono il curriculum del filo- sofo:
aritmetica, geometria, astronomia e musica. «Io penso, egli disse, che se lo
studio di tutte queste scienze che abbiamo passato in rassegna è fatto
METAFISICA in modo da condurci a intendere la loro comu- nanza e parentela
reciproca e si colgono le ragioni per le quali sono intimamente connesse, la
loro trattazione ci porterà alla meta cui ci indirizziamo e la nostra fatica non
sarà vana; in caso contrario sarà proprio vana» (Resp., 531c-d). In questa
scienza delle scienze Platone riconosceva la dialet- tica (v.) il cui compito
fondamentale sarebbe quello di sottoporre a critica o vagliare le ipotesi che
le scienze singole assumono a loro fondamento ma che « non osano toccare perchè
non sono in grado di darne ragione» (Resp., 533 c). Aristotele chiamava una
disciplina siffatta « filo- sofia prima + o « la scienza di cui andiamo in
cerca »; e ne determinava il progetto nei tredici problemi enumerati nel terzo
(8) libro della Metafisica. Tali problemi vertono tutti direttamente o indi-
rettamente, sui rapporti tra le scienze e i loro og- getti o princìpi relativi:
sulla possibilità di una scienza che studi tutte le cause (996 a 18) o tutti i
primi princìpi (996 a 26) o tutte le sostanze (997 a 15) o anche le sostanze e
i loro attributi (997 a 25) e le sostanze non sensibili (997 a 34); e su altri
problemi (come quelli delle parti costi- tuenti di tutte le cose, della
possibile diversità di natura tra i princìpi, dell’unità dell’essere, ecc.),
che si situano tutti nella zona di intersecazione e di incontro delle singole
discipline scientifiche e sono di interesse comune per esse. Pertanto la M.,
come l’ha intesa e progettata Aristotele, è la scienza prima nel senso che
fornisce a tutte le altre il fondamento comune cioè l’oggetto cui esse tutte si
riferiscono e i princìpi da cui tutte di- pendono. La M. implica, perciò, una
enciclopedia delle scienze; cioè un prospetto completo ed esau- riente di tutte
le scienze nei loro rapporti di co- ordinazione e subordinazione e nei compiti
e nei limiti assegnati a ciascuna una volta per tutte (v. EncicLoPEDIA). La M.
si è presentata, nella sua storia, sotto tre forme fondamentali diverse e cioè:
1° come teologia; 2° come ontologia; 3° come gnoseologia. La caratterizzazione
oggi corrente della M. come «scienza di ciò che è al di là dell’espe- rienza »
si può riferire soltanto alla prima di queste forme storiche, cioè alla M.
teologica; e si tratta, anche, di una caratterizzazione imperfetta in quanto
coglie un tratto subordinato, perciò non costante, di questa metafisica. 1° Il
concetto della M. come teologia consiste nel riconoscere come oggetto della M.
l’essere più alto e perfetto dal quale dipendono tutti gli altri esseri e cose
del mondo. Il privilegio di priorità attribuito alla M. dipende, in questo
caso, dal ca- rattere privilegiato dell’essere che ne è l'oggetto: questo è
l’essere superiore a tutti e da cui tutti gli altri dipendono. 575 Nell’opera
di Aristotele questo concetto si in- treccia con l’altro, della M. come
ontologia, cioè come scienza dell’essere in quanto essere. Così Aristotele lo
esprime: « Se c’è qualcosa di eterno, di immobile e di separato, la conoscenza
di esso deve appartenere ad una scienza teoretica, ma cer- tamente non alla
fisica (che si occupa delle cose in movimento) nè alla matematica, bensì ad una
scienza che è prima di entrambe... Solo la scienza prima ha per oggetto le cose
separate ed immobili. Sebbene tutte le prime cause siano eterne, queste cose
sono eterne in modo speciale, perchè sono le cause di ciò che del divino è
accessibile a noi. Di conseguenza, ci sono tre scienze teoretiche: la
matematica, la fisica e la teologia: giacchè se il divino è dappertutto esso è
specialmente nella natura più alta e la scienza più alta deve avere per oggetto
l’essere più alto... Se non ci fossero altre sostanze oltre quelle fisiche, la
fisica sarebbe la scienza prima; ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà la
sostanza prima e la filosofia la scienza prima; e in quanto prima anche la più
universale perchè sarà la teoria dell’essere in quanto essere e di ciò che
l’essere in quanto essere è o implica + (Met., VI, 1, 1026 a 10). L’ultima
frase fa vedere come Aristotele intrecci il concetto della M. come ontologia
col concetto della M. come teologia. Quest'ultimo tuttavia è completamente
diverso dal- l’altro. In base ad esso, l'oggetto della M. è pro- priamente il
divino; e la priorità della M. consiste nella priorità che l’essere divino ha
su ogni altra forma o modo d’essere. Le scienze si graduano, da questo punto di
vista, in base all’eccellenza o alla perfezione dei loro oggetti rispettivi, e
l’eccel- lenza o la perfezione di tali oggetti si misurano col confronto tra
essi e l’essere divino. Era questo il criterio che Platone aveva seguito
nell'ordinamento delle scienze, privilegiando la scienza che ha per oggetto «
ciò che è ottimo ed eccellente » cioè la perfezione stessa (Fed., 97 d) e
graduando rispetto a questa tutte le altre (Rep., VII, 525a sgg.). Questa
concezione tuttavia confinava tutte le scienze diverse dalla M. ad un livello
di irrimediabile in- feriorità; e raggiungeva lo scopo, non già di giu-
stificare le altre scienze cioè di fondare la loro validità e nobilitare la
loro ricerca, ma piuttosto di svalutarle col confronto con la scienza prima e
col carattere sublime del suo oggetto. Questo pro- babilmente fu il motivo per
cui Aristotele cominciò ad un certo punto ad insistere sull’altro concetto
della M. come ontologia, pur senza mai rinnegare o abbandonare il primo. La M.
teologica tuttavia si ripresenta ogni volta che si fa corrispondere ad un
essere primo e per- fetto una scienza egualmente prima e perfetta. Una M.
teologica è pertanto quella di Plotino, 576 che contrappone alle scienze che
hanno per oggetto il sensibile quelle che hanno per oggetto l'intelli- gibile,
cioè la realtà suprema. « Tra le scienze che sono nell’anima razionale, egli
dice, alcune hanno per oggetto le cose sensibili e seppure si possono chiamare
scienze giacchè meglio converrebbe ad esse il nome di opinioni; esse vengono
dopo le cose e sono immagini di esse. Le altre, le vere scienze, hanno per
oggetto l’intelligibile, vengono all’anima dall’intelletto divino e non hanno
nulla di sensi- bile » (Enn., V, 9, 7). Questa spartizione della realtà in due
domini, di cui l’uno superiore e privilegiato, l’altro inferiore e derivato, è
il presupposto carat- teristico della M. teologica: la quale pretende di avere
come proprio oggetto la realtà primaria e privilegiata. Una M. teologica è
pertanto la dot- trina di Spinoza in quanto ha come oggetto l'or- dine
necessario del mondo cioè Dio stesso (Er., II, 46-47). E una M. teologica è la
filosofia di Hegel che assume di avere come proprio oggetto Dio stesso: « La
filosofia ha i suoi oggetti in comune con la religione, perchè oggetto di
entrambe è la Verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e
Dio solo, è la Verità » (Enc., $ 1). Per- tanto di fronte alla filosofia, tutte
le altre scienze restano in condizione di inferiorità: il loro oggetto è il
finito, cioè l’irreale, mentre l’oggetto della filosofia, cioè Dio è
l’infinito. Dice Hegel: « Le scienze particolari, al pari della filosofia,
hanno per elemento conoscenza e pensiero; senonchè si occupano degli oggetti
finiti e del mondo dei fenomeni. Una collezione di conoscenze relative a questa
materia resta di per sè esclusa dalla filosofia, cui non si addice nè questo
contenuto nè la forma relativa » (Geschichte der Philosophie, Einleitung, B, 2,
a; trad. ital., I, pag. 69). Ed è evidente che, nonostante le esplicite
proteste an- timetafisiche, una M. teologica è anche la filosofia dello spirito
di Croce che ha per oggetto la Storia eterna dello Spirito universale: una
realtà sublime, di fronte alla quale scadono al rango di apparenze particolari
o di accidentalità empiriche gli oggetti di tutte le altre scienze (Teoria e
storia della sto- riografia, 1917; La Storia come pensiero e come azione,
1938). Infine, una M. teologica è la filo- sofia di Bergson che pretende « fare
a meno dei simboli » ed entrare direttamente a contatto con una realtà
privilegiata, di natura divina che è la corrente della coscienza (*
Introduction à la mé- taphysique », in La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934,
pag. 206 sgg.); e che si contrappone come tale alla scienza, detta semplice
«ausiliaria del- l’azione » (/bid., pag. 158). Ogni forma di spiri- tualismo o
coscienzialismo tende, più o meno chiaramente, a una metafisica teologica di
questa specie. METAFISICA 2° La seconda concezione fondamentale è quella della
M. come ontologia o dottrina che studia i caratteri fondamentali dell’essere:
quei ca- ratteri che ogni essere ha e non può non avere. Le proposizioni
principali della M. ontologica sono le seguenti: 1° Esistono determinazioni
necessarie dell’essere cioè determinazioni che nessuna forma o modo d'essere
può non avere. 2° Tali determi- nazioni sono presenti in tutte le forme e i
modi d'essere particolari. 3° Esistono scienze che hanno per oggetto un modo d’essere
particolare, isolato in virtù di opportuni principi. 4° Deve esistere una
scienza che abbia per oggetto le determinazioni necessarie dell’essere,
anch'esse rese riconoscibili in virtù di un adatto principio. 5° Questa scienza
precede tutte le altre ed è perciò scienza prima in quanto il suo oggetto è
implicito negli oggetti di tutte le altre scienze e in quanto, conseguente-
mente, il suo principio condiziona la validità di ogni altro principio. La M.
che si esprime in queste proposizioni implica, di regola: a) una determinata
teoria dell’essenza e precisamente quella dell’es- senza necessaria (v.
EsseNZA); è) una determinata teoria dell’essere predicativo e precisamente
quella dell’inerenza (v. EsseRE, 1); c) una determinata teoria dell’essere esistenziale
e precisamente quella della necessità (v. ESSERE, 2). Le proposizioni
precedenti esprimono la forma più matura che la M. ha assunto nell’opera di
Aristotele e precisamente nei libri VII, VIII, IX della Metafisica. Esse
esprimono, cioè, la M. come teoria della sostanza, intendendosi per sostanza
«ciò che un essere non può non essere» cioè l’es- senza necessaria o la
necessità d’essere (v. So- sTANZA). Il principio della M. in questo senso è il
principio di contraddizione. Solo questo prin- cipio infatti consente di
delimitare e di riconoscere l’essere sostanziale. « Coloro, dice Aristotele,
che negano questo principio distruggono completamente la sostanza e l’essenza
necessaria giacchè sono co- stretti a dire che tutto è accidentale e non c'è
qualcosa come l’essere uomo o l’essere animale. Se infatti c'è qualcosa come
l’essere uomo, questo non sarà l’essere non uomo o il non essere uomo, ma
queste saranno negazioni di quello. Uno solo è infatti il significato
dell’essere e questo è la so- stanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa
non è altro che indicare l’essere proprio di essa + (Met., IV, 4, 1007a 21). Da
questo punto di vista la sostanza è oggetto della M. in quanto costituisce il
principio di spiegazione di tutte le cose esistenti. Dice Aristotele: «La
sostanza di ciascuna cosa è la causa prima dell’essere di questa cosa. Alcune
cose non sono sostanze ma quelle che sono tali sono naturali e sono poste dalla
natura, sicchè è chiaro che la sostanza è la na- METAFISICA tura stessa e che
non è elemento ma principio » (Ibid., VII, 17, 1041 b 27). La sostanza in
questo senso non è una realtà privilegiata o sublime, che conferisca alla
scienza che ne faccia oggetto una dignità superiore. In quanto sostanze, Dio e
l’in- telletto (come Aristotele dice, Er. Nic., I, 6, 1096a 24) o anche Dio e
un filo d’erba (come si potrebbe dire) hanno lo stesso valore; e le scienze che
li as- sumono ad oggetto la stessa dignità. In un passo famoso delle Parti
degli Animali Aristotele ha espli- citamente riconosciuto l’uguale dignità di
tutte le scienze in quanto hanno per oggetto la sostanza. « Le sostanze
inferiori, dice Aristotele, essendo più e meglio accessibili alla conoscenza
vengono ad avere il sopravvento nel campo scientifico; e poichè sono più vicine
a noi e più conformi alla nostra natura, la scienza di esse finisce per essere
equi- valente alla filosofia che ha per oggetto le cose divine... Infatti anche
nel caso di quelle meno favorite dal punto di vista dell'apparenza sensibile,
la natura che le ha prodotte dà gioie indicibili a coloro che sanno
comprenderne le cause e sono per loro natura filosofi» (De Part. An., I, 5,
645a 1). È ovvio che, da questo punto di vista, la priorità della M. non
consiste nell’eccellenza del suo oggetto (com’è nel caso della M. teologica) ma
solo nel fatto che la M., avendo come og- getto specifico la sostanza consente
di intendere gli oggetti di tutte le scienze sia nei loro caratteri comuni e
fondamentali sia nei loro caratteri spe- cifici: senza la sostanza, infatti, e
per es., senza l'essere e l'unità che le appartengono, « ogni cosa sarebbe
distrutta, giacchè ogni cosa è ed è una» (Met., XI, 1, 1059b 31). In altri
termini: ogni scienza è, come tale, studio della sostanza in qual- cuna delle
sue determinazioni, per es., della so- stanza in movimento la fisica, della
sostanza come quantità la matematica; la M. è la teoria della sostanza in
quanto tale. La priorità della M. sulle altre scienze è, da questo punto di
vista, una priorità logica, non di valore. E si tratta di una priorità logica
fondata sulla priorità ontologica del suo oggetto specifico. Consiste nel fatto
che tutte le altre scienze presup- pongono la M. allo stesso modo che tutte le
de- terminazioni della sostanza presuppongono la so- stanza; ora la riforma che
S. Tommaso ha fatto subire alla M. aristotelica nel sec. xm mira a restrin-
gere la superiorità logica della metafisica. Secondo S. Tommaso, la M. come
teoria della sostanza non include Dio tra i suoi oggetti possibili, in quanto
Dio non è sostanza (S. Tk., I, q. 1, a. 5, ad 1°). L'identità di essenza ed
esistenza in Dio distingue nettamente l’essere di Dio dall’essere delle
creature nelle quali invece l’essenza © l’esistenza sono se- parabili (/bid.,
I, q. 3, a. 4). La determinazione 37 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 577
dei caratteri sostanziali dell’essere in generale non concerne pertanto Dio ma
solo le cose create o finite. Con ciò la M. perde la sua priorità, che passa
alla teologia, considerata come una scienza a sè, originaria, che ripete i suoi
princlpi diretta- mente da Dio. « E così la teologia non riceve nulla dalle
altre scienze, come se queste le fossero su- periori, ma si serve di esse come
di inferiori e di serve, come le scienze architettoniche si servono di quelle
che procurano i materiali e la scienza civile della militare » (/bid., I, q. 1,
a. 5, ad 2°). Con la negazione del carattere analogico dell’essere, operata da
Duns Scoto, si ritorna a riconoscere la priorità della metafisica. Duns Scoto
infatti defi- nisce la M. come «la scienza prima dello scibile primo » cioè
dell’essere (In Mer., VII, q. 4, n. 3). L’essere che è oggetto della M. è,
secondo Duns Scoto, l’essere comune: comune cioè a tutte le creature e a Dio,
per quanto non si tratta di un genere che avrebbe ancora un estensione troppo
ristretta. La comunità dell’essere comprende il do- minio intero
dell’intelligibile: la scienza dell’essere, la M., è perciò la scienza prima e
più estesa (Op. Ox., I, d. 3, q. 3, a. 2, n. 14). La caratteri- stica di questo
punto di vista di Scoto è che esso distingue nettamente tra la priorità di
valore che appartiene alla teologia e la priorità logica che appartiene invece
alla metafisica. Questa distinzione viene mantenuta nel corso ul- teriore della
storia della M. ontologica. Nel se- colo xv tale M. cominciò ad essere
contrassegnata col nome che le è proprio di ontologia. Questo nome ricorre
nello Schediasma Historicum (1655) di Giacomo Thomasius (padre di Cristiano); e
viene giustificato da Clauberg nel modo seguente: «Come viene detta /eosofia o
teologia la scienza che si occupa di Dio, così quella che verte non intorno a
questo o a quell’ente insignito di un nome speciale o distinto dagli altri da
una certa proprietà, ma intorno all’ente in generale, non im- propriamente
sembra che possa essere detta onto- sofia od ontologia » (Op. Phil., 1691, I,
pag. 281). Un'ontologia così intesa, e nettamente distinta dalla teologia, non
implicava alcun antagonismo aperto o nascosto con i dati dell’esperienza. Essa
anzi comincia ad essere considerata come l’esposizione ordinata e sistematica
di quei caratteri fondamentali dell’essere che l’esperienza rivela in modo
ripetuto o costante. Tale è il concetto che della M. come ontologia ebbe Wolff:
il quale dette a questa disciplina la forma sistematica che le garantì, per
qualche tempo, il successo. Secondo Wolff, il pensiero comune possiede già in
forma confusa le nozioni che l’ontologia espone in forma distinta e
sistematica. Esiste cioè una « ontologia naturale + costituita dalle «confuse
nozioni ontologiche vol- 578 gari ». Essa può definirsi come « il complesso
delle nozioni confuse che rispondono ai termini astratti coi quali esprimiamo i
giudizi generali intorno al- l’essere e che acquistiamo con l’uso comune delle
facoltà della mente » (On;., $ 21). Questa ontologia naturale, che gli Scolasti
ci completarono senza to- glierla dalla confusione, si distingue dall’ontologia
artificiale o scientifica come la logica si distingue dai procedimenti naturali
dell’intelletto (/bid., $ 23; Log., $ 11). Essa non è un semplice dizionario
filosofico ma una scienza dimostrativa, il cui og- getto è costituito dalle
determinazioni che appar- tengono a tutti gli enti, sia assolutamente sia sotto
determinate condizioni (Onf., $ 25). In tal modo, per opera di Wolff, faceva il
suo ingresso nel- l’organismo tradizionale della M. ontologica una esigenza
descrittiva ed empiristica che tendeva ad eliminare il contrasto tra
l’apriorismo deduttivo della M. e l’esperienza. In base alla stessa esigenza,
Wolff distingueva una psicologia empirica « nella quale si stabiliscono in base
all'esperienza i prin- cìpi che possono rendere ragione di ciò che può accadere
nell'anima umana» (Log., Disc. Prel., $ 111) dalla psicologia reazionale che è
la « scienza di tutte le cose che sono possibili nell’anima umana + (/bid., $
58). Dall'altro lato Wolff distin- gueva dall’ontologia le tre discipline M.
speciali, cioè la teologia, la psicologia e la fisica (di cui è parte la
cosmologia) rispettivamente dirette a conoscere Dio, l’anima umana e le cose naturali
(Ibid., 8 55-59). L’ontologia wolfiana rendeva possibile un’inter- pretazione
empirica di questa scienza per la quale essa fu talora difesa dagli stessi
illuministi. Diceva, per es., D'Alembert: « Poichè sia gli esseri spiri- tuali
sia quelli materiali hanno proprietà generali in comune, come l’esistenza, la
possibilità, la du- rata, è giusto che questo ramo della filosofia, dal quale
tutti gli altri rami prendono in parte i loro princìpi, si denomini ontologia
ossia scienza del- l’essere o M. generale » (Discours préliminaire, $ 7, in
@Euvres, ed. Condorcet,! pag. 115). In questo senso d’Alembert si fece
sostenitore di una nuova M. cioè di « una M. che sia creata più per noi e si
tenga più vicina e più attaccata alla terra, una M. cioè le cui applicazioni si
estendano alle scienze naturali e ai diversi rami della matematica. Non esiste
infatti in senso stretto alcuna scienza che non abbia la sua M., se con ciò si
intendono i prin- cìpi generali su cui è costruita una determinata dottrina e
che sono, per così dire, i germi di tutte le verità particolari »
(Éclaircissement, $ 16). In un senso assai vicino a questo l’ontologia veniva
in- tesa da Crusius (Entwurf der notwendigen Vernunft- wahrheiten, 1745, $ 1) e
da Lambert (Architektonik, 1771, $ 43). Con una più radicale rinuncia al ca-
METAFISICA rattere sistematico della scienza, un’ontologia de- scrittiva o
«denotativa» che mentre si limiti «a osservare e registrare i tratti
dell’esistenza » prenda anche in considerazione lo strumento di questa osservazione
cioè la riflessione umana e le condi- zioni che la sollecitano, può vedersi
ancora oggi difesa (DeWEY, Experience and Nature, 1926, cap. 2; J. H. RANDALL,
Nature and Historical Experience, 1958, cap. 5). 3° Il terzo concetto della M.
come gnoseologia è quello espresso da Kant. Veramente, l'origine di questo
concetto dev’essere riconosciuta nella no- zione di filosofia prima di Bacone:
«una scienza universale, che sia madre di tutte le altre e costi- tuisca nel
progresso delle dottrine la parte della via comune, prima che le vie si
separino e disgiun- gano ». Tale scienza doveva essere, secondo Bacone, «il
ricettacolo degli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma
spettano in comune a parecchie di esse » (De Augm. scient., III, 1). Questo ‘
concetto di filosofia prima ha una sua propria storia che è quella del concetto
positivistico della filosofia; ma con esso il concetto kantiano della M. ha in
comune l’accento posto sui princlpi, più che sull’oggetto, della scienza. La M.
è, secondo Kant lo studio di quelle forme o princìpi conoscitivi che, per
essere costitutivi della ragione umana, anzi di ogni ragione finita in
generale, condizionano ogni sapere e ogni scienza; e dal cui esame per- tanto
possono ricavarsi i princìpi generali di cia- scuna scienza. Kant esponeva
questo concetto della M. nelle ultime pagine della Critica della Ragion Pura e
precisamente nel capitolo sull’architettura. La M. può intendersi, dice Kant, o
come la se- conda parte della « filosofia della ragion pura» e cioè come «il
sistema della ragion pura (scienza), come l’intera conoscenza filosofica (sia
vera che apparente) che deriva dalla ragion pura in con- nessione sistematica
»: e in questo senso essa esclude da sè la parte preliminare o propedeutica
della filosofia della ragion pura, cioè la critica. Oppure può intendersi come
l’intera filosofia della ragion pura compresa la critica. È in questo secondo
senso, che Kant chiamava ontologia la M. nello scritto del 1793 con cui
rispondeva al tema proposto dall’Accademia di Berlino: « Quali sono i progressi
reali che la M. ha fatto dal tempo di Leibniz e Wolff? ». Ontologia, M. e
critica coincidono, da questo punto di vista: « La critica, e solo la cri-
tica, diceva Kant nei Prolegomeni, contiene il di- segno ben verificato e
saggiato d’una M. scienti- fica, come pure il materiale necessario per realiz-
zarlo. Per qualunque altra via o mezzo, essa è impossibile » (Prof, A, 190). La
M. kantiana si contrapponeva così come M. « scientifica » o « cri- tica » alla
M. dogmatica tradizionale, che Kant METAFISICA sottometteva a critica nelle tre
parti distinte da Wolff, teologia, psicologia e cosmologia. Ma nè nella
dialettica trascendentale nè altrove Kant ha sottoposto a critica la prima
parte fondamentale della M. wolfiana, cioè l’ontologia. In realtà il concetto
fondamentale dell’ontologia rimaneva va- lido per Kant con la correzione del
carattere cri- tico o gnoseologico di essa cioè col passaggio dal significato
realistico al significato soggettivi- stico della disciplina in questione.
Della M. critica od ontologica fanno parte, secondo Kant, una M. della natura e
una M. dei costumi. La M. della natura comprende «tutti i principi razionali
puri derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione della matematica)
della scienza teoretica di tutte le cose» La M. dei costumi comprende «i
principi che determinano a priori e rendono necessario il fare o il non fare»
ed è perciò la «morale pura» (Crit. R. Pura, Dottr. del Me- todo, cap. 3). Il
carattere proprio della M. kantiana è la sua pretesa di essere «una scienza di
concetti puri» cioè una scienza che abbraccia le conoscenze che possono essere
ottenute indipendentemente dalla esperienza, sul fondamento delle strutture
razionali della mente umana. Da questo punto di vista, la continuazione storica
di essa nella filosofia contem- poranea è l’ontologia fenomenologica di
Husserl. A differenza di Kant, Husserl prende in conside- razione non già i
princìpi generalissimi, da ritenersi come costitutivi della ragione in
generale, ma i principi che costituiscono il fondamento di deter- minati campi
del sapere cioè di una scienza o di un gruppo di scienze e che perciò chiama
mate- riali. «Ogni oggetto empirico concreto, egli dice, si inserisce con la
sua essenza materiale in una specie materiale superiore, in una regione di
oggetti empirici. All’essenza regionale corrisponde poi una scienza eidetica
regionale o, come possiamo anche dire, una ontologia regionale». Pertanto «
ogni scienza di dati di fatto o di esperienza ha i suoi fondamenti teoretici
essenziali in ontologie regio- nali... Così, ad es., a tutte le discipline
naturalistiche corrisponde la scienza eidetica della natura fisica in generale
(l’ontologia della natura) in quanto alla natura fattizia corrisponde un eidos
puramente apprendibile, la ‘ essenza natura in generale, con inclusa una massa
infinita di rapporti essenziali + (Ideen, I, $ 9). L’affermazione del carattere
« mate- riale» cioè determinato o specifico dei princìpi ontologici, che si
riferiscono sempre ad un deter- minato genere di essenze o campo del sapere,
porta così Husserl a stabilire il carattere « regionale » dell’ontologia. Dal
suo punto di vista, l’ontologia generale o formale non è che la logica pura,
che è «la scienza eidetica dell’oggetto in generale » (Ibid., 579 $ 10) (v.
MATHESIS UNIVERSALIS). Ad una ontologia generale, invece, è ritornato N.
Hartmann, che ha in comune con Husserl il presupposto fenomenolo- gico.
L'oggetto dell’ontologia è, secondo Hartmann, l’ente non l’essere; giacchè
l’essere è unicamente «ciò che v’è di comune in ogni ente». L'essere e l’ente
si distinguono come la verità e il vero, la realtà e il reale e così via: ci
sono molte cose vere, ma l’essere della verità è uno solo. Analogamente
l’essere dell’ente è uno solo benchè l’ente possa essere vario e le
differenziazioni dell’essere appar- tengono allo sviluppo dell’ontologia e non
al suo inizio, che verte su ciò che è comune e universale (Grundiegung der
Ontologie, 1935, pag. 42). L’im- postazione schiettamente realistica della
ontologia di Hartmann sembra ravvicinarla a quella tradizio- nale, specialmente
a quella di Wolff; ma in realtà ciò che costituisce l'oggetto dell’ontologia è,
secondo Hartmann, la datità dell’essere cioè il modo in cui l’essere è dato
(/bid., pag. 48) all’esperienza fenomenologica: sicchè la sua ontologia fa
parte integrante della corrente fenomenologica. E alla stessa corrente
appartiene l’ontologia di Heidegger intesa come la determinazione del senso
dell’essere a partire dall’essere di quell’ente che pone le do- mande e formula
le risposte: cioè dell’uomo. Hei- degger riafferma il carattere primario o
privilegiato dell’ontologia. « Il problema dell’essere tende non solo alla
determinazione delle condizioni @ priori della possibilità delle scienze che
studiano l’ente in quanto ente così e così e che perciò si muovono già sempre
in una comprensione dell’essere, ma bensì anche alla determinazione delle
condizioni e della possibilità delle ontologie che precedono e fondano le
scienze ontiche [cioè empiriche] » (Sein und Zeit, $ 3). Tutte le dottrine cui
si è fatto riferimento finora (tranne quelle di Dewey e Randall) ammettono il
presupposto sul quale la M. è stata tradizional- mente imperniata e cadono
perciò nei limiti del concetto di essa. Tale presupposto è il carattere
necessario e primario della M.: necessario in quanto ha per oggetto l’oggetto
necessario di tutte le altre scienze; e primario perchè è, come tale, a fon-
damento di tutte le scienze. Ciò che della M. ri- mane nella filosofia
contemporanea — e vi rimane non come mera sopravvivenza ma come parte viva
dell'indagine — non possiede più questi caratteri tradizionali. La M. è difatti
presente e operante nella filosofia contemporanea nella forma di due problemi
connessi: 1° il problema del significato o dei significati di esistenza nel
linguaggio delle diverse scienze; 2° il problema delle relazioni fra le diverse
scienze e delle indagini su oggetti che cadono nei punti di intersezioni o di
incontro fra di esse. 580 1° Rispetto al primo problema, si parla oggi
esplicitamente di ontologia, nel senso di un impegno ad usare in un determinato
senso il verbo essere e i suoi sinonimi. Dice, ad es., Quine: « La nostra
accettazione di una ontologia è simile, in linea di principio, alla nostra
accettazione di una teoria scientifica cioè di un sistema di fisica: noi adot-
tiamo, almeno in quanto siamo ragionevoli, lo schema concettuale più semplice
nel quale i disor- dinati frammenti dell’esperienza grezza possono es- sere
adattati e distribuiti. La nostra ontologia è determinata una volta che abbiamo
fissato lo schema concettuale totale per adattarvi la scienza nel suo senso più
vasto; e le considerazioni che determinano la costruzione ragionevole di una
parte qualsiasi di quello schema concettuale, per es., la parte biologica o
fisica, non sono differenti, in ispecie, dalle considerazioni che determinano
la ragionevole costruzione dell’intero schema » (From a Logical Point of View,
pag. 16-17). Carnap, pure obiettando contro l’uso della parola « onto- logia +,
in quanto sembra faccia riferimento a convinzioni metafisiche, mentre si tratta
in realtà di una pratica decisione «come la scelta di uno strumento +, ha
sostanzialmente confermato il punto di vista di Quine (Meaning and Necessity, $
10). In questo senso si parla frequentemente di onto- logia nella logica e
nella metodologia contempo- ranea. 2° Rispetto al secondo problema, l’erede
della M. tradizionale è la metodologia dalla quale ven- gono abitualmente
dibattuti i problemi concernenti i rapporti fra le singole scienze e le
questioni sor- genti dalle interferenze marginali tra le scienze stesse.
Certamente la metodologia non ha ereditato la pretesa di stabilire una
enciclopedia delle scienze che definisca, una volta per tutte, i compiti e i
limiti di ciascuna; e perciò non rivendica la dignità di arbitra o regina fra
le scienze. Si tratta piuttosto di ordinare via via l'universo concettuale nel
modo più semplice e comodo: cioè nel modo, che, mentre favorisca la
comunicazione continua tra una scienza e l’altra, non attenti alla
indispensabile autonomia
di ciascuna scienza. Si tratta, a questo
scopo, di problematizzare, a ogni fase della ricerca scienti- fica, i rapporti
tra le varie discipline o i vari indirizzi di ricerca sia a vantaggio dello
sviluppo delle disci- pline singole, sia a vantaggio dell’uso che di esse può o
deve fare l’uomo: cioè della filosofia. METAFORA (gr. uetapopd; ingl. Metaphor;
franc. Métaphore; ted. Metapher). Trasferimento di significato. Dice
Aristotele: « La M. consiste nel dare ad una cosa un nome che appartiene a
un’altra cosa: trasferimento che può effettuarsi dal genere alla specie o dalla
specie al genere o da specie a specie o sulla base di una analogia » (Poet.,
21, METAFORA 1457 b 7). La nozione di M. è stata talora adope- rata per
determinare la natura del linguaggio in generale (v. Linguaggio). Come
particolare stru- mento linguistico, la sua definizione non è diversa, oggi, da
quella data da Aristotele. Per la M. mitica dei popoli primitivi che è
sostanzialmente l’identi- ficazione dell’espressione metaforica con l’oggetto,
cfr. CassiRER, Language and Myth, 1946. METAGEOMETRIA (ingl. Mesageometry;
franc. Métagéométrie; ted. Metageometrie). La geo- metria non euclidea: cioè
ogni geometria che parta da assiomi diversi da quelli di Euclide (v. Geo-
METRIA). METALINGUAGGIO (ingl. Metalanguage; franc. Métalangage). Quando D.
Hilbert introdusse la concezione delle matematiche come sistemi me- ramente
sintattico-deduttivi (sistemi arbitrari di simboli nei quali, dati certi
assiomi fondamentali e certe regole operative, si procede per via mera- mente
simbolica, operando cioè sulle formule co- stituenti gli assiomi secondo le
date regole opera- tive, a trarne le « conseguenze» senza riguardo ai possibili
od eventuali significati extrasimbolici, in- tuitivi o altro, di quegli stessi
simboli), si venne a porre il problema di controllare la non-contraddit-
torietà dei sistemi di assiomi delle discipline mate- matiche così
formalizzate, nonchè di controllare la correttezza delle singole derivazioni
(deduzioni). Poichè, secondo un noto teorema (di Gédel) non si può provare la
non-contraddittorietà di un si- stema matematico formalizzato entro il sistema
stesso, D. Hilbert e la sua scuola ricorsero alla creazione di particolari
sistemi per il controllo dei sistemi simbolici (cioè delle singole discipline
ma- tematiche: algebra, geometrie, ecc.). Tali sistemi di controllo furono
detti mefamatematici. Per ana- logia, o meglio per estensione del termine, i
logici polacchi e Carnap chiamarono M. ogni sistema linguistico (per es., il
linguaggio della Logica, della grammatica, ecc.) che non porta su denotata
extra- linguistici, ma che semanticamente porta su simboli e fatti linguistici;
e mefalinguistica ogni espressione che parla non di cose (reali o ideali),
bensì di parole o discorsi (per es.: «‘ Mario” è un nome proprio di persona
maschile singolare»; « ‘accelerazione ” è un termine della Fisica »). La
distinzione tra lin- guaggio e M. acquista moltissima importanza nel- l’analisi
filosofica neopositivistica, essendo uno dei fondamenti della critica alla
metafisica speculativa, nella quale espressioni metalinguistiche vengono
sistematicamente scambiate per espressioni lingui- stiche (v.
LINGUAGGIO-OGGETTO). G. P. METALOGICO (ingl. Meralogical; franc. Mé- talogique;
ted. Metalogisch). 1. Questo termine da Carnap in poi (Logische Syntax der
Sprache, 1934; trad. ingl., 1937; $ 2) ha lo stesso significato che METODO «
sintattico », cioè caratterizza lo studio sistematico delle regole formali di
un linguaggio (v. SINTASSI). 2. Schopenhauer chiamò « verità metalogica »
quella propria dei quattro princìpi del pensiero cioè princìpi d’Identità, di
Contraddizione, del Terzo Escluso e di Ragion Sufficiente (Uber die vierfache
Wurzel des Satzen vom zureichenden Grunde, 1813, $ 33). 3. Metalogicon è il titolo
di un’opera di Giovanni di Salisbury (sec. xn): avrebbe dovuto significare «
difesa della logica ». METAMATEMATICO (ingl. Metamathe- matic; franc.
Métamathématique; ted. Metamathe- matisch). Lo stesso che sintattico o
metalogico. Nel senso di Hilbert, la teoria della prova cioè la for-
malizzazione della prova matematica mediante un sistema logistico (v. PROVA).
METAMORALE (ingl. Metamoral; franc. Mé- tamorale). Lo studio dei fondamenti
della morale. Oppure: lo studio delle strutture logico-linguistiche della
morale. METAPSICHICA (ingl. Psychical Research; franc. Métapsychique; ted.
Parapsychologie, Me- tapsychik). L’esame spregiudicato, e con intendi- mento
scientifico, di quelle facoltà umane, reali o immaginarie, che risultano
inesplicabili sulla base delle ipotesi generalmente riconosciute. Questa è
almeno la definizione di questa scienza data dai suoi più seri cultori. I
fenomeni che essa investiga cadono in due categorie fondamentali: i cosiddetti
fenomeni mentali, che consistono in informazioni acquistate con mezzi
ultra-normali o fenomeni di percezione extra-sensoriale; i fenomeni fisici 0
pro- digi, per es., oggetti che fluttuano nell’aria, colpi, rumori, ecc. La M.
cerca di stabilire la realtà di tali fenomeni e di presentare opportune ipotesi
per la loro spiegazione. Cfr. D. J. WEST, Psychical Research Today, London,
1954. METASTORICO. Si indicano con questo ter- mine i valori eterni che la
storia tende a realizzare e che pertanto si assume che costituiscano la sua
struttura o il piano provvidenziale che la regge (v. STORIA).
METEMPIRICO (ingl. Metempirical; francese
Metempirique; ted. Metempirisch). Ciò che è al di là dei limiti dell’esperienza
possibile (LEWES, Problems of Life and Mind, 1874, I, pag. 17). METEMPSICOSI
(ingl. Merempsychosis; fran- cese Métempsychose; ted. Metempsychose). La cre-
denza nella trasmigrazione dell’anima di corpo in corpo. La credenza è
antichissima e di origine orientale, ma il termine compare soltanto negli
scrittori dei primi tempi dell’epoca cristiana. Plo- tino usa talvolta quello
di metensomatosi (Enn., II, 9, 6, 13), che sarebbe più esatto. La credenza
diffusa dalle sètte degli Orfici e dei Pitagorici fu accettata da Empedocle
(Fr., 115, 117, 119), da Platone S81 (Tim., 49 sgg.; Rep., X, 614 sgg.) da
Plotino e dai Neoplatonici e dallo gnostico Basilide (BUONAIUTI, Frammenti
gnostici, pag. 63 sgg.). Cfr. E. ROHDE, Psyche, 1890-94; trad. ital., Bari,
1916. METENSOMATOSI. V. METEMPSICOSI. METESSI (gr. pé0ek.c). Partecipazione. La
pa- rola fu usata da Platone per indicare uno dei modi possibili del rapporto
tra le cose sensibili e le idee (Parm., 132 d). Gli altri modi in cui Platone
con- cepì lo stesso rapporto furono quelli della mimesi o imitazione (Rep., 597
a; Tim., S0c) e della pre- senza dell’idea nelle cose (Fed., 100 d). Il termine
è stato usato in questa forma da Gioberti nella Protologia per designare il
ciclo di ritorno del mondo a Dio, che culmina in un rinnovamento finale o
palingenesi (Prot., II, pag. 107). Gioberti adopera lo stesso termine (come
quello di mimesi, con cui indica l'allontanamento del mondo da Dio) per
caratterizzare un termine di varie coppie di cose o enti del mondo: per es., il
corpo è la mimesi, l’anima è la M., la femmina è la mimesi, il maschio è la M.,
ecc. (/bid., pag. 319). METODICA. Così talora è stato chiamato la dottrina del
metodo pedagogico: per es., RAYNERI, Primi principi di metodica (1850);
RosMiInI, Del Principio supremo della metodica (1857); ecc. METODO (gr.
ué0080c; lat. Methodus; ingl. Me- thod; franc. Méthode; ted. Methode). Il
termine ha due significati fondamentali: 1° ogni ricerca o orien- tamento di
ricerca; 2° una particolare tecnica di ricerca. Il primo significato non si
distingue da quello di «indagine» o « dottrina ». Il secondo si- gnificato è
più ristretto e indica un procedimento di indagine ordinato, ripetibile e
autocorreggibile, che garantisca il conseguimento di risultati validi. AI primo
significato vanno riferite espressioni come «il M. hegeliano », « il M.
dialettico », ecc. o anche «il M. geometrico », « il M. sperimentale », ecc. AI
secondo significato vanno riferite espressioni come «il M. sillogistico », «il
M. dei residui » e in gene- rale quelle che designano particolari procedimenti
di indagine o di controllo. Sia Platone (Sof., 218 d; Fed., 270c) che
Aristotele (Po/., 1289a 26; Er. Nic., 1129a 6) adoperano il termine in entrambi
i significati. Nell’uso moderno e contemporaneo prevale il secondo significato.
Ma bisogna osser- vare che non c'è dottrina o teoria, sia scientifica che
filosofica, che non possa essere considerata sotto l'aspetto del suo ordine
procedurale e perciò detta metodo. Cartesio stesso, ad es., espose la stesso
contenuto del Discorso del metodo nella forma delle Meditazioni metafisiche e
dei Principi di filosofia: ciò che per un verso era M., per un altro era
dottrina. E in generale non c’è dottrina che non possa essere considerata e
chiamata M., se vista come ordine o procedura di ricerca. Per- 582 tanto la
classificazione dei M. filosofici e scientifici sarebbe senz’altro una
classificazione delle dottrine rispettive. Per le dottrine che più
frequentemente o a maggior ragione sono dette M., v. le voci rispettive:
ANALISI; ASSIOMATIZZAZIONE; (CONCOMI- TANZA} (CONCORDANZA; DEDUZIONE;
DIALETTICA; DIFFERENZA; DIMOSTRAZIONE; INDUZIONE; PROVA; ResIpUI; SiLLogIsMo;
SINTESI; ed inoltre le voci dedicate alle singole discipline: FILosoFIA;
FISICA; GroMETRIA; LoGIcA; MATEMATICA; SCIENZA; ecc. METODOLOGIA (ingl.
Merhodology; francese Méthodologie; ted. Methodologie, Methodenlehre). Sotto
questo termine si possono intendere quattro cose diverse: 1° la logica o la
parte della logica che studia i metodi; 2° la logica trascendentale ap-
plicata; 3° l’insieme dei procedimenti metodici di una scienza o di più
scienze; 4° l’analisi filosofica di tali procedimenti. 1° Come M., la logica è
stata intesa nell’età post-cartesiana. Dice la Logica di Portoreale: « La
logica è l’arte di ben condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose,
tanto per istruire se stessi quanto per istruire gli altri ». Nello stesso
senso Wolff definiva la logica come «la scienza di dirigere la facoltà
conoscitiva nella conoscenza della verità » (Log., $ 1). Questo concetto della
logica si può vedere espresso anche nella definizione che Stuart Mill dà di
essa come «la scienza delle ope- razioni dell'intelletto che servono alla
valutazione della prova» (Logic, Intr., $ 7). Dall'altro lato la M. è stata
anche considerata come una parte della logica. Pietro Ramo distingueva la
logica in quattro parti e precisamente nella dottrina del con- cetto, del giudizio,
del ragionamento e del metodo (Dialecticae Institutiones, 1543): e questa
partizione accettata dalla Logica di Portoreale è rimasta tra- dizionale ed è
stata costantemente seguita dalla logica filosofica del sec. xrx (v. per tutti
BENNO ERDMANN, Logik, 1892, I, $ 7). Da Wolff (Log., $ SOS sgg.) in poi la
dottrina del metodo si chiamò spesso logica pratica. 2° Come logica
trascendentale applicata o « pratica », la M. è stata intesa da Kant. Essa
costituisce la seconda parte principale della Critica della Ragion Pura la
quale ha per iscopo «la de- terminazione delle condizioni formali di un sistema
completo della ragion pura»; e comprende una disciplina, un canone,
un’architettonica e infine una storia della ragion pura. Kant stesso mette a
raffronto questa parte della sua opera con la logica formale applicata o
pratica: « Dal punto di vista trascendentale, egli dice, faremo quello che
nelle scuole si è cercato di fare sotto il nome di logica pratica, rispetto
all’uso dell’intelletto in generale, ma si è fatto male perchè, non limitandosi
a un METODOLOGIA modo speciale di conoscenza intellettuale (per es., a quello
puro) e neanche a certi oggetti, la logica generale non può far altro che
proporre titoli di metodi possibili e di espressioni tecniche» (Crif. R. Pura,
Dottr. Trasc. del Metodo, Intr.). 3° Col nome di M. viene oggi spesso indicato
l’insieme dei procedimenti tecnici di accertamento o di controllo in possesso
di una determinata di- sciplina o gruppo di discipline. In questo senso si
parla, per es., della « M. delle scienze naturali + o della «M. storiografica».
In questo senso la M. è elaborata all’interno di una disciplina scien- tifica o
di un gruppo di discipline e non ha altro scopo se non quello di garantire alle
discipline in questione l’uso sempre più efficace delle tecniche di procedura
di cui dispongono. 4° Dall’altro lato, e in stretta connessione con la M. nel
senso precedente, la M. si viene costi- tuendo come disciplina filosofica
relativamente au- tonoma e destinata all’analisi delle tecniche di ricerca
adoperate in una o più scienze. L'oggetto della M. in questo senso non sono i «
metodi» delle scienze cioè le grandi e approssimative clas- sificazioni
(analisi, sintesi, induzione, deduzione, esperimento, ecc.) in cui cadono le
recniche della ricerca scientifica, ma proprio soltanto queste tecniche,
considerate nelle loro strutture specifiche e nelle condizioni che ne rendono
possibile l’uso. Tali tecniche comprendono ovviamente ogni pro- cedura
linguistica od operativa, ogni concetto come ogni strumento, di cui una o più
discipline si av- valgono per l’acquisizione e il controllo dei loro risultati.
In questo senso, la M. è l’erede: a) della metafisica, perchè ad essa competono
i problemi concernenti i rapporti tra le scienze e le zone di interferenza (e
talora di contrasto) tra scienze di- verse; 5) della gnoseologia, in quanto
alla consi- derazione della «conoscenza + intesa come forma globale
dell’attività umana o dello Spirito in gene- rale, sostituisce la
considerazione dei singoli pro- cedimenti conoscitivi in uso in uno o più campi
della ricerca scientifica. La M. in questo senso si chiama anche « critica
delle scienze ». Per quanto il lavoro fatto da essa in questa direzione,
iniziato dai primi decenni del secolo, sia già ingente, manca finora una
precisa determinazione del compito e degli orientamenti di questa disciplina.
Cfr. tut- tavia: Autori vari, Fondamenti logici della scienza, Torino, 1947;
Id., Saggi di critica delle scienze- Torino, 1950: entrambi a cura del Centro
di Studi Metodologici di Torino. MEZZO (ingl. Means; franc. Moyen; ted.
Mittel). 1. Tutto ciò che rende possibile il conseguimento di un fine,
l’esecuzione di un proposito o la rea- lizzazione di un progetto. Su rapporto
tra M. e fine, v. VALORE. MIRACOLO 2. Ambiente e specialmente ambiente
biologico. In questo senso la parola corrisponde al francese milieu che è stato
cominciato ad usare in questo significato verso la metà del secolo scorso (vedi
AMBIENTE). MICIURINISMO. V. GENETICA. MICROCOSMO (gr. puixpds xbopoc; lat. Mi-
crocosmus; ingl. Microcosm; franc. Microcosme; ted. Mikrokosmos). La
corrispondenza tra il macro- cosmo cioè il mondo, e il M., cioè l’animale e
talvolta l’uomo, è un tema filosofico antico nato dalla tendenza a interpretare
l’intero universo sul fondamento di quell’universo minore che l’uomo è a se
stesso. Aristotele così esponeva questo prin- cipio di interpretazione a
proposito della possibilità del movimento autonomo: « Se questo è possibile
nell’animale, che cosa impedisce che accada anche nel mondo? Se accade nel M.,
può accadere anche nel cosmo grande; e se accade nel cosmo, può accadere anche
nell’infinito, se è possibile che l’in- finito si muova o stia in quiete nella
sua totalità » (Fis., VIII, 2, 252 b 25). Ora questa è un’obiezione che
Aristotele rivolge a se stesso e che confuta negando la possibilità del
movimento autonomo dell'universo e ammettendo, perciò, il primo mo- tore. La
corrispondenza tra M. e macrocosmo non è pertanto un principio a cui Aristotele
faccia appello. Ma già ai tempi di Aristotele era un principio antico giacchè
esso era a fondamento della cosmogonia degli Orfici e precisamente della
dottrina che il mondo è nato da un uovo: difatti è nato da un uovo perchè è un
animale (cfr. A. OLI- VIERI, Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli,
1931, pag. 23 sgg). Platone stesso chiamò il mondo «un grande animale» (7im.,
30 b) fornito perciò d’anima e intelligenza, assumendo come realtà let- terale
una corrispondenza metodologica; e questo fu il senso in cui solitamente tale
corrispondenza fu assunta dopo di lui dagli Stoici, dai Neo-pitago- rici e in
generale da tutti coloro che insistettero sul carattere animato dell’universo.
La corrispondenza tra M. e macrocosmo fu uno dei temi preferiti della
letteratura magica. La magia infatti intende dominare il mondo naturale o
incan- tandolo o addomesticandolo come si fa con un animale; e il suo
presupposto è precisamente questo, che il mondo sia un animale e che tutti i
suoi aspetti siano controllabili con procedimenti che si rivolgono ad essi come
ad attività viventi. La cor- rispondenza M.-macrocosmo fu pertanto uno dei temi
obbligati della magia rinascimentale. Cornelio Agrippa affermava che l’uomo
raccoglie in sè, tutto ciò che è disseminato nelle cose e che questo gli consente
di conoscere la forza che tiene avvinto il mondo e di servirsene per operare
azioni mira- colose (De Occulta philosophia, I, 33). Osservazioni 583 analoghe
si ripetono in tutti gli scrittori del Rina- scimento che ammettono la magia
(per es., CAM- PANELLA, De Sensu rerum, I, 10). Teofrasto Para- celso
impiantava proprio sulla corrispondenza tra macrocosmo e M. l’intera scienza
medica; e perciò esigeva che questa si fondasse su tutte le scienze che
studiano la natura dell’universo e cioè sulla teologia, la filosofia,
l’astronomia e l’alchimia (De Philosophia occulta, II, pag. 289). Con
l’abbandono, da parte della scienza, del principio antropomorfico
nell’interpretazione della natura, la corrispondenza tra M. e macrocosmo ha
cessato di essere una guida utile della ricerca ed è apparsa piuttosto come un
pregiudizio. Lo stesso Lotze che ha intitolato M. la sua opera fon- damentale
non ammette quella corrispondenza se non nella forma del condizionamento che il
mondo esercita sull’uomo e cerca di restringerne la por- tata in limiti
ristrettissimi (Mikrokosmus, VI, K, 1; trad. ital., II, pag. 312 sgg.).
MILLENARISMO. V. Chitiasmo. MIMAMSA. Uno dei grandi sistemi filosofici
dell’India antica, la cui fondazione viene attribuita a Jaimini. Esso è
sostanzialmente una interpreta- zione della dottrina dei vedanta (v.) e vuol
essere una tecnica della liberazione. Si oppone al concetto di un Dio creatore
e ammette la realtà della ma- teria e delle anime (cfr. G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, pag. 127 sgg.). MIMESI. V. MeETESSI. MINIMUM. Così
Lucrezio chiamò l’atomo (De nat. rer., I, 620). Cusano insisteva sulla
coincidenza del massimo e del minimo in Dio (De docta ignor., I, 4) e Giordano
Bruno usò la parola nel senso di Cusano (De minimo triplici et mensura, I, 7)
(v. ATOMO). MIRACOLO (gr. vépas;
lat. Miraculum; in- glese Miracle; franc. Miracle; ted. Wunder). Un fatto eccezionale o inspiegabile, assunto
come segno o manifestazione di una volontà divina. Tale era la nozione che del
M. si aveva nell’antichità clas- sica (per es., Iliade, II, 234; Odissea, III,
173; XII, 394; ecc.); e tale è la nozione che si ebbe di esso nel Medioevo e
che viene così espressa da S. Tommaso: « Nel M. possono scorgersi due cose: Una
è quel che accade e che è certo qual- cosa che eccede la facoltà della natura;
e in questo senso i M. si dicono potenze (virtutes). La seconda è ciò per cui i
M. accadono cioè la manifestazione di qualcosa di soprannaturale; e in questo
senso comunemente i M. si dicono segni, mentre si di- cono portenti per la loro
eccellenza e prodigi in quanto mostrano qualcosa da lontano » (S. 7à., II, 2,
q. 178, a. 1, ad 3°). Quando, come accadde con l’averroismo medie- vale, con
l’aristotelismo rinascimentale e special- 584 mente con il primo affermarsi
della scienza moderna, si cominciò ad insistere sull’ordine necessario della
natura, il M. cominciò ad essere considerato come una « eccezione + a
quest’ordine perciò negato come tale o ridotto ad evento insolito ma conforme
all’ordine naturale. Nel libro Sugli Incantesimi, Pomponazzi, ad es., negava
che i M. fossero eventi contrari alla natura ed estranei all’ordine del mondo;
e li ammetteva solo come fatti inconsueti e rarissimi, che non accadono secondo
l’andamento abituale della natura ma ad intervalli lunghissimi: fatti tuttavia
che rientrano nell’ordine naturale, dal quale sono anzi determinati (De
Incantationibus, 12). Spinoza a sua volta affermava che «il M., sia esso contro
natura, sia esso al di sopra della natura, è una mera assurdità e che per M.,
nella Sacra Scrit- tura, non è possibile intendere che un'opera della natura la
quale superi l’intelligenza degli uomini o si creda che la superi» (7ractatus
teologico- politicus, cap. 6). Spinoza riteneva che Dio si co- noscesse meglio
dall’ordine e dalla necessità della natura che non da pretesi miracoli. Ma
anche Hume, che parte da una concezione tutta diversa, nega la possibilità del
miracolo. * Un M., egli dice, è una violazione delle leggi della natura e
siccome un’esperienza fissa e inalterabile ha stabilito queste leggi, la prova
contro il M., tratta dalla stessa natura del fatto, è così completa quanto ci
si può immaginare che sia un argomento tratto dall’espe- rienza » (/nq. Conc.
Underst., X, 1). Tutte le limita- zioni che il concetto di legge naturale ha
subito da Hume in poi, non hanno reso più facile la nozione di M. dal punto di
vista della scienza e della fi- losofia. Ma forse si tratta di una nozione che,
dal punto di vista della religione, non deve essere resa più facile. Dice
Kierkegaard: « È in fondo ugualmente assurdo tanto (e lo fa anche Lessing
pubblicando i Frammenti di Wolfenbatteln) aguzzare il proprio ingegno per
provare l'assurdità, l’inverosimiglianza del M. e poi, dal fatto che è
inverosimile, conclu- dere: ergo, ciò non è M. (ma sarebbe poi un M. se fosse
verosimile?), quanto (ed è questa la sa- pienza della speculazione) sforzarsi
di comprendere o di rendere comprensibile il M., concludendo in- fine: ergo, è
un miracolo. Un M. comprensibile non è più un miracolo. No, il M. rimanga quel
che è, oggetto di fede» (Diario, X3, A, 373). Da questo punto di vista cadono,
ovviamente, le obie- zioni contro il M.; ma dall’altro lato il M. cessa di
essere a qualsiasi titolo oggetto della ricerca scientifica e filosofica.
MISOLOGIA (gr. puoodoyia; ingl. Misology; franc. Misologie; ted. Misologie).
Termine creato da Platone per indicare l’odio dei ragionamenti. Secondo
Platone, «la M. nasce allo stesso modo MISOLOGIA della misantropia ». Come la
misantropia nasce dall’aver avuto fiducia in qualcuno senza discer- nimento,
così la M. nasce dall’aver creduto, senza possedere l’arte del ragionamento,
alla verità di ragionamenti che poi sono apparsi falsi (Fed., 89 d-90 b).
Secondo Kant la M. nasce quando si affida alla ragione il compito di conseguire
«il godimento della vita e la felicità»: compito al quale essa è in realtà
inadatta giacchè il suo destino, come facoltà pratica, è quello di condurre
alla moralità (Grundlegune der Metaphysik der Sitten, I). Secondo Hegel una
forma di M. è il sapere immediato (Enc., $ 11). MISTERO (gr. puothpioy; lat. Mysterium; in- glese
Mystery; franc. Mystère; ted. Mysterium).
Nel senso in cui la parola cominciò ad essere usata dagli scrittori ermetici
dell’antichità (per es., Corpus Hermeticum, I, 16) significa una verità rivelata
da Dio che va mantenuta segreta. La parola passò poi, nell’uso cristiano, a
indicare qualcosa di in- comprensibile o di significato oscuro o nascosto.
Jacob Bòhme chiamava in questo senso Dio Myste- rium magnum (è il titolo di una
sua opera del 1623). Dai moderni la parola viene adoperata: 1° nel senso di
verità di fede indimostrabile, quindi in un certo senso incomprensibile: per
es., «i M. della Trinità e dell’Incarnazione +; 2° nel senso di un problema che
si ritiene insolubile o la cui soluzione si attribuisce al do- minio religioso
o mistico: per es., «il M. dell’es- sere ». Non mancano anche oggi i filosofi
che, come già Spencer (First Princ., $ 14), ritengono che il M. sia il dominio
proprio della religione; 3° nel senso di un qualsiasi problema di difficile o
non immediata soluzione; e in questo senso anche un problema poliziesco è un
mistero. MISTICISMO (ingl. Mysticism; franc. Mysti- cisme; ted. Mysticismus).
Ogni dottrina che am- metta una comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. La
parola mistica cominciò ad essere usata in questo senso negli scritti di
Dionigi l’Areopagita, che ap- partengono alla seconda metà del v secolo e si
ispirano al neoplatonico Proclo. In tali scritti viene accentuato il carattere
mistico del neoplato- nismo originale, cioè della dottrina di Plotino. Per far
ciò, si insiste da un lato sull’impossibilità di giungere a Dio o di realizzare
una qualsiasi comu- nicazione con lui mediante i procedimenti ordinari del
sapere umano; dal punto di vista del quale non si può far altro che definire
Dio negativamente (teologia negativa). Dall'altro, si insiste su un rap- porto
originario, intimo e privato tra l’uomo e Dio: rapporto in virtù del quale
l’uomo può ri- tornare a Dio e congiungersi infine con lui in un atto supremo.
Quest’atto è l’estasi che Dionigi considera come la deificazione dell’uomo.
MISTIFICAZIONE Lo schema di ogni dottrina mistica è questo, che il falso
Dionigi ricavò dagli scritti neo-platonici e che contiene anche molte tracce
delle credenze orientali cui questi dovevano una parte della loro ispirazione.
Il M. medievale si pose talvolta come un'alternativa escludente la via della
ricerca ra- zionale: tale fu in Bernardo di Chiaravalle (se- colo xm): nel
quale la difesa della via mistica si accompagna alla polemica contro la
filosofia e in generale l’uso della ragione. Altra volta, invece, la via
mistica e la via della speculazione scolastica sono entrambe ammesse e
riconosciute: come fe- cero i Vittorini (Ugo, Riccardo) nello stesso se- colo
xm. E gli stessi caratteri il M. conserva in S. Bonaventura, che coltiva
ugualmente la specula- zione filosofica e quella mistica. Dall’altro lato la
grande corrente del M. speculativo tedesco del sec. xIv (Maestro Eckhart,
Taulero, Susone, ecc.) è di nuovo in posizione polemica contro ogni ten- tativo
di adoperare la ragione nel campo della religione; ma la sua caratteristica è
quella di essere una speculazione sulla fede, ritenuta come il tra- mite della
comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. Cadono poi interamente fuori del
dominio della filosofia, ma non di quello del M., i mistici pratici del
cristianesimo come Santa Teresa, Santa Cate- rina da Siena, S. Francesco,
Giovanna D'Arco, ecc. (cfr. H. Deacror:, Études d’histoire et de psycho- logie du mysticisme,
Paris, 1908; J. H. LEUBA, The Psychology of Religious Mysticism, 1925). La ricerca mistica consiste essenzialmente nel
definire i gradi progressivi dell’ascesa dell’uomo a Dio, nell’illustrare con
metafore lo stato di estasi e nel cercare di promuovere tale ascesa con oppor-
tuni discorsi edificatori. I gradi dell’ascesa mistica sono abitualmente tre:
il pensiero (cogitatio) che ha per suo oggetto le immagini provenienti dal-
l’esterno ed è diretto a considerare l'orma di Dio nelle cose; la meditazione
(meditatio) che è il rac- cogliersi dell'anima in se stessa e che ha per
oggetto l’immagine stessa di Dio; e la contemplazione (contemplatio) che si
rivolge a Dio stesso. Questi gradi sono variamente illustrati e suddivisi dai
mistici che abitualmente dividono ognuno di questi gradi in due altri,
enumerando così, con l’estasi, sette gradi di ascesa. Ad es., secondo
Bonaventura, il pensiero può considerare le cose o nel loro ordine oggettivo (I
grado) o nell'apprensione che di esse ha l’anima umana (II grado). La
meditazione può contemplare l’immagine di Dio nei poteri naturali dell'anima,
memoria, intelletto e volontà (III grado) oppure nei poteri che l’anima
acquista in virtù delle tre virtù teologali (IV grado). La contempla- zione può
considerare Dio nel suo primo attributo cioè nel suo essere (V grado) oppure
nella sua massima potenza, che è il bene (VI grado) (/tine- 585 rarium mentis
in Deum, 1259). Al di là di questi gradi, per tutti i mistici, c’è l’estasi
(v.) o excessus mentis, definita talvolta come « ignoranza dotta » (v.) e in
ogni caso considerata come il «deîficarsi dell’uomo » cioè l’unirsi dell’uomo a
Dio. Da un punto di vista filosofico-religioso è impor- tante l’apprezzamento
che Kierkegaard fece del misticismo. Il mistico è, secondo Kierkegaard, «colui
che sceglie se stesso in un isolamento com- pleto » cioè nel suo isolamento dal
mondo e dai rapporti umani (Aut Aut, in Werke, II, pag. 215) ma così facendo
egli commette una certa indiscre- zione nei riguardi di Dio. Giacchè, in primo
luogo, egli disdegna l’esistenza, la realtà nella quale Dio lo ha posto; e in
secondo luogo egli degrada Dio e se stesso. « Degrada se stesso perchè è sempre
una degradazione essere essenzialmente differenti dagli altri grazie a una
semplice accidentalità; e de- grada Dio perchè fa di lui un idolo e di se
stesso un favorito alla corte di lui» (Ibid, Werke, II,g pag. 219). Nella
filosofia contemporanea, il M. è stato difeso da Bergson. Nel M., Bergson ha
visto la « religione dinamica » cioè la religione che continua lo slancio creativo
della vita e tende a creare forme di vita più perfette per l’uomo. « L’amore
mistico, dice Bergson, si identifica con l’amore di Dio per la sua opera, amore
che ha creato ogni cosa, ed è in grado di rivelare a chi sappia interrogarlo il
mistero della creazione. È composto di un’essenza più metafisica che morale.
Vorrebbe, con l’aiuto di Dio, perfezionare la creazione della specie umana e
fare dell'umanità quello che sarebbe potuto es- sere subito se avesse potuto
costituirsi definitiva- mente senza l’aiuto dell’uomo ». In altri termini è
allo slancio mistico che può essere dovuto il ripristino della «funzione
essenziale dell’universo, che è una macchina destinata a creare divinità »
(Deux Sources; trad. ital., pag. 256, 349). Questa interpretazione del M. data
da Bergson non si differenzia dal comune panteismo (v.). MISTIFICAZIONE (ingl.
Mystification; fran- cese Mystification; ted. Mystification). L’interpreta-
zione di un concetto in modo oscuro, fallace o tendenzioso. Diceva, per es.,
Marx: «La M. alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie
in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e
consapevolmentele forme generali del movimento della dialettica stessa »
(Carteggio Marx-Engels; trad. ital., V, pag. 28). Secondo Marx la dialettica di
Hegel era «mistificata» perchè interpretata idealistica- mente invece che
materialisticamente. In modo analogo si dice che si ha un concetto mistificato
della libertà quando si fa coincidere la libertà con la necessità e così implicitamente
la si nega, ecc. 586 MISURA (gr. uérpov; lat. Mensura; ingl. Mea- sure; franc.
Mesure; ted. Mass). Già Platone aveva diviso l’arte della M. in due parti,
situando nella prima le arti «che misurano il numero, la lun- ghezza,
l'altezza, la larghezza e la velocità in rap- porto ai loro contrari» e nella
seconda «le arti che misurano il rapporto al giusto mezzo, al con- veniente,
all’opportuno, al doveroso e insomma a quelle determinazioni che stanno nel
mezzo tra due estremi » (Polit., 284 e). Conseguentemente, si può intendere per
misura: 1° il rapporto tra una grandezza e l’unità. A questo proposito
Aristotele osservava che l’unità può essere intesa in due modi: come unità
conven- zionale o apparente e come unità assolutamente indivisibile (Mer., X, 1,
1053a 22). Lo stesso Aristotele riconosceva la condizione di ogni M. in questo
senso nella omogeneità tra ciò che si misura e ciò con cui si misura (/bid., X,
1, 1053 a 22); 2° il criterio o il canone di ciò che è vero o bene. In questo
senso Cleobulo uno dei Sette Savi diceva: « Ottima è la M.» (Diog. L., I, 93),
Pla- tone vedeva nella giusta M. l’ordine e l’armonia delle cose (Fi/., 24c-d)
e Aristotele faceva della medietà (v.) il canone della virtù etica. Nello
stesso senso usava la parola Protagora nel suo famoso principio che l’uomo è M.
delle cose; e Aristotele quando vedeva nell'uomo virtuoso «il canone e la M.
delle cose» (Er. Nic., III, 4, 1113a 33). In questo senso la M. è uno dei
concetti fonda- mentali della cultura classica greca. MITO (gr. w6006; lat. Mytus;
ingl. Myth; fran- cese Myrhe; ted. Mythos).
Oltre l’accezione gene- rica di «racconto» nella quale la parola è usata, per
es., nella Poetica (I, 1451 b 24) di Aristotele si possono distinguere, dal
punto di vista storico, tre significati del termine, e precisamente: 1° quello
del M. come di una forma attenuata di intellettua- lità; 2° quello del M. come
una forma autonoma di pensiero o di vita; 3° quello del M. come stru- mento di
controllo sociale. 1° Nell'antichità classica il M. è considerato come un
prodotto inferiore o deformato dell’atti- vità intellettuale. AI M. si
attribuì, al massimo, la « verosimiglianza » di fronte alla « verità » propria
dei prodotti genuini dell’intelletto. Questo fu il punto di vista di Platone e
di Aristotele. Platone contrappone il M. alla verità o al racconto vero (Gorg.,
523 a); ma nello stesso tempo gli riconosce la verosimiglianza che, in certi
campi, è la sola validità cui il discorso umano possa aspirare (Tim., 29 d) e
che, in altri campi, esprime ciò di cui non si può trovare di meglio nè di più
vero (Gorg., 527 a). Il M. costituisce, anche, per Platone la «via umana e più
brcve» della persuasione; ed in complesso il suo dominio è rappresentato da
quella MISURA zona che è al di là della stretta cerchia del pensiero razionale
e nella quale non è lecito avventurarsi che con supposizioni verosimili.
Sostanzialmente lo stesso atteggiamento ha di fronte al M. Aristotele. Il M. è
talora opposto alla verità (Mist. An., VII, 12, 597 a 7); ma talora è anche la
forma appros- simativa e imperfetta che la verità assume quando, per es., di
una cosa si dà «la ragione in forma di M. » (Zbid., VI, 35, 580 a 18). A questo
concetto del M. come verità imperfetta o diminuita va congiunta, spesso,
l’attribuzione al M. di una va- lidità morale o religiosa. Ciò che il M. dice,
si suppone, non è dimostrabile nè chiaramente con- cepibile, ma il suo
significato morale o religioso vale a dire ciò che insegna rispetto alla
condotta dell’uomo rispetto agli altri uomini o rispetto alla divinità, risulta
chiaro. Così Platone dice nel Gorgia, a proposito dei M. morali che vi sono
esposti: « Forse queste cose ci sembreranno M. da vecchie donne e le
considererai con disprezzo. E non sa- rebbe fuor di luogo spregiarle se con la
ricerca potessimo trovare altre cose migliori e più vere. Ma anche voi tre, tu,
Polo e Gorgia, che siete i più saggi greci di oggi, non riuscite a dimostrare
che convenga vivere altra vita che questa » (Gorg., 527 a-b). Analogamente, un
significato religioso si attribuisce al M., ogni qualvolta che con questo nome
si designano credenze determinate come, per es., quando si dice « M.
cosmogonico » 0 « M. soteriologico » 0 « M. escatologico », ecc. Nel co- mune
linguaggio, prevale questa accezione del si- gnificato nella sua forma estrema
cioè come di credenza dotata di minima validità e di scarsa ve- rosimiglianza;
in questo senso si chiama mitico ciò che è irraggiungibile o contrario ai
criteri del co- mune buonsenso, per es., « una perfezione mitica ». All’ambito
di questa interpretazione del M. ap- partengono le cosiddette teorie
naturalistiche che sono prevalse nel secolo scorso in Germania. Se- condo
queste teorie, il M. è un prodotto dello stesso atteggiamento teoretico o
contemplativo che darà poi luogo alla scienza e consiste nell’assumere un
determinato fenomeno naturale come chiave per la spiegazione di tutti gli altri
fenomeni. I fenomeni astronomici, quelli meteorologici e altri sono stati di
volta in volta invocati a questo scopo. Più re- centemente un’altra scuola
sociologica ha visto nel mito soprattutto il ricordo degli eventi passati.
Nell’uno e nell’altro caso queste «spiegazioni na- turalistiche » del M. non
fanno altro che ridurlo a una forma imperfetta di attività intellettuale. 2° La
seconda concezione del M. è quella per la quale esso è una forma autonoma di
pensiero e di vita. In questo senso il M. non ha una validità o una funzione
secondaria e subordinata rispetto alla conoscenza razionale, ma funzione e
validità MITO originaria e primaria; e si colloca su un piano diverso, ma
dotato di uguale dignità, di quello dell'intelletto. Fu Vico a esprimere per la
prima volta questo concetto del M.: « Che le favole nel loro nascere furono
narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali
nac- quero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi
alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, ed
alla fine incredibili; che sono sette fonti della dif- ficoltà delle favole»
(Sc. N., II, Pruove filos. per la discoverta del vero Omero, IV). La verità del
M. non è dunque una verità intellettuale corrotta o degenerata ma una verità
autentica, sebbene di forma diversa da quella intellettuale, cioè di forma
fantastica o poetica: «I caratteri poetici nei quali consiste l’essenza delle
favole nacquero da neces- sità di natura, incapace d'’astrarne le forme e le
proprietà da ‘subbietti *; e in conseguenza dovette essere maniera di pensare
d’intieri popoli, che fus- sero stati messi dentro tal necessità di natura,
ch'è nei tempi della lor maggior barbarie » (/bid., VI). Da questo punto di
vista «i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni » (/bid., X); e i
caratteri poetici contengono significati storici che furono, nei primi tempi,
trasmessi a memoria dai popoli (Ibid., IX). Il Romanticismo fece proprio questo
concetto del M. e lo amplificò in una metafisica teologica. La Filosofia della
mitologia di Schelling vede nel M., considerato come la religione naturale del
genere umano, una fase della autorivelazione dell’ Asso- luto. Il M. fa parte
integrante del processo della teofania; esso non ha a che fare con la natura o
meglio ha a che fare con essa solo indirettamente, in quanto la natura stessa è
la rivelazione di Dio. Il M. è una fase della teogonia che è al di là e al di
sopra della natura perchè è la manifestazione di Dio come coscienza della
natura o rapporto di essa con l’io (Werke, II, I, pag. 216 sgg.). Al di fuori
di queste speculazioni che appartengono in proprio all’idealismo romantico, la
dottrina del M. come forma autonoma di espressione e di vita ha trovato ampia
accoglienza nella filosofia e nella sociologia contemporanee. Nella filosofia,
la mi- gliore espressione di questa interpretazione del M. è il secondo volume
della Filosofia delle forme sim- boliche (1925) di Ernesto Cassirer: nel quale
la caratteristica del pensiero mitico è scorta nella mancata o imperfetta
distinzione tra il simbolo e l’oggetto del simbolo e cioè nella mancata o im-
perfetta consapevolezza del simbolo come tale. «Il M., dice Cassirer, sorge
spiritualmente al di sopra del mondo delle cose ma nelle figure e nelle
immagini con le quali esso sostituisce questo mondo, esso non vede che un'altra
forma di materialità e 587 di legame con le cose » (Philosophie der symbolischen
Formen, II, 1925; trad. ingl., 1955, pag. 24). Più tardi, nel Saggio sull'uomo,
Cassirer ha visto il carattere distintivo del M. nel suo fondamento emotivo.
«Il sostrato reale del M. non è un so- strato di pensiero ma di sentimento. Il
M. e la religione primitiva non sono certo del tutto incoe- renti, non sono
interamente privi di senso o di ra- gione. Ma la loro coerenza proviene molto
di più da un’unità sentimentale che da regole logiche. Questa unità è uno degli
impulsi più forti e più profondi del pensiero primitivo » (Essey on Man, cap.
7; trad. ital., pag. 124-25). Anche questa con- cezione tuttavia cade
nell’ambito dell’interpreta- zione che fa del M. una forma spirituale autonoma
di fronte all’intelletto. E all'ambito di questa stessa interpretazione ap-
partiene l’interpretazione sociologica che fa del M. il prodotto di una
mentalità pre-logica. Questa è stata la tesi dei sociologi francesi Durkheim e
Lévy- Bruhl. Il primo aveva affermato che il vero mo- dello del M. non è la
natura ma la società e che esso è in ogni caso la proiezione della vita sociale
dell’uomo: una proiezione che ne riflette le carat- teristiche fondamentali
(Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912). Il secondo ha definito il
pensiero mitico come pensiero pre-logico, nel senso che esso prescinderebbe
completamente dall’ordine necessario che per il pensiero logico costituisce la
natura e vedrebbe la natura stessa come « una rete di partecipazioni e di
esclusioni mistiche nella quale non valgono la legge di contraddizione e le
altre leggi del pensiero logico » (La mentalité primitive, 1922; L'dme
primitive, 1928). 3° La terza concezione del M. è la moderna teoria sociologica
di esso, che si può far risalire principalmente a Fraser (Golden Bough,
1911-15) e a Malinowski. Quest’ultimo vede nel M. la giusti- ficazione
retrospettiva degli elementi fondamentali che costituiscono la cultura di un
gruppo. « Il M. non è un semplice racconto nè una forma di scienza, nè una
branca d’arte o di storia nè una narrazione esplicativa. Esso compie una
funzione sui generis strettamente connessa con la natura della tradizione e la
continuità della cultura, con la relazione tra maturità e giovinezza e con
l’atteggiamento umano verso il passato. La funzione del M. è, in breve, quella
di rafforzare la tradizione e di darle maggior valore e prestigio connettendola
alla più alta, mi- gliore e più soprannaturale realtà degli eventi ini- ziali
». In questo senso il M. non è limitato al mondo o alla mentalità dei
primitivi. È anzi in- dispensabile a ogni cultura. « Ogni mutamento sto- rico
crea la sua mitologia, che è tuttavia solo indirettamente relativa al fatto
storico. Il M.» un costante accompagnamento della fede vivente 588 che ha
bisogno di miracoli, dello status sociolo- gico che domanda precedenti, della
norma morale che esige sanzione» (« Myth in Primitive Psycho- logy », 1926, in
Magic, Science and religion, 1955, pag. 146). Dall'altro lato Levi-Strauss ha
indagato la struttura (v.) del M. nelle società primitive, analizzando alcuni
M. nei loro elementi più sem- plici (mitemi) e studiandone le combinazioni pos-
sibili, che spiegano anche le somiglianze e le dif- ferenze tra M. in vigore
presso gruppi umani diversi (Anthropologie structurale, 1958, cap. XI). Egli ha
inoltre mostrato che il M. non è un rac- conto storico ma piuttosto la
rappresentazione ge- neralizzata di fatti che ricorrono uniformemente nella
vita degli uomini: la nascita e la morte, la lotta contro la fame e le forze
della natura, la sconfitta e la vittoria, il rapporto tra i sessi. Il M. non
riproduce perciò mai la situazione reale ma si oppone a questa situazione, nel
senso che la rappresenta abbellita, corretta e perfezionata ed esprime così le
aspirazioni che la situazione reale fa sorgere. Egli adopera la parola
dialettica (v.) per caratterizzare il rapporto tra il M. e la realtà che lo
ispira (« The Story of Asdiwal», in 7he Structural Study of Myth and Totemism,
ed. by Leach, 1969, pag. 29 sgg.). Altri autori preferiscono parlare di
retroazione (Feedback); nel senso che il M. reagisce sulla situazione che l’ha
provocata, cioè tende a modificare l'universo sociale dal quale sorga e che,
una volta modificato, provoca a sua volta una risposta nel campo del M. e così
via (DougLas, nello stesso volume, pag. 57 sgg.). In ogni caso, il M. appare
come « una filosofia nativa » (secondo l’espressione di Levi-Strauss) cioè la
forma in cui un gruppo sociale esprime il proprio atteg- giamento di fronte al
mondo o un modo per ri- solvere il problema della sua esistenza. Da questo
punto di vista il M. non è definito nei confronti di una determinata forma
dello spi- rito, per es., dell'intelletto o del sentimento, come accade nelle
due interpretazioni precedenti, ma ri- spetto alla funzione che compie nelle
società umane: funzione che può essere chiarita e descritta in base a fatti
osservabili. La svalutazione del M. propria della prima concezione e la
sopravvalutazione di esso propria della seconda sono, da questo terzo punto di
vista, egualmente fuori posto. Questo è certamente un vantaggio del punto di
vista in questione. Un altro vantaggio è che esso spiega la funzione che il M.
esercita nelle società progredite e i caratteri disparati che in tali società
può assu- mere. Possono costituire M., in esse, non solo racconti favolosi,
storici o pseudostorici, ma figure umane (l’eroe, il condottiero, il duce) o
concetti o nozioni astratte (la nazione, la libertà, la patria, il
proletariato) o infine progetti di azione che non MITO DELLA CAVERNA si
realizzeranno mai (lo « sciopero generale » di cui parlava Sorel come del M.
proprio del proletariato; cfr. Réfléxions sur la violence, 1906). La disparità
di contenuto del M. denuncia l’impossibilità di riportarlo, in base al
contenuto, a questa o quella forma spirituale; e l’opportunità di studiarlo,
in- vece, rispetto alla funzione che compie nella so- cietà umana. MITO DELLA
CAVERNA. V. CAVERNA. MITOLOGICO (ted. Mythologisch). Un signi- ficato speciale
ha ricevuto questo termine ad opera di Rudolf Bultmann: significato che è
importante per l’interpretazione del cristianesimo data da questo pensatore: «
M., egli dice, è la forma di rappresentazione in cui ciò che non è mondano, ciò
che è divino, viene raffigurato come mondano, umano, l’al di là come al di qua,
in cui, ad es., la trascendenza di Dio viene pensata come distanza spaziale;
rappresentazione in conseguenza della quale il culto viene inteso come
un’azione in cui, per opera di mezzi materiali, vengono comunicate forze non
materiali ». In questo senso, è ovvio che la parola mito non ha il senso
moderno «in cui non significa altro che ideologia» (Keryema und Mythos, I,
1951, pag. 22, n. 2). Cfr. MIEGGE, L’Evangelo e il mito, Milano, 1956.
MNEMONICA, MNEMOTECNICA (la- tino Ars memoriae; ingl. Mnemonics; franc. Mné-
monique; ted. Mnemonik, Mnemotechnik). L'arte di coltivare la memoria. Si
tratta di un’arte antichis- sima, che Cicerone attribuisce già a Simonide di
Ceo (De Or., II, 86, 351). Quest’arte fu coltivata dai Sofisti e Ippia si
vantava di esserne maestro (Ippia Min., 368 d; Ippia Mag., 286 a). Il gusto di
quest'arte risorse nel Rinascimento e fu coltivata specialmente da Giordano
Bruno, che dedicò ad essa un gruppo di scritti (De umbris idearum, 1582; Ars
memoriae, 1582; Cantus circaeus, 1582; Triginta sigillorum explicatio, 1583;
ecc.) (v. CLAvIS UNIVERSALIS). La psicologia contemporanea è ritor- nata a
occuparsi di quest'arte, con mezzi spe- rimentali. MOBILE, PRIMO (gr. rpitov
ximréy; la- tino Primum mobile; ingl. First Mobile; franc. Premier mobile; ted.
Primare Bewegliches). Così Aristotele chiamò il primo cielo al quale il
movimento è comunicato direttamente dal primo motore o mo- tore immobile e che
perciò è altrettanto semplice, ingenerato e incorruttibile del primo motore (De
Cael., II, 6, 288 a 14 sgg.). Aristotele stesso para- gona al primo M. la
facoltà appetitiva dell’anima, come paragona al motore immobile il bene (De
An., III, 10, 433 b 14). Il primo M. è il cielo che Dante chiama «cristallino »
cioè diafano o traspa- rente e al di là del quale ammette il cielo empireo o
sede dei beati (Conv., II, 4; Par., 30, 107). MODALITÀ MOBILISMO (franc.
Mobilisme). La parola è moderna (cfr. Cume, Le mobilisme moderne, 1908) poco
usata anche in italiano e in francese, ma si presta ad esprimere
l’atteggiamento filosofico di quelli che Platone chiamava i «fluenti» (7eer.,
181 a) cioè di coloro i quali ammettono che tutto muta e nulla sta fermo: come
facevano nell’anti- chità i seguaci di Eraclito e come fanno, nella filosofia
moderna, i filosofi del divenire (v.). MODA (ingl. Fashion; franc. Mode; ted.
Mode). Kant ha interpretato la M. come una forma di imitazione, fondata sulla
vanità, in quanto « nes- suno vuole apparire da meno degli altri anche in ciò
che non ha alcuna utilità ». Da questo punto di vista «stare alla M. è
questione di gusto; chi è fuori di M. e aderisce a un uso passato, si dice
antiquato; chi non dà nessun valore all’esser fuori di M. è un eccentrico».
Kant dice che «è meglio esser matto secondo la M. che fuori di essa» e che la
M. è veramente pazza solo quando sacrifica alla vanità l’utile o addirittura il
dovere (Antr., I, $ 71). In realtà questa analisi di Kant non è oggi più
sufficiente perchè è noto che la M. investe tutti i fenomeni culturali e anche
quelli filosofici. M. sono state nell’età moderna il cartesianesimo,
l'iluminismo, il newtonismo, il darwinismo, il po- sitivismo, l’idealismo, il
neoidealismo, il pragma- tismo, ecc.: tutte dottrine che hanno avuto una
importanza decisiva nella storia della cultura. D’al- tronde sono state M.
anche movimenti culturali che poca o nessuna traccia hanno lasciato. Si può
dire che la funzione della M. è quella di inserire negli atteggiamenti
istituzionali di un gruppo, o più in particolare nelle sue credenze, per mezzo
di una rapida comunicazione e assimilazione, atteg- giamenti o credenze nuove
che, senza la M., do- vrebbero combattere a lungo per sopravvivere e farsi
valere. Questa funzione specifica per la quale la M. agisce come un controllo
che limita o in- debolisce i controlli della tradizione rende inutile ogni esaltazione
e ogni disdegno nei confronti della moda. MODALE (ingl. Modal; franc. Modale;
te- desco Modal). Si chiama con questo termine la proposizione nella quale la
copula riceve una qual- siasi determinazione complementare. Per le propo-
sizioni M., v. MODALITÀ. MODALE, LEGGE (ted. Modales Grund- gesetz). Così
Nicolai Hartmann ha chiamato la riduzione di tutte le modalità dell’essere
(cioè della possibilità e della necessità) all’effettualità cioè al- l’essere
di fatto (Mbplichkeit und Wirklichkeit, 1938, pag. 71) (v. NECESSITÀ).
MODALISMO (ingl. Modalism; franc. Moda- lisme; ted. Modalismus). Si chiama così
l’inter- pretazione della Trinità cristiana che consiste nel 589 vedere nelle
tre persone divine tre modi o mani- festazioni dell'unica sostanza divina.
Questa inter- pretazione è stata sempre condannata come eretica dalla chiesa
cristiana che ha insistito sull’ugua- glianza e la distinzione delle persone
divine. Nel sec. Im il M. fu sostenuto da Sabellio; ma una specie di M. è stato
visto anche nella dottrina di Scoto Eriugena e di Abelardo al quale ultimo fu
rimproverato da S. Bernardo (De Erroribus Abe- lardî, 3, 8). Un altro nome per
la stessa eresia è monarchismo (v.). MODALITÀ (lat. Modalitas; ingl. Modality;
franc. Modalité; ted. Modalitàt). Le differenze della predicazione cioè le
differenze cui può dar luogo il riferimento di un predicato al soggetto nella
proposizione. Tali differenze furono per la prima volta riconosciute da
Aristotele sulla base del suo proprio concetto dell’essere predicativo (v. Es-
seRE, Il) che è l’inerenza. Egli dice infatti che «altro è l’inerire, altro è
l’inerire di necessità e il poter inerire: giacchè molte cose ineriscono, ma
non di necessità, altre non ineriscono nè di neces- sità nè semplicemente, ma
possono inerire» (An. Pr., I, 8, 29 b 29). In tal modo Aristotele distingue: 1°
l’inerire puro e semplice del predicato al sog- getto; 2° l’inerire necessario;
3° l’inerire possibile. In seguito, cioè dai commentatori di Aristotele,
vennero chiamati modi la seconda e la terza forma della predicazione; e vennero
dette « proposizioni modali » le proposizioni necessarie e possibili (AM-
MONIO, De interpr., f. 171 b; Boezio, De Interpr., II, V, P. L. 64°, col. 582).
Nel Medioevo, simil- mente, si chiamò proposizione de inesse o de puro inesse
quella che oggi diciamo proposizione asser- toria; e si chiamarono modali le
proposizioni ne- cessarie o possibili (ABELARDO, Dialect., II, pag. 100; Pierro
Ispano, Summ. Log., 1.31). Nella Logica (1638) di Jungius è detta « enunciazione
pura» la proposizione assertoria ed «enunciazione modifi- cata o modale» la
proposizione necessaria o pos- sibile. Lo stesso uso fu seguito dalla Logica di
Portoreale (I, 8) e da Wolff (Log., $ 69). Si può dire pertanto che Kant non
faceva che riesporre questa lunga tradizione affermardo: «La M. dei giudizi è
una loro funzione tutta particolare, che ha questo carattere distintivo: non
contribuisce per niente al contenuto del giudizio (giacchè oltre la quantità,
la qualità e la relazione, non c’è altro che formi il contenuto del giudizio)
ma tocca solo il valore della copula rispetto al pensiero in gene- rale.
Giudizi problematici sono quelli in cui l’affer- mare o il negare si ammette
come semplicemente possibile (arbitrario); assertori quelli in cui si considera
come reale (vero); apodittici quelli in cui si considera come necessario »
(Crif. R. Pura, $9, 4). 590 Nella logica contemporanea la trattazione della M.
non è stata portata a un grado sufficiente di chiarezza concettuale e di
elaborazione analitica. Ciò è dovuto al fatto che la logica contemporanea si
modella sulle matematiche che praticamente igno- rano, o possono ignorare,
l’uso delle modalità. Non fa meraviglia pertanto che sia stata proposta quella
tesi dell’estensionalità (v.) che equivale alla elimi- nazione delle M. da ogni
enunciato. Questa tesi non ha tuttavia impedito ai suoi stessi proponenti di
tentare un’interpretazione delle modalità. Rus- sell ha affermato che le M.
sono proprietà non delle proposizioni ma delle funzioni proposizio- nali (v.):
sicchè sarebbe necessaria la funzione pro- posizionale: «Se x è un uomo, x è
mortale» che è sempre vera; possibile la funzione « x è un uomo » che è qualche
volta vera; e impossibile la fun- zione * x è un unicorno » che non è mai vera
(« The Philosophy of Logical Atomism », 1918, cap. V; in Logic and Knowledge,
pag. 230 sgg.). Ma questa interpretazione di Russell equivale semplicemente a
una paradossale inversione delle M. in quanto il senso modale dell’espressione
« Se x è un uomo, x è mortale » non è la necessità ma la possibilità; essa
significa infatti «x può esser mortale». Un altro suggerimento di Russell
(Scritto cit., pag. 231) è l’identificazione del necessario con l’analitico,
cioè con affermazioni del tipo «x è x». Carnap, a sua volta, si è appigliato
appunto a questa in- terpretazione tentando una costruzione della M. sulla base
del concetto di necessità logica cioè della analiticità e definendo la
possibilità come la negazione di tale necessità (Meaning and Necessity, 1957, $
39). È appena necessario notare che questa interpretazione equivale alla
negazione pura e sem- plice delle M. stesse e non può valere come una logica di
esse. D'altronde, Quine ha mostrato le difficoltà inerenti a tutte le
trattazioni delle M., fondate, come quella di Carnap, sulla quantifica- zione
(From a Logical Point of View, VIII, 4). Circa la distinzione delle M. o, come
oggi si dice, dei valori modali delle proposizioni, la più antica e accreditata
tavola di tali valori è quella data da Aristotele nel De Interpretatione, che
ne comprende sei: vero, falso; possibile, impossibile; necessario, contingente
(De /nr., 12, 21 b). Questa logica a sei valori rimase immutata nel Medioevo
(cfr., ad es., Pietro Ispano, Sum. Logic., 1.30) ed è stata sviluppata e difesa
anche da logici con- temporanei, per es., da Lewis (A Survey of Sym- bolic
Logic, 1918). Talvolta i valori modali sono stati ridotti a cinque con
l’identificazione della possibilità e della contingenza (per es.: O. BECKER,
«Zur Logik der Modalititen», in Jahrb. fiir Phil. and Phdnom. Forschung, 1930,
pag. 496-548). Lu- kasiewicz e Tarski hanno a loro volta costruito MODALITÀ una
logica a tre M.: vero, falso e possibile (cfr. gli articoli in Compres Rendus
des Séances de la So- ciété des Sciences et Lettres de Varsovie, 1930, pag. 30,
50, 176; cfr. per Luxkasiewicz: Polish Logic 1920-39, Oxford, 1967). Carnap ha
accet- tato le sei M. della tradizione aristotelica (Meanine and Necessity, $
39). Il concetto stesso di M. è assai poco chiaro in queste dottrine della logica
contemporanea. Si pos- sono qui soltanto indicare le confusioni più fre-
quenti: 1° il tentativo di ridurre gli enunciati modali a enunciati
quantitativi; 2° il tentativo di ridurre la M. a un valore di verità della
proposizione; 3° il tentativo di predicare le M. l'una dell’altra. 1° Il primo
tentativo consiste nel far corri- spondere enunciati universali alle
proposizioni ne- cessarie ed enunciati particolari alle proposizioni possibili.
Così « tutti gli uomini muoiono » sarebbe l’equivalente di « gli uomini debbono
morire +; e «alcuni uomini sono artisti » sarebbe l’equivalente di «gli uomini
possono essere artisti ». Queste trascrizioni sono indubbiamente insufficienti
perchè nè la proposizione necessaria nè quella possibile esprimono fatti come le
corrispondenti proposizioni universale e particolare (cfr. A. PAP, Semantics
and Necessary Truth, 1958, pag. 368) e perchè la propo- sizione possibile ha un
significato distributivo (« ogni uomo può essere artista ») che sarebbe escluso
dalla corrispondente proposizione particolare. Ma è poi evidente che nessuna
trascrizione del genere è possibile per proposizioni modali del tipo «x può
essere »: proposizioni che tuttavia ricorrono in tutti i rami della scienza,
ogni qualvolta si tratta di ipotesi, predizioni, probabilità, anticipazioni,
ecc. 2° La seconda confusione è quella per cui la M. si allinea tra i valori di
verità delle proposizioni: una confusione di cui han dato esempio le stesse
cosiddette logiche delle modalità. Ora i valori di verità delle proposizioni
(vero, falso, probabile, inde- terminato, ecc.) appartengono a un livello
diverso dalla M. che è una determinazione della predica- zione cioè della
relazione tra soggetto e predicato della proposizione. I valori di verità
appartengono alla sfera del riferimento semantico delle proposi- zioni; le M.
appartengono alla struttura relazionale delle proposizioni stesse. Esse
indicano pertanto se tale struttura può essere o no diversa da com°è: cioè
indicano se il contenuto di un enunciato (il suo significato) può essere o no
diverso da come l’enunciato lo esprime. Le M. fondamentali sono quindi due e
due soltanto: possibilità e necessità, con i loro opposti non-possibilità e
impossibilità Esse modificano i valori di verità delle proposizioni nel senso di
limitarli o estenderli ma non vanno confusi con tali valori: la predicazione
reciproca suppone anzi la diversità dei livelli e si può dire MODERNISMO
«necessariamente vero» o «possibilmente vero », proprio perchè possibilità e
verità, verità e neces- sità, appartengono a due sfere diverse e non si esclu-
dono tra loro. 3° La terza confusione è quella inerente al ten- tativo di
predicare le M. una dell’altra. Questo ten- tativo è contraddittorio come
quello di predicare una dell'altra i valori di quantità o di verità delle pro-
posizioni. Il teorema fondamentale a questo pro- posito è quello che riconosce
il carattere alternativo delle modalità. Ma questo teorema è stato solita-
mente disconosciuto o ignorato dai logici della M. a partire da Aristotele. Questi
infatti si preoccupò di predicare le M. l’una dell’altra, affermando ad es.,
che ciò che è necessario che sia, deve anche essere possibile che sia, dal
momento che non può dirsi che è impossibile che sia (De /nz., 13, 22 b 11). Ma
questa affermazione o porta a considerare il necessario stesso come possibile
cioè come non necessario o porta a dividere in due il concetto di possibile
(che è la via seguita da Aristotele) col riconoscimento di una specie di
possibile che s’identifica col necessario (v. PossisiLe). Dall'altro lato,
l'affermazione reciproca (che Aristotele il- lustrò col famoso esempio della
battaglia navale) che il possibile è necessario nel senso che necessa- riamente
c'è un possibile (per es., necessariamente domani ci sarà o non ci sarà una
battaglia navale) equivale a rendere necessaria l’indeterminazione e a negare
il possibile come tale. Difatti « È neces- sario che x sia possibile» significa
che x deve mantenersi indeterminato senza mai realizzarsi; ma in tal caso x non
è un possibile. Queste antinomie o paradossi sorgono dal disconoscimento del
ca- rattere esclusivo delle differenze modali che, in virtù di questo
carattere, costituiscono alternative inconciliabili. Dall'altro lato i valori
di verità pos- sono essere predicati delle M.; c’è un possibile Vero, per es.,
«l’uomo può essere bianco» e un possibile falso come «l’uomo può esser rettan-
golo ». E ci può essere una necessità vera ed una necessità falsa, che è
l’assurdo. Queste notazioni esigerebbero adeguati sviluppi analitici. Per ulte-
riori osservazioni, v. NECESSARIO; POSSIBILE. MODELLO (ingl. Model; franc.
Modéle; te- desco Modell). 1. Una delle specie fondamentali di concetti
scientifici (v. CONCETTO) e precisamente quello che consiste in una
disposizione caratteriz- zata dall’ordine degli elementi di cui si compone,
anzichè dalla natura di questi elementi. Perciò due M. sono identici se il
rapporto dei loro ordini può essere espresso come una corrispondenza biuni-
voca, cioè tale che a un termine dell’uno corrisponda uno, e uno solo,
dell’altro e a ciascuna relazione di ordine fra gli elementi dell’uno
corrisponda una identica relazione fra i corrispondenti elementi del- 591
l’altro. L’ordinario calcolo numerico è il migliore esempio della
corrispondenza biunivoca: se ci sono da una parte cinque libri e dall’altra
cinque lapis si possono allineare queste due serie di oggetti nello stesso
ordine o collocare uno sull’altro. Allo stesso modo, la serie dei numeri interi
è in corri- spondenza biunivoca con i numeri pari e così via. Per essere utile
un M. deve avere i seguenti carat- teri: 1° la semplicità che ne renda
possibile l’esatta definizione; 2° la possibilità di essere espresso me- diante
parametri suscettibili di trattamento mate- matico; 3° la somiglianza o
l’analogia con la realtà che è destinata a spiegare. I M. meccanici erano
apparsi indispensabili alla scienza del sec. xrx; ma oggi M. puramente teo-
retici sono utilizzati da discipline diverse: dalla economia (che si avvale dei
giochi), dalla psicologia, dalla biologia e dall’antropologia (cfr. HEMPEL,
Aspects of Scientific Explanation, 1965, pag. 445 e nota 28). Levi-Strauss ha
considerato la strut- tura (v.) come un M. di questo genere per la spie-
gazione dei fatti sociali (Anthropologie Structurale, 1958, cap. XV). 2. Lo
stesso che archetipo (v.). MODERNI. V. ANTICHI. MODERNISMO (ingl. Modernism;
franc. Mo- dernisme; ted. Modernismus). Un tentativo di ri- forma cattolica che
ebbe qualche diffusione in Italia e in Francia nell’ultimo decennio dell’800 e
nel primo del nostro secolo e fu condannato dal papa Pio X con l’enciclica
Pascendî dell’8 settembre 1907. Questo tentativo è ispirato dalle esigenze
della filosofia dell’azione (v.) e consiste nell’attingere da questa filosofia
il significato da dare ai con- cetti fondamentali della religione: Dio,
rivelazione, dogma, grazia, ecc. Il M. si ispira soprattutto alle idee di Ollé
Laprune e di Blondel, che però rima- sero estranei al movimento, e conta i nomi
di Luciano Laberthonnière, Alfredo Loisy ed Eduardo Le Roy. In Italia assunse
specialmente la forma della critica biblica (Salvatore Minocchi, Ernesto
Buonaiuti) e della critica politica (Romolo Murri) mentre il dibattito
filosofico si limitava a riprodurre, con scarsa originalità, le idee del M.
francese. I capisaldi possono essere così esposti: 1° Dio si rivela
immediatamente (senza interme- diari) alla coscienza dell’uomo. « Se, dice per
esempio Laberthonniére, l’uomo desidera possedere Dio ed essere Dio, Dio s’è
già dato a lui. Ecco come nella natura stessa possono trovarsi e si trovano le
esi- genze del soprannaturale» (Essais de philosophie religieuse, 1903, pag.
171). Questo principio dimi- nuiva o annullava la distanza fra il dominio della
natura e quello della grazia e anche tra l’uomo e Dio, facendo di Dio il principio
metafisico della coscienza umana. Tale è il fondamento del cosid- 592 detto «
metodo dell’immanenza » cioè di quel me- todo che vuole trovare Dio e il
soprannaturale nella coscienza dell’uomo. 2° Dio è soprattutto un principio
d’azione e l'esperienza religiosa è soprattutto un'esperienza pratica. Questo
punto che deriva anch’esso stretta- mente dall’Azione (1893) di Blondel
equivale a far coincidere la religione con la morale: che è una delle tesi
fondamentali di Loisy (La religion, 1917, pag. 69). 3° I dogmi non sono che
l’espressione simbolica ed imperfetta, perchè relativa alle condizioni sto-
riche del tempo in cui si costituiscono, della vera rivelazione, che è quella
che Dio fa di se stesso alla coscienza dell’uomo. Tale fu il punto di vista che
Loisy difese nel più famoso scritto del M., L’évangile et l’église (1902). 4°
Alla Bibbia vanno applicati senza limita- zione gli strumenti di indagine di
cui dispone la ricerca filologica: il che vuol dire che essa va con- siderata e
studiata come un documento storico dell’umanità, sia pure di carattere
eccezionale e fondamentale. Questa fu la convinzione sia di Loisy sia di coloro
che in Italia accettarono il punto di vista del M. su questo punto e special-
mente di Buonaiuti. 5° Il cristianesimo non può condurre, nel campo della
politica, alla difesa dei privilegi del clero o di altri gruppi sociali ma solo
al progresso e all’ascesa del popolo, la cui vita nella storia è la
manifestazione della stessa vita divina. Tali fu- rono le idee politiche difese
soprattutto da Romolo Murri. Cfr. E. BUONAIUTI, Le modernisme catholique, 1927;
J. Riviére, Le modernisme dans l’église, 1929; Garin, Cronache di filosofia
italiana 1943- 1955, 1956. MODERNO (lat. Modernus; ingl. Modern; franc. Modern;
ted. Modern). Quest’aggettivo, in- trodotto dal latino post-classico e che
significa propriamente « attuale » (da modo = ora) fu ado- perato nella
Scolastica a partire dal sec. xm a indicare la nuova logica terministica,
designata come via moderna di fronte alla via antiqua della logica
aristotelica. Esso designò anche il nomina- lismo che è strettamente connesso
alla logica ter- ministica. Dice, per es., Walter Burleigh: « Sebbene
l’universale non abbia esistenza fuori dell’anima, come dicono i moderni,
tuttavia, ecc.» (Expositio super artem veterem, Venetiis, 1485, f. 59 r;
PRANTI, Geschichte der Logik, III, pag. 255, 299, ecc.). Nel senso storico, in
cui la parola viene oggi solitamente adoperata e in cui in questo dizionario si
parla di « filosofia moderna », essa indica il pe- riodo della storia
occidentale che comincia dopo il Rinascimento cioè a partire dal xvi secolo.
Dal periodo M. si suol spesso distinguere quello MODERNO « contemporaneo +, che
comprende gli ultimi de- cenni. MODIFICAZIONE RIPRODUTTIVA (te- desco Reproduktive
Modifikation). Così Husserl ha chiamato le ripresentazioni delle cose e delle
espe- rienze vissute, che ci sono già state darte una volta nelle loro
peculiari modalità (/deen, I, $ 44). MODO (gr. rtpéroc; lat. Modus; ingl. Mode; franc. Mode;
ted. Modus). Con questo termine sono stati
intesi: 1° Le diverse forme dell’essere predicativo (v. MODALITÀ). 2° Le
determinazioni non necessarie (o non incluse nella definizione di una cosa). In
tal senso il M. era già inteso dalla logica medievale (cfr., ad es., Pierro
IsPano, Sumun. Logic., 1.28). E fu ripreso da Cartesio che intese per M. le
qua- lità secondarie mutevoli delle sostanze e li con- trappose agli arrributi
che costituiscono invece le qualità permanenti o necessarie. « Poichè, egli
disse, non devo concepire in Dio alcuna varietà o muta- mento, io dico che in
lui vi sono, non M. o qua- lità, ma piuttosto attributi; e anche nelle cose
create, ciò che si trova in esse sempre costante, come l’esistenza e la durata
della cosa che esiste e dura, io lo chiamo attributo e non M. o qualità +
(Princ. Phil., I, 56). Questo concetto fu ripetuto da Spinoza (Et., I, def. 5)
e da Wolff il quale dice: «Ciò che non ripugna alle determinazioni essen-
ziali, ma non è determinato da esse, si dice M.» (Ont., $ 148). Dall’altro lato
la Logica di Portoreale definiva il M. non distinguendolo dall’attributo o
dalla qualità come «ciò che, essendo concepito nella cosa, e come tale da non
poter sussistere senza di essa, la determina a essere in una certa maniera e a
farla nominare corrispondentemente » (I, 2). Di questa definizione Locke
accettava la notazione secondo la quale il M. non può sussi- stere
indipendentemente dalla sostanza; e pertanto definiva M. « quelle idee
complesse che, per quanto composte, non contengono in sè la supposizione di
sussistere di per se stesse ma si considerano dipendenze o affezioni delle
sostanze, come sono quelle espresse dalle parole ‘triangolo *, ‘ gratitu- dine
*, ‘omicidio *, ecc. + (Saggio, II, 12, 4). All’ambito dello stesso concetto
appartiene il significato che Spinoza attribuisce al termine, in- tendendolo
come «ciò che è in un’altra cosa e il cui concetto si forma per mezzo di
quest’altra cosa + (Er., I, 8, scol. 2). Tuttavia il M. deriva necessariamente,
secondo Spinoza, dalla natura di- vina e perciò si distingue dall’attributo non
per la sua assenza di necessità ma per la sua particolarità: M. sono le cose
particolari e i singoli pensieri che esprimono gli attributi di Dio, il
pensiero e l'estensione (/bid., I, 25 scol.; II, 1). MONADE 3° Le forme, le
specie, gli aspetti, le determina- zioni particolari di un oggetto qualsiasi.
Questo significato è il più generale e comune e il meno preciso. 4° La
specificazione delle figure del sillogismo a seconda della qualità e della
quantità delle pre- messe (v. FIGURA; SILLOGISMO). MODUS PONENS, MODUS TOLLENS.
Così furono detti, nella logica del ’600, i due modi del sillogismo ipotetico,
in quanto il primo, posto l'antecedente, pone il conseguente (se A è, è B; ma A
è, dunque è 2); e il secondo tolto il con- seguente toglie l’antecedente (se A
è, è B; ma B non è, dunque A non è) (JuncIUS, Logica, 1638, III, 17, 10-11;
WOLFF, Logica, $ 409-10). MOLECOLARE, PROPOSIZIONE (inglese Molecular
Proposition; franc. Proposition molécu- laire; ted. Molekular Satz). Termine
entrato in uso col Tractatus di Wittgenstein, e corrispondente alla propositio
hypothetica della Logica boeziano-scola- stica: è una proposizione formata da
una o più atomiche (v.) legate da certe costanti logiche, come «non», «e», «01,
«implica» («se..., ...1) (nega- zione, congiunzione, disgiunzione,
implicazione), e altre. Nella Logica russelliana alle proposizioni molecolari
corrispondono le proposizioni funzio- . a. P. MOLINISMO. V. GRAZIA.
MOLTEPLICITÀ (gr. và road; ingl. Multipli» city; franc. Multiplicité; ted.
Mannigfaltigkeit). Ciò che è molteplice e vario: i « molti » in contrapposto
all’ uno », sui quali si esercitavano, di preferenza, stando alla testimonianza
di Platone (Fi/., 14d), le discussioni dialettiche del sec. rv avanti Cristo.
Platone stesso stabilì il concetto autentico del mol- teplice, che non è quello
della dispersione illimi- tata, ma quello del numero: il quale, come diceva
Platone, è nello stesso tempo uno e molti perchè è l’ordine di una M.
determinata (Fi/., 18 a-b) {(v. Numero). Il senso di questa parola è ritornato
ad essere quello di una dispersione disordinata in alcuni usi moderni, per es.,
in quello che Kant ne fa come della « materia » della conoscenza cioè del
contenuto sensibile, nel suo stato disordinato o grezzo, indipendentemente
dall’ordine e dalla unità che esso riceve ad opera delle forme a priori della
sensibilità e dell’intelletto (Crir. R. Pura, $ 1). MOLTIPLICAZIONE LOGICA
(ingl. Lo- gical Multiplication; franc. Multiplication logique; ted. Logische
Multiplikation). Nell’ Algebra della Lo- gica (v.) si chiama così l'operazione
«a-b», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle della M. aritmetica
(importantissima l’eccezione «a-a=a+) Interpretata come operazione tra classi,
«4-5» viene a formare la classe contenente tutti e soli gli elementi comuni
alle classi a e d. 38 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 593 Interpretata
come operazione tra proposizioni, «a-b» ne indica l’affermazione congiuntiva,
simul- tanea («a e 51). a. P. MOMENTO (ingl. Moment; franc. Moment; ted.
Moment). 1. Concetto meccanico: l’azione istantanea di una forza su di un
corpo. Così definisce il M. Kant (Metaphysische Anfanesgriinde der
Naturwissenschaft, Nota sulla meccanica; Crit. R. Pura, Analitica dei Principi,
B, in fine). 2. Concetto temporale: una parte minima di tempo, priva di
successione (cfr. Locke, Saggio, II, 14, 10). 3. Concetto dialettico: una fase
o determina- zione del divenire dialettico: per cs., possibilità e
accidentalità sono «i M. della realtà» (HEGEL, Enc., $ 145); la condizione, la
cosa e l’attività sono «i tre M. della necessità» (HEGEL, /bid., $ 148);
l’essere e il nulla sono «i M. del divenire » (HeceL, Wissenschaft der Logik,
I, I, sez. I, cap. I, C, nota 2; trad. ital., vol. I, pag. 87 sgg.); ecc.
Questo concetto del M. come fase dialettica è il più comune nella filosofia
contemporanea. 4. Concetto logico: fase o stadio di una dimo- strazione o di un
ragionamento qualsiasi. MONADE (lat. Monas; ingl. Monad; franc. Mo- nade; ted. Monade). In quanto ha significato di- stinto da quello di
Unità (v.), il termine designa un’unità reale inestesa, quindi spirituale.
Giordano Bruno adoperò per primo il termine in questo senso, concependo la M.
come il minimum, cioè l’unità indivisibile, costituente l’elemento di tutte le
cose (De Minimo, 1591; De Monade, 1591). Il termine fu ripreso nello stesso
senso dai neoplato- nici inglesi e specialmente da H. More che elaborò il
concetto delle « M. fisiche », inestese, perciò spi- rituali, come componenti
della natura (Enchiridion Metaphysicum, 1679, I, 9, 3). A partire dal 1696
Leibniz si avvale del termine per designare la sostanza spirituale in quanto
componente semplice dell’universo. La M. è, secondo Leibniz, un atomo
spirituale, una sostanza priva di parti e di esten- sione, quindi indivisibile.
Come tale non si può disgregare ed è eterna: solo Dio può crearla 0 annullarla.
Ogni M. è diversa dall'altra giacchè non vi sono in natura due esseri
perfettamente uguali (v. IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI). Ogni M. costituisce un
punto di vista sul mondo ed è quindi tutto il mondo da un determinato punto di
vista (Monadologie, 1714, $ 57). Le attività fondamentali della M. sono la
percezione e l’appetizione; ma le M. hanno infiniti gradi di chiarezza e
distin- zione: quelle fornite di memoria costituiscono le anime degli animali e
quelle fornite di ragione costituiscono gli spiriti umani. Ma anche la ma-
teria è costituita da M.: almeno la materia seconda; giacchè la materia prima è
la semplice potenza 594 passiva o forza di inerzia (Op., ed. Gerhardt, III,
pag. 260-61). La totalità delle M. è l’universo. Dio è «l'unità primitiva o la
sostanza semplice origi- naria di cui tutte le M. create o derivate sono pro-
duzioni e nascono, per così dire, per fulgurazione continua dalla divinità di
momento in momento » (Mon., $ 47). I tratti di questa dottrina di Leibniz
ricorrono uniformemente ogni qualvolta i filosofi fanno ri- corso al concetto
di monade. E ricorrono anche, sostanzialmente, nelle dottrine metafisiche dello
spi- ritualiimo contemporaneo. Si consideri il sapore leibniziano del passo
seguente di Husserl: «La costituzione del mondo obiettivo comporta essen-
zialmente un’armonia di M., più precisamente una costituzione armoniosa
particolare in ciascuna M. e per conseguenza una genesi realizzantesi armo-
niosamente nelle M. particolari » (Carr. Med., $ 49) (v. SPIRITUALISMO).
MONADOLOGIA (ingl. Monadology; fran- cese Monadologie; ted. Monadologie). Con
questo termine Leibniz intitolò la breve esposizione del suo sistema che
compose a richiesta del Principe Eugenio di Savoia nel 1714. Il termine è
rimasto a designare la dottrina delle monadi. Kant inti- tolò M. Physica un suo
scritto del 1756. E il termine da allora ricorre frequentemente (cfr., ad es.,
RENOUVIER e PRAT, Nouvelle Monadologie, 1899). MONARCHIA. V. Governo, FORME DI.
MONARCHISMO. V. MopaLISMO. MONARCOMACO (ingl. Monarchomachist ; franc.
Monarchomachiste; ted. Monarchomache). Così furono detti nel sec. xvm i seguaci
del di- ritto naturale, in quanto combattevano l’assolu- tismo monarchico. Il
nome ricorre per la prima volta nel titolo dell’opera del cattolico scozzese
GUGLIELMO BARKLAY, De regno et regali potestate adversus Buchananum, Brutum,
Boucherium, et re- liquos monarcomachos, Parigi, 1600. MONASTICO. Vico chiamò
filosofi M. o so- litari gli Stoici e gli Epicurei in quanto « vogliono
l’ammortimento dei sensi», e « niegano la provvi- denza, quelli faccendosi
strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che
muoiano l’anime umane coi corpi ». Ai filosofi M. Vico contrappose i filosofi
politici e specialmente i Platonici che convengono coi legislatori nell’ammet-
tere la provvidenza e l'immortalità nonchè la modera- zione delle passioni
(Scienza Nuova, 1744, Degnità V). MONDANO (gr. xoapx6c; ingl. Worldly, Mun- dane; franc.
Mondain; ted. Weltlich). Questo
ag- gettivo si adopera quasi esclusivamente in corri- spondenza del significato
e) di mondo, vale a dire designa ciò che appartiene al campo di attività, di
interessi o di comportamenti che sono estranei alla vita religiosa e talvolta
in antagonismo con MONADOLOGIA ensibile », cioè attingibile dagli organi
sensori o « M. intellettuale » cioè attingibile da strumenti intellettuali. In
questo senso si parla pure di « M. ambiente» per indicare l’insieme delle
relazioni di un essere vivente con le cose circostanti o la situazione in cui
si trova; ma la parola non ha significato diverso da am- biente (v.); c) la
totalità di una cultura come quando si dice «M. antico » o «M. moderno » o «M.
pri- mitivo » o «M. civile»; d) una totalità geografica come quando si dice «
Nuovo M.+ per designare l’America o « Vecchio M. » per designare il Conti-
nente antico; e) la totalità di ciò che è estraneo alla religione. In questo
senso la parola è costante- mente adoperata nel Nuovo Testamento (Mattàh., 4,
8; XVI, 26; Joan., I, 10; VII, 7; XII, 31; ecc.); e la «sapienza del M.» viene
contrapposta come stoltezza alla sapienza di Dio (/ Cor., I, 20). La nozione di
M. in questo senso è comune a tutti gli scrittori cristiani; ed ad essa si fa
anche riferi- mento quando si chiamano «sapienti del M.» co- loro che «si
avvalgono della ragione naturale », come fa Ockham (Suruna logicae, III, 1). Di
questi significati, i più specificamente filoso- fici sono i primi due, che si
riflettono in tutti gli altri. Il significato d) è puramente amplificativo o
retorico, il significato e) puramente religioso. Si possono pertanto
distinguere tre concetti fonda- mentali di M.: 1° il M. come ordine totale; 2°
il M. come totalità assoluta; 3° il M. come totalità di campo. I significati 1°
e 2° sono articolazioni del significato a); il significato 3° è il significato
6). 1° Si dice che per primo Pitagora abbia chia- mato cosmo il M. per
contrassegnare l'ordine di esso (StoBEO, Ecl., 21, 450; Fr. 21, Diels); certo è
che questa è l’interpretazione del concetto pre- valente nella filosofia greca.
Platone la accetta (Gorg., 508 a). E Aristotele, che distingue il tutto (tè
rav) nel quale la disposizione delle parti può MONDO mutare, dalla totalità (cò
&Xov) in cui le parti hanno posizioni fisse (Met., V, 26, 1024 a 1), dice a
pro- posito del M.: « Se la totalità del corpo, che è un continuo, è ora in
questo ordine o in questa disposizione ora in un’altra, e se la costituzione
della totalità è un M. o un cielo, allora non sarà il M. che si genera e si
distrugge ma solo le sue disposizioni + (De Cael., I, 10, 280a 19). Aristo-
tele intende dire in questo passo che il M. è la costituzione (o struttura)
della totalità (il suo or- dine) e che tale costituzione o struttura rimane
immutata anche se le sue singole parti si dispon- gono diversamente. Ciò
equivale a definire il M. come l’ordine immutabile dell’universo. Analoga-
mente gli Stoici distinguevano l'universo (tò rv) come la totalità di tutte le
cose esistenti, compreso il vuoto, dal M., considerato come «il sistema del
cielo e della terra e degli esseri che sono in essi »: nel quale senso il M. è
Dio stesso (STOBEO, Ecl., I, 421, 42 sgg.). Questa interpretazione del M. pre-
valse nell’antichità e fu adottata dalla filosofia cri- stiana la quale trovava
in essa un opportuno punto di partenza per le dimostrazioni dell’esistenza di
Dio (cfr., per es., AGOSTINO, De Ordine, I, 2). Essa entrò in crisi soltanto
quando la nozione di ordine co- minciò a incorporarsi con quella di natura più
che con quella di M.: il concetto di totalità ebbe allora il sopravvento. 2° I
primi ad esporre il concetto del M. come totalità che abbraccia ogni cosa
furono gli Epicurei. « Il M., diceva Epicuro, è la circonferenza del cielo che
abbraccia gli astri e la terra e tutti i fenomeni + (Dioc. L., X, 88). Ma solo
nella filosofia moderna questo concetto prevalse soppiantando interamente
quello più antico del M. come ordine. Dice Leibniz: «Chiamo M. tutta la serie e
tutta la collezione di tutte le cose esistenti, affinchè non si dica che più M.
possano esistere in diversi tempi e luoghi. Bisognerebbe infatti contarli tutti
insieme per un solo M. o, se preferite, per un solo universo » (Théod., I, $
8). Da questo punto di vista il M. è «l’insieme totale delle cose contingenti»
(/bid., I, $ 7); e l’elaborazione successiva del concetto ha specialmente
insistito su questo concetto di totalità assoluta. Pertanto le due nozioni di,
universo e di M. che gli antichi tendevano a distinguere l'una dall’altra
vengono considerate coincidenti. Dice Wolff: «La serie degli enti finiti sia
simultanei che successivi, tra loro connessi, si dice M. o anche universo »
(Cosmol., $ 48). A sua volta Baumgarten chiarisce meglio il senso della totalità
assoluta, affermando che essa non può essere parte di altra totalità. « Il M.,
egli dice, è la serie (la moltitudine, la totalità) dei finiti reali la quale
non è parte di un'altra serie» (Mer., $ 354). Una determinazione che veniva
ripetuta da Crusius: « Il M. è un reale 595 concatenamento di cose finite tale
da non essere a sua volta parte di un altro, a cui appartenga in virtù d’un
reale concatenamento » (Entwurf der notwendigen Vernunft-Wahrheiten, 1745, $
350). È questo il concetto che viene criticato nella dialet- tica
trascendentale di Kant. Kant osservava che la parola M. «nel senso ni si passa
alla richiesta della totalità delle condizioni, che è l’incondizionato o M. e
non è più niente di empirico (/bid., sez. 7). Non c’è quindi da meravigliarsi
che la nozione di M., fondata com'è su un procedimento sofistico, dia luogo ad
antinomie irresolubili: antinomie che concernono la finità o l'infinità del M.,
il suo cominciamento o non cominciamento nel tempo, l’esistenza o non esistenza
di parti semplici in esso e la presenza o l’assenza della libertà (v. ANTI-
NOMIE KANTIANE). La soluzione di tali antinomie si ha, secondo Kant, soltanto
rinunciando alla nozione stessa di M. o considerando tale nozione sempli-
cemente come una regola della conoscenza empi- rica; e precisamente come la
regola che « esige il regresso nella serie delle condizioni dei dati feno-
menici, un regresso nel quale non sia mai dato di arrestarsi a qualcosa di
assolutamente incondizio- nato» (/bid., sez. 8). Da questo punto di vista il M.
non è una realtà ma « un principio regolativo della ragione ». Questa critica
di Kant è, si può dire, rimasta decisiva. È ben vero che cercano di
dimenticarla non solo le dottrine che costituiscono sopravvivenze della
metafisica teologica ma anche dottrine cosmo- logiche moderne, sedicenti
«scientifiche » che specu- lano sul M. e sulla creazione (v. CosmoLogia). Ma è
anche vero che queste dottrine s’imbattono subito in antinomie insolubili, che
riproducono quelle kan- tiane, non appena fanno appello al concetto del M. come
totalità assoluta. In realtà ciò di cui la scienza può parlare è soltanto il M.
osservabile 596 inteso come «il più inclusivo insieme di oggetti astronomici
che possa essere identificato con l’aiuto degli strumenti disponibili ad un
dato tempo» (M. K. MunITZ, Space, Time and Creation, 1957, pag. 93). Ma in
questo senso il M. è una to- talità di campo, non una totalità assoluta. 3° La
terza interpretazione del concetto di M., che è in regola con la critica
kantiana, s’identifica con quello che abbiamo enunciato come signifi- cato 5):
per esso il M. è la totalità di un campo o di più campi di attività o di
indagine o di rela- zioni. Da questo punto di vista, la parola M. senza
aggettivi non designa una totalità assoluta ma semplicemente l’insieme di un
campo specifico, che è quello dell’astronomo o del cosmologo. In questo senso,
la parola è perfettamente analoga a ciò che la «materia» è per il fisico o la
«vita» per il biologo: l’indicazione di un campo generico determinato dal
convergere o dal sovrapporsi di un determinato gruppo di tecniche di ricerca
(M. K. MuUNITZ, Op. cif., pag. 69). In generale, da questo punto di vista, può
dirsi che la nozione designa « un insieme di campi definiti da tecniche
relativamente compatibili e in qualche misura con- vergenti. Possiamo così
parlare del ‘ M. naturale * come dell'insieme dei campi coperti dalle scienze
naturali nella misura in cui le loro tecniche sono relativamente compatibili e
convergenti; o di ‘ M. storico * come dell’insieme dei campi in cui pos- sono
essere adoperate le tecniche dell’indagine sto- riografica; ecc. » (ABBAGNANO,
Possibilità e libertà, 1956, pag. 154-55). A questa stessa nozione si ricollega
quella data da Heidegger ed accettata dalla filosofia esistenzia- listica, del M.
come il campo costituito dalle rela- zioni dell’uomo con le cose e con gli
altri uomini. «È egualmente erroneo, dice Heidegger, assumere l’espressione M.
tanto per designare la totalità delle cose naturali (concetto del M.
naturalistico) O per indicare la comunità degli uomini (concetto
personalistico), Ciò che di metafisicamente essen- ziale contiene il
significato più o meno chiaro di M. è che esso mira all’interpretazione
dell’Esserci umano nel suo rapportarsi all’ente nel suo insieme » (Vom Wesen
des Grundes, 1929, I; trad. ital., pag. 53). Ovviamente, da questo punto di
vista, la parola M. fa parte integrante dell’espressione « essere nel M.» che
designa il modo d’essere che è proprio dell’uomo in quanto « è situato nel
mezzo dell'ente come rapportantesi all'ente» cioè è in rapporto essenziale con
le cose e con gli altri uomini. M. significa, in tal caso, l’insieme delle
relazioni tra l’uomo e gli altri esseri: la totalità di un campo di relazioni
(v. TUTTO; UNIVERSO). MONDO DELLA VITA (ted. Lebenswelt). Termine introdotto da
Husserl nella Krisis per de- MONDO DELLA VITA signare «il mondo in cui viviamo
intuitivamente, con le sue realtà, così come si dànno, dapprima nella semplice
esperienza poi anche nei modi in cui esse diventano oscillanti nella loro
validità (oscil- lanti tra l’essere e l'apparenza ecc.)» (Krisis, $ 44).
Husserl contrappone tale mondo a quello to della loro dottrina, il termine è
stato costan- temente monopolizzato dai materialisti; e quando è usato senza
aggettivo designa appunto il materia- lismo. Ciò è probabilmente dovuto al
fatto che esso fu adottato da uno dei più popolari autori di scritti
materialistici cioè dal biologo Ernesto Haeckel (Der Monismus als Band zwischen
Religion und Wissenschaft, 1893). In questo senso il termine, fu adoperato nel
nome della Associazione Monistica Tedesca (Deutsche Monistenbund) fondata nel
1906 da Haeckel e da Ostwald; nonchè nel titolo di una delle più antiche
riviste filosofiche americane The Monist fondata nel 1890 da Paul Carus.
MONOFILETISMO (ingl. Monophyletism; franc. Monophylétisme; ted.
Monophyletismus). La dottrina secondo la quale tutte le specie viventi derivano
da un unico ceppo originario. La dottrina contraria si chiama polifiletismo.
MONOFISISMO (ingl. Monophysism; fran- cese Monophysisme; ted. Monophysismus).
Un’in- terpretazione eretica del dogma cristiano dell’Incar- nazione: il Verbo
o Cristo avrebbe una sola natura, quella divina. Tale interpretazione fu
sostenuta nel sec. v da Eutiche, in opposizione al resroriane- simo (v.) che
sosteneva l’eresia opposta; e fu condan- nata dal Concilio di Calcedonia del
451. MONOGENISMO (ingl. Monogenism; fran- cese Monogénisme; ted. Monogenismus).
La dottrina secondo la quale tutte le razze umane viventi discen- dono da un
unico ceppo. La dottrina contraria si chiama poligenismo. MORTE MONOPSICHISMO
(ingl. Monopsychism; franc. Monopsychisme; ted. Monopsychismus). La dottrina
averroistica dell’unità dell’anima intellettiva in tutti gli uomini. V.
INTELLETTO ATTIVO. MONOSILLOGISMO (ingl. Monosyllogism; franc. Monosyllogisme;
ted. Monosyllogismus). Ra- gionamento costituito da un solo sillogismo, così
detto in opposizione a polisillogismo (v.). MONOTEISMO (ingl. Monotheism;
franc. Monothéisme; ted. Monotheismus). La dottrina dell’unicità di Dio. V.
DIO, 3°, 5). MONOTELETISMO (ingl. Monotheletism; franc. Monothélétisme; ted.
Monotheletismus). Inter- pretazione eretica del dogma dell’incarnazione,
secondo la quale esiste in Cristo una sola volontà, quella divina, che
costituisce il tratto d’unione delle due nature che sono in lui, la divina e
l’umana. Tale eresia fu sostenuta dal patriarca di Costanti- nopoli Sergio nel
sec. vi e condannata dal VI Con- cilio ecumenico nel 680. MONTANISMO (ingl.
Montanism; franc. Mon- tanisme; ted. Montanismus). Setta religiosa cristiana
del r secolo detta così dal nome del suo fondatore Montano, ex sacerdote di
Cibele. Montano inten- deva trasferire nel cristianesimo il culto entusiastico
della sua setta di provenienza: i montanisti vivevano in continua agitazione
nell’attesa dell’imminente ritorno del Cristo. Tertulliano appartenne per un
certo tempo a questa setta. MONUMENTALE, STORIA. V. ArcHEo- LOGICA, STORIA.
MORALE (lat. Moralia; ingl. Morals; franc. Mo- rale; ted. Moral). 1. Lo stesso
che Etica. 2. L’oggetto dell’etica, la condotta in quanto diretta o
disciplinata da norme, l’insieme dei mores. In questo significato la parola è
adoperata nelle seguenti espressioni: «la morale dei primitivi» «la morale
contemporanea », ecc. MORALE (gr. 866; lat. Moralis; ingl. Moral; franc. Moral;
ted. Moral). Questo aggettivo ha in primo luogo i due significati
corrispondenti a quelli del sostantivo morale e cioè 1° attinente alla dot-
trina etica, 2° attinente alla condotta e quindi suscet- tibile di valutazione
M.: e, specialmente, di valu- tazione M. positiva. Così non soltanto si parla
di atteggiamento M. o di persona M. per indicare un atteggiamento o persona
moralmente valutabile ma anche si intendono con le stesse espressioni cose
positivamente valutabili cioè buone. L’aggettivo ha avuto poi in inglese,
francese, ita- liano, e ancora conserva in certe espressioni, il significato
generico di « spirituale». Hegel ricordava questo significato in riferimento al
francese (Enc., $ 503). E ancora tale significato rimane, per esempio,
nell’espressione «scienze morali», che sono le «scienze dello spirito ». 597
MORALISMO (ingl. Moralism; franc. Mora- lisme; ted. Moralismus). 1. La dottrina
che fa dell’at- tività morale la chiave per l’interpretazione di tutta la
realtà. Il termine fu adoperato in questo senso da Fichte nella esposizione
della Wissenschaftslehre del 1801 ($ 26 in Werke, II, pag. 64)e fu ripreso e
dif- fuso da scrittori francesi della fine del secolo scorso. 2. Nel linguaggio
comune e, sempre più fre- quentemente, in quello filosofico il termine designa
l’atteggiamento di chi si compiace di moralizzare su ogni cosa, senza sforzarsi
di comprendere le situa- zioni cui il giudizio morale va riferito. In questo
senso il M. è un formalismo o conformismo morale, che ha poca sostanza umana.
Cfr. A. BANFI, « M. e moralità », L'uomo copernicano, 1950, pag. 279 sgg.
MORALITÀ (lat. Moralitas; ingl. Morality; franc. Moralité; ted. Moralitàt). Il
carattere proprio di tutto ciò che si conforma alle norme morali. Kant ha
contrapposto la M. alla legalità. Quest’ul- tima è il semplice accordo e
disaccordo di un’azione con la legge morale senza riguardo al movente del-
l’azione stessa. La M. consiste invece nell’assumere come movente di azione
l’idea stessa del dovere (Me- taphysik der Sitten, I, Intr.,$ 3; Crit. R.
Prat.,I, 1, 3). Marco Aurelio, è il riposo dai contraccolpi dei sensi, dai
movimenti impulsivi che ci tirano qua e là come marionette, dalle divagazioni
dei nostri ragionamenti, dalle cure che dobbiamo avere per il corpo» (Ricordi,
VI, 28). Leibniz concepiva la fine del ciclo vitale come diminuzione o involu-
zione della vita. « Non si può, egli diceva, parlare di generazione totale o di
morte perfetta, intesa rigoro- samente come separazione dell’anima. Ciò che
chia- miamo generazioni sono sviluppi e accrescimenti e ciò che chiamiamo morti
sono involuzioni e dimi- nuzioni » (Mon., $ 73). Con la M., in altri termini,
la vita diminuisce e scende a un livello inferiore a quello dell’appercezione o
coscienza, in una specie di «stordimento +, ma non cessa (Principes de la
nature et de la gràce, 1714, $ 4). A sua volta, Hegel considera la morte come
la fine del ciclo dell’esistenza individuale o finita per la sua impossibilità
di ade- i all’universale. « La inadeguatezza dell’animale all’universalità,
egli dice, è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte. La
negazione di questa inadeguatezza è appunto l’adempimento del suo destino »
(Enc., $ 375). Infine il concetto biblico della M. come pena del peccato
originale (Gen., II, 17; Rom., V, 12) è, nello stesso tempo, il concetto di
essa come conclusione del ciclo della vita umana perfetta in Adamo e il
concetto di una limitazione fondamentale che la vita umana ha subito a partire
dal peccato di Adamo. Dice S. Tommaso a questo proposito: « La M., la malattia
e qualsiasi difetto corporeo dipende da un difetto nell’assog- gettamento del
corpo all’anima. E come la ribellione dell’appetito carnale allo spirito è la
pena del peccato dei primi genitori, tale è anche la M. ed ogni altro difetto
corporeo» (S. 7h., II, 2, q.164, a.l). Ma questo secondo aspetto, che è proprio
della teologia cristiana, appartiene propriamente al con- cetto della M. come
possibilità esistenziale. c) Il concetto della M. come possibilità esi-
stenziale implica che la M. non sia un evento MOTIVO particolare, situabile
all’inizio o al termine di un ciclo di vita proprio dell’uomo, ma una
possibilità sempre presente alla vita umana e tale da deter- minare le
caratteristiche fondamentali di essa. Alla considerazione della M. in questo
senso ha avviato, nella filosofia moderna, la cosiddetta filosofia della vita e
specialmente Dilthey. «Il rapporto che ca- ratterizza in modo più profondo e
generale il senso del nostro essere, egli ha detto, è quello della vita con la
M., perchè la limitazione della nostra esistenza mediante la M. è decisiva per
la comprensione e la valutazione della vita» (Das Erlebnis und die Dichtung, 5*
ediz., 1905, pag. 230). L’idea importante espressa qui da Dilthey è che la M.
costituisca « una limitazione dell’esistenza » non già in quanto ne costituisce
il termine ma in quanto costituisce una condizione che accom- pagna tutti i
momenti di essa. Questa concezione che riproduce in qualche modo, sul piano
filoso- fico, la concezione della M. della teologia cristiana, è stata espressa
da Jaspers col concetto della situa- zione-limite: cioè di una «situazione
decisiva, es- senziale, che è collegata con la natura umana in quanto tale ed è
inevitabilmente data con l’essere finito» (Psychologie der Weltanschauungen,
1925, III, 2; trad. ital., pag. 266; cfr. Phil., II, pag. 220 sgg.).
Rifacendosi a questi precedenti, Heidegger ha con- siderato la M. come
possibilità esistenziale. « La M., egli ha detto, come fine dell’Esserci, è la
pos- sibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e, come tale,
indeterminata e insuperabile » (Sein und Zeit, $ 52). Da questo punto di vista,
cioè come possibilità, «la M. non offre niente da rea- lizzare all'uomo e
niente che possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità
dell’impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere » (/bid., $ 53). E poichè
la M. può essere compresa solo come possibilità, la sua comprensione non è nè
l’attesa di essa nè il fuggire di fronte ad essa, il « non pen- sarci », ma l’anticipazione
emotiva di essa, l’an- goscia (v.). L'espressione usata da Heidegger nel
definire la M. «la possibilità dell’impossibilità » può a buon diritto apparire
contraddittoria. Essa è suggerita a Heidegger dalla sua dottrina della im-
possibilità radicale dell’esistenza: la M. è la mi- naccia che tale
impossibilità fa incombere sull’esi- stenza medesima. Se si vuol prescindere da
questa interpretazione dell’esistenza in termini di necessità negativa, si può
dire che la M. è «la nullità pos- sibile delle possibilità dell’uomo e
dell’intera forma dell’uomo » (ABBAGNANO, Struttura dell’ esistenza, 1939, $
98; cfr. Possibilità e libertà, 1956, pag. 14 seguenti). Poichè ogni
possibilità può, come pos- sibilità, non essere, la M. è la nullità possibile
di ognuna e tutte le possibilità esistenziali; in questo senso, Merleau-Ponty
dice che il senso della M. è la «contingenza del vissuto», cioè «la minaccia
per- petua per i significati eterni in cui esso crede di esprimersi per intero
» (Structure du comportement, 1942, IV, II, $ 4). MOTIVAZIONE (ingl.
Morivation; franc. Mo- tivation; ted. Motivation). 1. La causalità del motivo.
Schopenhauer per primo ha nettamente distinto questa forma della causalità
dalle altre tre che sono: la causalità della causa, la causalità della ragione,
e la causalità della ragion d’essere (Ueber die vierfache Wurzel des Satzes vom
zureichenden Grunde, 1813, $ 20, 29, 36). Dice Schopenhauer: «L’efficienza del
motivo viene ad essere conosciuta da noi non solo dal di fuori, come quella di
tutte le altre cause e perciò solo mediatamente, ma anche dall’interno, in modo
immediato... Di qui risulta l’importante proposizione: la M. è la cau- salità
vista dall’interno... Bisogna perciò proporre la M. come una forma speciale del
principio di ragion sufficiente dell’agire cioè come legge della M.» (Vierfache
Wurzel, $ 43). Anche senza il carattere privilegiato che Schopenhauer le
ricono- sceva come rivelazione immediata del modo di agire intrinseco della
causalità, la M. è rimasta a indicare l’azione determinante del motivo, quali
che siano i limiti che si pongano a tale deter- minazione. I problemi della M.
sono da un lato di natura psicologica e concernono il modo di agire dei motivi
in quanto si presta ad essere os- servato dagli strumenti di cui la psicologia
dispone; dall’altro lato, sono di natura filosofica in quanto concernono i
limiti o le modalità della determina- zione e quindi la libertà e il
determinismo (v.). 2. Husserl ha chiamato M. le connessioni del- l’esperienza
che condizionano la possibilità della sperimentazione ulteriore. « La
sperimentabilità, egli ha detto, non significa una vuota possibilità logica ma
una possibilità motivata dalla connessione del- l’esperienza. Questa è via via
una catena di M. in quanto assume sempre nuove M. e trasforma quelle già
formate » (/deen, I $ 47). MOTIVO (ingl. Motive; franc. Motif; te- desco
Motiv). La causa o la condizione di una scelta, cioè di una volizione o di
un’azione. Il M. può essere più o meno chiaramente riconosciuto da colui sul
quale agisce: si chiama talvolta mo- vente (franc. Mobile; ted. Triebfeder) il
M. che non ha carattere « razionale » cioè che non può essere considerato come
una «ragione» della scelta. Già Aristotele aveva detto: « Poichè ci sono tre
cose: primo, il motore; secondo, ciò con cui muove; e terzo, ciò che è mosso,
si ha che il motore im- mobile è il bene pratico, il motore che è anche mosso è
la facoltà appetitiva, e ciò che è mosso è l’animale » (De An., III, 10, 433 b
14). Il M. è inteso qui come un motore unico e immutabile che 600 è il bene, il
fine cui tende la vita dell’animale. Ma nel mondo moderno di un motore in
questo senso non si parla più e si parla invece di motivo. Wolff intendeva con
questo termine « la ragione suf- ficiente della volizione o della nolizione »
(Psychol, empirica, $ 887): una definizione che, si può dire, non ha subìto
mutamenti, tranne che nel diverso grado di determinazione attribuito al motivo.
Il problema di questi diversi gradi di determinazione è il problema della
/ibertà (v.). Dall'altro lato, l’importanza del concetto di M. per la
spiegazione della condotta umana è stata talvolta messa in dubbio nella
filosofia contemporanea. Dewey, per es., ha affermato che «l’intero concetto di
M. è in verità extrapsicologico ». Nessuna persona di buon senso attribuisce
gli atti di un animale o di un idiota ad un M.; ed è assurdo chiedere che cosa
induce un uomo all’attività. « Ma quando abbiamo bisogno di condurlo ad agire
in un modo specifico piuttosto che in un altro, quando vo- gliamo dirigere la
sua attività in una direzione specifica, allora la questione del M. è
pertinente. Il M. è allora l’elemento del complesso totale del- l’attività
umana che, se sufficientemente stimolato, darà luogo a un atto avente
conseguenze specifiche ». In altri termini il M. è piuttosto che un fattore di
spiegazione della condotta umana, uno stru- mento per orientarla e guidarla
(Human Nature and Conduct, pag. 119-20). MOTORE. V. Dio, Prove DI; MOVIMENTO.
MOVENTE. V. Motivo. MOVIMENTO (gr. x(vnow; lat. Motus; in- glese Motion; franc.
Mouvement; ted. Bewegung). 1. In generale, un mutamento o processo di qual-
siasi specie. Questo significato corrisponde a quello del termine greco.
Platone distingueva due specie di M., l’alterazione e la traslazione (7eer.,
181 d); Aristotele ne distingueva quattro e cioè, oltre le due precedenti, il
M. sostanziale (generazione e corruzione) e il M. quantitativo (aumento e dimi-
nuzione) (Fis., III, 1, 201a 10). Per le singole specie del M., v. le voci
relative. Il M. in generale fu definito da Aristotele come «l’entelechia di ciò
che è in potenza » (Fis., III, l, 201 a 10): definizione che è rimasta celebre
nei secoli. Essa vuol dire che il M. è la realizzazione di ciò che è in
potenza: ad es., la costruzione, l’apprendimento, la guarigione, la crescita,
l’invec- chiamento, sono realizzazioni di potenzialità (/bid., 201 a 16). Nel
M. così inteso la parte fondamen- tale è quella del motore, dal cui contatto si
genera il movimento. « Quale che sia il motore, dice Ari- stotele, esso sempre
apporterà una forma — so- stanza particolare o qualità o quantità — che sarà
principio e causa del M., quando il motore muo- verà; al modo in cui
l’entelechia nell'uomo fa dell’uomo in potenza un uomo» (/id., III, 2, 202 a
8). La fisica aristotelica è, dal principio alla fine, una teoria del M. in
questo senso (v. Fisica). Il suo teorema fondamentale « tutto ciò che si muove
è mosso da qualcosa » (/bid., VII, 1, 256a 14) porta alla teoria del primo
motore immobile dell’universo (v. Dio, Prove DI). 2. In senso specifico, il M.
locale o traslazione. Aristotele afferma la priorità di questo M. sugli altri
tre. Gli altri M. possono infatti essere ridotti a quest’ultimo, che dall’altro
lato è il solo che può appartenere alle cose eterne cioè agli astri (Fis.,
VIII, 7, 260b). Le specie del M. locale ca- ratterizzano, secondo Aristotele
gli elementi del- l’universo, compreso quello costitutivo delle so- stanze
celesti cioè l’etere, che si muove di M. circolare (v. Fisica). Questa dottrina
del M. è rimasta per lungo tempo immutata perchè tutta la filosofia antica e
medievale l’ha ripetuta senza mo- difiche sostanziali. Una teoria del M. che
ebbe fortuna nell’ultimo periodo della scolastica è quella elaborata da Duns
Scoto, della forma fluente. Se- condo Duns Scoto, un corpo che si muove
acquista ad ogni istante qualcosa: ma non il luogo, che non è un suo attributo
ma risiede nei corpi che lo attorniano, bensì piuttosto una specie di deter-
minazione qualitativa, analoga al calore che è acquisito dal corpo che si riscalda.
Questa deter- minazione è il dove (ubi). Il M. è quindi la perdita o
l'acquisizione continua del dove e in questo senso è una « forma fluente »
(Quod!., q. 11, a. 1). La dottrina veniva criticata dalla scolastica della fine
del ’200 e del *300. Ockham la sottometteva a una critica radicale,
considerando il M. come il mutamento del rapporto di un corpo con i corpi
circostanti (Quod?., VII, q. 6). Questo era il con- cetto che doveva prevalere
nell’età moderna ad opera della scienza. Cartesio l’esprimeva nel modo
seguente: « Il M. è il trasporto di una parte della materia o di un corpo dalla
vicinanza dei corpi che lo toccano immediatamente e che consideriamo in riposo,
alla vicinanza di altri corpi» (Prince. Phil., II, 25). Sul concetto del M.
nella scienza contemporanea, v. RELATIVITÀ. MUSICA (gr. uovowi téixvn; lat.
Musica; in- glese Music; franc. Musique; ted. Musik). Due sono le definizioni
filosofiche fondamentali che sono state date della musica. La prima è quella
che la con- sidera come la rivelazione all'uomo di una realtà privilegiata e
divina: rivelazione che può assumere o la forma della conoscenza, o quella del
senti- mento. La seconda è quella che la considera come una tecnica o un
insieme di tecniche espressive, che concernono la sintassi dei suoni. 1° La
prima concezione, che passa per essere la sola « filosofica » ma che veramente
è metafisica o teologizzante, consiste nel ritenere che la M. è una scienza o
un’arte privilegiata in quanto ha per oggetto la realtà suprema o divina o una
sua caratteristica fondamentale. Di questa concezione si possono distinguere
due fasi: a) la prima vede l’oggetto della M. nell’armonia come caratteristica
divina dell’universo e considera pertanto la M. come una delle scienze supreme.
5) Per la seconda l'oggetto della M. è lo stesso principio cosmico (Dio, o la
Ragione autocosciente, o la Volontà infinita, ecc.) e la M. è l’autorivelazione
di questo principio nella forma del sentimento. Entrambe queste concezioni
hanno un tratto fondamentale in comune: la separazione della M., come arte «
pura », dalle tecniche in cui essa si realizza. Pla- tone polemizza contro i
musici che vanno alla ri- cerca di nuovi accordi sugli strumenti (Rep., VII,
531 b) e così fa pure Plotino. Schopenhauer e Hegel parlano della « essenza »
della M., della sua natura universale ed eterna, in quanto è separabile dai
mezzi espressivi nei quali essa prende corpo come fenomeno artistico. a) La
dottrina della M. come scienza dell’ar- monia e dell’armonia come ordine divino
del cosmo è nata coi Pitagorici. «I Pitagorici, che Platone segue spesso,
dicono che la M. è armonia di con- trari e unificazione dei molti e accordo dei
discor- danti » (FinoLao, Fr., 10, Diels). La funzione e i caratteri
dell'armonia musicale sono gli stessi che la funzione e i caratteri
dell'armonia cosmica: la M. è perciò il mezzo diretto per elevarsi alla co-
noscenza di questa armonia. Platone pertanto in- cludeva la M. fra le scienze
propedeutiche al quarto posto (dopo l’aritmetica, la geometria piana e so- lida
e l’astronomia) e quindi la considerava la più vicina alla dialettica e la più
filosofica (Fed., 61 a). Come scienza autentica tuttavia la M. non con- siste,
secondo Platone, nel cercare con l’orecchio nuovi accordi sugli strumenti: in
questo modo si anteporrebbero gli orecchi all’intelligenza (Rep., VII, 531 a).
Coloro che così fanno «si regolano come gli astronomi perchè cercano i numeri
negli accordi accessibili all’udito ma non risalgono ai problemi, non indagano
quali numeri siano armo- nici e quali no e donde venga la loro differenza »
(Ibid., VII, 531 b-c). Per questa possibilità di pas- sare dai ritmi sensibili
all’armonia intelligibile, la M. è ritenuta da Plotino una delle vie per ascen-
dere a Dio. « Dopo le sonorità, i ritmi e le figure percepibili dai sensi, egli
dice, il musico deve pre- scindere dalla materia nella quale si realizzano gli
accordi e le proporzioni e attingere la bellezza di essi in se stessi. Deve
apprendere che le cose che lo esaltavano sono entità intelligibili: tale è
infatti l'armonia: la bellezza che è in essa è la bellezza assoluta, non quella
particolare. Per questo, egli 601 deve servirsi di ragionamenti filosofici che
lo con- ducono a credere a cose che aveva in sè senza saperlo » (Enn., I, 3,
1). Furono queste le considerazioni che portarono a includere la M. nel novero
delle «arti liberali » ritenute fondamentali per tutto il Medioevo. S. Ago-
stino espone il passaggio della M. dalla fase della sensibilità, in cui essa si
occupa dei suoni, alla fase della ragione in cui diventa contemplazione
dell’armonia divina. «La ragione, egli dice, com- prese che in questo grado,
tanto nel ritmo quanto nell’armonia, i numeri regnano e conducono tutto a
perfezione: osservò allora con la massima dili- genza di quale natura fossero e
li scoprì divini ed eterni perchè col loro aiuto erano state ordinate tutte le
cose supreme» (De Ordine, II, 14). Nelle Nozze di Mercurio e della Filologia,
Marciano Ca- pella, verso la metà del v secolo, includeva la M. tra le arti
liberali (ridotte a sette) e con questa la stabiliva come uno dei pilastri
dell'educazione medievale. Alcuni secoli dopo, Dante paragonava la M. al
pianeta Marte: giacchè come questo è «la più bella relazione» perchè è al
centro degli altri pianeti, e il più caloroso perchè il suo calore è simile a
quello del fuoco, così è la M.: «la quale è tutta relativa siccome si vede
nelle parole armo- nizzate e nelli canti, dei quali tanto più dolce ar- monia
risulta tanto più la relazione è bella»; e la quale « trae a sè gli spiriti
umani che sono quasi principalmente vapori del cuore sicchè quasi ces- sano da
ogni operazione » (Conv., II, 14). Ciò che qui Dante chiama « relazione » è
l'armonia di cui parlavano gli antichi e il carattere cosmico della M. è
espresso nel confronto di essa con uno degli astri maggiori dell’universo. b)
La dottrina della M. come autorivelazione del Principio cosmico tende a
privilegiare la M. al di sopra di tutte le altre arti o scienze e a farne la
più diretta via d’accesso all’Assoluto. Queste sono le caratteristiche proprie
della concezione ro- mantica della M., caratteristiche che si trovano ben
realizzate nella teoria di Schopenhauer. Se- condo Schopenhauer, mentre l’arte
in generale è l’oggettivazione della Volontà di vivere (che è il Principio
cosmico infinito) in tipi o forme univer- sali (le Idee platoniche) che
ciascun’arte riproduce a suo modo, la M. è rivelazione immediata o di- retta
della stessa Volontà di vivere. « La M., egli dice, è dell’intera Volontà
oggettivazione ed im- magine tanto diretta quant'è il mondo; o anzi come sono
le Idee, il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti.
La M. non è quindi, come le altre arti, l’immagine delle idee, bensì l'immagine
della Volontà stessa, della quale sono oggettività anche le idee. Perciò
l’effetto della M. è tanto più potente e insinuante di quello delle altre arti:
giacchè queste ci dànno solo il riflesso mentre quella ci dà l’essenza » (Die
Welt, 1819, I, $ 52). Con questa esaltazione della M. coincide la dottrina di
Hegel: la quale tuttavia aggiunge l'importante determinazione, che la M. è
l’espres- sione dell’assoluto nella forma del sentimento (Gemiith). «La M.,
dice Hegel, costituisce il punto centrale di quella rappresentazione la quale
esprime il soggettivo come tale sia rispetto al contenuto sia rispetto alla
forma, giacchè essa partecipa dell’interiorità e rimane soggettiva anche nella
sua oggettività ». In altri termini essa non lascia, come fanno le arti
figurative, che l’esterio- rizzazione sia libera di svilupparsi di per se
stessa e di arrivare a un'esistenza di per sè stante « ma supera
l’oggettivazione esterna e non s’immobi- lizza in essa fino a farne qualcosa di
esterno che abbia esistenza indipendentemente da noi» (Vorlesungen liber die
Aesthetik, ed. Glockner, III, pag. 127). Ciò vuol dire che nella M., a
differenza che nelle altre arti, la forma sensibile in cui l’Idea si manifesta
od esprime è interamente superata come tale e risolta in pura interiorità, in
puro sentimento. Da questo punto di vista Hegel dice che il sentimento è la
forma propria della M.: «Il com- pito fondamentale della M. consiste nel far
risuo- nare, non già la stessa oggettività ma, all’opposto le forme e i modi
nei quali la più interna sogget- tività dell’io e l’anima ideale si muove in se
stessa» (4bid., pag. 129). Col riconoscimento del sentimento come forma propria
della M. e come giustificazione della superiorità di essa, la teoria romantica
della M. aveva trovato la sua espressione definitiva. È solo un’esagerazione di
questa espressione la teoria di Kierkegaard che la M. « trova il suo oggetto
asso- luto nella genialità erotico-sensuale » (Aus Auf, Le tappe erotiche,
ecc.; trad. franc., Prior e Guignot, pag. 54). La definizione della M. come
l’arte di esprimere «i sentimenti » o «le passioni » mediante i suoni, fu
ripetuta infinite volte e si perdette per- sino il senso delle sue implicanze
teoretiche. Essa fu assunta come una definizione oggettiva o scientifica della
M. (cfr. HANSLICK, Vom Musikalisch-Schònen, 1854, la nota finale del cap. 1).
Fu questa la defi- nizione della M. cui si ispirò l’opera di Wagner, che
infatti condivideva la filosofia di Schopenhauer sulla musica. Federico
Nietzsche a sua volta fu, nella sua giovinezza, un seguace di questa conce-
zione: dalla quale si staccò a partire dal 1878 (con Umano, troppo umano)
quando cominciò a scorgere nell’opera di Wagner, orientata nostalgicamente
verso il cristianesimo, un abbandono di quei valori vitali che erano propri
dell'antichità classica e uno spirito di rinuncia e di rassegnazione. Ma dal
concetto romantico della M. neppure Nietzsche si staccò mai veramente. L'ideale
che egli vagheggiò di una M. « meridionale» (del tipo di quella di Bizet)
conserva ancora la caratteristica romantica di essere l’espressione del
sentimento per quanto di un sentimento situato «al di là del bene e del male ».
Egli scrisse infatti: « Il mio ideale sarebbe una M. il cui maggior fascino
consistesse nell’igno- ranza del bene e del male, una M. resa tremula tutt'al
più da qualche nostalgia di marinaio, da qualche ombra dorata, da qualche
tenera rimem- branza; un’arte che assorbisse in se stessa, da una grande
distanza tutti i colori di un mondo morale che tramonta, un mondo divenuto
quasi incom- prensibile, e la quale fosse ospitale e profonda abbastanza per
accogliere in sè i tardi fuggiaschi » (Jenseits von Gut und Bòse, $ 255). Anche
oggi si fa frequentemente ricorso alla definizione della M. come espressione
del sentimento o almeno la si presuppone come cosa ovvia e sicura (cfr., per
es., Dewey, Art as Experience, cap. 10; trad. ital., pag. 278 sgg.). In Italia
ha contribuito a raffor- zarla la dottrina crociana dell'arte come espressione
del sentimento; ma, ovviamente, questa dottrina non è che la generalizzazione a
tutto il dominio dell’arte della definizione romantica della musica. Questa
definizione ha trovato e trova pure incar- nazioni frequenti nella figura del
musicista, sacer- dote o profeta, che sa ascoltare la voce dell’Assoluto e
tradurla nel linguaggio sonoro del sentimento. Anche oggi difficilmente si
rinuncia a vagheg- giare questa raffigurazione romantica della M.: la quale
consente agli intenditori di essa di sen- tirsi rapiti dentro un orizzonte
mistico nel quale gli accordi musicali sono parole di una divinità nascosta. 2°
La caratteristica della seconda concezione fondamentale della M. è l'identità,
che essa implica, tra la M. e le sue tecniche. Tale identità fu chiara- mente
espressa da Aristotele con il riconoscimento della molteplicità delle tecniche
musicali. «La M., egli diceva, non va praticata per un unico tipo di beneficio
che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poichè può servire per
l'educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il
sollevamento dell’anima e la sospensione dalle fatiche. Da ciò risulta che
bisogna far uso di tutte le armonie, ma non di tutte allo stesso modo,
impiegando per l’educazione quelle che banno un maggiore contenuto morale, per
l’ascolto di M. eseguite da altri quelle che incitano all’azione o ispirano
alla commozione » (Po/., VIII, 7, 1341 b 30 sgg.). Queste considerazioni che,
nella loro ap- parente semplicità, sembrano escludere un’inter- pretazione
filosofica della M., in realtà esprimono il concetto che la M. è un insieme di
tecniche espressive, aventi scopi o usi diversi e che possono essere
indefinitamente e opportunamente variate. E questo concetto è in realtà il solo
che ha aiutato e sorretto lo sviluppo dell’arte musicale. Esso ritornò nel
Rinascimento e veniva così espresso da Vincenzo Galilei: «L’uso della M. fu
dagli uomini introdotto per il rispetto e il fine che di comun parere dicono
tutti i savi; il quale non da altro principalmente nacque che dall’esprimere
con efficacia maggiore i concetti dell'animo loro nel celebrare le lodi degli
Dei, dei geni e, degli eroi, come dai canti fermi e piani ecclesiastici, ori-
gine di questa nostra a più voci si può in parte comprendere, e d’imprimergli,
secondariamente, con pari forza nelle menti dei mortali per utile e co- modo
loro» (Dialogo della M. antica e della moderna, 1581, ed. Fano, 1947, pag.
95-96). In queste parole di Galilei appare anche chiara- mente riconosciuto il
carattere espressivo delle tecniche musicali: un carattere che fa della M.
un’arte nel senso moderno del termine (v. ESTE- TICA). Il concetto di tecnica
espressiva è espresso da Kant con la nozione di « bel gioco di sensa- zioni »
di cui egli si avvale per definire sia la M. sia la tecnica dei colori. Kant
osserva che «non si può sapere con certezza se un colore e un suono siano
semplici sensazioni piacevoli o se siano già in se stessi un bel gioco di
sensazioni e quindi contengano, in quanto gioco, un piacere che di- pende dalla
loro forma nel giudizio estetico ». Alcuni fatti, e specialmente la mancanza
della sen- sibilità artistica in alcuni uomini e l’eccellenza di tale
sensibilità in altri, convincono a considerare le sensazioni dei due sensi,
vista e udito, non come semplici impressioni sensibili, ma come « l’effetto di
un giudizio formale nel gioco di molte sensa- zioni +. In ogni caso, «a seconda
che si adotterà l'una o l’altra opinione nel giudicare del principio della M.
ne sarà diversa la definizione e o si defi- nirà, come noi abbiamo fatto, quale
un bel gioco di sensazioni (dell’udito) o come un gioco di sen- sazioni
piacevoli. Secondo la prima definizione, la M. è considerata come arte bella
senz'altro, con la seconda è invece considerata, almeno in parte, come arte
piacevole » (Crit. del giud., $ 51). Il concetto di « bel gioco di sensazioni »
tende già ad esprimere una nozione sintattica della M. e per di più una nozione
per la quale la ricerca sintattica può essere indirizzata liberamente in tutte
le dire- zioni (questo è implicito nella parola « gioco »). Verso la metà
dell’800 questa nozione veniva più rigorosamente e chiaramente formulata nello
scritto di EpuaRDO HANSLICK, // bello musicale (1854) che rimane a tutt'oggi
una delle più importanti opere di estetica musicale. Hanslick si schiera po-
lemicamente contro il concetto romantico della M. come «rappresentazione del
sentimento». L’og- getto proprio della M. è piuttosto il bello musi- cale:
intendendosi con ciò «un bello che, senza dipendere e senza abbisognare di
alcun contenuto esteriore, consiste unicamente nei suoni e nel loro artistico
collegamento. Le ingegnose combinazioni di bei suoni, il loro concordare e
opporsi, il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è
ciò che in libere forme si presenta alla intuizione del nostro spirito e che ci
piace come bello. L'elemento primordiale della musica è l’eu- fonia, la sua
essenza il ritmo» (Vom Musikalisch- Schònen, III; trad. ital., 1945, pag. 82).
Così in- tesa la M. s’identifica con la tecnica realizzatrice. Dice Hanslick a
questo proposito: « Se non si sa riconoscere tutta la bellezza che vive
nell’elemento puramente musicale, molta colpa è da attribuirsi al disprezzo del
sensibile che negli antichi esteti troviamo in favore della morale e del
sentimento, in Hegel in favore dell’idea. Ogni arte parte dal sensibile e in
esso si muove. La teoria del senti- mento disconosce questo fatto, trascura
comple- tamente l’udire e prende in considerazione imme- diatamente il sentire.
Essi pensano che la M. sia fatta per il cuore e che l’orecchio sia una cosa
triviale » (/bid., INI, pag. 85-86). Dall'altro lato Hanslick ha espresso pure
con chiarezza il carat- tere che differenzia il linguaggio musicale dal lin-
guaggio comune. « La differenza, egli dice, consiste in questo, che nel
linguaggio il suono è solo un segno cioè un mezzo per esprimere qualcosa di
comple- tamente estraneo a questo mezzo, mentre nella M. il suono ha importanza
in sè, cioè è scopo a se stesso. La bellezza autonoma delle bellezze so- nore
qui, e l’assoluto predominio del pensiero sul suono come su un puro e semplice
mezzo di espressione là, si contrappongono in maniera così definitiva che una
mescolanza dei due prin- cìpi è una impossibilità logica » (/bid., IV, pag.
113). Questo carattere tuttavia non è proprio soltanto del linguaggio musicale
ma di ogni linguaggio artistico, di fronte al comune linguaggio (vedi
ESTETICA). Per quanto la nozione di M. cui esplicitamente hanno fatto e fanno
ricorso musicisti, critici e stu- diosi di estetica musicale sia ancora e
sempre quella di «rappresentazione del sentimento », la nozione della M. come
tecnica di una sintassi dei suoni le cui regole possano essere indefinitamente
variate, è quella che ha prevalso nella pratica della crea- zione musicale e
nella ricerca di nuovi e più liberi modi di tale creazione. L'ultimo e più
radicale tentativo di liberazione della lingua musicale dalla sintassi
tradizionale è la cosiddetta M. atonale. Questa non è altro che l’affermazione
programma- tica della libertà del linguaggio musicale di scegliere la sua
propria disciplina: la quale, in qualche casoparticolare può essere anche
quella tonale. Dice a questo proposito Schénberg: « L'emancipazione della
dissonanza, cioè la sua equiparazione con i suoni consonanti (che nella mia
Harmonielehre spiego con il fatto che la differenza tra consonanza e disso-
nanza non è una differenza antitetica ma graduale, che cioè le consonanze sono
i suoni più vicini al suono fondamentale e le dissonanze quelli più lon- tani;
e che di conseguenza la loro comprensibilità è graduata, essendo i suoni più
vicini più facil- mente afferrabili di quelli lontani) avvenne incon-
sapevolmente, col presupposto che la sua compren- sibilità può essere garantita
quando venga favorita da determinate circostanze. Non bastando l’orecchio da
solo a riconoscere e a comprendere i rapporti e le funzioni, tali circostanze
si trovarono nel campo dell’espressione e in quello, fino allora poco
considerato, della sonorità » (« Gesinnung oder Er- kenntnis? +, 1926, in L.
ROGNONI, Espressionismo e dodecafonia, 1954, pag. 249). Da questo punto di
vista la tonalità si definisce in modo generalissimo come « tutto ciò che
risulta da una serie di note, coordinata sia mediante il diretto riferimento ad
un’unica nota fondamentale sia mediante collegamenti più complicati » (Harmo-
nielehre, 1922, 3* ediz., III, pag. 488; in ROGNONI, Op. cit., pag. 243). Alban
Berg osservava che «la rinuncia alla tonalità ‘maggiore’, ‘ minore” non implica
affatto l’anarchia armonica » perchè « anche se per la perdita del ‘maggiore’ e
del ‘ minore ’, sono venute meno alcune possibilità armoniche, sono però
rimasti tutti gli altri elementi essenziali della M. vera ed autentica» («Was
ist Atonal», 1930, in RogNONI, Op. cit., pag. 290). Quale che sia il giudizio
di gusto che si vuol dare sulle opere musicali ispirate da questo programma,
non c’è dubbio che il programma stesso non è altro che la liberalizzazione
della lingua musicale e delle sue tecniche dalle pastoie della sintassi
tradizionale e l'avviamento alla ricerca di nuove forme sintattiche, che
possono anche, occasionalmente, coincidere con quelle tradizionali. La M.
atonale è pertanto la realizzazione, nel campo della M., di quella stessa
esigenza di liberazione che nel campo della pittura è l’astrattismo: come
quest’ultimo intende prescin- dere dalle forme stabilite o riconosciute della
rap- presentazione o della percezione, così la M. intende prescindere dalle
forme stabilite e riconosciute del- l'armonia musicale. L’una e l’altra vanno
in cerca di nuove discipline, di nuove forme sintattiche per le loro tecniche
espressive. E l’una e l’altra pre- suppongono (pur senza averne sempre un
chiaro concetto) la nozione dell’arte come «tecnica del- l’espressione +;
intendendosi per espressione le forme libere e finali della sintassi
linguistica. Poichè fu quella nozione di M. che presiedette, sul finire del Medioevo
e nel Rinascimento, alla genesi della M. moderna in quanto si presentò fin
dall'inizio come ricerca di tecniche espressive, si può scorgere in essa la
condizione che garantisce anche oggi alla M. la sua capacità di sviluppo.
MUTAMENTO (ingl. Change; franc. Change- ment; ted. Verdnderung). 1. Lo stesso
che movi- mento, 1 (v.). 2. Lo stesso che alterazione (v.). MUTAZIONISMO (ingl.
Mutationism; fran- cese Mutationisme; ted. Mutationismus). 1. Lo stesso che
evoluzionismo (v.). 2. La dottrina che spiega la trasformazione delle specie
viventi l'una nell’altra con l'insorgenza di pic- cole mutazioni brusche ed
ereditarie che si produr- rebbero a caso nel corso di una o più generazioni.
Questa dottrina fu presentata da De VRIES nel- l’opera La teoria delle
mutazioni (1901). N. Nella logica di Lukasiewicz la lettera N è usata per
indicare la negazione, che viene comune- mente simboleggiata con —, sicchè Np
significa > p (cfr., A. CHURCH, Introduction to Mathematical NARCISISMO
(ingl. Narcissism; franc. Nar- cissisme; ted. Narzissismus). 1. Secondo
Plotino, il mito di Narciso significa la situazione dell’uomo che, non sapendo
di portare la bellezza dentro di sè, la cerca nelle cose esterne e tenta di
abbrac- ciarla inutilmente in esse (Enn., I, 6, 8; V, 8, 2). Questa
interpretazione acquista rilievo sullo sfondo della preoccupazione fondamentale
di Plotino che è quella della ricerca interiore, o dell’interiorità di
coscienza (v.). Talvolta, da autori moderni, il significato del mito è stato
invertito: il narci- sismo rappresenterebbe non già l’inanità del ten- tativo
di cercare nell’esterno ciò che è interno, ma l’autentico destino dell’uomo che
è quello di proiettare fuori di sè e di amare come tale ciò che è dentro di lui
(cfr. LAVELLE, L’erreur de Narcisse, 1939). 2. Una forma o un modo della
sessualità, se- condo la psicanalisi, e precisamente quella per la quale la
libido (v.) reinveste l'Io disinvestendo l’og- getto, sicchè l'Io «si comporta
verso gli investi- menti oggettuali come il corpo di un animaletto protoplasmatico
verso gli pseudopodi da esso emessi » (FREUD, Introduzione del narcisismo,
1914). NATIVISMO. V. InnatisMo. NATURA (gr. quo; lat. Natura; ingl. Nature;
franc. Nature; ted. Natur). Un insieme di con- cetti, diversamente imparentati
tra loro, sono stati utilizzati per definire questo termine. I prin- cipali
sono i seguenti: 1° il principio del mo- vimento o la sostanza; 2° l’ordine
necessario o la connessione causale; 3° l’esteriorità, in quanto contrapposta
alla interiorità della coscienza; 4° il campo d'incontro o di unificazione di
certe tecniche d’indagine. 1° L'interpretazione della N. come principio di vita
e di movimento di tutte le cose esistenti è la più antica e venerabile e ha
informato di sè l’uso corrente del termine. « Lasciar fare alla N. +, «
Abbandonarsi alla N.?, « Seguire la N.», e via dicendo, sono espressioni
suggerite dal concetto che la N. è un principio di vita che si prende buona
cura degli esseri in cui si manifesta. In questo senso, esplicitamente, la N.
fu definita da Aristotele. «La N., egli disse, è il principio e la causa del
movimento e della quiete della cosa alla quale inerisce primieramente e di per
sè, non accidental- mente » (Phys., II, 1, 192b 20). L'esclusione del-
l’accidentalità serve, come Aristotele stesso spiega, a distinguere l’opera
della N. da quella dell’uomo. La N. può anche essere la materia se si ammette,
come facevano i Presocratici, che la materia ha in se stessa un principio di
movimento e di mutamento; ma è veramente questo principio, quindi la forma o la
sostanza della cosa, in virtù della quale la cosa stessa si sviluppa e diviene
-quella che è (Phys., II, 1, 193a 28 sgg.). Questo è il motivo per cui la N.
assume il significato di forma o sostanza o essenza necessaria: una cosa
possiede la sua N. quando ha raggiunto la sua forma, quando è per- fetta nella
sua sostanza. In conclusione, la migliore definizione della N. è, secondo
Aristotele, la se- guente: « La sostanza delle cose che hanno il prin- cipio
del movimento in se stesse »: a questa defini- zione possono ricondursi tutti i
significati del termine (Met., V, 4, 1015a 13). In questo senso la N. è non
solo causa, ma causa finale (Fis., II, 8, 199b 606 32). La tesi del finalismo
della N. si trova di regola congiunta con questo concetto di essa. Tale
concetto, che è poi la sintesi dei due concetti fondamentali della metafisica
aristotelica, quelli di sostanza e di causa, ha dominato per lungo tempo nella
speculazione occidentale e non è mai stato completamente obliterato da concetti
diversi e concorrenti. Per la sua causalità, la N. è lo stesso potere creatore
di Dio: è N. naturante. Ma poichè tale causalità è inerente alle cose che
produce, la N. è la totalità stessa di queste cose, è N. narurata. Questa
distinzione che si trova in Scoto Eriugena senza però i termini relativi (De
divis. nar., III, 1), veniva introdotta nella scolastica latina da Averroè (De
Cael., I, 1) e largamente accettata (cfr. S. ToM- MASO, S. Th., II, 1, q. 85,
a. 6). Spinoza non faceva che riesporla quasi negli stessi termini (Er., I, 29
Schol.). A questa distinzione, precisamente al concetto di N. naturata, si
connette l’altro significato subordinato, quello della N. come l’universo o il
complesso delle cose naturali: concetto che coesiste (perchè ne è il risultato)
con quello della N. come principio di movimento; e coesiste anche, come si
vedrà, con quello della N. come ordine perchè designa in questo secondo caso,
la N. « materiale » (materialiter spectata). L’esaltazione speculativa che
della N. fece il naturalismo del Rinascimento fa appello al concetto della N.
naturante o universale. Nicolò Cusano diceva: « È lo Spirito diffuso e
contratto per tutto l’universo e per tutte le sue singole parti, che si chiama
N. La N. è perciò, in qualche modo, la com- plicazione di tutte le cose che si
generano attraverso Il movimento » (De docta ignor., II, 10). E Giordano Bruno
affermava: «La N. o è Dio stesso o è la virtù divina che si manifesta nelle
cose» (Summa Terminorum, in Op. latine, IV, 101). Nello stesso senso Spinoza identificava
la N. con Dio (Et., I, 29, Schol.). E questo concetto della N. permaneva nel
*700 e veniva riaffermato da Wolff (Cosm., $ 503-506) e da Baumgarten (Mer., $
430). Quando nello stesso secolo, si cominciò a contrapporre la N. all’uomo e
si bandì il «ritorno alla N.», la N. cui si fece appello è ancora quella del
vecchio concetto aristotelico: un principio direttivo insito nell'uomo sotto
forma di istinto. Tale fu il concetto
che della N. ebbe Rousseau (De /’inégalité parmi les hommes, I). Questo concetto è ormai passato nel patrimonio delle
credenze comuni del nostro mondo; e perciò spesso fa capolino, senza farsi
notare, nelle più elaborate concezioni filosofiche. Come si è visto, esso
comprende tre concetti coordinati o equipollenti: a) la N. come causa
(efficiente e finale); 2) la N. come sostanza o essenza necessaria; c) la N.
come totalità delle cose. NATURA 2° La seconda concezione fondamentale della N.
è quella che la intende come ordine e necessità. L’origine di questa concezione
è negli Stoici. Essi dicevano che «la N. è la disposizione a muoversi da sè
secondo le ragioni seminali, disposizione che porta a compimento e tiene
insieme tutte le cose che da essa nascono a determinati tempi e coincide con le
cose stesse dalle quali si distingue » (Dioa. L., VII, 1, 148). In questa
definizione viene accentuata la regolarità e l'ordine del divenire al quale la
N. presiede. A questo concetto di N. si connette la nozione di legge naturale,
che ha avuto per tutta l’antichità e sino al sec. xrx un’im-portanza
grandissima nella morale e nel diritto (v.). Difatti la legge di N. è la regola
di comportamento che l’ordine del mondo esige sia rispettata dagli esseri
viventi, regola la cui realizzazione, secondo gli Stoici, era affidata o
all’istinto (negli animali) o alla ragione (nell'uomo) (Diog. L., VII, 1, 85).
L’aristotelismo del Rinascimento riprende il con- cetto della N. come ordine.
Nel De Fato Pietro Pomponazzi difendeva esplicitamente, nel xvI secolo, il fato
stoico, cioè la necessità assoluta dell’ordine cosmico stabilito da Dio. E il
pensiero che è alla base delle prime manifestazioni della scienza mo- derna
cioè dell’opera di Leonardo, Copernico, Keplero e Galileo è quello di un ordine
necessario, di carattere matematico, che la scienza deve rintrac- ciare e
descrivere. «La necessità, diceva Leonardo, è tema e inventrice della N., e
freno e regola eterna» (Works, ed. Richter, n. 1135). Galileo a sua volta
riteneva che la N. è l’ordine dell’universo, un ordine che è unico e non è mai
stato nè sarà diverso (Op., VII, pag. 700). L°’insistenza sulla natura come
ordine e necessità si accompagna alla negazione del finalismo della natura
stessa che è invece la carat- teristica della prima concezione (v. FINALISMO).
Questo concetto della N. è rimasto a fondamento della scienza moderna in tutto
il suo periodo classico. « La N. è assai consonante e conforme a se stessa »
diceva Newton (Opricks, 1704, III, 1, q.31): ma fu Boyle che su questo punto
ebbe le idee più chiare affermando esplicitamente: « La N. non dev'essere
considerata come un agente distinto e separato, ma come una regola o piuttosto
come un sistema di regole, secondo le quali gli agenti naturali e i corpi su
cui essi operano sono determinati dal Grande Autore delle cose ad agire e a
patire». Fu questa la concezione della N. accettata da Kant. «Con l’espressione
‘ N.’ (in senso empirico) inten- diamo la connessione dei fenomeni, per la loro
esistenza secondo regole necessarie o leggi. Vi sono dunque certe leggi, e
leggi a priori, che rendono prima di tutto possibile una N.; le leggi empiriche
possono esserci ed essere scoperte solo mediante l’esperienza, perciò in
seguito a quelle leggi origi- NATURA narie per cui comincia ad essere possibile
l’espe- rienza stessa» (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. II, sez. 3, Terza
analogia). Altrove, Kant distingue la N. materialiter spectata dalla N.
formaliter spectata: la prima sarebbe «l’insieme di tutti i fenomeni »; la
seconda sarebbe « la regola- rità dei fenomeni nello spazio e nel tempo +»
(/bid., $ 26). Ma la prima non è altro che il materiale cui si applica la
seconda e il concetto della N. rimane pertanto quello di una regolarità dovuta
a leggi {Prol., $ 14). Questa dottrina è stata ripetuta nume- rose volte nella
filosofia moderna e contemporanea. Fra gli ultimi che la ripetono si può
ricordare Whitehead, che intende per N. «un complesso di enti in relazione »
dove l’enfasi è posta sulla relazione, e che attribuisce alla filosofia
naturale il compito di «studiare come si connettano i vari elementi della N. »
(The Concept of Nature, 1920, cap. I-II; trad. ital., pag. 13, 28). 3° La terza
concezione della N. è quella che l’intende come la manifestazione dello spirito
o come uno spirito diminuito o imperfetto, reso « esterno » o « accidentale » o
« meccanico » cioè de- gradato dai suoi veri caratteri. Questa concezione si
trova espressa chiaramente in Plotino. « La sag- gezza, egli dice, è il primo
termine, la N. è l’ultimo. La N. è l’immagine della saggezza ed è l’ultima
parte dell’anima: come tale non ha in sè che gli ultimi riflessi della
ragione... L'intelligenza ha in sè ogni cosa, l’anima dell’universo riceve le
cose eternamente e essa è la vita e l’eterna manifesta- zione dell’intelletto;
ma la N. è il riflesso del- l’anima nella materia. In essa, o anche prima di
essa, la realtà finisce giacchè essa è il termine del mondo intellegibile:
oltre di essa, non ci sono che imitazioni » (Enn., IV, 4, 13). Che la N. sia la
manifestazione, nel senso di « esteriorizzazione ?, con ciò che di diminuito o
degradato ha l’esterio- rità di fronte all’interiorità della coscienza, è il
concetto della N. che è stato condiviso (e con- tinua ad esserlo) da tutte le
metafisiche spirituali- stiche. Esso viene ripreso dalla teosofia rinasci-
mentale, e si trova, per es., espresso da Jakob Bohme (De signatura rerum, TX).
Ma fu il roman- ticismo che soprattutto lo amplificò e diffuse. Diceva Novalis:
« Che cosa è la N. se non l’indice enciclopedico sistematico o il piano del
nostro spirito? » (Fragmente, n. 1384). E Hegel esprimeva nel modo più rigoroso
e completo questo stesso concetto. « La N., egli diceva, è l’idea nella forma
dell’essere altro » cioè della «esteriorità» (Erc., $ 247). Come tale essa non
mostra, nella sua esi- stenza, libertà alcuna ma solo necessità e acciden- talità.
Pertanto « nella N., non solo il gioco delle forme è in preda a una
accidentalità sregolata e sfrenata; ma ogni forma manca per sè del con- 607
cetto di se stessa». Hegel riconosce che la N. è soggetta a «leggi eterne » ma
questo non la salva: la N. è peggiore del male. « Quando l’accidentalità
spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa di
infinitamente più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle
piante; perchè colui che così erra è pur sempre spirito » (Ibid., $ 248). È ben
vero che non tutta la filosofia romantica condivise la condanna hege- liana
della natura. Schelling fu portato piuttosto a esaltare la N. stessa, a
considerarla come parte o elemento della vita divina. In uno scritto del 1806,
egli rimproverava a Fichte di considerare la N. o col sentimento del più rozzo
e pazzo asceta, cioè come un puro nulla, o da un punto di vista pu- ramente
meccanico e utilitario, cioè come uno strumento di cui l’Io assoluto si serva
per realiz- zare se stesso (Werke, I, VII, pag. 94, 103). E in realtà nel
considerare la N. come manifestazione dell’Assoluto, Schelling non insisteva
tanto sulla inferiorità della manifestazione rispetto al Prin- cipio
manifestantesi, quanto piuttosto sulla stretta relazione tra i due. Questa è
l’altra alternativa offerta dalla concezione della N. di cui qui trat- tiamo.
Si può infatti da un lato insistere sugli aspetti per cui la N. si distingue
dallo spirito e in qualche modo si contrappone ad esso, cioè sul-
l’esteriorità, l’accidentalità, il meccanismo. Ma si può anche, dall’altro
lato, insistere sull’aspetto per cui la N., come manifestazione dello spirito,
pre- senta i suoi stessi caratteri sostanziali. Così ha fatto Schelling. Ma più
frequentemente prevale la prima alternativa. Lo spiritualismo francese del
secolo scorso ha condiviso quasi unanimemente la tesi che Ravaisson esprimeva
alla fine del Rapport sur la philosophie en France au XIX° siècle (1868), e
cioè che la N. sia il degradarsi in meccanismo e necessità di un Principio
spirituale che è spon- taneità e libertà. Questa concezione è stata fatta
prevalere anche nello spiritualismo del nostro se- colo da Bergson. La N., come
esteriorità o spa- zialità, è una degradazione dello spirito. Così Bergson
espone il progetto di una teoria della co- noscenza della N.: « Bisognerebbe,
con uno sforzo sui generis dello spirito, seguire la progressione o piuttosto
la regressione dell’extra-spaziale
degra- dantesi in spazialità. Situandoci dapprima nel punto più alto
della nostra propria coscienza per lasciarci poi cadere a poco a poco, noi
abbiamo il senti- mento che il nostro io si estenda in ricordi inerti
esteriorizzati gli uni rispetto agli altri, in luogo di tendersi in un volere
indivisibile ed agente. Ma questo è solo l’inizio, ecc. + (Évol. Créatr., 11
ediz., 1911, pag. 226). Lo stesso senso di degradazione ha la N. nella
filosofia di Gentile per il quale essa è il « passato dello spirito» ed è
perciò un limite 608 astratto che lo spirito ricomprende in sè e « signo-
reggia » (Teoria generale dello spirito, XVI, 18). 4° La quarta concezione
della N. è quella che si può intravvedere come presupposta o implicita nelle
operazioni effettive della ricerca scientifica e in alcune analisi della
metodologia scientifica con- temporanea. Per essa la N. è definita in termini
di campo (v.) e più precisamente è il campo cui fanno riferimento e in cui si
incontrano (o talora si scontrano) le tecniche percettive e di osservazione di
cui l’uomo dispone; delle quali le prime non sono meno complesse delle seconde,
nonostante che appaiano « naturali» cioè tali da poter essere messe in opera
senza il concorso di progetti deli- berati. Alle tecniche percettive fa
costante riferi- mento l’arte che dà sempre qualcosa da « vedere » o da
«sentire» anche quando pretende di essere « astratta » e di prescindere perciò
dalle forme che sono comunemente offerte dalla percezione comune. Alle tecniche
osservative fa riferimento la scienza naturale che, pur iniziando il suo lavoro
dalla per- cezione, se ne allontana rapidamente sia nei suoi strumenti di
osservazione sia negli oggetti che riesce a individuare (per es., « massa»,
«energia», «elet- troni +, « fotoni », ecc.) alcuni dei quali si compor- tano
molto diversamente dalle «cose» che sono l'oggetto della percezione comune. Il
campo og- gettivo cui fanno riferimento sia i vari modi del percepire comune
sia i vari modi dell’osservazione scientifica, così come è intesa e praticata
nelle varie branche della scienza naturale, si può inten- dere oggi come « N.
». In questo senso la N. non si identifica con un principio o con un'apparenza
metafisica nè con un determinato sistema di con- nessioni necessarie; ma può
essere determinata, a ogni fase dello sviluppo culturale dell'umanità, come la
sfera degli oggetti possibili di riferimento delle tecniche di osservazione di
cui l’umanità è in pos- sesso. Si tratta, come è ovvio, di una concezione non
dogmatica ma funzionale, che non è stata finora fatta oggetto di indagini
metodologiche suf- ficienti alla sua chiarificazione, ma che sembra tut- tavia
richiesta dalla fase attuale della metodologia scientifica. NATURA, FILOSOFIA DELLA (inglese
Philosophy of Nature; franc. Philosophie de la nature; ted. Naturphilosophie). Questa espressione, in quanto diversa da quella
tradizionale « filosofia naturale » che designa la fisica o la scienza naturale
in generale, è stata per la prima volta adoperata da Kant per designare una
disciplina nettamente distinta dalla scienza stessa. Per filosofia della N. o
metafisica della N., Kant intese infatti la disci- plina che « abbraccia tutti
i princìpi razionali puri derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione
della matematica) della conoscenza teoretica di NATURA, FILOSOFIA DELLA tutte
le cose» (Crit. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III. Così intesa la
filosofia della N. è una delle due parti fondamentali della filosofia, di cui
l’altra è la filosofia morale; e comprende solo i princìpi a priori su cui è
fondata la co- noscenza della N., cioè i fondamenti della fisica e delle altre
scienze teoretiche della N., ma non già le leggi, che è compito della fisica
rintrac- ciare nella N. stessa (/bid.; cfr. Crit. del Giud., Intr., I. Dopo di
Kant l’espressione filosofia della natura è rimasta a designare una disciplina
che ha per oggetto la N. ma non è la scienza. Così la filosofia della N. fu
intesa da Schelling che a questa disci- plina dedicò la maggior parte della sua
attività. Schelling riteneva che la scienza fondata sull’in- dagine
sperimentale non è mai veramente scienza. La natura infatti è a priori nel
senso che le sue singole manifestazioni sono determinate in anticipo dalla sua
totalità, cioè dall'idea di una N. in generale (Werke, I, III, pag. 279).
Sostanzialmente, il compito della filosofia della N. è quello di mostrare come la
N. si risolva nello spirito (System des transzendenta- len Idealismus, $ 1).
Tale compito è rimasto proprio di essa in tutte le manifestazioni che ebbe nel
corso del sec. xx: manifestazioni che, in buona parte, si ispirarono a Hegel.
Hegel considerò la filosofia della N. come una delle tre grandi partizioni
della filosofia che risulterebbe costituita, oltre che da essa, dalla logica e
dalla filosofia dello spirito. La logica sarebbe il sistema delle pure
determinazioni del pensiero. La filosofia della N. e la filosofia dello spirito
sarebbero entrambe una logica appli- cata; e in particolare la filosofia della
N. avrebbe il compito « di portare le vere forme del concetto, immanenti nelle
cose naturali, alla coscienza » (System der Phil., ed. Glockner, I, pag.
87-88). La filosofia della N. così intesa non è che la mani- polazione
arbitraria di concetti scientifici, avulsi dai loro contesti, al fine di
ridurli a determinazioni razionali o pseudorazionali. E tale essa è rimasta
anche quando si è voluta sottrarre all'impostazione idealistica ed è stata
trattata da un punto di vista realistico, come ha fatto Nicolai Hartmann. La
Filosofia della natura (1950) di quest’ultimo, conserva infatti la pretesa di
scorgere o riconoscere il valore « metafisico» o «ontologico» dei risultati
della scienza. Compito della filosofia della N. dovrebbe essere l’analisi
categoriale dei concetti scientifici. « Ciò che propriamente sono l'estensione,
la durata, la forza, la massa, non può dirlo il pensiero mate- matico, afferma Hartmann.
A questo punto s'inse- risce l’analisi categoriale: i portatori o substrati
della quantità sono ciò con cui si connettono i problemi metafisici di fondo
della filosofia della N. » (Philosophie der Natur, pag. 22). NATURA, STATO DI
Si può dire che l'ultimo e più ristretto concetto di filosofia della N. sia
quello presentato dai componenti del Circolo di Vienna, agli albori
dell’empirismo logico. M. Schlick considerava la filosofia della N. come
l’analisi del significato delle proposizioni proprie delle scienze naturali. Da
questo punto di vista, egli diceva, «la filosofia della natura non è scienza
essa stessa, ma un'atti- vità diretta alla considerazione del significato delle
leggi di N.» (Philosophy of Nature; trad. ingl., 1949, pag. 3). In questo concetto
c'è ancora qualche traccia della filosofia come « visione del mondo » o sintesi
dei risultati più generali delle scienze parti- colari. La metodologia
contemporanea ha invece sempre più sottolineato l'illegittimità di astrarre le
proposizioni della scienza dei loro contesti e di trovare in esse significati
che vadano al di là di quanto i contesti stessi autorizzano. Da questa
limitazione metodologica, il compito di una filosofia della N. viene tagliato
alla base. E tutto ciò che (oltre la pretesa di elaborare una metafisica della
N. o una metafisica fondata sulle scienze naturali) essa legit- timamente
comprendeva, cioè i problemi concer- nenti il linguaggio scientifico in
generale e i lin- guaggi delle singole scienze, i rapporti tra le scienze, Io
studio comparativo dei loro me- todi, ecc., trova posto oggi nel seno della
meto- dologia delle scienze. NATURALE (gr. quowxéc; lat. Naturalis; in- glese
Natural; franc. Naturel; ted. Natbrlich). Gli usi di questo aggettivo
corrispondono agli usi fon- damentali del termine narura. 1.
Corrispondentemente al primo significato, N. è ciò che è prodotto dal principio
del movimento oppure ciò che si produce da sé o spontanea- mente. In questo
senso si è parlato di « diritto N.» che è il diritto che consiste nel conformarsi
all’or- dine spontaneo della natura: o di «religione N.» che è la religione
rivelata all’uomo dalla natura o attraverso la natura cioè attraverso la
ragione o il cuore dell’uomo. 2. Corrispondentemente al secondo significato di
natura, si dice N. ciò che rientra nell'ordine ne- cessario della natura, in
quanto si distingue dal- l’ordine soprannaturale, voluto o stabilito diretta-
mente da Dio. Nell’ambito di entrambi questi significati N. si contrappone
anche ad artificiale, in quanto è ciò che è prodotto dalla causalità della
natura, fuori dell’arbitrio umano. 3. Corrispondentemente al terzo significato
di natura si parla, ad es., di «cose N.» per dire « cose esterne» e di
«causalità N.» per dire « causalità esterna ». 4. Le scienze N. si dicono oggi
tali soprattutto in corrispondenza al significato 4 di natura. 39 — ABBAGNANO,
Dizionario di filosofia. 609 NATURALISMO (ingl. Naturalism; franc. Na-
turalisme; ted. Naturalismus). Il termine ha tre significati diversi. Indica
cioè: 1° La dottrina che ritiene che i poteri naturali della ragione sono più
efficaci di quelli che la filosofia produce o promuove nell’uomo. In questo
senso Kant diceva: «Il naturalista della ragion pura assume per principio che
per mezzo della ragione comune senza scienza (che egli chiama ‘sana ragione ’)
si può, rispetto alle questioni più alte che costituiscono il compito della
metafisica, conchiudere di più che per mezzo della specula- zione. Afferma
quindi che si può determinare con maggior sicurezza la grandezza e la distanza
della luna ad occhio anzichè per mezzo della matematica » (Crit. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. IV). 2° La dottrina che nulla esiste fuori della na-
tura, e che Dio stesso è solo il principio di mo- vimento delle cose naturali.
In questo senso, che è il più diffuso nella terminologia contemporanea, si
parla del « N. del Rinascimento o del « N. antico » o del «N. materialistico +,
ecc. 3° La negazione di ogni distinzione tra natura e soprannatura e la tesi
che l’uomo può e deve essere compreso, in tutte le sue manifestazioni, anche in
quelle ritenute più alte (diritto, morale, religione, ecc.) solo nel rapporto
con le cose e gli esseri del mondo naturale e sulla base degli stessi concetti
utilizzati dalle scienze per la spie- gazione di essi. In questo senso il
naturalismo è inteso da molti filosofi americani (Santayana, Woodbridge, Cohen)
e dallo stesso Dewey (Expe- rience and Nature, cap. Ill, e passim). NATURA,
SCIENZE DELLA. V. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE. NATURA, STATO DI (ingl. State
of Nature; franc. État de nature; ted. Naturzustand). La condi- zione
dell’uomo, anteriormente alla costituzione della società civile, secondo la
dottrina del contrat- tualismo (v.). Già in Platone, nel III Libro delle Leggi,
c'è la nozione della condizione in cui gli uomini vennero a trovarsi dopo che
immani cata- strofi ebbero distrutte le città: « Questa, dice Platone, è la
condizione degli uomini dopo che è avvenuta la catastrofe: una sconfinata
paurosa solitudine, la terra immensa e abbandonata, periti quasi tutti gli
animali e i bovini e solo qualche gruppo di capre è rimasto ai pastori, come
misero resto, per ricominciare la vita» (Leggi, III, 677e). Questa non è la
descrizione di una condizione idilliaca: come non fu idilliaca la condizione
che Hobbes ritenne propria dello stato di N.: quella della guerra di tutti
contro tutti: « Intanto che gli uomini vivono senza un potere comune cui siano
soggetti, diceva Hobbes, si trovano nella condizione che chiamiamo 610 di
guerra e tale guerra è di ogni uomo contro l’altro uomo » (Leviath., I, 13).
Ciò accade perchè gli uomini, essendo per N. uguali, hanno anche gli stessi
desideri; e desiderando le stesse cose cercano di soverchiarsi a vicenda
(/bid.). La fondazione dello stato, cioè di un potere sovrano, è il solo mezzo
per uscire dalla condizione di guerra propria dello stato di natura. Dall'altro
lato, già Seneca, nell’antichità, esal- tava lo stato di N. come una condizione
per- fetta del genere umano. Nella novantesima Lettera a Lucilio, Seneca
descrive l’età dell’oro in cui gli uomini erano innocenti e felici e vivevano
semplice- mente, senza cercar il superfluo. Inoltre non avevano bisogno di
governo e di leggi perchè obbedivano volentieri ai più saggi. Ma ad un certo
punto, il progresso stesso delle arti portò l’avidità e la corru- zione contro
le quali si rese necessaria l’istituzione dello stato. — L’esaltazione dello
stato di N. divenne un tema ricorrente nella filosofia del ‘700 e trovò la sua
massima espressione nell’opera di Rousseau. Locke aveva già considerato, in
polemica con Hobbes, lo stato di N. come uno stato di perfezione. Esso, aveva
detto, è «uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e
disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio,
entro i limiti della legge di N., senza chiedere permesso o dipendere dalla
volontà di nessun’altro » (Second Treatise On Governement, II, 4). Ma è stato
sopratutto Rousseau ad esaltare la perfezione dello stato di N. sul fondamento
che in quella condizione l'uomo obbedisce soltanto all’istinto, che è infal-
libile (De l’inégalité parmi les hommes, I). «Tutto è perfetto quello che esce
dalle mani del Creatore, tutto traligna nelle mani dell'uomo »: così Rousseau
cominciava il suo Emilio. In Rousseau stesso, d'altronde, questa esaltazione
dello stato di N. contrasta col valore riconosciuto allo stato civile fondato
sul contratto sociale; ed in realtà la nozione dello stato di N. costituisce
per Rousseau il criterio o la norma con cui giudicare la società presente e
delineare un ideale di progresso. Dopo Rousseau, già Kant intendeva per stato
di N.« quello in cui non c’è alcuna giustizia distributiva » (Mer. der Sitten,
I, $ 41). Ed Hegel mostrava l’equivoco per cui era stato inventato lo stato di
N. come una condi- zione di fatto nella quale valesse il diritto naturale,
equivoco dovuto al fatto che si interpretava l’espres- sione «diritto naturale»
nel senso di diritto esistente in N. piuttosto che diritto determinato dalla N.
della cosa (Enc., $ 502). Da Hegel in poi, la nozione di stato di N. ha cessato
di interessare i filosofi. È rimasta tuttavia una nozione cui volen- tieri fa
appello l’uomo comune o che viene utiliz- zata dalle dottrine politiche
utopistiche: le quali spesso proiettano lo stato di N. come una perfezione
NATURISMO dell’avvenire, e così fanno pure, talora, le immagina- zioni
romanzesche della fantascienza. NATURISMO (ingl. Naturism; franc. Natu- risme;
ted. Naturismus). 1. La dottrina, o la cre- denza, che la natura sia la guida
infallibile per la salute fisica e mentale dell’uomo e che pertanto a tale
guida l’uomo debba « ritornare », nei suoi com- portamenti e costumi,
allontanandosi dalle crea- zioni artificiali della società. Questa dottrina è
alla base di molte pratiche e credenze popolari del mondo contemporaneo, dopo
essere stata (nel *700) dottrina filosofica (v. NATURA, STATO DI). 2. Meno
propriamente: culto religioso della na- tura. NAUSEA (ingl. Nausea; franc.
Nausée; te- desco Ekel). L'esperienza emotiva della gratuità dell’esistenza
cioè della perfetta equivalenza delle possibilità esistenziali. La nozione è
stata intro- dotta nella filosofia da Sartre e da lui illustrata soprattutto
nel romanzo intitolato La nausea. NAZIONALISMO (ingl. Nazionalism; fran- cese
Nationalisme; ted. Nationalismus). Il concetto di nazione cominciò a formarsi a
partire da quello di popolo, che aveva dominato nella filosofia po- litica del
sec. xvi, quando si accentuò, in questo concetto, l’importanza dei fattori
naturali e tradi- zionali a scapito di quelli volontari. Il popolo (v.) è
costituito essenzialmente dalla volontà comune, che è la base del patto
originario; la nazione è costituita essenzialmente da legami indipendenti dalla
volontà dei singoli: la razza, la religione, la lingua e tutti gli altri
elementi che possono essere compresi sotto il nome di «tradizione». A diffe-
renza del « popolo», che non c’è se non per la deliberata volontà dei suoi
membri e come effetto di questa volontà, la nazione non ha niente a che fare
con la volontà degli individui: è un destino che incombe sugli individui, e al
quale questi non possono sottrarsi senza tradimento. In questi ter- mini la
nazione cominciò ad essere concepita chia- ramente soltanto ai primi dell’800;
e la nascita del concetto coincide con la nascita di quella fede nei geni
nazionali e nei destini di una singola nazione che si chiama nazionalismo. Il
concetto di popolo rimaneva legato agli ideali cosmopolitici del ’700. Ma già
in Rousseau si trova la condanna di questi ideali: l’attaccamento di Rousseau
al concetto dello stato-città, quale si era realizzato nella Grecia antica, lo
portava a con- dannare l’universalismo settecentesco. Nello stesso tempo,
questo attaccamento, anacronistico come era, lo conduceva a esaltare il valore
dello stato nazionale. « Sono le istituzioni nazionali, egli diceva, che
formano il genio, il carattere, i gusti e i co- stumi di un popolo, che lo
fanno esser lui e non altro, che gli ispirano quell’ardente amor di patria
NECESSARIO 611 fondato su abitudini impossibili a sradicarsi, che lo fanno morire
di noia presso altri popoli, in mezzo a delizie di cui è privato nel suo paese»
(Considér. sur le gouvernement de Pologne, III). Ma fu soprattutto nell’epoca
della restaurazione post- napoleonica che il concetto della nazione cominciò ad
assumere importanza dominante come uno dei prodotti o il prodotto fondamentale
di quella « tra- dizione » alla quale, in quel periodo si attribuiva l’origine
e la conservazione di tutti i valori fon- damentali dell’uomo. I Discorsi alla
nazione tedesca (1808) di Fichte, che sono il primo documento del nazionalismo
tedesco, vedono nel popolo te- desco «il popolo che solo ha diritto di
chiamarsi il popolo senz’altra designazione, a differenza dei rami che da lui
si staccarono, come indica d’al- tronde di per sè la parola tedesco » (Reden,
VII); e vedevano assicurata dalla stessa provvidenza della storia l’avvenire di
questo popolo superiore. Con la nozione di «spirito di un popolo» Hegel por-
tava a compiuta elaborazione il concetto di na- zione. « Lo spirito di un popolo,
diceva Hegel, è un tutto concreto: dev'essere riconosciuto nella sua
determinatezza... Esso si sviluppa in tutte le azioni e in tutti gli indirizzi
di un popolo e si realizza sino a giungere a godere di sè e a comprendere se
stesso. Le sue manifestazioni sono religione, scienza, arte, destini, eventi.
Tutto questo, e non il modo in cui un popolo è determinato per na- tura (come
potrebbe suggerire la derivazione di natio da nasci) fornisce al popolo il suo
carattere » (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 42; traduzione ital., I,
pag. 49). Nello spirito di un popolo si incarna, di volta in volta, lo Spirito
del mondo, la Ragione universale che presiede ai destini del mondo e determina
la vittoria del popolo che è la migliore incarnazione di se stessa. In questo
concetto dello spirito del popolo come incarnazione o manifestazione di Dio nel
mondo e quindi del carattere fatale e provvidenziale della vita storica della
nazione, sono già compresi tutti gli elementi del N. europeo del sec. xix e di
qualsiasi nazio- nalismo. In Italia, Mazzini cercò di conciliare gli ideali
universalistici dell’illuminismo col N.; e vide nella « missione » propria di
una nazione il modo in cui essa può servire il fine generale dell'umanità. Era
questa una sintesi piuttosto incoerente, ma che evitava quella esaltazione
della forza che così spesso doveva poi trovarsi nel N. europeo. Gian Domenico
Romagnosi fu il primo a fornire una teoria giuridica dello stato nazionale in
questo senso (Della costituzione di una monarchia nazio- nale rappresentativa,
1815): teoria che P. S. Man- cini, assumeva più tardi a fondamento del diritto
internazionale (Della nazione come fondamento del diritto delle genti, 1851).
In Francia l’affer- mazione del N. si lega soprattutto all'opera dello storico
Michelet che dava col libro Le Peuple (1843) uno dei principali documenti del
N. profe- tizzante. In Germania, un altro storico, Treitschke, intraprendeva
l’illustrazione e la difesa del N. te- desco che rimase collegato, alla sua
origine, con la politica di forza di Bismarck e poi di Gu- glielmo II. In Russia infine Dostojewski
si fece profeta del N. russo (cfr. Hans KoHN, Prophets and Peoples, 1946; trad.
ital., 1949; The Idea of Natio- nalism, New York, 1944). Sia la prima sia la seconda guerra mondiale sono
state combattute sotto l’in- segna del nazionalismo. La seconda è stata com-
battuta sotto l’insegna di un N. che aveva perso tutti i contatti con
l’universalismo settecentesco e riconosceva nella forza l’unico segno decisivo
ac- cordato dalla Provvidenza storica alla nazione da lei favorita. Quest’idea,
che il fascismo italiano e il nazional-socialismo germanico avevano fatta
propria, non era un'idea nuova: era la vecchia idea hegeliana e romantica del
privilegio che lo Spirito del mondo accorda alla nazione in cui di preferenza
si incarna, giacchè l’unico segno di questo privilegio è appunto la forza
vittoriosa che tale nazione può esercitare sulle altre. Questo N. profetico non
abita più oggi i popoli europei che, dalla lezione delle due guerre sono stati
ricondotti agli ideali universalistici dell’illuminismo: tende tuttavia ad
affermarsi in altre regioni del globo terrestre, alle quali si può solo
augurare di far tesoro dell’esperienza culturale e storica della vecchia
Europa. NECESSARIO (gr. avayuatoc; lat. Necessarius; ingl. Necessary; franc.
Nécessaire; ted. Notwendig). Ciò che non può non essere; o che non può essere.
Questa è la definizione nominale tradizionale che costituisce anche una delle
nozioni più unifor- memente e saldamente stabilite nella tradizione filosofica.
In tale definizione «ciò che non può essere» è l’impossibile che è il contrario
opposto del N. ed è quindi anch’esso N. come il nero, che è il colore opposto
al bianco, è anch'esso colore. Il contraddittorio del N., cioè il non-N. è
invece l’altra modalità fondamentale, cioè il possibile (v.). Le discussioni
logiche contemporanee sul N., quando non equivalgono alla negazione, espressa o
implicita di questa nozione, non sono altro di regola, che la riespressione di
questa definizione in termini di convenzionalismo moderno. Il primo a dare
un’esauriente analisi di « N.» è stato Aristotele. Egli ha distinto: a) il N.
come condizione o concausa, per cui si dice ad es. che il cibo è N. alla vita o
la medicina alla salute o l'andare in un certo posto a riscuotere una certa
somma; b) il N. come forza o costrizione per cui si dice che 612 è N. ciò che
impedisce od ostacola l’azione di un istinto o una scelta; c) il N. come ciò
che non può essere altrimenti, che è il senso fondamentale del concetto. A
questo senso infatti si possono, secondo Aristotele, ridurre gli altri. « Ciò a
cui siamo costretti si dice che è N. quando una forza qualsiasi ci costringe a
fare o a subire qualcosa che è contro l'istinto, sicchè la necessità consiste
in questo caso nel non poter fare o subire altrimenti. Lo stesso vale per le
condizioni della vita e del bene: giacchè quando il bene, la vita o l’essere
non possono esserci senza alcune condizioni queste son dette necessarie e si
dice che la causa è la necessità stessa » (Met., V, 5, 1014b 35). Nel senso
fondamentale, le dimostrazioni sono necessarie perchè non possono concludere
altrimenti; e non possono concludere altrimenti perchè le premesse non possono
essere diverse da quelle che sono (/bid., 1015b 7). Il significato a) di N. è
quello che Aristotele designa altrove come necessità ipotetica: è la necessità
che si trova nelle cose naturali e precisamente nella loro materia in quanto
costituisce la condizione di esse (Fis., II, 9, 200a 30; De Somno, 455b 26; De
part. an., 639b 24, 642a 9). Già Platone aveva ammesso questa specie di
necessità, ritenen- dola come uno dei costituenti del mondo (insieme con
l'intelligenza) e identificandola con la materia (Tim., 47 d, sgg.). Aristotele
distingue infine ciò che è N. in virtù di una causa esterna e ciò che è a se
stesso la causa della propria necessità. Le cose semplici sono necessarie in
questo secondo senso e perciò lo sono in modo primario ed eminente (2bid., 1015
b 10). Ma il concetto della necessità è sempre quello. Queste notazioni sono
rimaste pressochè immutate per tutta la storia della filosofia. Gli Stoici
defi- nirono la necessità tenendo presente gli enunciati verbali più che le
condizioni di fatto; e dissero pertanto N. «ciò che è vero e non può rivelarsi
falso » (Droga. L., VII, 1, 75): dove il « non potersi rivelare falso »
significa, per ciò che è vero, il non poter essere altro. Nè mutano il concetto
del N. le distinzioni stabilite da San Tommaso in confor- mità della divisione
aristotelica delle quattro cause. San Tommaso enumera infatti: @) la necessità
materiale (o ex principio intrinseco) nel senso in cui si dice che «ogni cosa
composta da contrari è N. che si corrompa +; 5) la necessità formale, che è
quella naturale e assoluta, secondo la quale si dice che « è N. che un
triangolo abbia i tre angoli uguali a due retti »; c) la necessità finale o
utilità secondo la quale si dice che il cibo è N. alla vita o un cavallo al
viaggio; d) la necessità efficiente, o necessità di coazione, secondo la quale
si è costretti da una causa efficiente in modo tale che non si può agire altri-
menti. In tutti i casi, il N. rimane per San Tommaso NECESSARIO « ciò che non
può non essere » (S. 7h., I, q. 82, a. l;j De Ver., q.22, a. 5). È
immediatamente evidente che questa distinzione riproduce quella aristotelica.
La necessità materiale e quella finale sono la neces- sità ipotetica di
Aristotele; la necessità di coazione ha in Aristotele lo stesso nome e la
necessità « natu- rale e assoluta » è, per San Tommaso come per Aristotele, il
significato fondamentale della necessità. Queste distinzioni, talora indicate
con altri nomi, sono rimaste le stesse per lungo tempo, nella storia della
filosofia. Gli Scolastici le ripetono senza mu- tarle, come ripetono, anche
quando ci credono poco, il significato fondamentale di N. come ciò che non può
essere altrimenti (cfr., ad. es., Gio- VANNI DI SALISBURY, Metalogicus, II,
13). Colui al quale si deve la prevalenza del concetto di necessità in
metafisica e in teologia, sia nella scolastica araba sia nella scolastica
cristiana, Avicenna, era partito dalla distinzione aristotelica (Mer., V, 5,
1015 b 10, già cit.) tra ciò che è N. per sè e ciò che è N. per altro (Mer.,
II, 1, 2): una distinzione che è alla base della dottrina di Spinoza (Er., I,
33, scol. 1) ed è stata da allora in poi ripetuta innumerevoli volte. Le prime
novità concettuali, in questa storia uniforme, sono la definizione della
necessità logica e l’introduzione del concetto di necessità morale da parte di
Leibniz. Leibniz distinse: a) la necessità geometrica, che è quella
appartenente alle verità eterne «il cui opposto implica contraddizione +; 5) la
necessità fisica, che costituisce « l’ordine della natura e consiste nelle
regole del movimento e in qualche altra legge generale che è piaciuto a Dio
dare alle cose creandole +; c) la necessità morale che è «la scelta del saggio,
in quanto è degna della sua saggezza + cioè la scelta del « meglio » (Tliéod.,
Disc., $ 2). La necessità fisica è fondata sulla neces- sità morale (è stato
Dio a scegliere le leggi della natura che costituiscono la necessità fisica e
la sua scelta è stata dettata dal fatto che erano le migliori possibili); ed
entrambe le necessità, la fisica e la morale, sono dette da Leibniz ipotetiche;
esse, egli afferma, non hanno niente a che fare con la necessità assoluta, che
è l'impossibilità del contrario (Nouv. Ess., II, 21, 13). Leibniz si avvale di
questa distinzione per difendere la libertà di Dio e quella dell’uomo e nello
stesso tempo per salvare l’infal- ‘ libilità della previsione divina: «La
verità, che dice ch’io domani scriverò, non è affatto necessaria. Ma supponiamo
che Dio la preveda, è N. che essa si verifichi: cioè è necessaria la
conseguenza, che essa si realizzi, dal momento che è stata prevista, essendo
Dio infallibile: è ciò che si chiama una necessità ipotetica » (Théod., I, $
37; cfr. Discours de Mét., 13). La differenza tra questa dottrina di Leibniz e
quella tradizionale consiste in ciò che NECESSARIO quest’ultima riconosceva
come una specie di neces- sità, riconducibile al significato fondamentale del
termine, quella che Leibniz considera come libertà e scelta: la necessità
ipotetica. Leibniz ha, in altri termini, ristretto il significato della
necessità a quello che Aristotele e la tradizione aristotelica consideravano
come la necessità «primaria» o «assoluta » o «naturale» e che Leibniz chiama
«geometrica » o « metafisica ». La definizione leib- niziana di questa
necessità come « ciò il cui opposto è impossibile » 0 « ciò il cui opposto è contraddit-
torio» serve appunto a limitare l’estensione di essa soltanto alle verità
matematiche e a un ristretto numero di verità metafisiche. Questo è il
risultato importante e duraturo della introduzione del con- cetto di necessità
morale da parte di Leibniz. Quanto a questo concetto, dal momento che esclude
la necessità ed è la stessa definizione della deter- minazione libera, ciò che
gli si può obbiettare è l’improprietà del nome: esso non è per nulla «
necessità ». Tuttavia proprio come tipo o specie di necessità, esso entrò nella
filosofia del ’700, insieme con la distinzione delle forme del necessario
proposta da Leibniz. Wolff rielaborava infatti questa distin- zione e a sua
volta distingueva: a) l’assolutamente necessario, che è « ciò il cui opposto è
impossibile o implica contraddizione » (On., $ 279); 5) l’ipo- teticamente N.
che è «ciò il cui opposto implica contraddizione o è impossibile soltanto in
un'ipotesi data o sotto una determinata condizione» (Onf., $ 302); c) il
moralmente N., che è « ciò il cui opposto è moralmente impossibile » (Phil.
practica, I, $ 115). La differenza tra l’assolutamente N. e l’ipotetica- mente
N. consiste in questo: il primo esclude la contingenza e il secondo no (/bid.,
$ 317-18). A differenza di Leibniz, Wolff tuttavia non riduce la necessità
ipotetica alla necessità morale, cioè alla libertà, ma la identifica con quella
retta dal principio di ragion sufficiente cioè con la causalità (Ibid., $ 320
sgg.). Wolff stesso afferma che questa sua dottrina della necessità è identica
con quella tradizionale e in particolare con quella di San Tom- maso (/bid., $
327), cioè con la definizione del N. come ciò che non può essere altrimenti; ed
essa certamente lo è, salvo che per il riconoscimento della necessità morale.
Questa dottrina viene sem- plicemente riprodotta da Kant, che anch’egli
distingue «la necessità materiale
nell’esistenza » che consiste nella connessione causale, dalla necessità
«formale e logica nella connessione dei concetti » (Crit. R. Pura, Anal., II,
cap. II, sez. 3, Postulati del pensiero empirico); e distingue ancora da queste
due specie di necessità, la «necessità morale», come costrizione o obbligo, che
è il dovere (Crir. R. Prat., I, Libro I, cap. III; trad. ital., pag. 96). 613
La necessità materiale è la necessità reale o ipotetica. Dice Kant: « Tutto ciò
che accade è ipoteticamente necessario; ecco un principio che subordina il
mutamento nel mondo ad una legge cioè a una regola dell’esistenza necessaria
senza la quale la natura non vi sarebbe» (Crit. R. Pura; l. c.). E in realtà la
connessione causale rimane per Kant «ipotetica » perchè Kant la considera
aperta dai due lati e non ritiene legittimo considerarla chiusa a formare una
totalità o serie assoluta. Ovvia- mente, se ciò avvenisse, la necessità ipotetica
diverrebbe necessità assoluta o geometrica. A sua volta Schopenhauer riteneva
che la necessità non avesse altro senso tranne che la « inevitabilità del-
l’effetto quando la causa è stata posta » e riteneva perfino contraddittorio
parlare di un essere « asso- lutamente necessario » cioè necessario senza con-
dizioni (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, $ 49).
Ma con l’idealismo ro- mantico, proprio la necessità assoluta divenne la
protagonista della filosofia. Fichte affermava: « Qual- siasi cosa realmente
esiste, esiste per assoluta ne- cessità; ed esiste necessariamente nella
precisa forma in cui esiste. È impossibile che non esista 0 che esista
altrimenti da come è » (Grundzilge des gegen- wdrtigen Zeitalters, 9). Assoluto
voleva pure essere il significato della necessità che Hegel difiniva come
«unità di possibilità e realtà»: definizione che esprime la presenza della
totalità delle condizioni in ogni momento del reale e quindi della piena e
assoluta necessità del reale stesso. « Quando si hanno tutte le condizioni,
dice Hegel, la cosa deve diventare reale » (Enc., $ 147). «Il N. è mediato per
mezzo di un circolo di circostanze: è così, perchè le circo- stanze sono così
ed insieme è così immediato, è così perchè è » (/bid., $ 149). In tal modo la
ne- cessità diventa l’anima della realtà, la dialestica (v.) propria della
Ragione reale o della Realtà razionale. Questa estensione all’infinito della
necessità non innova, come è ovvio, le caratteristiche del con- cetto, che
rimane quello definito da Aristotele; come non innova tali caratteristiche
l’uso che del concetto fa il filosofo contemporaneo che più ha insistito sulla
necessità del reale, nei suoi vari gradi e forme: Nicolai Hartmann (cfr.
special- mente Mbglichkeit und Wirklichkeit, 1938): (v. Pos- SIBILE). Possiamo
ora dare uno sguardo alla sorte che è toccata, nella filosofia contemporanea,
alle tre forme del N. che sono comunemente ammesse da Wolff in poi, dando atto
che nessuna innovazione è stata portata al concetto stesso del N.: 1° il
moralmente N., cioè l’obbligatorio o il doveroso, per quanto talvolta si
continui a chia- marlo tale, non può essere incluso nelle forme del necessario;
614 2° l’ipoteticamente N., identificandosi con il causale (v.) o il
condizionale (v.), condivide la sorte di questi concetti; 3° l’assolutamente
N., il N. « geometrico » o «logico » è quello al quale si fa più frequente
riferi- mento nel dominio del sapere filosofico e scientifico. « C'è soltanto
una necessità logica, dice Wittgenstein e così c’è soltanto una impossibilità
logica » (Tract. Logico-Philosophicus, 6.375). Quasi tutti i logici
contemporanei sottoscrivono o implicitamente ammettono, questa tesi di Witt-
genstein. Non c’è accordo tra essi, tuttavia, sulla definizione della necessità
logica; Le principali dottrine in proposito sono: a) la dottrina dell’anali-
ticità; b) la dottrina della regola; c) la dottrina dell’immunità; d) la
dottrina della qualità. a) La prima dottrina è l’erede della definizione
leibniziana della necessità logica come « impossibilità del contrario ». Peirce
diceva che il /ogicamente o essenzialmente N. è ciò che una persona che non
conosce i fatti ma è perfettamente a giorno delle regole del ragionamento e
delle parole implicite nel ragionamento stesso, sa che è vero. Una tale persona
ad es. non sa se c'è o no un animale detto basilisco 0 se vi sono cose come
serpenti, galline e uova; però sa che ogni basilisco è nato da un uovo di
gallina covato da un serpente. « Questo è essen- zialmente N. perchè è ciò che la
parola basilisco significa » (Coll. Pap., 4.67). Lewis a sua volta ha detto che
«un’asserzione è logicamente necessaria se, e solo se, il contraddittorio di
essa è incompatibile con se stesso » (Analysis of Knowledge and Valuation,
1946, pag. 89) che è nient'altro che una riformula- zione della definizione di
Leibniz. Strawson nello stesso senso ha detto « un'asserzione è necessaria
quando è la contraddittoria di un’asserzione incon- sistente » (Intr. to
Logical Theory, 1952, pag. 22). Carnap, osservando che il concetto di necessità
logica è comunemente inteso nel senso che si applica a una proposizione p «se e
solo se la verità di p è fondata su ragioni puramente logiche e non di-
pendente dalla contingenza dei fatti; o in altre parole se l’assunzione di non-p
condurrebbe a una contraddizione logica, indipendentemente dai fatti » ha
identificato la necessità logica con la verità logica; e ha definito la verità
logica, sulle orme di Leibniz, come quella che è valida in tutti i possibili
mondi, o, nella sua terminologia, è valida in qualsiasi descrizione di stato di
un sistema. La sua definizione della descrizione di stato rende chiaro questo
con- cetto: « Una classe di enunciati in .S,, che contiene per ogni enunciato
atomico o questo enunciato o la sua negazione ma non entrambe le cose, e nessun
altro enunciato, è chiamato una descrizione di stato in S,; perchè esso
ovviamente dà la completa descrizione di un possibile stato dell’universo degli
NECESSARIO individui rispetto a tutte le proprietà e relazioni espresse dai
predicati del sistema. Così le descrizioni di stato rappresentano i mondi
possibili di Leibniz o i possibili stati di cose di Wittgenstein » (Meaning and
Necessity, $ 2, $ 39). Questa è l’espressione più rigorosa che la tesi della
riduzione della necessità ad analiticità abbia mai ricevuto. Essa tuttavia non
è andata esente da critiche (cfr., ad es., QUINE, From a Logical Point of View,
II; A. Pap, Semantics and Necessary Truth, pag. 150 sgg.). b) La seconda
interpretazione della necessità logica è quella che riduce gli enunciati a cui
tale necessità si applica a semplici regole: o regole di trasformazione o, più
semplicemente, regole lingui- stiche. La dottrina che le «verità necessarie »
della matematica, per es. la famosa proposizione di cui Kant parlava «7 + 5=
12», siano nient’altro che regole di trasformazione cioè regole che permet-
tono l’inferenza da una formula all’altra e consen- tano pertanto la
sostituibilità reciproca delle for- mule, fu già esposta dal Circolo di Vienna
e specialmente da Schlick e ritorna frequentemente nella letteratura
contemporanea (cfr., ad es., K. BRITTON, in Proceedings of the Aristotelian So-
clety, 21°, 1947). Come pure ritorna in essa la dottrina che le proposizioni
analitiche (o tauto- logie) che costituiscono le « verità necessarie » della
logica non sono altro che regole linguistiche o più precisamente regole
semantiche. Difatti l’enunciato «tutti gli scapoli sono non sposati » può
essere in- terpretata come una regola per l’uso della parola « scapolo +, e una
regola ricavata a sua volta dal- l’uso. L’obiezione addotta talvolta contro
queste dottrine che esse toglierebbero alla verità N. il rango di «
proposizioni +, perchè una proposizione è sempre o vera o falsa mentre una
regola non lo è, ma è piuttosto utile, conveniente, corretta, ecc. (cfr., ad
es., Pap, Op. cit., pag. 179 sgg.) non è molto concludente perchè dimostra
soltanto l’in- compatibilità tra questa interpretazione della ve- rità N. e il
concetto tradizionale di proposizione. c) La terza interpretazione della
necessità lo- gica è quella data da Quine, secondo la quale essa sarebbe
l’immunità accordata a certe propo- sizioni nella matematica e nella logica in
quanto, per il carattere centrale che occupano nel sistema, la loro revisione
disturberebbe enormemente il si- stema stesso, che invece tendiamo, per quanto
è possibile, a conservare nei tratti fondamentali. Da questo punto di vista N.
significherebbe non «ciò che non può essere altrimenti » ma piuttosto « ciò di
cui non si vuol fare a meno», non perchè sia impossibile farne a meno, ma
perchè è preferibile. Questa interpretazione è fondata sul rigetto della
distinzione tra verità analitiche (o di ragione) e verità sintetiche (o di
fatto) sulla quale si fondano NECESSITARISMO invece le interpretazioni di cui
in a) (QuINE, Methods of Logic, pag. XIII; From a Logical Point of View, II e VIII. Questa interpretazione equivale ovviamente alla
eliminazione del concetto stesso di necessità. d) La quarta interpretazione è
quella che la considera come una proprietà intrinseca delle pro- posizioni,
considerate come oggetti, nel senso di Carnap: e precisamente una proprietà che
le pro- posizioni posseggono antecedentemente alla formu- lazione delle
convenzioni linguistiche. Da questo punto di vista «spiegare la necessità dei
princìpi tradizionali dell’inferenza deduttiva in termini di convenzioni
linguistiche significa porre il carro da- vanti ai buoi». Questa è la tesi di
A. Pap (Semantics and Necessary Truth, spec. cap. 7; cfr. anche « Ne- cessary
Propositions and Linguistics Rules», in Ar- chivio di Filosofia, 1955, pag.
63-105). In questa dottrina la necessità logica non si distingue da una
qualitas occulta. Di queste quattro interpretazioni la sola che non equivale
alla negazione della necessità stessa è la prima, che identifica la necessità
con l’analiticità o tautologicità. Si tratta di un’interpretazione che è
collegata strettamente con il concetto che Witt- genstein espose della
tautologia: « Tra i possibili gruppi di condizioni di verità si dànno due casi
estremi. In uno, la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità
delle proposizioni elementari; e noi diciamo in questo caso che le condizioni
di verità sono tautologiche. Nell’altro caso la propo- sizione è falsa per
tutte le possibilità di verità: le condizioni di verità sono contraddittorie »
(Tractatus, 4.46). Per conseguenza «la tautologia non ha con- dizione di verità
perchè è incondizionatamente vera; e la contraddizione a nessuna condizione è
vera » (Ibid., 4.461). Questo equivale a dire che un’affer- mazione
incondizionatamente vera cioè una tauto- logia o una proposizione N. o comunque
la si voglia chiamare, è quella che esaurisce il rango delle possibilità.
Questo è pure il significato della dottrina di Carnap della verità logica come
« de- scrizione di stato» cioè come verità valida per tutti i mondi possibili o
per tutti i possibili stati di cose. Da questo punto di vista c’è necessità
dove è possibile enumerare tutte le possibilità; e necessità equivale,
praticamente, a onnipossibilità. Questa d’altronde non è dottrina recente.
Ockham, nel sec. xIv riteneva N. soltanto le proposizioni condizionali o
equivalenti o quelle intorno al pos- sibile come, ad es., «Se c’è l’uomo,
l’uomo è animale ragionevole» o «Ogni uomo può essere animale ragionevole »
(Quodl., V, q. 15). Poichè solo convenzioni linguistiche d’altra natura pos-
sono limitare opportunamente il rango di possibilità cui una proposizione fa
riferimento, è abbastanza 615 chiaro che questo concetto di necessità è intera-
mente riducibile a convenzione. NECESSITARISMO (ingl. Necessitarianism; franc.
Nécessitarisme). Questo termine, assai poco usato in italiano ma che ha in
inglese una lunga tradizione, è molto utile per indicare l’insieme delle
dottrine che, in un modo qualsiasi dànno un posto eminente al concetto del
necessario o si avvalgono sistematicamente di esso. Possono essere enumerate
almeno tre dottrine fondamentali di questo genere: 18 La dottrina che ammette
il destino cioè l’ordine finalistico o provvidenziale del mondo; cioè un ordine
che determina necessariamente ogni cosa e ad ogni cosa garantisce la riuscita
migliore. Questa dottrina può chiamarsi provvidenzialismo o fatalismo; ma
quest’ultimo nome è adoperato solo da coloro che la combattono o almeno che ne
combattono alcuni aspetti (v. DESTINO; FATO; ProvviIDENZA). Il significato di
necessario cui tale dottrina fa riferimento è quello a) di Aristotele e c) di
S. Tommaso. 2* La dottrina che l’ordine del mondo con- siste nella connessione
causale universale; dottrina che fa riferimento al necessario nel significato
a) di Aristotele, d) di S. Tommaso, 5) di Leibniz, di Wolff e di Kant. Questa
dottrina è il determinismo rigoroso o classico, che meglio si dovrebbe chia-
mare causalismo (v. CAUSALITÀ; DETERMINISMO). 3» La dottrina che la necessità
costituisce il significato primario e fondamentale dell’essere; e che si avvale
di esso come criterio per la valuta- zione e l’analisi di tutte le cose
esistenti. Questo significato di N. è certamente il più importante e fondamentale,
quello al quale il termine dovrebbe di preferenza essere riferito. Il
necessario è, per tale dottrina, la categoria fondamentale; l’orizzonte
generale che abbraccia tutti gli strumenti di inda- gine e di spiegazione di
cui è possibile servirsi. Molto spesso tale dottrina non ammette la necessità
nel senso delle dottrine 1* o 2: Aristotele e S. Tommaso, ad es., che possono
essere conside- rati come esempi molto importanti di questa dot- trina, pur
ammettendo la necessità del destino non ammettono la necessità causale
assoluta; tuttavia sono necessitaristi nel senso che per essi il significato
fondamentale dell’essere è la necessità e che tale significato è presente nella
costruzione di tutti i concetti fondamentali della loro filosofia. Nello stesso
senso è necessitaristica la dottrina di Hegel e sono necessitaristiche tutte le
dottrine che si ispirano all’idealismo romantico. Ma l’attrezzatura concettuale
del N. è diffusa molto al di là di questa o quella dottrina: concetti comé
quelli di causa e di sostanza, con tutte le loro derivazioni, che sono
mumerosissime, dominano ancora vaste zone del discorso comune, scientifico e
filosofico; e intro- 616 ducono il loro senso necessitaristico nelle analisi
della scienza e della filosofia. NEGATIVO (gr. aroparéc; lat. Negativus; ingl.
Negative; franc. Négatif; ted. Negativ). Ciò che effettua o implica una
negazione, cioè una esclusione di possibilità. Un’entità N., per es., una
proposizione, non implica che sussista l’entità po- sitiva corrispondente alla
quale poi venga ag- giunta la negazione, ma è semplicemente l’esclu- sione di
una possibilità; e, il più delle volte, di una possibilità formulata soltanto
allo scopo di escluderla. I molteplici usi del termine si lasciano ricondurre a
questo significato fondamentale. « Risultato N. + di un esperimento significa
l’esclusione di una certa possibilità di interpretazione o di spiegazione.
«Effetto N.» di una certa operazione significa l'esclusione di ciò che ci si
aspettava come pos- sibile dall’operazione stessa. « Atteggiamento N.» nei
confronti di una dottrina o di una cosa qual- siasi è l’atteggiamento che
esclude la possibilità che la dottrina sia vera o che la cosa abbia un valore
qualsiasi; ecc. NEGAZIONE (gr. &répaor; lat. Negatio; in- glese Negation;
franc. Négation; ted. Verneinung, Negation). Termine col quale si può designare
tanto l’atto del negare, quanto il contenuto ne- gato, ossia la proposizione
negativa, detta in greco &népao (lat. negario: Boezio) e definita come
«enunciato che divide qualcosa da qualcosa » (De Interpr., 17 a 26), in quanto,
secondo la medesima dottrina aristotelica, essa separa o allontana due
concetti. Sostanzialmente la tradizione logica suc- cessiva ha conservato
questa dottrina e quindi questo significato del termine N.: soltanto i se-
guaci della teoria del giudizio come assenso (Ro- smini, Fr. Brentano, Husserl)
considerano la N. come atto di diniego (rifiuto, ripudio, Verneinung) di una
rappresentazione o idea. Nella Logica sim- bolica contemporanea la N. è
rappresentata da un simbolo speciale (€ — +) che premesso al simbolo di una
proposizione « p + trasforma questa o nell'affer- mazione che «p» è falsa
(Russell) o in una nuova proposizione (molecolare), funzione di verità di « p
», e precisamente (nella Logica a due valori) nella proposizione che è falsa
quando «p + è vera e vera quando « p + è falsa (Wittgenstein, Carnap). G.P.
NEOCRITICISMO (ingl. Neo-Criticism; fran- cese Néocriticisme; ted.
Neukantianismus). Il mo- vimento del « ritorno a Kant » iniziatosi in Germania
verso la metà del secolo scorso e che ha dato ori- gine ad alcune tra le più
importanti manifestazioni della filosofia contemporanea. I tratti comuni di
tutte le correnti del N. sono i seguenti: 1° la negazione della metafisica e la
riduzione della filo- sofia a riflessione sulla scienza, cioè a teoria della
NEGATIVO conoscenza; 2° la distinzione tra l’aspetto psicolo- gico e l’aspetto
logico-oggettivo della conoscenza, distinzione in virtù della quale la validità
di una conoscenza è completamente indipendente dal modo in cui essa viene
psicologicamente acquisita o con- servata; 3° il tentativo di risalire dalle
strutture della scienza, sia di quella della natura sia quella dello spirito,
alle strutture del soggetto che la renderebbero possibile. In Germania, costituirono
la corrente neo- criticista: 1° la Scuola di Marburgo (Marburger Schule) alla
quale hanno appartenuto F. A. Lange, H. Cohen, P. Natorp, E. Cassirer, e alla
quale si riconnette, in parte, anche Nicolai Hartmann; 2° la Scuola del Baden
(Badische Schule), che fu fondata da W. Windelband e H. Rickert; 3° lo
storicismo tedesco con G. Simmel, G. Dilthey, E. Troeltsch, ecc. Quest’ultimo
indirizzo formulò il problema della storia analogamente al modo in cui le altre
scuole kantiane formulavano il problema della scienza na- turale (v.
SToRICISMO). Fuori della Germania, si connettono all’indirizzo neocritico C.
Renouvier e L. Brunschvicg, in Francia; e S. H. Hodgson e R. Adamson, in
Inghilterra; Banfi in Italia. NEOHEGELISMO (ingl. Neo-Hegelianism; franc.
Néo-Hégélianisme; ted. Neuhegelianismus). Il ritorno all’idealismo romantico
che si è verificato in Inghilterra, in Italia e in America negli ultimi decenni
del secolo scorso e nei primi del nostro secolo. Il N., come l’idealismo
romantico di cui è una diretta filiazione, ha come sua tesi fonda- mentale
l’identità del finito e dell’infinito cioè la riduzione dell’uomo e del mondo
dell’esperienza umana all’Assoluto. H necidealismo anglo-ameri- cano e il
neocidealismo italiano si distinguono tra loro per il modo in cui effettuano
questa riduzione. L’idealismo anglo-americano l’effettua per via ne- gativa,
mostrando che il finito, per la sua intrinseca irrazionalità, non è reale o è
reale solo nella mi- sura in cui rivela e manifesta l’infinito. L’idealismo italiano
la effettua per via positiva, mostrando nella struttura stessa del finito,
nella sua intrinseca e necessaria razionalità, la presenza e la realtà del-
l'infinito. Questa era stata anche la via tenuta da Hegel e da tutto
l’idealismo romantico. Alla corrente inglese appartengono G. H. Stirling, T. H.
Green, B. Bosanquet, J. E. McTaggart; e specialmente F. H. Bradley, che è il
maggiore rappresentante di essa. In America la maggiore figura del N. è stata
J. Royce. Dell'idealismo italiano i maggiori fappresentanti sono stati G.
Gentile e B. Croce. Su tutti, v. IDEALISMO. NEOIDEALISMO. V. NEOHEGELISMO.
NEOKANTISMO. V. NEOCRITICISMO. NEOPITAGORISMO (ingl. Neo-Pyrhago- reanism;
franc. Néo-pythagorisme; ted. Neupythago- NEOREALISMO reismus). La reviviscenza
della filosofia pitagorica che si manifestò nel I secolo a. C. sia con la com-
parsa di scritti pitagorici di falsa attribuzione (Derti Aurei, Simboli,
Lettere, attribuiti a Pitagora), e di altri scritti attribuiti al lucano Ocello
e ad Ermete Trismegisto sia con una fioritura di filosofi che dichiaravano di
ispirarsi alle dottrine del pitago- rismo antico. Fra essi: Nigidio Figulo,
Apollonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa e soprattutto Numenio di Apamea (1 sec.
d. C.). Le dottrine di questi scrit- tori non hanno nulla di originale ma
presentano tratti che divennero propri del neoplatonismo (v.). NEOPLATONISMO
(ingl. Neo-Platonism; franc. Néo-platonisme; ted. Neuplatonismus). La scuola
filosofica fondata in Alessandria da Am- monio Sacca nel 1 secolo d. C. e che ha
come suoi maggiori rappresentanti Plotino, Giamblico e Proclo. Il N. è una
scolastica: è cioè l’utilizzazione della filosofia platonica (filtrata
attraverso il neo- pitagorismo, il platonismo medio e Filone) per la difesa di
verità religiose cioè di verità che si rite- nevano rivelate all’uomo ab
antiquo e da lui ri- scopribili nell'intimità della coscienza. I capisaldi del
N. sono i seguenti: 1° il carattere rivelativo della verità, che perciò è di
natura religiosa e si manifesta nelle istituzioni religiose esistenti e nella
riflessione dell’uomo su se stesso; 2° il carattere assoluto della trascendenza
di- vina, per il quale Dio, considerato come il Bene, è posto al di là di ogni
determinazione conoscibile e ritenuto ineffabile; 3° la teoria dell’emanazione
cioè della deriva- zione necessaria da Dio di tutte le cose esistenti, che
diventano sempre meno perfette a misura che si allontanano da Lui; e la
conseguente distinzione tra il mondo intelligibile (Dio, Intelletto e Anima del
mondo) e il mondo sensibile (o materiale) che è un’immagine o parvenza
dell’altro; 4° il ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo e la sua
progressiva interiorizzazione, sino al punto dell’estasi cioè dell’unione con
Dio. Nel N. si sogliono distinguere: la Scuola Siriaca fondata da Giamblico; la
Scuola di Pergamo alla quale appartenne fra gli altri l’imperatore Giuliano
detto l’Apostata; e la Scuola di Atene il cui maggiore rappresentante fu
Proclo. Ma le dottrine fonda- mentali del N. hanno avuto, e continuano ad
avere, un’influenza profonda su molti indirizzi del pen- siero filosofico. Il
«platonismo » del Rinascimento è in realtà un N. che ripete, con alcune
variazioni, le tesi su esposte. Le variazioni che caratterizzano il N. ri-
nascimentale (quello di Cusano, Pico e Ficino) sono relative alla maggiore
importanza attribuita all’uomo e alla sua funzione nel mondo, conformemente a
617 quello che è lo spirito generale del Rinasci- mento (v.). Una forma di
razionalismo religioso è invece il N. inglese che fiorì nella scuola di Cambridge
nel sec. xv (Cudworth, Moore, Whichcote, Smith, Culverwel); che da un lato si
oppone al materia- lismo di Hobbes e dall’altro sostiene che le idee
fondamentali della religione sono state stampate direttamente da Dio nella
ragione e nell’intelletto dell’uomo e perciò precedono la conoscenza empi- rica
delle cose naturali. Ma anche nel N. inglese ritornano molti temi del N.
rinascimentale, special- mente di Ficino. NEOPOSITIVISMO (ingl. Neo-Positivism;
franc. Néo-positivisme; ted. Neupositivismus). 1. Lo stesso che empirismo
logico (v.). 2. Così talora è stato chiamato il bergsonismo (Le Roy, Un
positivisme nouveau, 1901). NEOREALISMO (ingl. New Realism; fran- cese
Néo-realisme; ted. Neurealismus). Con questo termine si designano le correnti
del pensiero con- temporaneo che assumono come loro insegna la negazione
dell’idealismo gnoseologico (v.) cioè la negazione della riduzione dell’oggetto
della cono- scenza a un modo d’essere del soggetto. L’idealismo gnoseologico è
stato il clima dominante della filo- sofia dell’800: giacchè esso era
partecipato non solo dall'idealismo romantico ma anche dallo spi- ritualismo,
dal neocriticismo e in generale da tutte le filosofie coscienzialistiche.
Eccezioni a questa tendenza generale furono dapprima la filosofia dell’immanenza
di G. Schuppe e l’opera di Osvaldo Kiilpe (Einleitung in die Philosophie,
1895). Ma una nuova storia cominciò per il realismo soltanto a partire dal
saggio di G. E. Moore, «La confuta- zione dell’idealismo » pubblicato nel Mind
del 1903. In seguito difendevano il realismo in Inghilterra B. Russell e S.
Alexander; mentre in America un volume collettivo del 1912 intitolato appunto
Il nuovo realismo affermava le tesi di un realismo aggiornato, tesi che sotto
altra forma venivano riproposte alcuni anni dopo nei Saggi di realismo critico
(1920) pubblicati da un altro gruppo di filosofi americani. Nel primo gruppo la
figura più nota fu quella di W. P. Montague; nel secondo gruppo quella di G.
Santayana. Più tardi il nuovo realismo ha trovato sostenitori in A. N.
Whitehead e in N. Hartmann. Il nuovo realismo presenta nel suo interno tanti
indirizzi dottrinali diversi quanti sono i filosofi che lo professano; ma si
fonda tuttavia su una tesi fondamentale comune che costituisce la sua novità e
il suo punto di distacco dal realismo tradizionale nonchè la sua linea di
difesa contro l’idealismo. Questa tesi è la seguente: il rapporto conoscitivo
(cioè il rapporto nel quale l’oggetto della cono- 618 scenza entra col
soggetto, cioè con la mente che lo apprende) non modifica la natura
dell’oggetto stesso. Questa tesi si ispira alla nozione matematica della
«relazione esterna» cioè della relazione che non modifica i termini relativi.
Essa, come è ovvio, elimina del tutto la dipendenza esistenziale o qua- litativa
dell'oggetto della conoscenza dal soggetto e rende privo di senso l’idealismo.
Lontanissimi come sono tra loro, sotto tutti gli altri rispetti, Moore,
Montague, Santayana, Alexander, Hart- mann, condividono questa tesi. NEOTOMISMO
(ingl. Neo-Thomism; francese Néo-thomisme; ted. Neuthomismus). Con questo
termine o con quello assai meno appropriato di « neoscolastica » s'intende quel
movimento di ri- torno alla dottrina di S. Tommaso, nel seno della cultura
cattolica, che fu iniziato dall’enciclica Ae- terni Patris di Leone XIII (4
agosto 1879). Questo movimento consiste nella difesa polemica delle tesi
filosofiche tomistiche contro i diversi indirizzi della filosofia contemporanea
e, indirettamente, nella rielaborazione e nel rammodernamento di tali tesi. Una
delle prime figure del N. fu quella del cardinale belga Desiderato Mercier
(morto nel 1925); mentre tra le figure più note del mondo contemporaneo ci sono
quelle di E. Gilson e di J. Maritain. Abitualmente il tomismo accetta la
problematica della filosofia contemporanea ma cerca di ricon- durre tale
problematica alla sistematica tomistica. Uno degli effetti più importanti della
fioritura neotomista è la rinnovata importanza che hanno assunto, a partire
dagli ultimi decenni del secolo scorso, gli studi di filosofia medievale cioè
della scolastica classica. NEOVITALISMO. V. ViraLISMO. NESSO (lat. Nexus; ingl.
Bond; franc. Con- nexion; ted. Zusammenhang). La connessione delle cose tra di
loro o nell’ordine causale o nell’ordine finale: Kant chiama il primo nexus
effectivus, il secondo nexus finalis (Crit. del Giud., $ 87). White- head ha
chiamato con questo termine (nexus) le connessioni reali tra le cose, da lui
conside- rate come elementi ultimi della realtà insieme alle cose stesse e alle
percezioni (Process and Reality, 1929). NESTORIANISMO (ingl. Nestorianism;
fran- cese Nestorianisme; ted. Nestorianismus). La dot- trina di Nestorio,
patriarca di Costantinopoli (428- 431) secondo la quale, essendoci in Cristo
due nature, ci sono anche due persone, di cui l’una abita nell’altra come in un
tempio. Nestorio negava pure che Maria fosse madre di Dio e diceva favola
pagana l’idea di un Dio ravvolto in fasce e crocifisso. Questa interpretazione
del- l'incarnazione era stata già sostenuta da Diodoro di Tarso (morto verso il
394) e dal suo discepolo NEOTOMISMO Teodoro di Mopsuestia (morto verso il 428).
Essa fu condannata dal concilio di Efeso del 431 ma continuò per lungo tempo a
sopravvivere, e tut- tora sopravvive presso gruppi della Turchia asiatica e
della Persia. NEUTRALISMO (ingl. Neutralism). Termine adoperato da Peirce come
sinonimo di monismo (Chance, Love and Logic, II, 1; trad. ital., pa- gina 121)
(v. MonISMO). NEUTRALIZZAZIONE (ted. Neutralisie- rung). Con questo termine
Husserl ha indicato la sospensione della credenza per la quale «quello che è
esistente o possibile o verosimile o discutibile, come pure il non-esistente,
in qualsiasi negazione o affermazione, sono presenti alla coscienza ma non
nella maniera del reale bensì come ‘ mero pen- sato * o ‘mero pensiero * »
(Ideen, I, $ 109) (vedi EPOCHÉ). NEUTRO, MONISMO (ingl. Neutral Mo- nism). Con
questa espressione viene talvolta in- dicata in America la tesi del neorealismo
se- condo la quale le entità che entrano a comporre lo spirito e la materia non
sono nè mentali nè materiali, ma acquistano tali qualifiche in virtù delle
relazioni in cui entrano. In realtà questo punto di vista è stato per la prima
volta sostenuto dall’empirio-criticismo (v.) di Avenarius e da Mach. NEWTONISMO
(ingl. Newronianism; fran- cese Newtonianisme; ted. Newtonianismus). Con questo
termine è stato indicato soprattutto la dot- trina di Newton della gravitazione
universale. Cioè la generalizzazione delle leggi della gravitazione a tutto
l’universo e la formulazione di queste leggi mediante l’unica formula: i corpi
si attraggono proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione inversa
del quadrato delle distanze. Questa legge fu enunciata da Newton per la prima
volta nel Propositiones de motu del 1684, e poi nei Principi matematici di
filosofia naturale del 1687. NICHILISMO (ingl. Nihilism; franc. Nihi- lisme;
ted. Nihilismus). Termine usato più spesso con intento polemico, per indicare
dottrine che si rifiutano di riconoscere realtà o valori la cui am- missione si
ritiene importante. Così Hamilton usò il termine per qualificare la dottrina di
Hume che nega la realtà sostanziale (Lecsures on Metaphysics, I, pag. 293-94);
e in questo caso la parola non vuol dire più che fenomenismo. In altri casi
essa viene adoperata per indicare gli atteggiamenti di coloro che negano
determinati valori morali o politici. Soltanto Nietzsche fece un uso non
polemico del termine, servendosi di esso per qualificare la sua opposizione
radicale ai valori morali tradizionali e alle tradizionali credenze
metafisiche. «Il N., egli disse, non è soltanto un insieme di considera- zioni
sul tema: ‘Tutto è vano’; non è solo la NOLONTÀ credenza che tutto merita di
morire, ma consiste nel mettere la mano in pasta, nel distruggere... È lo stato
degli spiriti forti e delle volontà forti cui non è possibile attenersi a un
giudizio negativo: la negazione attiva risponde meglio alla loro natura
profonda + (Wille zur Macht, ed. Kròner, XV, $ 24). NIENTE. V. NULLA. NIRVANA.
L’estinzione delle passioni e del desiderio di vivere, quindi della catena
delle nascite, nella dottrina buddistica. « Quest’isola incompara- bile in cui
ogni cosa sparisce ed ogni attaccamento cessa, io la chiamo N., distruzione
della vecchiaia e della morte» (Surtanipdta, V, 11). Nella filosofia occidentale
Schopenhauer ha fatto propria questa nozione, vedendo in essa la negazione
della volontà di vivere, la cui esigenza scaturisce dalla conoscenza della
natura dolorosa e tragica della vita (Die Welt, I, $ 71; II, cap. 41). NODALE,
LINEA (ted. Knotenlinie). Così Hegel chiamò il passaggio dalla quantità alla
qua- lità avvenuto per mutamento della quantità stessa (per es., quando il
mutamento della quantità di calore nell’acqua produce il passaggio dell’acqua
stessa dallo stato liquido al solido o all’aeriforme (Wissenschaft der Logik,
I, sez. III, cap. II, B; trad. ital., I, pa- gina 444 sgg.). Questo concetto ha
avuto più fortuna fuori dello hegelismo che nell’hegelismo. Kierkegaard ne
trasse il suo concetto del salto (v.). Engels fece del passaggio dalla quantità
alla qualità una delle leggi fondamentali della dialettica (Dialektik der
Natur; trad. ital., pag. 57) (v. DIALETTICA; SALTO). NOEMA (ted. Noema). Nella
terminologia di Husserl, l’aspetto oggettivo dell’esperienza vissuta: cioè
l’oggetto, considerato dalla riflessione nei suoi vari modi d’essere daro (ad
es., il percepito, il ricordato, l’immaginato). Il N. è distinto dall’og- getto
stesso, che è la cosa: per es., l’oggetto della percezione dell’albero è
l’albero, ma il N. di questa percezione è il complesso dei predicati e dei modi
d’essere dati all’esperienza, per es., l'albero verde, illuminato, non
illuminato, percepito, ricordato, ecc. (Ideen, I, $ 88). L'aggettivo
corrispondente è Noe- matico. NOESI (ted. Noesis). Nella terminologia di Husserl,
l’aspetto soggettivo dell’esperienza vis- suta, costituito da tutti gli atti di
comprensione che mirano ad afferrare l’oggetto, come il perce- pire, il
ricordare, l’immaginare, ecc. (/deen, I, $ 92). L'aggettivo corrispondente è
Noetico. NOETICA (ingl. Noetic; franc. Noétique; te- desco Noétik). Così
Hamilton chiamò la parte della logica che studia «le leggi fondamentali del
pensiero » cioè i quattro princìpi di Identità, Con- traddizione, Terzo escluso
e Ragion sufficiente (Lectures on Logic, V, I, pag. 72). Quest’uso è stato
seguito da pochi altri autori. 619 NOIA (ingl. Boredom; franc. Ennui; ted.
Lang- weile). Moralisti e filosofi hanno talora insistito sul carattere cosmico
o radicale di questo sentimento. « Senza il divertimento, diceva Pascal, noi
saremmo nella N. e la N. ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per
uscirne. Ma il divertimento ci diletta e così ci fa arrivare inavvertitamente
alla morte» (Pensées, 171). Schopenhauer osservava che « non appena miseria e
dolore concedono all’uomo una tregua, la N. è subito tanto vicina che egli per
necessità ha bisogno di un passatempo »; e vedeva perciò la vita continuamente
oscillare tra il dolore e la N. (Die Welt, I, $ 57). Più profonda- mente e
anticipando l’esistenzialismo, Leopardi vedeva nella N. l’esperienza della
nullità di tutto ciò che è: «Or che cos'è la N.?» si chiedeva. « Niun male nè
dolore particolare (anzi l’idea e la natura della N. esclude la presenza di
qualsiasi particolar male o dolore) ma la semplice vita pie- namente sentita,
provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo »
(Zibaldone, VI, pag. 421). Heidegger ha ripetuto queste nota- zioni, scorgendo
nella N. il sentimento che rivela la totalità delle cose esistenti, nella loro
indiffe- renza. «La vera N., egli ha detto, non è quella che ci viene da un
libro o da uno spettacolo o da un divertimento che ci annoiano, ma quella che
ci invade quando ‘ci si annoia’: la N. profonda che, come nebbia silenziosa, si
raccoglie negli abissi del nostro esserci, accomuna uomini e cose, noi stessi
con tutto ciò che è intorno a noi, in una singolare indifferenza. È questa la
N. che rivela l’esistente nella sua totalità » (Was ist Metaphysik? 58 ediz.,
1949, pag. 28). La N. in questo senso è molto vicina alla nausea (v.) di cui
parla Sartre e che è anch’essa l’esperienza dell’indifferenza delle cose nella
loro totalità. Il precedente di essa può forse essere scorto nella malinconia
(Sckhwermut) che secondo Kierkegaard è lo sbocco inevitabile della vita
estetica. « Se si domanda a un malinconico quale ragione abbia per essere così
e che cosa gli pesi, risponderà che non lo sa, che non lo può spiegare. In
questo consiste l’infinità della malin- conia » (Entweder-Oder, in Werke, II,
pag. 171). In questo senso la malinconia è l’accidia medievale (Ibid., II, 168)
ed è considerata da Kierkegaard come «l’isterismo dello spirito» nonchè come il
peccato fondamentale in quanto «è peccato non volere profondamente e
sentitamente» (/bid., pa- gina 171). NOLONTA (lat. Noluntas; ingl. Nolition;
fran- cese Nolonté; ted. Nolitio). Il non volere o rifuggire. Il termine è
rarissimo, in tutte le lingue. Secondo S. Tommaso, «il desiderio del bene si
chiama volontà in quanto è il nome dell’atto di volontà; ma la fuga dal male si
dice piuttosto nolontà. 620 Sicchè come la volontà è del bene, così la N. è del
male» (S. 7h., II, 1, q. 8, a. 1). Nello stesso senso il termine ricorre in
Wolff (Phil. practica, I, $ 38). È chiaro che in questo senso la N. è vo- lontà
positiva, come la cosiddetta volontà. Altri autori invece l’hanno intesa nel
senso di volontà inibita o assenza di volontà (RENOUVIER e PRAT, Monadologie,
pag. 231). Questo secondo senso è decisamente improprio. NOME (gr. évoua; lat.
Nomen; ingl. Name; franc. Nom; ted. Name). La parola o il simbolo che denota un
oggetto qualsiasi. I problemi che il N. fa sorgere come parola o simbolo, per
es. quello della sua origine o della sua validità, si trovano discussi nella
voce linguaggio (v.). Qui occorre soltanto richiamare le determinazioni specifiche
che i logici hanno dato al concetto di N. Quando Platone definisce il N. come
«lo strumento adatto a insegnare e a farci discernere l’essenza, al modo in cui
la spola è adatta a tessere la tela » (Crat., 388 b), la sua definizione si
adatta a qualsiasi termine o espressione linguistica. Aristotele invece ha dato
la prima analisi specifica del nome. « Il N., egli ha detto, è un suono di voce
significativo per convenzione, che prescinde dal tempo e le cui parti non sono
significative se prese separatamente » (De Int., 2, 16a 19). In quanto «
prescinde dal tempo », il N. si distingue dal verbo che ha sempre una
determinazione temporale. In quanto non ha parti di per sè significative, il
nome si distingue dal discorso. E poichè Aristotele osserva che l’espres- sione
infinita « non uomo» non è un N., i logici posteriori aggiunsero alla
definizione aristotelica del N. la caratterizzazione « finita »; nonchè quella
di « retta », per escludere i casi obliqui del N. che sono di interesse per il
grammatico e non per il logico (Pietro Ispano, Summul. Log., 1.04). Lo stesso
Aristotele avvertiva (De /nt., 2, 16a 23) che il N. non sempre è semplice; e in
questo senso la definizione di esso veniva così modificata da Jungius nel sec.
xvi: « Per N. si intende un simbolo o segno, istituito per una cosa determinata
e per la nozione che rappresenta la cosa, sia che si tratti di un N.
grammaticalmente unico, sia che si tratti di un N. composto da più vocaboli
(Log. Hambur- gensis, 1638, IV, 2, 10). Nella logica contemporanea, la funzione
del N. è stata analizzata soprattutto a proposito di quella che Carnap ha
chiamata «l’antinomia della relazione- N. ». Questa antinomia era stata scorta
da Frege (* Uber Sinn und Bedeutung +, 1892, in Aritmetica e logica, ed.
Geymonat, pag. 215-52) ma fu formulata come antinomia da Russell (s On Denoting
», 1905, ora in Logic and Knowledge, pag. 41-56). L’antino- mia risulta dal
fatto che due nomi sinonimi (aventi cioè lo stesso significato) debbono poter
essere NOME sostituiti l’uno all’altro senza che muti il significato e il
valore di verità del contesto. Ora « Sir Walter Scott» e «l’autore di Waverley»
sono nomi sino- nimi perciò sostituibili. Tuttavia se nella frase « Giorgio IV
domandò una volta se Scott era l’au- tore di Waverley» si sostituisce ad
«autore di Waverley » l’altro N. sinonimo «Scott» la frase risulta falsa perchè
diventa: « Giorgio IV domandò una volta se Scott era Scott ». Questa antinomia
ha avuto nella logica contem- poranea due soluzioni principali: la prima della
quale consiste essenzialmente nel ridurre la denota- tazione a una descrizione
in termini direttamente o indirettamente riducibili a esperienze elementari.
Questa soluzione è stata proposta da Russell (che la espose nel saggio citato e
poi nel primo vol. dei Prin- cipia Mathematica, 1910). Secondo Russell, la
frase « Giorgio IV, ecc. » può significare: a) « Giorgio IV desiderava sapere
se un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e se Scott fu quell'uomo +; oppure
può significare 5): « Un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e Giorgio IV
desiderava sapere se Scott fu quell'uomo». In questo secondo caso « l’autore di
Waverley ricorre, dice Russell, in modo primario (primary occurrence) perchè
suppone che Giorgio IV ha una qualche diretta conoscenza di Scott. Nella prima
invece la frase ricorre in modo secondario nel senso che non suppone una
diretta conoscenza di Scott («On Denoting»?, Op. cif., pag. 72). Questa teoria
oltre a presupporre la differenza tra conoscenza diretta e conoscenza
indiretta, equivale a ridurre i nomi propri a nomi comuni e i nomi comuni a
nomi propri, cioè deno- tanti elementi ricavati dall’esperienza diretta. Teorie
simili a queste sono state date da Quine (Methods of Logic, 1950, $ 33; From a
Logical Point of View, 1953, cap. 1) e da altri. La seconda soluzione
dell’antinomia della rela- zione-N. è quella proposta dallo stesso Frege. Essa
consiste nel distinguere il significato (Bedeutunp, Meaning) come denotazione,
dal senso (Sinn, Sense). La denotazione è il riferimento del N. all’oggetto: «
Sir Walter Scott » e « l’autore di Waver/ey » hanno la stessa denotazione
perchè si riferiscono allo stesso oggetto. Il senso è invece, come diceva
Frege, « qualcosa che viene subito afferrato da chi conosca sufficientemente la
lingua (o in genere il complesso di segni) cui il N. proprio appartiene » («
Uber Sinn und Bedeutung », $ 1; ed. ital. cit., pag. 219); sicchè due nomi
possono avere diversi sensi, pur riferendosi allo stesso oggetto. Questo è
proprio il caso delle due espressioni citate; e poichè è possibile comprendere
il senso di un N. senza cono- scere la sua denotazione, le domande del tipo di
quella attribuita a Giorgio IV significano una ri- chiesta di informazione
concernente l'identità delle NON CAUSA PRO CAUSA loro denotazioni. Questa soluzione
è stata ripetuta con varianti da Carnap (Meaning and Necessity, $ 31-32) e da
Church (/ntr. to Mathematical Logic, 1958, $ 01). E sembra una soluzione
preferibile perchè non esige particolari presupposti sulla natura del
linguaggio. NOMINALE, DEFINIZIONE. V. Derini- ZIONE. NOMINALISMO (lat.
Nominalismus; franceseNominalisme; ted. Nominalismus). La dottrina dei filosofi
nominales o nominalisti che costituirono una delle grandi correnti della
Scolastica. I termini nominalista (nominalis) o terminista (ferminista) furono
usati solo al principio del sec. xv (v. TER- MINIsMO). Ma già Ottone di
Frisinga nella sua cro- naca Sulle gesta di Federico (I, 47) affermava che
Roscellino » fu il primo nei nostri tempi a proporre in logica la dottrina
delle parole (sententiam vocum) ». AI principio del sec. x11 il N. veniva
difeso da Abe- lardo (v. UNIVERSALI); ma il suo trionfo nella Scolastica fu
dovuto all’opera di Guglielmo di Ochkam (1280-1349) che non per nulla fu detto
Princeps Nominalium. Così Ockham esprimeva la sua convinzione in materia: «
Nessuna cosa fuori dell’anima nè di per sè nè per qualcosa che le venga
aggiunta, di reale o di razionale, e comunque si consideri e si intenda, è
universale: giacchè tanta è l'impossibilità che una cosa fuori dell’anima sia
in qualsiasi modo universale (a meno che ciò non avvenga per convenzione come
quando si considera universale la parola ‘uomo’ che è singolare) quanta è
l’impossibilità che l’uomo, per qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi
essere, sia l’asino » (/n Sent., I, d. II, q.7 S-T). Dal punto di vista
positivo, il N. ammette che l’universale o concetto è un segno dotato della
capacità di essere predicato di più cose. In questo senso il concetto era già
stato definito da Abelardo (v. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI). Nel delineare una
breve storia del N., a proposito di Nizolio, Leibniz diceva che «sono
nominalisti coloro che credono che, oltre le sostanze singolari, non ci sono
che i puri nomi e quindi eliminano la realtà delle cose astratte e universali
», e Leibniz faceva cominciare il N. così inteso da Roscellino e includeva tra
i nominalisti, oltre lo stesso Nizolio, anche Tommaso Hobbes (De stilo
philosophico Nizolii, 1670, Op., ed. Erdmann, pag. 69). Queste notazioni e
inclusioni leibniziane sono state accettate dagli storici della filosofia. In
epoca più vicina a noi, il termine è stato ado- perato per designare
l’interpretazione convenziona- listica della fisica: per es. Poincaré lo
adoperava nei confronti di Le Roy(La science et l’hypothèse, pag. 3). Qualche volta
i logici moderni usano il termine per indicare la dottrina che il linguaggio
delle scienze 621 contiene solo variabili individuali, i cui valori sono
oggetti concreti e non già classi, proprietà e simili (Quine, From a Logical
Point of View, VI, 4 sgg.; CARNAP, Meaning and Necessity, $ 10).
NOMINALIZZAZIONE (ted. Nominalisie- rung). Husserl ha inteso per «legge di N.»
quella secondo la quale «ad ogni proposizione, ed a ogni forma parziale
distinguibile nella proposizione, corrisponde un elemento nominale» (/deen, I,
$ 119): il che significa, per es., che alla proposizione « S è P» può
corrispondere l’elemento unico nominale «l'essere P di S», nella quale «esser
P» può signi- ficare la simiglianza, la pluralità, ecc. NOMOLOGIA (ingl.
Nomology; franc. Nomo- logie; ted. Nomologie). Termine raramente usato nella
filosofia dell’800 per indicare la scienza della legislazione. Husserl ha
chiamato « N. aritmetica » la matematica universale (Logische Untersuchungen,
I, $ 64). NOMOTETICO (ted. Nomothetisch). Kant chiama N., cioè dante leggi, il
giudizio riflettente (v.) in quanto fornisce massime per l’unificazione delle
leggi naturali; ed esclude che sia nomotetico il giudizio trascendentale « che
contiene le condizioni per la sussunzione sotto categorie + e non fa che
«indicare le condizioni dell’intuizione sensibile sotto le quali può esser data
realtà (applicazione) ad un concetto dato » (Crit. del Giud., $ 69). Windel-
band ha chiamato nomotetiche le scienze naturali in contrapposto alle scienze
dello spirito o scienze storiche dette idiografiche (Préludien, 5* ediz., II,
pag. 145) (v. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE). NON (ted. Nicht). Secondo
Heidegger, il N. esprime la limitazione fondamentale dell’esistenza giacchè «
l’Esserci, essendo come poter essere, è sempre o nell’una o nell’altra
possibilità, ma N. è mai l’una e l’altra perchè, nel progetto esistentivo, ha
sempre rinunciato ad una » (Sein und Zeit, $ 58). Il N. esprime così
l’esclusione delle possibilità che è sempre implicita nella scelta di quelle che
l’Esserci (cioè l’uomo) fa entrare nel suo progetto. In questo senso Heidegger
parla del N. come della colpa fondamentale dell’esistenza: « L'idea formale
esisten- ziale del colpevole va quindi definita così: esser fondamento di un
essere che è determinato da un N., cioè esser fondamento di una nullità»
(/bid.). NON CAUSA PRO CAUSA (gr. cò ui altiov © atriov). Uno dei sofismi
enunciati da Aristotele (£/ .Sof., 5, 167b 21) che consiste nell’assumere come
causa (cioè come premessa) ciò che non lo è, donde segue una conseguenza
impossibile e l’apparente confutazione dell’avver- sario. È una fallacia che si
verifica specialmente nella riduzione all’assurdo. L'esempio fatto da
Aristotele è il seguente. Si voglia ridurre all’assurdo l’affermazione che
l’anima e la vita sono la stessa 622 NON-ENS cosa. Si procede così: la morte e
la vita sono con- trarie; la generazione e la corruzione sono contrari; ma la
morte è corruzione, quindi la vita è genera- zione. Ma ciò è impossibile,
perchè ciò che vive non genera ma è generato; quindi l’anima e la vita non sono
la stessa cosa. La fallacia qui consiste nell’eliminare la premessa: « Anima e
vita sono la stessa cosa» e sostituirla con l’altra « Morte e vita sono cose
contrarie». (Cfr. Pretro IsPANO, Summ. Log., 7.56-57; ARNAULD, Log., III, 19,
3; JuNGIUS, Log., VI, 12, 11; ecc.). NON-ENS LOGICUM. Così W. Hamilton chiamava
l’atto del pensiero negativo cioè il non pensare a niente di preciso, che
equivale a non pensare (Lectures on Logic, I, 2* ed., 1867, p. 76). NON IO (ingl.
Non Ego; franc. Non moi; tedesco Nicht Ich). Con questo termine Fichte indicava
il mondo della natura e in generale il mondo og- gettivo, in quanto è posto
dall’Io ma opposto al- l’Io stesso. « Non v’è nulla di posto originariamente,
tranne l'Io; e questo soltanto è posto assolutamente. Perciò un’opposizione
assoluta non può aversi se non ponendo qualcosa di opposto all’Io. Ma ciò che è
opposto all’Io è = Non-Io » (Wissenschafts- lehre, 1794, $ 2, 9). NOOGONIA
(ted. Noogonie). Come « sistema di N.» Kant ha designato la dottrina di Locke,
in quanto descrive la genesi dei concetti a partire dall’esperienza (Crit. R.
Pura, Anal. dei Principi. Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione).
NOOLOGIA (lat. Noologia; franc. Noologie; ted. Noologie). Termine inventato da
Calov nei suoi Scripta philosophica (1650) per indicare una delle due scienze
ausiliarie della metafisica [l’altra è la gnostologia (v.)] e precisamente
quella che ha per oggetto le funzioni conoscitive. Il termine è stato ripreso
nel secolo successivo da Crusius e altri, nello stesso senso o in sensi
analoghi. Kant chiamò noologisti coloro che, come Platone, riten- gono che le
conoscenze pure derivano dalla ragione, in contrapposizione agli empiristi che
le ritengono derivate dall’esperienza (Crit. R. Pura, Dottr. Trasc. del Metodo,
cap. IV). Ampère propose di chiamare noologiche tutte le scienze dello spirito
(Essai sur la philosophie des sciences, 1834). Nes- suno di questi usi ha avuto
fortuna. NOOSFERA (franc. Noosphère). Termine ado- perato da Le Roy per
indicare il dominio dell’evo- luzione propriamente umana, perciò contrapposto
al dominio dell’evoluzione biologica (biosfera) e tale che si compie solo con
l’aiuto di mezzi spiri- tuali: l'industria, la società, il linguaggio,
l’intelli- genza, ecc. (L’exigence idéaliste et le fait de l’évo- lution, 1927, pag. 195-96).
NORMA (lat. Norma; ingl. Norm; franc. Norme; ted.
Norm). Una regola o criterio di giudizio. LOGICUM La N. può essere anche
costituita da un caso con- creto, un modello o un esempio; ma il caso concreto,
il modello o l’esempio valgono come N. solo se possono essere utilizzati come
criteri di giudizio degli altri casi, o delle cose cui l’esempio o il modello
fanno riferimento. La N. si distingue dalla massima (v.) perchè non è, come la
massima (nel significato 2) solo una regola di condotta, ma può essere regola o
criterio di qualsiasi operazione o attività. E si distingue dalla /egge (v.)
perchè può mancare del carattere costrittivo della legge stessa; per es., una
N. del costume diventa legge quando viene resa coattiva da una pubblica
sanzione. La N. è concetto recente, nato nell’ambito del neocriticismo tedesco.
È un concetto che si è formato attraverso la distinzione e la contrapposizione
tra il dominio empirico del farto (cioè della necessità naturale) e il dominio
razionale del dover essere (cioè della necessità ideale). La N. non deriva la
sua validità dal fatto che venga o non venga seguita o applicata; ma solo dal
dover essere che esprime. I filosofi della scuola del Baden (Windelband e
Rickert) hanno insistito su questo carattere della norma. Ha detto Windelband:
« Il sole della neces- sità naturale splende ugualmente sul giusto e sull’in-
giusto. Ma la necessità che avvertiamo nella validità delle determinazioni
logiche, etiche ed estetiche, è una necessità ideale, che non è quella del
Mussen e del non-poter-essere-altrimenti, ma quella del Sollen ed del
poter-essere-altrimenti » (Préludien, 43 ediz., 1911, II, pag. 69 sgg.). In
questo senso ha inteso la N. anche Kelsen che ha posto il concetto di essa alla
base della sua teoria del diritto. « La N., egli ha detto, è l’espressione
dell’idea che qualcosa debba accadere, e specialmente che un individuo debba
comportarsi in una data maniera. Nulla è detto dalla N. sull’effettivo
comportamento dell’individuo in questione » (Genera! Theory of Law and State,
1945, I, C, a, S; trad. ital., pag. 36). In
questo senso si è parlato e si parla di una «trascen- denza» della N. nei
confronti delle situazioni che essa regola: con tale trascendenza si è
insistito (talora op- portunamente) sull’indipendenza del valore della N. dalla
sua effettiva applicazione. Per es. non c'è dubbio che le norme dirette allo
scopo di ottenere un buon prodotto agricolo o industriale, quali sono
determinate da apposite discipline scientifiche e tecnologiche, rimangono
valide indipendentemente dal fatto che esse siano ignorate o trascurate nella
maggior parte dei casi. Questa indipendenza tuttavia non significa che le norme
abbiano un'origine misteriosa o inaccessibile o siano depositate in qualche
regione dell’essere che abbia solo un riferimento indiretto e lontano con i
campi del- l’esperienza umana che esse mirano a regolare. Le norme esprimono,
abitualmente, la disciplina NOUMENO più opportuna di determinate attività, in
vista di dare a tali attività la maggiore efficienza e preci- sione possibile.
Se quindi esse non sono sempre generalizzazioni di quel che già è in atto o che
già si fa, perchè possono anche ispirarsi ad un ordina- mento del tutto diverso,
non sono neppure estranee ai campi dell’attività umana che mirano a regolare.
In questo senso Dewey diceva: «La differenza che si suole registrare tra i modi
in cui gli uomini pensano e quelli in cui devono pensare è del tutto simile a
quella che corre fra la buona e la cattiva coltivazione o la buona e la cattiva
pratica medica. Gli uomini pensano come non devono quando seguono metodi
d’indagine che l’esperienza delle indagini passate mostra non adatti a
raggiungere il fine prefissato» (Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 156). Da
questo punto di vista una N. è sem- plicemente una formula tecnica per lo
svolgimento efficace di un’attività determinata. Si possono pertanto
distinguere due concetti di N.: 1° la N. come criterio infallibile per il rico-
noscimento o la realizzazione di valori assoluti. Questo è il concetto che è
stato elaborato dalla filosofia dei valori (v.) e che viene tuttora accettato
dalle dottrine assolutistiche; 2° la N. come proce- dura che garantisce lo
svolgimento efficace di un’attività determinata. NORMALE (ingl. Normal; franc.
Normal; te- desco Normal). 1. Ciò che è conforme alla norma. 2. Ciò che è
conforme a un’abitudine o a una consuetudine o a una media approssimativa o ma-
tematica o all’equilibrio fisico o psichico. In questo senso si dice, ad es.,
«condurre una vita N.» per dire una vita conforme alle consuetudini di un certo
gruppo sociale; o « ha un peso N.» o «una altezza N.» per dire che ha il peso o
l’altezza corrispondenti alla media di quelli degli individui della stessa età,
razza, ecc.; o «una mente N.» o «un’organismo N.» per indicare la buona salute
mentale o fisica. Questo uso del termine non è del tutto improprio: perchè,
sebbene le norme cui esso fa riferimento siano ottenute da generalizzazioni
empiriche, esse sono tuttavia adoperate come criterio di giudizio e
stabiliscono quindi una « normalità ». NORMATIVO (ingl. Normative; franc. Nor-
matif; ted. Normativ). L'aggettivo ha due sensi principali, che corrispondono
ai due sensi che sono attribuiti alla parola norma e cioè: 1° è N. ciò che
prescrive la regola infallibile per raggiungere la verità, la bellezza, il
bene, ecc., cioè un bene assoluto; 2° è N. una formula tecnica che garan- tisce
lo svolgimento efficace di una certa attività. Nella seconda metà dell’800 sono
state dette N. nel senso 1° le scienze filosofiche speciali cioè la logica,
l’etica e l’estetica, alle quali si attribuì il compito di prescrivere le norme
cui il pensiero, la 623 volontà e il sentimento avrebbero dovuto adeguarsi per
raggiungere la verità, il bene e la bellezza (Win- delband, Rickert, Wundt,
Simmel, Husserl, ecc.). La qualifica di N. è stata in questo senso respinta
dalle discipline anzidette (v. le voci relative). Non si può tuttavia negare
che esistano discipline N. nel senso 2°, cioè nel senso di formulare, ipoteti-
camente, tecniche atte a garantire lo svolgimento efficace di determinate
attività. NOTA (lat. Nota; ingl. Note; franc. Note; ted. Merkmal). Segno o
caratteristica di un og- getto. Sul principio: «la N. di una N. è una N. della
cosa stessa» che Kant volle sostituire al dictum de omni et nullo come
fondamento del sillogismo v. SiLLOGISMO. NOTAZIONE (ingl. Noration; franc.
Notation; ted. Noration). Si chiamano con questo termine i simboli primitivi
della logica. La più comune clas- sificazione di tali simboli è quella che li
divide in quattro classi e cioè costanti, variabili, connettivi e operatori.
Questi due ultimi sono talora detti rispettivamente operatori e astrattori (v.
le singole voci: CONNETTIVO; COSTANTE; OPERATORE). NOTAZIONE (gr. Etvpororia;
lat. Noratio; ingl. Notation; franc. Notationj ted. Notation). In logica,
l'argomento (/ocus) derivato dall’etimologia del nome; come quando Platone fa
derivare la voce séma (corpo) da séma (tomba) come argo- mento che il corpo è
la tomba dell’anima (Crar., 400 c). Questo tipo di argomento è chiarito da
Cicerone (7op., 8, 35) ed è ripreso dai Logici del ’600 (JunGIUS, Log., V, 25).
NOUMENO (gr. voovpevov; ingl. Noumenon; franc. Nouméne; ted. Noumenon). Questo
termine è stato introdotto da Kant per indicare l’oggetto della conoscenza
intellettuale pura, che è poi la cosa in sè (v.). Nella dissertazione del 1770
Kant dice: «L'oggetto della sensibilità è il sensibile; ciò che non contiene
nulla che non possa essere conosciuto dall’intelligenza è l’intelligibile. Il
primo dalle scuole degli antichi era detto fenomeno, il secondo N.» (De mundi
sensibilis, ecc., $ 3). In realtà la parola N. è talora usata dai filosofi
greci, ma non in con- trapposto con fenomeno, bensì talora in contrap- posto
con sensibile come in Platone: « Se intellezione e opinione vera sono due cose
diverse, allora ci saranno senza dubbio enti che, quantunque non siano
sensibili per noi, sono soltanto pensati» (Tim., 51 d); e talora in
contrapposto con l’oggetto direttamente afferrabile, come negli Stoici: « La
comprensione si produce, secondo gli Stoici, 0 con la sensazione e allora è
comprensione di cose bianche o nere o ruvide o lisce o col ragionamento e
allora è comprensione di nessi dimostrativi come quando si dimostra che gli dèi
esistono e che eser- citano la provvidenza. Delle cose pensate invece 624
alcune sono pensate secondo l’occasione, altre se- condo la somiglianza, altre
secondo la composi- zione e altre secondo contrarietà» (Dioa. L., VII, 52). Più
frequente è negli antichi (soprattutto in Platone, in Aristotele e nei
Neoplatonici) l’uso del termine intelligibile (vontéc) che però viene
contrapposto non a fenomeno, ma a sensibile (cfr., ad es., ARISTOTELE, Et.
Nic., X, 4, 1174 b 34). NOZIONE (gr. tota, rpéinyic; lat. Notio; ingl. Nozion;
franc. Notion; ted. Notion). Due si- gnificati fondamentali: uno generalissimo,
per cui N. è qualsiasi atto d’operazione conoscitiva; l’altro specifico, per
cui è una speciale classe di atti od operazioni conoscitive. Cicerone, che
introdusse il termine, lo fa corri- spondere sia ad tyvorx che ha significato
genera- lissimo, sia a rp6Anyis che è l’anticipazione, cioè una specie
particolare e privilegiata di conoscenze (Top., 7, 31). Nel Medioevo Giovanni
di Salisbury, adoperò il termine nel senso generale, riferendolo appunto al
greco toa (Meral., II, 20); ed in senso generalissimo lo adoperava anche
Jungius, che intendeva per N. «la prima operazione del nostro intelletto cioè
quella con la quale espri- miamo una cosa con un’immagine » (Log. Hambur-
gensis, 1638, Prol., 3). Locke invece intendeva restringere il termine a quelle
idee complesse « che sembra abbiano origine e costante esistenza più nel
pensiero degli uomini che nella realtà delle cose » (Saggio, II, 22, 2); mentre
Leibniz osservava che « molti applicano la parola N. a ogni sorta di idee o di
concezioni, sia a quelle originali, sia a quelle derivate » (Nouv. Ess., II,
22, 2). Berkeley a sua volta restringeva il termine a indicare la conoscenza
che lo spirito ha di se stesso e della relazione tra le idee: conoscenza che
non è a sua volta un’idea (Princ. of Human Knowledge, I, $ 27, 89, 140, ecc.;
cfr. la nota al $ 27 della edizione dei Principles, in Works, ed. T. E. Jessop,
II, pag. 53). Anche Kant dava del termine un signi- ficato ristretto,
intendendo per esso «il concetto puro in quanto ha la sua origine unicamente
nel- l’intelletto » e riservando il termine « rappresenta- zione » per il
significato generale di N. (Cris. R. Pura, Dial. trasc., I, sez. 1). Viceversa
Wolff aveva affermato: «La rappresentazione delle cose nella mente è la N., da
altri detta idea» (Lop., $ 34). Tutti i significati specifici proposti per il
termine non hanno avuto fortuna; gli è rimasto ora quasi esclusivamente il
significato generico di operazione o atto o elemento conoscitivo in generale.
NOZIONI COMUNI (gr. xorval Evora; latino Notiones communes). Sono le
anticipazioni (v.) degli Stoici, alle quali spesso si è fatto riferimento nella
storia della filosofia: cfr., ad es., SPINOZA, Etàh., II, 38, Cor.; LEIBNIZ,
Nouv. Ess., Avant-propos; ecc. NOZIONE NULLA (gr. undéy, tò ud 8v; lat. Nihil;
ingl. No- thing, Nothingness; franc. Néant; ted. Nichts). Due concezioni del N.
si sono intercalate nella storia della filosofia: 1° il N. come non-essere; 2°
il N. come alterità o negazione. Queste due concezioni hanno i loro capistipite
rispettivamente in Parmenide e Platone. Parmenide affermò che «il N. non è»
(Fr., 6, 2) e che «non si può nè conoscere nè esprimere » (/bid., 4); Platone,
decidendosi a una specie di « parricidio » verso Parmenide (Sof., 242 d),
ammise l’essere del non-essere e definì il N. come alterità. « Risulta, egli
scrisse, che c’è un essere del non-essere, così per il movimento come per tutti
i generi, giacchè in tutti i generi l'alterità, che rende ciascuno di essi
altro da sè, fa un non-essere dell’essere di ciascuno: sicchè correttamente
diremo che tutte le cose non sono ed insieme sono e par- tecipano dell’essere »
(/bid., 256 d). Sicchè mentre per Parmenide il N. è assoluto non-essere quindi
non è pensabile nè esprimibile in alcun modo, per Platone il N. è l’alterità
dell’essere cioè la nega- zione di un essere determinato (per es., del movi-
mento) e l’indefinito riferimento a un altro genere dell’essere (a ciò che non
è movimento). 1° Alla tesi di Parmenide, portava un appoggio Gorgia affermando
che «il N. non è perchè se esistesse sarebbe insieme non-essere ed essere: non-
essere in quanto pensato come tale, essere in quanto sarebbe non-essere » (Fr.,
3, 26). Il N. definito da queste proposizioni è il N. assoluto: quella « certa
idea negativa del niente cioè di ciò che è infinita- mente lontano da ogni
sorta di perfezione » di cui parlava Cartesio, opponendola a Dio che include
tutte le perfezioni (Méd., IV); o quel «concetto vuoto senza oggetto » che è la
negazione del « più alto concetto da cui si suol prendere le mosse in una
filosofia trascendentale » cioè dell’oggetto, di cui parlava Kant (Crif. R.
Pura, Anal. dei Princ.; Nota alla Anfibolia dei concetti della riflessione).
Del N. così inteso è stato fatto un uso preva- lentemente teologico e
metafisico: da un lato è servito a definire Dio, quando si è voluto insistere
sulla sua eterogeneità dal mondo o a definire la materia quando si è voluto
insistere sulla sua ete- rogeneità dalle cose; dall'altro, è servito a intro-
durre nell'essere una condizione o un elemento che ne spiegasse certi
caratteri. Il primo uso ricorre frequentemente nella teo- logia negativa. Già
Scoto Eriugena aveva identifi- cato Dio col N. perchè Dio è Superessentia (cioè
al di sopra della sostanza) e perchè il niente è, dall'altro lato, «la
negazione e l’assenza di ogni essenza o sostanza, anzi di tutte le cose che
sono state create in natura » (De divis. nat., III, 19-21). Questa dottrina
viene frequentemente ripetuta nel Medioevo: come N. o «N. del N.» o « quintes-
NULLA senza del N.» viene indicato Dio nel Zoher, uno dei libri della Kabala
(cfr. SfRouYA, La Kabbale, Paris, 1957, pag. 322). Un « N. superessente » Dio è
detto da Maestro Eckhart (Op., ed. Pfeiffer, pag. 139); e «un N. eterno» da
Bòhme (My- sterium Magnum, I, 2). In tutte queste espressioni il N. esprime la
negazione totale delle forme d’es- sere conosciute, ritenute inadeguate alla
natura di Dio. AI secondo uso del concetto di N. hanno fatto ricorso i
Neo-platonici per accentuare la differenza tra la materia e le cose cioè tra il
carattere informe dell’una e le determinazioni delle altre. Così per Plotino la
materia è il non-essere perchè è priva di corporeità, di anima, di intelligenza,
di vita, di forma, di ragione, di limite, di potenza: cioè di tutti i caratteri
che l’essere possiede. « Bisogna dire, dice Plotino, che essa è non-essere ma
non nel senso del movimento che non è la quiete o reciprocamente, bensì è
veramente il non-essere, un’immagine o fantasma della massa corporea e una
aspirazione all’esistenza » (Enn., II, 6, 7. Nello stesso senso la materia è
caratterizzata da S. Agostino: « Se si potesse dire che il N. è e non è
qualcosa, direi che questa è la materia » (Conf., XII, 6, 2). Il terzo uso è
proprio della filosofia moderna ed è diretta a risolvere l’essere nel divenire
o la pos- sibilità in impossibilità. AI primo scopo è diretta la concezione del
N. sostenuta da Hegel. Egli cor- rettamente osserva che il vecchio detto Ex nihilo
nihil fit non esprime altro che la negazione del divenire, e contro questa
negazione afferma l’in- dissolubilità e la convertibilità reciproca dell’essere
e del nulla. « Dell’essere e del N., egli scrisse, è il caso di dire che in
nessun luogo, nè in cielo nè in terra, c'è qualcosa che non contenga in sè
tanto l’essere quanto il nulla. Senza dubbio, in quanto si parla di un certo
qualcosa e di qual- cosa di reale, quelle determinazioni non si trovano più
nella loro completa verità, in cui stanno come essere e come N., ma vi si
trovano in una determinazione ulteriore e intese, per es., come positivo e
negativo... Ma il positivo e il negativo contengono il primo l’essere, il
secondo il N. come loro base astratta. Così perfino in Dio la qualità, cioè l’attività,
la creazione, la potenza, ecc., contiene essenzialmente la determinazione del
nega- tivo; coteste qualità consistono nella produzione di un altro »
(Wissenschaft der Logik, I, sez. I, cap. I, C, nota I; cfr. Enc., $ 87). La
caratteristica di una dottrina siffatta è il teorema che il N. è il fonda-
mento della negazione, non già la negazione del nulla. Questo teorema è
espresso da Hegel nel passo citato dicendo che il positivo e il negativo
contengono come loro base astratta il nulla. Nella 49) — ABBagNnavO, Dizionario
di filosofia. 625 filosofia contemporanea lo stesso teorema è espli- citamente
messo innanzi da Heidegger. «È il N., egli dice, che è l'origine della
negazione, non viceversa » (Was ist Metaphysik?, 1949, 5* ediz., pag. 33). Da
questo punto di vista, il N. è «la ne- gazione radicale della totalità
dell’esistente » (/bid., 1949, 5* ediz., pag. 27), cioè è N. assoluto. Ma in-
sieme costituisce il fondamento dell’essere e preci- samente dell’essere
dell’uomo, in quanto questo essere è instabile (hinf@llie). L’instabilità
dell’es- sere dell’uomo è vissuta nella situazione emotiva dell’angoscia. «
L’esistente non è affatto distrutto dall’angoscia in modo che rimanga, così, il
nulla. Come potrebbe accadere diversamente, dato che l’angoscia si trova nella
più completa impotenza di fronte all’esistente nella sua totalità? In realtà il
N. si rivela proprio con e nell’esistente in quanto questo ci sfugge e si
dilegua nella sua totalità » (Ibid., 1949, 5* ediz., pag. 31). Questo significa
che il N. è vissuto dall'uomo in quanto l’essere del- l’uomo (l'esistenza) non
è e non può essere rurto l’essere: l’essere dell’uomo consiste nel non essere
l’essere nella sua totalità, cioè nel N. dell’essere. Perciò Heidegger dice che
il N. è lo stesso annul- lamento (« È proprio il N. stesso che annulla»; Ibid.,
5* ediz., 1949, pag. 31) e che esso è «la con- dizione che rende possibile, nel
nostro esserci, la rivelazione dell’esistente come tale » (Ibid., 53 ediz.,
1949, pag. 32). Il problema e la ricerca dell’es- sere nascono dal fatto che
l’uomo non è tutto l’essere, cioè che il suo essere è il N. della totalità
dell’essere. Sartre sostituisce alla nozione di esi- stenza quella di coscienza
ma continua a intendere per essa l’essere dell’uomo che è il N. dell’essere:
finisce così col ripetere i concetti di Heidegger. « Il N. non è, egli dice, il
N. è srato; il N. non si an- nienta, il N. è sfaro annientato. Resta dunque che
deve esistere un essere — che non potrebbe essere l’in sè — che ha per
proprietà di annullare il N., di reggerlo col suo essere, di sostenerlo
perpetua- mente con la sua stessa esistenza: un essere per il quale il N. viene
alle cose» (L’étre er le néant, pag. 58). Quest’essere è la coscienza che,
essendo costituita da possibilità, è sempre aperta verso il nulla. « Una
possibilità resta sempre aperta che esso si riveli come un nulla. Ma dal fatto
stesso che si prospetti che un esistente possa sempre risolversi come N., ogni
questione suppone che si realizzi un arretramento nientificatore, in rapporto
al dato, e diviene una semplice presentazione, oscillante tra l'essere e il N.»
(/bid., pag. 59). In questo modo l’uomo ha la possibilità di circoscrivere « un
N. che lo isoli » cioè di mettersi fuori dell’essere, per met- terlo in
questione e sottrarsi alla sua totalità. È chiaro ciò che queste speculazioni
sul N. intendono suggerire: l’essere proprio dell'uomo, in quanto 626
costituito da possibilità, che come tali possono non realizzarsi, e che in ogni
caso escludono l’essere completo o totale, e manifestandosi quindi in modo
eminente nel dubbio, nel problema, nella progetta- zione, ecc., è il N. del
rutto dell’essere. Si tratta cioè di speculazioni che vogliono definire il
finito (la limitazione propria dell’esistenza umana) ser- vendosi di due infiniti:
il tutto e il nulla. 2° La seconda concezione fondamentale del N., il cui
capostipite è Platone, considera il N. come alterità o negazione. Per questa
concezione non c’è un « N. assoluto » cioè un N. che sia, nella terminologia
kantiana, la negazione di ogni og- getto. In questa terminologia il N. è
soltanto pri- vazione di qualche cosa: come l’ombra o il freddo (nihil
privativum) o un ente immaginario (ens imaginarium) o l’oggetto di un concetto
che contraddice se stesso (nihil negativum) (Crit. R. Pura, Anal. dei Princìpi,
Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). Da questo punto di vista
il N. è un oggetto (nel senso più gene- rale della parola); e c’è una nozione
del N., a differenza di ciò che pensava Wolff quando definiva il N. come «ciò a
cui non corrisponde alcuna no- zione » (Ont., $ 57). In questo senso aveva
ragione il vecchio Fredegiso di Tours (sec. 1x) ad affermare che il N. è
qualcosa; giacchè, come egli diceva, «se qualcuno dirà che gli sembra che non
sia N., questa stessa negazione lo spingerà a riconoscere che il N. è qualcosa
dal momento che dire: ‘ Mi sembra che il N. sia N.” è equivalente a dire ‘ Mi
sembra sia qualcosa ’» (De Nihilo et Tenebris, in P. L., 105, col. 751). Ciò
significa che, dal momento che si parla del N., sia pure per dire che è N., il
N. è un qualcosa di cui si parla, cioè un oggetto in gene- rale. Considerazioni
di questo genere possono sem- brare puramente dialettiche, ma conservano il
loro valore anche nella logica contemporanea (cfr. GEYMONAT, Saggi di filosofia
neorazionalistica, Torino, 1953, pag. 101 sgg.). Questo concetto del N. non ha
tuttavia avuto molta fortuna tra i filosofi, e se ne intende anche la ragione:
non si presta a un uso teologico o metafisico. La migliore illu- strazione di
esso nella filosofia contemporanea è quella data da Bergson: « L’idea di
abolizione o di N. parziale si forma nel corso della sostituzione di una cosa
ad un’altra dal momento che tale sostituzione è pensata da uno spirito che
preferirebbe mantenere l’antica cosa al posto della nuova o che almeno
concepisce questa preferenza come possibile. Essa implica dal lato soggettivo
una preferenza, dal lato oggettivo una sostituzione, e non è altro che una
combinazione o piuttosto una interferenza tra il sentimento di preferenza e
questa idea di sostituzione» (Év. créatr., 88 ediz., 1911, pag. 305-06). Ciò
vuol dire che si dice che « non c’è NULLIBISTI N.» quando non c’è la cosa che
ci aspettavamo di trovarci o che poteva esserci, e che l’idea del N. assoluto è
una « pseudo idea », altrettanto assurda di quella di un circolo quadrato
(/bid., pag. 307). Si può insistere un po’ meno sull’aspetto soggettivo di
questo concetto del N. e di più sull’aspetto oggettivo; si può dire, ad es.,
che il N. esprime la negazione o l’assenza di una possibilità determinata o di
un gruppo di possibilità, senza ricorrere alla no- zione di preferenza o di
sostituzione; ma l’analisi di Bergson rimane sostanzialmente corretta sia nella
sua tesi positiva sia in quella negativa. Essa è d'altronde conforme al
concetto che della negazione hanno i logici contemporanei; per es. a quello che
Carnap espose in una critica rimasta famosa al concetto del N. di Heidegger,
concetto in cui egli vide riassunte tutte le magagne della metafisica. Carnap
affermò allora che la sola nozione di N. logicamente corretta è la negazione di
una possibilità determinata; che dire « Non c’è N. fuori » significa «Non c’è
qualcosa che sia fuori» «— (Fx) x è fuori» (* Ùberwindung der Metaphysik», in
Erkenntnis, II, 1931, pag. 229 sgg.). Poichè la negazione che qualcosa sia
fuori implica che qualcosa poteva esser fuori, la negazione è, in questo senso,
l’esclu- sione di una possibilità determinata. NULLIBISTI (ingl. Nullibists;
ted. Nullibisten). Così Henri Moore chiamò coloro che credono che l’anima non
occupi spazio e non abbia perciò una sede determinata nel corpo (Enchiridion
Metaphysicum, 1671, I, 27, 1). NUMERO (gr. &piduéc; lat. Numerus; inglese
Number; franc. Nombre; ted. Zahl). Nella storia di questo concetto si possono
distinguere quattro fasi concettuali diverse che hanno dato luogo a quattro
diverse definizioni di esso, e precisamente: 1° la fase realistica; 2° la fase
soggettivistica; 3° la fase oggettivistica; 4° la fase convenzionalistica. 1°
La fase realistica è caratterizzata dalla tesi che il N. è un elemento
costitutivo della realtà; della realtà in quanto accessibile, non ai sensi, ma
alla ragione. Fu questa la tesi propria dei Pita- gorici, i quali credevano,
secondo la testimonianza di Aristotele, che « le cose sono esse stesse numeri
», cioè « composte di numeri come di loro elementi + (Mer., XIV, 3, 1090a 21).
A questa credenza è connessa la definizione del N. come « un sistema di unità »
che fu propria dei Pitagorici (STOBEO, Ecl., I, 18): una definizione sulla quale
si modellò quella stessa di Euclide (« moltitudine di unità +, Z7., VII, 2) e
che è rimasta per molto tempo a fondamento delle matematiche. A sua volta
Platone riteneva che il N. si trovasse dovunque ci fosse un ordine, cioè un
limite dell’illimitato. Tra la molteplicità illi- mitata (per es. dei suoni
vocali) e l’unità assoluta, il N. si inserisce come un limite (per es. la
distin- NUMERO zione ed enumerazione delle lettere dell’alfabeto): perciò si
trova sempre dove c’è ordine ed intelli- genza (Fil., 18a sgg.). Dall’altro
lato, il numero in questo senso non è legato a qualcosa di visibile o di
tangibile: è perciò diverso dal numero di cui si avvale l’uomo nei suoi compiti
pratici (Rep., 525 d). Con questa tesi (che non è quella dei pla- tonici
pitagoreggianti che consideravano le idee come numeri; cfr. ARIST., Met., XIV,
3) è sostan- zialmente d’accordo lo stesso Aristotele. «Le entità matematiche,
egli dice, non sono sostanze più dei corpi; precedono logicamente, ma non
nell’esistenza, le cose sensibili e non possono esistere
separatamente. Ma dal momento che non
possono neppure risiedere nelle cose sensibili, o non debbono essere affatto o
devono essere in qualche modo speciale, che non è l’esistenza assoluta» (Mer.,
XIII, 3, 1077b 12). Questo modo d'’esistenza speciale proprio delle entità
matematiche è definito dalle stesse proposizioni matematiche: « È stretta-
mente vero, dice Aristotele, che ci sono entità matematiche e che sono tali
quali le matematiche dicono che esse sono » (/bid., XIII, 3, 1077 b 31).
Aristotele intende dire, che le entità matematiche hanno un’esistenza analoga
alle entità della fisica, per es. al movimento: sono astratte dalle cause
sensibili ma non sono separabili da esse. Da questo punto di vista, il numero è
« una pluralità misurata o una pluralità di misura»; e l’unità non è un N. ma
misura del N. (Mer., XIV, 1, 1088a 5): una definizione la quale ripete quella
platonica, e anticipa quella euclidea già ricordata. 2° La seconda fase
concettuale della nozione di N. si può far cominciare con Cartesio. «Il N. che
consideriamo in generale, egli disse, senza riflettere su alcuna cosa creata,
non esiste fuori del nostro pensiero come non esistono tutte le altre idee
generali che gli Scolastici comprendono sotto il nome di universali » (Princ.
Phil., I, 58). Il N. è in altri termini, un’idea, un atto o una manifestazione
del pensiero. La definizione che ne risulta è quella di operazione: il N. è
un’opera- zione di astrazione eseguita sulle cose sensibili. Questo concetto
del numero si trova ripetuto molte volte nella filosofia moderna. Hobbes pose
il N. tra le cose « non esistenti » che sono soltanto «idee od immagini» (De
Corp., VII, $ 1). Locke vede nel N. un’idea complessa e precisamente un «modo
semplice ottenuto mediante la ripetizione dell’unità » (Saggio, II, 16 2); e
nello stesso senso Leibniz dice che il N. è un’idea adeguata o compiuta cioè «
un’idea così distinta che tutti i suoi ingredienti sono distinti» (Nouv. Ess.,
II, 31, 1). Berkeley afferma che il numero «è interamente la creatura dello spirito
» (Princ. of Human Knowledge, I, 12). Newton afferma che per N. bisogna
intendere 627 «non tanto la moltitudine delle unità quanto il rapporto tra la
quantità astratta di una qualità ed una quantità dello stesso genere che si
assume come unità» (Arithmetica Universalis, cap. 2). Una definizione analoga a
questa è data da Wolff secondo la quale «il N. in genere ha con l'unità la
stessa relazione che una retta qualsiasi può avere con una retta data » (Ont.,
$ 406). Questa definizione, come quella di Newton, fa del N. l’operazione con
cui si stabilisce un rapporto di misura. Kant non faceva che esprimere lo
stesso concetto generale affermando che il N. è uno scherma (v.) e precisamente
che esso è «la rappresentazione che comprende la successiva addizione di uno a
uno (omogenei) » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. l). La novità del
concetto kantiano è che il N. non è un’operazione empirica cioè effettuata sul
materiale sensibile ma un’operazione puramente intellettuale che opera sul
molteplice dato dall’in- tuizione pura (del tempo) il quale è assoluta- mente
omogeneo. Questo fa del N. qualcosa di indipendente dall’esperienza e dotato di
un genere di validità che non è quella empirica; ma il N. è pur sempre
un’operazione del soggetto. Mentre questa concezione kantiana veniva
ripresentata numerose volte nella filosofia dell’800, Stuart Mill ritornava al
concetto del N. come operazione empirica di astrazione. « Tutti i numeri, egli
diceva, devono essere numeri di qualcosa: non ci sono numeri in astratto ». Pertanto
i numeri sono prodotti da una «induzione reale, da una inferenza reale da fatti
a fatti» e tale induzione è nascosta soltanto dalla sua natura comprensiva e
dalla conseguente generalità del linguaggio cui mette capo (Logic, II, 6, 2).
Le posizioni di Kant e di Stuart Mill rimangono in qualche modo tipiche per
questa fase soggettiva del concetto di N.: il N. è una pura operazione
intellettuale per Kant; è una genera- lizzazione empirica per Stuart Mill; in
ogni caso appartiene alla sfera della soggettività. All’ambito di questa
concezione del N. appartengono le dottrine di Cantor e Dedekind. Per Cantor il
N. è fondato sulla facoltà del pensiero di aggruppare gli oggetti e di astrarre
dalla loro natura e dal loro ordine, dando così luogo al N. cardinale, o
soltanto dalla loro natura, dando così luogo al N. ordinale. Dedekind a sua
volta fondò il concetto di N. sulla operazione di appaiare o accoppiare le cose
insieme. Per quanto matematicamente feconde, queste nozioni mantengono il
concetto di N. nell’ambito della soggettività. 3° La terza fase concettuale
della nozione di N. cioè quella secondo la quale il N. è oggettivo ma non reale
fu iniziata dallo scritto di Frege sui Fondamenti dell’aritmetica (1884). Frege
riconosceva al N. il carattere concettuale ma col carattere con- 628 cettuale
gli riconosceva anche l’oggettività. Ciò in primo luogo esclude che il N. sia
un’operazione o una realtà psicologica, un’idea nel significato settecentesco
del termine: «Il N. non costituisce un oggetto della psicologia né può
considerarsi come un risultato di processi psichici, più che non possa
considerarsi tale il Mare del Nord », egli dice. «Io faccio una netta
distinzione fra ciò che è ogget- tivo e ciò che è palpabile, reale e occupa uno
spazio. Per es. l’asse terrestre e il baricentro del sistema solare sono
oggettivi eppure non direi che sono reali come lo è la terra » (Die Grundlagen
der Arith- metik, $ 26; trad. ital., pag. 70-71). La matematica aveva già
stabilito l’insufficienza della definizione di N. come collezione di unità:
questa definizione infatti porterebbe ad escludere che 0 ed 1 siano numeri (e
Aristotele riconosceva la cosa per ciò che riguarda l’1; Mer., XIV, 1, 1088 a
5). Frege assume come base della definizione di numero l'estensione (v.) del
concetto e assume di dire che «il concetto F è ugualmente numeroso del concetto
G ogni qualvolta esiste la possibilità di porre in corrispondenza biunivoca gli
oggetti che cadono sotto G e quelli che cadono sotto F». Posto ciò, dà del
numero la definizione seguente: «Il N. naturale che spetta al concetto F non è
altro che l’estensione del concetto ‘egualmente numeroso ’ ad F+» (/bid., $ 68;
pag. 134). Questa definizione di Frege è stata riespressa da Russell in termini
di classi anzichè di concetti. Dice Russell: « Quando si ha una relazione di
termine a termine fra tutti i ter- mini di una collezione e tutti i termini di
un’altrdiciamo che le due collezioni sono simili. Noi pos- siamo allora vedere
che due collezioni simili hanno lo stesso N. di termini e definire il N. di una
colle- zione data come la classe di tutte le collezioni simili ad essa. Ne
risulta la seguente definizione formale: ‘il N. dei termini di una classe data
si definisce come la classe di tutte le classi simili alla classe data *» (Our
Knowledge of the External World, 3* ediz., 1926, cap. 7; trad. franc., pag.
163). La definizione di Russell, che fu posta alla base sia dei Principles of
Mathematics (1905) sia dei Principia Mathematica che egli pubblicò nel 1910 in
collabo- razione con Whitehead (le due opere fondamentali della logica
matematica contemporanea), ha avuto vasta accoglienza nella filosofia e nella
matema- tica contemporanea. Essa tuttavia è apparsa talora troppo ristretta per
le possibilità di sviluppo della matematica odierna: la quale non intende
rimanere legata a un concetto di numero che risulti comunque precostituito per
essa. 4° La quarta fase è quella che si è venuta realizzando in stretta
connessione con l’assiomatica moderna e si può connettere con i nomi di Peano,
NUMINOSO Hilbert, Zermelo, Dingler. Per essa, il N. è un segno, definito da un
adatto sistema di assiomi. Dice, ad es., Dingler: « Noi ci costruiamo una serie
di segni (segni grafici) sempre riproducibili che deve possedere le seguenti
proprietà: a) la serie ha un primo termine; 5) la serie possiede una regola di
costruzione enunciabile in modo finito tale che: a) è sempre determinato
univocamente quale termine della serie viene immediatamente a destra di un
termine già segnato; 8) ogni termine della serie è diverso da tutti i termini
che lo precedono a sinistra + (Die Methode der Physik, 1937, cap. II, 3, $ 2;
trad, ital., pag. 137-38). Questo punto di vista può essere riassunto nel modo
seguente: a) non esiste un unico oggetto o entità detta « N.» di cui siano specificazioni
i numeri definiti nei vari sistemi numerici; 5) la validità dei vari sistemi
numerici dipende soltanto dalla consistenza intrinseca di ciascun si- stema,
quale risulta definita dagli assiomi fonda- mentali; c) il concetto di N.,
quale risulta nell’ambito di un sistema numerico, non è legato a una inter-
pretazione determinata ma è suscettibile di inter- pretazioni indefinitivamente
variabili. Il N. in altri termini non è privo affatto di interpretazione (come
un segno che non significhi niente) e non è legato ad un'unica interpretazione
privilegiata; ma è caratterizzato dalla possibilità di interpretazioni diverse.
Questa nozione del N. è quella abitualmente presupposta dai più recenti
sviluppi della matema- tica (v.). NUMINOSO (ingl. Numinous; ted. Numinose).
Così Rudolf Otto chiamò la coscienza di un myste- rium tremendum cioè di
qualcosa di misterioso e terribile che ispira timore e venerazione: coscienza
che sarebbe la base dell’esperienza religiosa dell’u- manità (Das Heilige,
1917; trad. ital., // sacro, Bologna, 1926). NYAYA. Uno dei grandi sistemi
filosofici dell’India antica, caratterizzato dalla importanza in esso assunta
dalla dottrina della conoscenza e dei suoi oggetti. Il N. enumera quattro mezzi
di conoscenza: percezione, inferenza, analogia e testi- monianza; definisce la
conoscenza vera come quella che non è soggetta a contraddizioni o a dubbi e che
riproduce l’oggetto come esso è; e si ferma a deter- minare l'elenco degli
oggetti conoscibili e dei loro tratti caratteristici. Tra questi include sia il
mondo fisico con i suoi elementi, sia l’uomo nel suo corpo e le sue attività
spirituali, sia lo spazio o il tempo, Dio e in generale le condizioni di
esistenza delle cose fisiche o spirituali (cfr. G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, pag. 112 sgg.). O O. Questa lettera nella Logica
formale « aristo- telica » viene usata come simbolo della proposizione
particolare negativa (v. A). G. P. OBBEDIENZA (lat. Oboedientia; ingl. Obe-
dience; franc. Obéissance; ted. Gehorsamkeit). È, secondo Spinoza, il
significato specifico della fede. Questa infatti consiste « nell’avere, intorno
a Dio, quei sentimenti tolti i quali, viene anche meno lO. a Dio e che sono
invece necessariamente posti quando è posta l’O.» (7ract. rheologico-politicus,
cap. 14). Questa riduzione della fede all’O. è una espressione dell’indirizzo
di dottrina che riduce la fede ad atto pratico (v. FEDE). OBBIETTIVO (ingl.
Objective; franc. Objectif; ted. Obiektive). 1. Lo stesso che oggetto, quando
la parola si adopera nel senso di fine o scopo (v. OGGETTO). 2. Nel senso
specifico proposto da Meinong, è l’oggetto del giudizio, in quanto distinto
dall’og- getto della rappresentazione. Per es., se si dice: « È vero che vi
sono gli antipodi », l'O. è costituito da «che vi sono gli antipodi ». L’O. non
è di ne- cessità esistente. Se A non è, il non-essere di A è un O. allo stesso
titolo dell’essere di A (Uber Annahmen, 1902, pag. 142 sgg.). OBBIETTO. V.
OgaetTO. OBBIEZIONE (ingl. Objection; franc. Objec- tion; ted. Einwurf). Un
argomento la cui conclu- sione contraddice una certa tesi. Leibniz osservava
già che la verità non può soffrire ad opera di « O. in- vincibili ». « Bisogna,
egli diceva, cedere sempre alle dimostrazioni sia che si propongano per
affermare, sia che si avanzino in forma di obbiezioni. Ed è ingiusto e inutile
voler indebolire le prove degli avversari col pretesto che sono solo O.:
giacchè l’avversario ha lo stesso diritto e può invertire i nomi, onorando i
suoi argomenti con il nome di prove e abbassando i nostri con quello
spregiativo di O.» (Théod., Discours, $ 25). OBBLIGAZIONE (lat. Obligatio;
ingl. Obli- gation; francese Obligation; ted. Verpflichtung). x. Il carattere
costrittivo che ad un rapporto interper- sonale è conferito da una legge
giuridica o da una norma morale. Questo carattere è diverso dalla ne- cessità
(v.) per la quale è impossibile che la cosa sia o accada altrimenti: 1’O. non
impedisce che, in linea di fatto, il rapporto che essa regola si atteggi altri-
menti; ma implica, in questo caso, l'intervento di una sanzione. Talvolta il
carattere obbligatorio del rapporto si esprime con la nozione di necessità mo-
rale o ideale (v. NECESSITÀ) senza che con ciò si in- tenda ridurlo alla
necessità vera e propria. Soltanto Bergson ha sostanzialmente cercato di
ridurre l’O. alla necessità di fatto, intendendo per O. le abitu- dini sociali
e per O. in generale «l’abitudine di contrarre abitudini » (Deux Sources, cap.
I). 2. Nella logica terministica medievale, l'impegno per cui l'interlocutore
ammette nella discussione qualcosa che precedentemente non ammetteva. Questa è
la definizione data da Ockham (Summa Log., III, 38). Ockham ammette sei specie
di ob- bligazioni: l'istituzione, la petizione, la posizione, la deposizione,
la dubitazione e il sit verum. L’istituzione (institutio) consiste nel dare a
un vocabolo un nuovo significato per la durata della disputa e non oltre (Summa
Log., III, III, 38) La petizione (petitio) consiste nell’obbligare l’inter-
locutore a questo o quell’atto che concerne la sua ‘ funzione, per es. a
concedere una proposizione (Ibid., III, III, 39). La deposizione (depositio) è
l'obbligazione a sostenere una proposizione come falsa (Ibid., III, III, 42).
La dubitazione (dubitatio) 630 è l’obbligazione di sostenere qualcosa come dubbia
(Ibid., III, III, 43). Per la posizione e il sit verum vedi le rispettive voci.
OBIETTAZIONE (ted. Objektation). Secondo Nicolai Hartmann, il termine significa
« divenire oggetto per un soggetto» e definisce la natura della conoscenza.
L’O. è il contrario della obietti- vazione: questa è la trasformazione di
qualcosa di soggettivo in forma oggettiva mentre l’obietta- zione esprime il
processo per cui un oggetto indi- pendente dal soggetto diventa oggetto di
conoscenza (Systematische Philosophie, 1931, $ 11). OBVERSIONE (ingl.
Obversion; franc. Ob- version; ted. Obversion). Questo termine di origine
recente (e dovuto probabilmente a JEVONS, Ele- mentary Lessons in Logic, pag.
85) designa la trasformazione di una proposizione in una propo- sizione equipollente
mediante la doppia negazione: per es., la trasformazione della proposizione «
tutti gli uomini sono mortali» in « nessun uomo è non mortale ». OCCAMISMO
(ingl. Ockhamism; franc. Occa- misme; ted. Ockamismus). Con questo termine è
stato chiamato sin dal sec. xv l’indirizzo fatto pre- valere da Ockham
nell’ultimo periodo della scola- stica medievale, indirizzo caratterizzato dai
capi- saldi seguenti: 1° l’empirismo, cioè il privilegio accordato
all’esperienza (o « conoscenza intuitiva +) per la prova e il controllo della
verità; 2° il nomi- nalismo, cioè la negazione della realtà degli univer- sali
e la loro riduzione a segni naturali; 3° il zer- minismo, cioè la logica della
supposizione (v.) per la quale i concetti sono termini che stanno in luogo delle
cose reali; 4° lo scetticismo teologico per il quale si ritiene impossibile
dimostrare o ra- zionalizzare le verità della fede e si attribuisce alle stesse
prove dell’esistenza di Dio un valore solo probabile. Per quest’ultimo punto,
Lutero si chiamò e fu chiamato occamista. Gli altri punti furono difesi e
illustrati nella scolastica della se- conda metà del sec. xrv e dei primi
decenni del Sec. XV. OCCASIONALISMO (ingl. Occasionalism; franc.
Occasionalisme; ted. Occasionalismus). La dottrina che la causa di tutte le
cose è soltanto Dio e che le cosiddette cause (seconde o finite) sono soltanto
occasioni di cui Dio si avvale per mandare ad effetto i suoi decreti. Questa
dottrina fu per la prima volta difesa dalla sètta filosofica araba dei
Motakallimun (cfr. MAIMONIDE, Guide des égarés, I, 73); e fu poi ripresa
nell’età car- tesiana, da quel gruppo di pensatori che vollero utilizzare la
dottrina di Cartesio per una difesa delle credenze religiose tradizionali, cioè
da Luigi De La Forge, Geraldo di Cordemoy, Giovanni Clauberg e Arnoldo
Geulincx, tutti vissuti nel OBIETTAZIONE sec. xvi. Geulincx fu il migliore
espositore della dottrina, che mira sostanzialmente a negare al- l’uomo ogni
effettivo potere nel mondo e ad at- tribuirlo a Dio. Contro l’O. si schierarono
invece Spinoza e Leibniz; mentre in sua difesa scriveva Nicolò Malebranche,
traendone la conseguenza che la conoscenza umana, non potendo essere prodotta
dalle cose (che non sono cause), è una visione delle cose in Dio (Recherche de
la vérité, 1674-75). OCCASIONE (ingl. Occasion; franc. Occasion; ted.
Gelegenheit). La situazione che provoca o fa- cilita l’intervento di un’azione
libera. Cause occa- sionali: le cause considerate come occasioni per l'azione
diretta di Dio (v. OCCASIONALISMO). Kierkegaard ha messo in luce il valore
dell’O. come «categoria del finito » e che può essere « sia pretesto sia causa
». In questo senso l’O. è « l’ul- tima categoria, la vera categoria di
transizione dalla sfera dell’idea a quella della realtà » (Aut Aut, «I primi amori»;
trad. franc., Prior e Guignot, pag. 186 sgg.). OCCULTE, QUALITÀ. V. OccuLTo.
OCCULTISMO (ingl. Occultism; franc. Oc- cultisme; ted. Okkultismus). La
credenza in feno- meni che si ritengono prodotti da forze occulte o nella
validità delle scienze occulte. Per O. si può perciò anche intendere l’insieme
di tali scienze cioè la magia, l’astrologia, la metapsichica, la teosofia, ecc.
(v. le singole voci). OCCULTO (ingl. Occul; franc. Occulte; te- desco Okkult).
Ciò che si nasconde alla vista e perciò può essere scoperto solo da chi ha una
seconda vista, nel senso di essere iniziato a una forma superiore di sapere.
Scienza occulta in questo senso è, in primo luogo, la magia: Cornelio Agrippa
nel De occulta philosophia (1510) includeva nella magia tutte le scienze
possibili. Ma scienze O. si chiamano oggi anche la teosofia, la parapsico-
logia, ecc., sia perchè hanno a che fare con feno- meni che si ritengono
manifestazioni di forze O. sia perchè si ritiene che lo studio di tali fenomeni
debba essere riservato a coloro che sono stati ini- ziati a un ordine superiore
di conoscenze esoteriche. Qualità O. si cominciarono a chiamare, a partire dal
sec. XVII, le cause formali e finali dell’aristotelismo e della scolastica,
intendendosi sottolineare con questa espressione che appellarsi a tali cause
equivaleva ad appellarsi a fattori più sconosciuti dei fenomeni stessi, quindi
incapaci di spiegarli. « Gli aristotelici, diceva Newton, dettero il nome di
qualità O. non alle qualità manifeste ma a quelle qualità che sup- ponevano
esser nei corpi come cause sconosciute di effetti manifesti » (Opricks, 1704,
III, 1, q. 31). OFELIMITÀ (ingl. Ophelimity; franc. Ophé- limité; ted.
Ophelimitàt). Termine creato da Vil- fredo Pareto (Cours d’économie politique,
Lausanne, OGGETTIVO 1896, $ 5-6), per designare la qualità fondamentale degli
oggetti economici cioè il valore d’uso, che non sempre coincide con l’utilità;
ad es., uno stupefacente ha O. ma non utilità. OGGETTITÀ (franc. Objectité;
ted. Objektitàr). Termine di cui Schopenhauer si servi per defi- nire il corpo
e le cose naturali; che sarebbero «l’O. della volontà» nel senso di essere «la
volontà oggettivata ossia divenuta rappresentazione » (Die Welt, I, $ 18, 25,
ecc.). OGGETTI, TEORIA DEGLI (ted. Gegen- standstheorie). Così A. Meinong
chiamò la scienza che considera gli oggetti in quanto oggetti cioè prescindendo
dalle loro specificazioni (realtà o ir- realtà, ecc.). Questa scienza non è la
metafisica nel senso tradizionale perchè questa considera la totalità degli O.
esistenti, che sono solo una piccola parte degli oggetti possibili (cfr. Uber
Annahmen, 1902; Gegenstandstheorie, 1904; Zur Grundlegung der allgemeinen
Werththeorie, 1923) (v. OBBIETTIVO; OGGETTO). OGGETTIVISMO (ingl. Objectivism;
francese Objectivisme; ted. Objektivismus). Qualsiasi dot- trina la quale
ammetta che esistano oggetti (signi- ficati, concetti, verità, valori, norme,
ecc.) validi indipendentemente dal soggetto cioè indipendente- mente dalle
credenze e dalle opinioni dei vari soggetti. OGGETTIVITÀ (ingl. Objectivity;
francese Objectivité; ted. Objektivitàt). 1. In senso ogget- tivo: carattere di
ciò che è oggetto. In questo senso Husserl parlava di una «O. primaria» che
apparterrebbe alle cose e le privilegerebbe di fronte ad altri oggetti come
proprietà, relazioni, stati di fatto, insiemi, ecc. (Zdeen, I, $ 10) (v.
OGGETTO). 2. In senso soggettivo: carattere della consi- derazione che cerca di
vedere l’oggetto così com'è prescindendo dalle preferenze o dagli interessi di
chi lo considera e soltanto in base a procedure intersoggettive di accertamento
e di controllo. In questo significato, l’O. è l'ideale della ricerca scien-
tifica: ideale cui essa si avvicina nella misura in cui dispone di procedure
adeguate. OGGETTIVO (ingl. Objective; franc. Objectif; ted. Objektiv). Ciò che
esiste come oggetto o ha un oggetto o appartiene ad un oggetto. Questo
aggettivo ha, a prima vista, assai più significati del corrispondente
sostantivo; giacchè oltre ai si- gnificati che sono connessi a quest’ultimo, è
stato usato a significare: ciò che è valido per tutti; ciò che è esterno
rispetto alla coscienza o al pensiero; ciò che è indipendente dal soggetto; ciò
che è con- forme a certi metodi o regole; ecc. A tali signi- ficati ha dato
prevalentemente luogo la determina- zione kantiana dell’oggetto di conoscenza
come oggetto reale o empiricamente dato. Si possono 631 enumerare tre
significati fondamentali del termine: 1° ciò che esiste come oggetto; 2° ciò
che ha un oggetto; 3° ciò che è valido per tutti. I due ultimi sono strettamente
connessi tra loro e con gli altri significati elencati. 1° Il primo significato
è quello corrispondente al significato fondamentale di oggetto: O. è ciò che
esiste come termine o limite di un'operazione attiva o passiva. A tale
definizione risponde in primo luogo l’uso che del termine fu fatto nel-
l’ultima età della Scolastica da Duns Scoto in poi. Per esso infatti fu inteso
ciò che esiste come og- getto dell’intelletto, in quanto è pensato o imma-
ginato, senza che ciò implichi che esista anche fuori dell’intelletto stesso o
nella realtà. In questo senso adoperavano il termine Duns Scoto (De An., 17,
14), Antonio Andrea (Super artem veterem, 1517, f. 87r.), Francesco Majrone (In
Sent., I, d. 47, q. 4) e Durando di S. Pourgain (In Sent., I, d. 19, q. S, 7).
Dice Walter Burleigh: « Sebbene l’universale non abbia esistenza fuori
dell’anima, come i moderni dicono, non c’è dubbio tuttavia che, secondo il
parere di tutti, l’universale ha esi- stenza O. nell’intelletto giacchè
l’intelletto può in- tendere il leone in universale senza intendere questo
leone » (Super artem veterem, 1485, f. S9r.) « Esistere oggettivamente »
significa, in questo caso, esistere sotto forma di rappresentazione o di idea
cioè come oggetto del pensiero o della percezione: un significato che ricorre
identicamente in Car- tesio (Médir., III, 11), in Spinoza (Er., I, 30; II, 8
cor.; ecc.) e in Berkeley (Siris, $ 292). In tutti questi casi, l’O. non
designa nè ciò che è reale nè ciò che è irreale, ma semplicemente ciò che è oggetto
dell’intelletto e che può, ad una seconda considerazione, rivelarsi sia reale
che irreale. 2° Corrispondentemente alla limitazione che l’oggetto di
conoscenza ha ricevuto da Kant come oggetto «reale», c’è il secondo significato
di O. come di ciò che ha per oggetto una realtà empiri- camente data. In questo
senso Kant afferma che la conoscenza è «oggettiva» o « oggettivamente valida ».
Già nelle sue distinzioni terminologiche Kant include questo significato: « Una
percezione che si riferisca unicamente al soggetto, come mo- dificazione del
suo stato, è sensazione; una per- cezione O. è conoscenza. Questa è o
un’intuizione o un concetto. Quella si riferisce immediatamente all’oggetto ed
è singolare; questo gli si riferisce mediatamente, per mezzo di una nota, che
può essere comune a più cose» (Cri. R. Pura, Dialet- tica, libro I, sez. I. Da
questo punto di vista, «validità O.» e «realtà» coincidono. Dice infatti Kant:
«Le nostre considerazioni insegnano la realtà, cioè la validità O., dello
spazio rispetto a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno 632 come
oggetto» (/bid., $ 3); e analogamente dice del tempo: « Le nostre
considerazioni dimostrano la realtà empirica del tempo cioè la sua validità O.
rispetto a tutti gli oggetti che possono essere le- gati ai nostri sensi »
(/bid., $ 6). In tal senso, O. è ciò che è empiricamente reale; e
l’empiricamente reale è, per Kant, il prodotto di una sintesi che, per essere
effettuata nella coscienza comune o ge- nerica, vale per tutti i soggetti
pensanti e non per uno solo di essi (Pro/eg., $ 22). Kant dice: «I giu- dizi
sono © soggettivi, quando le rappresentazioni vengono riferite solo ad una
coscienza in un sog- getto ed in esso unificate; o sono O. quando sono
collegate in una coscienza genericamente cioè ne- cessariamente +» (/bid., $
22). Queste considerazioni servono di passaggio alla definizione di O. che Kant
dette nel dominio pratico e sentimentale: chiamando O. le leggi pratiche «che
possono es- sere riconosciute valide per la volontà di ogni essere razionale »
(Crir. R. Prat., $ 1); e « prin- cipio O. + l'accordo universale nel giudizio
di gusto (Crit. del Giud., $ 22). 3° Queste considerazioni kantiane
stabiliscono il trapasso al terzo significato fondamentale di O., cioè «valido
per tutti». Questo significato assai diffuso nelle scuole criticiste e
idealiste contempo- ranee, fu ben espresso da Poincaré: « Una realtà
completamente indipendente dallo spirito che la concepisce, la vede o la sente,
è una impossibilità. Un mondo esterno in questo senso, se anche esi- stesse, ci
sarebbe inaccessibile. Ma ciò che chia- miamo realtà O. è, in ultima analisi,
ciò che è comune a più esseri pensanti e potrebbe essere comune a tutti» (La
valeur de la science, 1905, pag. 9). Poincaré riferiva questa considerazione
alle matematiche; ma quasi contemporaneamente lo stesso concetto di oggettività
veniva fatto valere nella metodologia delle scienze sociali da Max Weber: il
quale osservava che «la verità scientifica è quella che è valida per tutti
coloro che cercano la verità » e che anche nelle scienze sociali ci sono
risultati che non sono soggettivi nel senso di essere validi per una sola
persona e non per le altre (« L’og- gettività nelle scienze sociali e nella
politica sociale », 1904, in 7he Methodology of the Social Sciences, 1949, pag.
84). Questo tipo di oggettività si chiama oggi intersoggettività; e la
condizione fondamentale di essa è riconosciuta nel possesso e nell’uso di
speciali tecniche procedurali che, in un dato campo, garantiscano la messa a
prova e il controllo dei risultati di un'indagine. « Valido per tutti» signi-
fica perciò anche « intersoggettivamente valido » o « conforme a un metodo
qualificato +». E allo stesso concetto di O. si connettono i significati di «
indi- pendente dal soggetto» e di «esterno alla co- scienza +. Ciò che è O. nel
senso d'esser valido OGGETTIVO, IDEALISMO per tutti è difatti indipendente da
questo o quel soggetto, cioè dalle sue particolari preferenze o valutazioni; e
dall’altro lato il solo mezzo che un soggetto particolare ha per disciplinare o
tenere a freno le sue preferenze e valutazioni è quello di far ricorso a
qualificati procedimenti di metodo. Infine l’equivalenza tra O. ed esterno è la
trascri- zione di questi stessi concetti sul piano di quel linguaggio coscienzialistico
nel quale le parole «esterno» ed «interno» trovano una qualche giusti-
ficazione del loro uso (v. ESTERIORITÀ; REALTÀ). OGGETTIVO, IDEALISMO (ted.
Objektiver Idealismus). Uno dei tre tipi fondamentali di filosofia cioè di
intuizione del mondo, secondo Dilthey, e precisamente quella che è fondata sul
sentimento e dominata dalla categoria del valore. In questo tipo di filosofia
Dilthey comprendeva Eraclito, gli Stoici, Spinoza, Leibniz, Shaftsbury, Goethe,
Schel- ling, Schleiermacher, Hegel, e riteneva proprio di essa il panteismo
(Das Wesen der Philosophie, 1907, III, 2; trad. ital., in Critica della Ragione
storica, pag. 469) (v. IDEALISMO DELLA LIBERTÀ; NATURALISMO). OGGETTO (lat. Obiectum; ingl.
Object; fran- cese Objet; ted. Objekt, Gegenstand). Il termine di una qualsiasi operazione, attiva o
passiva, pratica, conoscitiva o linguistica. Il significato della pa- rola è
generalissimo e corrisponde al significato di cosa (v.). O. è il fine a cui si
tende, la cosa che si desidera, la qualità o la realtà percepita, l’immagine
fantasticata, il significato espresso o il concetto pen- sato. La persona è
oggetto di amore o di odio, di stima, di considerazione o di studio; e in
questo senso l’io stesso è o può essere oggetto. Ogni attività o passività ha come
suo termine o limite un’O., qualificato in corrispondenza del carattere
specifico dell'attività o della passività. Accanto a questo significato
generalissimo e fondamentale, per il quale il termine è insostituibile, si
riscontra talora, nel linguaggio filosofico e nel linguaggio comune, un
significato più ristretto o specifico, per il quale l’O. è tale solo se
provvisto di una particolare vali- dità: ad es. se è «reale» o «esterno» o «
indipen- dente», ecc. (v. OGGETTIVO). Questo secondo significato tuttavia non
elimina ma presuppone il primo. La parola è stata introdotta nella filosofia
dagli Scolastici del sec. xm. Essa è chiaramente definita da San Tommaso il
quale dice che «l’O. di una potenza o di un abito è propriamente ciò sotto la
cui ragione (ratio) è compreso tutto ciò che si rife- risce alla potenza o
all’abito in questione. Per es.: l’uomo e la pietra si riferiscono alla vista
in quanto sono colorati: ciò che è colorato è dunque l’O. proprio della vista»
(S. 7%., I, q.1, a. 7). Questa nozione di O. veniva sostanzialmente ripresa da
OGGETTO Duns Scoto che definiva l’O. di un sapere come la materia (subjectum)
del sapere stesso in quanto appresa o conosciuta. Una materia conoscibile
diventa, secondo Duns, O. conosciuto mediante un abito intellettuale che sia
relativo a questo oggetto (Op. Ox., Prol., q. 3, a. 2, n. 4). Jungius non
faceva che esprimere nel modo più semplice la stessa no- zione quando
affermava: « Si dice O. ciò intorno cui vertono le facoltà, gli abiti e i loro
atti» (Logica, 1638, I, 9, 37). Wolff a sua volta diceva: «O. è l’ente che
termina l’azione dell’agente o nel quale terminano le azioni dell’agente:
sicchè è quasi un limite dell’azione » (Ont., $ 949). Questo significato è
rimasto fondamentale nel- l'uso che del termine è stato fatto nella filosofia
moderna e contemporanea. La questione del carat- tere reale o ideale dell’O. in
generale o di una classe specifica di O. (ad es. degli O. fisici o cose), non
ha influito su di esso. Così l’O. della conoscenza può essere considerato
un’idea (come voleva Berkeley) o una rappresentazione (come voleva
Schopenhauer) o una cosa materiale (come voleva la Scuola scozzese del senso
comune) o un fenomeno (come voleva Kant), ma esso è sempre, come O., il termine
o limite dell'operazione conoscitiva. Tuttavia proprio Kant inizia l’uso
ristretto del termine per il quale l’O., o più esattamente l’O. di conoscenza
è, di preferenza, l’O. « reale» o «empirico ». Dice Kant infatti: « C'è gran
differenza tra l'essere qualcosa data alla mia ragione come O. assolutamente o
solo come O. nell’idea. Nel primo caso, i miei con- cetti passano a determinare
l’O.; nel secondo non c'è realmente che solo uno schema al quale non viene
attribuito direttamente alcun O., neppure ipoteticamente, ma che serve soltanto
a rappresen- tare altri O., nella loro unità sistematica, per mezzo della
relazione loro all’idea. Così io dico: il concetto di una intelligenza suprema
è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve consistere in ciò
che esso si riferisca direttamente ad un O. (poichè il suo valore oggettivo non
può essere giu- stificato in questo modo) ma è solo uno schema, ordinato
secondo le condizioni della massima razio- nalità del concetto di una cosa in
generale » (Crif. R. Pura, Dialettica, Appendice). Queste considera- zioni di
Kant tornano a dire che l’idea della ragion pura, propriamente parlando, non ha
O. perchè l'O. è soltanto quello empirico (la cosa naturale) e l’idea si
riferisce solo indirettamente a un gruppo di tali oggetti. Tuttavia questo significato
specifico dell'O. non elimina, neppure per Kant, il significato generale e
fondamentale. Kant infatti non solo considera il concetto di O. come il
concetto « più alto » in filosofia (v. Ia chiusa di questo articolo), ma anche
parla di una « distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e
noumeni» e considera 633 lo stesso noumeno come « l’O. di un’intuizione non
sensibile» ammessa in linea ipotetica, in quanto potrebbe essere propria di un
intelletto divino (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III). D'altronde per
Kant, oltre che l’O. di conoscenza, c’è «l’O. della ragion pratica» che è «la
rappresentazione di un O. come di un effetto possibile mediante la libertà »
(Crif. R. Prat., I, Libro I, cap. 2): il che vuol dire che l’O. è in questo
caso il termine o il risultato di un’azione libera. Ciò che in ogni caso
costituisce l’O. è la sua funzione di limite o termine di un’attività o di
un’operazione qualsiasi. Tale nozione non viene meno neppure nelle più radicali
forme dell’idealismo: per lo stesso Fichte l'O. è infatti il limite
dell’attività dell’Io. «L’Io pone se stesso come limitato dal non io +, egli
dice (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, A); e il non io non è che 1’O. (/bid., $
4, E, III; trad. ital., pag. 143). Analogamente, ogni altra determinazione che
i filosofi possono dare della natura dell’O. assume come punto di partenza la
definizione generale di esso. Ad es. l’O. può essere considerato come un dato
(come fanno abitualmente gli empiristi) o come un problema (come hanno fatto i
neocriticisti, per es. NatoRP, Platos Ideenlehre, pag. 367); ma può essere
l’una o l’altra cosa solo se viene considerato come il termine o il limite
dell’attività conoscitiva. Nella filosofia contemporanea, il ricorso della
nozione di intenzionalità (v.) ha permesso di rico- noscere chiaramente il
carattere generale della nozione di oggetto. Brentano che per primo ha
reintrodotto quella nozione, dice che « ogni fenomeno psichico include in sè
qualcosa come O., sebbene non sempre allo stesso modo. Nella rappresenta- zione
c’è qualcosa di rappresentato, nel giudizio qualcosa di riconosciuto o negato,
nell'amore qual- cosa di amato, nell’odio qualcosa di odiato, ecc. +
(Psychologie vom empirischen Standpunkt, 1874, I, pag. 115). E Husserl ha
ancora generalizzato il concetto, distinguendo l’O. dall’ « O. afferrato ». «
Si deve notare, egli ha detto, che l’O. intenzionale di una coscienza (preso
come pieno correlato di questa) non è affatto uguale all’O. afferrato (erfass-
tes). Noi siamo soliti di assumere senz’altro l’essere afferrato nel concetto
di O. (di O. intenzionale) in quanto, pensando ad esso o parlandone, ne
facciamo un O. nel senso dell'afferrato. ...Certo non possiamo rivolgerci ad
una cosa fisica se non afferrandola; e lo stesso si dica di tutte le
oggettività schiettamente rappresentabili... Invece nell’atto del valutare, in
quello del gioire, dell’amare, dell'agire, noi siamo rivolti rispettivamente al
valore, all’O. felicitante, all’O. amato, all’azione, senza afferrare nulla di
tutto questo » (Zdeen, I, $ 37). Parallelamente ed analogamente, Meinong
difendeva il significato 634 generalissimo della nozione di O. (Gegenstand)
dividendola nelle due classi degli O. della rappre- sentazione od obbietti
(Objekre) e degli O. del giudizio od obbiettivi (Objektive) (Uber Annahmen,
1902, pag. 142 sgg.). Quasi contemporaneamente, nel dominio della logica
matematica, Frege difen- deva una nozione sostanzialmente identica dell’O.,
identificando l’O. con il significato. « Il significato di una parola, egli diceva,
è l’O. che noi indichiamo con essa» (Uber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 3; trad.
ital., pag. 222): e intendeva dire che l’O. è il termine o il limite
dell’operazione linguistica, cioè dell’uso del segno. A sua volta Wittgenstein
diceva «Il nome variabile ‘x’ è il segno proprio dello pseudo concetto oggetto.
Ogni qualvolta il termine O. (‘ cosa ’, ‘ entità ’, ecc.) è usato corretta»
mente, viene espresso nel simbolismo logico dal nome variabile» (7ract.
/ogico-philos., 4.1272). Non molto lontano da questa è la nozione di O. esposta
da Dewey per il quale O. è il risultato di un’opera- zione di indagine. «Il
nome O., egli dice, sarà riservato alla materia trattata nella misura in cui
essa è stata prodotta e ordinata in forma sistematica per mezzo dell’indagine;
proletticamente, oggetti sono gli obbiettivi dell’indagine. L’ambiguità che si
potrebbe riscontrare nell’uso del termine in questo senso (poichè di regola la
parola si applica alle cose osservate e pensate) è soltanto apparente, giacchè
le cose esistono come O. per noi solo in quanto siano state preliminarmente
determinate quali risul- tati di indagine » (Logic, cap. 6; trad. ital., pag.
175). È facile vedere che la differenza tra queste defini- zioni di O. è
soltanto la differenza fra le attività o le operazioni che si considerano: l’O.
è il termine del significato, se si considera il linguaggio e in generale l’uso
dei segni; è il termine di un’operazione di inda- gine se si considera la
ricerca scientifica; e così via; ma in ogni caso è (come già ritenevano gli
Scolastici) il termine o il limite di un’operazione determinata. La parola O. è
perciò il termine più generale di cui disponga il linguaggio filosofico. Kant
aveva ragione a questo proposito affermando che se «il più alto concetto da cui
si suol prendere le mosse in una filosofia trascendentale è la divisione di
possibile e impossibile», poichè ogni divisione presuppone un concetto da
dividere, « dev'essere addotto un concetto ancora più alto e questo è il
concetto di un O. in gezerale, assunto in modo problematico e senza decidere se
esso sia qualcosa o niente» (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle
anfibolie dei concetti della riflessione). È ovvio che il concetto di O. non
coincide interamente con nessuna delle sue specificazioni possibili. Le cose, i
corpi fisici, le entità logiche e matematiche, i valori, gli stati psichici,
ecc., sono tutti O., specificati o specificabili per via di particolari modi
d’essere OGNI o di particolari procedure di accertamento; ma nessuna di queste
classi di O. possiede un’oggettività privilegiata e nessuna si presta ad
esprimere, nel suo àmbito, la caratteristica dell'O. in generale. OGNI (gr. nic; lat. Omnis;
in. Any; fr. Chaque; ted. Jeder).
Nella logica contemporanea, O.» è un operatore di campo, di cui il simbolo più
usato è ‘(x) *», per es. in formule come ‘(x)-f(x) ”, che si legge « per ogni
x, f(x) è vero». Esso corri- sponde ad un prodotto logico (o congiunzione
logica) operato nel campo di validità della (x), cioè alla congiunzione ‘f(a) e
f(b) e f(c) e... *. Ove f(x) sia un predicato, questa equivale alla formula
consueta ‘ O. x è f” o anche ‘tutti gli x sono f della logica tradizionale.
Aristotele aveva usato «O.» nella proposizione universale afferma- tiva: «Ogni
A è B» e quest’uso fu seguito dalla logica medievale. In questo uso la funzione
di « O. » non si distingue da quella di «tutti». Tuttavia la logica
terministica medievale distinse due significati di « tutti »: il significato
collettivo per cui, ad es., sì dice « Tutti gli Apostoli sono 12» dal quale non
segue che « Questi Apostoli sono 12»; e il signifi- cato distributivo per cui,
ad es., si dice « Tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere +, dal
quale segue «O. uomo desidera naturalmente co- noscere ». In quest’ultimo caso
«O.» indica una disposizione della cosa che può fungere da soggetto o da
predicato (Pietro Hispano, Summ. Log., 12.04-06). Nella logica moderna la
distinzione tra O. e tutto è stata fatta valere da Frege (Grundgesetz der
Arithmetik, 1893, I, $ 17) e da Russell. Quest’ul- timo ritiene che tale
distinzione consiste nel fatto che un’asserzione contenente una variabile x,
per es. ‘x = x”, può essere fatta valere o per lutti gli esempi o per uno
qualsiasi degli esempi senza decidere a quale esempio si faccia riferimento. In
questo secondo caso si fa uso dell’operatore ogni. Così nelle dimostrazioni di
Euclide si assume, per ragionare, un triangolo qualsiasi ABC senza determinare
che specie di triangolo sia. In tal caso, il triangolo ABC vale come una
variabile reale: esso è qualsiasi triangolo, per quanto rimanga lo stesso
attraverso la dimostrazione. L’operatore tutti invece fa leva su variabili
apparenti che sono quelle le quali, comunque determinate, non mutano il valore
della funzione. Russell ritiene che la distin- zione tra rutti e O. sia
necessaria al ragionamento deduttivo (Marhematical Logic as Based on the Theory
of Types, 1908, in Logic and Knowledge, pag. 64 sgg.; cfr. Principles of
Mathematics, $ 60-61; Principia Mathematica). OLIGARCHIA. V. Governo, FORME DI.
OLISMO (ingl. Holism; franc. Totalisme; te- desco Holismus). 1. Una variante
della dottrina ONIROLOGIA dell’evoluzione emergente (v.) che consiste nel
capovolgimento dell’ipotesi meccanistica e nel rite- nere che non già i
fenomeni biologici siano dipen- denti da quelli fisico-chimici, ma questi
ultimi dai primi. Questa ipotesi non è che una forma appena mascherata di
vitalismo. Cfr., J. C.
SMuTs, Holism and Evolution, 1927; J. S. HALDANE, The Philoso- vhical Basis of
Biology, 1931; DRIEscH, Zur Kritik es Holismus, 1936. 2. K. Popper ha chiamato O. la tendenza degli
storicisti a sostenere che l’organismo sociale, come quello biologico, è
qualcosa in più della semplice somma complessiva dei suoi membri ed è anche
qualcosa in più della semplice somma com- plessiva delle relazioni esistenti
tra i membri (The Poverty of Historicism, 1944, $ 7). OLOMERIANI (ingl.
Holomerians; ted. Holo- merianer). Così Henry More chiamò coloro che credono
che l’anima risieda nella totalità del corpo piuttosto che in una parte di esso
(Enchiridion Metaphysicum, I, 27, 1). OMEOMERIE (gr. suotoptperar; ingl. Homeo-
meries; franc. Homéomériesj ted. Homoiomerien). Con questa espressione che
significa « parti simili » Aristotele chiamò i semi di Anassagora cioè le parti
(che non sono elementi perchè sempre a loro volta divisibili) che secondo
Anassagora com- pongono un corpo e che sono in prevalenza simili al corpo
stesso. Così, per quanto in ogni corpo vi siano particelle o semi di tutti gli
altri corpi, in ogni corpo tuttavia è prevalente una certa specie di particelle
che è quella che dà nome al corpo stesso (ARIST., De Caelo, III, 3, 302 b 3;
Met., I, 3, 984a 14; cfr. Diog. L., II, 8; Lu- crEzIO, De rer. nat., I, 830;
Sesto EMPIR., Adv. Math., X, 25). OMINISMO (ted. Hominismus). Termine creato da
Windelband per indicare il relativismo e cioè la dottrina che l’uomo è la
misura di tutte le cose (v. RELATIVISMO). OMOGENEITÀ (ingl. Homogeneity; fran-
cese Homogénéité; ted. Homogeneitàt). La relazione tra cose che appartengono
allo stesso genere (per es., bianco e nero); o hanno la stessa composizione
(per es., le parti di un oggetto composto dallo stesso materiale); o che hanno
tra loro parti simili cioè che si corrispondono termine a termine (per es., due
orologi costruiti allo stesso modo). Spencer usò il termine nel senso di
indifferenziazione e definì l’evoluzione come il passaggio dall’omogeneo
all’eterogeneo, cioè da ciò che è indifferenziato a ciò che è differenziato in
parti tra loro diverse (First Principles, $ 145). Kant chiamò «principio della
O.» la regola della ragione di cercare unificazioni concettuali sempre più
estese cioè generi sempre più alti; 635 regola che farebbe da contrapposto
simmetrico a quella della specificazione (v.) e con questa conflui- rebbe nella
legge dell’affinità (v.) (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica
trascendentale). Hamilton ripetette sostanzialmente queste nozioni kantiane.
Egli chiamò «legge di O.» l’enunciato che « Due concetti per quanto differenti
tra loro possono sempre essere subordinati a un concetto più alto; o che, in
altri termini, le cose più dissimili devono, in certi rispetti, essere simili».
Accanto a questa, Hamilton enunciò pure «la legge di eterogeneità » secondo la
quale «Ogni concetto contiene sotto di sè altri concetti; e perciò, quando
venga divisa, si discende sempre ad altri concetti, mai agli indi- vidui; o
che, in altri termini le cose più omogenee o simili devono in certi rispetti
essere eterogenee o dissimili ». Queste due leggi governano, secondo Hamilton,
tutta la classificazione delle cose in generi e specie (HAMILTON, Lectures on
Logic, $ 40; vol. I, 22 ediz., 1865, pag. 209-10). OMOIUSIA-OMUSIA (gr.
suorcvola, suovola). Si disse che l’intera disputa teologica che mise capo al
Concilio di Nicea (325) vertesse intorno a un iota: cioè alla differenza tra
l’omoiusia, la dottrina di Ario che ammetteva solo una somi- glianza tra la
sostanza di Dio-Padre e quella del Logos e l’omusia cioè la dottrina di
Atanasio che ammetteva l’identità della sostanza di Dio-Padre con quella del
Logos. La decisione del Concilio in favore dell’omusia stabilì il principale
caposaldo dogmatico della teologia cristiana. OMOLOGIA (gr. suoroyla; ingl.
Homology; franc. Homologie; ted. Homologie). 1. Per gli Stoici questo era il
termine tecnico per indicare l'accordo con la natura quale regola fondamentale
della con- dotta (STOBEO, Ecl., II, 76, 3): termine che Cice- rone tradusse con
convenientia (De Fin., III, 6, 21). 2. L’O. è oggi un concetto scientifico
variamente de- finito nelle varie discipline. In geometria si dicono omologhi
gli elementi di due figure simili che si corrispondono. In biologia si dicono
omologhi gli organi che si corrispondono per la loro situazione nei confronti
dell’intero organismo, pur non avendo la stessa funzione (com'è invece degli
organi ana- loghi) (v. ANALOGIA). OMONIMIA (ingl. Homonymy; franc. Homo- nymie;
ted. Homonymie). In Aristotele designa l’am- biguità di un termine, cioè il
fatto che il termine stesso venga usato a denotare cose diverse. L’O, della
frase si chiama anfibolia (v.) (v. EquIvoco; UNIVOCO). G. P. OMOTEISMO (ingl.
Homotheism; ted. Homo- theismus). Lo stesso che antropomorfismo (v.). Ter- mine
creato da Ernesto Haeckel. ONIROLOGIA. L'’interpretazione dei sogni (v. SOGNO).
636 ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA. Vedi TEODICRA. ONORE (gr. «ia; ingl. Honor;
franc. Honneur; ted. Ehre). Ogni manifestazione di considerazione e di stima
tributata ad un uomo da altri uomini, come pure l’autorità o il prestigio o la
carica di cui venga riconosciuto investito. Gli antichi con- siderarono l’O.
come uno dei beni fondamentali della vita sociale; e Aristotele riconobbe che
c’è una virtù nei confronti dell'O., come c'è una virtù (la liberalità) nei
confronti del denaro. Tale virtù è la magnanimità (v.), il cui eccesso è l'ambizione
e il cui difetto è la piccolezza d’animo (Et. Nic., II, 7, 1107b 20). Questa
accentuazione dell’im- portanza dell’O. ritenuto come «il premio della virtù e
del ben fare» (/bid., VIII, 14, 1163b 3) deriva all’etica greca, dalla quale è
passata nel costume e nel diritto della tradizione occidentale, dalla sua
impostazione aristocratica. La « rispetta- bilità » è, nel mondo moderno,
l’analogo di questo antico concetto. È abbastanza ovvio tuttavia che «il ben
fare + (svepyeota) del quale, oltre che della virtù, l'O. dovrebbe essere il
premio, secondo Ari- stotele, include una buona dose di conformismo ai
pregiudizi dominanti nel gruppo o nella classe sociale che conferisce l’O. e
l’analogo moderno dell’O., la rispettabilità, non include una dose minore di conformismo.
Non fa perciò meraviglia che l’O. abbia spesso suggerito e continui a sug-
gerire azioni immorali o malvagie o veri e propri delitti, sia nella vita
privata, sia nei rapporti tra i popoli, nei quali 1’O. ha spesso avuto una
parte predominante nel suscitare o mantenere vivi i con- flitti. ONTICO (ingl.
Ontic; franc. Ontique; tedesco Ontisch). Esistente: distinto da ontologico che
si riferisce all’essere categoriale cioè all’essenza o alla natura
dell’esistente. Ad es., la proprietà empirica di un oggetto è una proprietà O.,
la possibilità o la necessità è una proprietà ontologica. La distin- zione è
stata sottolineata da Heidegger: «‘ Onto- logico’ nel senso che alla parola è
dato dalla volga- rizzazione filosofica (e qui si fa avanti la radicale
confusione) significa ciò che invece dovrebbe venir detto O. cioè un
atteggiamento verso l'ente tale da lasciarlo essere in se stesso, in ciò che è
e com'è. Ma con tutto ciò non è ancora stato posto il pro- blema dell’essere,
nè tanto meno raggiunto ciò che deve costituire il fondamento per la
possibilità di una ‘ontologia ’» (Vom Wesen des Grundes, I, n. 14; trad. ital.,
pag. 23). ONTOGENESI. V. BrogENETICA, LEGGE. ONTOLOGIA. V. METAFISICA.
ONTOLOGICA, PROVA. V. Dio, Prove DI. ONTOLOGISMO (ingl. Ontologism; francese
Ontologisme; ted. Ontologismus). La dottrina se- ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA condo
la quale «il lavoro filosofico non comincia nell’uomo ma în Dio, non sale dallo
spirito all'Ente, ma discende dall’Ente allo spirito» (GIOBERTI, Intr. allo
studio della fil, 1840, II, pag. 175). L’O. si oppone allo psicologismo che
segue il cam- mino opposto e si ritiene proprio della filosofia moderna a
cominciare da Cartesio. La tesi fonda- mentale dell'O. è che l’uomo possiede
una visione o intuizione immediata o diretta dell’ente: o del- l’ente
genericamente inteso come nozione generale dell’essere, come ritiene Rosmini; o
dell’ente in- teso come lo stesso Ente supremo cioè Dio, come ritiene Gioberti.
Questa tesi fondamentale deriva agli ontologisti dall’agostinismo scolastico
che aveva sempre insistito sulla diretta illuminazione dell’in- telletto umano
da parte di Dio; e, più immediata- mente, dagli Occasionalisti e da Malebranche
che avevano ridotto ogni specie di conoscenza alla vi- sione in Dio (v.
AGOSTINISMO; OCCASIONALISMO). L’O. rientra tuttavia nel quadro di quel ritorno
romantico alla tradizione che, nella prima metà dell’800, domina la filosofia
europea e fa leva sui due concetti strettamente connessi di rivelazione e di
tradizione: difatti l'intuizione dell’ente è intesa come la rivelazione che
l’ente fa di se stesso al- l’uomo. L’O. di Rosmini limita questa rivelazione
alla nozione generale dell’essere o «essere possibile », inteso come forma
fondamentale e originaria della mente umana e come condizione di ogni
conoscenza, che sarebbe sintesi tra l’idea dell'essere e un dato sensibile
(Nuovo saggio sull’origine delle idee, 1830, $ 492, 537). L’atto della
conoscenza così intesa è la percezione intellettiva (v.). Gioberti invece ri-
tenne che Dio si rivela all'uomo (all’intuito) nella sua stessa attività
creatrice; e vide l’intuito stesso espresso pienamente nella formula «l’Ente
crea l’esistente » che pone in relazione tre realtà: la Causa prima, le
sostanze create e l’azione crea- tiva (Intr. allo studio della fil., 1840, II,
pag. 183). Sia Rosmini che Gioberti sono in polemica con la filosofia moderna
che accusano di soggettivismo, di psicologismo e di nullismo; ma in realtà,
come si è detto, la loro dottrina è di stampo schiettamente romantico e trova riscontro
nella filosofia del se- condo Schelling, in quella di Schleiermacher e di altri
epigoni romantici. Una continuazione del- l’O. nella filosofia contemporanea si
può conside- rare la filosofia di P. Carabellese, che ha cercato di conciliare
Rosmini con Kant. Carabellese con- sidera la coscienza, che è il punto di
partenza e l’unico fondamento della filosofia, come la consa- pevolezza che il
soggetto ha dell’essere; ma, a differenza di Rosmini e di Gioberti, considera
l’essere come assolutamente immanente alla co- scienza stessa. Tuttavia anche
Carabellese chiama OPINIONE tale essere Dio; e considera Dio come il fonda-
mento dell’oggettività di tutte le cose particolari che la coscienza può
attingere (Critica del concreto, 1921; 7 problema teologico come filosofia,
1931). ONTOTEOLOGIA. V. TroLogia, 2°. OPERATORE (ingl. Operator; franc. Opé-
rateur; ted. Operator). In logica: un simbolo impro- prio [o sincategorematico
(v.)], che può essere usato, insieme con una o più variabili e con una o più
costanti o forme, per produrre una nuova costante o forma. Questa è la
definizione data da A. Church (Intr. to Mathematical Logic, 1956, $ 06): ed è
la definizione più generica che permette di comprendere nell’ambito del
termine, oltre i quantificatori, anche: l’operatore di astrazione © astrattore
(che viene indicato con una variabile preceduta dalla lettera 2) e al quale
secondo taluni logici si riducono tutti gli altri; e l’O. di descri- zione o
descrittore « (1) che, se è la variabile dell'O. come in (? x), si legge: «l’x
tale che ». Gli O. quan- tificatori o quantificatori sono: il quantificatore
uni- versale, per cui si usa la notazione «(x)» messa prima dell’operando e che
si legge « per tutti gli x è vero che»; il quantificatore esistenziale, per il
quale si usa abitualmente la notazione (3) che, se x è la variabile del
quantificatore, come in (HA x), si legge «esiste un x tale che». L’applicazione
di uno o più quantificatori a un operando si chiama quantificazione. Le
notazioni citate sono quelle adoperate più comunemente nella logica contem-
poranea, ma non sono le sole. Per maggiori rag- guagli, confronta la citata
Insroduction di Church. OPERAZIONE (lat. Operatio; ingl. Operation; franc.
Opération; ted. Operation). 1. Attività in generale. Questo è il significato
che il termine ebbe nel Medioevo, quando fu usato come traduzione del greco
èvépyera che vale attualità o attività. Questo è il senso in cui adoperò la
parola S. Tom- maso (ad es., S. 7à., II, 1, q. 3, a. 2), e per il quale vale il
principio che «il modo di operare di cia- scuna cosa segue il suo modo
d’essere» (/bid., I, q. 89, a. 1). 2. Funzione nel significato 1: cioè
l’attività ca- ratterizzata da un certo fine e propria di un essere
determinato. In tal senso si dice, ad es., che «l’O. della fisica è quella di
calcolare risultati che possono essere confrontati con l’esperimento » o che
«l’O. della scienza è di dimostrare », ecc. 3. Funzione nel significato 2:
relazione o corre- lazione. In questo senso si parla di O. matematiche o
logiche. 4. Tecnica manuale cioè procedimento manipo- lativo da effettuarsi
secondo regole determinate; per es., O. di misura, O. di produzione, ecc.
OPERAZIONISMO (ingl. Operationism; fran- cese Opérationisme; ted.
Operationismus). La dot- 637 trina secondo la quale il significato di un
concetto scientifico consiste unicamente in un determinato insieme di
operazioni. Ha proposto per primo questa dottrina P. W. Bridgman che così l’ha
il- lustrata, con un esempio rimasto classico: « Noi conosciamo ciò che
intendiamo per lunghezza se possiamo dire qual è la lunghezza di qualsiasi og-
getto e il fisico non richiede niente di più. Per trovare la lunghezza di un
oggetto dobbiamo ese- guire certe operazioni fisiche. Il concetto di lun-
ghezza è perciò fissato quando le operazioni con le quali la lunghezza è
misurata sono fissate: cioè il concetto di lunghezza implica niente di meno e
niente di più che l’insieme delle operazioni con le quali la lunghezza è
determinata. In generale con un concetto noi non intendiamo niente di più che insieme
di operazioni; i/ concetto è sinonimo con il corrispondente insieme di
operazioni. Se il concetto è fisico, come la lunghezza, le operazioni sono
operazioni fisiche reali, per es., quelle con cui la lunghezza è misurata; se
il concetto è mentale, come, per es., la continuità matematica, le opera- zioni
sono operazioni mentali cioè quelle mediante le quali determiniamo se un dato
aggregato di grandezze è continuo» (The Logic of Modern Physics, 1927, pag. 5).
Come si vede le opera- zioni cui Bridgman faceva riferimento sono quelle di cui
al significato 4 e 1; ma la sua dottrina è stata estesa in riferimento a
qualsiasi specie di operazione ed è stata soprattutto utilizzata, fuori della
fisica, dagli psicologi (cfr. S. S. STEVENS, « Psychology and the Science of
Science », in Read- ings in Philosophy of Science, ed. P.P., Wiener, 1953, pag.
158-84). In base a quest’estensione della dot- trina dell'O. e conseguentemente
del concetto di ope- razione, i soli caratteri riconoscibili al tipo di opera-
zione che può valere come significato dei concetti scientifici sono quelli
della pubblicità e ripetibilità: il primo esclude il carattere privato di certe
attività puramente mentali, il secondo prescrive l’inter- soggettività delle
operazioni stesse. Si dubita tut- tavia oggi che il criterio operazionistico
possa valere per tutti i concetti scientifici (cfr., ad es., G. BERGMANN,
Philosophy of Science, 1957, pa- gina 56 sgg.). OPINIONE (gr. 36ta; lat.
Opinio; ingl. Opi- nion; franc. Opinion; ted. Meinung). Il termine ha due
significati: nel primo, più comune e ristretto, designa ogni conoscenza (o
credenza) che non includa alcuna garanzia della propria validità; nel secondo
designa genericamente qualsiasi asserzione o dichiarazione, conoscenza o
credenza, sia che includa sia che non includa una garanzia della propria
validità. Questo secondo significato viene più spesso usato che definito
esplicitamente. Nel primo significato, l’O. si contrappone alla scienza (v.).
638 Il primo significato si trova già in Parmenide che contrappone «le opinioni
dei mortali» alla verità (Fr., 1, 29-30). Ma entrambi i significati si trovano
già in Platone. Questi da un lato considera l’O. come qualcosa di mezzo tra la
conoscenza e l’igno- ranza (Rep., 478 c), e come comprendente la sfera della
conoscenza sensibile (congettura e credenza) (Ibid., VI, 510 a); e da questo
punto di vista af- ferma che neppure l’O. vera sta ferma nell’anima « finchè
non venga legata con un ragionamento c usale » e così diventi scienza (Men., 98
a; cfr. Fil., 59 a). Dall’altro considera come O. il discorso che l’anima fa
con se stessa e in cui consiste il pen- siero (Teet., 190 a-c): nel qual senso
la scienza stessa non è che una specie di opinione. I due significati si
ritrovano egualmente in Aristotele, che da un lato afferma, con Platone, che le
O., a dif- ferenza della dimostrazione e della definizione, sono soggette a
mutare c perciò non costituiscono scienza (Met., VII, 15, 1039b 31); dall’altro
dichiara: «Per principi intendo le O. comuni sulle quali tutti gli uomini
fondano le loro dimostrazioni: per es., che un’asserzione dev'essere
affermativa o negativa, che niente può simultaneamente essere e non essere,
ecc.» (/bid., III, 2, 996 b 27). Nella tradizione posteriore, il significato
generico si è perduto ed è rimasto l’altro. Gli Stoici defini- rono l’O. «un
assenso debole e fallace» (SESTO EMP., Adv. math., VII, 151; cfr. Cicer.,
Tusc., IV, 7, 15); e nello stesso senso Epicuro chiamò l’O. « un’assun- zione a
cui può capitare di essere sia vera che falsa » (Dio. L., X, 33). In altre
parole, S. Tommaso esprimeva la stessa cosa dicendo: «L’O. è l’atto
dell’intelletto che si porta su una parte della contrad- dizione con la paura
dell’altra » (S. 7à., I, q. 79, a. 9). Wolff chiamava O. «la proposizione
insuffi- cientemente provata? (Log., $ 602); e Spinoza identificava l’O. con la
conoscenza del primo genere, che è la più bassa ed incerta e procede da segni
(Et., IT, 40, Scol. IM. Kant parimenti dice: « L’O. è una credenza
insufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente, accompagnata dalla
consa- pevolezza ». La consapevolezza consiste nel fatto che « non si può
presumere di opinare senza almeno sapere qualcosa per mezzo del quale il
giudizio problematico abbia una certa connessione con la verità »: altrimenti,
«tutto è soltanto un giuoco dell’immaginazione senza la minima relazione con la
verità » (Cri. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. 2, sez. 3). Kant affermava pure
(/oc. cit.) che « nei giudizi derivanti dalla ragion pura non è affatto
permesso opinare»; e che pertanto non si può opinare nè nel dominio della
matematica nè nel dominio morale. Ma Hegel negava che ci fossero opinioni anche
nel dominio della filosofia. « Un’O. egli diceva, è una rappresentazione
soggettiva, un OPPOSIZIONE pensiero casuale, un’immaginazione che io mi formo
in questa o quella maniera e che altri può avere in modo diverso: l’O. è un
pensiero mio, non già un pensiero in sè universale, che sia in sè e per sè. Ma
la filosofia non contiene opinioni, giacchè non ci sono opinioni filosofiche »
(Geschichte der Philosophie, in Werke, ed. Glockner, XVII, pag. 40; trad.
ital., vol. I, pag. 21). Questo punto di vista è stato ed è condiviso da tutte
le filosofie assolu- tistiche ed è in realtà il punto di vista della metafisica
tradizionale. Quello espresso da Kant, circa l’im- possibilità delle opinioni
in campo scientifico, è stato invece condiviso dalla scienza positivistica
dell’800. Ma il fallibilismo che prevale oggi sia nella scienza che nella
filosofia rende assai meno sdegnosi e sprezzanti verso l’opinione. Da un lato
non si ritiene che l’O. sia così privata o incomunicabile come Hegel affermava.
Un’O. scientifica o filosofica può essere condivisa da molti proprio come O.
cioè senza l’illusorio o surrettizio suo camuffamento in verità purchè
rappresenti, a una certa fase della ricerca, l’ipotesi più ragionevole o la
teoria meglio appoggiata dai fatti. Dice Dewey: « Nella soluzione di problemi
che pretendono ad una esattezza minore della trattazione dei casi giuridici, i
giudizi sono chiamati O. per distinguerli dai giudizi o asserzioni veramente
giustificati. Ma se l’O. professata è fondata, è essa stessa prodotto di
indagine e in quanto tale è un giudizio » (Logic, 1939, VII; trad. ital., pag.
179). Dall'altro lato, le stesse ipotesi o teorie meglio stabilite presentano
una certa latitudine di interpretazioni possibili che lascia vasto campo a una
diversità di opinioni. Infine la ripugnanza, condivisa (e con buone ragioni) da
scienziati e filosofi a considerare come assoluta o necessaria la verità
scientifica o filosofica, dimi- nuisce il divario tra la verità stessa e l’O. o
tra l’O. e la scienza. Il concetto di O. non è oggi mutato da quello che gli
antichi definivano: un impegno debole e soggetto a revisione, l’assenza di ogni
garanzia di validità, costituiscono, anche oggi, le caratteristiche che si
riconoscono proprie dell’opi- nione. Il campo dell’O. si è tuttavia esteso
assai di più di quanto gli antichi non ritenessero e di quanto non ritenevano
nè ritengano i filosofi assolutisti; e soprattutto si è indebolita la nettezza
dei confini tra scienza e O.: giacchè non c’è posto o regione della scienza in
cui non si intersechino fra loro O. e verità. OPPOSIZIONE (gr. 4 dvrixetueva;
lat. Oppo- sitio; ingl. Opposition; franc. Opposition; ted. Gegen- satz,
Opposition). La relazione di esclusione fra ter- mini o oggetti in generale.
Aristotele distinse quattro forme di opposizione: 1° l’O. correlativa come, ad
es., quella che intercede tra il doppio e la metà; 2° 1°O. contraria come quella
che intercede tra il bene e ORDINE il male, il bianco e il nero, ecc.; 3° l’O.
tra pos- sesso e privazione come quella che intercede tra la vista e la cecità;
4° l’O. contraddittoria che è la contraddizione (Car. 10, 11 b 15 sgg.) (v. su
cia- scuna di queste forme le singole voci: CONTRAD- DIZIONE; (CONTRARIETÀ;
‘CORRELAZIONE; POSSESSO; ed inoltre QUADRATO DEGLI OPPOSTI). ORA (gr. 7è vv;
lat. Nunc; ingl. Now; fran- cese Instant; ted. Jetzr). Con questo termine s’in-
tende nel linguaggio della tradizione filosofica, l’istante come limite o
condizione del tempo, quindi diverso dall'attimo (v.) che è una specie di
incontro tra l'eternità e il tempo. Secondo Aristotele, l'O. è il presente
istantaneo, senza durata, che funge da limite mobile tra il passato e il futuro
(Fis., IV, 11, 219 a 25). La nozione ritorna frequentemente nelle speculazioni
medievali sul tempo. Talvolta l’O. fu concepita come una res fluens che subito
si corrompe e manca ed è soppiantata da un’altra (cfr. PIETRO AUREOLO, In
Sent., II, d. 2, q.1, a. 3). Questa concezione fu combattuta da Ockham che
identificò l’istante con la posizione del mobile il cui movimento si assume
come misura del tempo (Summulae in libros physicorum, IV, 8). Nella filo- sofia
contemporanea, il termine è stato adoperato da Husserl per indicare l’orizzonte
temporale del- l’esperienza vissuta. Poichè nessuna esperienza può cessare
senza la coscienza di cessare o di essere cessata, questa coscienza è un nuovo
istante pre- sente od ora. « Ciò significa che ogni O. di un’espe- rienza ha un
orizzonte di esperienze che hanno anch’esse la forma originaria dell’O. e come
tali costituiscono l’orizzonte originario dell’io puro, il suo complessivo
originario O. di coscienza » (Ideen, I, $ 82). ORDINE (gr. t4Ec; lat. Ordo;
ingl. Order; franc. Ordre; ted. Ordnung). Una qualsiasi relazione tra due o più
oggetti che possa essere espressa con una regola. Questa nozione, che è la più
generale, fu espressa da Leibniz per la prima volta in un passo del Discorso di
metafisica (1686): « Ciò che passa per straordinario lo è solo rispetto a
qualche O. particolare stabilito tra le creature perchè, quanto all’O.
universale, tutto è perfettamente armonico. Ciò è talmente vero che non solo
non accade nulla nel mondo che sia assolutamente fuori regola, ma non si
saprebbe nemmeno immaginare qualcosa che sia tale. Supponiamo infatti che
qualcuno segni una quantità di punti sulla carta in un modo qualsiasi: io dico
che è possibile trovare una linea geometrica la cui nozione sia costante e
uniforme secondo una certa regola, e tale che passi per tutti questi punti
proprio nell’O. con cui la mano li ha tracciati. E se qualcuno traccia una
linea continua, ora retta ora curva ora d'altra natura, è possibile trovare una
nozione o regola o equazione comune 639 a tutti i punti di questa linea in
virtù della quale i mutamenti stessi della linea risultano spiegati. Per es.
non vi è alcun viso il cui contorno non faccia parte di una linea geometrica e
non possa essere tracciato d’un sol tratto a mezzo di un certo movi- mento
regolato. Ma quando una regola è molto complessa ciò che le appartiene passa
per irregolare. Così si può dire che in qualunque modo Dio avesse creato il
mondo, il mondo sarebbe stato sempre regolare e fornito di un O. generale »
(Discours de mét., $ 6). L’O. in questo senso consiste semplice- mente nella
possibilità di esprimere con una regola, cioè in modo generale e costante, una
relazione qualsiasi intercedente tra due o più oggetti qualsiasi. La nozione di
O. in questo senso non si distingue pertanto da quella di relazione costante.
Ma questo è però solo il significato generalissimo della nozione stessa.
Nell'ambito di esso si possono distinguere tre nozioni specifiche: 1° L’O.
seriale; 2° L’O. totale; 3° Il grado o livello. 1° L’O. seriale è quello
proprio della relazione di prima e dopo. Aristotele osservò che questa rela-
zione ricorre là dove vi è un principio perchè in tal caso le cose possono
essere più o meno vicino al principio. Un prima o un dopo può essere deter-
minato rispetto allo spazio e al tempo o al movi- mento o alla potenza o alla
disposizione. Anche nella conoscenza qualcosa vien prima dell’altra o per de-
finizione o nel senso in cui la sensazione vien prima del concetto. In generale
di due cose vien prima quella che può stare senza l’altra: tale, è secondo
Aristotele, l’espressione più generale di questa forma d’ordine (Mer., V, 11,
1018 b 9). Aristotele sembra così privilegiare come O. seriale 1’O. causale che
è per l’appunto quello nel quale la causa può stare senza l’effetto, ma
l’effetto non può stare senza la causa onde viene dopo di essa: un’inter-
pretazione che ritorna frequentemente nella tradi- zione filosofica.
Sant'Agostino diceva, per es.: «O dimostrate che qualche cosa può avvenire
senza causa o credete con me che nulla avviene se non per un certo O. di
cause», identificando così la nozione stessa di O. con quella di causalità (De
Ord., I, 4, 11). E Spinoza faceva coincidere l’O. delle cose con la loro
connessione causale; e consi- derava come sinonimi le due espressioni «1’O. di
tutta la natura» e «il nesso delle cause» (Er., II, 7, Scol.). Kant non solo
effettuava la stessa identificazione ma addirittura considerava l’O. causale
come condizione dell’O. temporale. « Una cosa, egli diceva, può acquistare il
suo posto deter- minato nel tempo solo a condizione che si presup- ponga, nello
stato precedente, un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre, cioè secondo
una regola; donde risulta in primo luogo che non posso capo- volgere la serie e
fare che il conseguente sia ante- 640 riore al precedente; e in secondo luogo
che, quando lo stato precedente è posto, un determinato avveni- mento deve
immancabilmente e necessariamente seguire » (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ.,
cap. II, sez. 3, Analogie dell’esperienza). Analogamente, per Bergson, l’O.
naturale è quello «fisico» o « geometrico» o «automatico », fuori del quale non
c’è che l’O. « vitale » o « voluto » cioè l'O. dei fini (Év. créatr., 83 ediz.,
1911, pag. 251-52). Tuttavia questo privilegio accordato all’O. causale non
sempre oscura il concetto formale dell’ordine seriale. S. Tommaso riprendeva la
definizione di Aristotele: «Si parla sempre di O., egli diceva, nei confronti
di qualche principio. E poichè si parla di principio in molti modi; cioè
secondo il luogo, come quando si parla del punto; secondo l’intelletto, come
quando si parla del principio della dimostrazione; e secondo le cause singole;
così anche si parla dell’O.» (S. 7A., I, q. 42, a. 3). In questo passo l’O.
causale è soltanto una esempli- ficazione dell’O. generale. Allo stesso modo
Wolff definiva 1'’O. come «l’ovvia similitudine per la quale le cose si
collocano l’una rispetto all'altra o si seguono l’un l’altra »: dove l’ovvia
similitudine è la costanza della relazione (Ont., $ 472). Lo stesso Kant esprimeva
chiaramente il concetto di O. seriale quando identificava l’O. con la
regolarità, come fece a proposito del concetto formale di natura (Crit. R.
Pura, $ 26). C. I. Lewis, osserva che 1°O. aritmetico, che viene imposto agli
oggetti naturali, consente «ad una infinita molteplicità di essere sottoposta
ad una finita semplicità di regole » (Mind and the World-Order, 1929; ediz.
1956, pag. 363). I matematici e i logici, da Cantor in poi, considerano come O.
una relazione delimitata da certe regole. Per es., se si assume la relazione
precede, bastano le regole seguenti a ottenere un O. semplice: 1° nes- sun
termine precede se stesso; 2° se 4 precede 6 e b precede c, allora a precede c;
3° se a e è sono due termini differenti qualsiasi, o 4 precede 6 o b precede a.
Si può infine avere quello che Cantor chiamò un «insieme ben ordinato »
ammettendo una quarta regola: in ogni classe non vuota di termini c'è un primo
termine cioè un termine che precede tutti gli altri della classe (cfr. A.
CHURCH, Intr. to Mathematical Logic, $ 55). 2° La seconda specie di O. è quella
che consiste nella disposizione reciproca delle parti di un tutto: come notava
Aristotele, questa specie di O. può concernere il luogo, la potenza o la forma
(Mer., V, 19, 1022 b 1). Questo è IO. che gli Stoici defi- nivano, secondo la
testimonianza di Cicerone (Tusc., I, 40, 142) come «la disposizione degli
oggetti nei loro luoghi adatti ed appropriati »; una definizione la quale, come
è ovvio, presuppone che sia predisposto, per ogni oggetto, il luogo adatto
ORESSI ed appropriato in vista del fine che è proprio dell’og- getto; ed è
perciò fondata sul concetto di fine. Se l’O. seriale è, essenzialmente, un O.
causale, l’O. totale è, essenzialmente, un O. finale. È questo 1’O. che
Aristotele aveva paragonato a quello di un esercito o di una casa e di cui
aveva detto: «Tutte le cose sono ordinate insieme intorno ad un'unica cosa:
come in una casa in cui gli uomini liberi hanno regolato tutta o la maggior
parte della loro attività mentre gli schiavi contribuiscono poco al bene
comune» (Mer., 12, 10, 1075a 18). È l’O. che S. Tommaso chiamava «O. dei fini»
o « degli agenti » (S. 7%., I, II, q.109 a. ©, che Kant ha chiamato O. morale o
regno dei fini (v.) e Bergson «O. vitale» (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag.
251). Ovviamente, quando quest’O. viene attribuito al mondo, si considera il
mondo stesso, o almeno il suo O., come il prodotto di un agente libero. 3°
Infine il terzo concetto di O. è quello di grado o livello. Già S. Tommaso
faceva la distin- zione tra l’O. come gerarchia e l’O. come singolo grado della
gerarchia stessa: « Nel primo senso, egli diceva, l’ordine comprende sotto di
sè diversi gradi; nel secondo è un grado solo, sicchè si parla di più ordini di
un’unica gerarchia » (S. 7h., I, q. 108, a. 2). In questo secondo senso l'O. è
sempli- cemente il grado, il piano o il livello, di un O. totale. ORESSI. V.
APPETIZIONE. ORFISMO (lat. Orphismus; ingl. Orphism; franc. Orphisme; ted.
Orphismus). Una setta filoso- fico-religiosa assai diffusa nella Grecia a
partire dal sec. VI a. C. e che si riteneva fondata da Orfeo. La credenza
fondamentale della setta era che la vita terrena fosse una semplice
preparazione per una vita più alta, che poteva essere meritata per mezzo di
cerimonie e di riti purificatori, che costi- tuivano l’armamentario segreto
della setta. Questa credenza passò in diverse scuole filosofiche della Grecia
antica (Pitagorici, Empedocle, Platone); ma l’importanza attribuita da alcuni
filologi e filosofi, nei primi decenni di questo secolo, all’O. nella
determinazione dei caratteri della filosofia greca non viene riconosciuta da
alcuno. Cfr. O. KERN,
Orphicorum Fragmenta, Berlino, 1923; I. M. Lin- FORTH, The Arts of Orpheus,
1941. ORGANICISMO (ingl. Organicism; franc. Or-
ganicisme; ted. Organizismus). Ogni dottrina che interpreti il mondo, la natura
o la società per ana- logia con l'organismo. L’O. è pertanto assai antico e
diffuso giacchè sotto di essi ricadono sia le an- tiche speculazioni fisiche
del mondo come « grande animale» sia le speculazioni politiche dello Stato
concepito per analogia con l’uomo. Ma in realtà il termine (che è recente e
deriva dalla biologia) viene abitualmente riferito soltanto a dottrine re-
centi; in particolare, a quella di Whitehead il quale ORGANISMO ha chiamato il
suo proprio punto di vista con questo termine o con quello di «filosofia
dell’or- ganismo ». La dottrina di Whitehead fa proprio il concetto classico di
organismo, come totalità le cui parti non precedono il tutto, e considera l’in-
tero universo come un organismo in questo senso (Process and Reality, 1929).
Essa è un O. anche perchè attribuisce la sensibilità a tutto il mondo reale
(/bid., pag. 249). Fuori della filosofia, il termine è stato talora adoperato
per designare le teorie sociologiche che interpretano la società umana come un
organismo: ad es., la dottrina di Spencer (Principles of Sociology, 1876).
ORGANICO (ingl. Organic; franc. Organique; ted. Organisch). Che è un organismo
o appartiene all'organismo. Oltre i significati relativi a questo termine,
l’aggettivo è stato ed è talora adoperato per indicare quella subordinazione
delle parti al tutto che si ritiene propria dell’organismo. Così Saint-Simon e
Comte adoperarono l’aggettivo O. per indicare le epoche in cui tutte le
manifestazioni della vita sono subordinate ad un unico principio, come avvenne,
ad es., nel Medioevo nei confronti del principio teologico (v. CRISI).
ORGANISMO (gr. èpravixdv obpa; lat. Corpus Organicum; ingl. Organism; franc.
Organisme; te- desco Organismus). Il corpo vivente in ciò che specificamente lo
distingue da quello non vivente. Il concetto di O. fu per la prima volta
formulato da Aristotele nel modo seguente: «Se la scure deve spaccare il legno,
deve di necessità essere dura; e se dev'essere dura, dev’essere di necessità di
bronzo o di ferro. Ora esattamente allo stesso modo, il corpo, che è uno
strumento come la scure — giacchè sia le sue singole parti sia esso stesso
nella sua totalità hanno ciascuno un loro fine — deve di necessità essere fatto
così e così, se deve compiere la sua funzione » (De Part. An., I, 1, 642a 10).
In questa nozione il tratto fonda- mentale è che l’intera struttura dell’O. è
subordi- nata alla sua funzione cioè al suo fine di sopravvivere come O.; e da
questo tratto deriva l’altro, della subordinazione delle parti al tutto. Perciò
Aristo- tele dice, a proposito della composizione degli ani- mali, che una casa
non esiste in vista dei mattoni e delle pietre, ma mattoni e pietre esistono in
vista della casa (/bid., II, 1, 646a 27); e che «la scienza della natura si
occupa della composizione e della totalità della sostanza e non delle parti che
non possono esistere separatamente dalla so- stanza stessa » (/bid., I, 5, 645
a 33). La subordi- nazione delle parti al tutto che, esso solo, è la so- stanza,
è rimasta la caratteristica fondamentale dell'organismo. Ma questa
caratteristica è ovvia- mente determinata dalla struttura finalistica del-
l'organismo. Proprio perchè questo nella sua to- 41 — ABBAGNANO, Dizionario di
filosofia. 641 talità dev’essere adatto al suo fine e subordinato ad esso, le
parti dell'O. devono essere subordinate alla totalità dell’O. stesso. Il
concetto di fine è rimasto pertanto da Aristotele in poi a fondamento della
nozione di O. e rimase tale anche quando, con Cartesio, l’O. cominciò ad essere
considerato come una macchina. «Coloro che sanno, diceva Cartesio, quanti
automi o macchine moventi l’in- gegnosità umana può costruire senza adoperare
che pochi pezzi relativamente alla grande moltitu- dine di ossa, muscoli, nervi,
arterie, vene, ecc., che sono nel corpo di ciascuno di noi, considerano questo
corpo come una macchina che, essendo uscita dalle mani di Dio, è
incomparabilmente meglio ordinata e ha in sè movimenti più am- mirevoli di
quelle che possono essere inventate dagli uomini » (Disc., V). Un orologio o
una mac- china infatti non è senza scopo; ed equiparando l’O. a una macchina,
Cartesio non intendeva ne- gare la sua finalità ma semplicemente presentare la
tesi che la struttura finalistica dell’O. dipende, non già da una forza esterna
all’O. stesso cioè dall’anima, ma dalla varietà e dalla coordinazione delle
parti, cioè dalla stessa organizzazione. Del resto anche Leibniz, che insistè
fortemente sull’or- dinamento finalistico dell’universo, considerò l’O. come
una macchina. «Ogni corpo organico, egli disse, è una specie di macchina divina
o di automa naturale che sorpassa infinitamente tutti gli automi artificiali »
(Mon., $ 64). Solo da Kant la finalità di un automa o di una macchina fu per la
prima volta distinta da quella dell’organismo. «In un orologio, osserva, Kant,
una parte è lo strumento che serve al movimento delle altre ma non è la causa
efficiente della produzione delle altre: una parte esiste bensì in vista delle
altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell’oro- logio e
della sua forma... sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le
idee di un tutto possibile mediante la sua causalità ». Nell’O. in- vece, «ogni
parte è concepita come esistente solo per mezzo delle altre e per le altre e il
tutto, vale a dire come uno strumento (organo) +: come « uno strumento che
produce le altre parti ed è recipro- camente prodotto da esse +. In altri
termini le parti di un O. sono nello stesso tempo causa ed effetto l’una
rispetto all’altra e tutte rispetto alla totalità dell’organismo. In tal senso
l’O. non possiede la semplice forza motrice, come la macchina, ma ha anche «
una forza formatrice tale che si comunica alle materie che non l’hanno e che
perciò può or- ganizzare; una forza formatrice che si propaga e che non può
essere spiegata con la sola facoltà del movimento » (Crit. del Giud., $ 65).
Queste notazioni kantiane, chiarendo assai bene il finalismo intrinseco
dell’O., rendono in qualche 642 modo inutile il finalismo complessivo della
natura o lo fanno passare in seconda linea. L’organizza- zione finalistica
dell’O. infatti può essere compresa o ammessa indipendentemente dal finalismo
uni- versale della natura. Tuttavia, le speculazioni della filosofia romantica
sull’organismo, pur prendendo lo spunto dai concetti kantiani, tendono appunto
a risolvere la finalità intrinseca dell'O. nella finalità universale; o meglio
ad estendere la prima all’in- tero universo. Dice, ad es., Schelling: « Nel
pro- dotto naturale è ancora congiunto quello che, nell’operare libero, si è
separato in servizio del fenomeno. Ogni pianta è interamente quello che
dev'essere; il libero è in essa necessario e il neces- sario libero... Solo la
natura organica dà la com- pleta immagine della libertà e della necessità
riunite nel mondo esterno » (System des transzendentalen Idealismus, V; trad.
ital., pag. 289). Ancora più arbitrariamente, Hegel considera come primo O. la
terra perchè è « un sistema universale di corpi individuali » (Enc., $ 338); ed
afferma che, nono- stante la vitalità naturale si rompa nella moltepli- cità
degli animali viventi, questi « nell’idea sono una sola vita, un unico sistema
organico di vita » (Ibid., $ 337). Qui l’O. non è considerato nei suoi tratti
specifici ma semplicemente dissolto nel fina- lismo cosmico. E a questo stesso
risultato giunge la dottrina di Bergson che vede nell’O. il risultato di uno
slancio vitale (o corrente di coscienza) che penetra e assoggetta la materia
bruta. Quello che dal punto di vista della scienza è una « macchina », dal
punto di vista della filosofia è l’equilibrio rag- giunto dallo slancio vitale
nel suo sforzo formatore. « Per noi, egli dice, l’insieme di una macchina or-
ganizzata rappresenta bensì l'insieme del lavoro organizzativo (benchè anche questo
non sia vero che approssimativamente) ma le parti della mac- china non
corrispondono alle parti del lavoro giacchè la materialità della macchina non
rappre- senta più un insieme di mezzi adoperati ma un insieme di ostacoli
aggirati: è una negazione più che una realtà positiva» (Év. créatr., 8* ediz.,
1911, pag. 102). La realtà positiva è soltanto lo slancio vitale, cioè la
coscienza. La disputa metafisica tra finalismo e meccanismo o tra materialismo
e vitalismo non influisce sul con- cetto di organismo. Quella che dopo Kant si
è convenuto di chiamare « finalità interna» dell’O. non è stata messa in dubbio
neppure (come si è visto) da coloro che concepivano l’O. come mac- china.
Dall’altro lato la risoluzione della finalità intrinseca dell’O. nel finalismo
cosmico, che è cara a tutte le forme del vitalismo e in generale a tutte le
interpretazioni metafisiche dell’O., non aiuta per nulla a chiarire il concetto
di O. perchè non fa che dare, con l'appello a una tesi generica, una solu-
ORGANISMO zione apparente al problema di intendere le forme specifiche di
azione della finalità organica. I biologi contemporanei tendono pertanto a
mettersi fuori dell’antitesi fra meccanismo e finalismo. Goldstein ritiene
inutile l’appello all’enselechia come quello al finalismo cosmico; ma ritiene
indispensabile in- sistere sull’azione dell'O. come totalità. Questo con- duce
ad ammettere il finalismo interno dell'O. stesso: « L’ipotesi di un compito
determinato, egli dice, è superflua per la comprensione dell’O., ma l’ipotesi
di uno scopo determinato (la realizzazione dell’essenza dell'O.) è assai
feconda per la nostra comprensione dell’O. » (Der Aufbau des Organismus, 1934,
pag. 264). Più recentemente Simpson ha detto: « Noi sappiamo che il fuoco non è
un elemento O principio separato ma è un processo e un’orga- nizzazione della
materia in cui la condotta della materia è diversa da quella che è nel
non-fuoco. Allo stesso modo, la veduta materialistica non è abbandonata quando
la vita viene considerata come un processo e un’organizzazione in cui la
condotta della materia è diversa da quella che si riscontra negli stati non
viventi » (The Meaning of Evolution, 1952, pag. 125). Dall'altro lato la
capacità del- l’O. di sfruttare le possibilità o opportunità che la sua
struttura o le sue proprie variazioni o l’am-biente stesso gli offrono, quello
che Simpson chiama l’opportunismo della vita, non è altro che la stessa «
finalità intrinseca » di cui parlano gli altri biologi. Questa era stata anche
riconosciuta da uno dei fondatori del Circolo di Vienna, Moritz Schlick. «Un
gruppo di processi o di organi, egli aveva detto, è chiamato finalistico
rispetto a un effetto definito, se quest’effetto è l’effetto normale nella
cooperazione dei processi o degli organi. L’accento qui va sulla cooperazione;
in un caso specifico, questi processi, dipendenti dalle circostanze, pos- sono
accadere in vari modi ma sono dipendenti l’uno dall’altro e legati insieme in
modo che pro- ducono sempre approssimativamente la stessa sorta di effetti » («
Naturphilosophie », in Die Philosophie in ihren Einzelgebieten, Berlin, 1925;
trad. ingl., in Readings in the Philosophy of Science, 1953, pag. 529). Questo
concetto di finalismo non ha certamente nulla a che fare con la tesi del
finalismo universale: si tratta di un finalismo limitato, spe- cifico, che
procede per tentativi e riesce solo in certi casi: non dell’infallibile piano
universale in cui tutti gli esseri trovano una loro salvaguardia. Esso è stato
talvolta chiamato releonomia (v.). Da questo punto di vista l’O. può essere
considerato una macchina, dotata tuttavia di unità funzionale, coerente ed
integrale e, per di più, che si costruisce da sè, sul fondamento di un piano o
progetto che si mantiene relativamente invariante da una gene- razione
all’altra (cfr., ad es., J MonoD, Le hasard ORIZZONTE et la nécessité, 1970,
cap. III). V. CIBERNETICA; SISTEMA; STRUTTURA. ORGANO (gr. 8pyavov; lat.
Organum; inglese Organ; franc. Organe; ted. Organ). Nel senso spe- cifico della
biologia, dalla quale il termine è pas- sato alla filosofia, l’O. fu definito
da Aristotele in base alla funzione da esso compiuta e per ana- logia con lo
strumento inorganico: « Ogni stru- mento, egli disse, ed ogni parte del corpo
ha un suo fine cioè una sua azione specifica... Come la sega è fatta per segare
ma non il segare per la sega, sicchè il segare è la sua funzione specifica così
il corpo è fatto per l’anima e le parti del corpo hanno per natura ciascuna la
propria funzione» (De Part. An., 1, 5, 645b 12). Questo concetto è rimasto costante,
nella biologia, nella filosofia e in tutti gli altri campi in cui viene
adoperato. ORGANON (gr. 3pyavov; lat. Organum). Con questo titolo fu indicato,
dai commentatori greci, l'insieme delle opere logiche di Aristotele cioè: il
libro delle Categorie; il libro dell’Interpretazione; i due libri degli
Analitici primi; i due libri degli Analitici posteriori; gli otto libri dei
Topici e il libro degli Elenchi sofistici. Due altre volte il nome di O.
compare come titolo di libro: cioè col Novum Organum (1620) di Francesco Bacone
che esplici- tamente contrappose la sua logica alla logica ari- stotelica; e
col Neues O. (1764) di J. H. Lambert, il filosofo illuminista tedesco con il
quale Kant intrattenne un’importante corrispondenza. L’uso di tale titolo tuttavia
non ha un rapporto preciso con il compito attribuito alla /ogica (v).
ORIENTAMENTO (ingl. Orientation; fran- cese Orientation; ted. Orientierung).
Questo termine fu introdotto in filosofia da Kant che intese per esso il
problema del modo in cui la ragione deve condursi fuori dei limiti, assai
ristretti, del sapere empirico cioè della conoscenza effettiva: « Orien- tarsi
nel pensiero in generale, disse Kant, signi- fica: data l’insufficienza dei
princìpi oggettivi della ragione, determinarsi nel dominio del verosimile,
secondo un principio soggettivo della ragione stessa » (Was Heisst: sich im
Denken Orientieren?, 1786, A, 310). Kant escludeva che l’uomo potesse orien-
tarsi in base alla fede o ad un supposto sapere intuitivo. Il termine è stato
ripreso da Jaspers che ha intitolato «O. filosofico nel mondo » il primo volume
della sua Philosophie (1932). LO. nel mondo, si ha secondo Jaspers quando
l’uomo considera se stesso come un elemento o cosa del mondo, fra innumerevoli
elementi o cose, e cerca di trovare così la sua via. L’O. però mette capo
soltanto alla rottura del mondo in una molteplicità di prospet- tive cosmiche
(Phil., I, pag. 69 sgg.). Fuori di questi significati specifici, il termine
viene ampia- mente adoperato, con significato assai poco pre- 643 ciso, nel
linguaggio comune e filosofico contem- raneo. ORIGINE (lat. Origo; ingl.
Origin; franc. Ori- gine; ted. Ursprung). Il termine ha due significati che
vengono spesso confusi: 1° cominciamento o atto o fase iniziale; 2° fondamento
o principio. Il «ritorno alle O.» che fu il tratto caratteristico del
Rinascimento (v.) è una nozione fondata sullo scambio dei due significati. E
sullo stesso scambio si fondò l’importanza dei cosiddetti problemi di origine,
quali furono dibattuti nel sec. xvm e nel sec. x1x: l’O. delle idee, della
vita, del linguaggio, delle specie viventi, ecc.; giacchè nei problemi così
posti l’O. non significava solo la nascita nel tempo ma altresì il principio o
il fondamento dell'oggetto di cui si cercava l’origine. Lo stesso significato
equivoco aveva la parola nel vecchio problema dell’O. del male: Se Dio c’è,
donde viene il male? E se non c’è, donde viene il bene? (cfr. S. Aco- stino,
Conf., VII, 5). «Giudizio di O.» chiamò H. Cohen il giudizio nel quale qualcosa
è dato, non come materiale grezzo, ma come ciò che il pensiero stesso può
trovare: come il segno x della matematica che significa, non
l’indeterminatezza, ma la determinabilità (Logik, 1902, pag. 83). ORIZZONTE (gr. repityov; lat.
Horizon; in- glese Horizon; franc. Horizon; ted. Horizont). Il li- mite che circoscrive le possibilità di una
ricerca, di un pensiero o di un’attività qualsiasi: un limite che si può
spostare ma si ripresenta dopo ogni sposta- mento. Il termine fu introdotto in
filosofia da Anassi- mandro (sec. vi a. C.) che considerò il Principio
(l’infinito o apeiron) come ciò che « abbraccia tutte le cose e le dirige »
(ARIST., Fis., III, 4, 203 b 11). Nel senso moderno il concetto fu chiarito da
Kant che intese per orizzonte il limite o la mi- sura dell’estensione della
conoscenza e distinse un orizzonte /ogico che concerne i poteri conoscitivi in
rapporto all’interesse dell’intelletto; un orizzonte estetico che concerne il
gusto in rapporto all’in- teresse del sentimento e un orizzonte pratico che
concerne l’utile in rapporto all’interesse della vo- lontà. In generale «
l’orizzonte concerne il giudizio e la determinazione di ciò che l’uomo può
sapere, riesce a sapere © deve sapere»; e può essere ogger- tivo, nel qual caso
è storico oppure razionale; o soggettivo nel qual caso è universale o assoluto
oppure particolare o privato (Logik, Einleitung, $ VI, A). La nozione è stata
ripresa nella filosofia contem- poranea e in primo luogo da Husserl, che ha
inteso per O. il limite temporale (inteso come presente o ora) in cui cade ogni
esperienza vissuta (/deen, I, $ 82); poi da Jaspers attraverso il quale è
passata nel corrente uso filosofico. Dice Jaspers: « Noi sempre viviamo e
pensiamo in un O. circoscritto. 644 Per il fatto stesso che si tratta di un O.,
abbiamo il presentimento di un O. più vasto che comprenda a sua volta l’O.
raggiunto: sorge così il problema di un O. che abbracci ogni altro O. (O.
conglobante, das Umgreifende). L’O. conglobante è un O. nel quale si offre a
noi ogni tipo determinato di realtà e di verità ma è anche ciò in cui ogni
singolo O. è compreso come in quell’O. che tutto congloba e che non è neppure
più pensabile come O. » (Vernunft und Existenz, 1935, pag. 29). Mentre il
concetto di O. conglobante, che è quello di O. di tutti gli orizzonti
possibili, rimane proprio della filosofia di Jaspers, quello di O. può essere
utilmente adoperato da qualsiasi indirizzo filosofico per indicare i limiti di
validità di una ricerca determinata, o il tipo di validità cui aspirano gli
strumenti di cui si serve (cfr. C. D. Burns, The Horizon of Experience, 1934;
ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, pa- gina 95 segg.). ORMICA, TEORIA
(ingl. Hormic Theory). Così è comunemente chiamata nella letteratura an-
glosassone la teoria secondo la quale le emozioni dipendono da certi istinti
fondamentali (spuì = = istinto), che sarebbero alla base di tutta l’attività
psichica. La teoria è stata sostenuta da G. F. Stout, J. Dewey, S. Alexander,
T. P. Nunn (che per primo ha adoperato l’espressione) e principalmente da W.
McDougall. Su di essa vedi J. C. FLUGEL, Studies in Feeling and Desire, London,
1955 (v. EMOZIONE). ORTOGENESI (ingl. Ortlogenesis). La dot- trina che
l’evoluzione della vita segua una linea retta o tenda a seguirla. Le
interpretazioni date dai biologi a questo concetto sono disparate;
sostanzialmente l’O. è la tesi difesa da coloro che ammettono il finalismo
della vita. Talora, ma più raramente, il punto di vista opposto all’O. si
chiama poligenesi: il riconoscimento di linee di evoluzione diverse e disparate
nei fenomeni della vita (con- fronta G. G. Simpson, The Meaning of Evolution,
1952, pag. 132). OSSERVAZIONE (ingl. Observation; francese Observation; ted.
Beobachtung). L'accertamento o la constatazione di un fatto, sia che si tratti
di un accertamento spontaneo od occasionale sia che si. tratti di un
accertamento metodico o progettato. L’O. è stata talora ristretta al primo
significato, nel qual caso ad essa si contrappone l’esperienza o l'esperimento
come accertamento deliberato o metodico (cfr. C. BERNARD, /ntroduction è
l’étude de la médecine expérimentale, 1865, I, cap. 1). E talora è stata
ristretta al secondo significato, nel qual caso ad essa si contrappone
l’esperienza in- genua o primitiva o comune o occasionale (in tal senso il
termine è adoperato solitamente nel lin- guaggio scientifico contemporaneo).
Stando ciò, si possono comprendere sotto il termine entrambi ORMICA, TEORIA i
significati e distinguere: 1° lO. naturale, che è quella nella quale le
condizioni dell’O. non sono progettate o progettabili; e 2° l’O. sperimentale
(o esperimento) che è l’O. progettata, caratterizzata dal controllo delle
variabili. In questo secondo tipo di O., si può agire sulla variabile
indipendente e si può studiare il corrispondente comportamento della variabile
dipendente cioè della funzione collegata. Ogni O., sia naturale che
sperimentale, presenta la divisione tra sistema osservante e sistema osservato.
La validità di questa divisione è stata messa a prova (e riconfermata) dalla
fisica dei quanta, a proposito delle relazioni di indetermi- nazione (v.) cioè
dell’azione che il sistema osser- vante esercita su quello osservato. Bohr e
Heisen- berg hanno mostrato che, mentre il limite tra sistema osservante e
sistema osservato non è rigido, nel senso che sono possibili descrizioni diverse
di uno stesso fenomeno nelle quali quel limite è diver- samente situato (cfr.
BoHR, « Wirkumsquantum und Naturbeschreibung », in Nasurwissenschaften, 1929
[26], pag. 484-85), esso non può venir meno senza che venga meno il carattere
fisico del sistema. Si può infatti evitare di calcolare l’azione disturba-
trice del sistema osservante includendo, nel calcolo, lo stesso sistema
osservante. Ma poichè anche così l’indeterminazione rimane a proposito dell'O.
di quest’ultimo, bisognerebbe includere nel sistema osservato anche i nostri
occhi. In questo caso, nota Heisenberg, «si potrebbe trattare quantitati-
vamente la catena di cause ed effetti solo quando si considerasse come parte
del sistema osservato l’intero universo; ma allora la fisica sparirebbe e
rimarrebbe soltanto uno schema matematico. La suddivisione del mondo in sistema
osservante e sistema osservato impedisce così la netta formula- zione della
legge causale» (Die physikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $
1). Come nota lo stesso Heisenberg, per « sistema osservante + non si deve
intendere necessariamente l’osservatore umano giacchè per esso si può intendere
anche una lastra fotografica o un apparato qualsiasi. Perciò la divisione, tra
sistema osservante e sistema osser- vato, che la fisica ritiene indispensabile
per dare significato fisico (cioè non puramente matematico) ai suoi enunciati,
non equivale alla distinzione filosofica tradizionale tra oggetto e soggetto:
alla quale d'altronde contrasta anche l’asserita mobilità del limite di
demarcazione fra i due sistemi. OSTACOLO (ingl. Obstacle, Hindrance; francese
Obstacle; ted. Hinderniss). Il limite di una attività. Così definì l’O. Fichte:
« Che significa un’attività determinata e come diviene essa tale? semplice-
mente per il fatto che ad essa viene contrapposto un O.» (Sittenlehre, 1798, Intr., $ VI;
Werke, IV, pag. 7). Cfr. R. Le SENNE, Obstacle et Valeur, 1934. OTTIMISMO OSTENSIVO (gr. Sewmtwés; lat. Ostensivus;
ingl. Ostensive; franc. Ostensif; ted. Ostensiv). Si qualificano così le prove
dirette cioè che provano positivamente la verità di una tesi, per distinguerle
dalle prove indirette che tendono a provare una tesi negativamente, con la
dimostrazione della fal- sità del suo contrario. Le prove indirette sono dette
apagogiche (v. ABDUZIONE; RIDUZIONE). La distinzione è in Aristotele (An. Pr.,
I, 23, 40b 27) ed è riprodotta da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 8, 2). Secondo Kant,
l’uso delle prove apagogiche do- vrebbe essere proscritto in filosofia, mentre
è le- gittimo nelle scienze sperimentali (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del
metodo, cap. 1, sez. 4). OTTIMISMO (ingl. Optimism; franc. Opti- misme; ted.
Optimismus). Questo termine si cominciò a diffondere nella cultura europea
durante le discus- sioni filosofiche sull’ordine e sulla bontà del mondo cui
dette luogo il terremoto di Lisbona del 1755. In un Poema sul disastro di
Lisbona (1755) Voltaire aveva combattuto la massima « tutto è bene » consi-
derandola come un insulto ai dolori della vita; e al- cuni anni dopo nel romanzo
Candido o l°O. (1759), aveva fatto una satira feroce di questa massima e del-
l’intero atteggiamento su di essa imperniato. L’O. trovava però altri
difensori, tra i quali Kant che, nello stesso anno 1759 pubblicava un breve
scritto intitolato « Saggi di talune considerazioni sull’O. » (Versuch einiger
Betrachtungen iîber den Optimismus) (in seguito da lui ripudiato) nel quale
difendeva la bontà del mondo in base alla tesi leibniziana che «quando Dio fa
una scelta, sceglie sempre la cosa migliore ». Come Voltaire diceva, l’O. non è
altra cosa che la teoria del finalismo universale. Così nel suo romanzo fa
parlare il Dottor Pangloss maestro di « metafisico-teologo-cosmolonigologia »:
« È dimostrato che le cose non possono essere altri- 645 menti: giacchè essendo
tutto fatto per un fine, tutto è necessariamente volto al fine migliore. Notate
bene che il naso è stato fatto per portare le lenti; e così noi abbiamo le
lenti, ecc. ». Leibniz aveva detto che « Dio ha scelto il mondo che è più
perfetto cioè quello che è nello stesso tempo il più semplice in ipotesi e il
più ricco in fenomeni » (Disc. de mét., $ 6); e che «se nel mondo non ci fosse
il minimo male, non si tratterebbe più del mondo: il quale tutto considerato e
sommato è stato trovato il migliore dal creatore che l’ha scelto » (7héod., I,
9). Questo può essere espresso con la frase con cui Candide costantemente
conclude le sue sfortunate peripezie: « Noi vi- viamo nel migliore dei mondi
possibili: frase che è rimasta come l’espressione popolare dell’ot- timismo.
L’O. è sempre proprio di tutte le dottrine che ammettono il finalismo
universale e specialmente: 1° delle dottrine spiritualistiche a sfondo
teologico, come sono la metafisica aristotelica e quella scola- stica, il
leibnizianesimo e le forme moderne e contemporanee del coscienzialismo
spiritualistico; 2° delle dottrine idealistiche (nel senso romantico del
termine) che condividono il principio della coincidenza tra realtà e
razionalità (principio che significa ciò che Voltaire esprimeva dicendo che «le
cose non possono essere altrimenti +), delle quali è tipica la dottrina di
Hegel. L’opposto dell’O., non è il pessimismo che, nella formulazione data ad
esso da Schopenhauer, pur predicando che «la vita è dolore + ritiene il mondo
nella sua totalità finalisticamente organizzato in vista dell’ordine migliore
(Die Welt, I, $ 28); ma la negazione del finalismo con il riconoscimento del
carattere imperfetto, accidentale e problematico degli ordini riscontrabili
nell’universo. p P, p. Nella logica contemporanea con P viene indicato un
determinato calcolo delle proposizioni e con p (e le lettere che seguono in
ordine alfabetico q, ”, ecc.) una singola proposizione. PACE (ingl. Peace;
franc. Paix; ted. Friede). La più famosa definizione della P. è quella data da
Cicerone nelle Filippiche: « Pax est tranquilla libertas » (Phil, 2, 44, 113):
una definizione che è stata molte volte ripetuta. Più in generale la P. è stata
definita da Hobbes come la cessazione dello stato di guerra cioè come la
cessazione del con- flitto universale fra gli uomini. Pertanto « Cercare di
conseguire la P.+ è, secondo Hobbes, la prima legge di natura (Leviath., I,
14). Come Hobbes, Kant riteneva che lo stato di P. fra uomini non è affatto uno
stato di natura e che pertanto esso dev'essere istituito perchè «la mancanza di
osti- lità non significa ancora sicurezza e se questa non è garantita da un
vicino ad un altro (il che può solo aver luogo in uno stato legale) questo può
trattare come nemico quello a cui tale garanzia abbia richiesto invano» (Zum
ewigen Frieden, 1796, $ 2). Un concetto metafisico è invece la P. per
Whitehead, che la intende come « l’armonia delle armonie che placa la
turbolenza distruttiva e completa la civiltà» (Adventures of Ideas, XX, 8 2).
PAIDEIA. V. CULTURA. PALINGENESI (gr. raQiryevecla; ingl. Pa- lingenesis;
franc. Palingénésie; ted. Palingenesie). Secondo gli Stoici, la rinascita del
mondo dopo la fine di un ciclo di vita (NEMES., De nat. hom., 38; cfr.
MARC’AURELIO, Ricordî, XI, 1: «la periodica rinascita del mondo»). La parola è
stata usata spesso in questo senso o in senso analogo (per es., da C. BONNET,
Palingénésie philosophique, 1769, e da GiosERTI, Protologia, 1857) e talora
anche in sensi ristretti o particolari: per designare la rinascita dell'anima
o, in senso retorico, per indicare un qualsiasi rinnovamento radicale (v.
APOCATASTASI). PAMPNEUMATISMO (ted. Panpneuma- tismus). Termine adoperato da
Eduard von Hart- mann, nello stesso senso di pampsichismo (cfr. Phi-
losophischen Fragmente, pag. 68). PAMPSICHISMO (ingl. Panpsychism; fran- cese
Panpsychisme; ted. Panpsychismus). Il termine, che viene spesso confuso con
ilozoismo (v.), designa in realtà una teoria simmetrica e opposta all’ilo-
zoismo. Questo consiste nell’attribuire alla materia (o alle sue parti) poteri
o attività psichiche ed è perciò materialismo; il P. consiste nel ridurre la
materia stessa ad anima, cioè a proprietà o attri- buti psichici ed è
spiritualismo. Con ciò la materia non viene negata (come fa l’immaterialismo
[v.]); ma i suoi attributi fondamentali, per es., l’esten- sione, il movimento,
ecc., vengono ridotti all’azione di forze o attributi spirituali. In questo
senso la nascita del P. si può ricono- scere nei Platonici inglesi del ’600
(Scuola di Cam- bridge). Cudworth partendo dal principio che « nessun effetto
può sorpassare la forza della pro- pria causa» negava che la vita e l’essere, e
tanto meno la ragione e l’intelletto, potessero derivare da una materia senza
vita. E concludeva che «lo spirito è l’essere primogenito, il signore naturale
di tutto ciò che è» (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 4). Ma
poichè le cose non possono essere prodotte dal meccanismo della ma- teria, e
poichè Dio non produce immediatamente e miracolosamente tutte le cose, bisogna
ammettere una natura plastica che sia uno strumento inferiore e subordinato di
quella parte della provvidenza che consiste nel movimento regolare e ordinato
della materia (/bid., I, 1, 3). A sua volta More elaborava il concetto della
monade fisica cioè di una particella così piccola da non poter essere PARADOSSO
ulteriormente divisa. La monade fisica non ha grandezza fisica propriamente
detta, ma è tuttavia estesa e l’estensione è una qualità spirituale, in-
corporea, un attributo di Dio (Enchiridion Meta- physicum, I, 9, 3; I, 8, 15).
In questo modo Cud- worth e More riducevano la materia e il meccanismo, nei
loro attributi fondamentali — estensione e movimento — a una manifestazione di
elementi o forze spirituali. Proprio a questi autori si è probabilmente ispi- rato
Leibniz, che ha dato al P. la sua forma clas- sica. Secondo Leibniz, la materia
stessa è costituita da monadi nel senso di essere un aggregato di sostanze
spirituali, come un gregge di pecore o come un mucchio di vermi. Gli elementi
della materia perciò non hanno niente di corporeo: sono atomi di sostanza o
punti metafisici, come si po- trebbero chiamare le monadi (Op., ed. Gerhardt,
IV, pag. 483). Il P. di Leibniz fu riprodotto da Lotze nel Microcosmo (I; trad.
ital., pag. 50) che identificò gli atomi di cui parla la teoria mecca- nistica
della scienza con centri di forza spirituale, cioè con monadi nel senso
leibniziano. Il P. è la caratteristica metafisica dello spiritualismo con-
temporaneo (v. SPIRITUALISMO): di quello francese (Ravaisson, Lachelier,
Hamelin) come di quello inglese (Ward) e italiano (Martinetti, Varisco).
PANANIMISMO. Lo stesso che animismo (v.). PANCALISMO (ingl. Pancalism; franc.
Pan- calisme). Termine adoperato da J. M. Baldwin per indicare la sua propria
dottrina secondo la quale la bellezza, come oggetto della attività estetica,
realizza la conciliazione tra l’attività conoscitiva e l’attività pratica,
unificando il mondo dell’espe- rienza (cfr. Genetic Theory of Reality, being
the Outcome of Genetic Logic, as Issuing in the Aesthetic Theory of Reality
called Pancalism, 1915). PANCOSMISMO (ingl. Pancosmism; francese
Pancosmisme).Lo stesso che materialismo. Il termine fu usato da Grote per
designare la dottrina dei presocratici ilozoisti (Plaro and the Other Compa-
nions of Socrates, 1, 1, 18). Il termine non ha avuto fortuna. PANENTEISMO
(ingl. Panentheism; francese Panenthéisme; ted. Panentheismus). Termine creato
da Christian Krause (1781-1832) per designare una sintesi tra teismo e
panteismo che consisterebbe nell’ammettere che tutto ciò che è, è in Dio ed
esiste come rivelazione o realizzazione di Dio (Vorlesungen iiber das System
der Philosophie, 1828, pag. 254 sgg.). In realtà questo punto di vista è
proprio quello del panteismo classico e pertanto non si vede l’utilità del termine,
che difatti non ha avuto fortuna (v. Dio). PANLOGISMO (ingl. Panlogism; franc.
Pan- logisme; ted. Panlogismus). Termine che fu adope- 647 rato da J. E.
Erdmann per designare la dottrina di Hegel (Geschichte der neueren Philosophie,
1853, III, 2, pag. 853) e che viene tuttora adoperato (seppure non troppo
frequentemente) per designare la stessa dottrina o dottrine analoghe, che am-
mettano, cioè, l’identità del razionale e del reale. PANSATANISMO (ted.
Pansatanismus). Ter- mine adoperato polemicamente da O. Liebmann per designare
la dottrina di Schopenhauer, in contrapposto caricaturale con panteismo (Zur
Ana- Iysis der Wirklichkeiît, 2> ediz., 1880, pag. 230). PANSOFIA (lat.
Pansophia). Termine adope- rato da G. A. Comenius per designare il principio
«insegnare tutto a tutti» (Pansophiae Prodromus, 1639; Schola Pansophiae,
1670). Kant chiama P. l’insieme della polistoria che è il sapere storico e
della polimatia che è il sapere razionale (Logik, Intr., $ vi). PANSPERMIA
(ted. Panspermie). La dot- trina sostenuta da S. Arrhenius che la vita sulla
terra proviene da semi organici diffusi in tutto l’universo (Werden der Welten,
1907). PANTEISMO (ingl. Pantheism; franc. Pan- théisme; ted. Pantheismus). Il
termine panteista fu usato per la prima volta da J. Toland (Socianinism Truly
Stated, 1705) e quello di P. dal suo avver- sario Fay (1709). È la dottrina che
considera Dio come la matura del mondo, cioè che identifica la causalità divina
con la causalità naturale. Una forma di P. umanistico è la cosiddetta «
teologia senza Dio ». V. Dio; Dio, MORTE DI. PANTELISMO (ted. Panthelismus). Lo
stesso che volontarismo (v.). Il termine fu usato da E. von Hartmann
(Philosophischen Fragmente, pa- gina 68). PARABOLA (gr. rapaBorn; lat.
Parabola; in- glese Parable; franc. Parabole; ted. Parabel). Argo- mento che
consiste nell’addurre un paragone o un parallelo: come quando Socrate afferma
che non si devono scegliere a sorte i governanti come non si scelgono a sorte
gli atleti per una gara. Così illustra Aristotele la nozione (Rer., II, 19,
1393 b 4). Un senso analogo la parola ha negli Evangeli (cfr. Marc., XII, 1).
PARADIGMA (gr. rapdderyua; ingl. Paradigm; franc. Paradigme; ted. Paradigma).
Modello o esempio. Platone adoperò la parola nel primo senso (cfr. Tim., 29b,
48 e; ecc.) in quanto con- sidera come P. il mondo degli esseri eterni, di cui
è immagine il mondo sensibile. Aristotele nella logica usa il termine nel
secondo significato (An. Pr., II, 24, 68 b 38); sul quale v. ESEMPIO. PARADOSSO
(gr. rapàdotoc Xoyvos; ingl. Pa- radox; franc. Paradoxe; ted. Paradox). Ciò che
è contrario alla «opinione dei più», cioè al si- stema di credenze comuni cui
si fa riferimento; 648 oppure contrario a principi che si ritengono ben
stabiliti o a proposizioni scientifiche. La riduzione di un discorso a
un'opinione paradossale è con- siderata da Aristotele negli Elenchi sofistici
(cap. 12) come il secondo dei fini che si propone la Sofistica (la prima
essendo la confutazione, cioè il provar falsa l’asserzione dell’avversario).
Bernardo Bol- zano intitolò Paradossi dell’infinito (1851) il libro in cui
presentò per primo il concetto dell’infinito non più come limite di una serie
ma come un tipo speciale di grandezza, dotato di proprie caratte- ristiche:
concetto che doveva venire definitivamente stabilito nella matematica ad opera
di Cantor e Dedekind (v. INFINITO). E, sul suo esempio, sono stati chiamati
talvolta P. le contraddizioni che na- scono dall’uso del procedimento
riflessivo, e che più comunemente si chiamano antinomie (v.). Nel senso
religioso, si è chiamato P. l’afferma- zione dei diritti della fede e della
verità del suo contenuto in contrasto con le esigenze della ragione. P. è, per
es., la trascendenza assoluta e l’ineffabi- lità di Dio affermata dalla
teologia negariva (v.); P. è il «credo quia absurdum» (v.) di Tertulliano; P. è
l’intera fede secondo Kierkegaard, perchè tutte le categorie del pensiero
religioso sono im- pensabili e la fede crede nonostante tutto e assume tutti i
rischi (cfr. Die Krankheit zum Tode, 1849). Kierkegaard vide nel P. il rapporto
stesso tra l’uomo e Dio: « Il P. non è una concessione ma una care- goria: una
determinazione ontologica che esprime il rapporto tra uno spirito esistente e
conoscente, e la verità eterna » (Diario, VIII, A 11). PARALLELISMO PSICOFISICO (ingl.
Psy- chophysical Parallelism; franc. Parallélisme Psycho- physique; ted. Psycho-physischer Parallelismus). La espressione fu
coniata da Teodoro Fechner (Zend- avesta, II, pag. 141), per designare la
dottrina che gli eventi psichici e quelli fisici costituiscono due serie
parallele di eventi, che non agiscono gli uni sugli altri ma sono causalmente
determinati soltanto dagli eventi omogenei: gli eventi mentali dagli eventi
mentali e gli eventi fisici dagli eventi fisici. Questa dottrina era suggerita
dall’esigenza (o dal desiderio) di non sottoporre gli eventi mentali alla
causalità degli eventi fisici e dall’impossibilità di considerare quest’ultimi
dipendenti dai primi. Essa è servita per parecchi decenni come ipotesi di la-
voro della psicologia sperimentale nel suo primo organizzarsi a scienza
autonoma o relativamente autonoma (v. PsicoLogia). Fu pertanto ammessa e
seguita da coloro che contribuirono ai primi passi di questa scienza e in
particolare da Wundt. Questi intese come « principio del P. psicofisico » il
prin- cipio che « tutti i contenuti empirici che apparten- gono
contemporaneamente alla sfera di considera- zione mediata o scientifica e a
quella immediata o PARALLELISMO PSICOFISICO psicologica stanno in relazione
reciproca, in quanto ogni evento elementare del campo psichico esprime un
corrispondente evento nel campo fisico » (System der Philosophie, 2% ediz.,
1897, pag. 602). Questa dottrina veniva da un lato contrapposta al mo- nismo
(v.) che tende a ridurre gli eventi mentali agli eventi fisici o almeno a
sottoporre gli eventi mentali alla causalità degli eventi fisici; e dall’altro,
allo spiritualismo (v.) che consiste nel tentativo simmetrico e opposto. Essa
perciò è stata bene accettata come ipotesi di lavoro di una ricerca che non
voleva ancorare la sua validità ad una deter- minata metafisica. Nel periodo in
cui la dottrina del P. ha costituito il presupposto della psicologia
sperimentale ed è stato il tema di numerosissime discussioni tra psico- logi e
tra filosofi, si è cercato di connetterla con qualche illustre precedente
storico; e il più ovvio di tali precedenti era senza dubbio la metafisica di
Spinoza. Spinoza difatti aveva detto che « un modo dell’estensione e l’idea di
questo modo sono una sola e medesima cosa espressa in due ma- niere » (Er., II,
VII, Schol.); ed aveva negato l’in- terferenza della causalità dell’estensione
e della causalità del pensiero, affermando che la causa di un pensiero è sempre
un pensiero che la causa di un corpo è sempre un corpo (/bid., III, 2), mentre
l’ordine e la concatenazione delle cose sono sempre le stesse (/bid., III, 2,
Schol.). Queste affermazioni potevano essere interpretate come espressione
della dottrina del P.: per quanto l’intento di Spinoza non fosse quello di
garantire l’indipendenza cau- sale reciproca dei fatti fisici e dei fatti
mentali, quanto quello di garantire la loro comune subor- dinazione alla
diretta causalità di Dio. La dottrina di Spinoza non è veramente un P. ma un
monismo panteistico. D'altronde, la dottrina del P. deve i suoi successi, non
alla sua validità metafisica ma, all’opposto, alla limitazione dell'impegno
metafisico che essa implicava, potendo essere accettata come ipotesi di lavoro
indipendentemente dalla credenza monistica o da quella spiritualistica e non
esclu- dendo nè l’una nè l’altra. Quando la psicologia ha abbandonato la
dottrina in esame, questa è caduta da sè e ha cessato di essere un tema vivo di
discussione (v. PSICOLOGIA). PARALOGISMO (gr. rapadoyionée; inglese Paralogism;
franc. Paralogisme; ted. Paralogismus). Da Aristotele (Soph. E/., passim) in
poi questo ter- mine viene usato per indicare un sillogismo o co- munque un
argomento falso in forma (v. anche FaLLacia). In Kant « P. della Ragion pura »
designa la falsa argomentazione della psicologia razionale, la quale si illude
di poter dedurre dal semplice « io penso » determinazioni materiali ma @ priori
del concetto (idea) di «anima». G. P. PARTE PARAPSICOLOGIA. V. METAPSICHICA.
PARENETICA (gr. rapawverixà réxym; latino Praeceptiva; ingl. Parenetic; franc.
Parénétique). Secondo gli Stoici, quella parte della morale che consiste nel
fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle varie circostanze: lo
stesso che precettistica (cfr. SenECA, Ep., 95). Parenetico: esortatorio. PARENTESI
(ingl. Parentheses; franc. Paren- thèses; ted. Parenthese). In logica e in
matematica, le P. sono un segno di associazione. Cosl nell’espres- sione [n —
(x — y)] le P. interne servono esclusiva- mente a mostrare l’associazione delle
parti x — y dell’espressione. Nella terminologia della fenome- nologia
contemporanea « mettere in P.» significa effettuare la sospensione o epoché
fenomenologica (v. EPOCHE). PARIMPARI (gr. dprionépirtov; ingl. Even-0dd; franc. Pair-impair; ted.
Gerade-ungerad). Così i Pitagorici antichi definirono
l’unità, come principio del numero e delle cose, in quanto essa sarebbe
limitata come l'impari e illimitata come il pari (ARIST., Mer., I, 5, 986 a
15). PAROLA (lat.
Verbum; ingl. Word; franc. Pa- role; ted. Wort). 1. Secondo la distinzione fatta prevalere da Saussure
tra P., lingua (v.) e linguag- gio (v.), la P. sarebbe la manifestazione
linguistica dell’individuo. A differenza della lingua, che è una funzione
sociale, registrata passivamente dall’indi- viduo, la P. è «l’atto individuale
di volontà e di intelligenza nel quale conviene distinguere: 1° le combinazioni
nelle quali il soggetto parlante utilizza il codice della lingua per esprimere
il suo pensiero personale; 2° il meccanismo psicologico che gli permette di
esteriorizzare queste combinazioni » (Cours de Linguistique Générale, 1916,
pag. 31). 2. Il termine P. ha un’ambiguità, che i logici hanno messo in chiaro.
La P. può essere infatti da un lato un singolo evento, che è nuovo ogni volta
che si ripete; e in tale senso diciamo, per es., che un libro è composto di
cinquantamila parole. Dall'altro il termine può significare la P.-significato,
che è la stessa per quante volte si ripeta e in tal senso possiamo dire, dello
stesso libro, che esso è composto di cinquemila parole. Nel primo senso, ad
es., la P. è, se si ripete dieci volte in una pagina, è dieci parole; nel
secondo senso, è una sola parola. Peirce propose di chiamare la parola nel
primo significato token (segno o gettone) e nel secondo significato type (tipo)
(Coll. Pap., 4.537) (v. Tipo). Altri parlano allo stesso proposito e
corrispondente- mente di segno e simbolo (cfr., M. BLACK, Language and
Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181 sgg.). PARONIMO (gr. napfwpoc; lat.
Denomina- tivus). Così Aristotele chiamò gli oggetti che trag- gono la loro
designazione da un certo nome, modifi- 649 candone il caso: come grammatico che
deriva da grammatica e coraggioso da coraggio (Car., 1, la 11). I P. hanno tra
di loro in comune l’essenza espressa dalla definizione (cfr. Boezio, In Car.,
I, P.L. 64, col. 167; Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01; JunGIUS, Logica
Hamburgensis, I, 2, 16). In questo sono simili ai sinonimi o univoci.
Aristotele considera i P. come una certa specie di oggetti de- signabili,
accanto agli omonimi o equivoci e ai sinonimi o univoci (v. Equrvoco; UNIVOCO).
PARSIMONIA, LEGGE DELLA. V. Eco- NOMIA. PARSISMO (ingl. Parsism; franc.
Parsisme; ted. Parsismus). La religione dualistica degli antichi Persiani [v.
MALE 1 5); Zoroastrismo]. PARTE (gr. uépoc; lat. Pars; ingl. Part; fran- cese Part;
ted. Teil). Aristotele distinse tre
significati principali del termine: 1° ciò cui mette capo la divisione di una
quantità e in questo senso due è P. di tre, a meno che non si restringa il
significato di parte all’unità di misura, nel qual caso solo uno (e non due) è
P. di tre; 2° ciò a cui mette capo la divisione di un genere che non sia una
quantità e in tal senso sono parti le specie di un genere; 3° ciò a cui mette
capo l’analisi di una proposizione che vale da definizione; e in questo senso
il genere è P. della specie (perchè è la specie che viene definita) (Met., V,
25, 1023 b 12). San Tommaso a sua volta chiamò parti quanzitative, quelle nel
significato 1° di Aristotele; parti essenziali quella nei significati 2° e 3°
(S. 7h., I, q.76, a.8; III, q.90, a. 2). E aggiunse ad esse: la P. subbiettiva
«alla quale è presente, simultaneamente ed egualmente, l’intera virtù del tutto
come l’intera virtù dell’animale in quanto tale si conserva in qualsiasi specie
animale +; e la P. potenziale « alla quale è presente il tutto se- condo
l’intera sua essenza, come l’intera essenza del- l’anima è presente a ognuna
delle sue potenze » (S. 7h., III, q. 90, a. 3). Ma è abbastanza ovvio che
queste due ultime specie di P. sono state escogitate a scopi teologici. Altre
distinzioni sono state in- trodotte per altri scopi come quella tra la P.
prossima e la P. remota, a seconda che tra la P. e il tutto cada o non cada
un’altra P. (cfr. JuNGIUS, Log., 1, 9, 11-12); e quella tra la P. aliquota e la
P. aliquanta, a seconda che la ripetizione della parte arrivi esattamente ad
adeguare il tutto o risulti, a un certo punto, minore o maggiore di esso (con-
fronta WOoLFF, Onf., $ 360). La maggior parte di queste distinzioni sono oggi
cadute in disuso e lo stesso concetto di P., col venir meno del vecchio
assioma, «la P. è minore del tutto » (v. INFINITO), ha cessato di essere
definito a partire dal tutto e viene abitualmente definito mediante un certo
tipo di relazione. Così Peirce dice: « Una P. di una collezione, detta il furto
650 di essa, è una collezione tale che ogni cosa che sia u della P. è « del
tutto, ma qualcosa che è « del tutto non è « della P. » (Co//. Pap., 4.173).
PARTECIPAZIONE (gr. pé8eE; lat. Parte cipatio; ingl. Participation; franc.
Participation; ted. Teilnahme, Partizipation). 1. Uno dei due con- cetti di cui
Platone si avvalse per definire il rap- porto tra le cose sensibili e le idee;
l’altro è quello di presenza o parusia (rapovela). «Nient'altro rende bella una
cosa, egli disse, se non la presenza o la P. del bello in sè, quali che siano
la via o il modo nei quali presenza o P. abbiano luogo » (Fed., 100 d). Più
tardi Platone intese la P. come imitazione: «A me pare che le idee stiano come
esemplari nella natura; e che gli altri oggetti somiglino ad esse e ne siano
copie; e che questa P. delle cose alle idee non consiste in altro che
nell’essere imma- gini di esse » (Parm., 132 d). Platone stesso non ha dato
molte altre determinazioni su questo importante concetto della sua filosofia.
Ad esso tuttavia fece ricorso la metafisica medievale quando si trattò di
distinguere « l’essere per essenza » che appartiene solamente a Dio dall’ «
essere per P. » che appartiene alle creature: distinzione che garantiva la
subordi- nazione dell’essere delle cose all’essere di Dio. «Come ciò che ha
fuoco e non è fuoco, è infocato (ignitum), per P., dice San Tommaso, così ciò
che ha l’essere e non è l’essere è ente per P.» (S. 7h., I, q. 3, a. 4). Ma
l’uso esteso che è stato fatto di questo concetto nella metafisica tradizionale
non ha molto contribuito a chiarirlo; e il concetto è rimasto indefinito ed
oscuro come era già per Platone. 2. L. Lévy-Bruhl ha fatto un uso esteso del
concetto di partecipazione per illustrare la menta- lità dei primitivi. Nell’ambito
di questa mentalità, la partecipazione sarebbe anteriore alla distinzione tra
le cose che si partecipano. « La partecipazione non si stabilisce tra un morto
e un cadavere più o meno nettamente rappresentati (nel quale caso avrebbe la
natura di una relazione e dovrebbe es- sere possibile chiarirla mediante
l’intelletto); essa non viene dopo le rappresentazioni, non le pre- suppone, ma
è anteriore ad esse o almeno simul- tanea. Ciò che è dato per primo è la
partecipa- zione» (Les carnets, I; trad. ital., pag. 36-37). PARTICOLARE (gr. xatà pépoc;
lat. Parti- cularis; ingl. Particular; franc. Particulier). Che è una parte o appartiene ad una
parte. La proposi- zione P. fu definita da Aristotele nel modo seguente: «
Chiamo P. la proposizione che esprime l’inerenza a qualche cosa o la non
inerenza a qualche cosa o la non inerenza a ogni cosa» (An. Pr., I, 1, 24a 13).
Il contrario della proposizione P. è quella universale (v.). La logica
medievale indicò con la lettera / la proposizione P. affermativa e con lettera
PARTECIPAZIONE O la proposizione P. negativa. Una proposizione P. della forma
«alcuni F sono G» si può leggere in vari modi: « qualche F è G3, «qualche cosa
è insieme F e G », « qualche cosa che è un F è un G?», «c’è un FG», «ci sono
FG», «FG esiste», ecc. (cfr. W. v. O.
QuInE, Methods of Logic, $ 12). PARTIZIONE (gr. pepiou6s; lat. Parzitio; ingl. Partition; franc. Partition; ted.
Partition). Gli Stoici intesero con questo termine « l’ordina- mento di un
genere nei suoi luoghi» (Diog. L., VII, 1, 62) cioè l’enumerazione delle parti
che compongono il tutto, come quando si enumerano le membra del corpo umano; e
la distinsero pertanto dalla divisione che è l’enumerazione delle specie
appartenenti a un genere (CicER., Top., 5-7, 28, 30) (v. DIVISIONE). PARUSIA.
V. PARTECIPAZIONE. PASSATO. V. Tempo. PASSIONE (ingl. Passion; franc. Passion;
ted. Leidenschaft). Questo termine può significare: 1° lo stesso che affezione,
cioè modificazione pas- siva nel senso più generale del greco rà$oc e del
latino passio (per questo significato v. AFFEZIONE); 2° lo stesso che emozione
(v.), nel qual significato esso è stato adoperato quasi universalmente sino al
sec. xvi, quando si è venuto determinando il significato specifico che oggi
possiede cioè; 3° l’azione di controllo e di direzione esercitata da
un’emozione determinata sull’intera personalità di un individuo umano. In
questo senso, che è il solo proprio e specifico, la parola viene oggi
comunemente adoperata. Così l’espressione francese, divenuta internazionale, «amour-passion
» indica una forma di emozione amorosa che domina la personalità ed è
travolgente rispetto ad ostacoli morali e sociali (cfr. pure « Crime de
passion» o « Delitto passionale +). Nelle frasi «P. del gioco» o « P. delle
donne» o « P. del denaro », il significato di un indirizzo dominante e globale
impresso all’intera personalità è altret- tanto chiaro, com’è chiaro nelle
espressioni « P. politica », «P. religiosa», ecc. Il concetto nasce con le
analisi dei moralisti del °600 e °700 che hanno messo in luce la tendenza delle
emozioni a pene- trare la personalità e a dominarla. Pascal diceva «Quando si
conosce la P. dominante di qualcuno si è sicuri di piacergli » (Pensées, 106).
Nella quale espressione l’aggettivo « dominante » esprime bene il carattere
della passione. Le Maximes di La Roche- foucauld insistono con un certo cinismo
su questo carattere dominante delle passioni (« Se resistiamo alle nostre
passioni, è più per la loro debolezza che per la nostra forza», 122), e
Vauvenargue nel Discours sur la liberté (1737) diceva: « Per resistere alla P.
bisognerebbe almeno voler resistere. Ma farà la P. nascere il desiderio di
combattere la P., PASSIONE 651 nell’assenza della ragione vinta e dispersa?». E
ag- giungeva: « Le passioni hanno appreso agli uomini la ragione» (Réflexions
et maximes, 154). Nello stesso spirito Helvètius dichiarava: «Le passioni sono
nel campo morale ciò che il movimento è nel campo fisico » (De l’esprit, III,
4); e Condillac defi- niva la P.: « Un desiderio che non permette di averne
altri o che, almeno, è il più dominante » (7raité des sensations, I, 3, $ 3).
Kant ci ha dato a questo pro- posito le determinazioni più precise. La P. è
l’incli- nazione che impedisce alla ragione di paragonarla con le altre
inclinazioni e così di effettuare una scelta fra esse (Antr., $ 80). Perciò la
P. esclude il dominio di sè cioè impedisce o rende impossibile che la vo- lontà
si determini in base a princìpi (Crir. del Giud., $ 29). Kant insiste, con
notazioni felici, sulla capa- cità della P. di dominare l’intera condotta
dell’uomo, di impadronirsi della sua personalità. A differenza dell’emozione
che è precipitosa e irriflessiva, la P. prende tempo ed è riflessiva, per
raggiungere il suo scopo, sebbene possa essere violenta. L’emo- zione è come un
fiotto che rompe la diga; la P. è come una corrente che si scava sempre più
profondo il suo letto. L'emozione è come un’ebrezza che si smaltisce, sebbene
ne segua il mal di capo; la P. invece è come una malattia per intossicazione o
per deformazione, che ha bisogno di un medico interno o esterno dell’anima, il
quale, tuttavia, non sa per lo più prescrivere una cura radicale, ma, quasi
sempre, solo palliativi (Antr., $ 74). Per il pericolo che la passione
rappresenta per la scelta razionale e la libertà morale dell’uomo, Kant rigetta
ogni esaltazione delle passioni. Egli cita la frase: « Nulla di grande nel
mondo è stato mai compiuto senza violente passioni », per commen- tarla così: «
Questo si può ammettere di parecchie inclinazioni, di quelle cioè delle quali
la natura vi- vente (anche quella dell’uomo) non può far a meno, come di un
bisogno naturale e fisico. Ma che esse possano, anzi debbano, diventar
passioni, questo la Provvidenza non ha voluto. Spiegarle da questo punto di
vista può esser concesso a un poeta, per es., al Pope, il quale scrisse: « Se
la ragione è una bussola, le passioni sono i venti »; ma il filosofo non può
ammettere questo principio neppure per valutare le passioni come un artificio
provvisorio della Provvidenza la quale le avrebbe poste nella natura umana
prima che gli uomini fossero arrivati ad un grado conveniente di civiltà »
(Antr., $ 80). Il Romanticismo accetta e fa suo il concetto della P. che i
moralisti francesi e Kant avevano elaborato; concetto secondo il quale essa non
è un’emozione o uno stato affettivo particolare, ma piuttosto il dominio totale
e profondo che uno stato affettivo esercita su tutta la personalità (o
«soggettività +) dell’individuo. Dall’altro lato però il Romanticismo capovolge
la valutazione negativa della P. che aveva data Kant. Ed è significativo che
colui il quale ha espresso con più rigore il punto di vista romantico su questo
punto, cioè Hegel, non ha fatto che capovolgere le valutazioni kan- tiane.
Hegel definisce la P. come «la totalità dello spirito pratico in quanto si pone
in una singola delle molte determinazioni limitate che sono tra loro in
contrasto (Enc., $ 473)». Ed aggiunge: «La P. contiene nella sua determinazione
che essa è confinata ad una particolarità della determinazione del volere,
nella quale l’intera soggettività dell’in- dividuo s’immerge, quale che sia poi
il contenuto di questa determinazione. Ma per questo carattere formale la P.
non è nè buona nè cattiva: la sua forma esprime solo che un soggetto ha posto
in un unico contenuto tutto l'interesse vivente del suo spirito, dell’ingegno,
del carattere, del godi- mento. Niente di grande è stato compiuto, nè può esser
compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso
ipocrita, quella che inveisce contro la forma della P. in quanto tale » (Enc.,
$ 474). Qui, mentre s’insiste sul carattere totale della P., che limita ad un
unico contenuto o determinazione « l’intera soggettività dell'individuo » e
cioè «l’interesse vivente del suo spirito, ecc.» si riprende la frase criticata
da Kant e si dichiara espressione di una moralità morta o ipocrita la condanna
kantiana. E il curioso è che Kant aveva in anticipo criticato un altro tratto
caratteristico della filosofia di Hegel: la giustificazione delle passioni come
strumenti della provvidenza cosmica, come «astuzie » della Ragione infinita per
realiz- zare i suoi scopi: tesi che è fra le più caratteristiche della
filosofia della storia di Hegel (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag.
63 sgg.). Da un diverso punto di vista l’esaltazione della P. fu fatta anche da
Nietzsche che vedeva un sintomo di debolezza nella « paura dei sensi, dei
desideri e delle passioni, quando essa arriva a sconsigliarli +; e vedeva nella
P. dominante «la forma suprema della salute » perchè in essa «la coordinazione
dei sistemi interni e il loro lavoro al servizio di uno stesso fine sono meglio
realizzati: il che è pressapoco la definizione della salute» (Wille zur Macht,
ed. Kroner, $ 778). Un punto di vista equidistante tra la condanna e l’esaltazione
della P. sembra prevalere nella cultura contemporanea. Così, ad es., si esprime
Dewey: « La fase emozionale, appassionata dell’a- zione non può nè deve essere
eliminata a vantaggio di una esangue ragione. Più passioni, non meno, è la
risposta... La razionalità non è la forza da evocare contro impulsi ed abiti,
ma piuttosto il raggiungimento di una armonia operante fra diversi desideri »
(Human Nature and Conduct, pag. 195-96). 652 PASSIVO (gr. ra8ntx6c; lat.
Passivus; inglese Passive; franc. Passif; ted. Passiv). Che subisce un'azione,
che è affetto da qualche cosa. È l’ag- gettivo corrispondente ad affezione (v.)
e contrario ad attivo (V.). PASTORALE, FILOSOFIA (lat. Pastoralis philosophia).
Così chiamò Bacone quella filosofia «che contempla il mondo placidamente e
quasi per ozio »: rimprovero che egli rivolge anche alla filosofia di Telesio
(Phil. Works, III, $ 45). PATETICO (ingl. Parhetic; franc. Parhétique; ted.
Pathetisch). F. Schiller designò con questo termine una delle specie del sublime
(v.) pratico e precisamente quello che deriva da un oggetto in se stesso
minaccioso per la natura fisica dell’uomo, quindi doloroso. Il sublime pratico
contemplativo invece è quello nel quale non è l’oggetto ma la contemplazione di
esso a istituire la sua temibilità e quindi la sublimità (Vom Erhabenen, zur
weiteren Ausfuhrung einiger Kantischen Ideen, 1793; Uber das Pathetische,
1793). PATOLOGICO (ingl. Parhological; franc. Pa- thologique; ted.
Pathologisch). Ciò che è una malattia o la manifestazione di una malattia. Il
solo uso specificamente filosofico di questo termine è quello che Kant ne fece
designando con esso tutto ciò che concerne o costituisce «la facoltà di
desiderare inferiore» cioè il complesso delle inclinazioni naturali umane. Dal
punto di vista kantiano, non P. è soltanto la cosiddetta «facoltà di desiderare
superiore » cioè la ragion pratica in quanto indi- pendente da tutte le
inclinazioni sensibili (Cri. R. Prat., $ 3, scol. I). G. Bentham chiamò
patologia la considerazione e la classificazione dei moventi sensibili della
condotta, indicando con quel termine «la teoria della sensibilità passiva »;
mentre chia- mava dinamica « l’uso possibile, da parte del mora- lista e del
legislatore di quegli stessi moventi per determinare la condotta umana in vista
della mas- sima felicità possibile » (Springs of Action, 1817). PATRISTICA
(ingl. Patristic; franc. Patri- stique; ted. Patristik). Si indica con questo
nome la filosofia cristiana dei primi secoli. Essa consiste nell’elaborazione
dottrinale delle credenze reli- giose del cristianesimo e nella loro difesa
contro gli attacchi dei pagani e contro le eresie. La P. è caratterizzata dalla
mancanza della distinzione tra religione e filosofia. La religione cristiana
appare ai Padri della Chiesa, come l’espressione compiuta e definitiva della
verità che la filosofia greca aveva solo imperfettamente e parzialmente
raggiunta. Difatti la Ragione (/ogos) che si è fatta carne nel Cristo e che si
è nella parola di Lui rivelata piena- mente agli uomini, è quella stessa a cui
i filosofi pagani si sono ispirati e che hanno cercato di tradurre nelle loro
speculazioni. PASSIVO La P. si suole comunemente dividere in tre periodi. Il
primo che va sino al 200 circa è dedicato alla difesa del Cristianesimo contro
i suoi avversari pagani e gnostici (Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo,
Ireneo, Tertulliano, Minucio Felice, Ci- priano, Lattanzio). Il secondo periodo
che va dal 200 a circa il 450 è caratterizzato dalla formulazione dottrinale
delle credenze cristiane. È il periodo dei primi grandi sistemi di filosofia
cristiana (Clemente Alessandrino, Origene, Basilio, Gregorio Di Na- zianzio,
Gregorio di Nissa, Sant'Agostino). Il ferzo periodo che va dalla metà del v
secolo sino alla fine dell’vm secolo è caratterizzato dalla rielabora- zione e
sistemazione delle dottrine già formulate e dalla mancanza di formulazioni
originali (Nemesio, Pseudo Dionigi, Massimo Confessore, Giovanni Damasceno,
Marciano Capella, Boezio, Isidoro di Siviglia, Breda il Venerabile). L'eredità
della P. fu raccolta, agli inizi della rinascita carolingia, dalla Scolastica
(v.). PAURA. V. EMOZIONE. PAZZIA (gr. uopla; lat. Srultitia; ingl. Madness;
franc. Folie; ted. Wahn). 1. Quella che Platone chia- mava la P. buona, cioè la
P. che non è malattia o perdizione, è stata intesa in due modi diversi e cioè:
1° come inspirazione o dono divino; 2° come amore della vita e tendenza a
viverla nella sua semplicità. 1° Il primo significato è quello che le attribuì
Platone nel Fedro, affermando che «i maggiori beni ci sono elargiti per mezzo
d’una P. che è un dono divino » (Fedr., 244 a). Questa P. si manifesta in
quattro forme: a) la P. profetica, che è a fonda- mento della mantica cioè
dell’arte per cui si predice il futuro; 5) la P. purificatoria che consente di
allon- tanare i mali per mezzo di purificazioni e di inizia- zioni nel presente
e nell’avvenire; c) la P. poetica che è ispirata dalle muse (Ibid., 244a, 245
a); e finalmente, la forma più alta cioè d) la P. amorosa alla quale l’uomo è
invogliato dal ricordo della bellezza ideale risvegliato in lui dalla bellezza
delle cose del mondo (/bid., 249 e). Ovviamente le prime tre forme di P. sono
forme di ispirazione divina, riconducibili all’entusiasmo (v.). L'amore invece,
è P. in un senso diverso cioè come aspirazione all’essere autentico,
risvegliata da quella mani- festazione « più amabile e più evidente» di esso
che è la bellezza. Ora questo è già il secondo signi- ficato di pazzia. 2° Nel
secondo significato, la P. è infatti amore della vita nella sua semplicità,
contrapposta alla saggezza artificiosa ed arcigna e alla scienza di chi sa
tutto tranne che vivere ed amare. L’Elogio della pazzia (Stultiae laus, 1509)
di Erasmo da Rotterdam è la più famosa difesa di questo secondo significato del
termine. Ecco come Erasmo delinea il ritratto del saggio stoico: « Egli è sordo
alla voce dei sensi, PECCATO ORIGINALE non sente alcuna emozione, l’amore e la
pietà non fanno alcuna impressione sul suo cuore duro come diamante, nulla gli
sfugge, mai non dubita, la sua vista è da lince, tutto pesa con la massima
esattezza, non perdona nulla; trova in se stesso la sua felicità, si crede il
solo ricco della terra, il solo savio, il solo re, il solo libero: in una
parola si crede il tutto; e il più bello è che è il solo a credersi tale ».
Ora, si domanda Erasmo, chi non preferirebbe a questo saggio « un uomo
qualsiasi, tolto alla folla degli uomini pazzi, il quale, per quanto pazzo,
sapesse comandare o obbedire ai pazzi e farsi amare da tutti; e che fosse
compiacente con la moglie, buono con i figli, allegro nei banchetti, socievole
con tutti quelli con i quali convive, e infine che non si credesse straniero a
tutto ciò che appartiene all'umanità?» (E/, 30). La P. di cui parla Erasmo è la
semplicità della vita, che si contenta di nutrire illusioni e speranze; o, nel
campo della religione è la fede e la carità contrap- poste alle cerimonie
esterne, ai riti meccanizzati e all’ipocrisia dei bacchettoni (Ibid, 54).
Questa forma di P. non ha, ovviamente, nulla a che fare con un’ispirazione
divina, ma è umana e laica e non per nulla l’elogio di essa è uno dei documenti
più significativi del Rinascimento. 2. Lo stesso che psicosi (v.). PECCATO
(lat. Peccatum; ingl. Sin; fran- cese Péché; ted. SuUnde). La trasgressione
intenzio- nale di un comando divino. Il termine ha una con- notazione
prevalentemente religiosa: P. non è la trasgressione di una norma morale o
giuridica ma la trasgressione di una norma che si ritiene imposta o stabilita
dalla divinità. Il riconoscimento del carattere divino di una norma e
l'intenzione di violarla, sono i due elementi di questo concetto: elementi
senza i quali il concetto stesso si con- fonde con quelli di colpa, delitto,
errore, reato, ecc., che esprimono la trasgressione di una norma morale o
giuridica. Il concetto del P. è stato in questi termini elabo- rato dalla
teologia cristiana. Sant'Agostino definiva il P. come «ciò che è detto o fatto
o desiderato contro la legge eterna +, intendendo per legge eterna la volontà
divina che è diretta a conservare l’ordine del mondo e a far sì che l’uomo
desideri di più il bene maggiore e meno il bene minore (Contra Faustum, XXII,
27). E San Tommaso non faceva che accettare questa definizione annotando che la
legge eterna per l’uomo è duplice: « L’una è vicina ed omogenea, cioè la stessa
ragione umana, l’altra è la regola prima, cioè la legge eterna che è quasi la
ragione di Dio» (S. Th., II, 1, q.71, a. 6). San Tommaso insiste da un lato
sulla volontarietà, cioè intenzionalità, del P.: volontarietà per cui si potrebbe
definire il P. mediante la sola volontà 653 se non fosse che anche gli atti
esterni appartengono al P. stesso e devono pertanto essere menzionati nella
definizione di esso (/bid., ad 2°). Dall'altro lato insiste sul punto che ogni
P. è, come tale, un P. contro Dio, per quanto i peccati contro Dio
costituiscano, da un altro punto di vista, una spe- ciale categoria di peccati
(S. Th., II, 1, q. 72, a. 4, ad 1°) Questo concetto del P. si può dire che sia
rimasto immutato attraverso i tempi. Kant lo ripete defi- nendo il P. «la
trasgressione della legge morale in quanto comando divino» (Religion, I, sez.
IV; II, sez. 1, c; trad. ital., Durante, pag. 31, 68); e lo ripete Kierkegaard
affermando che il P. è davanti a Dio e che esso consiste « nel voler disperatamente
essere se stesso o nel non voler disperatamente essere se stesso » il che
significa che consiste nella disperazione di non aver fede (Die Krankheit zum
Tode, II, cap. I; trad. ital, Fabro, pag. 300). Ciò che Kierkegaard aggiunge è
il carattere eccezionale del P. che corrisponde al carattere eccezionale della
fede. Il P. non è di tutti i giorni. « Essere un peccatore nel senso più
rigoroso, egli dice, è ben lungi dall’es- sere un merito. Ma d’altra parte,
come si può tro- vare una coscienza essenziale del P. (che è d'altronde
indispensabile per il Cristianesimo) in una vita tal- mente immersa nella
trivialità, così ridotta allo scim- miottamento piatto degli altri, che è quasi
impossi- bile darle un nome, che è troppo priva di spirito per poterla chiamare
P.? + (/bid., II, B, Aggiunta A; trad. ital., pag. 328). PECCATO ORIGINALE
(lat. Peccatum Ori- ginale; ingl. Original Sin; franc. Péché originel; ted.
Erbsind). Le discussioni filosofico-teologiche intorno al P. originale hanno
avuto di regola per oggetto il modo in cui tale P. si è trasmesso da Adamo agli
altri uomini. San Tommaso enu- merava due ipotesi principali addotte per la so-
luzione di questo problema e cioè: l’ipotesi del traducianesimo (v.) secondo la
quale «l’anima ra- zionale si trasmette con il seme sicché da un'anima infetta
derivano anime infette »; l’ipotesi dell’eredi- tarietà secondo la quale «la
colpa dell'anima del primo parente si trasmette alla prole, per quanto non si
trasmette l’anima stessa, al modo in cui i difetti del corpo si trasmettono di
padre in figlio ». Entrambe queste ipotesi sembravano a San Tommaso
insostenibili ed egli annunciava la sua dicendo che «tutti gli uomini che
nascono da Adamo possono considerarsi come un unico uomo in quanto hanno la
stessa natura, che essi ricevono dal primo parente; al modo in cui nelle città
tutti gli uomini che appar- tengono alla stessa comunità si ritengono un unico
corpo e l’intera comunità quasi un unico uomo » (II,. 1, q.81, a. 1). Alcuni
secoli dopo, nella sua Teodicea (1710) Leibniz enumerava le stesse ipotesi 654
(Théod., I, $ 86), che sono rimaste quelle tra le quali ha oscillato il
pensiero teologico. D'altronde un’interpretazione filosofica (e non teologica)
del P. originale si ha soltanto con Kant e Kierkegaard. Kant osservò che non
bisogna confondere la questione dell’origine temporale di una cosa con quella
della sua origine razionale: al problema dell’origine temporale cerca di
rispon- dere la dottrina biblica del P. originale; ma al problema dell’origine
razionale del male risponde la dottrina del « male radicale » secondo la quale
la disposizione innata dell’uomo al male deriva dalla natura delle sue massime.
« La proposizione: l’uomo è cattivo, dice Kant, non significa altro se non che
l’uomo è consapevole della legge morale e che tuttavia ha accolto nella sua
massima di allontanarsi occasionalmente da tale legge. Dire che egli è cattivo
per natura significa che ciò vale per tutta la specie umana; non già nel senso
che tale qualità si possa dedurre dal concetto della specie umana (dal concetto
di uomo in generale) giacchè allora sarebbe necessaria; ma nel senso che
l’uomo, così come lo si conosce per esperienza, non può essere giudicato
diversamente o nel senso che si può presupporre la tendenza al male in ogni
uomo, anche nel migliore, come oggettivamente necessaria » (Religion, I, 3;
trad. ital, Durante, pag. 18). Sostanzialmente identica con questa è
l’interpretazione che del P. originale ha dato Kier- kegaard, scorgendo la
condizione e la realtà psico- logica di esso nell’angoscia. «Il divieto di Dio,
egli dice, angoscia Adamo perchè sveglia in lui la possibilità della libertà.
Ciò che nell’innocenza era il nulla dell'angoscia è ora entrato nell’innocenza
stessa ed è qui di nuovo un nulla cioè /a possibilità angosciante di potere.
Cosa sia ciò che egli può, egli non ne ha idea alcuna; altrimenti si presup-
porrebbe, come avviene di solito, quel che segue, cioè la differenza tra il
bene e il male. Non c’è in Adamo che la possibilità di potere, come forma
superiore di ignoranza, come superiore espressione di angoscia, perchè in un
senso più alto, questa possibilità è e non è, ed Adamo l’ama e la fugge» (Der
Begriff Angst, I, $ S; trad. ital, Fabro, pag. 54). Anche qui, come si vede,
non si tratta dell’origine temporale ma dell’origine razionale del P.
originale; e anche qui quest’origine è vista in una possibilità: nella
possibilità indeterminata o « indefinita », come Kierkegaard la chiama, che è
anche la possibilità di agire contro il divieto divino. Secondo Kierkegaard,
come secondo Kant, il P. originale consisterebbe pertanto nel prospettarsi di
una possibilità che, come tale, può implicare l'infrazione alla norma morale o
al divieto divino. PEDAGOGIA (ingl. Pedagogy; franc. Péda- gogie; ted.
Pédagogik). Questo termine che in PEDAGOGIA origine significò la pratica o la
professione dell’edu- catore è passato poi a significare qualsiasi reoria
dell’educazione: intendendosi per reoria non solo un'elaborazione ordinata e
generalizzata delle mo- dalità e delle possibilità dell’educazione ma anche una
riflessione occasionale o un presupposto qualsiasi della pratica educativa. In
questo senso, la pedagogia non aveva nell'antichità classica la dignità di una
scienza autonoma ma era considerata come parte dell’etica o della politica ed elaborata
perciò unicamente rispetto al fine che l’etica o la politica proponevano
all'uomo; mentre dall’altro lato gli espedienti o i mezzi pedagogici venivano
considerati soltanto nei confronti della prima edu- cazione cioè nei confronti
dell’educazione dell’età infantile, perciò delle più elementari acquisizioni
(il leggere, lo scrivere e il far di conto). La riflessione pedagogica appare
così, fino a un certo punto, divisa in due branche, che procedono ognuna per
conto suo: la prima, di natura schiettamente filo- sofica ed elaborata in vista
del fine che l'etica propone per l’uomo; la seconda, di natura empirica o
pratica, elaborata in vista del primo e più elemen- tare addestramento del
bambino alla vita. Si può dire che questi due tronconi vengono per la prima
volta a saldarsi nel sec. xvil per opera di G. A. Comenio, che ebbe la pretesa
di portare nel dominio della P. quella organizzazione metodolo- gica che
Francesco Bacone aveva avuto la pretesa di portare nel dominio delle altre
scienze; ed elaborò pertanto un completo sistema pedagogico, fondato sul
principio della pansofia (v.), che partiva dalla considerazione del fine
educativo per giungere alla considerazione dei mezzi e degli strumenti
didattici. A partire da Comenio, l’esperienza pedagogica dell’occidente si è
andata arricchendo e appro- fondendo con i tentativi di trovare nuovi metodi
dell’educazione. L’opera di Locke, di Rousseau, di Pestalozzi, di Fròbel, è
molto importante sotto questo punto di vista e anche perchè cercò di accor-
dare i metodi di educazione con le nuove concezioni filosofiche che via via si
presentavano. Si può dire così che Locke rappresenta la P. dell’empirismo,
Rousseau la P. dell’illuminismo, Pestalozzi la P. del criticismo e Fréebel
quella del romanticismo. Tuttavia, l’organizzazione scientifica della P. deve
molto a Herbart che per la prima volta distinse e unì i due tronconi della
tradizione pedagogica in un sistema coerente. Herbart infatti distinse la
considerazione dei fini dell’educazione, che la P. deve attingere dall’erica e
la considerazione dei mezzi educativi che la P. deve attingere invece dalla
psicologia; e cercò di elaborare distintamente e correlativamente queste due
parti integranti (Allgemeine Padagogik, 1806; Umris péidagogischer Vorlesungen,
1835). PENA Da questo punto in poi la psicologia è diventata la scienza
ausiliaria fondamentale della pedagogia. La sola e non felice eccezione a
questa connessione è stata rappresentata da quella forma dell’idealismo
romantico che è prevalsa in Italia nei primi decenni del nostro secolo. Questa
forma di idealismo negava la diversità delle persone, ritenendole unite nello
Spirito universale, e identificava pertanto lo svi- luppo personale dell’uomo
con lo sviluppo univer- sale dello Spirito. Queste tesi venivano presentate
come una risoluzione della P. nella filosofia. Diceva Gentile: « Quando per
spirito non s’intende se non appunto lo svolgimento, la formazione,
l’educazione, insomma dello Spirito, la filosofia stessa (tutta la filosofia,
posto che la realtà sia concepita assoluta- mente come Spirito) diventa P. e la
forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa la filosofia »
(Sommario di pedagogia, II, 1912, pag. 15). Contem- poraneamente, tuttavia, si
faceva il tentativo sim- metrico e opposto di ridurre la P. a scienza mecca-
nica, sul modello della fisica, cambiandole il nome in pedologia (v.): sul
fondamento che con la padro- nanza del meccanismo psicologico si può dirigere
la formazione mentale degli uomini al modo con cui si possono dirigere, utilizzando
le leggi di natura, le forze della natura. La P. contemporanea, nella sua forma
più matura, si può far cominciare proprio quando questo duplice e opposto
tentativo di riduzione dell’uomo a spirito assoluto o a meccanismo viene
tralasciato e l’uomo comincia ad essere inteso e considerato come natura senza
essere degradato a meccanismo. La nozione di condizionamento (v. ConDIZIONE) è
quella che oggi prevale nella P. e che ha espulso da essa sia l’indeterminismo
idealistico sia il determinismo meccanistico. Inoltre l’esperienza pedagogica
si è oggi arricchita attraverso la considerazione del fatto educativo nelle
società primitive: considerazione che ha reso possibile da un lato una
generalizza- zione del concetto stesso di educazione (v.) dall’altro confronti
e paralleli efficaci sul terreno dei mezzi educativi. Oltre alla psicologia,
l'antropologia e la sociologia concorrono oggi a fornire alla P. il suo
armamentario di mezzi educativi; laddove il pro- blema dei fini rimane aperto e
i fini stessi tendono a essere presentati, dal punto di vista pedagogico, in
forma ipotetica piuttosto che nella forma asso- luta e dogmatica con cui
venivano assunti dalla P. tradizionale (v. CULTURA; EDUCAZIONE). PEDOLOGIA
(ingl. Paidology; franc. Pédo- logie; ted. Paidologie). La scienza esatta
dell’educa- zione, in opposizione alla pedagogia che sarebbe l’arte empirica
dell’educazione. Questo fu almeno il significato dato al termine da coloro che
l’intro- dussero: il tedesco O. Chrisman (Paidologie, 1894) e il francese E.
Blum (cfr. i suoi articoli in Revue 655 Philosophigue, maggio 1897, novembre
1898). La P. avrebbe dovuto avere come presupposto la psi- cologia sperimentale
e da essa desumere gli strumenti dell’educazione, relativamente alle varie età
del- l’uomo. Questo concetto non è venuto meno cd è anzi a fondamento di buona
parte della psicologia contemporanea; ma il termine P., dopo una breve voga, è
stato abbandonato. PEDOTECNICA (franc. Pédorechnique). Una «Società di P.» fu
fondata nel 1906 a Bruxelles da Decroly: il termine aveva lo stesso significato
di pedologia. PEIRASTICA (gr. respaotixi réxm). Secondo Aristotele, l’arte di
mettere alla prova una tesi, deducendo le conseguenze di essa. È una parte
della dialettica e si distingue dalla sofistica in quanto si rivolge
all’avversario ignorante mentre la sofistica tende a mettere in iscacco anche
colui che è dotato di scienza (E/. Sof., 8, 169b 25; 171 b 4). PELAGIANISMO
(ingl. Pelagianism; francese Pélagianisme; ted. Pelagianismus). La dottrina del
monaco inglese Pelagio che ai princìpi del sec. v insegnò a Roma e a Cartagine,
in polemica con S. Agostino, la dottrina che il peccato di Adamo non ha
indebolito la capacità umana di fare il bene, ma è solo un esempio cattivo che
rende più difficile e gravoso il compito dell’uomo. S. Ago- stino combattè con
molti scritti questa tesi a par- tire dal 412, sostenendo la tesi opposta: che
con Adamo e in Adamo ha peccato tutta l’umanità e che quindi il genere umano è
una sola « massa dannata », nessun membro della quale può essere sottratto alla
punizione se non dalla misericordia e dalla non dovuta grazia di Dio (cfr. De
Civ. Dei, XIII, 14) (v. GRAZIA). PENA (gr. 8; lat. Poena; ingl. Penalty; fran-
cese Peine; ted. Strafe). Privazione o afflizione prevista da una legge positiva
per chi si renda colpevole di una infrazione di essa. Il concetto della pena
varia a seconda delle giustificazioni che sono state date di essa; e tali
giustificazioni variano a seconda che si tenga presente come scopo della pena;
1° l’ordine della giustizia; 2° la salvezza del reo; 3° la difesa dei
cittadini. 1° Il più antico concetto della pena è quello che le attribuisce
l'ufficio di ripristinare l'ordine proprio della giustizia. Questo è il compito
che le attribuisce Aristotele: il quale nega che la giustizia consista nella P.
del taglione e ritiene che il fine della P. consista nel ripristinare la
proporzione in cui la giustizia consiste: « Quando uno abbia rice- vuto
percosse e un altro le abbia inferte oppure quando uno abbia ucciso e l’altro
sia morto, il dànno e il diritto non hanno tra loro un rapporto d’uguaglianza;
ma il giudice cerca di rimediare a 656 questa inuguaglianza con la P. che
infligge, ridu- cendo il vantaggio carpito » (Er. Nic., V, 4, 1132 a 5; cfr. 8,
1132 b 21). Questo concetto era stato già esteso dall'uomo al mondo da
Anassimandro di Mileto che aveva affermato: « Tutti gli esseri devono, secondo
l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia»
(Fr. I, Diels). La P. serve qui a ripristinare l’ordine cosmico. Questa è anche
la funzione che le si attribuisce da un punto di vista religioso. Plotino dice:
« Noi compiamo la funzione che è propria, per natura, dell'anima finchè non ci
sviamo nel molteplice dell’universo; e se ci sviamo paghiamo la P. sia con il
nostro stesso sviamento sia con la sorte di- sgraziata che ci attende più tardi
» (Emn., II, 3, 8). Le stesse parole si trovano in S. Agostino (De Civ. Dei, V,
22). E S. Tommaso dice: « Poichè il peccato è un atto contrario all’ordine è
ovvio che chiunque pecca agisce contro un certo ordine; e così dallo stesso
ordine consegue che esso sia represso: e questa repressione è la P.» (S. 7h.,
I, II, q. 87, a. 1). Nello stesso spirito Kant affermava, in modo solo
apparentemente paradossale: « Anche quando la società civile si dissolvesse con
il consenso di tutti i suoi membri (se per es., un popolo abi- tante un'isola
si decidesse a separarsi e a disperdersi per tutto il mondo), l’ultimo
assassino che si tro- vasse in prigione dovrebbe prima venir giustiziato, affinchè
ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul
popolo che non ha reclamato quella punizione » (Mer. der Sitten, J, II, sez. 1,
E; trad. ital., pag. 144). Dallo stesso punto di vista Hegel considerava la P.
come «la vera conciliazione del diritto con se stesso », come «rispetto
oggettivo e conciliazione della legge che restaura se stessa mediante
l’annullamento del delitto e si realizza quindi come valida » (Fil. del Dir., $
220). Quelle citate sono le voci principali che possono esser raccolte tra i
filosofi in favore della teoria della P. come ripristino dell’ordine di
giustizia. Ma queste voci hanno ispirato e tuttora ispirano numerose dottrine
giuridiche nonchè isti- tuzioni e leggi su di esse fondate. 2° Il concetto
della P. come salvezza o emenda- mento del reo va spesso congiunto con quello
precedente. La più celebre difesa di esso è forse il Gorgia platonico la cui
tesi è che è meglio subire l'ingiustizia anzichè commetterla e che, per chi ha
commesso ingiustizia, la cosa migliore è di subirne la pena. «Se una colpa
viene commessa, dice Platone, bisogna al più presto recarsi colà dove si possa
pagarne la P. cioè presso il giudice come presso il medico, affinchè la
malattia dell’in- giustizia non diventi cronica e non renda l’anima guasta e
inguaribile + (Gorg., 480 a). Difatti, « colui che paga la P. patisce un bene»
nel senso che PENA «se è punito giustamente, diventa migliore» e «si libera dal
male» (/bid., 477 a): sicchè la P. è una purificazione o liberazione che
dev’essere voluta dallo stesso colpevole. Questo ufficio puri- ficatore è
spesso riconosciuto da coloro che vedono nella P. la restituzione della
giustizia. Se Kant affermava che «la P. non può mai esser decretata come un
mezzo per raggiungere un bene sia a pro- fitto del criminale stesso sia a
profitto della società civile, ma deve essergli applicata soltanto perchè ha
commesso un delitto» (Mer. der Sitten, I, II, sez. 1, E; pag. 142) negando così
ogni connessione fra le due concezioni della P., S. Tommaso stesso riconosceva
invece tale connessione. « Le P. della vita presente, egli diceva, sono
medicinali; e così quando una P. non basta a trattenere l’uomo, se ne aggiunge
un’altra, come fanno i medici che adoperano diverse medicine quando una sola
non è efficace » (S. TA., II, 2, q. 39 a. 4, ad 3°). Hegel analogamente
affermava che la P. non è soltanto la conciliazione della legge con se stessa
ma anche la conciliazione del delinquente con la sua legge cioè con la legge «
conosciuta e valida per lui e a sua protezione »: conciliazione nella quale il
delinquente trova « l’appagamento della giustizia e il suo fatto proprio »
(Fil. del Dir., $ 220). 3° La terza concezione della P. è quella che le
attribuisce l’ufficio della difesa sociale. Da questo punto di vista la P. è:
a) un movente o stimolo per la condotta dei cittadini; 5) una condizione fisica
che mette il delinquente nell’impossibilità di nuocere. I filosofi hanno
soprattutto accentuato il primo carattere. Già Aristotele notava che tutti
coloro che non hanno sortito da natura un’indole liberale, e sono i più, si
astengono da atti vergognosi soltanto per la paura delle pene. «I più, dice
egli, obbediscono alla necessità più che alla ragione e alle P. più che
all’onore» (Et. Nic., X, 9, 1180 a 4; cfr. 1179b 11). Ma questo che Aristotele
rite- neva un movente per le anime servili viene assunto, dalla concezione in
esame della P., come il movente unico e fondamentale. Hobbes afferma che «è
inefficace la proibizione che non sia accompagnata dal timore delle P. ed è
quindi inefficace una legge che non contenga entrambe le parti, quella che
vieta di commettere un torto e quella che punisce chi lo commette » (De Cive,
1642, XIV, $ 7). Questo concetto doveva essere fatto proprio dalla filosofia
giuridica dell’illuminismo. Lo riprende Samuele Pufendorf il quale assegna alla
P. il compito principale « di distogliere, con la sua acerbità, gli uomini dai
peccati» (De jure naturae, 1672, VIII, 3, 4), senza escludere tuttavia
l'emendamento del reo (/bid., VIII, 3, 9). Ma fu specialmente Cesare Beccaria
che fece prevalere questo concetto, da lui posto a base dell’opera Dei diritti
e delle pene PENSIERO (1764). Secondo Beccaria, la P. non è che il motivo
sensibile per rafforzare e garantire l’azione delle leggi sicchè « le pene che
oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono
ingiuste di loro natura» (Dei diritti e delle pene, $ 2). Dallo stesso punto di
vista Bentham consi- derava la P. come una delle varie specie di san- zioni
(v.) che hanno la funzione di essere « stimolanti della condotta umana » in
quanto « trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle spe-
ranze e dei timori: delle speranze di un’eccedenza di piaceri, dei timori che
prevedono per anticipazione un’eccedenza di dolore (Deontology, 1834, I, 7).
Gli stessi concetti fondamentali sono stati fatti valere dalla cosiddetta
«Scuola positiva italiana » (Lombroso, Ferri, ecc.) che li ha difesi, con una
certa fortuna, nelle dispute filosofico-giuridiche intorno al diritto penale.
Non c'è dubbio che la maggior parte dei giuristi, dei filosofi del diritto
nonchè dei codici e dei diritti positivi vigenti nelle varie nazioni del mondo
si ispirano a una concezione mista o eclettica della P. considerandola, il più
delle volte, sotto tutti e tre gli angoli visuali qui prospettati. Questo sin-
cretismo non dà nessuna difficoltà dal punto di vista teorico, anche se i tre
punti di vista non hanno tra loro lo stesso grado di omogeneità. I primi due si
legano abbastanza bene insieme e si trovano, anche in linea di fatto,
frequentemente uniti mentre il terzo appartiene a un differente ordine di pen-
siero: i primi due si ispirano a un’etica del fine, l’altro a un'etica del
movente (v. ETICA). Ma le difficoltà cominciano sul terreno pratico, quando si
tratta di stabilire la misura della pena. Su questo campo difatti le tre
diverse concezioni manifestano la loro eterogeneità. Dal primo punto di vista,
tutte le infrazioni all’ordine della giustizia sono equivalenti: un furto insignificante
rompe quest'ordine come un delitto perpetrato con frode o violenza. Dal secondo
punto di vista, si è portati a credere che la pena, come la purga, sia tanto
più efficace quanto è più forte. Ed è solo dal terzo punto di vista, come già
notava Hegel, cioè dal punto di vista della dannosità per la società civile,
che le P. si lasciano graduare con una misura op- portuna (cfr. HeGEL, Fil. del
Dir., $ 218). Su questo terreno pertanto la confusione o la mescolanza dei vari
concetti di P. è tutt'altro che innocente ed è il motivo principale del
disordine e delle sperequa- zioni esistenti nei sistemi penali vigenti.
PENSANTE, PENSIERO. V. ATTUALISMO. PENSIERO (gr. vénow, duvora; lat. Cogitatio;
ingl. Thought; franc. Pensée; ted. Denken). Si pos- sono distinguere i seguenti
significati del termine: 1° qualsiasi attività mentale o spirituale; 2° l’atti-
vità dell’intelletto, o della ragione in quanto distinta 42 — ABBAGNANO,
Dizionario di filosofia. 657 da quella dei sensi e della volontà; 3° l’attività
discorsiva; 4° l’attività intuitiva. 1° Il significato più vasto del termine,
per il quale con esso si intende qualsiasi attività spiri- tuale o l’insieme di
tali attività, fu introdotto da Cartesio. «Con la parola ‘pensare’, egli
diceva, intendo tutto ciò che accade in noi in modo tale che noi lo percepiamo
immediatamente da noi stessi: perciò non solamente intendere, volere, im-
maginare, ma anche sentire è la stessa cosa che pensare » (Princ. Phil., I, 9;
cfr. Méd., ID). Questo significato si trova conservato nei cartesiani (cfr., ad
es., MALEBRANCHE, Recherche de la vérité, I, 3, 2) e accettato da Spinoza che
include tra i modi del P. «l’amore, il desiderio e ogni altra affezione del-
l'animo » (Et., II, assioma III). Locke accennava a questo significato, pur notando
che in inglese pen- siero significa più propriamente « l’operazione dello
spirito sulle proprie idee » (cioè P. discorsivo) e pre- ferendo perciò la
parola « percezione» (Saggio, II, 9, 1). Lo stesso significato veniva accettato
da Leibniz che definiva il P. come «una percezione congiunta con la ragione,
percezione che le bestie, per quanto possiamo vedere, non posseggono? (Op., ed.
Erdmann, pag. 464); e osservava che si poteva prendere il termine P. anche nel
significato più generale di percezione, nel qual caso il P. ap- parterrebbe a
tutte le entelechie (cioè anche agli animali) (Nouv. Ess., II, 21, 72). La
tradizione di questo significato si interrompe con Kant e non viene più ripresa
nella filosofia moderna. 2° Il secondo significato è quello per cui il termine
designa l’attività dell’intelletto in genere, .in quanto è distinta da un lato
dalla sensibilità, dall’altro dall’attività pratica. In questo significato
Platone adopera talvolta la parola vénow, come quando designa con essa l’intera
conoscenza in- tellettiva, che comprende sia il P. discorsivo ($wvota) sia
l'intelletto intuitivo (voce) (Rep., VII, 534); talaltra la parola Suvoa, come
fa quando definisce il P. in generale come il dialogo dell’anima con se stessa.
«Quando l’anima pensa, egli dice, non fa altro che discutere con se stessa per
via di do- mande e risposte, affermazioni e negazioni; e quando, presto o tardi
o d’un subito, si determina e asserisce e non dubita più, diciamo che essa è
giunta ad una opinione» (7eer., 190e, 19la; cfr. Sof., 264 e). Nello stesso
senso generale Ari- stotele adopera la parola Suvowa come quando dice: «
Pensabile significa ciò di cui c'è un P.» (Met., V, 15, 1021 a 31). Questo
significato, che è il più esteso (dopo quello precedente), si è conservato nella
tradizione e viene condiviso da tutti coloro che ammettono la nozione
dell’intelletto come facoltà di pensare in generale: in realtà le due nozioni
coincidono. 658 S. Agostino (De Trin., XIV, 7) e S. Tommaso (S. Th., II, 2, q.
2, a. 1) ammettono questo signi- ficato generico accanto a quello specifico di
P. di- scorsivo (v. oltre). Il P., in questo senso, costituisce l’attività
propria di una certa facoltà dello spirito umano in quanto distinta da altre
facoltà e precisa- mente quella di cui è propria l’attività conoscitiva
superiore (non sensibile). Wolff definiva in questo senso: « Diciamo di pensare
quando siamo consa- pevoli di quel che accade in noi e che rappresenta le cose
che sono fuori di noi» (Psychol. empirica, $ 23). Questo significato costituisce
anche oggi l’uso più comune del termine nel linguaggio ordinario. 3° Il terzo
significato di P. è quello che lo specifica come P. discorsivo. È questo il P.
che Platone chiamava dianoia e considerava come l’or- gano proprio delle
scienze propedeutiche cioè del- l'aritmetica, della geometria, dell'astronomia
e della musica: P. che Platone riteneva avvicinamento e preparazione al
pensiero intuitivo dell’intelletto (Rep., VI, S11 d). S. Agostino negava che il
Verbo di Dio potesse chiamarsi P. in questo senso (De Trin., XV, 16); e lo
negava S. Tommaso, perchè il pensare è in questo senso «una considerazione
dell’intelletto accompagnata dall’indagine, anteriore, perciò, alla perfezione
che l'intelletto attinge nella certezza della visione » (S. 7h., II, 2, q. 2,
a. 1; cfr. I, q. 34, a. 1). Questo è, secondo S. Tommaso, il significato « più
proprio » della parola « P.». E a questo significato è riconducibile l’altro
che egli distingue come terzo significato (il primo essendo quello generico di
cui al n. 2) del P. come «atto della facoltà cogitativa» (virtus cogitativa) o
ragione particolare (ratio particularis); che è il P. che cor- risponde alla
capacità valutativa degli animali e consiste nel riunire e paragonare le
intenzioni par- ticolari, come la ragione intellettiva o P. discorsivo consiste
nel riunire e paragonare le intenzioni universali (Ibid., I, q. 78, a. 4). Vico
non faceva che esprimere gli stessi concetti affermando, nel De antiquissima
Italorum sapientia (1710) che a Dio appartiene l’intendere (intelligere) che è
la co- noscenza perfetta, risultante da tutti gli elementi che costituiscono
l'oggetto e all’uomo solo il pensare (cogitare) che è quasi l’andar
raccogliendo alcuni degli elementi costitutivi dell’oggetto (De anriquis- sima
Italorum sapientia, I, 1). Alla stessa nozione di P. si riferiva l’empirismo
quando affermava, per es., con Hume che tutto ciò che il P. può fare con- siste
« nel potere di comporre, trasportare, aumen- tare o diminuire i materiali
forniti dai sensi e dalla esperienza » (/ng. Conc. Underst., 1I; trad. ital.,
1910, pag. 17). E questo è infine il concetto che del P. ebbe Kant. « Pensare,
egli disse, è collegare rappre- sentazioni in una coscienza +» (Prol/., $ 22).
Il che significa che « pensare è la conoscenza per con- PENSIERO cetti »; che
«i concetti si riferiscono come predicati di giudizi possibili a qualche
rappresentazione di un oggetto ancora indeterminato» e che pertanto, quando
questo oggetto non è dato all’intuizione sensibile, si ha bensì un «P. formale»
ma non una conoscenza vera e propria che consiste nella unità del concetto e
dell’intuizione (Crif. R. Pura, Anal. dei concetti, sez. 1, $ 22). Al P. in
questo senso si riferiva Hamilton considerandolo « l’atto o il prodotto della
facoltà discorsiva o facoltà delle re- lazioni » (Lectures on Logic, V, 10; I,
pag. 73). Dal punto di vista di questa nozione, l’attività del P. è definita in
termini di sintesi, unificazione, confronto, coordinazione, selezione,
trasformazione, ecc., dei dati che sono offerti al P., ma non da lui stesso
prodotti. Pertanto la caratteristica del P. come at- tività discorsiva è in
ultima analisi una caratteri- stica negativa: il P. discorsivo non si
identifica mai con il suo oggetto ma verte intorno a questo og- getto cioè lo
caratterizza o lo esprime. In questo senso Frege chiama P. il contenuto di una
propo- sizione cioè il suo senso (v.) («Uber Sinn und Bedeu- tung», $ 5; trad.
ital., in Aritmetica e logica, pag. 225). In questo stesso senso Wittgenstein
diceva: « Il P. è la proposizione significante » e identificava P. e
linguaggio, sul fondamento che «la totalità delle proposizioni è il linguaggio»
(Tracratus logico- philosophicus, 3.5; 4; 4.001). 4° La caratteristica propria
del concetto del P. come intuizione è la sua identità con l’oggetto. Il P. è in
questo senso l’attività propria dell’intel- letto intuitivo: cioè di
quell’intelletto che è visione diretta dell'intelligibile, secondo Platone
(Rep., VI, 511 c); o che, secondo Aristotele, si identifica con l’intelligibile
stesso nella sua attività (Mer., XII, 2, 1072 b 18 sgg.). Per il P. così inteso
gli antichi usarono costantemente la parola inze/letto (v.) e si è visto come
S. Agostino e S. Tommaso si rifiutassero di estendere ad esso il significato di
« P. ». Ma nell’idealismo romantico, mentre l’in- telletto veniva degradato a
facoltà dell’immobile (v. INTELLETTO), il P. veniva promosso al posto già
tenuto dall’intelletto intuitivo e identificato con esso. Così fece per primo
Fichte identificando il P. stesso con l’Io o Autocoscienza infinita (Wis-
senschaftslehre, 1794, $ 1) e così fecero Schelling e Hegel. Schelling
affermava: « Il mio io contiene un essere che precede ogni pensare e
rappresentare. Esso è in quanto è pensato ed è pensato perchè è... Esso si
produce con il mio P., per via di una cau- salità assoluta» (Vom Ich als
Prinzip der Philosophie, 1795, $ 3). Hegel a sua volta espresse nella forma più
chiara l’identificazione del P. con l’autoco- scienza creatrice cioè come
attività che coincida con la sua propria produzione. Definendo la logica come
«scienza del P.» egli affermava che « essa PERCEZIONE contiene il P. in quanto
è insieme anche la cosa in se stessa o contiene la cosa in se stessa in quanto
è insieme anche il puro P.» (Wissenschaft der Logik, Intr., Concetto generale;
trad. ital, I, pag. 32). E partendo dal concetto discorsivo del P. così Hegel
giunge al concetto intuitivo di esso: « Il P. nel suo aspetto più prossimo
appare anzitutto nel suo ordinario significato soggettivo, come una delle
attività o facoltà spirituali accanto ad altre, alla sensibilità,
all’intuizione, alla fantasia, all’appeti- zione, al volere, ecc. Il prodotto
di questa attività, il carattere o forma del P. è l’universale, l’astratto in
genere. Il P. come attività è perciò l’universale attivo, è propriamente quello
che fa se stesso giacchè il fatto, il prodotto, è appunto l’univer- sale. Il
P., rappresentato come soggetto, è il pen- sante; e la semplice espressione del
soggetto esi- stente come pensante è l’io » (Enc., $ 20). In altri termini il P.
è insieme l’attività produttiva e il suo prodotto (l’universale o concetto): è
perciò l’es- senza o la verità di ogni cosa (Zbid., $ 21). Da Hegel in poi
questa nozione intuitiva del P. è stata talora qualificata dai suoi sostenitori
come il concetto «speculativo » del P. stesso: e assunto come l’unico concetto
adeguato del P. inteso nella sua infinità, nella sua forza creatrice. Ma in
realtà si è sempre trattato dalla vecchia nozione di in- telletto intuitivo,
estesa anche all’uomo, senza più tener conto dei limiti e delle condizioni che
gli antichi ponevano a questa estensione. PENTIMENTO (lat. Paenitentia; ingl.
Re- pentance; franc. Repentir; ted. Reue). L'afflitto ri- conoscimento d’una
propria colpa. Questa è la definizione sulla quale i filosofi si accordano, pur
esprimendola con parole diverse (S. ToMMASsO, S. Th., III, q. 85, a. 1;
CARTESIO, Passions de l’dme, IN, 191; Spinoza, Etica, III; Definizione delle
pas- sioni, 27; HegeL, Werke, ed. Glockner, X, pa- gina 372; ecc.). I filosofi
sono pure d’accordo nell’ammettere il valore morale del pentimento. Spi- noza
per quanto ritenga che il P. « non è una virtù cioè non deriva dalla ragione »
e che pertanto chi si pente è doppiamente misero o impotente (cioè una volta
perchè ha agito male e una seconda volta perchè se ne affligge) riconosce che
colui che è sottoposto al P. si può tuttavia ridurre molto più facilmente degli
altri a vivere secondo ragione (Eth., IV, 54). Montaigne che dedicò al P. uno
dei suoi più notevoli saggi (Essaîs, III, 2) aveva tuttavia notato che il P.
non deve trasformarsi nel desiderio «di essere un altro ». « Il P., egli
scrisse, non tocca propriamente le cose che non sono in nostro potere, come non
le tocca il rimpianto. Io immagino infinite nature più alte e più regolate
della mia; ma con ciò non miglioro le mie facoltà come il mio braccio e il mio
spirito non divengono più vigorosi perchè 659 io ne concepisca un altro che lo
sia » (/bid., ed. Rat, III, pag. 28). In senso analogo si esprime Kierkegaard
che ha visto nel P. il punto culminante della vita etica e nello stesso tempo
il segno del suo interno con- flitto. Il P. è inerente alla scelta che, nella
vita etica, l’uomo fa di se stesso. « Scegliere se stessi è iden- tico al
pentirsi di se stesso... Anche il mistico si pente, ma si pente fuori di sè non
dentro di sè; si pente metafisicamente e non eticamente. Pentirsi esteticamente
è repellente perchè è una sdolcinatura; pentirsi metafisicamente è cosa inutile
e fuori posto poichè non è l’individuo che ha creato il mondo e non occorre che
egli si prenda tanto a cuore }a vanità del mondo stesso » (Entweder -Oder, in
Werke, II, pag. 223; Furcht und Zittern, in Werke, II, pag. 143). Cfr. M. ScHELER, Reue und
Wiedergeburt, in Vom Ewigen im Menschen, 4* ediz., 1954. PER ACCIDENS (gr. xatà cvpfefyx6c). Ciò che è o
accade senza connessione necessaria col soggetto dell’accadimento, come quando
accade che un musico costruisce; difatti tra l’esser musico e l’esser
costruttore non c'è connessione (confronta ARISTOTELE, Mer., V, 7, 1017a 10).
PERATOLOGIA. Termine con cui Ardigò in- dicò la parte generale della filosofia
cioè quella parte che ha per oggetto ciò che è al di là dei sin- goli campi
delle scienze filosofiche speciali cioè della psicologia e della sociologia
(Opere filoso- fiche, II, 1884, passim). PERCETTO (ingl. Percepi). Nel
linguaggio della psicologia contemporanea, il P. è l’esperienza privata di un
oggetto cioè il modo in cui l’oggetto appare a un singolo soggetto. Il nome è
stato co- niato per analogia con « concetto ». PERCEZIONE (gr. dvraiyic; lat.
Perceptio; ingl. Perception; franc. Perception; ted. Wahr- nehmung, Perception). Si possono distinguere di
questo termine tre significati principali: 1° un signi- ficato generalissimo
per il quale designa qualsiasi attività conoscitiva in generale; 2° un
significato più ristretto per il quale designa l’atto o la funzione conoscitiva
cui un oggetto reale è presente; 3° un significato specifico o tecnico per il
quale designa un'operazione determinata dell’uomo nei suoi rap- porti con l’ambiente.
Nel primo significato, la P. non si distingue dal pensiero. Nel secondo signi-
ficato, è la conoscenza empirica cioè immediata, certa ed esauriente,
dell’oggetto reale. Nel terzo significato, è l’interpretazione degli stimoli.
Solo nell’ambito di quest’ultimo significato, si può intendere quello che la
psicologia oggi discute come « problema della percezione ». 1° Nel suo
significato più generale il termine fu adoperato da Telesio, il quale disse che
« la sensa- zione è la P. delle azioni delle cose, degli impulsi 660 dell'aria
e delle proprie passioni e mutazioni, soprattutto di queste » (De rer. nat.,
VII, 3). Questa dottrina era presentata in opposizione polemica con la tesi che
la sensazione consistesse sempli- cemente nell’azione delle cose o nella
modificazione dello spirito: Telesio insiste che essa invece consiste nella P.
dell’una o dell’altra. La stessa dottrina veniva difesa da Bacone che
esplicitamente si rifaceva alla distinzione di Telesio (De Auem. Scient., IV,
3). E Cartesio a sua volta adoperava la parola per indicare tutti gli atti
conoscitivi, in quanto passivi rispetto all’oggetto, nei confronti degli atti
della volontà che sono attivi (Passions de l’éme, I, 17). Cartesio divise le
percezioni in quelle che si rapportano agli oggetti esterni, quelle che si
rapportano al corpo e quelle che si rapportano all'anima (/bid., I, 23-25). In
questo senso genera- lissimo, la parola fu usata anche da Locke: «La P. è la
prima facoltà dell’anima che si eserciti intorno alle nostre idee; perciò è la
prima idea che noi raggiungiamo per mezzo della riflessione e la più
semplice... Nella pura e semplice P., lo spirito, d’ordinario, è solamente
passivo non potendo a meno di percepire ciò che in atto percepisce» (Saggio,
II, 9, 1). Allo stesso modo, Leibniz intende la P. come ciò che l’anima
dell’uomo e l’anima del- l’animale hanno in comune, cioè come « l’espressione
di molte cose in una» e la distingue dalla apper- cezione o pensiero per il
fatto che quest’ultima è accompagnata dalla riflessione (Nouv. Ess., II, 9, 1;
cfr. Op., ed. Erdmann, pag. 438, 464, ecc.). Non diverso è il senso generale
che Kant attribuì alla parola chiamando P. una « rappresentazione con coscienza
» e distinguendola in sensazione, se essa viene riferita soltanto al soggetto e
conoscenza se è oggettiva (Crit. R. Pura, Dialettica, Libro I, sez. 1). È
abbastanza ovvio che P. in questo senso significa lo stesso che pensiero in
generale; e lo stesso Locke notava questa identità di significato, pur
preferendo per suo conto la parola P., perchè pensiero in inglese indica «
l’operazione dello spirito sulle proprie idee » mentre nella P. lo spirito
ordi- nariamente è passivo (Saggio, II, 9, 1). 2° Il secondo significato del
termine è più ristretto ed esprime l’atto conoscitivo oggettivo, quello che
afferra o manifesta un oggetto reale determinato (fisico o mentale). Questo è
il significato originario del termine, quale fu usato dagli Stoici come
equivalente di comprensione (xattAnpic): «Gli stoici definiscono a questo modo
la sensazione: la sensazione è P. mediante il sensorio oppure comprensione »
(AEzio, P/ac., IV, 8, 1; cfr. EPICURO, Fr. 250; PLoTINO, Enn., VI, 7, 3, 29;
ecc.). Cicerone tradusse con perceptio il termine greco, avendo so- prattutto
di mira il senso di rappresentazione catalet- tica (Acad., II, 6, 17; De
finibus, III, 5, 17); e in PERCEZIONE senso analogo il termine fu usato da S.
Agostino (De Trin., IV, 20) e da S. Tommaso il quale ultimo in- tendeva con
esso « una certa conoscenza sperimen- tale » (S. 7A., I, q. 63, a. 5, ad 2°).
La parola veniva reintrodotta nell’uso filosofico da Telesio e Bacone (come si
è detto) e da essi il suo significato comin- ciava ad essere distinto da quello
di sensazione. Ma soltanto Cartesio ne stabiliva il nuovo e più complesso
significato. Parlando delle percezioni esterne, egli affermava che, per quanto
esse siano prodotte da movimenti provenienti dalle cose esterne, « noi le
riferiamo alle cose che supponiamo esser loro cause in modo tale da credere di
vedere la torcia e di udire la campana, quando invece sentiamo solamente i
movimenti che vengono da esse» (Passions de l’îme, I, 23). Da questo punto in
poi la distinzione tra sensazione e P. diventa un teorema fondamentale della
teoria della per- cezione. Questa distinzione viene espressa da C. Bonnet
(Essai analytique sur les facultés de l’îame, 1759, XIV, 195-96) e dalla scuola
scozzese nel senso comune, specialmente da Reid (/nquiry into the Human Mind,
1764, VI, 20). In virtù di essa la sensazione viene ridotta all’idea semplice
di Locke: ad un’unità elementare prodotta diretta- mente nel soggetto
dall’azione causale dell’oggetto. La P., dall'altro lato, diventa un atto
complesso che include una molteplicità di sensazioni, presenti e passate,
nonchè il loro riferimento all'oggetto, cioè un atto giudicativo. Già Kant
identificando la P. con l’intuizione empirica (Prol., $ 10), che è la
conoscenza oggettiva cioè il risultato dell'attività giudicante esercitata sul
molteplice sensibile, aveva considerato incluso nella P. l’atto giudicativo. La
presenza di un giudizio alla P. diviene un luogo comune nella filosofia del
sec. xrx. Hegel non faceva che portare al limite questa tesi, quando
considerava la P., e la cosa che ne è l’oggetto, come un prodotto
dell’Universale, cioè della Coscienza o del Pensiero. « Per noi o in sè, egli
diceva, l’Universale come principio è l’essenza della P., e di contro a questa
astrazione i due distinti, il percipiente e il percepito, sono l’inessenziale »
(Phdnomen. des Geistes, I, Co- scienza, II; trad. ital., I, pag. 97). Ma al di
fuori di questa tesi estremistica (che è stata tuttavia ripe- tuta sino a
qualche tempo fa dalle scuole idealistiche) la distinzione tra sensazione e P.
e il riconoscimento del carattere attivo o giudicativo della P. ha avuto come
base il riferimento di essa all'oggetto esterno. Così fece Hamilton, che si
ispirava alla dottrina della scuola scozzese (Lectures on Metaphysics, 5®
ediz., 1870, II, pag. 129 sgg.); e così fece Spencer che molto contribuì a
diffondere questo punto di vista (Principles of Psychology, 1855, $ 353). Bol.
zano (Wissenschaftslehre, 1837, I, pag. 161), Bren- tano (Psychologie vom
empirischen Standpunkte, PERCEZIONE 1874, I, 3, $ 1), Helmoltz (Die Tatsachen
in der Wahrnehmung, 1879, pag. 36) sottolineavano l’azione del pensiero o
dell’intelletto nella P.; e Brentano identificava la P. stessa con il giudizio
o la cre- denza (/oc. cit.). In senso non diverso, Husserl distingueva la P.
dagli altri atti intenzionali della coscienza in base al tratto che essa
permette di « af- ferrare» l'oggetto (/deen, I, $ 37). Alla percezione la cosa
stessa è presente nel suo essere, come è presente alla cosa il soggetto che
percepisce (cfr. G. BRAND, Welt, Ich und Zeit, 1955, 3). Solo apparentemente
diversa è la nozione bergsoniana della « P. pura ». Dice Bergson: «La P. non è
che una selezione. Essa non crea nulla: il suo compito è quello di eliminare
dall’insieme delle immagini tutte quelle sulle quali io non avrei alcuna presa
e poi, dalle immagini ritenute stesse, tutto ciò che non interessa i bisogni di
quell'immagine particolare che chiamo corpo + (Matiére et mémoire, pag. 235).
In questo modo la P. delineerebbe, nello sterminato campo delle immagini
conservate della coscienza, l'oggetto determinato da servire ai bisogni
dell’azione e che delimita l’azione possibile del mio corpo. Ma anche cosl il
compito della P. rimane quello di afferrare o delineare un oggetto. Il concetto
di P. cui queste dottrine fanno riferi- mento, è sufficientemente uniforme: la
P. è l’atto con cui la coscienza « afferra » o « pone + un oggetto; e
quest’atto utilizza un certo numero di dati ele- mentari, cioè di sensazioni.
Tale concetto suppone pertanto: 1° la nozione di coscienza come attività
introspettiva o autoriflessiva; 2° la nozione dell’og- getto percepito come
un’entità singola perfettamente isolabile e data; 3° la nozione di unità
elementari sensibili. L'abbandono di questi tre presupposti ca- ratterizza la
nuova fase del problema della P., propria della psicologia e della filosofia
contemporanee. 3° Per il terzo concetto, la P. non è che l’inter- pretazione
degli stimoli, cioè il ritrovamento o la costruzione del significato di essi.
Questa definizione è una formula semplificata e generica per esprimere i tratti
più evidenti che alla P. riconoscono le teorie psicologiche contemporanee. F.
H. Allport ha enumerate (e criticamente analizzate) tredici tali teorie
(Theories of Perception and the Concept of Structure, 1955). Bisogna tuttavia
osservare che esse, proposte, come sono quasi tutte, da psi- cologi ricercatori
che le hanno formulate come generalizzazioni sperimentali, raramente rappresen-
tano alternative che si escludano mutuamente, mentre il più delle volte non
fanno che porre in evidenza o considerare come fondamentali fattori o
condizioni che un certo ordine di ricerche ha messo in luce. Si possono,
tuttavia, distinguere due gruppi di teorie: a) quelle che insistono sull’im-
portanza dei fattori o delle condizioni oggettive; 661 b) quelle che insistono
sull’importanza dei fattori o delle condizioni soggettive. a) Al primo gruppo
di dottrine appartiene in primo luogo la psicologia della forma (Gestalt-
theorie) che è sostanzialmente una teoria della percezione. La psicologia della
forma s’inizia con il lavoro di Max Wertheimer sulla P. del movimento (1912) e
ha come suoi altri rappresentanti principali Wolfgang Kéhler (Gestalt
Psychology, 1929) e Kurt Koffka (Beitràge zur Psychologie der Gestalt, 1919).
L’obbiettivo polemico della psicologia della forma sono i presupposti 2° e 3°
della concezione tradizionale della percezione. Essa ha mostrato, in primo
luogo, che non esistono (salvo che come astrazione artificiale) sensazioni
elementari che entrino a comporre la P. di un oggetto; e in secondo luogo che
non esiste un oggetto di P. come entità isolata o isolabile. Ciò che si
percepisce è una totalità che fa parte di una totalità. La psicologia della
forma si è dedicata a determinare le «leggi» in base alle quali tali totalità
sono costituite, cioè le «leggi di organizzazione ». Esse sono quelle della prossimità,
della somiglianza, della direzione, della buona figura, del destino comune,
della chiu- sura, ecc.: leggi che possono essere vedute in atto anche in
esperienze semplicissime: come, ad es., quelle che rivelano la tendenza a
raggruppare insieme, in un’unica percezione, segni simili o sufficientemente
vicini o costituenti una figura regolare. L'affermazione fondamentale della
teoria della forma è che la P. concerne sempre una totalità, le cui parti, se
considerate separatamente, non presentano i suoi stessi caratteri; che sono
quelli della massima semplicità e chiarezza possibile e della massima possibile
simmetria e regolarità. Tali caratteri hanno convinto talvolta i gestaltisti ad
ammettere la cosiddetta teoria del « tutto determinante »: cioè la teoria che
il tutto tra- scende le sue parti e determina dinamicamente le parti stesse
secondo leggi sue proprie. Il tutto rassomiglia così alla «cosa + di cui parla
Husserl, nei confronti della P. trascendente: in quanto l'essenza della cosa
integra in sè, e nello stesso tempo trascende, la totalità delle sue
apparizioni. Questa è la teoria della P. che è sostanzialmente accettata nella
Phénoménologie de la perception (1945) di M. Merleau-Ponty. Un'importante
variante di essa è la teoria del campo topologico di Lewin secondo la quale
l’individuo, ridotto a un punto privo di di- mensioni, è sottoposto all’azione
delle forze che agiscono nel campo e che egli sente come estranee al suo corpo.
In questa condizione l’individuo è considerato in «locomozione» cioè come
moventesi verso una meta positiva o come allontanantesi da una meta negativa.
Lo spazio in cui avviene questo movimento è il cosiddetto « spazio di vita »
662 cioè la regione nella quale l’individuo ha esperienza della sua azione: uno
spazio che non ha proprietà metriche o direzioni determinate ed è perciò fopo-
logico, nel senso che può avere ad ogni momento qualsiasi dimensione o forma
geometrica, purchè conservi le proprietà che rendono possibile il movi- mento
(LEWIN, Principles of Topological Psychology, 1936). Varianti di questa teoria
possono essere considerate quella di Hebb che fa corrispondere al campo
percettivo un campo fisiologico cioè un « meccanismo di azione neutrale
selettiva » che pren- derebbe posto, per ogni particolareP., in qualche punto
del sistema nervoso centrale (The Organization of Behavior, New York, 1949); e
quella del « campo tonico-sensorio » secondo la quale «le proprietà percettuali
di un oggetto sono una funzione del modo in cui gli stimoli provenienti
dall’oggetto mo- dificano l’esistente stato tonico-sensorio dell’orga- nismo »
(WERNER e WAPNER, « Toward a General Theory of Perception», in Psychological
Review, 1952, pag. 324-38). Tutte le teorie qui accennate, imperniate come sono
sui concetti di «totalità » o di «campo», privilegiano in qualche modo
l’aspetto oggettivo della percezione. b) Un secondo gruppo di teorie tiene
invece d’occhio prevalentemente l’aspetto soggettivo della P. medesima. Per
tali teorie, cade anche il presup- posto 1° della concezione 2* della P., cioè
quello della coscienza. Queste dottrine infatti non fanno ricorso alla nozione
di coscienza e alla considera- zione introspettiva. Una mole imponente di
osser- vazioni sperimentali ha messo in luce l’importanza, per la P., dello
stato di preparazione o predisposi- zione del soggetto cioè di quello che si
chiama solitamente l’apparecchiatura (set) percettiva. Il fatto fondamentale è
che l'essere apparecchiati per un certo stimolo o per una certa reazione ad uno
stimolo, facilita l’atto del percepire o lo fa compiere con maggiore prontezza,
energia o intensità. L’appa- recchiatura è, in altri termini, un processo
selettivo che determina preferenze, priorità, differenze quali- tative o
quantitative in ciò che si percepisce. L’apparecchiatura non è qualcosa di
diverso dallo stesso processo percettivo nè è un meccanismo innato o
prefissato, ma uno schema variabile che è appreso o costruito, per quanto non
sempre volontariamente (cfr. il cap. 9 della citata opera di Allport). Le più
recenti teorie della P. tengono largamente conto di questi fatti. La teoria
rransa- zionale, per es., considera, in base ad essi, la P. come una
transazione cioè come un accadimento che prende posto tra l’organismo e
l’ambiente e non può quindi essere ridotto nè all’azione dell’og- getto o del
soggetto nè all’azione reciproca dei due. Come transazione, la P. deriva la sua
natura dalla situazione totale in cui prende posto e ha le sue PERCEZIONE
radici sia nell'esperienza passata dell’individuo sia nelle sue aspettazioni
per il futuro (DEWEY e BENTLEY, Xnowing and the Known, 1949; CANTRIL, AMES,
HAsTORF, ITTELSON, «Psychology and Scien- tific Research», in Science, 1949,
pag. 461, 491, 517; ITTELSON e CANTRIL, Perception: a Trans- actional Approach,
1954). Da questo punto di vista può essere agevolmente posto in luce il ca-
rattere attivo e selettivo della P., il fatto che essa si avvale di indizi, in
base ai quali rico- struisce il significato dell'oggetto e infine l’altro
tratto fondamentale, cioè che essa è costituita da probabilità, non da
certezze. Questi tratti sono messi innanzi dal cosiddetto funzionalismo che è
stato chiamato il «New.Look» della teoria della P.; ed hanno condotto alla
teoria della motivazione e alla teoria delle ipotesi. La prima teoria che è
detta anche teoria dello « stato direttivo » è fondata sul riconoscimento
dell’infiuenza che i bisogni corporei, le aspettazioni dell’individuo (ad es.,
un castigo o un premio) e la personalità di lui hanno sull’oggetto percepito e
sulla rapidità e intensità della P. (BRUNER e KRECH, Perceprion and Perso-
nality: a Symposium, Durbam, 1950). Nella seconda teoria confluiscono tutti i
dati sperimentali sui quali hanno fatto leva le teorie del presente gruppo e
buona parte dei dati sperimentali sui quali si fondavano le teorie del primo
gruppo. L’idea fondamentale della teoria dell’ipotesi è che le percezioni (come
d’altronde anche il ricordo o il pensiero) costituiscono ipotesi che
l’organismo avanza in determinate situazioni e che sono confer- mate,
abbandonate o modificate a seconda della situazione stessa. L’apparecchiatura
(ser) di cui parlava una delle precedenti teorie è per l'appunto l’avvio a
un'ipotesi di questo genere. L’apparec- chiatura costituisce infatti
l’aspettazione percettuale, che è fondata sull’esperienza precedente e anticipa
quella futura. Abitualmente, nella P., le apparec- chiature sono state
stabilite da lungo tempo, attraverso la precedente attività percettiva e
possono essere pronte ad entrare in azione quando l’organi- smo entra in una
data situazione. Attraverso tali apparecchiature, l’organismo sceglie,
organizza e trasforma le «informazioni» che gli giungono dall’ambiente. Queste
informazioni sono indizi o segnalazioni che servono sia a «evocare» l’ipotesi
sia a confermarla o smentirla. Le principali correla- zioni funzionali tra le
variabili che la teoria comporta sono le seguenti: I) Più forte è l’ipotesi,
maggiore è la probabilità della sua evocazione e minore la somma di indizi
richiesta per confermarla. Da ciò segue che quando l’ipotesi è debole, è
richiesta per la sua conferma una mole estesa di informazioni appropriate. II)
Più forte è l’ipotesi, maggiore è la somma di indizi richiesta per infirmarla;
e più debole PERFEZIONE l’ipotesi, minore è la quantità di indizi contrari
richiesti per infirmarla (cfr. l'art. di L. PostMAN, in Social Psychology at
the Crossroads, a cura di RoHRER e SHERIF, New York, 1951; e ALLPORT, op. cit.,
cap. 15). Questa teoria non fa che riassu- mere, nella forma meno dogmatica,
sia i dati speri- mentali raccolti da un imponente numero di osser- vatori sia
i tratti essenziali che alla P. avevano riconosciuto le dottrine contemporanee
della psico- logia a partire dalla Gestalttheorie. Tali tratti possono essere
ricapitolati nel modo seguente: 1° la P. non è la conoscenza esauriente e
totale dell’oggetto che le teorie di cui al numero 2° vedevano in essa, ma
un’interpretazione provvi- soria e incompleta, fatta in base a indizi o a
segna- lazioni. 2° La percezione non implica alcuna ga- ranzia della sua
validità cioè alcuna certezza. Essa si mantiene nella sfera del probabile. 3°
Come ogni conoscenza probabile, la P. deriva la sua validità dall’esser messa a
prova e dal riuscire confermata o rigettata dalla prova. 4° La P. non è
conoscenza perfetta e immodificabile, ma possiede la caratte- ristica della
correggibilità. PERCEZIONE INTELLETTIVA. Così Rosmini chiamò l’atto
fondamentale della cono- scenza, in quanto è una sintesi tra l’idea dell’es-
sere in generale e l’idea empirica derivante dalla sensazione (delle cose
esterne) o dal sentimento (che l’io ha di sè) (Nuovo saggio sull'origine delle
idee, 1830, $ 492, 537, ecc.). PERCEZIONI PICCOLE. V. Inconscio. PERCEZIONISMO
(ingl. Perceptionism; fran- cese Perceptionnisme; ted. Perceptionismus). La
dottrina che ammette la realtà degli oggetti della percezione. Lo stesso che
realismo ingenuo (vedi REALISMO). PERFECTIHABIA. Così Ermolao Barbaro tradusse
in latino il termine greco « entelechia » (cfr. LERBNIZ, Monad., $ 48).
PERFETTO (gr. céews; lat. Perfectus; in- glese Perfect; franc. Parfait; ted.
Vollkommen). Aristotele distingueva tre significati del termine: 1° ciò che non
manca di alcuna sua parte o al di là di cui non può trovarsi alcuna parte che
gli appar- tenga; 2° ciò che possiede, nella sua specie, un’ec- cellenza che non
può essere sorpassata; e così è P. un flautista o un ladro di cui non ci sia il
migliore; 3° ciò che ha raggiunto il suo fine, posto che si tratti di un fine
buono (Mer., V, 16, 1021 b 12 sgg.). Nel primo senso è P. ciò che è completo
cioè non manca di alcuna sua parte integrante. Nel secondo senso è P. ciò che è
eccellente rispetto ad altro della stessa specie; nel terzo senso è P. ciò che
è reale o attuale perchè ha raggiunto il suo fine. Questi significati sono
rimasti propri del termine lungo la storia della filosofia. È chiaro che mentre
663 il significato 2° è relativo quindi non metafisico, perchè esprime solo
l’eccellenza relativa di una cosa in un dato ordine di cose, gli altri due sono
assoluti e sono rimasti propri della tradizione metafisica. PERFEZIONE (ingl.
Perfection; franc. Per- fection; ted. Vollkommenheit). Questa parola è stata
usata dai filosofi soltanto corrispondentemente ai significati 1° e 3° del
corrispondente aggettivo: non si considera come P. la P. relativa cioè lo stato
di una cosa che eccelle fra quelle della sua specie. Dice S. Tommaso: « La P.
di una cosa è duplice, cioè prima e seconda. La prima P. è quella per la quale
una cosa è perfetta nella sua sostanza e tale P è la forma del tutto che emerge
dall’integrità delle parti. La P. seconda è quella del fine; ma il fine o è
l’operazione, come il fine del citarista è quello di suonar la cetra; o è la
cosa cui si perviene at- traverso l’operazione, come il fine del costruttore è
la casa che costruisce. La prima P. è causa della seconda P.: la forma è
infatti il principio delle operazioni » (S. 7h., I, q. 73, a. 1). Esattamente
lo stesso concetto veniva esposto da Kant: « La P. indica talvolta un concetto
che appartiene alla filosofia trascendentale, quello della totalità degli elementi
diversi che riuniti insieme costituiscono una cosa; ma esso può intendersi
anche come appartenente alla re/eologia, e allora significa l’ac- cordo delle
proprietà di una cosa con un fine» (Met. der Sitten, Intr., V, A; cfr. Crit.
del Giud., $ 15). Queste determinazioni riducono la P.: 1° alla integrità del
tutto; 2° alla realizzazione del fine. Ma tendono in realtà a privilegiare il
primo concetto che, applicato alla totalità dell’essere, ha portato nella
tradizione filosofica, a identificare P. e realtà. Lo stesso S. Tommaso infatti
ha descritto la P. di Dio e della creatura come consistente nel pos- sesso
dell’essere: « Dio, che è la totalità del suo essere, possiede l’essere secondo
l’intera virtù del- l’essere stesso e non può mancare di alcuna nobiltà che
competa a una cosa qualsiasi. Come ogni nobiltà e P. inerisce a una cosa in
quanto la cosa è, così ogni difetto le inerisce in quanto, in qualche modo, non
è» (Contra Gent., I, 28). Da questo punto di vista una cosa è tanto più
perfetta quanto più ha di essere; e poichè Dio ha tutto l'essere, è totalmente
perfetto. Queste equazioni costituivano luoghi comuni della scolastica
medievale. Lo stesso Duns Scoto le ripete, affermando che la forma nelle
creature implica qualche imperfezione perchè è forma partecipata e parziale,
mentre la forma non ha imperfezione in Dio perchè non è nè par- tecipazione nè
parte (Op. Ox., I, d. 8, q. 4, a. 3, n. 22). Esattamente a questo concetto di
P. faceva ricorso Cartesio affermando che le idee «che rap- presentano sostanze
sono senza dubbio qualcosa di più e contengono in sè più realtà oggettiva cioè
664 partecipano per rappresentazione a più gradi d’es- sere 0 di P., di quelle
che rappresentano soltanto modi o accidenti » (Med., III). Esplicitamente Spi-
noza identificava realtà e P. (Zr., II, def. 6); e Leibniz dichiarava di
intendere per P. « la grandezza della realtà positiva presa precisamente,
mettendo da parte i limiti o i confini delle cose che la posseg- gono» (Monad.,
$ 41). Kant parlava in questo senso di una P. frascendentale che è «l’integrità
di ogni cosa nel suo genere + e di una P. metafisica come « l'integrità di una
cosa semplicemente come cosa in genere», distinguendo da esse la P. come
attitudine o convenienza di una cosa a vari fini (Crit. R. Prat., I, I, cap. I,
scol. II). Il concetto di P. è rimasto fissato, nel corso ulte- riore della
filosofia, da queste determinazioni: come integrità del tutto o rispondenza al
fine; e co- stantemente, nel primo significato, è stato iden- tificato con il
concetto di essere. Fuori delle sue sopravvivenze metafisiche e teologiche, la
nozione di P. viene scarsamente utilizzata nella filosofia contemporanea.
Quando viene utilizzata, il riferi- mento ai significati tradizionali è
evidente: così accade, ad es., in Bergson che identifica la P. con l’assoluto
ed entrambi con la totalità dell’essere (‘ Introduction à la Métaphysique », in
La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 204). PERFEZIONISMO (ingl.
Perfectionism; fran- cese Perfectionnisme; ted. Perfektionismus, Perfekti-
bilismus). La parola viene adoperata (raramente) in due significati: 1° per
indicare l’ideale morale che consiste nel perseguire la propria o altrui
perfezione morale, cioè la capacità di agire in conformità del dovere: capacità
che implica anche la cultura delle facoltà fisiche e mentali dell’uomo. In
questo senso è P. l'ideale morale espresso da Kant nella introduzione al
secondo volume della Metafisica dei costumi; 2° per indicare la credenza nel
progresso accompagnata dall’impegno di contribuire al pro- gresso stesso. In
questo senso la parola viene talora usata nella filosofia anglosassone
contemporanea. PERFORMATIVO (ingl. Performative; fran- cese Performatif). Così
John L. Austin ha chia- mato una classe di enunciati che hanno la forma apparente
degli enunciati descrittivi ma non sono tali e rispondono a due condizioni: 1°
Non descri- vono nè riportano nè constatano nulla e non sono veri o falsi. 2°
Il pronunciare l’enunciato è l’effet- tuazione di un’azione o di una parte di
essa e precisamente di un’azione che non è normalmente descritta come un
semplice « dire qualcosa ». Esempi di P. sono il classico «Si» con cui gli
sposi ri- spondono alla domanda sacramentale nel corso di una cerimonia
matrimoniale; o le frasi seguenti: «Io chiamo questo bastimento ‘ Regina
Elisabetta ’ » pronunziata nella cerimonia del varo di una nave PERFEZIONISMO
quando si spezza la bottiglia contro lo scafo; « Lascio in eredità il mio
orologio a mio fratello » o frasi simili che ricorrono nei testamenti; « Scom-
metto con te mille lire che domani pioverà » (cfr. How to do Things with Words,
1962, pag. 5). Austin ha chiamato illocuzione (illocution) il P. per
distinguerlo dalla locuzione che è un’espressione fornita di denotazione e
connotazione, e dalla perlocuzione, che è la forma persuasiva di un’espres-
zione (/bid., pag. 98 sgg.). PERIEKON. V. ORIZZONTE. PER IMPOSSIBILE. V.
Assurpo. PERIPATETISMO. V. ARISTOTELISMO. PERIPEZIA (gr. repinttea; ingl.
Peripety; franc. Péripétie; ted. Peripetie). Secondo Aristo- tele, uno degli
elementi fondamentali della tragedia e precisamente dell'intreccio tragico.
Consiste in un cambiamento improvviso di condizioni o di fortuna che deve
prodursi in modo verosimile e necessario (Poer., 11, 1452a 22). PERLOCUZIONE.
V. PERFORMATIVO. PER LO PIÙ (gr. tri tè rod; ingl. Mostly; ted. Zumeist).
L'espressione è adoperata da Ari- stotele per indicare ciò che accade in modo
uni- forme e costante ma non sempre e di necessità; accidentale è ciò che non
accade nè sempre nè per lo più (Mer., VI, 2, 1026 b 30). Ciò che è sempre o di
ecessità è l'oggetto delle scienze teoretiche; ciò che è per lo più, è oggetto
delle scienze pratico- poietiche; l’accidentale non può essere oggetto di
scienza. Heidegger ha adoperato l’espressione per indicare l'insieme dei modi
d’essere che costitui- scono la «medietà» (Sein und Zeit, $ 9) (v. ME- DIETÀ).
PERMANENZA (ingl. Permanence; francese Permanence; ted. Beharrlichkeit).
Secondo Kant «la P. esprime in generale il tempo come corre- lato costante di
ogni esserci dell'apparenza, di ogni mutamento e di ogni concomitanza ». La P.
è in altri termini il tempo come durata (Crif. R. Pura, Anal. dei princ., cap.
II, sez. 3, Prima analogia) (v. ANALOGIE DELL'ESPERIENZA). PERPETUITÀ. V.
ETERNITÀ. PER SÈ (gr. xad'asré; lat. Per se; ingl. By itself; franc. Par soi;
ted. Fr sich). Ciò che è in virtù della sua sostanza e non per altro; o che è
nella coscienza e per la coscienza. Questi sono i due significati fondamentali
del termine, che risal- gono rispettivamente ad Aristotele e Hegel. A) Per suo
conto, Aristotele (Mer., V, 18, 1022 a 24 sgg.) enumerava cinque significati
del termine: 1° si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù della sua
essenza necessaria o sostanza. Ad es., Callia è per sè ciò che egli è
sostanzialmente, cioè uomo; PERSONA 2° si dice che una cosa è per sè ciò che
essa è in virtù di una parte della sua essenza necessaria cioè in virtù di una
parte della sua definizione (giacchè la definizione esprime l’essenza
necessaria). In tal senso si dice che Callia è per sè animale perchè «animale »
è parte della definizione di Callia; 3° in terzo luogo si dice che una cosa è
per sè ciò che essa è in virtù di una sua qualità o deter- minazione primaria.
In tal senso si dice che l’uomo è per sè vivo in quanto la vita è una sua
determina- zione primaria (essendo parte dell’anima, che è sostanza dell’uomo);
4° si dice per sè quello ché non ha, o di cui non si considera, una causa
esterna. In questo senso l’uomo è per sè in quanto è uomo, cioè in quanto la
sua causa è la sua stessa sostanza, non in quanto è animale o bipede, ecc.; 5°
si dice che è per sè la cosa che è ciò che le appartiene in proprio o
appartiene a essa soltanto. In tal senso si può dire che l’anima per sè pensa.
Questi cinque significati sono in realtà tutti ri- conducibili al primo cioè a
quello per il quale si dice che è per sè la cosa che è in virtù della sua
sostanza. Difatti il significato 2° si riferisce alle parti della sostanza, il
significato 3° alle qualità o determinazioni che derivano dalla sostanza, il
significato 4° e il significato 5° alla causalità propria della sostanza. Il
significato fondamentale o gene- rico, per cui è per sè ciò che è in virtù
della sua sostanza, è rimasto quello al quale più frequente- mente si è fatto
riferimento nella storia della filo- sofia. Questo è, ad es., il significato
che all’espres- sione attribuiscono sia S. Tommaso che Duns Scoto. S. Tommaso
afferma che « Dio è lo stesso essere per sè sussistente » (S. 7h., I, q. 44, a.
1), in quanto l’essere appartiene all'essenza o sostanza di Dio (4bid., I, q.
3, a. 4); e che l’anima non può corrompersi perchè è «forma per sè sussistente
» (Ibid., I, q. 75, a. 6). Duns Scoto riserva l’essere per sè alla forma totale
e perfetta in cui entrano tutte le parti ma che a sua volta non è parte
(Quodi., q. 9, n. 17). Entrambi i filosofi designano quindi come per sè
l’essere sostanziale, sebbene Duns Scoto restringa, più di S. Tommaso, il
significato di questo. B) Il secondo significato fondamentale del ter- mine è
quello che Hegel gli ha attribuito come es- sere attuale o effettuale [in
contrapposto a in sé (v.), essere possibile] e quindi come essere che si è svi-
luppato attraverso la riflessione e la coscienza. Dice Hegel « Diciamo che
qualcosa è per sè in quanto toglie l’esser altro, la sua relazione e la sua
comu- nanza con altro, in quanto cioè ha respinta e ha fatto astrazione da
esso... La coscienza contiene già in sè come tale la determinazione dell’essere
per sè in quanto si rappresenta un oggetto che sente, in- tuisce, ecc., in
quanto cioè ha in sè il contenuto 665 dell’oggetto stesso... Ma la coscienza di
sè è l’esser per sè compiuto e posto giacchè in essa l’aspetto del riferirsi ad
altro, ad un oggetto esterno, è su- perato» Wissenschaft der Logik, I, I, 3, A;
trad. ital., I, pag. 173-74). In questo senso la coscienza è per sè perchè ha
annullato o tolto di mezzo l’altro (l’og- getto esterno) e l’ha risolto in un
suo proprio contenuto interno. Sartre ha, nella filosofia con- temporanea,
ripreso questo concetto chiamando «essere per sè » o senz'altro « per sè » la
coscienza in quanto è l’annullamento o « il niente » dell’oggetto, cioè dell’in
sè (L’étre et le néant, pag. 115 sgg.). Lo stesso significato è attribuito
all’espressione da Merleau-Ponty (Phénoménologie de la perception, 1945, pag.
423 sgg.). PERSEITÀ (lat. Perseitas; ingl. Perseity; fran- cese Perséîté).
Termine adoperato nella Scolastica (ma raramente) per indicare lo stato e la
condizione di ciò che è per sé (v.). PERSONA (gr. rpSowrov, èingorao; lat. Per-
sona; ingl. Person; franc. Personne; ted. Person). Nel senso più comune del
termine: l’uomo nelle sue relazioni con il mondo o con se stesso. Nel senso più
generale (in quanto la parola è stata applicata a Dio oltre che all’uomo): un
soggetto di relazioni. Si possono distinguere le seguenti fasi del concetto: 1°
compito e relazione-sostanza; 2° auto-relazione (relazione con se stesso); 3°
etero- relazione (relazione col mondo). 1° Il termine P. significa maschera
(nel senso di personaggio: ingl. Character; franc. Personnage; ted. Rolle) e
proprio in questo senso fu introdotto nel linguaggio filosofico dallo stoicismo
popolare per indicare i compiti rappresentati dall’uomo nella vita. Dice
Epitteto: «Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il
quale sarà o breve o lungo secondo la volontà del poeta. E se a costui piace
che tu rappresenti la P. di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente.
Il simile se ti è assegnata la P. di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo
comune. Atteso che a te si spetta solamente di rappresentare bene quella qual
si sia P. che ti è destinata: lo eleggerla si ap- partiene a un altro »
(Manuale, 17, trad. Leopardi; cfr. Dissertazioni, I, 29, ecc.). Il concetto di
com- pito in questo senso può essere ridotto a quello di relazione: un compito
non è che un complesso di relazioni che legano l’uomo a una data situa- zione e
lo definiscono nei rispetti di essa. La no- zione di P. si rivelò perciò utile
quando si trattò di esprimere le relazioni che intercedono tra Dio e il Cristo
(considerato come il Logos o Verbo) e tra essi e lo Spirito; ma nel contempo fu
la fonte di fraintendimenti e di eresie. Difatti, da un lato la relazione
sembrava alcunchè di aggiunto, e di accidentalmente aggiunto, alla sostanza
della cosa; 666 tale almeno era il suo concetto nella filosofia tra- dizionale
e in particolare in quella aristotelica (v. RELAZIONE). Dall’altro, il nome
stesso di P., evocando la maschera da teatro, sembrava impli- care il carattere
apparente o non sostanziale della persona. Di qui nacquero le lunghe dispute
trini- tarie che caratterizzano la storia dei primi secoli del Cristianesimo e
che portarono alle decisioni del Concilio di Nicea (325). Per evitare il
riferi- mento della nozione di P. alla maschera, gli scrittori greci
adottarono, invece di prosopon, la parola hypostasis, che nel suo significato
di «supporto » ben rivela le preoccupazioni che ne suggerirono la scelta. Ma
circa il carattere accidentale che la relazione sembra avere per sua natura,
molti padri della Chiesa non trovarono di meglio che negare che la P. fosse
relazione e insistere sulla sua so- stanzialità. Così faceva, ad es., S.
Agostino, affer- mando che P. significa semplicemente « sostanza » e che perciò
il Padre è P. rispetto a sè (ad se) non rispetto al Figlio, ecc. (De Trin.,
VII, 6). Boezio dava su questo fondamento la definizione di P. che rimase
classica in tutto il Medioevo: «P. è la so- stanza individuale di natura
razionale » (De duabus naturis et una persona Christi, 3, P. L., 64, col. 1345).
Ma, come S. Tommaso notava (S. 7h., I, q. 29, a. 4, contra), lo stesso Boezio
ammetteva che «ogni nome attinente alle P. significa una rela- zione »; e
d’altronde non c’era altro modo di chia- rire il significato delle persone
divine oltre quello di chiarire le relazioni fra di esse nonchè le loro
relazioni con il mondo e con gli uomini. S. Tom- maso pertanto, in uno dei suoi
testi più notevoli per chiarezza e forza filosofica (a prescindere dal
significato teologico-religioso), cioè nella sua de- lucidazione del dogma
trinitario, ripristina il si- gnificato del concetto di P. come relazione, pure
affermando nello stesso tempo la sostanzialità della relazione in divinis. «
Non c'è in Dio distinzione se non in virtù delle relazioni di origine. Ma la relazione
in Dio non è come un accidente che ine- risca al soggetto, ma è la stessa
essenza divina sicchè è sussistente al modo stesso in cui sussiste l’essenza
divina. Come la deità è Dio così la paternità divina è Dio Padre, che è P.
divina: dunque la P. divina significa la relazione in quanto sussistente; cioè
significa la relazione nella forma della sostanza, che è l’ipostasi sussistente
nella natura divina; sebbene ciò che sussiste nella natura divina non sia altro
che la natura divina » (S. 7h., I, q. 29, a. 4). In tal modo, insieme col
carattere sostanziale o ipostatico della P., veniva energicamente sottoli-
neato il suo significato di relazione. Questo per ciò che riguarda le P.
divine. Per ciò che riguarda la P. in generale, S. Tommaso affermava che, a
differenza dell’individuo che di per sè è indistinto, PERSONA «la P., in una
natura qualsiasi, significa ciò che è distinto in tale natura; come nella
natura umana significa queste carni e queste ossa e quest’anima che sono i
princìpi che individuano l’uomo » (/bid., I, q. 29, a. 4). Anche nel senso
comune la P. perciò è, secondo S. Tommaso, distinzione e relazione. 2° A
partire da Cartesio, mentre s’indebolisce o vien meno il riconoscimento del
carattere sostan- ziale della P., si accentua la sua natura di relazione e
specialmente di autorelazione o relazione del- l’uomo con se stesso. Il
concetto di P. inquesto senso si identifica con quello di Io come coscienza e
viene prevalentemente analizzato a proposito di ciò che si chiama l'identità
personale cioè l’unità e la continuità della vita cosciente dell’io. Locke
afferma che la P. « è un essere intelligente e pensante che possiede ragione e
riflessione e può considerare se stesso, cioè la stessa cosa pensante che egli
è, in diversi tempi e luoghi; il che fa soltanto mediante quella coscienza che
è inseparabile dal pensare ed essenziale ad esso» (Saggio, II, 27, 11). La P. è
qui identificata con l'identità personale cioè con la relazione che l’uomo ha
con se stesso, e quest’ul- tima con la coscienza. Leibniz è d’accordo con Locke
su questo punto; ma insiste anche sull’iden- tità fisica o reale come un’altra
componente della P., oltre l’identità morale o della coscienza (Nouv. Ess., II,
27, 9). Il rapporto consapevole dell’uomo con se stesso diventa da questo punto
in poi la caratteristica fondamentale della persona. Dice Wolff: «La P. è
l’ente che conserva la memoria di sè cioè ricorda di essere quello stesso che
prece- dentemente fu in questo o quello stato + (Psychol. rationalis, $ 741). E
Kant analogamente afferma: « Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il
proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli esseri viventi sulla
terra. Per questo egli è una P. e, in forza dell’unità di coscienza persistente
attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, è una sola e medesima P.»
(Antr., $ 1). Hegel in- tendeva per P. il soggetto autocosciente in quanto
«semplice riferimento a sè nella propria individua- lità » (Fil. del Dir., 8
35). Lotze dice: « L'essenza della P. non si richiama a una passata o presente
opposizione dell’io nei confronti del non io, ma con- siste in un immediato
essere per sè» (Mikrokosmus, I, 1856, pag. 575). E Renouvier: «La coscienza
prende il nome di P. quando è portata a quel grado superiore di distinzione e
di estensione insieme, in cui essa attinge la conoscenza di sè e
dell’universale e il potere di formare concetti ed applicare quelle leggi
fondamentali dello spirito che sono le categorie + (Nouvelle monadologie, 1899,
pag. 111). Poichè la P. è in questo senso semplicemente la relazione dell’uomo
con se stesso, che è la definizione della coscienza, essa si identifica con la
coscienza; e PERSONALISMO tale identificazione è l’unico dato concettuale che
si può rintracciare in quella esaltazione retorica della P. che contrassegna
alcune forme contem- poranee del personalismo (v.). 3° Contro la precedente
interpretazione della P. stanno ovviamente le posizioni filosofiche che si
rifiutano di ridurre l’essere dell’uomo alla coscienza e polemizzano contro la
forma più radicale di questa interpretazione, che è lo hegelismo. In questo
senso l'antropologia della sinistra hegeliana e del mar- xismo, per quanto non
si sia dichiaratamente preoccupata di illustrare il concetto di P., costi-
tuisce l'avvio a un rinnovamento di tale concetto o la messa in luce di un
aspetto sul quale la tradi- zione filosofica era rimasta muta: cioè quello per
il quale la P. umana è costituita o condizionata essen- zialmente dai «
rapporti di produzione e di lavoro » cioè dai rapporti in cui l'uomo entra con
la natura e con gli altri uomini per soddisfare i suoi bisogni (cfr. Marx,
Deutsche Ideologie, I). Dall'altro lato, la dottrina morale kantiana aveva già
dato del concetto di P. una caratterizzazione in termini di etero-relazione,
cioè di relazione con gli altri. Quando Kant diceva che «gli esseri ragionevoli
sono chiamate persone perchè la loro natura li indica già come fini in se
stessi vale a dire come qualcosa che non può essere adoperato unicamente come
mezzo » (Grundlegung zur Metaphysik der Sit- ren, IN), faceva consistere la
natura della P., dal punto di vista morale, nel rapporto inter-soggettivo.
Tuttavia soltanto con la fenomenologia il concetto di P. come etero-relazione
fa il suo ingresso esplicito in filosofia. Già Husserl, considerando l’io come
il « polo di tutta la vita intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti
che essa crea » (Carr. Med., $ 44) accentuava quella relazione ad altro in cui
l’inten- zionalità consiste. Ma è soprattutto con Scheler che la P. viene
esplicitamente definita corne + rap- porto con il mondo». La P. è secondo
Scheler definita essenzialmente da tale rapporto, come l'io è definito dal
rapporto con il mondo esterno, l'individuo dal rapporto con la società, il
corpo dal rapporto con l’ambiente. Secondo Scheler «il mondo non è che il
correlato oggettivo della P., quindi ad ogni P. individuale corrisponde un
mondo individuale» (Der Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 408). Le sfere
oggettive che si possono distinguere nel mondo (oggetti interni, oggetti esterni,
oggetti corporei, ecc.) diventano concrete soltanto come parti di un mondo che
è il correlato di una P. cioè come dominio delle possi- bilità d'azione della
P. stessa. La P. in questo senso non va confusa con l’anima, l’io o la
coscienza: uno schiavo, ad es., è tutte queste cose ma non è P. perchè non ha
la possibilità d’agire sul proprio corpo e un elemento del suo mondo gli sfugge
667 (Ibid., pag. 499). «La P., dice ancora Scheler, è data solo là dove è dato
un poter fare per mezzo del corpo e precisamente un poter fare che non si fonda
solo sul ricordo delle sensazioni occasionate dai movimenti esterni e delle
esperienze attive, ma precede l’agire effettivo (/bid., pag. 499). Nono- stante
i numerosi e non sempre coerenti andirivieni metafisici che Scheler ha fatto
subìre alla sua dot- trina, il suo concetto della P. come di un « rapporto con
il mondo » è stato fecondo anche perchè è stato assunto come punto di partenza
dall’analisi esisten- ziale di Heidegger (Sein und Zeit, $ 10): la quale si è
precisamente imperniata sul concetto della P. umana, cioè dell’esserci, come
rapporto con il mondo. Questo concetto di P. che, come si è visto non coincide
con quello di io, è stato formulato in ter- mini analoghi ed è abitualmente
adoperato nelle scienze sociali. Le definizione abitualmente ricor- rente in
tali scienze della P. come «l’individuo provvisto di status sociale» fa
riferimento appunto alla rete dei rapporti sociali che costituiscono lo status
della persona. La considerazione della P., come dell’unità individuale con cui
si ha a che fare nel dominio considerato da quelle scienze, corrisponde alla
stessa determinazione concettuale del termine come di un agente morale, o un
soggetto di diritti civili e politici o, in generale, un membro di un gruppo
sociale. L'uomo è P. in quanto, in tali suoi compiti, è essenzialmente definito
dalle sue relazioni con gli altri. PERSONA CIVILE (lat. Persona Civilis; ingl.
Juristic Person; franc. Personne juridique; ted. Juristische Person). Secondo
Hobbes la P. in questo senso è «ciò a cui sono attribuite parole e azioni umane
o proprie o altrui»: se alla P. sono attribuite azioni proprie, si tratta di
una P. naturale, se le sono attribuite azioni altrui si tratta di P.
artificiale (De Homine, 15, $ 1). Questa di Hobbes è la più generale e nello
stesso tempo precisa definizione della P. civile e giuridica che sia stata data
da filosofi. Hegel stesso non fa che definire la P. in questo senso come
generica «capacità giuridica » (Fil. del dir., $ 36). PERSONALISMO (ingl. Personalism;
fran- cese Personnalisme; ted. Personalismus). Il termine è stato ed è usato a
designare tre dottrine diverse ma connesse, cioè: 1° Una dottrina reologica
cioè quella che afferma la personalità di Dio, come causa creatrice del mondo,
in polemica con il panteismo che identifica Dio e il mondo. Questo è il senso
origi- nario in cui il termine è stato adoperato per le prime volte da
Schleiermacher (Reden, 1799), e poi da Goethe, Feuerbach, Teichmiiller, ecc. 2°
Una dottrina metafisica cioè quella se- condo la quale il mondo è costituito da
una totalità 668 di spiriti finiti che costituiscono nel loro insieme un ordine
ideale nel quale ognuno di essi conserva la sua autonomia. Questa concezione fu
presen- tata per la prima volta con il nome di P. da G. H. Howison, in polemica
con Royce e in ge- nerale con l’idealismo assoluto (nella discussione
pubblicata con il titolo The Conception of God, 1897). In seguito il termine fu
usato per desi- gnare la stessa concezione fondamentale da Re- nouvier (Le
personnalisme, 1903) da W. E. Hocking e da altri scrittori in America dove fu
creata anche una rivista destinata a difenderla (The Personalist, 1919). Il P.
in questo senso non è che uno spiri- tualismo monadologico di stampo
leibniziano- lotziano; e il termine P. è rimasto infatti in America a indicare
la dottrina che in Europa si chiama spiritualismo (v.). 3° Una dottrina
efico-politica cioè quella che insiste sul valore assoluto della persona e sui
suoi legami di solidarietà con le altre persone, in pole- mica contro il
collettivismo da un lato, che tende a vedere nella persona nient'altro che
un’unità numerica, e l’individualismo dall’altro che tende a indebolire i
legami di solidarietà tra le persone. In questo senso il termine è stato
adoperato da Eugenio Diihring nella sua Geschichte der National- Okonomie del
1899; e ripreso, dopo la seconda guerra mondiale, da E. Mounier (Le
personnalisme, 1950) e, sulla sua scia, da numerosi pensatori cattolici,
sostenitori del P. metafisico. Nell’ora- toria piuttosto confusa, che è la
caratteristica dominante di questo indirizzo, il tratto concettuale che si
riesce a scorgere è il concetto della persona come auto-relazione o coscienza.
PERSONALITÀ (ingl. Personality; franc. Per- sonnalité; ted. Personlichkeit). 1.
La condizione o il modo d’essere della persona. In questo senso il termine fu
già usato da S. Tommaso (S. 7h., I, q. 39, a. 3, ad 4°) ed è comunemente usato
dai filosofi (che spesso lo adoperano come sinonimo di persona). 2. Nel
significato tecnico della psicologia con- temporanea, la P. è l’organizzazione
che la persona imprime alla molteplicità dei rapporti che la costi- tuiscono.
In questo senso Nietzsche parlava di persona e osservava che « alcuni uomini si
compon- gono di più persone e la maggior parte non sono affatto persone.
Dovunque predominano le qualità medie che importano affinchè un tipo si
perpetui, essere una persona sarebbe un lusso... si tratta di rappresentanti o
di strumenti di trasmissione » (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 394). A questi
concetti di Nietzsche sono vicini quelli della psicologia contemporanea. Dice
H. J. Eysenck: «La P. è la più o meno stabile e durevole organizzazione del
carattere, del temperamento, dell’intelletto e del PERSONALITÀ fisico di una
persona: organizzazione che determina il suo adattamento totale all’ambiente.
Il carattere denota il più o meno stabile e durevole sistema di comportamento
conativo (volonta) della persona. Il temperamento il suo più o meno stabile e
durevole sistema di comportamento affettivo (emozione); l’intelletto il suo più
o meno stabile o durevole sistema di comportamento cognitivo (intelligenza); il
fisico il suo più o meno stabile e durevole sistema di configurazione corporea
e di dotazione neuro- endocrina » (The Structure of Human Personality, 1953,
pag. 2). In questa definizione in cui entrano elementi già accertati da Roback,
Allport, McKin- non, l’elemento dominante è costituito dal concetto di
organizzazione, struttura o sistema: cioè dal- l'elemento che consente la
previsione probabile del comportamento di una persona. Non molto diversa dalla
precedente è quindi l’altra definizione, pura- mente funzionale, data della P.
allo scopo di rendere possibili le ricerche ad essa relative; «P. è ciò che
permette la previsione di quello che una persona farà in una data situazione »
(R. B. CATTEL, Per- sonality, 1950, pag. 2). Dalla P. in questo senso, l'io si
distingue come quella parte della P. stessa che è nota o aperta alla persona e
a cui la persona fa riferimento con quel pronome: parte che può non coincidere,
e abitualmente non coincide, con la totalità della P. (v. Io). PERSPICACIA (gr.
dvyylvora; lat. Perspica- citas; ingl. Perspicacity; franc. Perspicacité; te-
desco Scharfsinn). Prontezza di mente, secondo Platone (Carm., 160 a);
giustezza di mira, secondo Aristotele (Er. Nic., VI, 9, 1142b 6). La prima
definizione coglie la rapidità del processo intellettivo, l’altra la sua buona
riuscita; e sembrano defini- zioni complementari. Kant invece ha definito la P.
come «la capacità di notare le più piccole somi- glianze e dissomiglianze »:
capacità che dà luogo a osservazioni che si chiamano sottigliezze o addi-
rittura sofisticherie, quando sono inutili (Ansr., I, $ 44) (v. SAGACIA).
PERSPICUITÀ (lat. Perspicuitas; ingl. Per- spicuity; franc. Perspicuité; ted.
Perspicuitàt). È il termine latino che traduce il greco tvapyera (cfr. Cicer.,
Acad., II, 6, 17) (v. EvIDENZA). PERSUASIONE (gr. rei06; lat. Persuasio; in-
glese Persuasion; franc. Persuasion; ted. Uberreduny). 1. Una credenza la cui
certezza poggia su basi pre- valentemente soggettive, cioè private e
incomunica- bili. La distinzione tra persuasione e insegnamento razionale fu
stabilita già da Platone. «Il pensiero, diceva Platone, si genera in noi per
via di insegna- mento, l’opinione per via di persuasione. Il primo si fonda
sempre su un ragionamento vero, l’altra manca di questa base; l’uno rimane
saldo di fronte alla P., l’altra se ne lascia modificare » (7im., 51, e).
PESSIMISMO 669 Kant espose chiaramente questo stesso concetto: «Se la credenza
ha il suo fondamento nella natura particolare del soggetto, si chiama
persuasione. La P. è una semplice apparenza perchè il fondamento del giudizio,
che è unicamente nel soggetto, viene considerato come oggettivo. Quindi un tal
giudizio ha solo una validità privata e la credenza non si può comunicare +
(Crit. R. Pura, Dottrina del me- todo, cap. II, sez. 3). Da questo punto di
vista la pietra di paragone che consente di distinguere tra P. e convinzione
(v.) è «la possibilità di comu- nicare la credenza e ritrovarla valida per la
ragione di ogni uomo» (/bid.); la convinzione è comuni- cabile, la P. non lo è.
La distinzione kantiana è stata accettata e semplificata da C. Perelmann e L.
Olbrechts-Tytecha: « Ci proponiamo di chiamare persuasiva un’argomentazione che
pretende valere soltanto per un uditorio particolare e di chiamare convincente
quella che si crede ottenga l’adesione di ogni essere razionale » (Traité de
l’argumentation, 1958, $ 6). Talvolta, la P. è stata distinta dalla convinzione
in quanto si è ritenuto che essa coin- volga il sentimento oltre che la ragione
e che per- tanto essa sola possa impegnare ciò che Pascal chia- mava «l’automa
», cioè i comportamenti affettivi e abituali dell’uomo. Diceva Pascal: « Noi
siamo automi tanto quanto siamo spirito; di là viene che lo strumento per il
quale la P. si fa non è la sola dimostrazione » (Pensées, 252). D’Alembert ha
espresso molto bene questo punto di vista: «La convinzione tiene più allo
spirito, la P. al cuore; si dice che l’oratore deve non solo convincere cioè
provare ciò che enuncia, ma anche persuadere cioè toccare e commuovere. La
convinzione suppone qualche prova, la P. non sempre... Ci si persuade
facilmente di ciò che fa piacere; si è talvolta dolenti d’esser convinti di ciò
che non si voleva credere » (CEuvres posthumes, 1799, II, pag. 89). Altre volte
la P. è stata considerata come la forma superiore della certezza perchè
connessa con la stessa verità oggettiva. Così ha fatto Heidegger che l’ha
intesa come «un modo della certezza » e precisamente quello fondato sulla
testimonianza dello stesso « ente scoperto » cioè dello stesso vero (Sein und
Zeit, $ 52). Analogamente Jaspers ha posto la P. al di sopra della «conferma
pragmatica » e della « evi- denza costrittiva » come il terzo ed ultimo grado
della verità oggettiva (Vernunft und Existenz, 1935, III, $ 3). Dall’altro
lato, si è insistito sul carattere «emotivo » della P., nel senso che essa
farebbe appello a motivi « non razionali » (C. L. STEVENSON, Ethics and
Language, 1944, cap. 6). Ciò che emerge da queste indicazioni è il carattere
privato e in una certa misura incomunicabile della P. o per meglio dire dei
motivi che sono a fondamento della credenza in cui essa consiste. 2. L'atto o
il procedimento del persuadere, cioè l’indurre alla persuasione. PERSUASIVO
(gr. mbavév; lat. Persuasibile; ingl. Persuasive; franc. Persuasif; ted.
Uberzeugend). Il criterio della verità difeso dagli scettici della Nuova
Accademia e in primo luogo da Carneade. Persuasiva è la rappresentazione che
appare vera, che può anche essere falsa ma è per /o più vera. Diceva Carneade:
« Poichè raramente ci si imbatte nel caso di una rappresentazione vera, non ci
si deve rifiutare di credere alla rappresentazione che per lo più dice il vero:
infatti giudizi e azioni si regolano sul per lo più » (Sesto EMP., Adv. Math.,
VII, 175). La rappresentazione persuasiva, secondo i seguaci di Carneade, deve
poi essere anche coerente e ponderata, sebbene questi caratteri non aggiun-
gano nulla alla sua persuasività (/bid., VII, 184). PESSIMISMO (ingl.
Pessimism; franc. Pessi- misme; ted. Pessimismus). In generale, la credenza che
lo stato delle cose, in qualche parte del mondo o nella totalità di esso, è il
peggiore possibile. Il termine cominciò ad essere adoperato in Inghil- terra,
ai principi del sec. x1X, per antitesi con ot- timismo. La tesi del P. potrebbe
perciò essere espressa come il rovesciamento di quella dell’ottimismo, con
l’asserzione che il nostro mondo è il peggiore dei mondi possibili. Ma espresso
in questa forma il P. è un’intera metafisica e si può parlare di P. solo a
proposito della filosofia di Schopenhauer e dei suoi seguaci. Comunemente,
però, si parla di P. anche in un senso più limitato e parziale: cioè quando
ricorre almeno una delle tesi seguenti: 1° Nella vita umana i dolori superano i
pia- ceri e la felicità è irraggiungibile. In questa forma il P. fu difeso dal
cirenaico Egesia, detto «il per- suaditor di morte » (Dioc. L., II, 8, 94). 2°
Nella vita umana i mali superano i beni, sicchè essa è un complesso di vicende
malvagie, ignobili o ripugnanti. In questa forma il P. fu difeso dal Padre
apologista Arnobio ai princìpi del rv secolo: la stessa esistenza dell'uomo
appare ad Arnobio inutile all'economia del mondo, il quale resterebbe immutato
se l’uomo non ci fosse (Adv. nationes, II, 37). 3° Ogni vita è in generale male
o dolore. Questa è la tesi del P. metafisico, quale si trova sostenuta nel
Buddismo antico e da Schopenhauer (Die Welt, I, $ 57 sgg.). 4° Il mondo è nella
sua totalità la manifesta- zione di una forza irrazionale: secondo Schopen-
hauer di una « Volontà di vita » che dilania e tor- menta se stessa (Die Welt,
I, $ 61); secondo E. Hartmann, di un principio inconscio che di- ventando
progressivamente consapevole distrugge le illusioni che reggono il mondo
(Philosophie des Unbewussten, 1869). 670 PETITIO Tutte le forme del P. negano
la possibilità del progresso e in generale di ogni miglioramento nel campo
specifico in cui si fanno valere. Ciò che esse non negano è invece il carattere
finalistico del mondo: che è ammesso e difeso sia da Schopenhauer (Die Welt, I,
$ 28) sia da Hartmann (Op. cit.; trad. franc., II, pag. 65). La cosa è tanto
più strana in quanto l’essenza dell’ortimismo (v.) sta per l’ap- punto nel
finalismo; e il P. pretende di essere l’antitesi dell’ottimismo. PETITIO
PRINCIPII. È la notissima fa/- lacia (v.), già analizzata da Aristotele (Top.,
VIII, 13, 162 b; Soph. El., 5, 167 b; An. pr., II, 16, 64 b), consistente nel
presupporre per la dimostrazione un equivalente o sinonimo di ciò che si vuol
dimostrare (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 7.53). G. P. PIACERE (gr. iSovh;
lat. Voluptas; inglese Pleasure; franc. Plaisir; ted. Lust). P. e dolore
costituiscono le tonalità fondamentali di qualsiasi tipo o forma di «emozione».
La determinazione delle loro caratteristiche dipende dalla funzione che si
attribuisce alle emozioni ed è perciò connessa con la teoria generale delle
emozioni stesse. Qui c’è da osservare che la parola conserva, nella tradizione
filosofica, un significato diverso da felicità anche quando viene collegata con
questa: il P. è difatti l'indice di uno stato o condizione particolare 0
temporanea di soddisfazione, mentre la felicità è uno stato costante e duraturo
di soddisfacimento totale o quasi totale (v. FELICITÀ). La più famosa
definizione del P. fu quella data da Aristotele, che utilizzava d’altronde
concetti platonici (Rep., IX, 583 sgg.; Fil., 53c): «Il P. è l’arto di un abito
che è conforme natura » (Er. Nic., VII, 12, 1153 a 14): nella quale si deve
ricordare che abito significa « disposizione costante ». Questa definizione
serviva ad Aristotele a sganciare il P. dalla sua connessione con la
sensibilità: giacchè un abito può essere sia sensibile che non sensibile. Dal
Rinascimento in poi la funzione biologica del P. fu quella sulla quale si
fondarono le defini- zioni di esso. Telesio lo considera come ciò che favorisce
la conservazione dell’organismo (De rer. nat., IX, 2). Cartesio definì la
gioia, ritenuta una delle sei emozioni fondamentali come « l’emo- zione piacevole
dell'anima nella quale consiste il godimento del bene che le impressioni del
cer- vello le rappresentano come suo» (Passions de l’éme, $ 91). Spinoza
affermava: « Per gioia intendo la passione per la quale la mente sale ad una
per- fezione maggiore » (Er., III, 11): che è una parafrasi della definizione
aristotelica. Mentre ad una defi- nizione biologica ritornava Hobbes, vedendo
nel P. il segno di un movimento giovevole al corpo, tra- smesso dagli organi
senzienti al cuore (De Corp., 25, 12). Nietzsche affermava: «Il P.: sensazione
PRINCIPII di un accrescimento di potenza » (Wille zur Macht, ed. Kròner, $
660). Di fronte a queste teorie che si possono dire positive del P., sta la
teoria nega- tiva di Schopenhauer secondo la quale il P. è semplicemente la
cessazione del dolore, sicchè è conosciuto o sentito solo mediatamente,
attraverso il ricordo della sofferenza o della privazione pas- sata (Die Welt,
I, $ 58). La psicologia moderna ha conservato i tratti tradizionalmente
riconosciuti al piacere. Ha cioè riconfermato la sua funzione biologica ma
nello stesso tempo ha riconfermato, sulla base dell’osser- vazione, il
carattere arrivo che Aristotele ricono- sceva al P. (cfr. J. C. FLugEL, Studies
in Feeling and Desire, 1955, pag. 118 sgg.). Principio di P. (ingl. Pleasure
Principle; tedesco Lustprinzip) ha chiamato Freud uno dei due prin- cìpi
fondamentali che regolano il funzionamento mentale, e precisamente quello che
dirige l’attività psichica alla liberazione dal dolore. L’altro prin- cipio
sarebbe quello di rea/tà, per il quale la ri- cerca del P. non si effettua per
le vie più brevi, ma obbedendo alle condizioni imposte dal mondo esterno
(7riebe und Triebschicksale, 1915). PIANO (ingl. Plane; franc. Plan; ted.
Schicht). Questa nozione viene adoperata in filosofia per designare gradi o
livelli dell’essere caratterizzati da qualità proprie, cioè non riducibili a
quelle di altri gradi o livelli. Il concetto di P. fu in questo senso
introdotto da Boutroux: « Nell’universo, egli di- ceva, si possono distinguere
parecchi mondi, che formano come P. sovrapposti gli uni agli altri. Al di sopra
del mondo della pura necessità, cioè della quantità senza qualità, che è
identico con il nulla, si possono distinguere: il mondo delle cause, il mondo
delle nozioni, il mondo fisico, il mondo vivente e il mondo pensante» (De la
contingence des lois de la nature, 1874, Concl.). Ogni P. è ca- ratterizzato
secondo Boutroux: 1° da una certa dipendenza dal P. inferiore; 2° dalla
irreducibilità delle sue qualità fondamentali e delle sue leggi spe- cifiche
alla qualità o alle leggi del P. inferiore. In questo consisterebbe la
contingenza della realtà. Una concezione analoga è stata ripresa da N. Hart-
mann che ha distinto quattro piani della realtà: l’inorganico, l’organico, lo
psichico e lo spirituale (Der Aufbau der realen Welt, 1940). Anche Hart- mann
ammette che ogni P. della realtà sia regolato da leggi proprie e irreducibili;
ma a differenza di Boutroux accentua la dipendenza dei P. superiori dagli
inferiori. Ad es., le leggi del mondo psichico non sono riducibili a quelli del
mondo organico, ma le presuppongono, aggiungendosi ad esse: rap- presentano
perciò un super-dererminismo che si aggiunge al determinismo delle leggi
inferiori. Perciò la conclusione cui mette capo l’analisi della stra-
PLATONISMO 67) tificazione dell’essere fatta da Hartmann non è la contingenza
ma la super-necessità (v. LIBERTÀ). PICNATOMI (ted. Pyknatomen). Così E. Hae-
ckel chiamò gli atomi, dotati di movimento e di sensibilità, che egli riteneva
elementi costitutivi di ogni forma d'essere, in quanto prodotti dal con-
densarsi (picnosi) della materia primitiva (Weltratsel, 1899; trad. ital.,
1904, pag. 296 sgg.). PIETÀ. V. CoMPAssIoNE. PIETISMO (ingl. Pietism; franc.
Piétisme; te- desco Pietismus). Una reazione contro l’ortodossia protestante
che si determinò nell’Europa setten- trionale e specialmente in Germania nella
seconda metà del xvii secolo. Il capo di questo movimento fu Filippo Spener
(1635-1705) e una delle sue figure più eminenti fu il pedagogista Augusto
Franke (1663-1727). Il P. intendeva ritornare alle tesi ori- ginarie della
Riforma protestante: libera interpreta- zione della Bibbia e negazione della
teologia; culto interiore o morale di Dio e negazione del culto esterno, dei
riti e di ogni organizzazione ecclesiastica; impegno nella vita civile e
negazione del valore delle cosiddette « opere» di natura religiosa. Da
quest’ultimo tratto deriva l’accoglimento, nelle isti- tuzioni educative del
P., di molti insegnamenti di carattere pratico e utilitario (cfr. A. RITSCHL,
Geschichte des Pietismus, 3 voll, 1880-86). PIGRIZIA DELLA RAGIONE. V. RAgION
PIGRA. PIRRONISMO (ingl. Pyrrhonism; franc. Pyr- rhonisme; ted. Pyrrhonismus).
La forma estrema dello scetticismo greco, quale fu difesa da Pirrone di Elide
che visse al tempo di Alessandro Magno (che seguì nella sua spedizione in
Oriente) e morì verso il 270 avanti Cristo. Conosciamo la sua dot- trina dai
Si/loi (versi scherzosi) di Timone di Fliunte e dalle esposizioni di Diogene
Laerzio e di Sesto Empirico. La tesi fondamentale del P. è la necessità di
sospendere l’assenso. Poichè per l’uomo le cose sono inafferrabili, l’unico
atteggiamento legittimo è quello di non giudicarle nè vere nè false, nè belle
nè brutte, nè buone nè cattive, ecc. Il non giudicare significa anche il non
preferire o il non rifuggire: sicchè la sospensione del giudizio è già di per
se stessa afarassia, cioè assenza di turbamento. Dio- gene Laerzio racconta che
Pirrone andava in giro senza guardare e senza scansar nulla, affrontando carri
se ne incontrava, precipizi, cani, ecc. (Dog. L., IX, 62). Un ritorno al P. si
ebbe più tardi, tra la fine dell’ultimo secolo a. C. e la fine del 1 secolo d.
C. per opera di Enesidemo di Cnosso, che insegnò in Alessandria, di Agrippa e
del medico Sesto Em- pirico. Quest'ultimo che svolse la sua attività tra il 180
e il 210 d. C. ci ha lasciato tre scritti: /po- tiposi Pirroniana, Contro i
dogmatici, Contro i ma- tematici, che costituiscono la summa di tutto lo
scetticismo antico. La tesi pirroniana della sospen- sione dell’assenso è
mantenuta rigorosamente; ma come guida per la condotta della vita sono assunte
l’apparenza sensibile e le norme della vita comune (Ip. Pirr., I, 21) (cfr.
Mario DAL PRA, Lo scetti- cismo greco, 1950). PISTIS SOPHIA. Secondo la
cosmogonia degli Gnostici è l’ultimo degli Eoni (v.) cioè delle emanazioni,
l’eone decaduto, che dà origine alla materia (IePoLITO, Philosophumena, VI, 30
sgg.) (cfr. GNOSTICISMO). PITAGORISMO (ingl. Pythagoreanism; fran- cese
Pytliagorisme; ted. Pythagoreismus). La dot- trina dell’antica scuola
pitagorica, dottrina che poco o nulla deve al fondatore di essa, Pitagora, del
quale ben poco si sa di certo e che probabil- mente non scrisse nulla. Le tesi
caratteristiche del P. furono le seguenti: 1° la dottrina della metempsicosi
(v.) sulla quale erano fondate le credenze mistiche e i riti della setta; 2° la
dottrina che i numeri costituiscono i principi o gli elementi costitutivi delle
cose: dot- trina, che attraverso il platonismo, ha presieduto anche agli inizi
della scienza moderna; 3° la dottrina che i corpi celesti (che i Pitago- rici
portavano a dieci per ragioni di simmetria) girino tutti intorno a un fuoco
centrale (hesria) di cui il sole sarebbe un riflesso. Questa dottrina è il
primo accenno di quello che sarà, nell’età moderna, il sistema copernicano.
Cfr. I Pitagorici, Testimonianze e frammenti, a cura di Maria Timpanaro
Cardini, Firenze, 1958 e la bibliografia ivi contenuta. PIÙ-VITA, PIÙ-CHE-VITA
(ted. Mehr Leben, Mehr-als-Leben). Espressioni coniate da G. Simmel per
indicare rispettivamente il pro- cesso della vita e le forme cui esso dà luogo.
Come «P.-vita », la vita è il processo che supera con- tinuamente i limiti che
pone a se stessa. Come « P.-che-vita » la vita è l'insieme delle forme finite
che emergono dal processo vitale e si contrap- pongono ad esso
(Lebensanschauune, 1918, pa- gine 22-23). PLASTICA, NATURA (ingl. Plastic
Nature; franc. Nature Plastique; ted. Plastische Natur). La forza P. o
formativa, diretta ed emanata da Dio, ma diversa da lui, cui è affidato il
compito di or- dinare la materia. È il concetto della natura ectipa ammesso dai
Platonici di Cambridge (v. EcTIPO). PLATONISMO (ingl. Platonism; franc. Pla-
tonisme; ted. Platonismus). Gli elementi della dot- trina platonica che sono
stati assunti, a partire da Aristotele, come caratteristici di tale dottrina,
possono essere ricapitolati nel modo seguente: 672 1° La dottrina delle idee
secondo la quale oggetto della conoscenza scientifica sono entità o valori che
hanno uno status diverso da quello delle cose naturali e caratterizzato
dall’unità e dalla immutabilità (v. Ipea). In base a questa dottrina la
conoscenza sensibile, che ha per oggetto le cose nella loro molteplicità e
mutevolezza, non ha il minimo valore di verità e può solo ostacolare
l'acquisizione della conoscenza autentica. 2° La dottrina della superiorità
della saggezza sulla sapienza, cioè del fine politico della filosofia: la quale
ha come suo scopo finale la realizzazione della giustizia nei rapporti fra gli
uomini e quindi in ogni singolo uomo (v. SAPIENZA). 3° La dottrina della
dialettica come procedi- mento scientifico per eccellenza cioè come metodo
attraverso il quale la ricerca associata in primo luogo giunge a riconoscere
un’unica idea e in secondo luogo passa a dividere l’unica idea nelle sue
articolazioni specifiche (v. DIALETTICA). Questi sono anche i tre punti sui
quali Aristotele polemizzò con Platone e che, mentre segnano il distacco tra P.
e aristotelismo, sono rimasti at- traverso i secoli a caratterizzare il P.
stesso. Essi, com'è ovvio, non esauriscono la dottrina originale di Platone,
che pertanto non coincide con il «P.». È da notare che le tesi su esposte non
caratte- rizzano il cosiddetto P. del Rinascimento. Ma in realtà questo P. è un
neoplatonismo, che si rifà alle tesi fondamentali del neoplatonismo antico
(v.). PLEROMA (gr. r\mpwue). Secondo lo gnostico Valentino (tr secolo) la
totalità della vita divina in quanto piena o perfetta (IRENEO, Adv. haer., I,
11, 1). PLURALISMO (ingl. Pluralism; franc. Plura- lisme; ted. Pluralismus). x.
A partire da Wolff, questo termine è stato contrapposto ad egoismo (v.) come e
quel modo di pensare per cui non si abbraccia nel proprio io tutto il mondo, ma
ci si considera e comporta soltanto come cittadini del mondo» (KANT, Antr., I,
$ 2). Ma mentre il termine egoismo è rimasto a designare un atteggiamento
morale giacchè per la dottrina metafisica corrispondente è prevalso quello di
solipsismo (v.) il termine P. nell’uso che ne è stato fatto in seguito, ha
assunto un significato metafisico, passando a designare la dottrina che ammette
nel mondo una pluralità di sostanze. Di tale dottrina l’espressione tipica è la
monadologia di Leibniz; e in questo senso il ter- mine è stato ripreso da
alcuni spiritualisti moderni (J. Warp, The Realm of Ends or Pluralism and
Theism, 1912; W. JaMEs, A Pluralistic Universe, 1909). James ha soprattutto
insistito sull’esigenza cui il P. viene incontro: quella di considerare
l’universo, anzichè come una massa compatta in cui tutto è determinato nel bene
o nel male e non PLEROMA c’è posto per la libertà, come una specie di repub-
blica federale in cui gli individui siano bensì soli- dali tra loro ma
conservino la loro autonomia e libertà. L’universo pluralistico è, secondo
James, un pluriverso o multiverso: la sua unità non è l’implicazione universale
o l’integrazione assoluta, ma continuità, contiguità e concatenazione: è una
unità di tipo sinechistico, nel senso dato a questa parola da Peirce (A
Pluralistic Universe, pag. 325). Un universo così fatto si differenzia
dall’universo monadologico di Leibniz proprio per il carattere non assoluto nè
necessitante dell’unità che lo costi- tuisce. Dio stesso, nell'universo
pluralistico, è finito. 2. Nella terminologia contemporanea si indica spesso
con questo nome il riconoscimento della possibilità di soluzioni diverse di uno
stesso pro- blema o di interpretazioni diverse di una stessa realtà o concetto
o di una diversità di fattori o di situazioni o di sviluppi nello stesso campo.
Così si parla di « P. estetico » quando si ammette che un'opera d’arte possa
essere trovata « bella » per motivi diversi, che non hanno nulla a che fare
l’uno con l’altro. E si parla di P. sociologico quando si ammette o si
riconosce l’azione di più gruppi sociali relativamente indipendenti gli uni
dagli altri. PLUSVALORE (ingl. Surplus Value; francese Plus-value; ted.
Mehrwert). Uno dei concetti fonda- mentali dell'economia di Marx. Poichè il
valore si genera dal lavoro e non è altro che lavoro mate- rializzato, se
l’intraprenditore corrispondesse al sa- lariato il totale valore prodotto dal
suo lavoro, non si avrebbe il fenomeno, schiettamente capita- listico, del
denaro che genera denaro. Ma poichè l’intraprenditore corrisponde al salariato,
non il corrispondente del valore da lui prodotto, ma solo il costo della sua
forza-lavoro (vale a dire ciò che basta a produrla, il minimo vitale) si ha il
feno- meno del P., che non è altro, che quella parte di valore prodotto dal
lavoro salariato, di cui il ca- pitalista si appropria (cfr. Kapital, I, sez.
3). PNEUMA (gr. mvedua; lat. Spiritus; inglese Pneuma; franc. Pneuma; ted.
Pneuma). Il termine ha ricevuto un significato tecnico soltanto dagli Stoici
che hanno inteso per esso quello spirito o soffio animatore mediante il quale
Dio agisce sulle cose, ordinandole, vivificandole e dirigendole. « Pare agli
Stoici, dice Diogene Laerzio, che la natura sia un fuoco artefice diretto alla
generazione, cioè uno P. della specie del fuoco e dell’attività formativa (VII,
156; PLuT., De Stoic. repugn., 43, 1054). Virgilio alludeva a questa concezione
con i versi famosi: « Spiritus intus alit Totamque infusa per artus, Mens
agitat molem et toto se corpore miscet » (En., VI, 726): ai quali versi
Giordano Bruno ricorreva per illustrare la sua concezione dell’Intel- letto
artefice o «fabro del mondo» (De /a causa, POESIA 673 principio e uno, II). I
maghi del Rinascimento par- lavano nello stesso senso dello spirito attraverso
il quale l’anima del mondo opera in tutte le parti dell'universo visibile
(AGRIPPA, De Occulta philo- sophia, I, 14). Nel senso stoico, il P. era stato
inteso nel libro della Sapienza (I, 5-7, ecc.). E in senso analogo, S. Paolo
aveva parlato del « corpo pneu- matico » che egli contrapponeva al « corpo
psichico + o animale, come quello che è vivo e vivifica e risor- gerà dopo la
morte (I Cor., XIV, 44 sgg.). P., nella tradizione cristiana, non è altro che
lo Spirito Santo del quale S. Tommaso diceva: « Il nome di spirito nelle cose
corporee sembra significare un certo movimento o impulso giacchè chiamiamo
spirito il respiro ed il vento. Ma è proprio dell’amore di muovere e di
spingere la volontà dell'amante verso l’amato. E poichè la divina persona
procede per via dell'amore col quale Dio è conveniente- mente amato, essa si
chiama Spirito Santo » (S. 7h., I, q.36, a. 1). Infine dalla stessa dottrina
dello spirito vivificante deriva quella degli spiriti « psi- chici » « animali
» 0 « corporei » che furono ammessi dalla medicina antica (v. PNEUMATICI) e da
quella medievale e di cui i filosofi fanno spesso menzione. Menzionarono gli
spiriti animali S. Tommaso (In Sent., IV, 49, 3; cfr. S. Th., I, q. 76, a. 7,
ad 2°); e più tardi Telesio (De rer. nat., V, 5); Bacone (Nov. Org., II, 7; De
Augm. Scient., IV, 2), Hobbes (De Corp., 25, 10) e specialmente Cartesio che ne
riespose per conto proprio la dottrina (Passions de lame, I, 10). Nel senso
comune di aria o respiro, la parola viene invece usata da alcuni filosofi che
considerano l'anima come aria: per es., da Anassimene, per il quale la dottrina
non è che un corollario del prin- cipio che tutto è aria (Fr. 2, Diels); e da
Epicuro (Ad Herod., 63). PNEUMATICA. V. PNEUMATOLOGIA. PNEUMATICI (gr.
rvevuérixor; lat. Spiritales; ingl. Pneumatics; franc. Pneumatiques; ted. Pneu-
matiker). Con questo termine sono stati indicati: 1° i seguaci della scuola
medica di Galeno: il quale, ispirandosi agli Stoici, aveva identificato nello
pneuma (v.) il principio della vita e distingueva lo pneuma psichico che ha
sede nel cervello, il pneuma zotico o animale che ha sede nel cuore e il pneuma
fisico o naturale che ha sede nel fegato, attribuendo a ciascuno di essi
speciali funzioni nell’organismo; 2° alcuni padri della Chiesa e alcuni
gnostici che insistevano sulla distinzione, che si trova nel Nuovo Testamento
(v. PNEUMA) tra corpo psichico o animale e corpo P. e sulla superiorità di
quest’ultimo; 3° alcuni chimici del sec. xvn e xvin (Boyle, Black, Cavendish,
ecc.) che iniziarono le ricerche sui gas e scoprirono un certo numero di
elementi e composti gassosi. 43 — ABDAGNANO, Dizionario di filosofia.
PNEUMATOLOGIA o PNEUMATICA (ingl. Preumatology; franc. Pneumatologie, Pneu-
matique; ted. Pneumatologie, Pneumatik). Leibniz introdusse il termine
pneumatica per indicare «la conoscenza di Dio, delle anime e delle sostanze
semplici in generale» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 199).
Il termine voleva significare «scienza degli spiriti» e fu ripreso da Wolff per
indicare l’insieme della psicologia e della teologia naturale (Log., 1728, Disc.
Prel., $ 79). Crusius adottava il termine P. per indicare «la scienza
dell’essenza necessaria di uno spirito e delle distinzioni e qualità che
possono essere date a priori» (Entwurf der notwendigen Vernunft wahrheiten, $
424). Rosmini escludeva dalla P. la considerazione di Dio e la restringeva allo
studio degli « spiriti creati » cioè dell'anima umana e degli angeli (Psico/.,
1850, $ 27). D’Alembert restringeva il termine a significare « la prima parte
della scienza dell'uomo + cioè «la conoscenza speculativa del- l’anima umana »
che indicava anche con il nome di metafisica particolare. La conoscenza delle
opera- zioni dell'anima invece costituiva per D’Alembert l'oggetto della logica
e della morale (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in CEuvres, edizione
Condorcet, 1853, pag. 116). Kant osservava a questo proposito che la psicologia
razionale non potrà mai diventare pneumatologia cioè vera e propria scienza,
allo stesso modo in cui la teologia non può diventare teosofia (Crit. del
Giud., $ 89). Il termine è ora caduto completa- mente in disuso. POESIA (gr.
rolnoc; lat. Poesia; ingl. Poetry; franc. Poésie; ted. Dichtung). Una forma
finale dell'espressione linguistica, di cui il ritmo o la musica sia condizione
essenziale. Si possono distin- guere tre concezioni fondamentali e cioè: 1° la
P. come stimolo o partecipazione emotiva; 2° la P. come verità; 3° la P. come
modo privilegiato di espressione linguistica. 1° La concezione della P. come
stimolo emotivo fu esposta per la prima volta da Platone: « La parte dell'anima
che nelle nostre private disgrazie ci sforziamo di tenere a freno e che ha sete
di lacrime e vorrebbe sospirare e lamentarsi a suo agio. essendo questa la sua
natura, è proprio quella cui i poeti procurano soddisfazione e compiacimento..,
Riguardo all’amore, alla collera e a tutti i movimenti dolorosi o piacevoli
dell'anima, che sono insepara- bili da ogni nostra azione, si può dire che gli
stessi effetti produca l'imitazione poetica: giacchè mentre bisognerebbe
inaridirli essa li innaffia e nutrisce e così rende padrone di noi quelle
facoltà che do- vrebbero invece ubbidire affinchè noi divenissimo più felici e
migliori » (Rep., X, 606 a-d). Platone osserva a questo proposito che il lato
emotivo 674 dell’arte non è minore per il fatto che in essa si tratta di
emozioni altrui perchè « necessariamente le emozioni altrui diventano nostre »
(/bid., 606 b). Non c’è dubbio pertanto che la caratteristica fondamentale
della P. imitativa (nonchè la ragione per la sua condanna) sia per Platone la
partecipa- zione emotiva su cui essa è fondata e il rafforzamento delle
emozioni che a tale partecipazione consegue. Giambattista Vico da un lato
estese la partecipa- zione emotiva, riconosciuta propria della P., all’in- tero
universo; dall’altro tolse ad essa il carattere di condanna che Platone le
aveva attribuito. « Il sublime lavoro della P., egli scrisse, è alle cose
insensate dare senso e passione ed è proprietà dei fanciulli di prender cose
inanimate fra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle,
persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne approva che gli uomini
del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti» (Scienza Nuova, 1744,
Degn. 37). La P. è pertanto secondo Vico legata ai «robusti sensi» e alle «
vigorosissime fantasie » degli uomini primitivi o bestioni; e il suo triplice
scopo è quello di « ritruovare favole sublimi confa- centi all’intento
popolaresco », di «perturbare all’eccesso » e di « insegnare il volgo a
virtuosamente operare» (/bid., II; cfr. Lettera a Gherardo degli Angioli). Da
questo punto di vista P. e filosofia stanno agli antipodi e «la fantasia tanto
è più robusta quanto è più debole il raziocinio » (/bid., Degn. 36). Lo stesso
concetto della P. come stimolo o partecipazione emotiva si trova nella teoria
dell’empatia (v.) che considera l’attività estetica come la proiezione delle
emozioni del soggetto nell’oggetto estetico. L’empatia è, secondo il principale
sostenitore della teoria Teodoro Lipps, un atto originale, essenzialmente
indipendente dall’associazione delle idee e radicato profonda- mente nella
stessa struttura dello spirito umano (Aesthetik I, 1903, pag. 112 sgg.): essa è
così postu- lata come una facoltà a sè alla quale è affidata, con la funzione
di animare la bruta materialità del mondo esterno, quella di rendere il mondo
familiare e piacevole all’uomo. Infine l’ultimo erede di questo concetto della
P. è il neocempirismo contemporaneo. Sulla base della distinzione tra l’uso
simbolico del linguaggio e il suo uso emotivo, nella P. è stata riconosciuta «
la suprema forma del linguaggio emotivo » cioè di quel linguaggio che ha
unicamente lo scopo di stimolare « emozioni e atteg- giamenti » (I. A.
RICHARDS, Principles of Literary Criticism, 1924; 148 ediz., 1955, pag. 273).
La funzione simbolica (o scientifica) del linguaggio consiste nel simbolizzare
il riferimento all’oggetto e nel comunicare tale riferimento all’ascoltatore
cioè nel causare nell’ascoltatore il riferimento allo stesso oggetto. Invece la
funzione emotiva consiste nel- POESIA l’esprimere emozioni, atteggiamenti,
ecc., nell’evocarli nell’ascoltatore: funzioni che possono essere com- prese in
quella della «evocazione » cioè della stimola- zione dell’emozione (C. K.
OGDEN, I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 1923, 10 ediz., 1952, pag. 149).
Ovviamente, questo punto di vista non è che la ripetizione quasi letterale del
punto di vista platonico. E non diverso significato ha la defini- zione data da
C. Morris del discorso poetico come « discorso principalmente
valutativo-apprezzativo » cioè diretto a «ricordare e sostenere valutazioni già
raggiunte» o a «esplorare nuove valutazioni + (Signs, Language and Behavior,
1946, V, 7). 2° La concezione della P. come verità ri- monta ad Aristotele.
Aristotele riportò la P. alla tendenza all’imitazione, che ritenne innata in
tutti gli uomini come manifestazione della tendenza al conoscere (Poer., 6,
1448 b 5-14). L’imitazione poetica ha, secondo Aristotele, una validità cono-
scitiva superiore all’imitazione storiografica, perchè la P. non rappresenta le
cose realmente accadute ma «le cose ibili secondo verisimiglianza e necessità »
(/bid., 1451 a 38). Perciò essa «è più filosofica e più elevata della storia
perchè esprime l’universale mentre la storia esprime il particolare. Si ha
l’universale infatti quando a un individuo di una certa indole accade di dire o
di fare certe cose in base alla verisimiglianza e alla necessità, ed è questo a
cui mira la P. che dà nome al per- sonaggio proprio in base a tal criterio. Si
ha invece il particolare quando si dice, ad es., che cosa fece Alcibiade e che
cosa gli capitò » (/bid., 9, 1451 b 1, 10). Queste famose determinazioni
aristoteliche equivalgono a porre la P. nella sfera della verità filosofica:
giacchè questa coglie l’essenza necessaria delle cose e l'essenza, nel dominio
delle vicende umane, è costituita dai rapporti di verisimiglianza e necessità
che sono oggetto della poesia. La P. pertanto non ha un grado di verità
inferiore alla filosofia ma ha la stessa verità della filosofia nel dominio che
le è proprio e che è quello dei fatti umani. Questa concezione della P. ha
dominato la tradizione filosofica, nella quale possono distin- guersi di essa
due interpretazioni fondamentali: A) si può scorgere nella P. una verità per
grado o per natura diversa da quella intellettuale o filosofica; B) si può
scorgere nella P. la verità filosofica assoluta. A) La prima posizione è quella
con cui è nata l'estetica moderna. Baumgarten affermò che l’og- getto estetico,
la bellezza, è «la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale » e che
perciò esso non coincide con l’oggetto dell’intelletto cioè con la conoscenza
distinta (Aesthetica, 1750-58, $ 14). Come perfezione della conoscenza
sensibile, la bellezza è universale, ma di un’universalità diversa da quella della
conoscenza perchè astrae POESIA dall’ordine e dai segni e realizza una forma di
unificazione puramente fenomenica (/bid., $ 18). In particolare la P. è,
secondo Baumgarten, « un discorso sensibile perfetto» tale cioè che i suoi vari
elementi (le rappresentazioni, i loro nessi, le voci o segni che le esprimono)
tendono alla conoscenza delle rappresentazioni sensibili (Medi- tationes
philosophicae de nonnullis ad poema perti- nentibus, 1735, $ 1-9). La
determinazione « sensibile + chiarisce il carattere della P. per il quale essa
ha per oggetto rappresentazioni chiare, sì, ma confuse: mentre le
rappresentazioni chiare e distinte cioè com- plete e adeguate non sono
sensibili e quindi neppure poetiche, sicchè filosofia e P. non si trovano
insieme, richiedendo la prima quella distinzione di concetti che la seconda
respinge al di fuori del suo dominio (Medit., cit., $ 14). Analogamente Vico
affermava: « La sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità,
dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta quale questa
or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere di tali
primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi
e vigorosissime fantasie» (Sc. Nuova, 1744, II, Della sapienza poetica). Ma fu
Hegel che dette a questa tesi la migliore espressione. «La P., egli scrisse, è
più antica del linguaggio prosastico artisticamente formato. Essa è la
rappresentazione originaria del vero, è il sapere nel quale l’universale non è
stato ancora separato dalla sua esistenza vivente nel particolare, nel quale la
legge e il fenomeno, lo scopo e il mezzo non sono ancora stati contrapposti
l’uno all’altro, per poi venir di nuovo connessi con il ragionamento, ma si
compren- dono l’uno nell'altro e attraverso l’altro. Perciò la P. non si limita
ad esprimere attraverso l’immagine un contenuto che è già conosciuto per sè
nella sua universalità, ma all’apposto, conformemente al suo concetto
immediato, essa rimane nell’unità sostanziale nella quale non ancora è stata
fatta una tale separazione o stabilito un tale rapporto + (Vorlesungen iiber
die Aesthetik, ed. Glockner, III, pag. 239). Con ciò la P. (come l’intero
dominio dell’arte) rimane pur sempre, per Hegel, al di qua o al di sotto della
filosofia, nella quale soltanto l’Idea si rivela o si attua nella sua vera
natura, che è universalità o ragione, non immediatezza o immagine; ma
appartiene tuttavia, insieme con la filosofia e con la religione (alla quale
anche è subor- dinata) alla sfera della Verità assoluta. Nell’idea- lismo di
derivazione romantica il concetto di P. è rimasto sostanzialmente quello
espresso da Hegel. Croce, dopo avere insistito sulla priorità dell’arte
rispetto alla conoscenza intellettuale vera e propria, quindi sulla sua
relativa autonomia di fronte alla filosofia (con la quale però non ha mai
negato 675 che l’arte condividesse lo status di conoscenza), ha finito per
insistere sempre più sui caratteri di totalità e di universalità
dell’espressione artistica: caratteri che ravvicinano tale espressione alla
verità filosofica. « L'espressione poetica, egli scrisse, è, diversamente dal
sentimento, una feorési, un conoscere e perciò stesso, laddove il sentimento
aderisce al particolare e per alto e nobile che sia nella sua scaturigine, si
muove necessariamente nella unilateralità della passione, nell’antinomia del
bene e del male e nell’ansia del godere e del soffrire, la P. riannoda il
particolare all’universale, accoglie sorpassandoli del pari dolore e piacere e
di sopra il cozzare delle parti contro le parti, innalza la visione delle parti
nel tutto, sul contrasto l'armonia, sull’angustia del finito la distesa
dell’infinito. Questa impronta di universalità e di totalità è il suo carat-
tere » (La poesia, 1936, pag. 8-9). Con ciò il valore della P. veniva posto
proprio nella sua teoreticità cioè nella sua validità conoscitiva; e la P.
veniva ad essere quello che già Hegel aveva detto che fosse: una verità
filosofica che si manifesta nell’immediatezza dell'immagine anzichè
nell’universalità del concetto. B) Accanto a questa concezione sta l’altra che,
pur essendo strettamente imparentata con essa, vede nella P. non
l’approssimazione alla verità assoluta ma la stessa verità assoluta. Già
Schiller si era espresso, a proposito della poesia in questi termini. Nello
scritto Sulla poesia ingenua e senti- mentale (1795-96) aveva affermato che il
poeta o è natura egli stesso cioè sente naturalmente e quindi imita la natura;
o si sente estraniato dalla natura e ne va in cerca nostalgicamente configurandola
come ideale. Nel primo caso, il poeta è ingenuo come nell’antica Grecia; nel
secondo caso è sentimentale, come nell'età moderna. Ma in entrambi i casi, la
P. è l'assoluto. Difatti la P. ingenua è rappre- sentazione assoluta cioè
conclusa, totale e definitiva; e la P. sentimentale è rappresentazione
dell’assoluto cioè di un ideale compiuto, per quanto lontano, di perfezione
(Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 122 sgg.). Schiller fu ben deciso a mantenere
su questo punto la superiorità della P. sulla filosofia: egli non esitava ad
affermare che«l’unicoverouomo è il poeta e nei suoi confronti il miglior
filosofo è solo una caricatura » (Carteggio Goethe-Schiller, 7-1-1795; trad.
Santangelo). Questa tesi rappresenta indubbia- mente un filone importante e ben
determinato della concezione romantica della poesia. Diceva Schelling: «La
facoltà poetica è ciò che nella prima potenza è l’intuizione originaria; e
viceversa, la sola intui- zione produttiva che si ripeta nella più alta potenza
è ciò che noi chiamiamo facoltà poetica » (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, VI, $ 3). La facoltà poetica realizza in atto l’unità
dell’attività conscia e dell’attività inconscia, che costituisce 676 la natura
dell’Io assoluto. « Ciò che chiamiamo natura è un poema, chiuso in caratteri
misteriosi e mirabili. Ma se l’enigma si potesse svelare noi vi conosceremmo
l'odissea dello Spirito, il quale, per mirabile illusione, cercando se stesso,
sfugge se stesso» (/bid.). Nella filosofia contemporanea questo punto di vista
è stato riespresso da Hei- degger: « La P. è la nominazione fondatrice del-
l'essere e dell’essenza di tutte le cose; non è un qualsiasi semplice dire ma è
quello per il quale si trova inizialmente rivelato tutto ciò che noi dibattiamo
e trattiamo in seguito nel linguaggio di tutti i giorni. In conseguenza, la P.
non riceve mai il linguaggio come una materia da manipolare e che gli sarebbe
presupposta ma al contrario è la P. che comincia a rendere possibile il
linguaggio. La P. è il linguaggio primitivo di un popolo e l’essenza del
linguaggio dev'essere compresa a partire dall’essenza della P.» (Holderlin und
das Wesen der Dichtung, 1936, $ 5). Come linguaggio originario, la P. è la
verità stessa vale a dire la manifestazione o svelamento dell’Essere (Holzwege,
1950, pag. 252 sgg.). 3° La terza concezione fondamentale è a prima vista meno
filosofica delle altre perchè non consiste nel riconoscere alla P. un compito
determi- nato in una metafisica particolare nè nel connet- terla con una
determinata facoltà o categoria dello spirito o nel riservarle un posto
nell’enciclopedia del sapere umano, ma soltanto nel porre in luce certi tratti
che la P. possiede nelle sue più riu- scite realizzazioni storiche e nel
riassumerli in una definizione generalizzante. Tuttavia questo è il solo
procedimento che può dar luogo a una defi- nizione funzionale della P.: ad una
definizione cioè che si presti ad esprimere e a orientare l’effettivo lavoro
dei poeti. A tale definizione hanno pertanto contribuito i poeti stessi, più
che i filosofi, per quanto anche questi hanno talora saputo cogliere aspetti
importanti di essa. Ovviamente, da questo punto di vista, la P., almeno a prima
vista, non è che un certo modo privilegiato di espressione linguistica:
privilegiato in virtù di una speciale funzione che gli si riconosca. Il
privilegio ricono- sciuto al modo poetico dell’espressione è frequente- mente
determinato come «libertà ». Kant dopo aver detto che « le arti della parola »
sono l’eloquenza e la P., afferma: «L’eloquenza è l’arte di trat- tare un
compito dell’intelletto come se fosse un libero giuoco dell'immaginazione; la
P. è l'arte di dare ad un libero giuoco dell’imma- ginazione il carattere di un
compito dell’intel- letto » (Crit. del Giud., $ 51). Qui la nozione di « giuoco
» serve a sottolineare il carattere libero del- l’attività poetica nei
confronti di qualsiasi scopo uti-litario; e la nozione di « compito
dell’intelletto » sta POESIA a significare la disciplina che la P. si dà pur
nella libertà del suo giuoco. Da questo punto di vista la funzione
dell’espressione poetica è la liberazione del linguaggio dai suoi usi utilitari
e la sua elabora- zione in una disciplina autonoma. Sugli stessi carat- teri
dell'espressione poetica ha insistito Dewey. Se tra prosa e P. egli dice, non c’è
una differenza esattamente definibile, tra prosaico e poetico c’è un abisso in
quanto sono termini estremi limitativi di tendenze dell’esperienza. Il prosaico
realizza il potere delle parole di esprimere « per mezzo del- l'estensione »;
il poetico quello di esprimere per mezzo dell’intensione. Il prosaico è
questione di descrizione e di narrazione e accumula dettagli; il poetico,
inverte il processo, « condensa e abbrevia, dando così alle parole un’energia
di espansione che è quasi esplosiva ». Perciò nella P. « ogni parola è
immaginativa, come fu in verità anche in prosa fino a quando, per il logorio
dell’uso, le parole non furono ridotte ad essere semplici enumeratori +» e «la
forza immaginativa della letteratura è un’inten- sificazione della funzione idealizzante
assolta dalle parole nel linguaggio ordinario » (Art as Experience, 1934, cap.
10; trad. ital, pag. 284-85). L'inten- sione di cui parla Dewey non è
un'intensità emotiva, ma un’intensità espressiva, cioè una carica maggiore del
significato delle parole non consunte dall’uso. Ora che alla P. sia affidata
questa funzione di conservare e ripristinare nel linguaggio la sua carica di
significato, di ripulirlo e mantenerlo efficiente, di rinnovarlo e
perfezionarlo, è quanto hanno detto, da un secolo a questa parte, molti poeti
che hanno riflettuto sul loro proprio lavoro. Le tesi fondamentali della
concezione della P. elaborata o presupposta dai poeti moderni possono essere
ricapitolate nel modo seguente: 1° L'indipendenza della P. da ogni scopo interessato
o utilitario. Questo carattere venne espresso con la formula dell’arte per
l’arte, alla quale aderirono nel secolo scorso artisti come Flaubert, Gautier,
Baudelaire, Walter Pater, Oscar Wilde e Allan Poe. L'obbiettivo contro cui
questa formula è diretta è la subordinazione della P. all’emozione o alla
verità o al dovere; il suo signi- ficato positivo è la libertà della P. nel
senso in cui era stato affermato, per es., da Kant. « Comporre semplicemente
versi, scrivere un romanzo, scal- pellare il marmo, son cose che andavan bene
una volta, dice Flaubert, quando non c’era la missione sociale del poeta. Ora
ogni opera deve avere il suo significato morale, il suo ben dosato
insegnamento; bisogna che un sonetto abbia una portata filosofica, che un
dramma pesti le dita ai monarchi e. che un acquarello ingentilisca i costumi.
L’avvocatume s'insinua dappertutto insieme con la smania di discutere, di
perorare e arringare» (Leftre dè POESIA Louise Colet, 18 settembre 1846). E
Gautier pro- clamava nell’editoriale introduttivo del periodico L’artiste (14
dicembre 1856): «Noi crediamo nell'autonomia dell’arte; per noi l’arte non è un
mezzo per un fine; un artista che persegue un obbiettivo diverso dal bello non
è, secondo noi, un artista ». La formula dell’arte per l’arte è perciò
sostanzialmente la difesa della P. contro ogni tentativo di farne lo strumento
di propaganda di uno scopo qualsiasi. 2° Il riconoscimento della bellezza come
unico fine della poesia. Poichè l’arte non può essere subordinata al bene o al
vero o a cose che pretendano avere tali caratteri, rimane, come suo unico fine,
la bellezza; e precisamente la bellezza formale cioè indipendente dai contenuti
che le sono offerti dall'emozione o dall’intelletto. Dice Flaubert: « Poeta
della forma! Ecce la gran parola ingiuriosa che gli utilitari gettano in faccia
ai veri artisti... Non ci sono bei pensieri senza belle forme e vice- versa...
Si rimprovera chi scrive in buono stile di trascurare l’idea, il fine morale;
come se il compito del medico non fosse di sanare, quello del pittore di
dipingere, quello dell’usignolo di cantare e il fine dell’arte non fosse,
anzitutto, il bello +» (Lettre à Louise Colet, 18 settembre 1846). E Poe
affermava: « La P. come arte della parola è la creazione ritmica della
bellezza. Il solo arbitro di essa è il gusto: con l’intelletto o con la
coscienza essa ha solo relazioni collaterali. Ameno che non sia per caso, non
si cura assolutamente nè del dovere nè della verità » (« The Poetic Principle
», Works, ed. Har- rison, XIV, pag. 275). 3° Il carattere oggettivo della
bellezza, per cui essa è al di là dell’emozione vissuta. Diceva Flaubert: «
Meno si sente una cosa € più si è atti ad esprimerla qual è (qual è sempre, in
sè, nella sua universalità. liberata da tutte le sue contingenze effimere),
Bisogna però possedere la facoltà di farla sentire a se stessi, facoltà che non
è altro che il genio » {Lettre à Louise Colet, 6 luglio 1852). E T. S. Eliot ha
ribadito: «La P. non è un libero movimento dell’emozione ma una fuga
dall'emozione; non è l'espressione della personalità, ma la fuga dalla
personalità. Naturalmente però solo coloro che posseggono personalità ed
emozione sanno che cosa s'intende dire accennando alla necessità della fuga da
queste cose... L'emozione dell’arte è impersonale. E il poeta non può
raggiungere questa impersonalità senza arrendersi interamente all’opera che
dev'essere fatta» (7hie Sacred Wood, 1920; trad. ital., pag. 124-25). Nello
stesso senso Unga- retti ha detto: « Tutta la mia attività poetica, dal 1919,
si svolgeva in quel senso; un senso più obbiettivo... cioè una proiezione e una
contempla- zione dei sentimenti negli oggetti, un tentare di 677 elevare a idee
e miti la propria esperienza biografica » (La terra promessa, Nota di Leone
Piccioni). 4° Il carattere costruttivo della P. e costruito della bellezza. Su
esso hanno insistito Poe, Bau- delaire e Valéry. Il primo ha descritto la
costruzione di una P. come una specie di lavoro artigiano (« The Philosophy of
Composition » in Works, ed. Harrison, XIV, pag. 196). Baudelaire dal suo canto
ha insistito sul concetto dell’arte come com- posizione: «Tutto l’universo
visibile, egli ha detto, non è che un magazzino di immagini e di segni ai quali
l'immaginazione darà un posto e un valore relativo; è una specie di foraggio
che l’immagina- zione deve digerire e trasformare» («Salon de 1859 », (Euvres,
ed. Le Dantec, II, pag. 232). Ma è soprattutto Valéry che ha insistito, ai
nostri giorni, sul carattere dell’arte come costruzione: « Le crea- zioni
dell’uomo, egli ha detto, sono fatte o in vista del proprio corpo — e tale
principio egli chiama utilità — o in vista della propria anima; e questo egli
cerca sotto il nome di bellezza. Ma d’altra parte colui che costruisce o che
crea, impegnato com'è con il resto del mondo e col movimento della natura che
tendono perpetuamente a dissol- vere, corrompere o rovesciare quel che egli fa,
deve ravvisare un terzo principio che tenta di comunicare alle proprie opere e
che esprima la resistenza che dev’essere da queste opposta al proprio destino
di periture. Crea insomma la solidità e la durata. Ecco le grandi
caratteristiche di un’opera completa. L'architettura soltanto le esige e le
porta al punto più alto. Ad essa io guardo come all’arte più completa »
(Eupalinos, trad. ital., pag. 141-42). Il carattere architettonico dell’arte è
così condizionato dalla resistenza che essa incontra nelle forze naturali e
dalla vittoria sopra questa resistenza. Dall’altro lato un corollario, del
carat- tere costruttivo o architettonico dell’attività poetica è il controllo
sull’ispirazione, controllo sul quale aveva già insistito Baudelaire: « Un
nutrimento sostanzioso e regolare, egli aveva scritto, è la sola cosa
necessaria agli scrittori fecondi. L'ispirazione è decisamente la sorella del
lavoro giornaliero. Questi due contrari non si escludono più che non si
escludano i contrari che costituiscono la natura. L’ispirazione obbedisce, come
la fame, come la digestione, come il sonno» (« Conseils aux jeunes littérateurs
+, 6, Euvres, ed. Le Dantec, II, pag. 388). 5° L’insistenza sul carattere
comunicativo della poesia. Diceva Flaubert: « Il poeta deve simpatiz- zare con
tutto e con tutti per comprenderli e descriverli » (Lettre à M.Ile Leroyer de
Chantepie, 12 dicembre 1857). E Baudelaire: « Preferisco il poeta che si mette
in comunicazione permanente con gli uomini del suo tempo e scambia con essi
pensieri e sentimenti tradotti in un nobile linguaggio 678 sufficientemente
corretto. Il poeta, situato su uno dei punti della circonferenza dell’umanità,
rinvia sulla stessa linea, in vibrazioni più melodiose, il pensiero umano che
gli fu trasmesso. Ogni vero poeta dev’essere un’incarnazione» (« Pierre Du-
pont +, CEuvres, ed. Le Dantec, II, pag. 404). 6° La ricerca della perfezione
formale cioè dell’esattezza o della precisione espressiva. Flau- bert voleva
che la P. fosse «precisa quanto la geometria » (Lettre à Louise Colet, 14
agosto 1853) e affermava: « Più un’idea è bella e più la frase è armoniosa. La
precisione del pensiero fa (anzi è, essa stessa) la precisione della parola»
(Lettre à M.lle Leroyer de Chantepie, 12 dicembre 1857). Mallarmé ha insistito
su quest’aspetto della P.: «L'arte suprema, egli diceva, consiste nel lasciar
vedere, col possesso impeccabile di tutte le facoltà, che si è in estasi, senza
aver mostrato come ci s’innalzava verso le cime» (Lettre à Henri Cazalis, 27
novembre 1863). Valéry ha scritto allo stesso proposito: «Ho cercato
l’esattezza nei pensieri, sicchè, palesemente generati dall’osservazione delle
cose, si mutino, come per processo spontaneo, negli atti della mia arte. Ho
distribuito le mie attenzioni; ho rifatto l'ordine dei problemi; comincio dove
prima finivo per andare un poco più in là... Avaro di fan- tasie, concepisco
come se inseguissi » (Eupalinos; trad. ital., pag. 91). E Ungaretti ha detto
nello stesso senso: «Sognavo una P. dove la segretezza dell’a- nimo, non
tradita nè falsata negli impulsi, si conci- liasse a una estrema sapienza di
discorso » (Quaranta sonetti di Shakespeare, Nota intr.). Mallarmé ha esteso la
preoccupazione dell’esattezza allo stesso segno scritto. « L’armatura
intellettuale del poema, egli ha detto, si dissimula e sostiene — ha luogo —
nello spazio che isola le strofe e fra il bianco della carta: significativo
silenzio che non è meno bello a comporsi degli stessi versi » (Lertre non datée
à Charles Morice; cfr. Propos sur la poésie, edi- zione Mondor, pag. 164). 7°
Infine, e come ricapitolazione di tutti gli aspetti precedentemente enumerati
della P.: il compito ad essa attribuito di tenere in efficienza il linguaggio.
Questo compito è stato illustrato con tutta l’energia e la chiarezza
desiderabili da Fzra Pound. La funzione della letteratura egli ha scritto « non
è la coercizione o la persuasione per via emotiva» nè il forzare la gente a una
certa opinione. « Essa riguarda la chiarezza e il vigore di qualsiasi pensiero
e opinione. Riguarda la preser- vazione e la pulizia stessa degli strumenti, la
salute della sostanza stessa del pensiero. Tranne che nei casi rari e limitati
di invenzione nelle arti plastiche o nella matematica, l’individuo non può
pensare e comunicare il suo pensiero, il reggitore e il legi- slatore non
possono agire efficacemente e redigere le POETICA loro leggi, senza le parole,
e la solidità e validità di queste parole sono affidate alla cura dei maledetti
e disprezzati letterati » (Literary Essays; trad. ital., pag. 47). Da questo
punto di vista « mantenere efficiente il linguaggio è altrettanto importante ai
fini del pensiero come in chirurgia tener lontano dalle bende i bacilli del
tetano » e questo compito è proprio della P. che « è semplicemente linguaggio
carico di significato al massimo grado possibile + (Ibid., pag. 49). C’è un
triplice modo in cui la P. esegue questo compito e perciò ci sono tre generi di
P.: la melopea, per cui «le parole sono caricate, al di là del loro significato
comune, di qualche qualità musicale che condiziona la portata e la direzione di
quel significato »; la fanopea, che è «un proiettare le immagini sulla fantasia
visiva +; e la /ogopea, per cui le parole vengono usate non solo nel loro
significato diretto ma anche in vista delle consuetudini d’uso, del contesto,
delle conco- mitanze abituali, delle accezioni note e del giuoco ironico
(/bid., pag. 52). Non c’è dubbio che queste notazioni di Pound costituiscono il
punto culminante dell’estetica contemporanea della poesia. POETICA. V.
ESTETICA. POIETICO (gr. romuxés; ingl. Poietic; fran- cese Poietique; ted.
Poietik). Produttivo o creativo, in quanto distinto da pratico. Secondo
Aristotele l’arte è produttiva mentre l’azione non lo è (£r. Nic., VI, IV,
1140a 4). Plotino chiamava P. le cause efficienti (Enn., VI, 3, 18, 28). V.
ENCICLOPEDIA. POLARITÀ (ingl. Polarity; franc. Polarité; ted. Poldritar). La
connessione necessaria di due princìpi tra loro opposti. In questo senso il
concetto fu adoperato da Schelling nello scritto Sull'amima del mondo (1798).
L’anima del mondo, secondo Schelling, agisce nella natura mediante le due forze
opposte della attrazione e della repulsione, il cui conflitto costituisce il
dualismo e la cui unifica- zione costituisce la P. della natura (Werke, I, II,
pag. 381). Talvolta il concetto di P. è stato genera- lizzato in un vero e
proprio principio. Così ha fatto, nella filosofia contemporanea, Morris R.
Cohen che l’ha inteso come « il principio non del- l’identità ma della
necessaria compresenza e reci- proca subordinazione delle determinazioni
opposte +. Nella fisica, questo principio sarebbe rappresentato dalla legge di
azione e reazione e da quella che là dove c’è forza c’è resistenza. In
biologia, sarebbe espresso dall’aforisma di Huxley che il protoplasma riesce a
vivere solo morendo di continuo. Nell’etica, si esprimerebbe nella dipendenza
reciproca tra sacri- ficio di sè e realizzazione di sè (/nrroduction to Logic,
IV, 2; trad. ital., pag. 125). POLEMICO (ingl. Polemic; franc. Polémique; ted.
Polemisch). Kant ha inteso per « uso P. della ragione » la difesa degli
enunciati di essa contro POLITICA le negazioni dogmatiche. Le negazioni
dogmatiche degli enunciati razionali sono le negazioni scettiche, considerate
da Kant come le posizioni di un dogma- tismo negativo, semplicemente
preparatorio rispetto ad una critica della ragione cioè ad un esame dei limiti
e dei confini precisi della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dottrina
trascendentale del metodo, cap. 1, sez. 2). POLIADICO (ingl. Polyadic). Nella
logica contemporanea sono qualificati con questo termine gli enunciati (o le
relazioni) costituiti da tre o più termini: per es., l’enunciato «Tizio deve a
Caio mille lire» dove compaiono tre termini, Tizio, Caio e mille lire (cfr., ad
es., DEWEY, Logic, XVI; trad. ital., pag. 413 sgg.). POLIGENESI. V. ORTOGENESI.
POLIGONIA. Gioberti parlò di una «P. del cattolicesimo » cioè del rifrangersi
della parola rivelata nell’individualità dei singoli pur mantenen- dosi una,
come uno è il poligono sebbene abbia infiniti lati (Riforma cattolica, ed.
Balsamo-Crivelli, pag. 147-48). Lo stesso che multilateralità. POLILEMMA (ingl.
Polilemma; franc. Poli- lemme; ted. Polilemma). Termine moderno per indicare un
dilemma (v.) a tre o più alternative (TRroxLER, Logik, II, 1829, pag. 102; B.
ERDMANN, Logik, 1892, $ 75). POLIMATIA (gr. roQvpadia). Il saper molte cose.
Disse Eraclito: «Il saper molte cose non insegna ad avere intelligenza;
altrimenti l’avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora e tanto più a Senofane e
ad Ecateo» (Fr. 40, Diels). Kant ha chiamato P. il possesso delle conoscenze
razionali, mentre polistoria sarebbe il sapere storico o dei fatti e pansofia
l'insieme dei due (Logik, Intr., $ VI). POLISEMIA (ingl. Polysemy; franc. Poly-
sémie; ted. Polysemie). La diversità dei riferimenti semantici (dei «
significati ») posseduti da una stessa parola (cfr. BréAL, Essai de sémantique,
cap. 14; S. ULLMANN, The Principles of Semantics, 2* ediz., 1957, pag. 63, 114,
174). POLISILLOGISMO (ingl. Polysyllogism; franc. Polysyllogisme; ted.
Polysyllogismus). Ter- mine settecentesco per indicare un sillogismo mol-
teplice o composto, cioè una catena di sillogismi. Tale catena può essere
ordinata in modo tale che ogni sillogismo sia il fondamento di quello che segue
e la conseguenza di quello che precede. Il sillogismo della serie che contiene
la ragione della premessa di un altro sillogismo è chiamato prosil- logismo;
quello che contiene la conseguenza di un altro sillogismo è chiamato
episillogismo (v.). Ogni catena di ragionamenti è perciò costituita di pro-
sillogismi e di episillogismi (WOLFF, Log., $ 492-94; KANT, Logik, $ 86;
HAMILTON, Leciures on Logic, $ 68; B. ERDMANN, Logik, $ 85). 679 POLITEISMO
(ingl. Polytheism; franc. Po- Iythéisme; ted. Polytheismus). Sulla nozione di
P., v. Dro, 3, «). Il P. è ben lungi dall’essere una cre- denza primitiva e
grossolana, inconciliabile con la riflessione filosofica. Poichè esso è
presente già nella distinzione tra la divinità e Dio, sono in realtà
politeistiche molte filosofie talora assunte come ti- picamente monoteistiche,
per es., quella di Ari- stotele. Il P. è stato talora esplicitamente difeso dai
filosofi moderni. Già Hume osservava nella Storia naturale della relîgione
(1757), che il pas- saggio dal P. al monoteismo non deriva dalla riflessione
filosofica ma dal bisogno umano di adu- lare la divinità per tenersela buona; e
che al mono- teismo si accompagna spesso l’intolleranza e la persecuzione giacchè
il riconoscimento di un unico oggetto di devozione conduce a considerare as-
surdo ed empio il culto di altre divinità (Essays, II, pag. 335 sgg.). Nell’età
moderna sulla superio- rità del P. hanno insistito Renouvier (Psychologie
rationelle, 1859, cap. 25) e James (A Pluralistic Universe, 1909); ma
politeistiche sono molte altre dottrine, compresa quella di Bergson. Max Weber
ha considerato il P. come la lotta fra i diversi valori o le diverse sfere di
valori tra cui l’uomo deve pren- dere posizione e che non si conclude mai con
la vittoria di un valore solo. In questo senso il mondo dell’esperienza non
arriva mai al monoteismo ma si ferma al P. (Zwischen zwei Gesetze, 1916, in
Gesammelte Politische Schriften, pag. 60 sgg.). POLITICA (gr. rormxh; lat. Politica;
inglese Politics; franc. Politique; ted. Politik). Sotto questo nome sono state
intese più cose e precisamente: 1° la dottrina del diritto e della morale; 2°
la teoria dello Stato; 3° l’arte o la scienza del governo; 4° lo studio dei
comportamenti intersoggettivi. 1° Il primo concetto è quello esposto nell’Etica
di Aristotele. La ricerca intorno a ciò che dev'essere il bene e il bene
supremo sembra appartenere, dice Aristotele, alla scienza più importante e più
archi- tettonica. «E questa pare che sia la politica. Essa infatti determina
quali scienze sono necessarie nelle città e quali, e fino a che punto, ciascun
cittadino deve apprenderle» (E. Nic., I, 2, 1094a 26). Questo concetto della P.
è rimasto lungamente nella tradizione filosofica. Diceva, ad es., Hobbes: «La
P. e l’etica, cioè la scienza del giusto e del- l’ingiusto, dell’equo e
dell’iniquo, si può dimostrare a priori in quanto i princìpi coi quali si può
giu- dicare che cosa siano il giusto e l’equo o i loro contrari, cioè le cause
della giustizia, cioè le leggi o le convenzioni, li abbiamo fatti noi stessi»
(De Hom., X, $ 5). In questo senso Althusius intitolava il suo trattato sul
diritto naturale Politica metho- dice digesta (1603): e trattati di P. furono
conside- rati tutti gli scritti sul diritto naturale (v. DIRITTO). 680 2° Il
secondo significato del termine è quello esposto nella Politica di Aristotele.
«È chiaro, diceva Aristotele, che c'è una scienza cui spetta di cercare quale
sia la migliore costituzione: quale più di ogni altra sia adatta a soddisfare i
nostri ideali, quando non vi fossero impedimenti esterni; e quale si adatti
alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica. Poichè è quasi
impossibile che molti possano attuare la migliore forma di go- verno, il buon legislatore
e il buon uomo politico devono sapere quale sia la migliore forma di go- verno
in senso assoluto e quale sia la migliore forma di governo entro certe
condizioni date + (Pol., IV, 1, 1288 b 21). In questo senso la P. ha due
compiti, secondo Aristotele: 1° quello di de- scrivere la forma di uno Stato
ideale; 2° quello di determinare la forma del migliore Stato possibile in
rapporto a circostanze date. Ed effettivamente la P. come teoria dello Stato ha
seguito o la via utopistica della descrizione dello Stato perfetto, secondo
l’esempio della Repubblica di Platone, o quella più realistica dei modi e delle
vie per mi- gliorare la forma dello Stato, che è quella che Aristotele stesso
seguì in una parte del suo trattato. Le due parti tuttavia non sono sempre
agevol- mente distinguibili e non sempre sono state di- stinte. Quando a
partire da Hegel lo Stato cominciò a essere considerato come « il Dio reale +
(v. STATO) e il carattere della divinità dello Stato fu accettato dalla scuola
storica, la P., come teoria dello Stato, volle avere carattere descrittivo e
normativo in- sieme. Così Treitschke delineava il compito di essa in questo
senso: «Il compito della P. è triplice: deve in primo luogo investigare,
dall’osservazione del mondo reale degli Stati, qual'è il concetto fon-
damentale dello Stato; in secondo luogo indagare storicamente ciò che nella
vita politica i popoli hanno voluto, prodotto e conseguito e il perchè lo hanno
conseguito; e in terzo luogo, ciò facendo, essa giunge a scoprire alcune leggi
storiche e a stabilire gli imperativi morali » (Politik, 1897, Intr.; trad.
ital, I, pag. 2-3). Come già nell’opera del Treitschke, la P. come teoria dello
Stato è stata spesso una teoria dello Stato come forza: tale in- fatti essendo
il significato di ogni divinizzazione dello Stato (v.). 3° La P. come arte o
scienza di governo è il concetto che Platone espose e difese nel Politico con
il nome di «scienza regia » (Pol., 259a-b) e che Aristotele assunse come rerzo
compito della scienza politica. « Un terzo ramo della ricerca è quello il quale
considera in che modo un governo è sorto e in che modo, una volta sorto, può
essere conservato per il maggior tempo possibile » (Zbid., IV, 1, 1288 b 27).
Fu questo il concetto della P. di cui Machiavelli accentuò il crudo realismo
con POLITICA famose parole: «E molti si sono immaginati re- pubbliche e
principati che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero. Perchè elli
è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che
lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la
ruina che la preservazione sua; perchè uno uomo, che voglia fare in tutte le
parti professione di buono, con- viene rovini infra tanti che non sono buoni.
Onde è necessario a uno principe, volendosi mante- nere, imparare a potere
essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità » (Princ., XV). In
questo senso Wolff definiva la P. come «la scienza di dirigere le azioni libere
nella società civile o nello Stato » (Log., Disc., $ 65). E questa è la scienza
o l’arte politica cui si fa più frequente rife- rimento nel discorso comune.
Riferendosi appunto a questo concetto Kant diceva: « Per quanto la massima:
L’onestà è la migliore P., implichi una teoria che la pratica purtroppo
smentisce assai spesso, tuttavia la massima parimenti teoretica l’onestà è
migliore di ogni P., è al di sopra di ogni obiezione, è anzi la condizione
indispensabile della P.» (Zum ewigen Frieden, Appendice, I). E Hegel dall’altro
lato diceva: « Si è discusso molto, un tempo, dell’antitesi tra morale e P. e
dell’esi- genza che la seconda sia conforme alla prima. A questo punto conviene
solo notare in generale che il bene di uno Stato ha un diritto del tutto
diverso dal bene del singolo e che la sostanza etica, lo Stato, ha la sua
esistenza, cioè il suo diritto, immediata- mente in un'esistenza non astratta
ma concreta e che soltanto quest’esistenza concreta, non una delle molte
proposizioni generali, ritenute per precetti morali, può essere principio del
suo agire e del suo comportamento. Anzi, la veduta del torto pre- sunto che la
P. deve sempre avere, in questa antitesi presunta, si fonda ancora sulla
superficialità delle concezioni della moralità, della natura dello Stato e dei
suoi rapporti dal punto di vista morale» (Fil. del Dir., $ 337). Queste parole
di Hegel non sono che la riconferma del principio del machia- vellismo. Ciò che
Hegel chiama l’esistenza dello Stato non è altro che la realtà effettuale di
Ma- chiavelli che la P. dovrebbe sempre avere presente. Per quanto Hegel
dichiarasse superata l’antitesi tra P. e morale, il contrasto tra le due
esigenze è tuttora vivo nella pratica politica e nella coscienza comune e le
forme di equilibrio, da esse raggiunte, sono tuttora provvisorie e instabili.
4° Infine il quarto significato di P. è quello che essa ha cominciato ad avere
a partire da Comte e si identifica con quello di sociologia. Comte chiamò
Sistema di P. positiva (1851-54) la sua massima trattazione di sociologia in
quanto ri- tenne che i fenomeni politici sono soggetti, sia POSITIVISMO nella
loro coesistenza sia nella loro successione, a leggi invariabili, il cui uso
può permettere di in- fluenzare i fenomeni stessi. G. Mosca intese per P.
proprio la scienza della società umana in questo senso. Così egli giustificava
il termine: « Noi lo studio delle tendenze suddette [cioè delle « leggi o
tendenze psicologiche costanti alle quali ubbidi- scono i fenomeni sociali :]
chiamiamo scienza po- litica. Ed abbiamo scelta questa denominazione perchè fu
la prima usata nella storia dello scibile umano, perchè ancora non è caduta in
disuso ed anche perchè il nome nuovo di sociologia che, dopo Augusto Comte si è
da molti scrittori adot- tato, non ha ancora una significazione ben deter-
minata e precisa e, nell’uso comune, comprende tutte le scienze sociali»
(Elementi di scienza poli- tica, 1922, I, I, $ II). Ma in questo senso il
termine è oggi diventato improprio. POLITICISMO (franc. Politisme; ted. Poli-
tismus). La prevalenza o l’importanza eccessiva che le esigenze politiche
assumono talora, nella vita moderna, rispetto alle altre esigenze, cioè alle
esi- genze scientifiche, artistiche, morali, religiose, ePOLITOMIA (franc.
Polytomie; ted. Poly- tomie). La divisione non dicotomica. Kant osserva che la
P. esige l’intuizione: o l’intuizione a priori come accade in matematica o
l'intuizione empirica come nelle scienze della natura. In altri termini la P. è
sempre empirica mentre la dicotomia, fon- data com'è sul principio di
contraddizione, è a priori (Logik, $ 115). POLIVALENTE, LOGICA. V. Terzo
ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. POLIZETESI. V. INTERROGAZIONE MULTIPLA. PONTE DEGLI ASINI (lat. Pons
asinorum; ingl. Asses’ bridge; franc. Pont
aux dines; tedesco Eselsbrilcke). Così fu chiamato, per la sua appa- rente
difficoltà, un diagramma costruito dal logico Pietro Tartareto (la cui attività
letteraria cade fra il 1480 e il 1490), che aveva lo scopo di aiutare lo
studente a trovare il termine medio nelle varie figure del sillogismo. Il
diagramma è riportato da PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 206. Il termine
è stato talora esteso a indicare un punto difficile di qualsiasi insegna- mento
o dottrina. POPOLO (lat. Populus; ingl. People; francese Peuple; ted. Volk).
Una comunità umana carat- terizzata dalla volontà degli individui che la com-
pongono di vivere sotto lo stesso ordinamento giuridico. L’elemento geografico
non è sufficiente a caratterizzare il concetto di P.: come Cicerone diceva, «
P. non è qualsiasi agglomerato di uomini in qualsiasi modo riunito, ma un
agglomerato di gente associata dal consenso allo stesso diritto e da una
comunanza d’interesse » (Rep., I, 25, 39). 681 Al P. si contrappone pertanto la
plebe che è l’in- sieme di quelle persone le quali, pur vivendo in- sieme con
il P., non partecipano allo stesso ordi- namento giuridico. Dall’altro lato il
concetto di P. si distingue da quello di razione (v.) perchè questo contiene un
insieme di elementi necessitanti che si assommano nella nozione di un comune
destino al quale gli individui non possano legittimamente sottrarsi. Dal
concetto di P., il concetto di nazione cominciò a formarsi quando, a partire da
Mon- tesquieu si misero in luce le cause naturali e tradi- zionali (clima,
religione, tradizioni, usi e co- stumi, ecc.) che contribuiscono a formare
quello che Montesquieu chiamò «spirito generale» o « spirito della nazione »
(Esprit des lois, XIX, 4-5). La differenza tra P., nazione e plebe era
abbastanza chiaramente stabilita da Kant (Antr., II, Il carat- tere del
popolo): ma il concetto di P. veniva spesso confuso con quello di nazione nel
nazionalismo ottocentesco (v. NAZIONALISMO; SPIRITO NAZIONALE). PORISTICO
(ingl. Poristic; franc. Poristique; ted. Poristik). Da porisma = corollario. Il
termine designa ciò che è un corollario o concerne un corollario. PORRE (gr. v.8va;
lat. Ponere; ingl. Posit; franc. Poser; ted. Setzen). Questo verbo è stato
usato nel linguaggio filosofico con due differenti significati: 1° asserire o
assumere come ipotesi; 2° P. in essere, produrre. 1° Il primo significato è
quello che già Platone e Aristotele usavano: il primo nel senso di stabilire
un’ipotesi (Teer., 191 c): il secondo in quello di stabilire una premessa (An.
Pr., I, 1, 24b 19) 0 ammettere una tesi (7op., II, 7, 113 a 28). Corrispon-
dentemente, la parola posizione vale genericamente asserzione e Kant afferma
che l’esistenza può es- sere posta, cioè asserita o riconosciuta, non dedotta
(Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demon- stration des Daseins Gottes,
I, $ 2). Il verbo è comu- nemente usato ancor oggi specialmente nel senso di
assumere in via d’ipotesi o come assioma (v.). 2° Nel senso di P. in essere o
produrre o creare, il verbo fu usato da Fichte: « L'essere, l’essenza del quale
consiste puramente in ciò che esso pone se stesso come esistente è l’Io, come
assoluto sog- getto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si pone; l’Io
perciò è assolutamente e necessaria- mente per l’Io» (Wissenschaftslehre, 1794,
$ 1). Quest’uso si conserva in tutta la tradizione del- l’idealismo romantico e
in generale per ogni filo- sofia la quale identifichi ragione e realtà e così
l’atto logico del P. con l’atto reale del produrre. POSITIVISMO (ingl.
Positivism; franc. Posi- tivisme; ted. Positivismus). Il termine fu adoperato
la prima volta da Saint-Simon per designare il metodo esatto delle scienze e
l’estensione di esso 682 alla filosofia (De la religion Saint-Simonienne, 1830,
pag. 3). Esso fu adottato da Augusto Comte per la sua filosofia e per opera di
Comte passò a desi- gnare un grande indirizzo filosofico che, nella seconda metà
del sec. xrx, ebbe numerosissime e svariate manifestazioni in tutti i paesi del
mondo occidentale. La caratteristica del P. è la romanti- cizzazione della
scienza: l’esaltazione di essa ad unica guida della vita singola ed associata
dell’uomo, cioè ad unica conoscenza, ad unica morale, ad unica religione
possibile. Come romanticismo della scienza, il P. accompagna e stimola la
nascita e l’affermazione dell’organizzazione tecnico-industriale della società
moderna ed esprime l’esaltazione ottimistica che ha accompagnato l’origine
dell’industrialismo. Si possono distinguere due forme storiche fondamen- tali
del P.: il P. sociale di Saint-Simon, Comte e Stuart Mill, nato dall’esigenza
di costituire la scienza a fondamento di un nuovo ordine sociale e religioso
unitario; e il P. evoluzionistico di Spencer che estende a tutto l’universo il
concetto di progresso e cerca di farlo valere in tutti i rami della scienza
(per il positivismo evoluzionistico, v. EvoLuzio- Nismo). Le tesi fondamentali
del P. sono le seguenti: 1° La scienza è l’unica conoscenza possibile e il
metodo della scienza è l’unico valido: pertanto il ricorso a cause o princìpi
che non sono accessibili al metodo della scienza non dà origine a cono- scenze;
e la metafisica che fa appunto tale ricorso è priva di qualsiasi valore. 2° Il
metodo della scienza è puramente de- scrittivo, nel senso che descrive i fatti
e mostra quei rapporti costanti tra i fatti che sono espressi dalle leggi e
consentono la previsione dei fatti stessi (Comte); o nel senso che mostra la
genesi evolutiva dei fatti più complessi a partire da quelli più semplici
(Spencer). 3° Il metodo della scienza, in quanto è l’unico valido, va esteso a
tutti i campi dell’indagine e dell’attività umana; e l’intera vita umana,
singola e associata, dev’essere guidata da esso. Il P. ha presieduto alla prima
attiva partecipa- zione della scienza moderna all’organizzazione sociale e
costituisce tuttora un concetto della filo- sofia che rimane una delle
alternative fondamentali di tale disciplina: ciò anche dopo che sono state
abbandonate le illusioni totalitarie del P. romantico, cioè la sua pretesa di
assorbire nella scienza ogni manifestazione dell’uomo. POSITIVISMO GIURIDICO
(ingl. Juridical Positivism; franc. Positivisme juridique). Così Hans Kelsen ha
chiamato la sua dottrina formalistica del diritto e dello stato (Genera/ Theory
of Law and State, 1945; cfr. specialmente l’appendice « La dot- trina del
diritto naturale e il P. giuridico +) (v. Di- RITTO; STATO). POSITIVISMO
GIURIDICO POSITIVISMO LOGICO (ingl. Logica! Posi- tivism; franc. Positivisme
logique; ted. Neupositi- vismus). V. EMPIRISMO LOGICO. POSITIVO (ingl.
Positive; franc. Positif; te- desco Positiv). 1. Ciò che è posto, stabilito o
rico- nosciuto come un fatto. Leibniz chiamava « verità P.» le verità di fatto,
in quanto si distinguono dalle verità di ragione perchè costituiscono « leggi
che Dio si è compiaciuto di dare alla natura» (Théod., Discours, $ 2). Nello
stesso senso si parla di religione P., come religione che di fatto è stabilita
e vige come un complesso di istituzioni storiche, a differenza della religione
naturale che può non valere di fatto; e di diritto P. come diritto vigente in
uno stato determinato, in contrapposizione con il diritto naturale che può non
avere validità di fatto. Le espressioni «fatto P.» e «realtà P.» hanno valore
analogo perchè designano il fatto o la realtà riconosciuta o riconoscibile come
tale in virtù di un metodo obbiettivo. Il significato fonda- mentale del
termine è pertanto, in questa accezione: ciò che vige di fatto o ha realtà
effettiva. Comte non faceva che esprimere questo significato affer- mando:
«Considerato nella sua accezione più antica e più comune, la parola P. designa
il reale r opposizione al chimerico » (Discours sur l’esprit positif, $ 31). Il
positivismo chiamò P. il metodo della scienza in quanto diretto al
riconoscimento puro e semplice dei fatti e dei loro rapporti (v. Post-
TIVISMO). In senso non diverso Schelling chiamò P. la conoscenza che considera
l’atto con cui la realtà è posta. Egli distinse le condizioni nega- tive della
conoscenza, che sono quelle senza cui la conoscenza non è possibile, dalle
condizioni P. che sono quelle per cui la conoscenza diventa effettiva. Le prime
sono le forme razionali del- l’essere e dicono ciò che l’essere può o
dev'essere, le seconde esprimono l’esistenza stessa e consistono
sostanzialmente nella volontà di Dio di manifestarsi (Werke, II, III, pag. 57
sgg.). 2. Lo stesso che affermativo. In questo senso il termine ricorre in
locuzioni come « dichiarazioni P.» o « notizie P.» o anche per designare
dottrine che caratterizzano i loro oggetti con affermazioni, anzichè con
negazioni; per es., «teologia P.» in contrasto con teologia negativa;
«esistenzialismo P.»+; ecc. 3. Lo stesso che positivista, nel senso in cui da
Comte in poi si dice « filosofi positivi ». POSIZIONE (gr. Otorc; lat. Positio;
inglese Posit; franc. Position; ted. Setzung, Position). 1. Assunzione non
dimostrata: 1° della pre- messa di un ragionamento; 2° dell’esistenza di qualcosa.
1° Nel primo senso il termine viene costante- mente usato da Aristotele (cfr.
An. Post., I, 2, POSSIBILE 72a 15)e in tutta la tradizione logica anche
recente, nella quale viene talora esplicitamente ridefinito (cfr. H.
REICHENBACH, The Rise of Scientific Phi- losophy, 1951, pag. 240). 2° Kant
distinse per la prima volta la P. relativa che è il riconoscimento
dell’essere predicativo, cioè
dell’essere espresso dalla copula, che pone in relazione due determinazioni di
una cosa, dalla P. assoluta che è il riconoscimento dell’esistenza della cosa
stessa. «In un esistente, diceva Kant, non è posto nulla più che nel puro
possibile (si tratta infatti dei predicati di essa); ma attraverso un esistente
è posto qualcosa in più che un puro possibile perchè si tratta della P.
assoluta della cosa stessa » (Der einzig méògliche Beweisgrund zu einer
Demonstration des Daseins Gottes, 1763, $ 3). Per Kant la P. è il
riconoscimento (empirico) di una esistenza; nell’idealismo romantico, a partire
da Fichte, la P. fu intesa come creazione. Dice Fichte: « Ciò il cui essere (o
essenza) consiste solamente in questo, che esso pone se stesso come esistente,
è I’Io come assoluto soggetto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si
pone » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Il concetto di P. in questo senso non
si distingue da quello di creazione. Torna a distin- guersi da esso l’uso che
invece ne ha fatto Husserl, che ha visto nella P. l'affermazione dell’esistenza
del- l'oggetto intenzionale. Egli ha distinto la P. attuale che si ha quando
l’oggetto intenzionale è presente, dalla P. porenziale che si ha quando non lo
è (Ideen, I, $ 113). Husserl usa anche il termine posizionalità (tedesco
Positionalitàt) per indicare in generale il ca- rattere, comune a tutte le
esperienze vissute, di porre l'oggetto intenzionale (come esistente o come
desi- derato o come voluto, ecc.). Talvolta sono chia- mati P. gli stessi
oggetti fisici in quanto non defini- bili in termini di esperienza ma
riconosciuti esistenti solo come utili intermediari tra l’esperienza e il lin-
guaggio (QuINE, From a Logical Point of View, II, 6). 2. Nella logica
terministica medievale una ob- bligazione (v.) e precisamente quella che
consiste nell’obbligo di sostenere una proposizione come vera (OckHam, Summa
Log., III, III, 40). POSSESSO (ingl. Possession; franc. Possession; ted.
Besirz). 1. Una qualche garanzia della possi- bilità di disposizione e d’uso di
una cosa. Questo è il concetto di Kant: « Ciò che è giuridicamente mio (mem
juris) è ciò con cui io sono così legato che l’uso che un altro potrebbe farne
senza il mio consenso mi danneggerebbe. Il P. è la condizione soggettiva della
possibilità dell’uso in generale» (Met. der Sitten, I, $ 1). La nozione di P.
riguarda pertanto il rapporto tra l’uomo e le cose ed esprime una certa
garanzia (che può avere significati e limiti diversissimi) della possibilità
d’uso che un individuo determinato ha nei confronti di una cosa 683
determinata. Solo impropriamente la nozione di P. viene riferita ai rapporti
tra le persone. 2. Nel significato più generale, il termine de- signa qualsiasi
relazione predicativa e esistenziale; e si dice, per es., «La cosa x possiede
la qualità a » o «L'oggetto x possiede l’esistenza ». In questo senso l’uso del
termine corrisponde a quello che Aristotele ne fece contrapponendolo a
privazione (cfr. Met., X, 4, 1055a 33) (v. PRIVAZIONE). POSSIBILE (gr. cò
Suvaréy; lat. Possibilis; in- glese Possible; franc. Possible; ted. Moglich).
Ciò che può essere o non essere. Questa definizione nominale è abitualmente
presupposta dalle definizioni con- cettuali che sono state date del termine, ma
solo queste ultime consentono la trattazione dei pro- blemi propri della
nozione. Le definizioni concettuali di possibile possono essere: A) definizioni
negative, di natura logica; 8) definizioni positive. A loro volta quest'ultime
possono essere: 1° definizioni della possibilità reale; 2° definizioni della
possibilità oggettiva. Le tre classi di definizioni che così risul- tano
corrispondono quasi perfettamente alle tre specie del P. distinte da Aristotele
nella metafisica: « Il P. significa: 1° ciò che non è di necessità falso; 2°
ciò che è vero; 3° ciò che può essere vero » (Mer., V, 12, 1019b 30). 1° Le
definizioni negative del P. sono di natura
logica e definiscono il P. come ciò che
non è neces- sariamente falso o non include contraddizione. Nel primo senso,
definiva il P. Aristotele nel passo citato. Questo concetto è rimasto nella
tradizione filosofica, sotto la denominazione di «P. /ogico» distinto dal «P.
reale». S. Tommaso lo chiama «P. assoluto» e dice che risulta ex habitudine
terminorum cioè dalla non ripugnanza del predicato col soggetto (S. 7h., I, q.
25, a. 3); Duns Scoto lo chiama P. logico e lo ritiene proprio della « compo-
sizione dell’intelletto » in quanto i termini di essa non includono
contraddizione (Op. Ox., I, d.2, q. 6, a. 2, n. 10). Ockham ritiene che il P.
in questo senso non è altro che il non-impossibile (Summa Log., II, 25). Fu
questo il concetto su cui insistette Leibniz: «Quando vi dico che c’è
un'infinità di mondi P., intendo che non implichino contraddi- zioni, così come
si possono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia
possibili. Per essere P., basta che una cosa sia intelligibile » (Lettera a
Bourguet, 1712, in Op., ed. Gerhardt, III, pag. 558). Leibniz distingueva il P.
in questo senso dal compossibile (v.) che è la possibilità oggettiva. La
nozione di P. in questo senso rimane fissata nella scuola wolffiana (WoLFF,
Ontolog., $ 85; Crusius, Vernunftwahrheîten, $ 56; LAMBERT, Dianoiologie, $
39); e contro di essa, che tuttavia riconosceva valida nei suoi limiti, Kant
affermava la nozione di possibilità oggettiva (Der einzig mogliche 684
Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 1763, II, 1). I due
teoremi fondamentali propri di questa nozione del P. sono i seguenti: I) la
riduzione del P. al non-impossibile; II l’inferenza del P. dal necessario, nel
senso che ciò che è necessario deve essere possibile. Sono due teoremi stretta-
mente connessi tra loro. Aristotele li espresse per la prima volta nella famosa
trattazione del P. che ricorre nel De interpretatione. Il necessario deve
essere P., ragionò Aristotele, perchè, se non fosse P., sarebbe impossibile: il
che è contraddittorio (De Interpr., 13, 22b 28 sgg.). L’identificazione di P.
con non-impossibile è già chiara in questo ragionamento; ma ad ogni modo è resa
esplicita da Aristotele. Il quale osserva che sia nel caso di possibilità
appartenenti a enti immutabili, sia nel caso di possibilità appartenenti a enti
mutevoli è sempre vera la proposizione « non è impossibile che sia » (De Int.,
13, 23 a 13). La stessa dottrina veniva ripetuta da S. Tommaso con l’esplicita
limitazione al P. logico (Contra Gent., III, 86). E gli stessi teoremi
ricorrono nelle dottrine contemporanee sul possibile. Peirce dice: « È
essenzialmente o logica- mente P. ciò che una persona che non conosce fatti ma
è a giorno del ragionamento e ha familiari le parole che esso comprende, è
incapace di dichia- rare falso » (Coll. Pap., 4, 67). Qui la nozione di falso
ha sostituito quella di contraddittorio ma il P. viene sempre ridotto a ciò che
non è falso. Carnap a sua volta definisce il P. come il « non impossibile »
(Meaning and Necessity, $ 39-3). E tale definizione è quella più frequentemente
seguita nella logica contemporanea. Ovviamente, pertanto, la nozione del P. in
questo senso implica un concetto ben definito della impossibilità, cioè della
contraddi- zione o falsità logica. Ma questo concetto non sembra a disposizione
dei logici, stante il loro disaccordo sulla nozione contraria e complementare a
quella di impossibilità, cioè sulla nozione di necessità (v.). Ovviamente da
questo punto di vista l’opposto del possibile è l’impossibile. 2° La
definizione del P. come possibilità reale è quella che identifica il P. stesso
col potenziale (v.), e che vede nel potenziale ciò che è destinato infalli-
bilmente a realizzarsi. Fu per questa interpretazione che Diodoro Crono, il
famoso filosofo di Megara, af- fermava, con l'argomento vittorioso (v.), che
tutto ciò che è P. si realizza e che ciò che non si realizza non è P. (ARIST.,
Mer., 9, 3, 1046 b 29 sgg.; EPITTETO, Diss., II, 19, 1; CicERONE, De Fato, 6
sgg.). Diodoro Crono derivava da questo principio la tesi della necessità di
tutto ciò che è: nulla di ciò che è stato, è o sarà, ha potuto, può o potrà
essere diverso da come è stato, è o sarà. Ma lo stesso Aristotele, che
combatteva la tesi di Diodoro Crono facendo leva POSSIBILE sugli altri
significati di P., ammetteva talora il teorema fondamentale proprio di questa
concezione della possibilità: « Non può esser vero che qualcosa è P. ma non
sarà; giacchè in tal caso non vi sarebbero impossibilità » (Mer., IX, 4, 1047 b
3). Questa concezione del P. fu fatta propria dalla Scolastica araba a partire
da Avicenna. La divisione di Avi- cenna tra l’essere necessario e l’essere P. è
infatti la divisione tra ciò che deriva il suo essere da se stesso (e questo è
Dio) e ciò che deriva il suo es- sere da altro (e queste sono le cose create).
Ciò che è P., da questo punto di vista, è tale finchè non è nulla; appena
comincia ad essere, questo è segno che sono presenti futte le condizioni o le
cause del suo essere ed esso è diventato necessario: s'intende, necessario per
altro (Met., II, 1-2; ALGAZEL, Mer., I, 8; ecc.). Questo «necessario per altro
» era il contingente (v.). Questa dottrina è stata molte volte ripetuta nella
storia della filosofia. Una delle sue migliori espres- sioni fu data da Hobbes:
«È impossibile l’atto per la cui produzione non ci sarà mai una potenza piena.
Poichè la potenza piena è quella nella quale concorrono tutte le condizioni che
si richiedono per produrre l’atto, se non ci sarà mai la potenza piena,
mancherà sempre qualcuna delle condizioni senza le quali l’atto non può
prodursi: sicchè questo atto non potrà mai prodursi, cioè sarà un atto
impossibile. L'atto che non è impossibile, è possi- bile. Perciò ogni atto P.
deve verificarsi ogni tanto: se non si verificasse mai, mai concorrerebbero
tutte le condizioni che si richiedono alla produzione di esso e sarebbe quindi,
per definizione, un atto im- possibile, il che è contro l'ipotesi» (De Corp.,
10, $ 4). Questa elaborazione del concetto di P. non è che la ripetizione
dell'argomento vittorioso di Dio- doro Crono: argomento che ricorre ogni volta
che si riduce il P. a una pofenzialità cui debbano essere presenti tutte le
condizioni di realizzazione e che perciò è destinata infallibilmente a
realizzarsi. Questo è il concetto che del P. aveva Hegel: il quale distingueva
dalla mera possibilità, che è «la vuota astrazione della riflessione in sè »
cioè una semplice rappresentazione soggettiva, la possibilità reale che si ha
quando si danno tutte le condizioni di una cosa sicchè la cosa deve diventare
reale: possibilità reale che, come è ovvio, non si di- stingue dalla necessità
(Enc., $ 147). La nozione della possibilità reale in questo senso è spesso ado-
perata dai seguaci di Hegel, sia idealisti che marxisti. Spesso questa nozione
è stata adoperata per desi- gnare la predeterminazione degli eventi storici
nelle loro condizioni e quindi per fondare la possi- bilità di una previsione
infallibile dei futuri sviluppi della storia. Così ha usato il concetto G.
Lukàcs (Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923; tradu- POSSIBILE zione
francese, 1960, pag. 104 sgg.). Nello stesso significato di potenzialità il
concetto viene assunto in un libro di S. Buchanan nel quale la possi- bilità è
definita come «l’idea regolativa per l’ana- lisi del tutto nelle sue parti » e
le parti sono defi- nite come «le potenzialità del tutto » (Possibility, 1927,
pag. 81 sgg.). Infine, l’ultima illustrazione di questo concetto è la
cosiddetta «legge modale fondamentale» di N. Hartmann, che comprende le sei
tesi seguenti: « 1° ciò che è realmente P. è anche realmente effet- tuale; 2°
ciò che è realmente effettuale è anche realmente necessario; 3° ciò che è
realmente P. è anche realmente necessario e reciprocamente; 4° ciò il cui non
essere è realmente P. è anche real- mente ineffettuale; 5° ciò che è realmente
ineffettuale è anche realmente impossibile; 6° ciò il cui non essere è
realmente possibile è anche realmente impossibile + (Moglichkeit und
Wirklichkeit, 1938, pag. 126). Queste tesi non sono altro che la riduzione
esplicita del concetto di possibilità reale al concetto di necessità: riduzione
contro la quale veramente non si saprebbe trovare alcuna obiezione. Fa parte di
questa nozione del P. la riduzione del concetto di P. o all’ignoranza o ad un
fantasti- care post factum. La prima via fu seguita da Spinoza: « Chiamo P., le
cose singolari, egli disse, in quanto, considerando le cause da cui debbono
essere prodotte, ignoriamo se esse siano determinate a produrle » (Et., IV,
def. 4; Cogit. Met., I, 3). La seconda via è quella tenuta da Bergson: «Il P. è
il miraggio del presente nel passato; e giacchè sappiamo che l’avvenire finirà
per farsi presente e l’effetto del miraggio continua a prodursi, noi diciamo
che nel nostro presente attuale, che sarà il passato di domani, l’immagine del
domani è già contenuta, sebbene non arriviamo ad attin- gerla. Qui sta precisamente l’illusione
+ (« Le pos- sible et le réel», 1930, in La pensée et le mouvant, 38 ediz.,
1934, pag. 128). Secondo questo concetto, l’opposto del P.
è il reale o attuale. 3° Il terzo concetto del P. è quello della pos- sibilità
oggettiva, che risale a Platone. La possi- bilità di agire o di subire
un’azione fu da Platone assunta come la stessa definizione dell’essere in
generale (v. EsseRE) contro i materialisti da un lato e gli idealisti
dall’altro. « Dico che esiste tutto ciò che ha per natura la possibilità di
fare una cosa qualunque o di subire un’azione (e sia pure tutto ciò in misura
piccolissima e per una volta sola e rispetto alla cosa più insignificante). E
pongo perciò questa definizione: gli enti non sono altro che possibilità »
(Sof., 247 e). Aristotele definiva la possibilità in questo senso come «ciò che
può essere vero + (Mer., V, 12, 1019b 32). E S. Tom- maso difendeva questa
possibilità contro il neces- 685 sitarismo arabo: « Il P. o contingente che si
oppone al necessario ha questo nel suo concetto, che non deve realizzarsi
necessariamente quando non è: giacchè esso non segue necessariamente dalla sua
causa +» (Contra Gent., III, 86). Ockham includeva lo stesso concetto tra i
significati del termine P., come « ciò che non è in atto e tuttavia può essere
» o che « non è nè necessario nè impossibile » (Summa Log., II, 25). Il
concetto leibniziano del compossi- bile (v.) non è che un’altra espressione di
questa stessa nozione della possibilità, la quale veniva difesa da Kant fin dal
periodo precritico, quando mostrava, in contrasto con la scuola wolffiana,
l’insufficienza del concetto di possibilità logica. « Che vi sia una
possibilità e che tuttavia non vi sia nulla di reale, è contraddittorio,
osservava Kant; giacchè, se non esiste nulla, neppure è dato nulla che sia
pensabile e ci si contraddice se ancora si vuole che ci sia qualcosa di P. »
(Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, I,
2, 2). O, in altri termini, « col togliere il materiale e i dati a ogni P.,
viene anche negata ogni possibilità » (/bid., I, 2, 3). Kant sembra qui negare
perfino la legittimità della nozione di P. logico. Altrove, ammette anche
questa possibilità: « Il con- cetto è P. tutte le volte che non si contraddice.
Questo è il carattere logico della possibilità e con ciò il suo oggetto è
distinto dal niki! negativum. Ma esso non può essere un concetto vuoto...
Questo è un ammonimento a non conchiudere senz'altro dalla possibilità (/ogica)
dei concetti alla possibilità (reale) delle cose (Crit. R. Pura, Dialettica,
II, cap. 3, sez. 4, nota [A 597, B 625]). La possibilità oggettiva o reale è
dunque fondata sui dati della esperienza ed è una possibilità che l’esperienza
sola, e non già il semplice concetto, autorizza ad ammettere. Non si tratta
tuttavia di una possibi- lità reale nel senso di cui al 2° cioè di una poten-
zialità destinata infallibilmente a realizzarsi: «Le proposizioni che le cose
possono essere P. senza essere reali e che perciò non si possa concludere dalla
possibilità alla realtà, valgono giustamente per la ragione umana» (Crif. del
Giud., $ 76). Kant chiama reale o trascendentale la possibilità che si fonda
sui dati dell’esperienza ma non la identifica con la necessità: essa significa
solo che al concetto può corrispondere un oggetto (Critica R. Pura, Analitica
dei Princ., cap. III [A 244, B 303)). Se Kant insisteva sulla connessione del
P. og- gettivo con l’esperienza, Kierkegaard insisteva, in polemica con Hegel,
sull’indeterminazione del P. stesso. Rispondendo negativamente alla domanda se
il passato sia più necessario dell’avvenire, Kierke- gaard afferma che il P.
non diventa necessario per il fatto che si realizza, ma rimane P.: «Il passato
686 non è necessario nel momento in cui diviene; non è divenuto necessario
divenendo (che sarebbe una contraddizione); e lo diviene ancora meno attra-
verso l’intendimento della persona ». In questo caso infatti il passato
guadagnerebbe ciò che l’intelletto perderebbe: cioè non sarebbe inteso per
quello che è, ma per un’altra cosa (Philosophische Brocken, IV, Intermezzo, $
4; trad. franc. pag. 162 sgg.). L’in- tera speculazione di Kierkegaard è
fondata su questa nozione della possibilità oggettiva e inde- terminata, mediante
la quale egli illustra le nozioni di angoscia (v.) e di disperazione (v.).
Talvolta tut- tavia lo stesso Kierkegaard fa uso di espressioni che non sono
rigorosamente compatibili con l’in- determinazione oggettiva delle possibilità,
come, ad es., «Ogni cosa è P.» o «tutte le possibilità ». Considerando le
possibilità come infinite si viene ad escludere la loro indeterminazione e
limitazione: difatti ciò che manca a una di esse per realizzarsi
infallibilmente può essere sopperito dalle altre, se sono infinite; e le
possibilità si trasformano allora in potenzialità necessarie. Nella filosofia
contemporanea tuttavia il concetto di possibilità oggettiva viene inteso nel
suo senso empiricamente determinato e finito. Peirce parla di « possibilità
sostanziali » (in opposizione alle possi- bilità logiche) come quelle che sono
fondate su informazioni che concernono i fatti e le loro leggi; e ritiene che
tali possibilità coinciderebbero con la necessità solo nell'ipotesi di
un’informazione onni- sciente (Coll. Pap., 4.67). Dewey intende la possi-
bilità, nell’ambito della matematica e in generale della ricerca scientifica,
come possibilità di operazioni o di trasformazioni (Logic, XV e XX, 3). Witt-
genstein afferma che la possibilità è ciò che viene espresso da una
proposizione sensata; in quanto questa è distinta dalla tautologia, la
proposizione della logica o della matematica, che «non dice nulla », e dalla
contraddizione (Tractatus, 5.525). In altri termini, la proposizione sensata
non è altro, per Wittgenstein, che l’espressione della possibilità di un fatto.
Lukasiewicz e Tarski hanno formulato i principi di una logica del P., diretta a
evitare il determinismo (vedi i testi citati in TERZO ESCLUSO, PrincIPIO DEL).
Reichenbach ha a sua volta distinto, dalla possibilità logica, la possibilità
fisica e la possibilità tecnica: la prima significa qualcosa che non
contraddice alle leggi empiriche e la seconda qualcosa che è dentro il regno
dei metodi pratici conosciuti (« Verifiability Theory of Meaning », in Proceedings
of the American Academy of Arts and Sciences, 1951 [80°], pag. 53). Egli ha
inoltre posto la possibilità fisica a fondamento della probabilità (Theory of
Probability, $ 74). Ma è chiaro che questo punto di vista può essere
generalizzato e che una possibilità oggettiva può essere individuata POSSIBILE
soltanto in un particolare contesto, cioè sulla base delle condizioni o delle
regole che vigono in un campo determinato. Ad es., per ciò che riguarda l’uomo,
la possibilità fisica che egli ha di effettuare un’azione determinata non
coincide necessariamente con le possibilità giuridiche o morali che gli sono
offerte dal sistema sociale in cui vive. Molte possibilità che il suo organismo
fisico gli consente di mandare ad effetto gli sono precluse dalle regole
giuridico-morali. Per ogni possibilità oggettiva, quindi, è indispensabile il
riferimento a un contesto di condizioni e di regole tecniche de- terminate e
non si può parlare di possibilità senza specificare questo contesto se non
dando luogo ad equivoci. Lo stesso vale, del resto, anche nel do- minio delle
scienze: una possibilità logico-matema- tica non sempre è una possibilità
fisica cioè tale che può essere mandata ad effetto in base alle leggi della
fisica, e via dicendo (cfr. J. R. Lucas, The Concept of Probability, 1970, pag.
6 e passim). Nel campo della metodologia storiografica, la nozione di
possibilità oggettiva fu chiarita indi- spensabile da Max Weber (Kritische
Studien auf den Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; cfr.
specialmente la seconda parte; trad. ingl., in The Methodology of the Social
Sciences, pag. 164sgg.; trad. ital., in Z/ metodo delle scienze
storico-sociali, pag. 207 sgg.); e viene adoperata anche nelle più recenti
trattazioni (ad es., W. Dray, Laws and Explanation in History, 1957, VI, 3;
cfr. STORIA; STORIOGRAFIA). Nel campo delle scienze biologiche la nozione è
stata utilizzata da Goldstein (Der Aufbau des Organismus, 1934; trad. franc.,
1951); e tende ad essere utilizzata nel dominio psichiatrico (cfr., ad es., M.
TORRE, « La categoria del possibile in psicopatologia », in Note e Riviste di
psichiatria, 1957). Inoltre la genetica e la teoria dell'evoluzione fa un uso
continuo di questo concetto designandolo talvolta con altro nome (per es., con
il nome di opportunità; cfr. G. Simpson, The Meaning of Evo- lution, cap. XII,
« The Opportunism of Evolution »). Nella psicologia del comportamento il
concetto è stato usato per definire la stessa nozione di cosa (v.). Nella
sociologia, i concetti che implicitamente o esplicitamente fanno ricorso alla
nozione del P. sono i più numerosi. Lévy-Bruhl ha parlato del «limite del P.»
come costitutivo dell’esperienza razionale, perciò come deficiente o assente
nella mentalità primitiva (Les cernets, 1949; trad. ital., pag. 98 sgg.).
L’intera teoria della probabilità, comunque venga interpretata, assume a suo
fon- damento questa stessa nozione del P. (cfr., ad es., REICHENBACH, Theory of
Probability, $ 74; e Popper, che parla della probabilità come di un « vettore
nello spazio delle possibilità »; v. PROBABILITÀ). Infine è quasi superfluo
ricordare l’importanza che POTENZA la nozione di possibilità oggettiva ha per
la filosofia esistenzialistica che trova in essa il suo principale strumento di
analisi (v. EsISTENZIALISMO). È chiaro che secondo questa terza interpretazione
l'opposto del P. non è l’impossibile ma il non-possibile. POSSIBILITÀ. V.
PossIsiLe. POST HOC ERGO PROPTER HOC. Ce- lebre fallacia (v.), costituente un
caso particolare della fallacia non causa pro causa (cfr. ARISTOTELE, Soph.
El., 5, 167 b), la quale consiste nello stabilire una connessione causale,
quindi necessaria, sulla base di una connessione meramente accidentale o
secondaria. Nel caso del post hoc ergo propter hoc, il sofisma consiste nello
stabilire, per il semplice fatto che B viene dopo A, una connessione di causa
ed effetto tra A e B. G.P. POSTPREDICAMENTII (gr. pera tds xamrvoplas; lat.
Postpredicamenta; ingl. Postpredica- ments; franc. Post-prédicaments; ted.
Postpràdika- mente). Con questo termine cominciarono ad essere chiamati dai
commentatori di Aristotele (per es., da Filopono, vi secolo, In Car., 39a, 33)
quei concetti che Aristotele annunziò dopo le categorie nel libro che a queste
s'intitola e cioè quelli di opposizione (oppositio) di priorità (prius), di si-
multaneità (simul), di movimento (motus) e di avere (habere) (Cat., 10-15). Per
tali concetti vedi le relative voci. POSTULATO (gr. attua; lat. Postularum;
ingl. Postulate; franc. Postulat; ted. Postulat). In generale una proposizione
la quale si ammette, o si chiede che sia ammessa, allo scopo di rendere
possibile una dimostrazione o un procedimento qualsiasi. Il termine è nato
nelle matematiche ed è stato illustrato da Aristotele correlativamente a quello
di assioma (v.). Mentre gli assiomi sono di per sè evidenti e vanno ammessi
necessariamente pur non essendo dimostrabili, il P., pur essendo dimostrabile,
viene assunto e utilizzato senza di- mostrazione. Il P. inoltre è una
proposizione che non è già ammessa o creduta da colui al quale si rivolge
(altrimenti sarebbe inutile chiedergli di am- metterla); ed in questo
differisce dall’iporesi (v.) che è anch’essa una proposizione dimostrabile, non
dimostrata, ma ritenuta vera da colui al quale il discorso si rivolge (An.
Post., 10, 76b 24 sgg.). La distinzione tra assiomi e P. fu fatta propria da
Euclide nei suoi Elementi: mentre gli assiomi esprimono verità evidenti e sono
chiamati da Eu- clide nozioni comuni, i P. esprimono ciò che si richiede di
ammettere e concernono l’esistenza di determinati elementi geometrici. La
distinzione tra P. e assioma è venuta meno nella logica e nella matematica
moderna (v. ASSIOMATICA). Kant chiamò « P. del pensiero empirico » i prin- cipi
a priori corrispondenti alle categorie della mo- 687 dalità, secondo i quali ciò
che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (intuizioni pure e
categorie) è possibile; ciò che si accorda con le condizioni materiali
dell’esperienza (con le sensa- zioni) è reale; e ciò la cui connessione con la
realtà è determinata secondo le condizioni universali del- l’esperienza è o
esiste necessariamente (Cri?. R. Pura, Analitica dei principi, cap. II, sez.
III, 4). Chiamò poi «P. della ragione pratica» le condizioni che ren- dono
possibile la moralità, cioè la libertà, l’immor- talità e l’esistenza di Dio
(Crit. R. Pratica, Dialet- tica, sez. II). POTENZA (gr. Sévapis; lat. Porentia;
inglese Power; franc. Puissance; ted. Vermògen). 1. In generale il principio, o
la possibilità, di un muta- mento qualsiasi. Questa fu la definizione data da
Aristotele del termine. Aristotele stesso distinse questo significato
fondamentale in vari significati specifici e precisamente: a) la capacità di
effettuare un mutamento in altro o in se stesso, che è la P. attiva; b) la
capacità di subire un mutamento, da altro o da se stesso, che è la P. passiva;
c) la capacità di mutare o essere mutato in meglio piut- tosto che in peggio;
d) la capacità di resistere a qualsiasi mutamento (Mer., V, 12, 1019 a 15; IX,
1, 1046 a 4). Queste distinzioni sono rimaste pressochè immutate nella
tradizione filosofica (v. ATTO). L’in- tera tradizione medievale le ha ripetute
senza va- riazioni e ancora nel sec. xv Wolff le ripeteva in formule
epigrafiche che nulla mutano ai vecchi concetti (Ontologia, 1729, $ 716). Locke
stesso, nella sua analisi famosa della nozione, non ne aveva alterato il
concetto (Saggio, II, 21, 1). Il concetto implica tuttavia un’ambiguità fonda-
mentale perchè può essere inteso: A) come possi- bilità; B) come preformazione
e quindi predeter- minazione o preesistenza dell’attuale. In Aristotele e in
tutti coloro che si rifanno alla metafisica ari- stotelica i due significati
sono entrambi presenti e vengono spesso confusi. Così quando Aristotele difende
il concetto della potenza contro la nega- zione che ne aveva fatto Diodoro
Crono (v. Pos- SIBILITÀ), intende la P. nel senso A); mentre quando afferma «
che non può essere vero dire che qualcosa è possibile ma non sarà» (Mer., IX,
4, 1047 b 3); o quando afferma la superiorità del- l’atto sulla P. in base al
principio che, senza l’atto, la P. non sarebbe (non ci sarebbe l’uovo senza la
gallina), egli intende la P. come preformazione e predeterminazione e la
considera come un modo d'essere diminuito o preparatorio dell'atto (/bid., IX,
8, 1049 b 4). Una confusione analoga si trova nel saggio di Bergson «Il
possibile e il reale» (1930), giacchè in esso Bergson, respingendo il concetto
di possibile come « non impossibile » cioè come « non impedito ad essere » lo
identifica invece 688 con quello di potenziale e considera il potenziale come
«il miraggio del presente nel passato » (La pensée et le mouvant, 3* ediz.,
1934, pag. 128-30). Poichè il concetto di potenziale fa costantemente
riferimento all'attualità o realtà, mentre quello di possibile non ha
necessariamente questo riferi- mento, le nozioni di preformazione, preesistenza
e predeterminazione possono essere considerate stret- tamente connesse con
quella di potenza. 2. Facoltà o potere dell’anima (v. FACOLTÀ). 3. Dominio o
predominio, come nell’espressione «volontà di P.». POTENZIAMENTO, LOGICA DEL.
Un tentativo di logica simbolica consistente nell’elimi- nazione delle leggi di
tautologia e di assorbimento e nell’introduzione dei simboli di potenza e di
coef- ficiente. Questo tipo di logica dovrebbe fondarsi sul principio che ogni
relazione modifica gli enti rela- tivi: principio che è il contrario di quello
solitamente ammesso dalla logica simbolica contemporanea (cfr. P. Mosso,
Principi di logica del P., Torino, 1924; A. PASTORE, La logica del P., Napoli,
1936). POTERI DELLO STATO. V. Srato. PRAGMATICA (ingl. Pragmatics; franc. Prag-
matique; ted. Pragmatik). Una delle parti della semiotica (v.) e precisamente
quella che comprende l'insieme delle ricerche che hanno per oggetto la
relazione dei segni con gli interpreti, cioè la situa- zione in cui il segno
viene usato. Su questo aspetto della semiotica avevano già insistito C. S.
Peirce e Ogden e Richards; ma è stato soprattutto Morris a considerare la P.
come parte integrante della semiotica; e il punto di vista di Morris è
largamente accettato nella logica contemporanea (cfr. C. MORRIS, Foundations of
the Theory of Signs, 1938, cap. V; CARNAP, Foundations of Logic and
Mathematics, 1939, $ 2). Le altre parti della semiotica sono la semantica e la
sintassi (v.). PRAGMATICO (gr. rpaypatiw6c; ingl. Pragma- tic; franc.
Pragmatique; ted. Pragmatisch). L'agget- tivo fu usato per la prima volta da
Polibio che distinse nettamente la storia « P.», che si occupa di fatti, dalla
storia che si occupa di leggende, come fa quella che parla della genealogia
delle famiglie e della fon- dazione delle città (IX, 1, 4). Polibio aggiunge
pure che la storia P. è la più utile a insegnare come l’uomo debba regolarsi
nella vita associata. L'agget- tivo ha poi avuto un uso frequente nella storia
poli- tica specialmente tedesca, a proposito di decisioni costituzionali delle
quali si voleva sottolineare il carattere meritorio e che perciò erano dette
«sanzioni P.+. Kant diceva: «Si chiamano P. le sanzioni che non derivano
propriamente dai diritti degli stati considerati come leggi necessarie ma da
sollecitudine per il benessere generale. Una storia è composta pragmaticamente
quando rende POTENZIAMENTO, LOGICA DEL prudenti cioè quando insegna alla
società di oggi come possa procurarsi il proprio vantaggio meglio o almeno
altrettanto bene della società di ieri» (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten,
II, Nota). A sua volta Kant chiama P. gli imperativi ipotetici della prudenza,
che hanno in vista il benessere (Ibid., JI, Nota). Chiama P. la fede che è
fondata su un giudizio soggettivo della situazione, per es., quella di un
medico che non conosce bene la malattia che deve curare (Crit. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. 2, sez. 3). E chiama P. la sua antropologia in quanto
considera non ciò che l’uomo è per natura, ma ciò che l’uomo stesso fa di sè
(Antr., Pref.). Nel linguaggio contemporaneo la parola ha ripreso il suo senso
originario. Quando non si rife- risce a pragmatismo, designa semplicemente ciò
che è azione o appartiene all’azione. PRAGMATISMO (ingl. Pragmatism, Pragma-
ticism; franc. Pragmatisme; ted. Pragmatismus). 11 termine venne introdotto in
filosofia nel 1898 da una relazione di W. James alla California Union nella
quale James si riferiva alla dottrina esposta da Peirce in un saggio del 1878
intitolato « Come render chiare le nostre idee ». Alcuni anni più tardi Peirce
dichiarava di avere inventato il nome P. per la teoria che «una concezione,
cioè il significato razio- nale di una parola o di altra espressione, consiste
esclusivamente nella sua portata concepibile sulla condotta della vita»; e di
aver preferito questo nome a praticismo o praticalismo perchè questi ultimi,
per chi conosce il senso che la filosofia kantiana attribuisce a « pratico +,
fanno riferimento al mondo morale dove non ha luogo l’esperimento, mentre la
dottrina proposta è per l’appunto una dottrina sperimentalistica. Tuttavia
nello stesso arti- colo Peirce dichiarava che, di fronte all'estensione di
significato che il P. aveva ricevuto ad opera di W. James e di F. C. S.
Schiller, preferiva il termine pragmaticismo per indicare la sua propria conce-
zione, strettamente metodologica, del P. (« What Pragmatism Is +, The Monist,
1905; Coll. Pap. 5. 411-37). Lo stesso Peirce veniva in tal modo a distinguere
due versioni fondamentali del P. che possono essere così caratterizzate: 1° un
P. meto- dologico che è sostanzialmente una teoria del signi- ficato; 2° un P.
metafisico che è una teoria della verità e della realtà. 1° Il P. metodologico
non intende definire la verità o la realtà ma soltanto una procedura per
determinare il significato dei termini o meglio delle proposizioni. Diceva
Peirce nell’articolo del 1878 che solitamente si assume come la data di nascita
del P.: « È impossibile avere nella mente un’idea che si riferisca ad altro che
agli effetti sensibili delle cose. La nostra idea di un oggetto è l’idea dei
suoi effetti sensibili... Sicchè la regola per PRAGMATISMO raggiungere l’ultimo
grado di chiarezza nell’ap- prensione delle idee è la seguente: Considerare quali
sono gli effetti, i quali possono concepibil- mente aver portata pratica, che
l’oggetto della nostra concezione pensiamo che abbia. La concezione di questi
effetti è l’intera nostra concezione dell’og- getto » (Chance, Love and Logic,
1, 2,$3; Coll. Pap., 5.401-2). Il principio da cui discende questa regola
metodologica è che « l’intera funzione del pensiero è quella di produrre abiti
di azione » cioè credenze. La regola proposta da Peirce era pertanto suggerita
dall’esigenza di trovare un procedimento sperimen- tale o scientifico per
fissare le credenze; intendendo per procedimento scientifico o sperimentale
quello che non fa ricorso al metodo dell'autorità o al me- todo a priori
(Ibid., I, 1, $ 2, pag. 9 sgg.). Allo stesso tipo di P. si può dire appartenga
quello di Dewey che, per evitare ogni equivoco, preferì il termine
strumentalismo (v.). «L'essenza dello strumenta- lismo pragmatico, egli
scrisse, è quella di concepire sia la conoscenza sia la pratica come mezzi per
rendere sicuri, nell'esistenza sperimentata, i beni, cioè le cose eccellenti di
qualsiasi specie» (7he Quest for Certainty, 1929, pag. 37). Da questo punto di
vista Dewey condivideva lo sperimentali- smo di Peirce perchè riteneva che « la
sperimenta- zione entra nella determinazione di ogni proposi- zione garantita »
(Logic, 1939, pag. 461); e metteva in luce il carattere strumentale od
operativo di tutti i procedimenti del conoscere, considerati come mezzi per
passare da una situazione indeterminata a una situazione determinata cioè nello
stesso tempo distinta e unificata (Logic, cap. VI). Sono pertanto abbastanza
ovvie le parentele strettissime di questo tipo di P. da un lato con la
metodologia scientifica contemporanea e in particolare con l’operazio- nismo
(v.) e dall’altro lato con le impostazioni fon- damentali della logica
simbolica. Su quest’ultimo aspetto, insistettero i pragmatisti italiani
Giovanni Vailati e Mario Calderoni. Il primo osservava a questo proposito che
il fondamentale punto di contatto tra logica e P. «sta nella loro comune
tendenza a riguardare il valore, e il significato stesso, di un’asserzione come
qualche cosa di inti- mamente connesso all'impiego che si può o si desi- dera
farne per la deduzione e la costruzione di determinate conseguenze o gruppi di
conseguenze » (« Pragmatismo e logica matematica » 1906, in // me- todo della
filosofia, pag. 198). Queste parole defi- niscono bene il carattere funzionale
del P. di ispi- razione metodologica. 2° La concezione del P. metafisico è
quella di W. James e di F. C. S. Schiller e le sue tesi fonda- mentali
consistono nel ridurre la verità a utilità e la realtà a spirito. La seconda di
queste tesi, il P. metafisico la condivise con buona parte della filo- 44 —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 689 sofia contemporanea; e James stesso
riconobbe e vantò l’accordo sostanziale della sua filosofia con quella degli
spiritualisti francesi e specialmente di Bergson. La prima tesi è quella
caratteristica di questa forma di pragmatismo. Il suo presupposto è il
principio che essa ha in comune col P. meto- dologico: la strumentalità del
conoscere. Ma questo presupposto viene inteso e realizzato da essa in forma
totalmente diversa. In primo luogo, essa cerca di mettere in luce la dipendenza
di tutti gli aspetti della conoscenza (o del pensiero) dalle esi- genze
dell’azione e pertanto dalle emozioni in cui tali esigenze si concretano. Anche
la « razionalità » è, secondo James, una specie di sentimento (« Il sen-
timento della razionalità » in The Will to Believe, 1897). Da questo punto di
vista, le azioni e i desideri umani condizionano la verità: ogni tipo di
verità, anche quella scientifica. Pertanto non è legittimo, da questo punto di
vista, rifiutarsi di credere a dottrine che sono in grado di esercitare
un’azione benefica sulla vita dell'uomo, per il fatto che queste dottrine non
sono appoggiate da prove ra- zionali sufficienti. In casi come questi bisogna
correre, affermava James, il rischio di credere. E F. C. S. Schiller portava
alle estreme conseguenze questa dottrina riesumando il detto di Protagora
«l’uomo è misura di tutte le cose» e affermando la relatività della conoscenza
rispetto all’utilità per- sonale o sociale (Humanism, 1903). Mentre Schiller si
fermava a questo relativismo, James dava il varco, attraverso di esso, al teismo
e alle dottrine spiritua- listiche tradizionali, sul fondamento che esse sono
utili all’azione e benefiche alla vita umana. E per quanto cercasse di limitare
il dogmatismo di queste dottrine, insistendo $ul carattere pluralistico del-
l’universo (v. PLURALISMO) e sul carattere finito della divinità (v. Dio), il
P. fu per lui essenzialmente una via d’accesso alla metafisica tradizionale.
Uno dei motivi che James adduceva per giustificare l’esercizio della volontà di
credere è che la credenza può produrre la propria giustificazione: così ac-
cade talvolta nei rapporti umani quando il credere che un tale ci sia amico, ci
fa comportare amiche- volmente verso di lui e ce ne procura l'amicizia.
Difficilmente si può fare un uso teologico o meta- fisico di questa proposizione;
essa è tuttavia di- ventata un teorema abbastanza importante della sociologia
contemporanea. Per tutto il resto, mentre il P. metodologico ha trovato la sua
continuazione negli studi di logica e di metodologia e in alcune correnti del
neo-empirismo, il P. gnoseologico ha confluito nelle correnti spiritualistiche
(confronta H. W. ScHnemER, A History of American Phi- losophy, 2* ediz., 1957).
A questo P. metafisico si riconnettono le altre manifestazioni che il P. ha
avuto fuori del mondo 690 anglosassone. In primo luogo si riconnette ad esso la
filosofia di Hans Vaihinger esposta nell’opera Filosofia del come se
(Philosophie des Als Ob, 1911), nella quale afferma il carattere fittizio di
ogni cono- scenza e il carattere biologico della preferenza ac- cordata a una
conoscenza piuttosto che all’altra. Si riconnette ad esso anche il P.
pluralistico di A. Aliotta (La guerra eterna e il dramma dell’esi- stenza,
1917) che ha le stesse accentuazioni spiri- tualistiche del P. di James (cfr.
dell’ALIOTTA, // sa- crificio come significato del mondo, 1947). E infine ci si
riconnette il fideismo pragmatistico di Michele De Unamuno quale si trova
esposto nel Commento al Don Chisciotte (1905) e nel Sentimento tragico della
vita (1913); e di Giuseppe Ortega y Gasset (Il tema del nostro tempo, 1923;
Intorno a Galileo, 1933; Storia come sistema, 1935, ecc.); che però,
soprattutto negli ultimi scritti, rivela l’influenza dell’esistenzialismo di
Heidegger. PRASSIOLOGIA (ingl. Praxiology; francese Praxéologie). Termine creato
da Kotarbifisky per designare «la teoria generale dell’attività efficace » che
dovrebbe comprendere la totalità dei domini dell’attività utile dei soggetti
agenti, dal punto di vista dell’efficacia delle loro azioni (Praxiology, An
Introduction to the Science of Efficient Action, Oxford, 1965; l’opera polacca
originale è del 1955). V. TECTOLOGIA. PRATICO (gr. rpaxtxéc; lat. Practicus;
in- glese Practical; franc. Pratique; ted. Praktisch). In generale, ciò che è
azione o concerne l’azione. Ci sono tre significati diversi: 1° ciò che dirige
l’azione; 2° ciò che è traducibile in azione; 3° ciò che è razionale
nell’azione. 1° Il primo significato è*quello filosofico tra- dizionale.
Platone già distingueva la scienza pratica (per es., l'edilizia) che è quella
«insita per sua natura nelle azioni» da quella conoscitiva (come l’aritmetica)
che è priva di riferimento all’azione (Pol., 258 d-e). Aristotele a sua volta
diceva che 4 nelle scienze P. l’origine del movimento è in qualche decisione di
chi agisce perchè ‘P.” e ‘ scelto * sono la stessa cosa » (Mer., VI, 1, 1025 b
22). Le scienze P. erano per Aristotele la politica, l’economia, la retorica e
la scienza militare; e della politica è parte fondamentale l’etica (Ef. Nic.,
I, 2, 1094 b). Questo significato è rimasto uniforme nella tra- dizione
filosofica. Ad es., il significato in cui S. Tommaso diceva che la teologia è
parzial- mente scienza pratica (S. Th., I, q. 1, a. 4) e quello in cui Duns
Scoto diceva che essa è totalmente scienza P. (Op. Ox., Prol. q. 4, n. 31) è
quello tradizionale: P. è ciò che dirige l’azione. Simil- mente Wolff definiva
la filosofia P. come la scienza che « dirige le azioni libere mediante re- gole
generalissime» (Philos. practica, $ 3), e la PRASSIOLOGIA divideva, come
Aristotele, in Etica, Economia e Politica. Questo significato prevale nell’uso
filo- sofico del termine. 2° Nel secondo significato, che appartiene al
linguaggio comune più che a quello filosofico, P. è ciò che è facilmente o
immediatamente traduci- bile in azione, nel senso, ad es., che può aver suc-
cesso 0 procurare vantaggio. In questo senso un'idea si dice « P.» perchè può
avere realizzazione e può condurre al successo. Uomo P. è l’uomo che ha idee
P., cioè idee facilmente realizzabili o realizza- bili con probabilità di
vantaggio 0 successo. Questo significato non trova abitualmente posto nel lin-
guaggio filosofico. 3° Il terzo significato è il più ristretto e fu ado- perato
da Kant. Questi infatti intende per P.: « Tutto ciò che è possibile per mezzo
della libertà ». Ma la libertà non ha nulla a che fare con l’arbitrio animale;
così «ciò che è indipendente da stimoli sensibili, quindi può esser determinato
da motivi che non sono rappresentati se non dalla ragione, dicesi libero
arbitrio e tutto ciò che vi si connette, o come principio o come conseguenza, è
detto P. » (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. II, sez. 1). Quest'uso
ristretto del termine, caratteristico di Kant, non ha avuto seguito. PRAXIS.
Con questo termine (che è la tra- scrizione della parola greca che significa
azione) si designa, nella terminologia marzxistica, sia l’in- sieme dei
rapporti di produzione e di lavoro che costituiscono la struttura sociale, sia
l’azione tra- sformatrice che l’azione rivoluzionaria deve eser- citare su tali
rapporti. Marx diceva che bisogna spiegare la formazione delle idee a partire
dalla « prassi materiale » e che di conseguenza le forme e i prodotti della
coscienza possono essere elimi- nati non già mediante «la critica intellettuale
» ma solo mediante «il rovesciamento pratico dei rap- porti sociali esistenti »
(/4eologia tedesca, 2; tradu- zione ital., pag. 34) (v. MATERIALISMO STORICO).
Per «rovesciamento della P.?, Engels intese la reazione dell’uomo alle
condizioni materiali dell’esistenza, la sua capacità di inserirsi nei rapporti
di produzione e di lavoro e di trasformarli attivamente: questa possibilità è
il capovolgimento del rapporto fonda- mentale tra struttura e sovrastruttura
per il quale è solo la prima (cioè la totalità dei rapporti di pro- duzione e di
lavoro) che determina la seconda cioè l'insieme delle attività spirituali umane
(cfr. ENGELS, Antidihring, 1878). PREAMBULA FIDEI. Così S. Tommaso chiamò
l'insieme di quelle verità la cui dimostra- zione è necessaria alla fede
stessa, tra le quali in primo luogo l’esistenza di Dio (In Boet. de Trinit., a.
3) (v. Dro, Prove DI; TOMISMO). PREANIMISMO. V. Animismo. PREFORMAZIONE
PRECISIONE (ingl. Precision; franc. Pré- cision; ted. Pràcisione). Il
procedimento per il quale si considera la singola parte di un tutto, prescin-
dendo dal tutto e dalle altre parti, in modo da riu- scire a determinarla nei
suoi caratteri propri. Così la P. fu definita dalla Logica di Arnauld (I, 5)
che perciò la considerava come una forma particolare dell’astrazione (v.). Il
risultato di questo procedimento è, ovviamente, l’esatta caratterizza- zione
delle parti di un tutto; e pertanto nel linguaggio corrente, « P.» è diventato
sinonimo di esattezza e « preciso » di esatto. Peirce ha parlato, nel senso
proprio, di astrazione precisiva (v. ASTRAZIONE). PREDESTINAZIONE (lat.
Praedestinatio; ingl. Predestination; franc. Prédestination; tedesco
Pradestination). Nella teologia cristiana, è la scelta che Dio fa degli eletti
cioè di coloro che si salve- ranno: scelta che, secondo Sant'Agostino, è stata
fatta prima della creazione del mondo (De Prae- destinatione, 10). Per i
problemi relativi, v. GRAZIA. La P. è sempre P. alla salvezza; ma è stata
talora anche sostenuta (e condannata dalla Chiesa) la P. doppia cioè quella
alla salvezza e alla dannazione. Tale dottrina fu sostenuta, per es., dal
monaco Godescalco di Corbie e fu combattuta da Hinkmar (rx sec.). In età
moderna la sostennero i Calvinisti (v. PRETERIZIONE). PREDETERMINISMO (ingl.
Predeterminism; franc. Prédéterminisme; ted. Pràdeterminismus). Ter- mine
adoperato da Kant per designare il determi- nismo rigoroso cioè quello secondo
il quale « le azioni volontarie, in quanto avvenimenti di fatto, banno le loro
ragioni sufficienti nel tempo anteriore, il quale, insieme con ciò che contiene,
non è più in nostro potere» (Religion, I, cap. IV, Osserva- zione generale) (v.
IDETERMINISMO). PREDICABILI (gr. xemnyopovpeva; lat. Prae- dicabilia; ingl.
Predicables; franc. Prédicables; ted. Pradicabilien). Gli universali, in quanto
adatti per natura ad essere predicati di più cose. Porfirio per primo enumerò i
cinque universali semplici o primitivi cioè il genere, la specie, la
differenza, il proprio e l’accidente (Isag., 1). Aristotele aveva enumerati
come elementi di ogni proposizione o problema quattro elementi, cioè la
definizione, il proprio, il genere e l’accidente (Top., I, 4, 101 b 24); ma
questa enumerazione, includendo la defini- zione (che è composta del genere e
della specie) non prende in considerazione la semplicità degli elementi. L’enumerazione
di Porfirio rimase classica ed entrò a far parte integrante della logica tradi-
zionale. Non ha avuto seguito invece la proposta kantiana di chiamare P. i
concetti dell'intelletto derivati dalle categorie: come sarebbero, secondo
Kant, i concetti di forza, azione, passione, derivabili dalla 691 categoria
della causalità; di presenza e resistenza, derivabili dalla categoria della
reciprocità; del sorgere, del perire, del mutare, derivabili dalle categorie
della modalità, ecc. (Crit. R. Pura, $ 10). La nozione è sparita dalla logica
contemporanea (v. le singole voci). PREDICAMENTO. V. CATEGORIA. PREDICATIVO
(ingl. Predicative; franc. Pré- dicatif, ted. Pradicativ). 1. Si chiama P.
l’uso del verbo essere come copula di una proposizione cioè nel suo significato
non esistenziale (v. ESSERE). 2. Si chiama P. una definizione che non è
impredicativa nel senso che Poincaré ha dato a questo termine (v.
IMPREDICATIVA, IDEFINIZIONE) € pertanto si chiama P. anche la teoria che
esclude per principio le definizioni impredicative o il calcolo proposizionale
fondato su tale esclusione (cfr., ad es., CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic,
$ 58) (v. ANTINOMIA). PREDICATO (ingl. Predicate; franc. Prédicat; ted.
Prédikat). Nella Logica aristotelica la proposi- zione consiste nell’affermare
(o negare) qualcosa di qualcosa: essa quindi si scinde in due termini
essenziali, il soggetto, ossia ciò di cui si afferma (o nega) qualcosa, e il P.
(xamyopovpevov), che è appunto quello che viene affermato (o negato) del
soggetto: così in « Socrate è bianco », ‘ Socrate ’ è il soggetto, ‘bianco’ il
predicato. Il quale P. può essere essenziale, proprio, oppure semplice- mente
accidentale. Attraverso Boezio questa dottrina è passata nella Logica medievale
(cfr. Pietro Ispano, 1.07: « Subiectum est de quo aliquid dicitur; praedi-
catum est quod de altero dicitur+) e attraverso questa in tutta la Logica
occidentale. Nella Logica contemporanea, essendo entrata in crisi la conce-
zione predicativa della proposizione (ossia quella concezione che fa consistere
quest’ultima, appunto, nell’attribuzione di un P. ad un soggetto), il ter- mine
« P.» ha un uso alquanto oscillante. Russell (Princ. Math. 13, pag. S1 sgg.) dà
il nome di «P.» alle funzioni proposizionali di primo ordine, cioè quelle che contengono
solo variabili individuali (cioè, va- riabili sostituibili solo con nomi
propri, denotanti individui). Hilbert e Ackermann (Grundzilge der theoretischen
Logik), ritornando in qualche modo all’uso classico, intendono propriamente con
«P.» il funtore di una qualsiasi proposizione funzionale con una o più
variabili. Analogamente, ma con maggiore precisione, Carnap (cfr., per es.,
Ein- fiihrung in die symbolische Logik, 1954, pag. 4 sgg.) usa «P.» per
indicare il simbolo di proprietà o relazioni attribuite ad individui. G.P.
PREDIZIONE. V. PREVISIONE. PREESISTENZA. V. METEMPSICOSI. PREFORMAZIONE (ingl.
Preformation; fran- cese Préformation; ted. Praformation)i. Col nome 692 di
teoria della P. (o preformismo) fu designata nel sec. xvi la teoria sulla
formazione degli or- ganismi secondo la quale gli organi di esso sono già
preformati nell’uovo. Già Malpighi nel 1637 aveva avanzato questa teoria,
riconoscendo che gli organi si trovano preformati nell’uovo, non sotto la forma
che avranno nell’embrione o nell'adulto, ma sotto la forma di filamenti o
stamina ciascuno dei quali è la potenza di un organo particolare (La formazione
del pollo nell’uovo, 1637). Questa teoria venne accettata nel *700 da molti
biologi come Haller, Spallanzani, Bonnet che si chiamavano « ovisti », per
distinguersi dagli « ani- maculisti » che verso la fine del'600 avevano ri-
tenuto che lo spermatozoo fosse un piccolo omiciat- tolo provvisto di tutte le
parti del feto umano. La dottrina della P. veniva accettata da Leibniz il quale
riteneva che «Dio ha preformato le cose in modo che i nuovi organismi non sono
che la conseguenza meccanica di un organismo precedente + (Théod., pref.). Kant
riteneva che, una volta am- messo il principio teleologico per la produzione
degli esseri organizzati, restano solo due ipotesi per spiegare la causa della
loro forma finale: o l’occa- sionalismo, secondo il quale Dio interviene
diretta- mente in ogni nuova formazione organica; o il prestabilismo, secondo
il quale un essere organico produce il suo simile. A sua volta il prestabilismo
può essere o teoria della P. se la generazione si considera come semplice
sviluppo di una forma preesistente; o teoria dell’epigenesi se la generazione
si considera come produzione. Kant non nascondeva la sua simpatia per la teoria
dell’epigenesi in quanto gli sembrava che riducesse di molto, rispetto
all’altra, l'azione delle cause soprannaturali e si prestasse ad una prova
empirica (Crir. del Giud., $ 81). La moderna teoria dell’evoluzione ha
eliminato il fondamento stesso del contrasto tra teoria della P. e teoria
dell’epigenesi (v. EPIGENESI; EvOLU- ZIONE). PREFORMAZIONISMO o PREFORMI. SMO.
V. PREFORMAZIONE. PRELOGICO (franc. Prélogique). Aggettivo introdotto da L.
Lévy-Bruhl per caratterizzare la mentalità dei popoli primitivi in quanto
ritenuta indifferente al principio di contraddizione e fondata sulla
partecipazione (v.) (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, 1910, pag. 78 sgg.).
In se- guito Lévy-Bruhl ha abbandonato questo concetto. «Non c'è una mentalità primitiva che si distingua
dall’altra per due caratteri che le sono propri (mistico e P.). C'è una
mentalità mistica più ac- centuata e più facilmente osservabile fra i primitivi
che non nelle nostre società, ma che è presente in tutto lo spirito umano »
(Les carnets, 1949, VI; trad. ital., pag. 161). PREFORMAZIONISMO O PREFORMISMO
PREMESSA (gr. npéraow; lat. Praemissa; ingl. Premise; franc. Prémisse; ted.
Pramisse). Ogni proposizione da cui si inferisce un’altra pro- posizione.
PREMOZIONE (lat. Praemotio; ingl. Pre- motion; franc. Prémotion). Termine
adoperato dai teologi del ’600 per indicare la determinazione fisica, da parte
di Dio, della volontà umana: deter- minazione fisica, che non eliminerebbe la
libertà dell’uomo. Malebranche discusse questa nozione nelle sue Réflexions sur
la P. physique (1705). PRENOZIONE (ingl. Prenotion; franc. Pré- notion; ted.
Vorbegriff). Termine introdotto da Durkheim per indicare i concetti
prescientifici fondati su una generalizzazione imperfetta o fretto- losa, che F.
Bacone chiamava anticipazioni o idoli (Régles de la méthode sociologique, pag.
23) (v. ANTICIPAZIONE). PRENSIONE (ingl. Prehension). Termine col quale
Whitehead in Process and Reality (1929) ha designato la percezione in quanto
con essa il soggetto apprende o afferra una «entità reale» cioè una cosa o un
evento. In realtà il nome stesso di perce- zione ha già questa connotazione (v.
PERCEZIONE). PREOCCUPAZIONE. V. Cura. PREPERCEZIONE (ingl. Preperceprion; fran-
cese Préperception; ted. Praperzeption). Così talora è stata chiamata la
funzione selettiva che l’attenzione intellettuale esercita sulla percezione
sensibile (cfr., ad es., JAMES, Princ. of Psychol., I, pag. 438-45).
PRESCIENZA. V. TEODICEA. PRESCISSIONE (ingl. Prescission). L’astra- zione «
precisiva », che Peirce distingue dall’astrazione ipostatica, come l’operazione
di scelta che è impli- cita nel più semplice fatto di percezione: in quanto, ad
es., percepire un colore significa prescindere dalla forma e in ogni caso
isolare questa deter- minazione « colore » dalle altre con cui il colore si
presenta unito (Coll. Pap., 1.549 n; 2.428; 4.235) (v. ASTRAZIONE).
PRESENTAZIONE (ingl. Presentation; fran- cese Présentation; ted. Prasentation).
Conoscenza immediata o diretta: percezione o intuizione. Il termine è stato
introdotto da Spencer che distin- gueva la conoscenza presentativa che si ha
quando «il contenuto di una proposizione è la relazione fra due termini
entrambi i quali sono direttamente presenti, come quando pungo il mio dito e
sono simultaneamente conscio della pena e del posto in cui essa è » dalla
conoscenza rappresentativa che è il ricordo o l’immaginazione dell’altra
(Prince. of Psychology, $ 423). Il termine fu accettato da molti psicologi
dell’ 800, ma è oggi caduto in disuso. PRESENTAZIONISMO (ingl. Presentatio-
nism; franc. Présentationisme). Così Hamilton PREVISIONE chiamò il suo
«realismo naturale» cioè la dot- trina secondo la quale la percezione è una
rela- zione immediata con l’oggetto esistente (Disser- tations on Reid, pag. 825).
PRESENTE. V. ATTIMO; Ora; TEMPO. PRESENZA (ingl. Presence; franc. Présence;
ted. Anwesenheit). Il termine è adoperato in due significati principali: 1°
l’esistenza di un oggetto in un certo luogo, per cui ad es., si dice « x era
pre- sente alla riunione di ieri sera»; 2° l’esistenza dell'oggetto in un
rapporto conoscitivo immediato;
e così si dice che è presente un oggetto
che è visto o che è dato a una qualsiasi forma di intuizione o di conoscenza
immediata. Nell'ambito del primo significato gli Scolastici distinguevano, a
scopo teologico (cioè per descrivere la presenza di Dio o degli angeli nelle
cose o quella del corpo di Cristo nel pane nel sacramento dell’altare) due
forme di P., quella detta circum- scriptiva per la quale una cosa è tutta in
tutto lo spazio che occupa e parte in ciascuna parte dello spazio; e quella
definitiva per la quale una cosa è tutta nella totalità del suo spazio e tutta
anche in ciascuna parte di questa totalità. La prima P. è un modo d'essere
quantitativo; la seconda esclude ogni quantità (cfr., per es., S. ToMMAsO, S.
7h., I, q. 52, a. 2; OCKHAM, Quodi., VII, q. 19). Heidegger ha chiamato P. o
semplice P. (Vor- handenheit) il modo d'essere delle cose, in quanto diverso
dal modo d’essere dell’uomo che è l’esi- stenza (Sein und Zeit, $ 9). Sartre
invece ha parlato della « P. all’essere del Per-sè » cioè della coscienza, nel
senso che tale presenza implicherebbe che «il Per-sè è il testimone di sè in P.
dell’essere come non essente l’essere »: il che significherebbe che la P.
all’essere è « P. del Per-sè in quanto non è» (L’étre et le néant, pag.
166-67). PRESTABILISMO. V. PREFORMAZIONE. PRESUNZIONE (lat. Praesumptio; ingl.
Pre- sumption; franc. Présomption; ted. Prasumtion). I. Un giudizio anticipato
e provvisorio, che si ritiene valido fino a prova in contrario. Per es., « P.
di colpa » è un giudizio di colpevolezza che viene mantenuto finchè non sia
stata addotta una prova in contrario; e significato analogo hanno espressioni
«P. di verità» o «P. pro» o «P. contro» una pro- posizione qualsiasi. 2.
Fiducia eccessiva nelle proprie possibilità; e in questo senso si dice
presuntuoso colui che nutre tale fiducia. PRESUPPOSTO (ingl. Presupposition;
fran- cese Présupposition; ted. Voraussetzung). 1. La premessa non dichiarata
di un ragionamento: cioè la premessa di cui si fa uso nel corso di un ragiona-
mento ma che non è stata preventivamente enun- ciata e nei cui confronti
pertanto non esiste un 693 impegno definito. Il P., a differenza della
premessa, del postulato, dell’ipotesi, ecc., è introdotto surret- tiziamente
nel corso di un ragionamento e limita o dirige il ragionamento stesso in modo
subdolo o nascosto. Esso si può anche definire come una regola surrettizia di
inferenza. Pertanto il principio dell’eliminazione dei P. è fondamentale per
tutti i campi della ricerca nel mondo moderno. L’espres- sione « eliminazione
dei P.» (ted. Voraussetzungslo- sigkeit) pare sia stata coniata soltanto da Fr.
Strauss (Leben Jesu, 1836, pag. IX): ma l'esigenza che tale espressione
racchiude è quella con la quale è nata sia la scienza moderna, che con Galilei
ha cercato di liberarsi dei P. metafisici, sia la filosofia moderna che con
Bacone e Cartesio ha affermato l’esigenza di una ricerca radicale cioè fondata
soltanto su premesse dichiarate. L'eliminazione dei P. è anche diretta a
evitare che nell’ambito di un certo campo di ricerche agiscano credenze che
appartengono a campi diversi e che queste limitino in modo incon- trollabile la
ricerca stessa. Un uso più ristretto e tecnico ha fatto, del principio
dell’eliminazione dei P., Husserl il quale si è avvalso di esso per la delimi-
tazione della sfera fenomenologica (Logische Unter- suchungen, II, Intr., $ 7).
2. Lo stesso che premessa o postulato o ipotesi. Questo secondo significato può
condurre a con- fusioni. PRETERIZIONE (ingl. Preterition; franc. Pré-
térition). Concetto di cui la teologia calvinista si è avvalsa per attenuare la
dottrina della doppia predestinazione: i reprobi sono tali perchè Dio li ha
«trascurati» nella sua scelta (cfr. CALVINO, Institutions de la religion
chrétienne, III, cap. 24). PREVISIONE (gr. rpéyvwer; ingl. Prediction; franc.
Prévision; ted. Voraussage). Uno degli scopi fondamentali della spiegazione
scientifica o questa stessa spiegazione. Nella scienza antica, l’impor- tanza
della P. fu accentuata soltanto nell’ambito della medicina (IPPOCRATE, Prognostikon,
I). Ga- lileo ne esponeva il concetto affermando che «la cognizione di un solo
effetto acquistata per le sue cause ci apre l’intelletto ad intendere ed
assicurarsi d’altri effetti senza bisogno di ricorrere all’espe- rienza »
(Discorsi intorno a due nuove scienze, in Opere, ed. Utet, II, pag. 799). La P.
fu utilizzata da Hume nella sua critica della causalità: « Essendo costretti
dalla consuetudine a trasferire il passato al futuro, in tutte le nostre
inferenze, quando il passato si è manifestato del tutto regolare e uni- forme,
noi aspettiamo l’avvenimento con la mas- sima sicurezza e non lasciamo posto
per qualche supposizione contraria » (Ing. Conc. Underst., VI). Fu messo in
primo piano da Comte con la sua formula «Scienza, donde P.; P., donde azione»
(Cours de phil. pos., 1830, I, pag. 51). E fu espresso 694 da Hertz nella
parole con cui si apre l’Introduzione dei Prinzipien der Mechanik (1894): « Il
più diretto e in un certo senso il più importante problema che la nostra
consapevole conoscenza della natura ci rende capaci di risolvere è
l’anticipazione degli eventi futuri, sicchè poi possiamo ordinare le nostre
faccende presenti in accordo con tali anticipazioni ». Peirce fondava sulla P.
la verità pratica dell’ipotesi scientifica: « Nell’induzione non è il fatto
previsto che in qualche misura necessiti la verità dell’ipotesi o la renda
probabile. Ma è il fatto che esso è stato previsto con successo e che è un
campione scelto a caso di tutte le P. che possono essere basate sul- l'ipotesi e
che costituiscono la verità pratica di essa » (Coll. Pap., 6.527). Nel
neoempirismo contemporaneo, alcuni filosofi tendono a ridurre la P. alla
spiegazione altri a ridurre la spiegazione alla previsione. Nel primo senso si
esprime Carnap secondo il quale «la na- tura di una P. è la stessa, rispetto
alla conferma e all’attestazione, di quella di un enunciato circa un evento
presente non direttamente da noi osser- vato, per es., circa un processo che
ora è in corso nell’interno di una macchina o un evento politico in Cina («
Testability and Meaning », in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 87).
Nel secondo senso, si esprime Quine il quale dichiara di pen- sare che lo
schema concettuale della scienza è da ultimo uno strumento per prevedere
l’esperienza futura alla luce dell’esperienza passata (From a Logical Point of
View, II, 6). L'identità della logica della P. con quella della spiegazione è
stata asse- rita da Feigl (in Readings, cit., pag. 417-18); mentre Hempel ha
sostenuto la tesi della identità struttu- rale (o della simmetria) di
spiegazione e P. nel senso «che ogni spiegazione adeguata è potenzial- mente
una P. e inversamente ogni P. adeguata è potenzialmente una spiegazione +
(Aspects of Scien- tific Explanation, 1965, pag. 367). Popper, dopo aver
asserito che tutte le scienze teoretiche, anche quelle sociali, sono scienze di
P., ha insistito sulla distinzione tra la P. scientifica e la profezia sto-
rica perchè quest’ultima manca del carattere con- dizionale della prima. « Le
P. ordinarie della scienza, egli ha detto, sono condizionali. Esse asseriscono
che certi mutamenti (per es., della temperatura dell’acqua in un bollitoio)
sarà accompagnato da altri cambiamenti (per es., il bollire dell’acqua)»
(Conjectures and Refutations, 1965, pag. 339). Reichenbach usò il termine
post-vedibilità (post dictability) per indicare la possibilità di determi- nare
«i dati passati in termini di osservazioni date » (Philosophic Foundations of
Quantum Mechanics, 1944, pag. 13). Il termine postvisione o retrovisione
(postdiction or retrodiction) è stato poi adoperato per indicare l’inverso
logico di una P. cioè l’in- PRIMALITÀ ferenza che procede da un evento presente
all’in- dietro, verso una condizione iniziale già conosciuta (Hanson, The
Concept of the Positron, 1963, pag. 193). V. SPIEGAZIONE. PRIMALITÀ (lat.
Primalitas; ted. Primalitàt). Il principio costitutivo dell’essere, secondo
Cam- panella. Ci sono tre P.: il potere (potentia) il sapere (sapientia) e
l’amore (amor) che in Dio sono infinite e nelle cose sono invece limitate dai
loro contrari, l’impotenza, l’insipienza e l’odio, che costituiscono il non
essere (Metaphysica, 1638, VI, Proem.). Il termine vale lo stesso che principio
(v.). PRIMARIE E SECONDARIE, QUALITÀ. V. QUALITÀ. PRIMARIO (lat. Primarius; ingl.
Primary; franc. Primaire; ted. Primàr). 1. Ciò che è primo o più importante in
un campo qualsiasi; o ciò che è primo nel senso che condiziona ciò che vien
dopo, senza essere condizionato da esso. Questo era uno dei sensi, e il senso
fondamentale, che Aristotele attribuiva alla parola «prima» (Mer., V, 11, 1019a
2), ed è quello che più frequentemente è connesso con l’uso del termine. «
Qualità P.+, ad es., sono le qualità di cui i corpi non possono mancare e che
condizionano le « qualità secondarie ». « Scuola P. + è quella che tutti
debbono frequentare e che prepara agli altri tipi di scuola. « Attenzione P.» è
stata detta da alcuni psicologi l’attenzione primitiva o originaria, ecc. Si
dice pura «importanza P.» per dire importanza fondamentale o condizionante. 2.
Lo stesso che primitivo (v.). PRIMATO (ingl. Primacy; franc. Primauté; ted.
Primat). L'importanza primaria o condizionante di una cosa rispetto alle altre.
Dice Kant: « Per P. tra due o più cose legate mediante la ragione, intendo la
superiorità di una di esse in quanto è il primo motivo determinante del legame
con tutte le altre ». Più precisamente « P. della ragion pratica » significa la
prevalenza dell’interesse pratico sull’in- teresse teoretico nel senso che la
ragione ammette, in quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere
nel suo uso teoretico e che non costi- tuiscono una sua estensione conoscitiva:
i postulati della ragion pratica (Crit. R. Pratica, II, cap. 2, sez. 3). La
parola P. è stata usata nel campo politico per indicare la funzione
predominante che un certo elemento (popolo, nazione, classe, gruppo sociale,
ecc.) ha o deve avere nella totalità cui appartiene. Gioberti ha parlato in
questo senso del P. morale e civile degli Italiani (1843). In questa sua
estensione il termine acquista significati anche più vaghi e arbitrari che nel
primo. PRIMITIVISMO (ingl. Primirivism; franc. Pri- mitivisme). 1.
L'atteggiamento o la mentalità dei popoli primitivi specialmente nel suo
aspetto per cui l’individuo si conforma, presso di essi, alle PRINCIPIO
valutazioni dell’ambiente. In questo senso il termine è usato, per es., da
Scheler (Sympathie, cap. III; trad. franc., pag. 362, n. 2). 2. La credenza che
la forma più perfetta della vita umana è quella che essa ebbe nel primo periodo
dell’umanità (mito dell’età dell’oro); o quella che essa riveste nei popoli
primitivi, ritenuti più gio- vani (mito del « buon selvaggio +). Per questo signi- ficato di
P., vedi LovEJsoy e Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity, 1935;
Boas, Essays on Pri- mitivism and Related Ideas in the Middle Ages, 1948). PRIMITIVO (ingl. Primitive; franc. Primitif; ted.
Primitiv). 1. Lo stesso che originario (v. ORIGINE) nel duplice senso di questo
termine cioè: a) come ciò che appartiene alla fase iniziale di uno sviluppo o
di una storia e in questo senso si dice « la nebu- losa P.», «l’umanità P.», o
anche «le P. popola- zioni italiche »; 5) come ciò che funge da condizione,
principio o premessa e perciò determina altre cose mentre non è determinato da
esse; in questo senso si dice « proposizione P. », « funzione P.» e si chia-
mano «simboli P. » quelli introdotti direttamente, cioè senza l’aiuto di altri
simboli. 2. Ciò che è semplice nel senso che costituisce la forma più
elementare che un certo oggetto può assumere e in questo senso si parla di «
uomini P. » o semplicemente de «i P.». Durkheim si è servito per definire i P.
di questo significato e insieme di quello di cui in a) (Les formes élémentaires
de la vie religieuse, 1937, pag. 1). Ma Lévy-Brubl ha scritto: «Con questo
termine improprio, ma di uso quasi indispensabile, intendiamo semplicemente
designare i membri delle società più semplici che conosciamo » (Les fonctions
mentales dans les so- ciétés inférieures, 1910, pag. 2). Nello stesso senso si
adopera oggi la parola primario (v.). Per ciò che concerne le interpretazioni
del mondo P., esse possono essere raggruppate in due classi: a) la classe di
quelle interpretazioni che conside- rano il mondo P. come prelogico,
preempirico e mistico, quindi completamente diverso, quanto alla sua
costituzione, dal mondo della società civile. È questa l’interpretazione che è
stata specialmente difesa da Lévy-Bruhl (del quale oltre lo scritto citato,
vedi: La mentalité primitive, 1922; L’éme primitive, 1927; L’expérience
mystique et les sym- boles chez les primitifs, 1938); ma che dallo stesso
Lévy-Bruhl è stata corretta nel senso di sfumare o attenuare la differenza tra
la mentalità P. e quella non P., considerandola come differenza di grado più
che di qualità (Les carnets, 1949); b) la classe di quelle interpretazioni le
quali am- mettono che anche le comunità P. sono in possesso di un considerevole
patrimonio di conoscenze fon- date sull’esperienza e sulla ragione e che l’uomo
P. tende a ricorrere alla magìa o al misticismo solo 695 quando le conoscenze
da lui possedute non aiu- tano più. Questa è l’interpretazione specialmente
sostenuta da Bronislaw Malinowski (Magic, Science, and Religion, 1925) e
seguita oggi da quasi tutti i sociologi. PRIMO MOBILE. V. MosiLe, Primo. PRIMO
MOTORE. V. Dro, Prove DI. PRIMORDIALE (ingl. Primordial; franc. Pri- mordial).
Lo stesso che originario (v.). PRINCIPIO (gr. &pyh; lat. Principium;
inglese Principle; franc. Principe; ted. Prinzip, Grundsat2). Il punto di
partenza e il fondamento di un processo qualsiasi. I due significati di « punto
di partenza » e di «fondamento» o «causa» sono strettamente connessi nella
nozione di questo termine, che fu introdotto in filosofia da Anassimandro
(SIMPLICIO, Fis. 2A, 13), cui Platone faceva ricorso frequente- mente nel senso
di causa del movimento (Fedr., 245 c) o di fondamento della dimostrazione
(Teet., 155 d) e di cui Aristotele fu il primo a enumerare esaurientemente i
significati. Tali significati sono i seguenti: 1° punto di partenza di un movimento,
per es., di una linea o di una strada; 2° punto di par- tenza migliore, per
es., quello che rende più facile im- parare una cosa; 3° punto di partenza
effettivo di una produzione, per es., la chiglia di una nave o i fondamenti di
una casa; 4° causa esterna di un pro- cesso o di un movimento, per es., un
insulto che pro- voca una zuffa; 5° ciò che con la sua decisione deter- mina
movimenti o mutamenti, per es., il governo 0 le magistrature di una città; 6°
ciò da cui parte un processo di conoscenza, per es., le premesse di una
dimostrazione. Aristotele aggiunge a questa elen- cazione: « Anche ‘causa’ ha
gli stessi significati: giacchè tutte le cause sono princìpi. Ciò che tutti i
significati hanno in comune è che, in tutti, P. è ciò che è punto di partenza o
dell’essere o del divenire o del conoscere + (Mer., V, 1, 1012 b 32-1013 a 19).
Queste notazioni di Aristotele contengono pres- sochè tutto quel che la
tradizione filosofica posteriore ha detto intorno ai princìpi. Solo un altro
significato occorre forse distinguere: come punto di partenza e causa, il P. è
talora assunto come l’elemento costi- tutivo delle cose o delle conoscenze.
Questo probabil- mente era uno dei sensi în cui la parola era usata dai
presocratici: un senso che Aristotele stesso talvolta adopera (Mer., I, 3, 983
b 11; ITI, 3, 998 b 30, ecc.). In questo senso Lucrezio chiamava P. gli atomi
(De nat. rer., II, 292, 573, ecc.); e gli Stoici distinguevano elementi e P.
solo per il fatto che i P. sono ingenerabili e incorruttibili (Dog. L., VII, 1,
134). Nel sec. xvi, Cristiano Wolff definendo il P. come « ciò che contiene in
sè la ragione di qualche altra cosa» (Onf., $ 866) osservava che questo
significato era conforme alla nozione aristotelica 696 e che da questa nozione
non si erano allontanati gli Scolastici (Onr., $ 879). Baumgarten, al quale
tanto deve la terminologia filosofica moderna, ripe- teva la definizione di
Wolff (Mer., $ 307). Kant da un lato restringeva l’uso del termine al campo
della conoscenza, intendendo per P. «ogni proposizione generale, anche desunta
per induzione dall’espe- rienza, che possa servire da premessa maggiore in un
sillogismo », ma dall'altro introduceva la nozione di «P. assoluto » o «P. in
sè» cioè di conoscenze sintetiche originarie e puramente razionali, cono-
scenze che egli riteneva insussistenti, ma alle quali pensava che la ragione
facesse appello nel suo uso dialettico (Crir. R. Pura, Dialettica, II, A).
Nella filosofia moderna e contemporanea la no- zione di P. tende a perdere la
sua importanza. Essa infatti include la nozione di un punto di par- tenza
privilegiato: e privilegiato non relativamente, cioè rispetto a certi scopi, ma
assolutamente ed in sè. Un punto di partenza di questo genere diffi- cilmente
potrebbe oggi essere ammesso nel dominio delle scienze. Poincaré a giusto
titolo osservava che un P. non è che una legge empirica che si trova comodo
sottrarre al controllo dell’esperienza me- diante opportune convenzioni: un P.
perciò non è nè vero nè falso ma soltanto comodo (La valeur de la science,
1905, pag. 239). Nel dominio matematico e logico, in cui opportunità di questa
natura non si presentano, il termine è caduto in disuso per indicare le
premesse di un discorso ed è stato sosti- tuito da assioma o postulato.
Frequentemente si chiamano P., in questi campi, particolari teoremi di cui si
voglia sottolineare l’importanza per lo sviluppo ulteriore di un sistema
simbolico. Peirce ha chiamato P. guida (Leading Principle) il P. che «
dev’essere supposto vero per sostenere la validità logica di un argomento
qualsiasi » (Coil. Pap., 3.168; cfr. Dewey, Logic, I; trad. ital., pag. 46).
PRINCIPIO ATTIVO (gr. rò rorotv). Così gli Stoici chiamarono la Ragione o la
Causa o Dio, in quanto informa la materia (che è il P. passivo) producendo in
essa i singoli esseri (DioG. L., VII, 134); principio che essi identificarono
col Fuogo inteso come calore o spirito animatore (/bid., VII, 156; CiceR., De
nat. deor., II, 24). PRINCIPIO DI AZIONE MINIMA; DI CAUSALITÀ; DI
CONTRADDIZIONE; DI IDENTITÀ; DEGLI INDISCERNIBILI; DI INDIVIDUAZIONE; DI RAGION
SUFFI- CIENTE; DEL TERZO ESCLUSO; ecc. V. i relativi termini. PRIORITÀ (ingl.
Priority; franc. Priorité; te- desco Prioritàt) 1. Precedenza nel tempo. 2.
Carattere di ciò che è primario (v.). PRIVAZIONE (gr. otépnow; lat. Privatio;
in- glese Privation; franc. Privation; ted. Privation). La PRINCIPIO ATTIVO
mancanza di ciò che, a qualsiasi titolo, potrebbe o dovrebbe essere. Questo è
il senso della definizione che Wolff dette del termine: «Il difetto di una
realtà che poteva essere o a cui l’essere di per sè non ri- pugna» (Onr., $
273). Aristotele aveva incluso tra i significati del termine (tutti riducibili
a quello ora enunciato) anche la mancanza di un attributo che non appartiene
naturalmente alla cosa come quando si dice che una pianta è priva di occhi
(Mer., V, 22, 1022 b 22). Ma questa generalizzazione eccessiva rende il
concetto pressocchè inutile. Wolff stesso di- stingueva le entità privative che
consistono in una mancanza (come cecità, morte, tenebre, ecc.) e i nomi
relativi, dalle entità positive e dai loro nomi (Ont., $ 273-274); una
distinzione che fu riprodotta da Stuart Mill, il quale osservava a questo
proposito: «I nomi cosiddetti privativi connotano due cose: l’as- senza di
certi attributi e la presenza di altri a partire dai quali la presenza dei
primi poteva naturalmente attendersi » (Logic, I, 2, $ 6). Queste distinzioni
si sono conservate nella logica ottocentesca di stampo tradizionale (cfr., per
es., SIGWART, Logik, 1889, I, 822). PROBABILE (ingl. Probable; franc. Probable;
ted. Wahrscheinlich). 1. Un evento o una proposi- zione con un sufficiente
grado comparativo di con- ferma o di credibilità (v. PROBABILITÀ, 1). 2. Una
classe o sequenza di eventi dotata di un certo grado di frequenza relativa (v.
PROBABILITÀ, 2). 3. Ciò che viene ritenuto vero dai più o dai com- petenti.
Questo è il concetto dell’endoxor che Ari- stotele pose a base della dialettica
(v.) e ha poco o nulla a che fare con le due precedenti nozioni. PROBABILISMO
(ingl. Probabilism; francese Probabilisme; ted. Probabilismus). 1. Lo
scetticismo della Nuova Accademia in quanto, pur negando l’esistenza di un
criterio di verità, riconosceva un criterio sufficiente a dirigere la condotta
della vita, in ciò che Arcesilao chiamava il plausibile (Sesto E., Adv. Math.,
VII, 158) e Carneade il probabile (Ibid, VII, 166; Ip. Pirr., I, 33, 226). 2.
La dottrina, cui faceva frequentemente appello la casistica dei Gesuiti del
sec. xv, che basti, per non peccare, nei casi in cui l’applicazione della regola
morale è dubbia, attenersi ad una opinione probabile, intendendosi per opinione
probabile quella sostenuta da qualche teologo. Leibniz osservava a questo
proposito: « Il difetto dei moralisti rilas- sati è stato in buona parte quello
d’aver avuto una nozione troppo limitata e troppo insufficiente del probabile
che essi hanno identificato con l'opina- bile di Aristotele » mentre il
probabile è, secondo Leibniz, un concetto assai più esteso (Nouv. Ess., IV, 2,
14). Il P. ebbe, specialmente nel sec. xvu, innumerevoli varianti tra le quali
si possono ricor- PROBABILITÀ dare: il probabiliorismo, secondo il quale, nei
casi in cui l’applicazione di una regola morale è incerta, bisogna seguire non
una qualsiasi opinione proba- bile ma la più probabile; e il tuziorismo secondo
il quale bisogna attenersi alla opinione che si con- forma alla legge. Si
tratta di dottrine e dispute che non hanno significato fuori della casistica
gesuitica del xvi secolo (cfr. A. SCHMITT, Zur Geschichte des Probabilismus,
1904). 3. L'indirizzo della scienza contemporanea per il quale il carattere di
probabilità viene riconosciuto ad un numero esteso di conoscenze od a tutte (v.
CAUSALITÀ; CONDIZIONE; DETERMINISMO). PROBABILITÀ (gr. 16 etx6c; lat.
Probabdilitas; ingl. Probability; franc. Probabilité; ted. Warh-
scheinlichkeit). Il grado o la misura della pos- sibilità di un evento o di una
classe di eventi. La P. in questo senso suppone sempre un’al- ternativa ed è la
scelta o preferenza accordata ad una delle alternative possibili. Se si dice,
ad es., « probabilmente domani pioverà » si esclude come meno probabile
l’alternativa « domani non pioverà »; se si dice «la P. che una moneta cada di
testa è di una metà +», questa determinazione desume il suo significato dal
confronto con l’altra alternativa possibile, che essa cada di croce. Si può
esprimere questo carattere della P. dicendo che essa è sempre la funzione di
due argomenti. Un altro carattere generale della P. (comunque intesa) è che
essa, dal punto di vista quantitativo, viene espressa con un numero reale i cui
valori vanno da 0 a 1. Il problema cui la nozione di P. dà luogo è quello del
significato cioè del concetto stesso di probabilità. Quanto al calcolo delle
probabilità esso, finchè non venga interpretato, non dà luogo a problemi: i
matematici sono d’accordo su tutto ciò che può venire espresso in simboli
matematici, mentre il disaccordo comincia, anche tra essi, dove si tratta di
interpretare tali simboli. Carnap (The Two Concepis of Probability, 1945, ora
in Readings in the Phi- losophy of Science, 1953, pag. 441 sgg.) e Russell
(Human Knowledge, 1948, V, 2) hanno entrambi insistito sull’esistenza di due
concetti diversi e irreducibili di P., che il primo ha chiamato rispetti-
vamente P. induttiva (o grado di conferma) e P. statistica (o frequenza
relativa), e il secondo grado di credibilità e P. matematica. Altri nomi sono
stati proposti per questi due tipi di probabi- lità. Kneale ha chiamato
accettabilità il primo tipo e caso (chance) il secondo (Probability and
Induction, 1949, pag. 22); Braithwaite ha chiamato il primo ragionevolezza e il
secondo P. (Scientific Expla- nation, 1953, pag. 120). I due concetti si sono
fronteggiati negli ultimi quarant'anni, cercando ognuno di eliminare l’altro; e
si possono vedere tipicamente rappresentati nelle 697 posizioni di Von Mises e
di Jeffreys. Il primo rigetta come soggettivistico il concetto di P. indut-
tiva e ritiene che sia privo di senso l’uso del termine P. al di fuori del suo
concetto statistico (Probability. Statisties and Truth, 1928, ed. 1939, lect.
I, III), Il secondo invece ritiene che la definizione cosid- detta oggettiva
della P. è inutilizzabile e che neppure gli statistici la usano perchè « tutti
usano la nozione di grado di credenza ragionevole, abitual- mente senza neppure
notare che la usano » (Theory of Probability, 1939, pag. 300). Poichè le
osserva- zioni di Carnap e Russell tolgono significato a questa polemica ma
nello stesso tempo confermano l’esistenza di due concetti diversi di P., si
possono assumere tali concetti per costituire un prospetto delle dottrine
relative. E per evitare qualificazioni polemiche (e inesatte) come quelle di «
sogget- tivo» e «oggettivo», ecc., si può semplicemente assumere come tratto
distintivo dei due concetti di P. la funzione che ognuno di essi adempie e
parlare conseguentemente di 1° P. singolare; 2° P. collettiva. 1° Il primo
concetto di P. può essere in- fatti caratterizzato dicendo che esso ha in vista
il grado di possibilità di un evento singolo: pertanto i suoi argomenti sono per
l’appunto eventi o fatti o stati di cose o circostanze ed essa è espressa in
proposizioni del tipo « Domani pro- babilmente pioverà ». L’antecedente storico
remoto di questa nozione è il concetto neo-accademico di rappresentazione
persuasiva (v.): della quale Car- neade enumerava i gradi, determinati o da
prove o da indizi negativi o positivi (v. PERSUASIVO). I fondatori del calcolo
delle P. ebbero in vista appunto questo concetto di probabilità. Giacomo
Bernouilli intitolò il suo trattato, che fu il primo scritto importante in
proposito, Ars conjectandi (1713). Allo stesso concetto si ispirava la grande
opera di Laplace intitolata Théorie analytique des pro- babilités (1812).
Nell’introduzione di quest'opera Laplace affermava che «la P. degli eventi serve
a de- terminare il timore o la speranza delle persone inte- ressate alla loro
esistenza » (Essai philosophique sur les probabilités, I, 4); e tutta la sua
opera non si oc- cupa di statistica ma di metodi per stabilire l’accet-
tabilità delle ipotesi. Da questo punto di vista, la P. era definita come « il
rapporto dei numeri dei casi favorevoli a quello di tutti i casi possibili ». E
il principio fondamentale per valutare le P. era il cosiddetto principio di
indifferenza o di equiproba- bilità, secondo il quale, in mancanza di ogni
altra informazione, si assume che i vari casi sono ugual- mente possibili:
sicchè ad es., quando un dado è gettato, si assume che ognuna delle sue facce
ha uguali P. di apparire, sicchè ciascuna faccia ha la stessa P. di 1/6 (op. cit.,
I, 3). 698 Per quanto questa teoria sia stata sottoposta a critiche accanite,
essa è stata ripresa nel 1921 dal- l'economista inglese John Maynard Keynes nel
suo Trattato sulla P. e più tardi riesposta da F. P. Ramsey (The Foundations of
Mathematics, 1931) e da H. Jef-
freys (Theory of Probability, 1939).
Tutti questi scrittori definiscono la P. come un « grado di cre- denza
razionale» ed ammettono la validità del principio di indifferenza ma, come ha
notato lo stesso Carnap, il carattere soggettivistico di quella definizione è
solo apparente; giacchè ciò che essi hanno cercato di determinare sono i gradi
di con- ferma che possono essere stabiliti in favore di un’ipotesi determinata.
E difatti i gradi di credenza potrebbero essere soltanto stabiliti con metodi
psicologici mentre in realtà i metodi proposti da quegli autori non hanno nulla
di psicologico ma sono logici e si riferiscono alla disponibilità e alla natura
delle prove che possono confermare un’ipo- tesi. Fondandosi su questo concetto
oggettivo della P. singolare, Carnap ha costruito un sistema di logica
quantitativa induttiva, sul fondamento del concetto di conferma assunto nelle
sue tre forme: positiva, comparativa e quantitativa (Logica! Foun- dations of
Probability, 1950). Il concetto positivo di conferma è la relazione tra due
enunciati i (ipotesi) e p (prova) che può essere espressa da enunciati di
questa forma: « i è confermato da p»; « i è appog- giato da p »; « p è una
prova (positiva) per i+; « p è una prova che sostanzia (o corrobora)
l'assunzione di i». Il concetto comparativo (topologico) di conferma è
usualmente espresso in enunciati che hanno la forma «i è più fortemente
confermato (o appoggiato o sostanziato o corroborato, ecc.) da p che i’ da p'».
Infine il concetto quantitativo (o metrico) di conferma cioè il concetto di
grado di conferma può essere, nei vari campi, determinato da procedure analoghe
a quelle con cui si è introdotto il concetto di temperatura per spiegare quelli
di «più caldo» o «meno caldo» o il concetto di quoziente intellettuale per
determinare i gradi com- parativi di intelligenza. Carnap ha anche difeso,
intendendolo tuttavia in forma limitata, il principio di indifferenza,
applicandolo alle distribuzioni sta- tistiche anzichè alle distribuzioni
singole. La teoria di Carnap è stata in proposito largamente discussa e
accettata. Altre determinazioni del concetto di grado di conferma sono state
proposte (cfr., ad es., HELMER e OPPENHEIM, « A Syntactical Definition of
Probability and Degree of Confirmation» in Journal of Symbolic Logic, 1945,
pag. 25-60). Soltanto il concetto di P. singola, cioè di grado di conferma, è
quello a cui si fa comunemente riferimento nelle faccende della vita e che
viene assunto, esplicitamente o implicitamente, come guida dei comportamenti
individuali. C'è da osser- PROBABILITÀ vare che tra gli indizi o prove che
possono essere assunti a conferma di un’ipotesi qualsiasi cioè a fondamento di
un giudizio di P. nulla vieta che rientri la considerazione delle frequenze
statistiche cui il secondo concetto di P. riduce la P. stessa. Ma talvolta la
P. statistica entra nella determinazione della P. singola con segno invertito:
ad es., per un giocatore del lotto la frequenza con cui un certo numero è
uscito negli ultimi tempi è un indice di P. negativa: i numeri « buoni » sono
per lui quelli che, in un periodo di tempo abbastanza lungo, sono stati i meno
frequenti. Per una difesa di questo concetto di P., proprio in rapporto ai
limiti e alle possibilità della conoscenza umana, cfr. J. R. Lucas, The Concept
of P., Oxford, 1970. 2° Il secondo concetto fondamentale della P. è quello
della P. collettiva o statistica, i cui argomenti non sono mai eventi o fatti
individuali ma classi, specie o qualità di eventi e che quindi possono essere
espressi soltanto con funzioni proposizio- nali (v.) e non con proposizioni.
L’antecedente storico più lontano di questa nozione è il concetto aristotelico
del verisimile (v.): « Probabile è ciò che tutti sanno come per lo più accada o
non accada, sia o non sia» (An. Pr., II, 27, 70a 3; Ret., I, II, 1357 a 34). Ma
la formulazione rigorosa del con- cetto è stata effettuata solo recentemente da
Fischer (in Philosophical Transactions of the Royal Society, serie A, 1922),
von Mises (Probability, Statistics and Truth, 1928), Popper (Logik der Forschung,
1934) e Reichenbach (Wakrscheinlichkeitslehre, 1935; Theory of Probability,
1948). Come illustrazione di questa nozione di P. si può scegliere
l’elaborazione che di essa ha dato von Mises con il concetto della
frequenza-limite. Se per n osservazioni l’evento esaminato ha luogo m volte il
quoziente m/n è la frequenza rela- tiva della classe di eventi in questione:
relativa, s'intende, al numero n di osservazioni. Ma se si vuol parlare di
frequenza semplicemente, senza limitare l’estensione delle osservazioni, si può
supporre che la funzione m/n, quando numeratore e denominatore divengono via
via maggiori, tenda a un valore limite; e si può assumere questo valore- limite
come misura della frequenza, cioè come misura della P. nel senso proposto.
Così, per es., se gettando una moneta 1000 volte si ha per la testa una
frequenza di 550; gettandola 2000 volte si ha, sempre per la testa, una
frequenza di 490; gettandola 3000 volte, una frequenza di 505; gettandola 4000
volte una frequenza di 497; gettandola 10.000 volte una frequenza di 5003; e
così via; poichè il valore limite di queste serie è 05, si assumerà questo
valore limite come valore della P. dell’accadimento in questione. Ma tale
accadimento non è mai un accadimento singolo; e pertanto la P. così PROBLEMA
calcolata non servirà a prevedere il risultato della prossima gettata della
moneta e a consentire, per es., a un giocatore di scegliere la sua scommessa.
La P. del genere vale per classi di eventi e non per eventi singoli. Non si
può, ad es., parlare della P. che un individuo qualsiasi ha di morire entro
l’anno anche quando si conosce il limite di frequenza della mortalità nel
gruppo a cui egli appartiene (cfr. anche di von Mises, Kleines Lehrbuch des
Positivismus, $ 14). Reichenbach ha affermato a questo proposito: «L’asserzione
concernente la P. di un caso singolo ha un significato fittizio, costruito
attraverso il trasferimento di significato dal caso generale a quello
particolare. L’adozione dei significati fittizi è giustificabile non per motivi
conoscitivi ma perchè serve agli scopi dell’azione considerare tali asserzioni
come provviste di signi- ficato » (Theory of Probability, pag. 377). L’altra
caratteristica fondamentale della teoria è l’elimina- zione del principio di
indifferenza cioè della P. a priori. La teoria statistica della P. infatti non
può dire nulla circa la P. di una classe di eventi senza prima aver determinate
le frequenze dell’evento stesso e quindi un grado di P. qualsiasi può essere
determinato solo a posteriori, cioè dopo avere effettuato la determinazione
delle frequenze (REI- CHENBACH, 0p. cit., $ 70, pag. 359 sgg.). La teoria
collettiva o statistica della probabilità è stata largamente accettata nella
filosofia contem- poranea (si vedano, oltre gli scritti citati, quello di J. O.
Wispom, Foundations of Inference in Natural Science, 1952, e quello di
BRAITAWAITE, Scientific Explanation, 1953). Un’ulteriore determinazione di
questa dottrina è stata data da Popper, specialmente in vista della sua
utilizzazione nella teoria dei quanti. Come si è detto, la P. statistica non
concerne eventi singoli ma classi o sequenze di eventi. Popper pro- pone di
considerare come decisive le condizioni sotto le quali la sequenza è prodotta
cioè di consi- derare le frequenze stesse come dipendenti dalle condizioni
sperimentali e pertanto come costituenti una qualità disposizionale
dell’ordinamento speri- mentale. Dice Popper: « Ogni ordinamento speri- mentale
è adatto a produrre, se ripetiamo l’esperi- mento più volte, una sequenza con
frequenze che dipendono da questo particolare ordinamento. Queste frequenze
virtuali possono essere dette probabilità. Ma poichè le P. vengono a dipendere
dall’ordinamento sperimentale, esse possono essere considerate proprietà di
questo ordinamento. Esse caratterizzano la disposizione o propensione del-
l'ordinamento sperimentale a dare origine a certe frequenze caratteristiche,
quando l’esperimento è ripetuto più volte » (« The Propensity Interpretation of
the Calculus of Probability, and the Quantum Theory », in Observation and
Interpretation, A_sym- 699 posium of Philosophers and Physicists, ed. by
Kérner, 1957, pag. 67). Il vantaggio di questa interpretazione sarebbe quello
di considerare come fondamentale «la P. del risultato di un singolo esperimento
rispetto alle sue condizioni, piuttosto che la frequenza dei risultati in un
seguito di esperi- menti » (/bid., pag. 68). Popper avvicina questo con- cetto
a quello di campo (v.) e osserva che in questo caso una P. può essere
considerata come « un vet- tore nello spazio delle possibilità » (Ibid.).
Questa in- terpretazione tende ovviamente a diminuire la di- stanza tra i due
concetti fondamentali di probabilità. PROBLEMA (gr. rpéfimua; lat. Problema;
ingl. Problem; franc. Problème; ted. Problem). In generale, ogni situazione che
includa la possibilità di un’alternativa. Il P. non ha necessariamente ca-
rattere soggettivo; non è riducibile al dubbio per quanto anche il dubbio sia,
in un certo senso, un problema. Esso è piuttosto il carattere proprio di una
situazione che non ha significato unico o che in- clude comunque alternative di
qualsiasi specie. Un P. è la dichiarazione di una situazione di questo genere.
La nozione di P. fu elaborata dalla matematica antica nella distinzione da
quella di teorema (v.). Per problema fu intesa una proposizione che da certe
condizioni note muove alla ricerca di qual- cosa di ignoto. Alcuni geometri
(probabilmente quelli della scuola platonica) ritenevano che la loro scienza
fosse costituita essenzialmente da problemi; altri, da teoremi (PRocLo, Comm.
al I di Euclide, 77, 7-81, 22, Friedlein). Aristotele definiva il P. come un
procedimento dialettico che tende alla scelta o al rifiuto oppure alla verità e
alla cono- scenza + (Top., I, 11, 104b): nella quale le parole «scelta + o «
rifiuto » stanno a indicare le alternative che si presentano ai problemi di
ordine pratico mentre «verità» e «conoscenza» designano le alternative
teoretiche. Aristotele esemplifica la sua definizione dicendo che un P. del
primo genere è se il piacere sia un bene o no; e un P. del secondo genere è se
il mondo sia eterno (/bid., 104b 8). Poichè, dove ci sono P., ci sono anche
sillogismi contrari, i P. possono nascere, secondo Aristotele, solo dove manca
un discorso concludente: il P. in altri termini appartiene al dominio della
dia- lettica cioè dei discorsi probabili, non a quello della scienza. Comunque,
il P. conserva per Ari- stotele il carattere di indeterminazione, che gli è
dato dall’alternativa. Nell’uso matematico del termine, questo carattere è
andato tuttavia atte- nuandosi. La logica medievale aveva trascurato l’analisi
e la definizione di questa nozione; e quando essa comincia ad attrarre di nuovo
l’attenzione dei logici, cioè nel sec. xvii, il significato che essi le
attribuiscono è desunto dalle matematiche. Così Jungius dice che «Il P. o la
proposizione proble- 700 matica è una proposizione principale che enuncia che
qualcosa può essere fatto o mostrato o trovato » {Logica Hamburgensis, 1638,
IV, 11, 7). Leibniz no- tava che « per P. i matematici intendono le questioni
che lasciano in bianco una parte della proposizione » (Nouv. Ess., IV, II, 7).
E proprio appellandosi all'uso matematico, Wolff definiva il P. come «una
proposizione pratica dimostrativa » intendendo per « proposizione pratica »
quella «per la quale si afferma che qualcosa può o deve essere fatta » ed
escludendo esplicitamente il significato aristo- telico del termine (Log., $
276, 266). Non molto diversa da questa è la definizione di Kant: «P. sono
proposizioni dimostrabili bisognose di prove o tali che esprimano un’azione il
cui modo d’effettuazione non è immediatamente certo? (Logik, $ 38). Anche nel
pensiero moderno la nozione di P. è stata ed è tra le più trascurate. I
filosofi, pur parlando continuamente di P. e ritenendo come loro compito la
soluzione di un certo numero di essi e specialmente di quelli che essi stessi
defini- scono «massimi», non si sono troppo curati di analizzare la
corrispondente nozione. Il più delle volte il P. è stato considerato come una
condizione o situazione soggettiva e confuso con il dubbio. Lo stesso Mach lo
definiva in questo senso, come «il disaccordo tra i pensieri e i fatti o il
disaccordo dei pensieri tra loro» (Erkenntniss und Irrtum, cap. XV; trad.
franc., pag. 252-53). Solo recente- mente è stato riconosciuto il carattere di
indeter- minazione oggettiva, che definisce il P.: questo è accaduto nella
Logica (1939) di Dewey. Nel P. Dewey ha visto la « proprietà logica primaria ».
Il P. è la situazione che costituisce il punto di par- tenza di qualsiasi
indagine cioè la situazione inde- terminata. «La situazione indeterminata
diventa problematica nello stesso processo di assoggetta- mento all’indagine.
Essa si produce per cause reali, come avviene, per es., nello squilibrio orga-
nico della fame. Non c’è di nulla di intellettuale o di conoscitivo
nell’esistenza di situazioni del genere, salvo che esse sono la condizione
necessaria di operazioni o indagini conoscitive. Il primo risul- tato del
promuovere l’indagine è che la situazione è riconosciuta come problematica
(Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 161). L’enunciazione del P. consente
l’anticipazione di una soluzione possibile che è l’idea; e l’idea esige quello
sviluppo dei rapporti inerenti al suo significato che è il ragionamento.
Infine, la soluzione effettiva è la determinazione della situazione iniziale
cioè il raggiungimento di una situazione unificata nelle sue relazioni e
distin- zioni costitutive. Un’analisi analoga a questa nella sua struttura
fondamentale è quella data da G. Boas, che definisce il P. come «la coscienza
di una devia- zione dalla norma» (The Inquiring Mind, 1959, PROBLEMATICA pag.
56). All’analisi di Dewey va tuttavia aggiunta una determinazione fondamentale:
cioè il ricono- scimento del fatto che un P. non viene eliminato o distrutto
dalla sua soluzione. Un «P. risolto » non è un P. che non si presenterà mai più
come tale, ma è un P. che continuerà a presentarsi con pro- babilità di
soluzione. La scoperta di un medicamento che guarisce una malattia è la
soluzione di un P.; con essa il P. non risulta eliminato giacchè la malattia
continuerà a presentarsi; ciò che la soluzione consente è pertanto la
possibilità, entro certi limiti garantita, di risolvere il P. tutte le volte
che si presenta. Proprio in base a questo carattere del P., si parla della
problematicità dei campi in cui il P. si presenta. E in questo senso il P. è
di- verso non solo dal dubbio che, una volta risolto viene eliminato e
soppiantato dalla credenza, ma anche dalla questione che, una volta trovata la
sua risposta, perde il suo significato. PROBLEMATICA (ted. Problematik). Una
raccolta ordinata o sistematica di problemi. PROBLEMATICISMO. Termine diffuso
in Italia da Ugo Spirito per designare la dottrina della « vita come ricerca »:
una vita condannata a cercare la verità senza trovarla e perciò a oscillare fra
dogma- tismo e scetticismo (La vita come ricerca, 1937). PROBLEMATICITÀ.
Carattere di un campo di indagine nel quale la soluzione dei problemi non
elimina i problemi stessi. Ad es., «P. dell'esperienza + è il carattere per il
quale nell'esperienza i problemi cosiddetti risolti non sono che possibilità di
solu- zioni prospettate in anticipo, con qualche garanzia di successo, dei
problemi che via via insorgono. Il termine viene adoperato frequentemente nella
filo- sofia contemporanea senza chiarimenti espliciti. PROBLEMATICO (ingl.
Problematic; fran- cese Problématique; ted. Problematisch). 1. Ciò che è un
problema o concerne un problema. 2. Ciò che non implica contraddizioni ma
neppure garanzia della sua verità, sicchè può essere affermato o negato ad
arbitrio. Questo è il significato che Kant attribuì al termine: «La
proposizione P. è quella che esprime solo una possibilità logica (non
oggettiva) ossia una libera scelta di assumere tale proposizione come valida +
(Crit. R. Pura, $ 9). « Chiamo P. un concetto che non contiene contraddizioni e
che, come limitazione di concetti dati, si connette con altre conoscenze, ma la
cui verità oggettiva non può essere in alcun modo conosciuta » (/bid., Anal.
dei Princ., cap. III). PROCESSIONE (gr. rp6080g; lat. Processio; ingl.
Procession; ted. Procession)i. La derivazione delle cose da Dio, secondo i
Neoplatonici: in quanto tale derivazione dà luogo a realtà di rango inferiore,
che somigliano a quelle da cui provengono. « Ogni P. si compie per via di
simiglianza delle cose seconde PROGETTO rispetto alla prime » dice Proclo (/st.
Theol., 29; cfr. PLoTINO, Enn., IV, 2, 1, 44; V, 2, 2; SCOTO ERIUGENA, De
divis. nat., III, 17, 19, 25). La teologia cristiana ha adoperato la stessa nozione
per determinare il rapporto tra le persone divine. S. Tommaso distin- gueva a
questo proposito una processio ad extra, nella quale l’azione tende verso
qualcosa di esterno e la processio ad intra per la quale l’azione tende a
qualcosa di interno come accade nella P. che va dall’intelletto all'oggetto
dell’intendere, che rimane dentro l’intelletto stesso. In questo secondo senso
è da intendersi, secondo S. Tommaso, la P. delle persone divine da Dio padre
(S. Th., I, q. 27, a. 1). PROCESSO (lat. Processus; inglese Process; franc.
Processus; ted. Process). 1. Procedimento, modo d’operare o d’agire. Per es.,
«il P. di com- posizione e di risoluzione » per indicare il metodo che consiste
nel discendere dalle cause all’effetto o nel risalire dall’effetto alle cause
(cfr., ad es., S. Tommaso, S. Th., III, q. 14, a. 5); «P. all’infinito » per
indicare il risalire da una causa all’altra senza fermarsi (/bid., I, q. 46, a.
2). 2. Divenire o sviluppo, per es., « il P. della storia ». In questo senso il
termine è adoperato da Whitehead per indicare il divenire del mondo (Process
and Reality, 1929). 3. Una qualsiasi concatenazione di eventi, per es., il « P.
della digestione » o « il P. chimico ». PRODOTTO LOGICO. È la figura (a-5) ri-
sultante da una moltiplicazione logica (v.). G.P. PRODUZIONE (gr. roleoc;
lat. Productio; ingl. Production; franc. Production; ted. Production). Porre in essere qualcosa che potrebbe
non essere. Platone definiva arte produttiva «ogni possibilità che diventi
causa di generazione di cose che prima non erano + (Sof., 265 b) e Aristotele
vedeva nella P. il compito proprio dell’arte e la distingueva dall’azione e dal
sapere: «Ogni arte concerne la generazione e cerca gli istrumenti tecnici e
teorici per produrre una cosa che potrebbe essere e non essere e il cui
principio risiede in colui che la pro- duce e non nell’oggetto prodotto »
(Eric. Nic., VI, 4, 1140 a 10). Da questo punto di vista la P. si distingue
dall’azione che è l’operazione che ha in se stessa il suo fine: una differenza sulla
quale insi- stette S. Tommaso (v. Azione). Il platonismo aveva tuttavia
sminuito questa differenza. Plotino aveva affermato che per la natura « essere
ciò che è significa produrre; essa è contemplazione e oggetto di con-
templazione perchè è ragione; e poichè è contempla- zione e oggetto di
contemplazione e di ragione, essa produce. La P. non è che contemplazione»
(Enn., III, 8, 3). Queste considerazioni sono state spesso ripetute da un punto
di vista idealistico: il che non toglie che la migliore definizione del termine
in questione sia rimasta quella aristotelica. 701 PROERESI. V. SCELTA. PROFONDO
(ingl. Profound, Deep; franc. Pro- fond; ted. Tief). Ciò che ha un significato
nascosto e inesprimibile. Ii termine ha acquistato un signifi- cato tecnico nella
filosofia e nella psicologia contem- poranea per indicare ciò che nell’ambito
dei problemi rimane fuori dall’esplicita formulazione dei problemi stessi pur
costituendo una sfera che può in qualche modo essere « sentita » o «intuita » e
perciò inter- pretata o espressa metaforicamente; o ciò che nel- l'ambito di un
campo d'indagine si sottrae alla portata dei procedimenti propri del campo
stesso ma fa sentire la sua presenza nel modo oscuro che si è detto. Già
Husserl polemizzava contro la nozione del P. in filosofia. «La scienza vera e
propria, egli diceva, non conosce, per tanto che si estende la sua dottrina
autentica, alcun senso profondo. Ogni momento di una scienza perfetta è un
tutto di ele- menti di pensiero, ciascuno dei quali è inteso imme- diatamente e
non possiede perciò alcun senso P.» (Phil. als strenge Wissenschaft, 1910, in fine; tradu-
zione ital., pag. 81). La nozione di P.
prevale oggi soprattutto nel dominio di certi indirizzi psicologici e
antropologici come la psicanalisi, l’intuizionismo, l’esistenzialismo; e
nonostante la ricchezza delle analisi cui ha dato luogo comincia oggi a
suscitare una reazione critica salutare. « Le psicologie abis- sali, ha scritto
Y. Belaval, e le filosofie che si ispi- rano ad esse non hanno fatto nascere nuovi
feno- meni: hanno supposto processi e intenzioni nascoste, hanno avanzato nuove
idee sull’uomo, ma a queste ipotesi e idee manca sempre d'esser formulate nella
lingua delle conoscenze progressive in cui ciascuna parola designa univocamente
un fenomeno deter- minato e ciascuna regola di sintassi un’operazione tecnica
precisa» (Les conduites d’échec, 1953, pag. 274). PROGETTO (ingl. Plan; franc.
Projet; tedesco Projekt, Entwurf). In generale, l’anticipazione delle
possibilità: cioè qualsiasi previsione, predizione, predisposizione, piano,
ordinamento, predetermina- zione, ecc., nonchè il modo d'essere o d’agire che è
proprio di chi fa ricorso a possibilità. In questo senso, nella filosofia
esistenzialistica il P. è il modo d’essere costitutivo dell’uomo 0, come dice
Heidegger (che per primo ha introdotta la nozione) la sua « costi- tuzione
ontologico-esistenziale » (Sein und Zeit, $ 31). Heidegger ha insistito pure
sulla tesi che ogni progettazione, in quanto anticipa possibilità che di fatto
son tali, ricade sul fatto stesso e non procede al di là: sicchè la massima
dell’uomo che progetta se stesso è: « Divieni ciò che sei» (/bid.). Altrove
Heidegger ba detto che il P. del mondo in cui propriamente consiste l’esistenza
umana è antici- patamente dominato dallo stato di fatto che esso cerca di
trascendere e perciò finisce per ridursi 702 e appiattirsi a questo stato di
fatto (Vom Wesen des Grundes, 1929, 3; trad. ital., pag. 67 sgg.). Sartre ha
sostanzialmente ripetuto questi concetti di Hei- degger insistendo tuttavia
sulla gratuità perfetta dei «P. di mondo» in cui l’esistenza consiste. Egli ha
chiamato « P. fondamentale » o « iniziale » quello costitutivo dell’esistenza
umana nel mondo e ha considerato tale P. continuamente modifica- bile ad
arbitrio: « L’angoscia, che, quando è svelata, manifesta alla nostra coscienza
la nostra libertà, testimonia la modificabilità perpetua del nostro P.
iniziale» (L’érre et le néant, 1943, pag. 542). Per quanto caratteristica della
filosofia esistenzia- listica, la nozione di P. è entrata a far parte della
terminologia filosofica e scientifica contemporanea. Essa si è dimostrata utile
a esprimere aspetti im- portanti delle situazioni umane, sia di quelle più
generali analizzate dalla filosofia sia di quelle spe- cifiche che
costituiscono l’oggetto delle scienze an- tropologiche: psicologia, sociologia,
ecc. V. STRUT- TURA e MODELLO, PROGRESSO (ingl. Progress; franc. Progrès; ted.
Fortschrift). Il termine designa due cose: 1° una qualsiasi serie di eventi che
si svolga in un senso desiderabile; 2° la credenza che gli eventi nella storia
si svolgano nel senso più desiderabile, realizzando una perfezione crescente.
Nel primo senso, si parla, ad es., del « P. della chimica » o del «P. della
tecnica»; nel secondo senso, si dice semplicemente « il P.». In questo secondo
senso la parola designa non soltanto un bilancio della storia passata ma anche
una profezia per l’avvenire. Il primo senso ristretto del termine non fa na-
scere problemi e si incontra dappertutto. Anche gli antichi lo possedettero; e
specialmente gli Stoici lo adoperarono per indicare l’avanzare dell’uomo sulla
via della saggezza o della filosofia (STOBEO, Ecl., II, 6, 146: il termine è
rpoxor). Il secondo senso del termine fu sconosciuto all’antichità clas- sica e
al Medioevo. La concezione generale che gli antichi ebbero della storia fu
quella della decadenza a partire da una perfezione primitiva (età dell’oro) o
quella di un ciclo di eventi che si ripete identica- mente senza limiti (v.
StorIA). Solitamente la prima enunciazione della nozione di P. si attribuisce a
Francesco Bacone che così la espose in un passo famoso del Novum Organum
(1620): « Per antichità dovrebbe intendersi la vecchiezza del mondo che va
attribuita ai nostri tempi e non a quella giovinezza nel mondo che fu presso
gli antichi. E come da un uomo anziano possiamo aspettarci una conoscenza molto
maggiore delle cose umane e un più maturo giudizio che da un giovane, per via
dell’esperienza e del gran numero di cose da lui vedute, udite e pensate, così
dell’età nostra (se avesse coscienza delle sue forze e volesse sperimentare e
comprendere) PROGRESSO sarebbe giusto aspettarsi assai più gran cose che dai
tempi antichi essendo la nostra per il mondo l’età maggiore, arricchita da
innumerevoli esperi- menti e osservazioni » (Nov. Org., I, 84). Bacone conclude
facendo suo il motto di Aulo Gellio (o meglio che Aulo Gellio attribuiva a un
vecchio poeta): veritas filia temporis (Noct. Att., XI, 11). Alcuni decenni
prima concetti simili a questi erano però stati esposti da Giordano Bruno nella
Cena delle Ceneri (1584). Nel sec. xvn la nozione di pro- gresso fa i suoi
primi passi soprattutto attraverso la disputa sugli antichi e i moderni (v.
ANTICHI); mentre nel sec. xvi, con Voltaire, Turgot e Con- dorcet prevaleva
nella concezione della storia. Ma solo il sec. xx vide l’affermazione totale
del concetto che nei primi decenni diveniva il vessillo del romanti- cismo e
assumeva il carattere della necessità. Il concetto della necessità del piano
progressivo della storia veniva espresso da Fichte nel modo più energico:
«Qualsiasi cosa realmente esista, egli diceva, esiste per assoluta necessità:
ed esiste neces- sariamente nella precisa forma in cui esiste ». Questa
necessità è razionalità pura: « Nulla è come è perchè Dio vuole arbitrariamente
così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti che così... Comprendere con
chiara intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno ed immutabile, in quanto
guida la specie umana, è compito dei filosofi. Fissare di fatto la sfera sempre
cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia
della specie umana è compito dello storico, le cui sco- perte sono solo
casualmente ricordate dal filosofo (Grundziige des gegenwdrtigen Zeitalters,
1806, 9). L’identica concezione veniva difesa dal positi- vismo che con Augusto
Comte, esalta il P. come l’idea direttiva della scienza e della sociologia,
considerandolo come «lo sviluppo dell'ordine» ed estendendolo anche alla vita
inorganica e animale (Politique positive, 1851, I, pag. 64 sgg.). On the Origin
of Species (1859) di Darwin, dava una base positiva o scientifica al mito del
P. adducendo prove in favore di un trasformismo biologico interpretato in senso
ottimistico o progressivo. E l'opera di SPENCER, First Principles (1862),
utilizzava la no- zione di P. per una interpretazione metafisica, che intendeva
essere positiva o scientifica, dell’in- tera realtà. Queste sono soltanto le
tappe salienti dell’affer- mazione di un concetto che ha dominato tutte le manifestazioni
della cultura occidentale ottocentesca e che ancora rimane sullo sfondo di
molte concezioni filosofiche e scientifiche. Le implicazioni principali della
nozione sono le seguenti: 1° il corso degli eventi (naturali e storici)
costituisce una serie uni- lineare; 2° ogni termine di questa serie è
necessario nel senso che non può essere diverso da quello PROPOSIZIONE che è;
3° ogni termine della serie realizza un incre- mento di valore sul precedente;
4° ogni regresso è apparente o costituisce la condizione di un P. ulteriore.
Talvolta, come nella filosofia di Hegel, si limitano le condizioni di validità
della proposi- zione 3° perchè si ammette che la storia costituisca un circolo
nel quale le fasi più alte, già realizzate, costituiscano le condizioni di
quelle più basse, sì che queste posseggono la stessa razionalità o perfe- zione
del tutto (cfr. HEGEL, Wissenschaft der Logik, I, I, I, cap. II, nota I, «Il
progresso infinito»; Croce, La storia come pensiero e come azione, 1938, pag.
25). Ma nessuna di quelle quattro tesi può trovare un appoggio nelle regole
della meto- dologia storiografica che consentono di delimitare, oggi, il campo
detto «storia +; e nessuna di esse è compatibile con tali regole. L'idea del P.
cade perciò fuori del dominio della storiografia scienti- fica; e dall’altro
lato la credenza nel P. è stata fortemente indebolita, nella cultura
contemporanea, dall’esperienza delle due Guerre e dal mutamento che esse hanno
prodotto nel dominio della filosofia, smantellando quell’indirizzo romantico
del quale costituiva un caposaldo. Quest’idea può pertanto, allo stato attuale
degli studi, essere considerata va- lida soltanto come una speranza o un
impegno morale per l’avvenire, non come un principio di- rettivo
dell’interpretazione storiografica. Sul periodo aureo della credenza nel P.
cfr. J. B. Bury, The Idea of Progress, 1932 (v. STORIA). PROIEZIONE (ingl.
Projection; franc. Pro- jection; ted. Projektion). Con questo termine veniva
frequentemente indicato, nella psicologia dell’800, il riferimento della
sensazione all’oggetto, riferimento per il quale l’oggetto viene localizzato
nello spazio circostante, per quanto la sensazione si verifichi solo
nell’organodi senso. Alla fortuna del termine contribuì soprattutto Helmbholtz
(Physiologische Optik, 1867, pag. 602). Il termine è ora caduto in disuso
giacchè il problema stesso non sussiste più negli stessi termini, dato il nuovo
concetto di percezione (v.). Tecniche proiettive si chiamano oggi quelle tec-
niche di accertamento psicologico che consistono nel presentare al soggetto un
materiale (special- mente figure) di significato ambiguo che il soggetto può
interpretare secondo le sue tendenze o bisogni o repressioni e la cui
interpretazione può rivelare perciò lo stato del soggetto. Il più conosciuto di
questi artifici proiettivi è quello introdotto nel 1921 dallo svizzero
Rorschach (cfr. H. H. ANDERSON, e G. L. ANDERSON, An Introduction to Projective
Techniques, 1951). Nella psicanalisi il concetto di P. è usato per descri- vere
il processo mediante il quale un soggetto attribuisce a un altro soggetto gli
atteggiamenti o 703 sentimenti di cui si vergogna o che comunque trova
difficile o penoso riconoscere a se stesso (confronta J. R. SMITHIES, «
Analysis of Projection » in British Journal of Philosophy of Science, 1954,
pag. 120). PROLEGOMENI (ingl. Prolegomena; francese Prolégomènes; ted.
Prolegomena). Trattazione preli- minare, introduttiva e semplificata. Il
termine ricorre nel titolo di alcune opere di filosofia come quella di Kant, P.
a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783). PROLEPSI. V.
ANTICIPAZIONE. PROPEDEUTICA (gr. rporadela; ingl. Pro- paedeutics; franc.
Propédeutique; ted. Propàdeutik). Insegnamento preparatorio. Così Platone
chiamò l’insegoamento delle scienze speciali (aritmetica, geometria, astronomia
e musica) rispetto alla dialet- tica (Rep., VII, 536 d). E così si chiama anche
oggi la parte introduttiva di una scienza o un corso di studi che faccia da
preparazione ad un altro corso. PROPENSIONE (lat. Propensio; ingl. Pro-
pensity; franc. Propension; ted. Neigung). Tendenza, nel significato più
generale. Hume usava il termine per definire l'abitudine: « Ovunque la
ripetizione di un atto o di un’operazione particolare produce una P. a
rinnovare l’atto o l’operazione senza la costrizione di un ragionamento o di un
processo intellettuale, diciamo che questa P. è effetto dell’abi- tudine »
(Ing. Conc. Underst., V, 1). PROPORZIONE. V. ANALOGIA. PROPOSIZIONALE CALCOLO,
FUN- ZIONE. V. CALCOLO; FUNZIONE PROPOSIZIONALE. PROPOSIZIONE (gr. rpéraow;
lat. Propositio; ingl. Proposition; franc. Proposition; ted. Satz). Un
enunciato dichiarativo o ciò che è dichiarato, espresso o designato da un tale
enunciato. I due usi del termine sono stati nettamente distinti da Carnap
conformemente ad una lunga tradizione (Intr. to Semantics, 1941, $ 37) ma
vengono ancora spesso confusi, per quanto la distinzione sia stata largamente
accettata nella logica contemporanea (cfr. CHURCH, Intr. to Mathematical Logic,
$ 04; W. KnEALE e M. KNEALE, The Development of Logic, p. 49 sg.). I due usi
sono comandati da due concetti diversi della P. e precisamente dai seguenti: 1)
La P. come espressione verbale di un'operazione mentale, detta spesso giudizio.
2) La P. come entità oggettiva o valore di verità di un enunciato. 1. La
dottrina che la P. è l’espressione verbale di un’operazione mentale fu
formulata per la prima volta da Aristotele: il quale ritenne che il complesso
(ovurdoxt) dei termini (nome e verbo) del discorso dichiarativo (16106
&ropavrixèc) corrisponda a un pensiero (vinua) cui inerisce necessariamente
l’es- sere vero o falso e che pertanto « il vero e il falso » vertono sulla
composizione e sulla divisione (oivdears 704 xal Bratprorc) (De Interpr., 1, 16
a 9 sg.). Il discorso dichiarativo è così l’espressione di un pensiero che
procede componendo e dividendo: la composizione dà origine all’affermazione, la
divi- sione alla negazione (/b., 6, 17 a 23). Negli Analitici (cioè nella
teoria del sillogismo) Aristotele chiamò il discorso dichiarativo « prorasis»
(il cui equiva- lente latino è « propositio ») cioè « premessa del ragionamento
», e definì la protasis come « il discorso che afferma o nega qualcosa di
qualcosa» (An. Pr., I, 1, 24 b 16); o come «l'’asserzione di uno dei membri
della contraddizione» (Zb. II, 12, 77 a 37). Da questo punto di vista, la P.
differisce dal problema (v.) soltanto per la forma: giacché mentre il problema
consiste nel chiedersi ad es.: « È l’uomo animale terrestre bipede o non lo
è??, la P. consiste nell’asserzione «L'uomo è animale terrestre bipede» o
nell’asserzione contraddittoria (Top., I, 4 101 b 28). Ma in ogni caso, la
verità o falsità di una P. dipende dal fatto che la composi- zione o divisione
dei termini, nella quale essa con- siste, corrisponda o meno a quella che
l’intelletto trova nelle stesse cose esistenti. « Tu non sei bianco, dice
Aristotele, perché noi crediamo con verità che tu sei bianco ma, perché tu sei
bianco, noi diciamo la verità asserendo questo. Se alcune cose stanno sempre
insieme e non possono essere divise ed altre son sempre divise e non possono
stare insieme e altre cose ancora possono essere o com- poste o divise, l’«
essere » consisterà nell’essere com- binato o nell’essere diviso e il « non
essere » nell’esser diviso o nell’esser più cose» (Mer., IX, 10, 1051 a 34). La
P., nel combinare i suoi termini, esprime l’azione combinante o dissociante
dell’intelletto che segue la combinazione e dissociazione delle cose esistenti.
Questa dottrina è rimasta sostanzialmente im- mutata nella tradizione antica,
fatta eccezione per gli Stoici (e per il filone da essi iniziato) che intro-
dussero la nozione di enunciato (v.). La tradizione medievale e buona parte
della logica moderna l’ha conservata. San Tommaso diceva che la verità e la
falsità sono nell’intelletto in quanto precede componendo e dividendo: «
infatti, aggiungeva, in ogni P. una forma significata dal predicato o si ap-
plica a qualche cosa significata dal soggetto o si allontana da questa cosa »
(S. Th., I, q. 16, a. 2). Nello stesso indirizzo della logica terministica,
Ockham ammetteva una « P. mentale », che iden- tificava con l’atto
dell’intelletto (Liber periermenias, proemium), per quanto facesse dipendere la
verità della P. dalla suppositio (v. oltre, 2). A partire dall’età carteziana,
il termine «P.» è sostituito dal termine «giudizio» perché l’attenzione della
logica filosofica si concentra sempre di più sull’opera- zione intellettuale
che trova espressione nella P. (v. Giupizio, 4). PROPOSIZIONE Ma ad un
atteggiamento mentale riduce la P. anche Russell, che tuttavia la distingue da
enunciato. Egli infatti la considera come « credenza + o « atteg- giamento
proposizionale » ed afferma pertanto che le P. devono essere definite come
eventi psicologici (o fisiologici) di una certa specie: immagini com- plesse,
aspettazioni, ecc. Ciò è reso evidente, secondo Russell, dal fatto che le P.
possono essere false (An Inquiry into Meaning and Truth, cap. XIII, A; ed. Pelican Books,
p. 172; cfr. Human Knowledge, p. 449-50) v. Giupizio, 3. 2. La dottrina che la P. costituisce il designato
dell’enunciato assume forme diverse a seconda della natura che si attribuisce
al designato stesso. Tal- volta il designato è inteso come « P. in sé» o «en-
tità» di qualche tipo, tal’altra come oggetto o situazione oggettiva o stato di
cose o carattere. In ogni caso, questa interpretazione della P. pre- scinde da
ogni riferimento ad atti o ad operazioni mentali. Gli stoici, che introdussero
la nozione di enun- ciato (v.), ritennero che esso esprime una condi- zione o
uno stato di cose. Essi affermavano che «chi dice ‘È giorno’ mostra di ritenere
che è giorno. Ora se è giorno realmente, l’enunciato che sta dinnanzi a noi è
vero, se non è giorno è falso » (Dro. L., VII, 65). Da questo punto di vista,
il fatto che è giorno è il significato o il valore di verità dell’enunciato « È
giorno ». La logica termi- nistica medievale indicò il significato denotativo
dei termini della P. con il concetto della supposizione (v.), secondo la quale
una P. è vera se i termini da cui essa risulta stanno per il medesimo oggetto
esistente (cfr. OckHaM, Summa Logicae, Il, 2). Nelle Laws of Thought (1854)
Boole distingueva le P. primarie che esprimono una relazione tra cose e le P.
secondarie che esprimono una relazione tra P. (Cap. IV, $ 1). Ma già Bolzano
aveva oppo- sto alla P. verbale la P. in sé (Satz un sich), che è quella valida
indipendentemente dal fatto di essere o non essere espressa O pensata e
costituisce l’ele- mento delle matematiche pure (Wissenschaftslehre, 1837, $
19). Riprendendo la polemica di Husserl contro lo psicologismo, Meinong
distingueva in ogni « giudizio » (termine per lui equivalente a P.) l’obiettivo
(Objektiv) che è il contenuto interno del giudizio e l’obietto (Objekt) che è
l’entità esterna al quale il giudizio si riferisce (Uber Annahmen, 1902, p.
52). Questa distinzione equivale, a tutti gli effetti, a quella che Frege aveva
stabilito tra senso e significato (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892) (v.
SIGNIFICATO). A proposito della P., Frege aveva detto che mentre il senso
(Sinn) della P. è un « pen- siero +, non inteso però soggettivamente ma come «
contenuto oggettivo che può costituire il possesso comune di molti», il
significato (Bedeutung) della PROPOSIZIONE FUNZIONALE P. stessa è il suo «
valore di verità » cioè «la circo- stanza che essa è vera o falsa ». In tal
modo la P. può essere considerata come un nome proprio e il vero o falso è
l’oggerto della P. stessa. Ma poiché tutte le P. vere avranno lo stesso
significato (il vero) e così tutte le proiezioni false (il falso), ne segue che
una P. non può ridursi né al suo solo significato né al suo solo senso (che
sarebbe un puro pensiero) ma deve risultare dall'insieme dei due (Ueber Sinn
und Bedeutung, $ 5, in Phil. Wri- tings of G. F., ed. Geach and Black, p. 63 sg.). Nelle proposizioni indirette od oblique in cui en-
trano verbi come «dire», «udire», «pensare», « credere », «concludere » e
simili, come ad es. in questa: « Copernico credeva che le traiettorie dei
pianeti fossero circolari», la P. secondaria intro- dotta dal clte vale solo
come il nome di un pensiero e perciò può essere variata senza compromettere il
valore di verità della P. intera (/b., $ 6; in Geach, p. 66 sg.). Su questi
concetti di Frege s’imperniano le discus- sioni della logica contemporanea
intorno alla natura della proposizione. Delle due dimensioni della P. ammesse
da Frege, Wittgenstein ha cercato di eli- minare il senso (Sinn, come «
pensiero » o « conte- nuto oggettivo ») ed ha usato la parola senso (Sinn) per
intendere ciò che Frege intendeva per significato (Bedeutung), usando
quest’ultima parola solo per la denotazione dei nomi e dei segni. La P., egli
dice è una raffigurazione (Bild, picture) della realtà. lo infatti vengo a
conoscere la situazione da essa rappresentata appena comprendo la proposizione.
E comprendo la P. senza che il suo senso mi venga spiegato » (Tractatus,
4.021). Da questo punto di vista, « la forma universale della P. è: le cose
stanno così e così » (/b., 4.5). Perciò comprendere una P. significa
semplicemente sapere «come stanno le cose nel caso che essa sia vera » (/b.,
4.024), e non c'è bisogno pertanto di ricorrere a un pensiero o a un qualsiasi
contenuto oggettivo. Il « senso » di cui parlava Frege è quindi inutile secondo
Witt- genstein perché il senso della P. è lo stesso suo significato; e «la P.
mostra il proprio senso » (/b., 4.022). Dall’altro lato, Wittgenstein afferma
che «la P. ha un senso indipendentemente dai fatti » (4.061) e che «le P. ‘p’ e
“non p’ hanno un senso opposto per quanto in esse si esprime una unica e sola
realtà » (4.0621): il che implicherebbe, nella terminologia di Frege, un senso
indipendente dal significato. Contrariamente a Wittgenstein, alcuni logici con-
temporanei tendono a ridurre il significato al senso e perciò adoperano il
termine « significato » (Mea- ning) a indicare quello che Frege chiamava senso.
Così Ayer ha definito la P. come la «classe di enunciati che hanno lo stesso
significato (signifi- 45 — ABDBAGNANO, Dizionario di filosofia. 705 cance)
intenzionale per ognuno che li capisce» (Language Truth and Logic, [1936],
1948, p. 88). Nello stesso senso Quine ha considerato le P. come «ia
significati degli enunciati» (From a Logical Point of View, VI, 2; p. 109; Word
and Object, 1960, $ 42). Più vicini alla posizione di Frege sono quelle di
Carnap e Church. Carnap ha distinto l’estensione di un enunciato che è il suo
valore di verità, dall’intensione di esso che è la P. che esso esprime. Nel
senso di Carnap tuttavia la P. è un’entità oggettiva come la « proprietà », per
quanto soltanto di natura logica. Si può par- lare, secondo Carnap, di P. anche
a proposito di enunciati falsi perché le P. sono entità com- plesse, composte
da altre entità; e se anche si ammette che i componenti ultimi di una P. devono
essere «esemplificati» (cioè devono essere veri), non è detto che la P. nel suo
complesso debba esserlo (Meaning and Necessity, $ 6; p. 26-30). Church, che ha
accettato la terminologia di Frege, usa il termine « P.» come equivalente del «
senso » di Frege e afferma che è per una decisione in qualche modo arbitraria
che neghiamo il nome di P. ai sensi degli enunciati (dei linguaggi naturali) in
quanto esprimono un senso ma non hanno valore di verità (Zntr. to Mathematical
Logic, $ 04, op. 27). Dall’altro lato Bergmann si è servito del termine di
Brentano e Husserl «intenzione» per reinter- pretare il «significato» di Frege.
L'intenzione è l’oggetto degli atti intenzionali e la P. è il « carat- tere»
corrispondente all’intenzione stessa. « Nel paradigma, egli dice, l’intenzione
è un fatto es- presso da ‘questo è verde *. Chiamo carattere cor- rispondente
“la P. questo è verde’; e uso P. come un nome generale per questa specie di ca-
rattere» (Logic and Reality, 1964, p. 32). Le discussioni in corso tra i logici
sulle P., nonché sulle loro equivalenze o sinonimie e su altri problemi
relativi, rimangono imperniate sulla distinzione tra senso e significato o su
distinzioni corrispondenti. PROPOSIZIONE ATTRIBUTIVA; ATO. MICA; COMPARATIVA;
DICHIARATIVA; DISCRETIVA; SECONDARIA. V. i relativi aggettivi. PROPOSIZIONE
FUNZIONALE (inglese Functional Proposition; franc. Proposition fonctionelle;
ted. Funktionellsatz). Con questo termine si designano le P. molecolari (ossia
P. complesse, composte di P. semplici mediante i semplici connettivi logici
‘non ’,‘0’,‘e’, ‘implica ’) la cui verità (o falsità) sia funzione unicamente
della verità o falsità delle componenti. La questione se esistano P. molecolari
non funzionali è stata largamente discussa nella Logica contemporanea: contro
la tesi estensionale, principalmente sostenuta dal Wittgenstein, secondo 706
cui tutte le P. molecolari sono funzioni-verità delle componenti, Russell e
altri hanno sostenuto la possibilità di P. composte che non fossero funzioni,
come, per es., « A crede p» (dove ‘A * è un nome di persona e ‘p’ una P.). G.
P. PROPRIETÀ (ingl. Property; franc. Propriété; ted. Eigenschaft). 1. La
determinazione o caratteri- stica propria di un oggetto in uno dei sensi del
ter- mine proprio (v.). 2. Qualsiasi qualità, attributo, determinazione che
serva a contrassegnare un oggetto o a distinguerlo dagli altri. PROPRIETÀ
COMMUTATIVA, DISTRI- BUTIVA. V. COMMUTATIVO, DISTRIBUTIVO. PROPRINCIPIA.
Termine adoperato da Cam- panella per indicare i due princìpi che entrano a
costituire le cose finite, cioè l’Essere e il Non-essere (Mer., II, 2, 2) (v.
PRIMALITÀ). PROPRIO (gr. t3uov; lat. Proprium; ingl. Proper; franc. Propre;
ted. Eigene). 1. Una determinazione che appartiene a tuffa una classe di
oggetti ed appar- tiene sempre e solo a questa classe, pur non facendo parte
della definizione di essa. Questo è il senso fondamentale del termine, quale fu
chiarito da Aristotele (Top., I, 5, 102 a 18) e che entrò a far parte della
tradizione logica (cfr. ARNAULD, Log., I, 7; Jungius, Logica Hamburgensis, I,
1, 33). In questo senso il P., pur non facendo parte dell’es- senza sostanziale
di una cosa, è strettamente con- nesso con tale essenza o deriva in qualche
modo da essa. L'esempio addotto da Aristotele è il poter apprendere la
grammatica: questa determinazione è un P. dell’uomo nel senso che chi è capace
di apprendere la grammatica è uomo ed è uomo chi è capace di apprendere la
grammatica: le due determinazioni « uomo +» e «capace di apprendere la
grammatica » sono reciprocabili. In questo senso il P. è una determinazione
privilegiata che sta tra l’essenza e le determinazioni accidentali. 2. Lo
stesso Aristotele tuttavia chiama proprie anche le determinazioni accidentali
quando di- stingue dal P. per sè «che viene stabilito rispetto a tutti gli
oggetti e separa l’oggetto in questione da ogni altro, come nel caso in cui il
P. dell’uomo sia l’essere un animale mortale che può accogliere il sapere » dal
P. rispetto ad altro « che è quello che di- stingue l'oggetto non da ogni altro
oggetto ma solo da qualche oggetto dato » (Top., V, 1, 128b 34). Il «P. per sè»
è il P. nel senso stretto cioè la deter- minazione che appartiene sempre a
tutto un oggetto dato e solo ad esso, mentre il P. « rispetto ad altro » fu
distinto da Porfirio (sulla base delle stesse consi- derazioni aristoteliche)
in tre altre determinazioni e cioè: 1° ciò che appartiene ad una sola specie ma
non a tutti gli individui della specie: in questo senso l’esser filosofi è P.
dell’uomo; 2° ciò che appar- PROPRIETÀ tiene a tutti gli individui di una specie
ma non ad una sola specie; e in questo l’essere bipede è P. dell’uomo; 3° ciò
che appartiene a tutti gli individui di una sola specie ma non sempre; e in
questo senso l’incanutire è P. dell’uomo. Porfirio enumerava come quarto
significato quello più ri- stretto (/sgg., 12, 12 sgg.). I quattro significati
di Porfirio vennero abitualmente riprodotti dalla logica medievale (cfr., ad
es., Pietro IspaNO, Summ. Logi- cales, 2.13); ma a partire dalla Logica di
Arnauld (I, 7), pur facendosi menzione delle quattro distin- zioni di Porfirio,
si preferì limitare il concetto di P. a quello più ristretto. Ed in realtà, nel
suo signi- ficato esteso, il concetto di P. può includere qualsiasi
determinazione, a qualsiasi titolo attribuita ad un oggetto: perciò perde ogni
caratteristica o utilità spe- cifica. Comunque, la nozione è strettamente
legata all'impianto della logica aristotelica e alla stretta connessione di
questa con la teoria della sostanza, sicchè essa è caduta nella logica
contemporanea. PROSILLOGISMO. V. PoLISILLOGISMO. PROSPETTIVA (ingl. Prospect;
franc. Per- spective; ted. Perspektive). Una qualsiasi anticipa- zione
dell’avvenire: progetto, speranza, ideale, illu- sione, utopia, ecc. Il termine
esprime lo stesso concetto di possibilità (v.) ma da un punto di vista più
generico e meno impegnativo, giacchè possono apparire come prospettive cose che
non hanno ab- bastanza consistenza per essere possibilità autentiche. Nella
filosofia contemporanea il termine è stato ado- perato specialmente da Ortega y
Gasset, Blondel, Mannheim, senza tuttavia una chiara formulazione concettuale.
Per prospertivismo (ted. Perspektvismus) Nietzsche intese la condizione per la
quale « ogni centro di forza — e non l’uomo soltanto — co- struisce tutto il
resto dell’universo partendo da se stesso cioè prestando all’universo
dimensioni, forma e modello commisurati alla propria forza » (Werke, ed.
Kriner, XVI, $ 636). Il termine è stato talora usato per designare la filosofia
di Ortega y Gasset. PROSSIMO. (gr. tè v rainolov; lat. Proximus; ingl.
Neighbour; franc. Prochain; ted. Néchste). Nell’interpretazione che il Vangelo
di Luca (X, 29-37) dà della massima biblica « Ama il P. tuo come te stesso »
(Levitico, XIX, 18), P. è l’altro uomo in generale, indipendentemente da ogni
legame di razza, di amicizia o di parentela, in quanto usa a noi misericordia o
noi la usiamo a lui. Il che vuol dire che la misericordia va usata a qualsiasi
uomo in quanto tale, che comunque si incontri con noi e non ristretta a una
cerchia predeterminata di persone. PROTASI. V. PROPOSIZIONE. PROTENSIONE (ingl.
Prorensity; ted. Pro- tention). Durata di coscienza. Termine introdotto PROVA
da Kant il quale osservava: « La felicità è l’appa- gamento di tutte le nostre
propensioni tanto exten- sive nella loro molteplicità, quanto intensive cioè
rispetto al grado e anche protensive rispetto alla durata + (Crift. R. Pura,
Dottr. del Metodo, cap. II, sez. II). Husserl ha chiamato P. «il prericordo
riproduttivo in senso proprio» cioè lo stato di aspettazione che prepara la
riproduzione del ri- cordo (/deen, I, $ 77). PROTOCOLLO (ingl. Protocol; franc.
Protocol; ted. Protokoll). Termine introdotto dal Circolo di Vienna per
indicare la registrazione del dato imme- diato o esperienza diretta
(sensazione, percezione, emozione, pensiero, ecc.). Le « proposizioni proto-
collari» sono quelle che contengono unicamente P. e perciò fanno diretto
riferimento ai dati imme- diati. Le proposizioni protocollari, mentre sono lo
strumento di ogni verificazione empirica, non hanno a loro volta bisogno di
verifica perchè la loro verità è garantita dal P. che contengono e che le fa
corri- spondere immediatamente al dato empirico (con- fronta R. CARNAP, in
Erkenntnis, II, 1931, pag. 437 seguenti). La nozione di P. rimane legata alla
fase del neopositivismo che esigeva, per dichiarare signifi- cante una
proposizione, la verifica diretta della pro- posizione mediante protocolli. Ma
Carnap stesso a partire dallo scritto Testability and Meaning (1936) li- mitava
questa esigenza, affermando che gli enunciati, per essere significativi,
debbono essere confermabili cioè contenere soltanto « predicati-cosa
osservabili ». Questi predicati-cosa non sono più P., cioè dati dell’esperienza
immediata, ma piuttosto nomi di qualità elementari (per es., « rosso +). Per
una critica del concetto di P., nello stesso ambito del positivismo logico,
cfr. K. PoPPER, Logik der Forschung, 1934; trad. ingl., 1958, $ 26 (v.
ESPERIENZA). PROTOFILOSOFIA (ingl. Protophilosophy; franc. Protophilosophie;
ted. Protophilosophie). Ter- mine adoperato soprattutto da sociologi per indi-
care la filosofia dei popoli primitivi cioè quella che si esprime nella forma
del mito (v.). PROTOLOGIA (ingl. Protology; franc. Proto- logie; ted.
Protologie). Termine adoperato da alcuni scrittori italiani del primo ’800
specialmente da Ermenegildo Pini (P., 3 voll., 1803) per indicare quella che
Fichte chiamava dottrina della scienza o scienza delle scienze. Il termine fu
adottato da Vincenzo Gioberti per l’ultima sua opera, pubblicata postuma (P.,
1857). Gioberti definisce la P. come «la scienza dell’ente intelligibile
intuita per via del pensiero immanente» scienza che è la base di ogni altra
scienza ed è anteriore anche all’on- tologia. L’uso di questo termine si è
fermato a Gioberti. PROTON PSEUDOS (gr. mpétov yessoc). La falsità della
premessa maggiore in quanto 707 determina la falsità del sillogismo
(ARISTOTELE, An. Pr., II, 18, 66 a 16). PROTOTESI (ingl. Protothesis; franc.
Proto- thèse; ted. Protothese). Termine adoperato da W. Ostwald per indicare le
ipotesi che sono suscetti- bili di verifica sperimentale allo stato attuale
della scienza e che perciò si distinguono da quelle che non lo sono (Die
Energie und ihre Wandlungen, 1888, $ 68). In realtà, nessuna ipotesi è come
tale diret- tamente verificabile (v. IPOTESI; TEORIA). PROTOTIPO (gr.
rpwrérurog; lat. Prototypus; ingl. Prototype; franc. Prototype; ted. Prototyp).
Modello originario. Lo stesso che archetipo (v.). PROTRETTICO (gr.
rporpertxéc). Esorta- zione alla filosofia (cfr. PLAT., Eutid., 278 c; Crr-
sippo, Stoicorum Fragmenta, III, 189). La parola fu adoperata come titolo di
libro da Aristotele, Epicuro, Cleante ed altri. PROVA (gr. texuipuov; lat.
Probatio; ingl. Proof; franc. Preuve; ted. Beweis). Un procedimento adatto a
stabilire un sapere cioè una conoscenza valida. Costituisce P. ogni
procedimento del genere, qualunque sia la sua natura: il mostrare ad oculos una
cosa o un fatto, l’esibire un documento, il riportare una testimonianza,
l’effettuare un’indu- zione sono P. come sono P. le dimostrazioni della
matematica e della logica. Il termine è pertanto più esteso di dimostrazione
(v.): le dimostrazioni sono P. ma non tutte le P. sono dimostrazioni. Il
concetto fu stabilito nel senso ristretto da Ari- stotele. «Dicono che la P. è
ciò che produce il sapere» egli scrisse; e perciò distinse la prova
dall’indizio o segno, che dà soltanto una conoscenza probabile (An. Pr., II,
27, 70 b 2). E nella Retorica aggiunse: «Quando si pensa che ciò che si è detto
non può essere confutato, si pensa che si è portata una P., in quanto una P. è
sempre dimostrata e perfetta 1; e il sillogismo stesso è una P. necessaria in
questo senso (Rer., I, 2, 1357 b 5). Lo stesso concetto di un procedimento che
stabilisce o scopre una cono- scenza fu espresso dagli Stoici nella definizione
del segno indicativo come di « un enunciato che proce- dendo in sana
connessione scopre ciò che consegue + (Sesto E., Jp. Pirr., II, 104); o del
ragionamento dimostrativo come di quello che, «per mezzo di premesse convenute
scopre, per via di deduzione, una conclusione non manifesta» (/bid., II, 135).
I procedimenti cui si fa allusione in queste defini- zioni sono P. in quanto
sono « discopritivi +, cioè in quanto producono (e giustificano) conoscenze.
Nel sec. xvi Locke riproduceva a suo modo, cioè sul presupposto cartesiano
della superiorità dell’in- tuizione, questo concetto di P.: « Quelle idee
inter- medie che servono a dimostrare la concordanza fra due altre idee sono
chiamate P.; e quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente 708
percepita la concordanza o discordanza, questa è detta una dimostrazione;
poichè allora la cosa è mostrata all’intelletto e lo spirito è portato a vedere
che essa sta così » (Saggio, IV, 2, 3). Ma la dottrina di Locke segna una
svolta importante nella storia del concetto di P. perchè ammette, per la prima
volta, la possibilità di P. probabili. «La probabilità, diceva Locke, non è che
l’apparenza della concor- danza o discordanza tra due idee mediante l’inter-
vento di P. il cui legame non è costante e immutabile o almeno non è percepito
come tale, ma è o appare tale per lo più ed è sufficiente a indurre lo spirito
a giudicare che la proposizione è vera o falsa, piuttosto che non il contrario
» (/bid., IV, 15, 1). Wolff dal suo canto pur identificando la P. con il
sillogismo distingue da essa la dimostrazione in quanto sarebbe un sillogismo «
che si avvale soltanto di premesse che sono definizioni, esperienze indu-
bitabili e assiomi» (Logica, $ 498). Ma furono soprattutto Hume e Kant che
stabilirono le distin- zioni fondamentali in questo campo. Hume propose di
distinguere tutti gli argomenti in dimostrazioni, P. e probabilità, intendendo
per P. « quegli argomenti tolti dall'esperienza che non soffrono dubbio ed
obiezioni » (Ing. Conc. Underst., VI, nota): nella quale distinzione le
dimostrazioni sarebbero limi- tate al dominio delle pure connessioni di idee.
Kant a sua volta distinse quattro specie di P.: 1° la P. logica rigorosa, che
va dal generale al particolare ed è la dimostrazione vera e propria; 2° il
ragiona- mento per analogia; 3° l’opinione verosimile; 4° l’ipotesi cioè il
ricorso a un principio esplicativo semplicemente possibile (Crir. del Giud., $
90). Egli affermò che le P. dimostrative o apodittiche si trovano soltanto nel
dominio delle matematiche giacchè queste procedono mediante la costruzione dei
concetti: e che i principi di P. empirici non possono dare nessuna P.
apodittica (Crit. R. Pura, Dottrina del Metodo, cap. I, sez. II). Questa era
sostanzialmente un’accettazione del punto di vista di Hume. Dewey ha anch’egli
accettato questo punto di vista, osservando che c’è « da un lato la
dimostrazione razionale, che è questione di rigorosa consequenzialità nel
discorso, dall’altro la dimo- strazione puramente ostensiva» (Logic, cap. XII;
trad. ital., pag. 327). La distinzione tra dimostra- zione o « P. logica» o «
deduttiva » o « necessaria + e la P. in generale ricorre frequentemente (cfr.,
ad es., W. HAMILTON, Lectures on Logic, 1866, II, pag. 38; G. BERGMANN,
Philosophy of Science, 1957, pag. 4). Ma mentre l’analisi dei procedi- menti di
P. usati dalle singole scienze (e quindi della nozione di P. in generale) ha
ricevuto poca attenzione dai filosofi metodologici e non ha fatto progressi, la
nozione di P. logica è stata ripetu- tamente claborata da matematici e logici.
I prin- PROVA cìipi della «teoria della P.» furono stabiliti da D. Hilbert nel
modo seguente: « Una P. è una figura che ci deve stare come tale davanti; essa
consiste di conseguenze derivate secondo lo schema seguente N 3 T T nel quale
ognuna delle premesse cioè le formule Se S-+T o è un assioma, cioè posta
direttamente come tale, o coincide con la formula finale 7 di un ragionamento
precedentemente giunto alla P. cioè consiste nell’assunzione di tale formula
finale. Una formula si dice suscettibile di P. se essa o è un’as- sioma cioè
assunta come un’assioma con un atto di posizione, o è la formula finale di
un’altra P. + (« Die logischen Grundlagen der Mathematik », in Mathematische
Annalen, 1923, pag. 152). In altri termini una P. logica è un procedimento che
con- siste in una manipolazione di formule: manipola- zione che è a sua volta
un insieme di formule. Dice Church, « Una sequenza finita di una o più formule
ben formate è una P. se ciascuna delle formule ben formate della sequenza o è
un assioma o è immediatamente inferita dalle precedenti for- mule della
sequenza per mezzo di una delle regole di inferenza » (Intr. to Mathematical
Logic, 1956, $ 07). Wittgenstein aveva già detto a questo propo- sito: « La P.
in logica è solo un espediente mecca- nico per riconoscere più facilmente la
tautologia quando è complicata» (Tractatus logico-philoso- phicus, 6.1262). La
teoria matematica della P. è sostanzial- mente la riduzione della P. alla P.
della non contradditorietà. Ora un teorema stabilito da K. Gédel nel 1931
afferma che si può sol- tanto provare, con l’aiuto di una parte delle
matematiche, la non contraddizione di una parte più ristretta delle matematiche
stesse; ma non si può provare la non contraddizione dell’insieme delle
matematiche o di una parte più estesa di esse. Si può, ad es., dimostrare la
non contraddizione della teoria dei numeri interi partendo dalla teoria dei
numeri reali, non reciprocamente (cfr. CARNAP, Logical Syntax of Language,
1937, $ 35-36; QUINE, Mathematical Logic, 1940, cap. 7). Il teorema di Gédel
porta, come osserva Quine, alla maturità una nuova branca della teoria
matematica cioè la branca conosciuta come metamatematica o « teoria della P.»,
il cui oggetto è la stessa teoria mate- matica (Me:rhods of Logic, $ 41).
Questo teorema stabilisce tuttavia che una P. della coerenza è sempre relativa
perchè il risultato di essa vale soltanto finchè si ammette la coerenza del
sistema in base al quale essa viene effettuata (cfr. Quine, From a Logical Point
of View, pag. 99 sgg.). Cfr. pure E. NAGEL e J. R. NEWMANN, Gòdel’s Proof.,
1958 (v. MATEMATICA), PSICANALISI PROVVIDENZA (gr. mpévota; lat. Providentia;
ingl. Providence; franc. Providence; ted. Vorsehung). Il governo divino del
mondo: che viene abitual- mente distinto dal destino, in quanto è considerato
come esistente in Dio stesso mentre il destino è questo governo visto
attraverso le cose del mondo (v. Destino). La nozione di provvidenza fa parte
integrante del concetto di Dio come creatore dell’or- dine del mondo o come
quest'ordine stesso (v. Dio). Per i problemi connessi col concetto di P., vedi
MALE; TEODICEA. PROVVIDENZIALISMO (ingl. Providentia- lism). 1. La fiducia
nell’azione della provvidenza. 2. La dottrina che vede nella storia un ordine o
un piano provvidenziale. In quest’ultimo senso il termine è adoperato in
italiano (v. STORIA). PRUDENZA (lat. Prudentia; ingl. Prudence; franc.
Prudence; ted. Klugheit). V. SAGGEZZA. PSEUDOCONCETTO. P. o « finzioni con-
cettuali » 0 « concetti finiti » chiamò Croce le nozioni che comunemente si
dicono concetti, in contrapposto al «concetto puro» o « autentico concetto »
con il quale egli intese la stessa Ragione universale nella sua forma
conoscitiva. I P. servirebbero a conser- vare e a classificare le conoscenze
acquistate (Logica, 1920, cap. II. PSEUDOPROPOSIZIONI (ingl. Pseudosta- tement;
ted. Pseudosdizen). Termine adoperato da Carnap per indicare « espressioni che
sono erronea- mente considerate come proposizioni ma non hanno contenuto
conoscitivo, per quanto possano avere componenti di significato non cognitivo,
per esempio emotivo » (Meaning and Necessity, $ 4). Secondo Carnap, molte
proposizioni della metafisica classica sono P. in questo senso (cfr.
Erkenntnis, II, 1931). PSICANALISI (ingl. Psychoanalysis; francese
Psychanalyse; ted. Psychoanalyse). Sotto il nome di P. vanno: 1° un metodo di
cura per certe malattie mentali; 2° una dottrina psicologica; 3° una dottrina
metafisica; infine, e più spesso, una certa disordinata mescolanza di queste tre
cose. I fondamenti della psicanalisi sono stati dallo stesso fondatore Sig-
mund Freud così riassunti nell’introduzione di una delle sue opere maggiori: 1°
i processi psichici sono in se stessi incoscienti e i processi coscienti sono
soltanto atti isolati, frazioni della vita psichica totale; 2° i processi
psichici incoscienti sono in buona parte dominati da tendenze che possono
essere qualificate «sessuali» nel senso stretto o largo del termine.
Quest’ultimo presupposto è in realtà la caratteristica fondamentale della P.;
la quale è essenzialmente il tentativo di spiegare l’intera vita dell’uomo, e
non solo quella privata o indivi- duale ma anche quella pubblica o sociale, con
il ricorso a una sola forza che è l’istinto sessuale o libido (v.) nel senso
tecnico di questo termine (Ein- 709 fiihrung in die Psychoanalyse, 1917,
Intr.). Dal con- trasto tra gli impulsi sessuali dell'inconscio e le
soprastrutture morali e sociali costituite da proi- bizioni e censure
accumulate e consolidate dall’in- fanzia, nascono i seguenti fenomeni: a) i
sogni, che sarebbero espressioni deformate e simboliche dei desideri repressi
(cfr. Die Traumdeutung, 1900); b) gli arti mancati cioè i lapsus, le sviste,
che sono falsamente attribuite al caso; e perfino gli scherzi e l’umorismo
(cfr. Zur Psychopathologie des All- tagslebens, 1901; Der Witz und seine
Bedeutung zum Unbewussten, 1905); c) le malattie mentali che pertanto possono
essere curate portando il paziente, attraverso la confessione e la
conversazione, a ri- conoscere i conflitti da cui emergono. A questo proposito,
il sintomo di una malattia dev’essere considerato come «il segno e la
sostituzione di una soddisfazione istintuale rimasta latente, il ri- sultato di
un processo di rimozione» (Hemmung, Symptom und Angst, 1926, cap. 2; trad.
ital., pa- gina 29). Uno dei fenomeni caratteristici della cura psicanalitica è
il cosiddetto transfert cioè il tra- sferimento dei sentimenti del malato
(positivi o negativi, cioè di amore o di odio) alla persona del medico
(Einflihrung cit., cap. 27; trad. franc., pa- gina 461 sgg.); d) la
sublimazione cioè il trasferi- mento dell’impulso sessuale ad altri oggetti,
tra- sferimento che darebbe luogo ai fenomeni cosiddetti spirituali: arte,
religione, ecc.; e) i cosiddetti com- plessi cioè sistemi o meccanismi
associativi, rela- tivamente costanti in tutti gli uomini e cui vanno
attribuiti i maggiori turbamenti mentali. La nozione e il termine di complesso
fu introdotta da un se- guace di Freud, C. G. Jung (Wandlungen und Symbole der
Libido, 1912). Ma Freud aveva già, nell’Inter- pretazione dei sogni, adombrato
tutti i fatti fonda- mentali del cosidetto « complesso di Edipo +, che è quello
per cui il bambino include nell’amore per la madre una certa gelosia o
avversione verso il padre. Nel 1923 nello scritto L’Ego e Es (Das Ich und das
Es) Freud dava una teoria psicologica che è stata largamente accettata dalla
psicologia contemporanea. Egli divideva lo spirito in tre parti: l’Ego che è
organizzazione e consapevolezza, perciò è in contatto con la realtà e cerca di
asservirla ai suoi fini; il Super Ego che è ciò che comunemente si chiama
coscienza morale, cioè l’insieme delle proibizioni che sono state instillate
all'uomo nei primi anni di vita e che poi lo accompagnano sempre, anche in
forma inconsapevole; e 1°Es che è costituito dagli impulsi molteplici della
libido, di- retta costantemente verso il piacere. Questa dot- trina su cui lo
stesso Freud è ritornato più tardi (cfr. Hemmung, Symptom und Angst, 1926) si è
rivelata abbastanza utile sia per la descrizione e 710 l'interpretazione delle
malattie mentali sia nella teoria della personalità. Freud e i suoi seguaci
hanno presentato e presen- tano i loro concetti non come ipotesi o strumenti di
spiegazione ma come realtà assolute, di natura metafisica. Ma una vera e
propria metafisica, anzi una mitologia Freud ha formulato in uno dei suoi ul-
timi scritti Das Unbehagen in der Kultur (1930, tradu- zione inglese, col
titolo Civilisation and its Discon- tents, 1943), nel quale ha considerato
tutta la storia dell’umanità come la lotta tra due istinti, l’istinto della
vita o Eros e l’istinto della Morte. « Questa lotta, egli ha scritto, è ciò in
cui ogni vita essenzial- mente consiste e perciò lo sviluppo della civiltà può
essere descritto come la lotta della specie umana per l’esistenza. Ed è questa
battaglia di titani che le nostre nutrici e governanti tentano di comporre con
le loro filastrocche sui cieli » (Civilisation and its Discontents, 1943, pag.
102). Questa dottrina non è che un’espressione, non molto aggiornata, del
dualismo manicheo. L’importanza della P. consiste in primo luogo nell’avere
sottolineato la funzione del fattore ses- suale in tutte le manifestazioni
della vita umana. Per la prima volta, con la P., questo fattore ha cessato di
essere una zona d’ignoranza obbligata per la scienza e per la filosofia e ha
potuto essere studiato nei suoi effettivi modi d’azione. In secondo luogo, la
P. ha fornito un insieme di concetti che, per quanto non molto compatibili tra
loro, si prestano ad essere utilizzati da varie branche della psicologia
contemporanea, soprattutto sc sottratti al dogmatismo con cui alcuni seguaci di
Freud li hanno trattati. Questo secondo aspetto positivo ha però una
controparte negativa: la P. fornisce a molti orecchianti il modo di apprestare
spie- gazioni apparentemente plausibili e molto a buon mercato dei fenomeni
umani più disparati, scam- biando anche, talora, questa spiegazione per una
giustificazione morale 0 metafisica. In terzo luogo, la P. ha avuto il merito
di apprestare uno stru- mento curativo che continua a dimostrarsi efficace,
anche se molte delle illusioni ottimistiche che esso aveva suscitato ai suoi
inizi sono andate perdute. Tra i molti indirizzi interpretativi, che hanno più
o meno modificato le dottrine fondamentali della P., se ne possono ricordare
due, quella di Jung e quella di Adier. Jung ha concepito l’istinto fon-
damentale dell’uomo non già come di natura ses- suale ma come una Energia
originaria e creativa che si identifica con il concetto generico della divi-
nità e costituisce l'inconscio collettivo che è il fondo comune della natura
umana (Psicologia dell’in- conscio, 19425): Alfred Adler invece ha identificato
l’istinto fondamentale dell’uomo con la volontà di potenza di cui parlava
Nietzsche cioè come uno PSICANALISI ESISTENZIALE spirito di aggressione e di
lotta che è in conflitto con l’altro istinto, il sentimento della comunità
umana che lega l’individuo a tutti gli altri. Il gioco di queste due forze
determinerebbe il carattere di ogni singolo uomo e le sue manifestazioni
patolo- giche (La conoscenza dell’uomo, 1927). PSICANALISI ESISTENZIALE (franc.
Psy- chanalyse existentielle). Sartre ha chiamato con questo nome l’analisi
filosofico-esistenziale in quanto cerca di determinare la «scelta originaria »
che è alla base di ogni umano « progetto di vita ». Il prin- cipio di questa
psicanalisi è che « l’uomo è una tota- lità e non una collezione +; e il suo
scopo è quello di « decifrare i comportamenti empirici dell’uomo », Inoltre il
suo punto di partenza è l’esperienza e il suo metodo è quello comparativo
(L’étre er le néant, 1943, pag. 656). La P. esistenziale si differenzia da
quella di Freud che Sartre chiama « empirica » perchè cerca di determinare non
già i « complessi » ma la scelta originaria (/bid., pag. 657). PSICHE (ingl.
Psyche; franc. Psyché; ted. Psy- che). Anima o coscienza (v. questi due
termini). PSICHEDELICO (ingl. Psychedelic). Aggettivo che dovrebbe significare
« manifestante la psiche », coniato recentemente per qualificare le esperienze
prodotte dall’uso dell’acido lisergico (LSD) o di altre droghe, in quanto
assunte o credute come rivelazioni di una realtà più profonda di quella che si
manifesta nell’esperienza comune e che è di natura divina o è la divinità
stessa immanente nel mondo (cfr. W. BRADEN, The Private Sea, London, 1967).
PSICOFISICA. V. PsicoLOGIA, b). PSICOGENESI (ingl. Psychogenesis; francese
Psychogénèse; ted. Psychogenese). Lo sviluppo dei processi mentali, o la
considerazione di tale sviluppo. PSICOGNOSI (ingl. Psychogrosy). Termine
adoperato da Peirce per indicare il complesso delle scienze psichiche (Coll.
Pap., 1.242). PSICOGRARFIA (ingl. Psychography; francese Psychographie; ted.
Psychographie). Descrizione dei processi o dei caratteri psichici di un individuo.
PSICOIDE (ingl. Psychoid; franc. Psychotd; ted. Psycholde). Nome dato dal
biologo vitalista H. Driesch alla forza psichica che presiede alla forma- zione
e allo sviluppo degli organismi (v. VITALISMO). PSICOLOGIA (ingl. Psychology;
franc. Psy- chologie; ted. Psychologie). La disciplina che ha per oggetto
l’anima o la coscienza o gli eventi caratteristici della vita animale ed umana,
comunque tale eventi siano poi caratterizzati al fine di deter- minarne la
natura specifica. Talvolta infatti tali eventi si considerano come puramente
«mentali» cioè come «fatti di coscienza»; talaltra come eventi oggettivi od
oggettivamente osservabili, cioè come movimenti, comportamenti, ecc.; ma in
ogni caso PSICOLOGIA l’esigenza cui queste definizioni rispondono è quella di
delimitare il dominio dell’indagine psicologica alla cerchia ristretta dei
fenomeni caratteristici degli organismi animali e specialmente dell’uomo. Dal
punto di vista dell’impostazione concettuale (che è quello che interessa la
filosofia) si possono distin- guere i sei indirizzi fondamentali seguenti: a)
P. ra- zionale; 5) P. psicofisica; c) P. gestaltistica; d) P. com-
portamentistica; e) P. del profondo; f)P. funzionale. a) La P. razionale o
filosofica è quella fondata da Aristotele che per primo raccolse nel suo libro
De Anima le opinioni che i suoi predecessori ave- vano espresso intorno a
questo soggetto. Questa P. ha per oggetto « la natura, la sostanza, e le deter-
minazioni accidentali dell'anima », intendendosi per anima «il principio degli
esseri viventi» (De An., I, 1, 402 a 6). Il presupposto fondamentale di questa
P. è esplicito in queste notazioni: essa presuppone negli eventi che prende a
studiare un principio unico e semplice, una sostanza necessaria, dalla quale si
lascino dedurre le determinazioni che quegli eventi posseggono costantemente o
per lo più. La P. è in questo senso una scienza deduttiva del- l'anima nella
quale i fenomeni particolari entrano soltanto come conferme occasionali dei
singoli teoremi che la costituiscono. Ben a ragione nel sec. Xvili Wolff dava a
questa P. il titolo di « razio- nale » in quanto per essa si tratta di «
derivare a priori dall’unico concetto dell'anima umana tutte le cose che si
osservano a posteriori competere ad essa» (Log., Disc. prel., $ 112). Ma fu
merito di Wolff aggiungere a tale P. una P. s empirica + definita come «la
scienza che stabilisce attraverso l’esperienza i princìpi con i quali si possa
rendere ragione di ciò che accade nell’anima umana» (/bid., $ 111; Psy-
chologia empirica, 1732, $ 1). La P. razionale in questo senso rimane un
indirizzo proprio delle filosofie che si ispirano alla metafisica tradizionale,
ma ha cessato di avere qualsiasi efficacia sullo sviluppo scientifico della
psicologia. b) La P. psicofisica o più semplicemente la psicofisica ha
costituito il primo indirizzo empirico o sperimentale o scientifico della
psicologia. Wolff aveva già prescritto per essa il procedimento indut- tivo o
sperimentale proprio di tutte le scienze empi- riche; Maine di Biran, ai
princìpi dell’800, le pre- scriveva il suo campo d’azione: la coscienza (Essai
sur les fondements de la psychologie, 1812). Con ciò tuttavia non c’erano
ancora tutte le condizioni per la fase scientifica della psicologia. Ne manca-
vano due, strettamente connesse tra loro; in primo luogo, il riconoscimento
dello stretto rapporto tra gli eventi psichici e gli eventi fisici mediato dal-
l’azione del sistema nervoso; in secondo luogo, l’introduzione di un qualche
procedimento di mi- sura. La realizzazione di queste due condizioni 711
condusse la P. a costituirsi come psicofisica. Ciò avvenne per opera di
Helmholtz, Weber, e Fechner: il primo dei quali riusciva a misurare nel 1850 la
velocità dell’impulso nervoso; mentre il secondo enunciava la cosiddetta «
legge » concernente il rap- porto tra lo stimolo e la sensazione (e secondo la
quale l’aumento dello stimolo necessario per es- sere percepito come tale è
proporzionale all’inten- sità dello stimolo originario); e l'ultimo stabiliva
la «legge psicofisica fondamentale » che consisteva nella formula matematica
esprimente la legge di Weber. Nel 1860 Fechner pubblicava gli Elementi di
psicofisica che definivano la psicofisica come «la scienza esatta delle
relazioni funzionali o re- lazioni di dipendenza fra lo spirito e il corpo».
Questo fu e rimase il programma della P. scien- tifica in questa prima fase
della sua organizzazione: un programma nel quale trovarono posto agevol- mente
i risultati delle analisi dell’empirismo inglese da Locke a Spencer.
Quest'ultimo nei Principi di P. (1855) aveva anch’egli definito come psico-
fisica il compito della P. asserendo che «la P. si distingue dalle scienze
sulle quali poggia [dall’ana- tomia e dalla fisiologia] perchè ciascuna delle
sue proposizioni prende in considerazione sia il feno- meno interno connesso
sia il fenomeno esterno connesso, al quale si riferisce » (Principles of Psy-
chology, 3* ed., 1881, pag. 132). Dall’empirismo inglese, la P. desunse due
tratti fondamentali che l’accompagnarono in questa prima fase della sua
costituzione cioè l’atomismo (v.) e l’associazio- nismo (v.): sicchè le sue
strutture teoretiche fon- damentali possono ricapitolarsi nel modo seguente: 1°
La P. ha per oggetto i « fenomeni interni » o « fatti di coscienza » e il suo
principale strumento di indagine è l’introspezione o riflessione. Per questo
aspetto l’indirizzo in esame della P., fu spesso chia- mato P. soggettiva o
riflessiva o, più raramente, ‘ critica ’. 2° I fatti di coscienza o fenomeni
interni sono studiati dalla P. nella loro connessione funzio- nale con i
fenomeni esterni cioè fisiologici o fisici. Per quest’aspetto che è il più
proprio della fase in questione tale P. fu chiamata psicofisica o anche (da
Wundt) P. fisiologica. A questo aspetto si collega l’ipotesi che ha sorretto in
questa fase il lavoro sperimentale della P.: il parallelismo psicofisico (v.).
3° La tendenza a risolvere il fatto di coscienza in elementi ultimi
(sensazioni, emozioni elementari, riflessi o istinti elementari) e a spiegare i
fenomeni più complessi con la combinazione di tali elementi: (atomismo,
associazionismo). 4° Il carattere scientifico della P. è costituito dal ricorso
ai procedimenti dell’induzione, dell’espe- rimento e del calcolo matematico; il
ricorso a tali 712 procedimenti stabilisce il carattere descrittivo che la P.
rivendica per sè, analogamente a quanto fanno le altre discipline empiriche. c)
La P. della forma o gestaltismo o configurazio- nismo batte in breccia il
caposaldo 3° della P. psico- fisica cioè l’atomismo e l’associazionismo. Essa
consiste nell’assumere come punto di partenza il principio simmetrico e opposto
a quello della P. associativa: non già l’elemento, ma la forma totale è il
fatto fondamentale della coscienza, giacchè questa forma non è mai riducibile
ad una somma o combinazione di elementi. La P. della forma ebbe come suoi
fondatori Wertheimer, Kéhler e Koffka; e pur mantenendo sostanzialmente
immutato il caposaldo 2° della psicofisica cessò di parlare di fatti o fenomeni
di coscienza per considerare forme o configurazioni o campi, colti nella loro
struttura totale. La P. della forma si è occupata soprattutto della percezione,
rispetto alla quale ha accumulato una mole ingente di lavoro speri- mentale (v.
PERCEZIONE, 3, @). d) La P. obiettiva o comportamentismo batte in breccia il caposaldo
1° della P. psicofisica, negando che lo strumento fondamentale della P. sia
l’intro- spezione o riflessione e che i fatti di coscienza o fenomeni interni
siano l’oggetto di questa scienza; e asserendo che costituiscono invece oggetto
della P. le reazioni degli organismi agli stimoli: inten- dendosi per reazioni,
movimenti o fenomeni ogget- tivamente osservabili, che si producono in rapporto
agli eventi dell'ambiente che funzionano da stimoli. Nel 1907 il fisiologo
russo Bechterev pubblicava una P. obiettiva (che fu poi tradotta in inglese e
francese) che sosteneva appunto questa tesi; che più tardi gli studi di Pavlov
sui riflessi condizionati difesero e diffusero (v. AZIONE RIFLESSA). Da quella
data si può pertanto far cominciare il comporta- mentismo; che tuttavia ebbe il
suo nome alcuni anni più tardi, dall’americano J. B. Watson, in un articolo del
1913 e poi in un libro intitolato Compor- tamento, introduzione alla P.
comparativa (Behavior. An Introduction to Comparative Psychology, 1914). In questa
prima fase il comportamentismo assumeva il carattere di un necessitarismo
rigoroso; la reazione dell’animale era considerata come l’effetto causale
necessario dello stimolo, perciò come infallibilmente prevedibile a partire da
esso. L'abbandono di questo necessitarismo e il riconoscimento del carattere
sem- plicemente statistico o probabilistico delle costanti riscontrabili nelle
reazioni di risposta degli organismi agli stimoli costituisce la fase più
moderna del com- portamentismo stesso (v. COMPORTAMENTISMO). e) Le cosiddette
P. abissali o P. del profondo battono in breccia il caposaldo 4° della P.
scientifica classica, considerando la P. come scienza non di descrizione ma di
interpretazione. Per la psicanalisi PSICOLOGIA infatti, che è la maggiore e più
coerente espressione delle P. abissali, l’interpretazione desume il suo punto
di partenza non già da fatti come fa la descri- zione, ma da sintomi e la
nozione di sintomo è difatti uno dei concetti fondamentali della psicanalisi
(v. Inconscio). Nell’interpretazione dei sintomi la psicanalisi segue una sola
regola fondamentale: quella di ridurre il sintomo stesso a simbolo o espres-
sione deformata di un bisogno o di un conflitto di natura vagamente sessuale,
attinente cioè alla libido (v. Lramo; PSICANALISI; SESSUALITÀ). Va- rianti
della psicanalisi sono la cosiddetta P. indi- viduale di Alfred Adler, la quale
insiste soprattutto sul carattere finalistico dei procedimenti psichici (Praxis
und Theorie der Individualpsychologie, 1924); e la P. analitica di C. G. Jung
che in realtà è molto poco analitica (nel senso proprio del termine) perchè non
fa che riconoscere il carattere simbolico a molti sintomi che lo stesso Freud
considerava come aventi un significato diretto (Collected Papers on Analy-
tical Psychology, 1916) (v. Inconscio; PROFONDO). f) La P. funzionale o
funzionalismo è quell’in- dirizzo il quale ritiene che l’oggetto della P. sia
costituito dalle funzioni od operazioni dell’orga- nismo vivente, considerate
come unità minime indi- visibili. Il funzionalismo si fa iniziare da uno
scritto di Dewey del 1896 sul Concerto dell’arco riflesso in P. nel quale si
sosteneva che l’arco riflesso non si può dividere in stimolo e risposta ma
dev'essere considerato come un’unità dalla quale soltanto stimolo e risposta
traggono significato. Per indicare l’unità della funzione lo stesso Dewey
adoperò in seguito la parola transazione (v.): che serviva a sotto- lineare
l’impossibilità di considerare come entità per sè stanti, e indipendenti dalla
relazione in cui entrano, gli elementi di una funzione qualsiasi (cfr. Knowing
and the Known, 1949, in collaborazione con A. F. Bentley). L’indirizzo
funzionalistico abbandona i presupposti 1°, 2° e 3° della P. tradi- zionale.
Abbandona il presupposto 1° perchè l’og- getto che prende a studiare non è un
fatto di coscienza ma una funzione cioè un’operazione con la quale l’organismo
entra in rapporto con l’ambiente. Abbandona il caposaldo 2° perchè il metodo di
cui esso si avvale non è quello introspettivo ma piut- tosto quello oggettivo o
comportamentistico: le fun- zioni devono essere studiate mediante procedimenti
di osservazione oggettiva. Infine il funzionalismo ha in comune con la P. della
forma l’abbandono del caposaldo 3°. Ma il carattere del funzionalismo che
costituisce la sua maggiore novità nei confronti degli altri indirizzi della P.
è il suo probabilismo: che consiste nel negare non solo ai procedimenti
della scienza ma anche a tutte le
funzioni conoscitive umane (compresa la percezione immediata), il carat- tere
della certezza infallibile e nel riconoscere a tutte PSICOLOGISMO queste
funzioni la possibilità di raggiungere solo validità probabile. Per questo
probabilismo, il fun- zionalismo costituisce l’inserzione della P. nel circolo
delle idee fondamentali della scienza contempo- ranea (cfr. BRUNSWIK,
Psychology in Terms of Objects, 1936; CANTRIL, AMES, HASTORF, ITTELSON, «
Psychology and Scientific Research», in Science, vol. 110, 1949; CANTRIL, The ‘
Why° of Man's Experience, 1950; trad. ital, Le motivazioni del- l’esperienza,
1958; v. pure le opere citate nella bibliografia di quest’ultimo libro).
PSICOLOGICO (ingl. Psychological; franc. Psy- chologique; ted. Psychologisch).
1. Ciò che concerne la psicologia; e in questa accezione il termine ha tanti
significati diversi quanti sono i diversi indirizzi concettuali della
psicologia stessa. 2. Ciò che concerne la coscienza dell’individuo cioè gli
atteggiamenti o le valutazioni individuali. In tal senso si dice, per es., che
«si tratta di una questione puramente P.» quando si tratta di una questione cui
non si può trovare una base nei fatti o nell’ambito di un determinato universo
di discorso (per es., scientifico, logico, ecc.). PSICOLOGISMO (ingl.
Psychologism; francese
Psychologisme; ted. Psychologismus). 1.
Termine di origine ottocentesca che designa in primo luogo qualsiasi filosofia
che assuma a suo fondamento i dati della coscienza cioè della riflessione
dell’uomo su se stesso. In questo senso lo P. fu inteso, in pole- mica con
l’idealismo hegeliano, da G. F. Fries (1773-1844) e da F. E. Beneke (1798-1854)
che en- trambi assunsero esplicitamente come metodo e compito della filosofia
l’auto-osservazione o co- scienza. Da questo punto di vista la psicologia, come
descrizione dell’esperienza interna, diventa l’unica filosofia possibile (cfr.
FrIEs, Neue oder an- thropologische Kritik der Vernunft, 1828; BENEKE, Die
Philosophie în ihrem Verhdltnis zur Erfahrung, zur Speculation und zum Leben,
1833). Più generica- mente, e polemicamente, V. Gioberti intendeva per P. il
procedimento filosofico che va dall’uomo a Dio, in quanto contrapposto a quello
che va da Dio al- l'uomo. Quest'ultimo è l’onrologismo (v.). Lo P. è da
Gioberti considerato come la caratteristica di tutta la filosofia moderna da
Cartesio in poi (/ntr. allo studio della filosofia, 1840, II, pagina 175). 2.
Nel suo uso polemico, il termine è costante- mente usato per designare la
confusione tra la genesi psicologica della conoscenza e la sua validità; o la
tendenza a ritenere giustificata la validità di una conoscenza quando si è
invece spiegata soltanto il suo accadimento nella coscienza. In questo senso,
colui che ha chiarito per primo il concetto di P. (per quanto non ne abbia
adoperato il nome) e ha iniziato la polemica contro di esso, è stato Kant il
quale distingueva, a proposito dei concetti a priori, 713 la quaestio facti
della loro « derivazione fisiologica + cioè del loro accadere nella mente o
nella coscienza dell’uomo, dalla quaestio juris che consiste nel chiedersi il
fondamento della loro validità e che esige come risposta la deduzione (v.
DEDUZIONE TRASCENDENTALE) (Crift. R. Pura, $ 12). Questa distinzione che è
sempre presente nell’opera di Kant, significa la scoperta della dimensione
/ogico- oggettiva della conoscenza: una dimensione, la cui irreducibilità alla
coscienza o alle condizioni sog- gettive del conoscere è stata sostenuta da
molte scuole kantiane: dalla scuola del Baden (Windel- band, Rickert) dalla
scuola di Marburgo (Cohen, Natorp) dalla fenomenologia (Husserl) che hanno,
nella filosofia degli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro,
costantemente combattuto lo psicologismo. Herman Lotze nella Logica del 1874
aveva sistematicamente fatto valere il punto di vista antipsicologistico
distinguendo costante- mente l’atto psichico del pensare, che esiste solo come
un determinato evento temporale, dal con- tenuto del pensiero che ha altro modo
d'essere, quello della validità. G. Frege aveva fatto valere nel dominio della
logica matematica lo stesso punto di vista. « Non si prenda come definizione
mate- matica, egli diceva, la semplice descrizione del modo in cui si forma in
noi una certa immagine nè come dimostrazione di un teorema il resoconto delle
condizioni fisiche o psichiche che devono trovarsi in noi soddisfatte perchè ne
possiamo com- prendere l’enunciato. Non si confonda la verità di una
proposizione con il suo venir pensata! Oc- corre ricordarsi bene di questo: che
una propo- sizione non cessa di essere vera allorchè io non la penso più, come
il sole non cessa di esistere al- lorchè io chiudo gli occhi» (Die Grundlagen
der Arithmetik, 1884, Intr.; trad. ital, in Arifmetica e logica, pag. 23).
Queste considerazioni venivano quasi alla lettera ripetute da Husserl (Logische
Untersuchungen, 1900, I, $ 17 sgg.), il quale ribadiva più tardi che « se
designiamo un numero come una formazione psichica cadiamo in un assurdo,
urtiamo contro il senso intrinseco del discorso aritmetico, che sta prima di
tutte le teorie ed è in ogni momento chiaramente contemplabile nella sua piena
validità + (Ideen, I, 1913, $ 22) e metteva in guardia contro la tendenza a «
psicologizzare l’eidetico » cioè a identi- ficare le essenze con la coscienza
che si ha di volta in volta di esse (/bid., $ 61). L’indirizzo antipsicolo-
gistico in questo senso è oggi alla base di filosofie ap- parentemente
disparate: dell’esistenzialismo, per es., nella forma che ha assunto nell’opera
di Heidegger in quanto è analisi delle situazioni umane nella loro essenza e
non nel loro accadere psichico (cfr. Sein und Zeit, $ T); come dell’empirismo
logico il cui principale rappresentante, R. Carnap, ha costante- 714 mente
polemizzato contro lo P. (cfr. Der /ogische Aufbau der Welt, 1928, $ 151 sgg.;
« Empiricism, Semantics and Ontology +, 1950, in Readines in Phil. of Science,
1953, pag. 514). La polemica contro lo P. è d’altronde frequente nell’empirismo
logico (cfr., per es., A. Pap, Elements of Analytic Philosophy, 1949, pag.
406). PSICOMETRIA (ingl. Psychometry; francese Psychométrie; ted.
Psychometrie). La misura della fre- quenza, dell'intensità o della durata degli
eventi psi- chici. Il termine (psycheometria) nonchè l’esigenza della
applicazione della misura a fatti psichici furono proposti da Wolff (Psychol.
empirica, $ 522, 616). Il ter- mine fu molto adoperato dalla psicofisica che
talvolta si identificò con la psicometria. Ora è caduto in disuso. PSICOPATIA
(ingl. Psychopathy; franc. Psy- chopathie; ted. Psychopathie). Qualsiasi
disordine o malattia mentale; o le forme meno gravi di tali malattie. In
quest'ultimo senso la P. sarebbe diversa dalla psicosi (v.). PSICOSI (ingl.
Psychosis; franc. Psychose; ted. Psychose). Nel significato ora in uso:
malattia mentale grave che implica perdita o disordine di processi mentali. Psiconevrosi
o semplicemente nevrosi: malattia o disturbo mentale meno grave. In generale
s’intende per P. l’indebolimento o la perdita del rapporto verificabile con le
cose o con gli altri, rapporto che è costitutivo della persona- lità (v.) e la
cui alterazione quindi comporta lo squilibrio della personalità stessa. Per
rapporto verificabile si può intendere un rapporto che può essere controllato o
non smentito dai criteri comu- nemente riconosciuti validi o che comunque non
equivalga alla negazione di ogni rapporto possibile. PSICOSOMATICO (inglese
Psychosomatic; franc. Psychosomatique; ted. Psychosomatik). Che concerne
l'influenza degli atteggiamenti mentali (cioè del modo di pensare e di sentire
di una persona) sui processi organici. Si chiama psicosomatica la branca della
medicina che studia tali influenze (con- fronta F. ALEXANDER, Psychosomatic
Medicine, 1949). PSICOTECNICA (ingl. Psychotechnic; fran- cese Psychotechnique;
ted. Psychotechnik). L'appli- cazione della psicologia ai problemi del lavoro e
della produzione: l’ingegneria psicologica. PSICOTERAPIA (ingl. Psychotherapy;
francese Psychothérapie; ted. Psychotherapie). La soluzione dei conflitti sia
individuali sia di gruppo, o la cura di stati mentali patologici mediante
consigli, chiarimenti o suggerimenti verbali, senza ricorso a mezzi mate-
riali. La psicanalisi è la più nota e diffusa forma di psicoterapia. Una forma
più aggiornata è la cosid- detta «P. non direttiva» secondo la quale il
procedi- mento di cura consiste nel cercare di trovare, mediante una
conversazione amichevole con il paziente, l’imma- gine che egli si fa di se
stesso e dei suoi fini nella vita, PSICOMETRIA aiutandolo a liberarsi dai
conflitti (cfr. C. R. RoGERS, Counseling and Psychotherapy, 1937) (v.
PSICANALISI). PSITTACISMO (ingl. Psittacism; franc. Psit- tacisme; ted.
Psittazismus). L’uso delle parole senza il loro riferimento agli oggetti, come
fanno i pappagalli. Diceva Leibniz: « Si ragiona spesso con le parole senza
quasi aver l’oggetto nello spirito... +; e in questo caso «i nostri pensieri e
i nostri ragionamenti, contrari al sentimento, sono una specie di P.» (Nouv.
Ess., II, 21, 35). Sul lin- guaggio oratorio considerato come una specie di P.
cfr. C. K. OGpEN-I. A. RICHARDS, The
Meaning of Meaning, 10* ed., 1952, pag. 218. PUBBLICITÀ (ingl. Publicity; franc. Publicité; ted. Offentlichkeit).
Secondo Kant è il criterio per riconoscere immediatamente la legittimità di una
pretesa giuridica. Kant chiama formula tra- scendentale del diritto pubblico il
seguente principio: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la
cui massima non è suscettibile di P., sono ingiuste + (Zum ewigen Frieden,
appendice II. PUBBLICO (ingl. Public; franc. Publique; ted. Offentlich).
L’aggettivo è usato in senso filo- sofico (specialmente da scrittori
anglosassoni) per designare quelle conoscenze o quei dati o elementi di
conoscenza che sono disponibili a chiunque in condizioni adatte e non
appartengono alla sfera privata e incontrollabile della coscienza. P. in questo
senso è ciò che Kant chiamava oggettivo (v.): ciò che può essere partecipato
ugualmente da tutti e perciò anche espresso o comunicato con il linguaggio
(cfr. B. RusseLL, Human Knowledge, II, 1; tradu- zione ital., pag. 81).
PUNIZIONE. V. Pena. PUNTO (lat. Punctum; ingl. Point; franc. Point; ted.
Punkt). Leibniz ammise accanto al P. matema- tico e al P. fisico il P.
metafisico che è la sostanza spirituale come elemento costitutivo del mondo.
Egli così distingueva le tre specie di P.: « I P. fisici sono indivisibili solo
in apparenza; i P. matematici sono esatti ma sono solo modi; soltanto i P.
metafisici o di sostanza, costituiti dalle forme o anime, sono nello stesso
tempo esatti e reali; e senza di essi non ci sarebbe nulla di reale perchè
nelle vere unità non ci sarebbe molteplicità 1 (Sy- stème nouveau de la nature,
1695, $ 11). I P. metafisici non sono che le monadi (v.). PURIFICAZIONE. V.
CATARSI. PURISMO (ingl. Purism; franc. ‘Purisme; te- desco Purismus). 1. In
senso morale: «specie di pedanteria relativa all’osservazione del dovere
considerato nel senso più largo + (KANT, Met. der Sitten, Dottrina della virtù,
I, $ 7). a. In senso linguistico: specie di pedanteria relativa alla pretesa di
conservare a una lingua la sua forma classica © originaria. PURPUREA, ILIACE,
AMABIMUS, EDENTULI 3. In senso metafisico: specie di pedanteria relativa alla
troppo rigorosa separazione di una facoltà umana dall'altra. In questo senso la
parola fu usata da G. C. Hamann nel titolo del suo scritto Metacritica del P.
della ragione (1788, postumo) nel quale rimproverava a Kant questa specie di
pedanteria nei rispetti della ragione. PURO (ingl. Pure; franc. Pur; ted.
Rein). x. Ciò che non è mescolato con cose d'altra natura; o, più esattamente,
ciò che è costituito in modo rigo- rosamente conforme alla propria definizione.
Questa seconda definizione spiega l’amplissimo uso che i filosofi fanno di
questo aggettivo; in quanto, definito un oggetto, si trovano spesso a dover
distinguere tra le condizioni in cui l'oggetto appare rigorosamente conforme
alla propria definizione e le condizioni in cui invece si allontana in qualche
misura da essa: nelle prime condizioni, l’oggetto è detto puro. Anassagora
chiamava P. l'intelletto perchè esso « solo fra tutti gli enti è semplice e non
mescolato » (ARIsT., De an., 405a 16). Platone parlava di un piacere « P.» cioè
non mescolato di dolore (Fi/., 51 a, 52 c). Cartesio della matematica «P.»
(Med., VI). Leibniz della « P.+ ragione (Op., ed. Erdmann, pag. 229-230, ecc.).
E così Wolff (Psychol. empirica, $ 495). « Atto P. » è stato detto il primo
motore di Aristotele in quanto è attività per- fetta, priva di potenza; ma
l’espressione non è ari- stotelica (cfr. Met., XIT, 6, 1071 b 22; 8, 1074 a
36). 2. Kant chiamò P. o « assolutamente P.» una conoscenza « nella quale in
generale non si trova mescolata alcuna esperienza o sensazione e che perciò è
possibile completamente a priori» (Crit. R. Pura, Intr., $ vu). In questo senso
la ragion P. «è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa
assolutamente a priori ». Una scienza della ragion P. è, non una dottrina, ma
una critica, in quanto non può dare un sistema compiuto della ragion P. e può
avere funzione solo negativa « ser- vendo a epurare, non ad allargare, la
nostra ragione e a liberarla dagli errori » (/bid.). In questo senso il 715
contrapposto di P. è empirico. L'aggettivo fu usato nello stesso senso da
Fichte che chiamò P. l’Io assoluto (o la sua attività) in quanto è diverso
dall’io empiricamente condizionato ed in quanto la sua attività prescinde completamente
dall’espe- rienza (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, ID. Quest’uso è rimasto
costante nell’idealismo di ispi- razione romantica. Gentile chiamò arto P. il
pen- siero pensante in quanto indipendente da ogni condizione o contenuto
empirico (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1920). 3. Nel
linguaggio comune si dice P. una scienza o una disciplina trattata
teoreticamente cioè senza riguardo alle sue applicazioni possibili; e P. è
divenuta così il contrario di applicato. Già Hamilton notava l’improprietà di
questo uso (Lectures on Logic, I, 1866, pag. 62). PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS,
EDENTULI. Termini mnemonici della logica tradizionale per esprimere
l’equivalenza delle quattro proposizioni modali rappresentate ognuna da una
sillaba nell’ordine seguente: possibile, contingente, impossibile, necessario.
La vocale che si trova in ciascuna sillaba cioè 4 o E 0 7 o U indica se il modo
dev'essere affermato o negato e se la proposizione dev'essere affermata o
negata. A significa l’afferma- zione del modo e l’affermazione della
proposizione; E l’affermazione del modo e la negazione della proposizione; / la
negazione del modo e l’afferma- zione della proposizione; U la negazione del
modo e la negazione della proposizione. In tal modo tutte le quattro
proposizioni indicate dalla medesima parola sono equipollenti, sicchè se l’una
è vera, le altre sono anche vere (ARNAULD, Log., II, 8). Per es., se p è una
proposizione qualsiasi, per la parola Purpurea si ha: Possibile —="U= Non
è possibile che non p. Contingente = U = Non è contingente che non p.
Impossibile = E = È impossibile che non p. Necessario = A = È necessario che p.
Analogamente per le altre parole. Q QUACCHERISMO (ingl. Quakerism; francese
Quakerisme). Il più radicale e liberale fra gli indirizzi religiosi della
Riforma. Il movimento fu iniziato nel 1649 in Inghilterra da George Fox e il
vero nome dei quaccheri fu «Società degli Amici» (Friends Society). Il nome
quaccheri fu coniato dal giudice Bennet perchè durante un lungo interro- gatorio
di George Fox questi gli ingiunse di « tre- mare alle parole del Signore». Tra
le maggiori personalità religiose che aderirono a questo movi- mento fu W.
Penn, che nel periodo delle persecu- zioni emigrò in America e fondò la colonia
di Penn- sylvania; e Robert Barkley che fu il teorico del movimento. Il Q. è
caratterizzato: 1° dalla risoluta avversione a ogni forma di culto esterno, di
rito, di predicazione, ecc.; 2° dal riconoscimento che l’unica guida dell’uomo
è la luce interiore che viene direttamente da Dio; 3° dal carattere attivo e
otti- mistico che tale fede interiore acquista nei quaccheri i quali ritengono
lo stesso peccato originale come una corruzione naturale superabile; 4° dalla
condanna di ogni violenza e quindi dall’avversione alla guerra. Nelle Lertere
sugli inglesi (1734) Voltaire esaltava la ragionevolezza e la validità della
religiosità propria dei quaccheri (Left., I-IV) (cfr. ELFRIDA Vipont, The Story
of Quakerism, 1652-1952, Lon- don, 1954). QUADRATO DEGLI OPPOSTI. Indicando,
secondo l’uso scolastico, con A, E, /, O rispettiva- mente la proposizione
universale affermativa (« ogni uomo corre +), l’universale negativa (« nessun
uomo corre +), la particolare affermativa (« qualche uomo corre +) e infine la
particolare negativa (s qualche uomo non corre +) e disponendole in Q. in
questo modo: A contrarie E 2uI9)|eqns subalterne I subcontrarie (0) se ne
ottengono le relazioni logiche fondamentali. A ed E sono contrarie: possono
essere entrambe false, ma non entrambe vere; A ed O, E ed / sono invece
contradittorie: non possono essere nè en- trambe vere nè entrambe false: / ed O
sono sub- contrarie: possono essere entrambe vere, ma non entrambe false; A ed
/, E ed O subalternate, nel senso che A si subalterna (implica) /, E si
subalterna (implica) O (ma non viceversa). L’origine di questo celebre
artificio didattico, certamente medievale, è oscura. Fu erroneamente attribuita
dal Prantl al platonico bizantino M. Psello, e perciò il Q. vien detto anche
«Q. di Psello »; ma se ne ha la documentazione più antica sinora conosciuta
nelle Introductiones în Logicam di Guglielmo di Shyres- wood (seconda metà del
sec. xim), sebbene in testi anteriori non mancassero esempi di paradigmi e
schemi del genere. G. P. QUALITÀ QUADRIFARMACO (gr. tetpapdppaxov). Con questo
termine (che propriamente significa una medicina composta di quattro elementi)
Filodemo (Herc. Vol., 1005, 4) indicò l’insieme delle quattro massime
fondamentali dell’etica epicurea e cioè: 1° non temere la divinità che non si
occupa del- l’uomo; 2° non temere la morte; 3° tener presente la facilità del
piacere; 4° tener presente la brevità del dolore (cfr. EPICURO, Ep. a Menec.,
123, 124, 133). QUADRIVIO. V. CULTURA, ARTE. QUAESTIO. Il metodo di trattazione
proprio della scolastica medievale a partire dal sec. xu. Il primo esempio del
metodo è il Sic et Non di Abelardo: una raccolta di opinioni (sententiae) di
Padri della Chiesa, disposte per problemi, in modo da far apparire le varie
sentenze come risposte positive o negative del problema proposto (donde il
titolo, che suona sì e no). Nella sua forma matura, la Q. è costituita dalle
parti seguenti: 1° l’enunciato (es.: « Utrum deum esse sit per se notum +); 2°
l'elen- cazioni delle ragioni che stanno in favore della tesi che sarà
rigettata dall’autore (Ad primum sic pro- ceditur. Videtur quod deum esse sit
per se notum); 3° l’elencazione delle ragioni che militano in favore della tesi
opposta (Sed contra; ...); 4° l'enunciazione della soluzione scelta dall’autore
(Conclusio); 5° l’il- lustrazione di tale soluzione; 6° la confutazione delle
tesi addotte per la soluzione respinta, nell’or- dine in cui sono state addotte
(Ad primum ergo dicendum... Ad secundum... +). L'ordine con cui le questioni
venivano trattate era fornito da qualche testo a cui l’intera raccolta serviva
da commentario: da qualche libro della Bibbia, da qualche opera di Boezio o di
Aristotele o, più frequentemente, dalle Sentenze di Pietro Lombardo.
Quaestiones quod- libetales o più semplicemente Quodlibeta erano le raccolte
delle questioni che gli aspiranti alla laurea in teologia dovevano discutere
due volte all’anno (prima di Natale e prima di Pasqua) su temi qual- siasi, de
quolibet. Le quaestiones disputatae erano invece il risultato delle
disputationes ordinariae che i professori di teologia tenevano durante i loro
corsi sui più importanti problemi filosofici e teologici (cfr., su questi
argomenti, MARTIN GRABMANN, Die Geschichte der scholastischen Methode, 1911,
nuova ed., 1956). QUALCHE (ingl. Some; franc. Quelque; te- desco Einige). Nella
Logica contemporanea, « Q. » 0 «alcuni » è un operatore di campo, di cui il
simbolo più usato è «(4x)»., per es., in formule come «(Ax).f(x)», che si legge
«esiste almeno un x tale che f(x) è vero». Esso corrisponde ad una somma o
disgiunzione logica operata nel campo di validità della (x), cioè alla
disgiunzione «f(a) o f(5) o f(c) 0 ...». Ove f(x) sia un predicato, questa
equivale 717 alla formula consueta «qualche x è f» o anche «alcuni x sono f»
della Logica tradizionale. Già negli Ana- litici di Aristotele, rìc (di solito
al dativo rwì nella formula rò A tì té B breépyei, «A inerisce a qual- che B +)
viene usato con questo preciso valore, come segno della proposizione
particolare affermativa. Nel latino medievale, subentrando come forma nor- male
di proposizione la formula «homo currit », il tlc greco, che già in Aristotele
veniva riferito sempre al soggetto logico della proposizione, viene tradotto
con l’aggettivo aliguis e grammaticalmente concordato col soggetto (così
aliguis homo currit, ma aliqui homines currunt, sebbene le due forme, in
Logica, siano perfettamente sinonimiche): donde il nostro 4Q.» e «alcuni».
Tuttavia è nella Logica medievale che ne viene chiaramente riconosciuta la
funzione di operatore, cioè di segno non significante che ha solo il compito di
modificare la denotazione del termine che funge da soggetto. G. P. QUALCOSA
(gr. x; lat. Aliquid; ingl. Something; franc. Quelque chose; ted. Etwas). Un
oggetto indeterminato. Dice Wolff «Q. è ciò a cui risponde una determinata nozione
» (On?., $ 59): il che vuol dire che è ciò cui corrisponde una nozione che non
includa contraddizione. Di quest’ultimo tratto si avvale Baumgarten per
definire il Q. (Met., $ 8). E Kant diceva: «La realtà è Q., la negazione è
niente » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei concetti
della riflessione). Ed Hegel: 4 L'essere determinato, riflesso in sè in questo
suo carattere, è quel che c’è, il Q. » (Enc., $ 90). Il con- cetto è ora di
pertinenza della logica (cfr. Quan- TIFICATORE). QUALIFICAZIONE. V. QuALITÀ.
QUALITÀ (gr. nom; lat. Qualitas; inglese Quality; franc. Qualité; ted.
Qualitàt). La deter- minazione qualsiasi di un oggetto. In quanto deter-
minazione qualsiasi la Q. si distingue dalla pro- prietà (v.) che (nel suo
significato specifico) indica la Q. che caratterizza o individualizza l’oggetto
stesso ed è perciò propria di esso. La nozione di Q. è estesissima e può
difficilmente essere ridotta ad un concetto unitario. Si può dire piuttosto che
essa comprende una famiglia di concetti che hanno in comune la funzione
puramente formale di poter essere adoperati come risposte alla domanda quale?
Di questa famiglia Aristotele distinse quattro mem- bri; e questa è ancora la
migliore esposizione che si possa dare del concetto di qualità. x. In primo
luogo s’intendono per Q. gli abiti e le disposizioni: che si distinguono tra
loro perchè l’abito è più stabile e duraturo della disposizione. Sono abiti la
temperanza, la scienza e in generale le virtù; sono disposizioni la salute, la
malattia, il caldo, il freddo, ecc. (Car., 8, 8 b 25; cfr. Met., V, 14, 1020a
8-12). Il ricorso ad abiti disposi- 718 zionali si fa talora anche nella
filosofia contempo- ranea (cfr., ad es., C. L. STEVENSON, Ethics and Language,
III, $ 4, 1950, 5* ed., pag. 46 sgg.): ma il precedente aristotelico viene
abitualmente ignorato. 2. Una seconda specie di Q. è quella che con- siste in
una capacità o incapacità naturale; e in questo senso si parla di pugili, di
corridori, di sani, di malati, ecc. (Car., 8, 9 a 14). Questa è la Q. che gli
Scolastici chiamarono Q. attiva (cfr., ad es., S. Tommaso, .S. 7h., III, q. 49,
a. 2). 3. Il terzo genere di Q. è costituito dalle affe- zioni e dalle loro
conseguenze: queste sono le Q. sensibili vere e proprie (colori, suoni, sapori,
ecc.) (Cat., 8, 9a 27; cfr. Met., V, 14, 1020a 8). Gli Scolastici chiamarono
queste specie di Q. qualità passive (cfr. S. ToMmMaso, loc. cit.). 4. La quarta
specie di Q. è costituita dalle forme o determinazioni geometriche, per es.,
dalla figura (quadrato, circolare, ecc.) o dalla forma (rettilinea, curvilinea)
(Car., 8, 10a 10). Poco o nulla è stato aggiunto, nel corso ulteriore della
storia della filosofia a queste notazioni e distinzioni aristoteliche a
proposito della qualità. Se si vuole eliminare da esse ciò che è dovuto alla
loro più stretta connessione con la metafisica aristo- telica, si può ottenere
un’ulteriore semplificazione e ridurre a tre i quattro gruppi precedenti
caratte- rizzandoli nel modo seguente: a) determinazioni disposizionali che compren-
dono disposizioni, abiti, abitudini, capacità, facoltà, virtù, tendenze, o come
altro si vogliano chiamare le determinazioni costituite da possibilità
dell'oggetto; b) determinazioni sensibili cioè le determina- zioni semplici o
complesse che sono fornite da strumenti organici: colori, suoni, sapori, ecc.;
c) determinazioni misurabili cioè le determina- zioni che si prestano ad essere
sottoposte a metodi oggettivi di misura: numero, estensione, figura, movimento,
ecc. Con questa modifica la partizione aristotelica cor- risponde esattamente a
quella di Locke: difatti le Q. A sono quelle che Locke incluse sotto la terza
specie di Q., cioè tra quelle « che tutti sono concordi a considerare soltanto
come mere capacità che i corpi hanno di produrre certi effetti, sebbene si
tratti di Q. altrettanto reali nell’oggetto quanto quelle che, per adattarmi al
modo comune di parlare ho chiamate Q., pur distinguendole dalle altre con il
nome di Q. secondarie » (Saggio, II, 8, 10). Dal- l’altro lato le Q. B e C corrispondono
a quelle che Locke chiamava rispettivamente qualità primarie e secondarie (v.
oltre). Così rettificata, la distinzione tra le varie specie di Q. copre
l’intero campo delle discussioni e dei problemi cui essa ha dato luogo nella
tradizione filosofica. QUALITÀ a) La nozione di determinazione disposizionale è
quella cui fa riferimento non soltanto la nozione di Q. occulta, ma anche
quelle di forza che la sop- piantò agli inizi della scienza moderna. Diceva
Newton: «Gli aristotelici dettero il nome di Q. occulta, non a qualità
manifeste ma a Q. che essi supposero al di là dei corpi, come cause sconosciute
di effetti manifesti: come sarebbero le cause della gravità o dell'attrazione
magnetica ed elettrica o delle fermentazioni, se supponessimo che si trattasse
di forze o azioni derivanti da Q. a noi sconosciute e incapaci di essere
scoperte e rese manifeste. Tali Q. occulte impediscono il progresso della
filosofia naturale, perciò sono state abbandonate in questi ultimi anni»
(Opricks, 1704, III, 1, 31). Nello stesso spirito, Wolff definiva come Q.
occulta quella « che è priva di ragion sufficiente» ed aggiungeva: « Una Q.
occulta è, per es., la gravità se viene concepita come una forza primitiva o
come una forza im- pressa alla materia da Dio, della quale non si possa dare a
priori nessuna ragione naturale. Tale è anche la forza motrice se si assume
come una forza primi- tiva impressa da Dio alla materia al momento della
creazione. Certamente Aristotele e i suoi seguaci, che ammisero le Q. occulte,
usarono questo termine in questo stesso significato » (Cosm., $ 189). La
notazione di Wolff è più chiara di quella di Newton: una forza è una Q. occulta
se di essa non si dà una ragione sufficiente naturale, non lo è se si dà una
tale ragione. Ma da questo appare anche che sia la nozione di Q. occulta sia
quella di forza sono riconducibili alla stessa nozione di Q., cioè alla Q. come
disposizione. Lo stesso significato di Q. è presente nel concetto di
qualificazione. « Qualificarsi per + o « essere quali- ficato per» significa
possedere la capacità o la competenza, cioè la qualità disposizionale, per
effet- tuare un dato compito o raggiungere un dato scopo. Talvolta tuttavia il
termine + qualificato » significa soltanto « limitato » o « caratterizzato da
date condi- zioni +, come avviene nel linguaggio giuridico. b, c) Le Q. nel
senso 2 e quelle nel senso C sono le Q. tradizionalmente distinte come primarie
e secondarie. I termini « primario » e « secondario » rimontano a Boyle; ma la
distinzione è assai antica e rimonta a Democrito (Fr. 5, Diels). Dopo molti
secoli essa fu ripresa da Galilei (cfr. Opere, ed. naz., VI, pag. 347 sgg.), da
Hobbes (De Corp., 25, 3), da Cartesio (Princ. Phil., I, S7; Med., VI) e da
Locke (Saggio, II, 8, 9), che la diffuse nella filosofia europea. La base della
distinzione è la possibilità di quantificazione che le Q. nel senso C hanno
rispetto a quelle nel senso 8: per questa possibilità esse si sottraggono alle
valutazioni indi- viduali e appaiono come indipendenti dal soggetto € pienamente
« oggettive + o « reali». In seguito la QUANTITÀ distinzione fu combattuta (per
es., da Berkeley) soprattutto allo scopo di mostrare che neppure le Q. primarie
sono oggettive ma che tutte sono ugualmente soggettive cioè consistono in
«idee» (Principles of Human Knowledge, I, $ 87). Secondo Husserl il significato
della distinzione sarebbe il seguente: «La cosa sperimentata fornisce il sem-
plice hoc, un vuoto x, che diventa portatore delle determinazioni matematiche e
delle formule ine- renti e che esiste non già nello spazio percettivo ma in uno
spazio oggettivo di cui il primo è solo un indizio, cioè in una varietà
euclidea tridimen- sionale di cui è possibile una rappresentazione solo
simbolica» (/deen, I, $ 40). In questo senso le Q. oggettive delineerebbero la
natura di un og- getto trascendente rispetto alla percezione sensibile e al
quale la percezione sensibile accennerebbe come a un di là. QUALITÀ DELLE
PROPOSIZIONI (la- tino Qualitas propositionum; ingl. Quality of Proposi- tions;
franc. Qualité des propositions; ted. Qualitàt des Urteils). Fu probabilmente
il neoplatonico Appuleo, contemporaneo di Galeno, ad adoperare per primo le
parole Q. e quantità per indicare rispettivamente la distinzione delle
proposizioni in affermative e negative e quella in universale e particolare (De
Int., pag. 266; cfr. PRANTL, Ge- schichte der Logik, I, pag. 581). Kant
aggiunse ai due tradizionali giudizi di Q. il giudizio infinito (v. INFINITO,
GIUDIZIO). QUANTA, FISICA DEI. V. COMPLEMENTA- RITÀ; CONDIZIONE; DETERMINISMO;
FIsicA; INDE- TERMINAZIONE. QUANTIFICATORE. V. OPERATORE. QUANTIFICAZIONE
(ingl. Quantification; franc. Quantification; ted. Quantifikation). In Logica
si designa con « Q. » l’operazione mediante la quale, usando appositi simboli
detti quantificatori, si determina l’ambito o estensione di un termine della
proposizione. Nella Logica di Aristotele, e in tutta la Logica classica
derivatane, si conosceva solo la Q. del soggetto della proposizione: in
Aristotele mediante gli operatori «tutto » e «in parte» (s[il predicato] B
appartiene a furto [il soggetto] A»; « B appartiene in parte ad A +); nella
Logica medie- vale o moderna mediante gli operatori «omnis? e «aliquis» («omnis
A est B»; «aliquis A est B3). La proposizione quantificata con «tutto » era detta
universale; quella quantificata con «in partes (s qualche ») era detta
particolare; quella non quanti- ficata era detta indefinita. Nel sec. xx
l’esigenza di assoggettare la tradizionale sillogistica ad una specie di
calcolo matematico indusse alcuni logici inglesi (Bentham, 1827; Hamilton,
1833) a quantifi- care anche il predicato, interpretando, per es., la
proposizione universale affermativa «tutti gli 719 A sono B» come «tutti gli A
sono alcuni B». In tal modo però la proposizione veniva unilateral- mente
interpretata come una relazione di inclusione o esclusione, parziale o totale,
tra classi. La Logica contemporanea ha ripreso ma integrato quella concezione.
In essa però i quantificatori, che ora sono il quantificatore universale [nella
notazione russelliana, «(x).» = «tutti»] e il quantificatore esistenziale [c.
s., «(Hx).» = «esiste almeno un x tale che... »]), di nuovo si riferiscono
soltanto agli argomenti o variabili di una funzione proposizionale,
trasformando queste in variabili apparenti e le funzioni in vere e proprie
proposizioni (universali o particolari): per es., «x è mortale» è una funzione;
« (x). ‘x è mortale ’ » (= « tutti gli x sono La 1) è una proposizione
universale. QUANTIFICAZIONE DEL PREDICATO (ingl. Quantification of Predicate).
W. Hamilton fece prevalere, in polemica con la logica tradizionale, il
principio della Q. del predicato, asserendo: 1° che il predicato è così
estensivo come il soggetto; 2° che il linguaggio ordinario quantifica ogni
volta che occorra il predicato o direttamente mediante l’uso dei quantificatori
(ad es., « Pietro Giovanni Giacomo, ecc., sono tuffi gli apostoli ») o
indiretta- mente attraverso la limitazione e l’eccezione, come quando si dice «
La virtù è la sola nobiltà » oppure « Sulla terra 3% vi è niente di grande se
non l’uomo » (Lectures on Logic, Il, pag. 257 sgg.). QUANTITÀ (gr. moody; lat.
Quantitas; inglese Quantity; franc. Quantité; ted. Quantitàt). In gene- rale,
la possibilità della misura. È questo il concetto che di essa ebbero Platone e
Aristotele. Platone affermò che la Q. sta tra l’illimitato e l’unità e che solo
essa è l’oggetto del sapere; per es., è esperto di suoni non chi ammette che i
suoni sono infiniti nè chi cerca di ridurli ad un unico suono, ma chi conosce
la Q., cioè il numero di essi (Fil., 17a, 18 b). Aristotele a sua volta definì
la Q. come ciò che è divisibile in parti determinate o determina- bili. Una Q.
numerabile è una pluralità, che è divisi- bile in parti discrete. Una Q.
misurabile è una gran- dezza che è divisibile in parti continue in una o due o
tre dimensioni. Una pluralità finita è un numero, una lunghezza finita una
linea, un’estensione finita un piano e una profondità finita un corpo (Met., V,
13, 1027a 7). Queste notazioni aristoteliche furono ripetute nella scolastica
ed entrarono anche a far parte delle nozioni comunemente accettate ai princìpi
dell’Età Moderna. Che la matematica potesse defi- nirsi, come l’aveva definita
Aristotele, « la scienza della Q. + non parve cosa dubbia finchè gli sviluppi
della matematica stessa non fecero apparire troppo ristretta ed impropria
questa definizione (v. MATE- MATicA). Tenendo appunto l’occhio alle matematiche
720 Wolff, nel sec. xvi, definiva la Q. come «ciò per cui le cose simili,
rimanendo salva la loro somiglianza, possono differire intrinsecamente »
(Cosm., $ 348): una definizione che si potrebbe agevolmente capo- volgere
dicendo che la Q. è ciò per cui le cose dissimili, rimanendo salva la loro
dissimiglianza, possono essere simili. Ma in questa forma che sa- rebbe più
rispondente ai concetti matematici mo- derni, si definirebbe non la Q. ma la
grandezza (v.). Nella matematica infatti il termine Q. è divenuto sinonimo di
quello di grandezza, che è specifico di un certo campo di indagine e che
dipende dalla scelta opportuna dell’unità di misura. Pertanto la Q. come
categoria o concetto generalissimo cade oggi fuori dell'ambito delle scienze e
tutt'al più si può dire che essa costituisca il tratto generalissimo in cui
coincidono gli oggetti disparati delle scienze positive: cioè la loro
possibilità di esser sottoposti a misura. La tendenza generale del pensiero
scientifico a ridurre la qualità a Q. fu interpretata in modo singolare da
Hegel, che parlò di una « linea nodale dei rapporti di misura». Il mutamento
graduale della Q. porterebbe a un certo punto (« punto » o «linea nodale +) a
un mutamento della qualità; e il mutamento graduale di questa nuova qualità
porterebbe ad un altro punto nodale, e così via. Hegel osservava che dal lato
qualitativo, il passaggio a una nuova qualità «è un salto: le due qualità sono
poste completamente estrinseche l’una al- l’altra ». E che perciò la gradualità
del mutamento quantitativo non lascia comprendere il divenire (Wissenschaft der
Logik, I, sez. 3*, cap. 2, B; tradu- zione ital., I, pag. 446-47). Con questo
egli negava che il passaggio dalla Q. alla qualità o viceversa servisse a
qualcosa. Questo tuttavia non impedì a F. Engels di considerare come legge
fondamentale della dialettica «la conversione della Q. in qualità » e di vedere
in Hegel lo scopritore di questa legge (Dialektik der Natur, trad. ital., pag.
57 sgg.) (v. Dia- LETTICA; NODALE, LINFA; SALTO). QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI.
Fu il neoplatonico Appuleo (v. QUALITÀ DELLE PRO- POSIZIONI) a chiamare per
primo Q. la divisione delle proposizioni in universali e particolari, indi-
viduali e indefinite (ARIST., De Int., 7; An. Pr., I, 1). Kant ridusse a tre le
classi dei giudizi secondo la Q. e precisamente alle proposizioni universali
particolari e individuali (Crit. R. Pura, 89). Hamilton parlò pure della Q. dei
concetti, distinguendo la Q. intensiva, che è l’intensione o comprensione dalla
Q. estensiva che è l’estensione o denotazione (Lectures on Logic, I, pag. 140
sgg.). QUANTOFRENIA (ingl. Quantophrenia; fran- cese Quantophrènie). Così P.
Sorokin ha chiamato la «mania della quantificazione a tutti i costi » nel campo
delle scienze psicologiche e sociali (Fads and QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI
Foibles in Modern Sociology and Related Sciences, 1956, cap. VII-VIII).
QUATERNIO TERMINORUM. Espres- sione usata a indicare il tipo più comune di
fallacia logica cioè la duplicità di significato di uno dei ter- mini impiegati
nel ragionamento: come nell’esempio tratto da Seneca « Mus (il topo) è una
sillaba; il topo rosicchia il formaggio; dunque la sillaba ro- sicchia il
formaggio » (Ep., 48) (v. EQUIVOCAZIONE). QUIDDITÀ (lat. Quidditas; ingl.
Quiddity; franc. Quiddité; ted. Quidditàt). Termine introdotto dalle traduzioni
latine (dall’arabo) delle opere di Aristotele del sec. x1 come corrispondente
della espressione aristotelica +6 71 fiv elvar (quod quid erat esse). Il
termine significa essenza necessaria (0 sostanziale) o sostanza (v. ESSENZA;
SOSTANZA). QUIETISMO (ingl. Quietism; franc. Quiétisme; ted. Quietismus). La
credenza che lo stato di grazia o di unione con Dio si può ottenere con
l’abban- dono totale della propria volontà alla volontà di Dio, al di fuori di
ogni rito o pratica religiosa. I Q. è proprio di molti indirizzi religiosi, ma
il termine fu coniato a proposito della forma che esso assunse nel seno del
cattolicesimo per opera di Michele Molinos (1627-1696) le cui tesi furono
condannate dal Papa Innocenzo XI nel 1687. QUIETIVO (ingl. Quietive; franc.
Quiétif; ted. Quietiv.. Così Schopenhauer chiamò, per analogia ed antitesi con
motivo, la conoscenza filosofica in quanto porta alla negazione della Volontà
di vivere cioè all’ascetismo: quella nega- zione infatti « subentra dopo che la
compiuta cono- scenza del proprio essere è diventata Q. d'ogni volere» (Die
Welt, I, $ 68). Un Q. in questo senso è anche l’arte come contemplazione disin-
teressata delle idee platoniche (/bid., I, $ 70). QUINQUE VOCES. Sono i cinque
concetti generalissimi, o cinque tipi di predicato universale (perciò dette
anche « predicabili +) della Logica classica: genere, specie, differenza,
proprio e acci- dente. La loro distinzione e relativa problematica ha il suo
nocciolo nei Topici di Aristotele: ma la trattazione formale ed esplicita di
esse come cate- gorie fondamentali di tutta la scienza della Logica si trova
nella Zsagoge di Porfirio. È soprattutto dalla versione e commenti boeziani di
quest'opera che esse passarono nella Logica medievale. G.P. QUINTA ESSENZA
(lat. Quinta essentia; ingl. Quintessence; franc. Quintessence; ted. Quin-
tessenz). 1. L’etere cioè la sostanza che secondo Aristotele, compone i cieli,
in quanto diversa dai quattro elementi che compongono i corpi sublunari (v.
ETERE). 2. L’estratto corporeo di una cosa ottenuto mediante l’analisi
alchimistica della cosa stessa con la separazione dell'elemento dominante dagli
QUOTIDIANITÀ altri elementi che sono mescolati in essa. Secondo Paracelso,
nella Q. essenza sono riposti gli arcani cioè le forze operanti di un minerale,
di una pietra preziosa, di una pianta; e di esse si serve perciò la medicina
per operare le guarigioni (De Mysteriis naturalibus, I, 4). In questo senso si
adopera anche oggi il termine per indicare il principio attivo di una cosa o la
sua parte più pura. QUODLIBETA. V. QuAESTIO. 46 — ABBAGNANO, Dizionario di
filosofia. 721 QUOTIDIANITÀ (ted. Alltaglichkeit). Ter- mine introdotto da
Heidegger per indicare «il modo d'essere in cui l’esserci (cioè l’uomo) si man-
tiene innanzi tutto e per lo più». Tale modo d’es- serci è il punto di partenza
dell’interpretazione ontologica: il che vuol dire che tale interpretazione fa
riferimento alle situazioni in cui l’uomo viene più frequentemente a trovarsi
nelle comuni faccende della vita (Sein und Zeit, $ 9) (cfr. MEDIETÀ). R
RADICALISMO (ingl. Radicalism; franc. Ra- dicalisme; ted. Radikalismus). 1. Il
positivismo sociale che si sviluppò in Inghilterra tra la fine del sec. xvi e
la prima metà del sec. xIx e che ebbe tra i suoi rappresentanti filosofici
Geremia Bentham (1748-1832), Giacomo Mill (1773-1836) e Giovanni Stuart Mill
(1806-1873). Questo indirizzo si avvalse del positivismo filosofico,
dell’utilitarismo morale e delle dottrine economiche di Malthus e Ricardo per
sostenere riforme « radicali » nell’ordinamento dello stato e nel sistema di
distribuzione delle ric- chezze (v. LIBERALISMO). 2. Più genericamente, il
termine viene oggi usato a designare qualsiasi tendenza filosofica o politica
che proponga un rinnovamento radicale dei sistemi vigenti cioè un mutamento nei
princìpi su cui poggiano i sistemi delle credenze o delle istituzioni
tradizionali. RADICE (gr. pi&wpa; ingl. Roof; franc. Racine; ted. Wurzel).
Termine col quale frequentemente si è indicato, nel linguaggio filosofico, un
principio primo o un elemento ultimo. Empedocle chiamò R. i quattro elementi
(acqua, aria, terra e fuoco) di cui le cose sono composte (Fr., 6, Diels); e
spesso d'allora in poi i filosofi si sono serviti dello stesso termine per
indicare elementi o princìpi. Scho- penhauer, per es., intitolò una delle sue
disserta- zioni La quadruplice R. del principio di ragion sufficiente (1813).
Di qui l’aggettivo radicale passato a indicare ciò che concerne un principio o
costituisce un principio. « Male radicale» chiamò Kant la tendenza dell’uomo al
male che è inerente alla sua stessa struttura morale (cfr. Religion, cap. I). E
radicale si chiama oggi un’analisi che rimonta ai princìpi, o alle prime
origini. Husserl, per es., insisteva sulla radicalità della filosofia in quanto
scienza dei veri princìpi e delle prime origini, «La scienza di ciò che è
radicale, dev'essere radi- cale anche nel suo metodo e sotto ogni riguardo »
(Phil. als strenge Wissenschaft, 1911; trad. ital., pag. 83). RAGIONAMENTO (gr.
2oyioués; lat. Ratioci- natio; ingl. Reasoning; franc. Raisonnement; tedesco
Vernunftschluss). Qualsiasi procedimento di infe- renza o di prova; perciò
qualsiasi argomento, conclu- sione, inferenza, induzione, deduzione, analogia,
ecc. Diceva Stuart Mill: « Inferire una proposizione da una o più proposizioni
precedenti; credere o pre- tendere che si creda ad essa come conclusione da
qualcosa d’altro, significa ragionare nel più esteso senso del termine» (Logic,
II, I, 1). Stuart Mill escludeva dall’ambito del R. soltanto «i casi nei quali
la progressione di una verità all’altra è solo apparente perchè il conseguente
è una mera ripeti- zione dell’antecedente » (/bid., II, 1, 3): e identificava
ragionamento e inferenza. Ma questa restrizione è venuta meno nell'uso corrente
del termine, che oggi comprende anche le inferenze tautologiche che si
ritengono proprie della matematica e della logica (cfr. P. F. StraWSON, /ntr.
to Logical Theory, 1952, pag. 12 sgg.). Pertanto la illustrazione dei
significati del termine si può trovare sotto le singole voci che costituiscono
l’estensione del termine in questione e specialmente sotto le seguenti: dedu-
zione, induzione, prova, dimostrazione, inferenza, sillogismo, argomento,
analogia. Tuttavia la classificazione fondamentale dei R. è quella che la
divide in R. deduttivi e R. indut- tivi. Questa distinzione, già stabilita da
Aristotele (An. Pr., II, 23, 68 b 13) viene solitamente conser- vata anche
oggi, talvolta con nomi appena mutati. Peirce, ad es., parlava di R.
esplicativi analitici o RAGIONEdeduttivi da un lato; e dall’altro di R.
amplificativi, sintetici o induttivi (Chance Love and Logic, I, 4, 3; trad.
ital., pag. 67): che sono appunto i nomi che più frequentemente ricorrono per
indicare le due specie fondamentali del ragionamento. RAGIONAMENTO APAGOGICO.
V. Apa- GOGICO. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA. V. ANALOGIA. RAGION DI STATO. Giovanni
Botero che introdusse l’espressione come titolo di un suo libro (Della R. di
Stato, 1589) intese per essa « la notizia dei mezzi atti a fondare, conservare
ed ampliare uno Stato » cioè « un dominio fermo sopra i po- poli ». Ma in
realtà l’espressione è passata a indi- care il principio del machiavellismo
volgare; e ciò ad opera dello stesso Botero che, pur polemizzando contro
Machiavelli, faceva suo il principio del fine che giustifica i mezzi in materia
politica (v. MAcHIA- VELLISMO). RAGIONE (gr. 26y06; lat. Ratio; ingl. Reason; franc. Raison; ted.
Vernunft). Il termine ha i seguenti significati
fondamentali: 1° Guida autonoma dell’uomo in tutti i campi nei quali
un’indagine o una ricerca è possibile. In questo senso si dice che la R. è una
« facoltà » propria dell’uomo e che distingue l’uomo dagli altri animali. 2°
Fondamento o R. d’essere. Poichè la R. d’essere di una cosa è la sua essenza
necessaria o sostanza, espressa nella definizione, si assume tal- volta per
«R.» la sostanza stessa o la sua definizione. Questo è un significato frequente
nella filosofia aristotelica o che si ispira a quella aristotelica. Per esso v.
i termini ESSENZA ; FONDAMENTO; FORMA; SOSTANZA. 3° Argomento o prova. In
questo senso si dice « Ha avanzato le sue R. + o « Bisogna sentire le R.
dell’avversario ». A questo significato si riferisce pure l’espressione « Aver
R.+: che significa avere argomenti o prove sufficienti, quindi esser nel vero.
Per questo significato v. ARGOMENTO; PROVA. 4° Rapporto in senso matematico. In
questo senso si parla anche oggi di «R. diretta» o «R. inversa » (in italiano e
in francese) mentre il termine latino ratio è adoperato in questo senso in
inglese. Per questo significato v. RELAZIONE. Nel significato di guida della
condotta umana nel mondo, la R. può essere intesa in due significati
subordinati e cioè: 4) come facoltà generale di guida; 8) come procedimento
specifico di cono- scenza. A) Questo è il senso fondamentale, dal quale la
parola desume quella potenza di significato che ha fatto di essa, da secoli,
l'emblema della ricerca libera. La R. è la forza che libera dai pregiudizi, 723
dal mito, dalle opinioni radicate ma false, dalle appa- renze e consente di
stabilire un criterio universale o comune per la condotta dell’uomo in tutti i
campi. Dall’altro lato, come guida propriamente umana, la R. è la forza che
consente all’uomo di liberarsi dagli appetiti che ha in comune con gli animali,
sottoponendoli a controllo e mantenendoli nella giusta misura. Questa è la
duplice funzione che è stata attribuita alla R. sin dai primordi della
filosofia occidentale. La polemica di Eraclito e Parmenide contro le opinioni
dei più, cioè contro le credenze stabilite, discordi tra loro e fallaci, è
condotta in nome di una R. che sia l’unico criterio di guida per tutti gli
uomini. Dice Eraclito: « Bisogna che si segua ciò che è universale, cioè comune
a tutti; e solo la R. è comune; ma i più vivono come se ciascuno avesse una sua
mente privata» (F7., 2, Diels). E Parmenide: « Allontana il tuo pensiero da questa
via di ricerca e non ti spinga su di essa l’abitudine di lasciarti guidare da
un occhio che non vede, da un orecchio che rimbomba e dalla parola: giudica
invece con la R.» (Fr., 1, 33-37, Diels). Platone e Aristotele dall’altro lato
oppongono la R. sia alla sensibilità in quanto fonte delle comuni credenze
(PLATONE, Fed., 83 a; ARISTOTELE, Mef., I, 1, 980b 26), sia agli appetiti che
l’uomo ha in co- mune con gli animali (PLATONE, Tim., 70 a; ARI- STOTELE, Er.
Nic., I, 13, 1102 b 15). Nell’un caso e nell’altro, la ragione ha nello stesso
tempo una fun- zione negativa e positiva: negativa nei confronti delle credenze
infondate e degli appetiti animali; positiva nel senso di dirigere le attività
umane in modo uni- forme e costante. Ma furono soprattutto gli Stoici che
fecero prevalere la dottrina che la R. è l’unica guida degli uomini. Essi
infatti stabilivano una specie di divisione simmetrica tra gli animali e gli
uomini: agli animali è stato dato come guida l’istinto che li porta a
conservarsi e a cercare ciò che è vantaggioso; agli uomini è stata data come
più perfetta guida la R., sicchè per essi vivere secondo natura significa
vivere secondo R. (Dio. L., VII, 1, 85-86). Questi concetti costituirono uno
dei cardini della cultura classica. Cicerone diceva: « La R., per la quale sola
ci differenziamo dai bruti, per mezzo della quale possiamo congetturare,
argomentare, ribattere, di- scutere, condurre a termine e concludere, è certa-
mente comune a tutti, differente per preparazione, ma eguale quanto a facoltà di
apprendere + (De Legibus, I, 10, 30). E Seneca esaltava la R. per la sua
immutabilità e universalità. «La R., diceva, è immutabile e ferma nel suo
giudizio perchè non è schiava ma signora dei sensi. La R. è uguale alla R. come
il giusto al giusto: dunque anche la virtù è uguale alla virtù perchè la virtù
non è altro che la retta R. » (Ep., 66). Da questo punto di vista anche la
metafisica stoica della R. per cui essa è, come 724 dice lo stesso Seneca
(/bid.), «una parte dello spirito divino infusa nel corpo dell’uomo? non toglie
l’autonomia di essa ma la esalta e conferma. A questi concetti s’ispirava senza
dubbio S. Ago- stino in quell’elogio della ragione che forma gli ultimi
capitoli del De Ordine: «La R., egli dice, è quel moto della mente che può distinguere
e colle- gare tutto ciò che si apprende » (De Ord., II, 11, 30). Essa è la
forza creatrice del mondo umano: ha inventato il linguaggio, la scrittura, il
calcolo, le arti, le scienze, ed è quanto di immortale c’è nell'uomo (/bid.,
II, 19, 50). L’entusiasmo di S. Agostino per la ragione si spiega facilmente:
per S. Agostino la vita è ricerca e la R. è il principio che istituisce e
dirige la ricerca e la rende feconda. Il neoplatonismo aveva tuttavia già
subordinato la R. all’intelletto, ritenuto superiore alla R. perchè dotato di
quel carattere intuitivo o immediato che fa di esso la diretta visione del
vero. Secondo Plo- tino la R. emana dall’intelletto « in quanto questo è
presente in tutte le cose che sono » (Enn., III, 2, 2). Essa è in altri termini
la funzione formatrice e plasmatrice dell’intelletto; e per disporre tutte le
cose del mondo (buone e cattive) nel loro ordine proprio, deve adattarsi alla
materia (/bid., III, 2, 11-12). In questo senso la R. è la tecnica della
creazione e del governo del mondo: giacchè fa sì che gli esseri creati non si
distruggano a vicenda ma si accordino e si combinino tra loro nel modo mi-
gliore. «La R., dice Plotino, fa sì che ciascun essere patisca o agisca, non a
caso o disordinatamente, ma secondo necessità » (/bid., II, 3, 16). Questo
concetto della superiorità dell’intelletto viene ereditato dalla scolastica
medievale. R. e intelletto vengono iden- tificate nel significato generale di
guida (cfr., ad es., S. ToMMAsO, S. Th., I, q. 29, a. 3, ad 49; q. 79, a. 8).
Ma la R. viene poi subordinata all’intelletto per il suo carattere discorsivo
che appare inferiore al carattere intuitivo di esso (v. oltre). Più tardi, lo
stesso Bacone considerava la R. come una parti- colare attività dell’intelletto
(assieme alla memoria e alla fantasia) e precisamente quella il cui compito
consiste nel dividere e comporre le nozioni astratte «secondo la legge della
natura e l'evidenza delle cose stesse » (De Aupm. Scient., II, 1). Sicchè solo
con Cartesio la R. ritorna ad essere la guida fonda- mentale dell’uomo.
Identificando la R. con il buon senso, Cartesio ripristina il concetto classico
della R. e su tale concetto imposta il problema nuovo del metodo. «La capacità
di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, che è propriamente ciò che
si chiama il buon senso o la R., è naturalmente uguale in tutti gli uomini;
perciò la disparità delle nostre opinioni non viene da ciò che le une sono più
ragionevoli delle altre ma solamente da ciò, che RAGIONE conduciamo i nostri
pensieri per diverse vie e non consideriamo le stesse cose. Non è sufficiente
aver lo spirito sano ma la cosa principale è applicarlo bene » (Discours, I).
Queste parole famose hanno reintrodotto nel mondo moderno il concetto antico (e
specialmente stoico) della R. come guida comune del genere umano. Sicchè
Spinoza poteva meravi- gliarsi che si volesse talvolta «sottomettere la R.,
massimo dono di Dio e luce veramente divina, alle parole + e che non si
stimasse un delitto « par- lare indegnamente della R. che è la vera testi-
monianza del Verbo di Dio e dichiararla corrotta, cieca ed impura» (Traci.
theologico-politicus, cap. 15). Leibniz a sua volta insisteva sulla vecchia
tesi che la R. appartiene all'uomo e all’uomo soltanto (Nouv. Ess., IV, 17, 2).
E Locke riconosceva alla R. una determinazione fondamentale che costituisce la
sola autentica innovazione che il concetto moderno di essa presenta nei
confronti del concetto classico: l’essere cioè essa strumento della conoscenza
pro- babile oltre che della certa. « Come la R., diceva Locke, percepisce la
connessione necessaria e indubitabile che tutte le idee o prove hanno l’una con
l’altra, in ciascun grado di una qualunque dimostrazione che produca
conoscenza, così analo- gamente essa percepisce la connessione probabile che
unisce tra loro le idee o prove in ciascun grado di una dimostrazione cui
giudichi sia dovuto l’assenso + (Saggio, IV, 17, 2). Con questa determi-
nazione, la R. era qualificata per la funzione che l’illuminismo settecentesco
le affidava di valere come principio di critica radicale della tradizione e di
un rinnovamento altrettanto radicale del mondo umano. Kant cercava di
realizzare piena- mente l’ideale illuministico della ragione. Da un lato
identificava la R. con la stessa libertà di critica (« Sulla libertà di critica
riposa l’esistenza della R. che non ha autorità dittatoriale ma la cui sentenza
è sempre nient’altro che l’accordo di liberi cittadini ciascuno dei quali deve
poter formulare i suoi dubbi e persino il suo veto senza impedimenti +); dall’altro
intendeva portare la R. stessa davanti al suo proprio tribunale e istituire
quella « critica della R. pura + che « non s’immischia nelle contro- versie che
si riferiscono immediatamente agli oggetti ma è istituita per determinare e
giudicare i diritti della R. in generale» (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del
metodo, cap. I, sez. II). È in accordo con il concetto illuministico della R.
la definizione di Whitehead: «la funzione della R. è il promuovere l’arte della
vita »: nel senso che la R. avrebbe il compito di agire sull'ambiente per
promuovere forme di vita più soddisfacenti e perfette (The Function of Reason,
1929, cap. I; trad. ital., Cafaro, pag. 6 sgg.). Mentre quella che a prima
vista sembra la massima garanzia offerta all’efficacia della R. RAGIONE cioè il
credere che essa abiti la realtà e la domini, sicchè non ci sia realtà che non
sia razionale nè razionalità che non sia reale, costituisce piuttosto
l'abbandono della funzione direttiva della ragione. Hegel, che ha affermato nel
modo più rigoroso questo punto di vista, ha anche negato la funzione direttiva
della R.: « Ciò che sta tra la R. come spirito autocosciente e la R. come
realtà presente, ciò che differenzia quella R. da questa e non lascia trovare
l’appagamento in questa, è l’impaccio di qualche astrazione che non si è
liberata e non si è fatta concetto. Riconoscere la R. nel presente, quindi
godere di esso, questo riconoscimento razio- nale è la riconciliazione con la
realtà, che la filosofia consente a quelli i quali hanno avvertito l’interna
esigenza di comprendere » (Fi/. del dir., Pref.; tradu- zione ital., Messineo,
pag. 17). Ciò significa che la R. non dirige ma giunge post factum a
comprendere la realtà, cioè a giustificarla. B) Il riconoscimento della R. come
guida costante, uniforme e (talvolta) infallibile di tutti gli uomini in tutti
i campi della loro attività è accompagnato il più delle volte dalla
determinazione di un procedimento specifico nel quale si riconosce l'operazione
propria della ragione. Si possono ridurre ai seguenti concetti fondamentali le
deter- minazioni che sono state date o si dànno della tec- nica specifica della
ragione: a) il discorso; 5) l’auto- coscienza; c) l’autorivelazione; d) la
tautologia. a) Il procedimento discorsivo è la tecnica che più frequentemente è
stata ritenuta propria della ragione. Al procedimento discorsivo fa appello
Platone per segnare la differenza tra l’opinione vera e la scienza: le opinioni
vere possono dirigere l'azione egualmente bene che la scienza, ma tendono a
sfuggire da ogni parte, come le statue di Dedalo, finchè «non siano legate con
un ragionamento causale » (Men., 98 a). Questa legatura o connessione è la
tecnica discorsiva. Tecnica discorsiva è l’intero procedimento sillogistico di
Aristotele, al di fuori della determinazione dei primi princìpi che sono
intuiti dall’intelletto; discorsiva è sia la sillogistica necessitante sia
quella dialettica (An. Posr., I, 33, 89 b 7; Er. Nic., VI, 11, 1143b 1). Nello
stesso senso gli Stoici definivano la R. come « un sistema di premesse e di
conclusioni» (Diog. L., VII, 1, 45). L’ufficio frequentemente attribuito alla
ragione di distinguere, collegare, paragonare, ecc. [cfr. i passi di Cicerone e
S. Agostino riportati in A)] non è che l’espressione dello stesso procedimento.
S. Tom- maso diceva: « Gli womini giungono a conoscere la verità intelligibile
procedendo da una cosa all'altra, perciò si chiamano ragionevoli. È evidente
che il ragionare sta all’intendere nello stesso rapporto in cui il muovere sta
allo star fermi o l’acquisire all’avere: delle quali cose, la prima è propria
di 725 ciò che è imperfetto, la seconda di ciò che è per- fetto » (S. 7A., I,
q.79, a. 8). Ai princìpi dell’Età Moderna Cartesio prendeva a modello lo stesso
procedimento per determinare le sue regole del metodo: «Quelle lunghe catene di
ragioni, tutte semplici e facili, di cui i geometri hanno l’abitudine di
servirsi per giungere alle loro più difficili dimo- strazioni m’avevano dato
occasione di immaginare che tutte le cose che possono venire a conoscenza degli
uomini si connettono nello stesso modo » (Discours, II. La Logica di Portoreale
esprimeva diversamente gli stessi concetti (ARNAULD, Lop., III, 1), che anche
Locke poneva a base della sua dottrina della ragione: « Nella R. possiamo
consi- derare questi quattro gradi: il primo e più alto consiste nel trovare e
scoprire la verità; il secondo nel disporle in modo regolare e metodico e
siste- marle in un ordine chiaro e adatto, in modo che siano percepite con
evidenza e facilità la loro forza e le loro connessioni reciproche; il rerzo
consiste nel percepire tali connessioni; il quarto nel trarre una giusta
conclusione » (Saggio, IV, 17, 3). La di- stinzione che Spinoza stabiliva tra
il secondo genere di conoscenza, che egli appunto chiamava R., e il terzo
genere che chiamava scienza intuitiva è la distinzione tradizionale tra il
procedimento discor- sivo e l’intelletto intuitivo (Er., II, 40, schol. 2). E
Leibniz non faceva che trovare l’espressione più semplice per lo stesso
concetto della R. asserendo che la R. è «il concatenamento delle verità + (Op.,
ed. Erdmann, pag. 479, 393). Wolff chiamava «giudizio discorsivo» l’operazione
della R. in quanto consiste nel collegamento delle proposizioni (Log., $
50-51). Il concetto della R. come discorso entra in crisi con Kant. Kant,
mentre riconosce il carattere discor- sivo a tutta l’attività conoscitiva
umana, ritenendo che solo Dio possiede la conoscenza intuitiva (v. Di-
scorsivo) distingue nettamente la R. dall’intelletto, nonostante il loro comune
carattere discorsivo. La R.è la facoltà «che produce da sè i concetti » e
perciò si può chiamare facoltà dei principi. Ma i concetti che la R. produce
non hanno alcuna base nell’espe- rienza perciò sono semplicemente fittizi. « Se
l’in- telletto può essere una facoltà dell’unità dei feno- meni mediante le
regole, la R. è la facoltà dell'unità delle regole dell’intelletto mediante i
princìpi. Essa perciò non si indirizza mai immediatamente all’espe- rienza o a
un oggetto qualsiasi ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze
molteplici di esso un’unità a priori per mezzo di concetti: unità che può dirsi
razionale ed è di tutt’altra specie di quella che può essere prodotta
dall’intelletto » (Crit. R. Pura, Dia- lettica trascendentale, Intr. II, a). La
R. procede, come l'intelletto, discorsivamente; ma considera i procedimenti
discorsivi dell’intelletto come compiuti 726 in idee di totalità e di unità
(l’anima, il mondo, Dio) che sono perfette ma inconfrontabili con l’espe-
rienza, quindi puramente fittizie e fonti solo di ragionamenti dialettici, cioè
sofistici (v. IDEA, ANTI- NOMIE). Il risultato di questa distinzione kantiana è
che il procedimento discorsivo valido è solamente quello dell'intelletto, i cui
concetti sono immedia- tamente derivati dall’esperienza; e che il proce-
dimento discorsivo razionale, con le sue pretese totalitarie, non dà luogo che
a nozioni fittizie. Dopo Kant pertanto diventa difficile mantenere la defi-
nizione della ragione come tecnica discorsiva. Il concetto della R. come
discorso consente la considerazione formale del procedimento razionale: cioè
rende possibile una /ogica, che è difatti la logica tradizionale così come è
stata elaborata dai filosofi a partire da Aristotele sino alla fine del sec.
xx. La logica intesa in questo senso è nello stesso tempo descrittiva e
normativa: descrittiva dei procedimenti propri della R., normativa nel senso
che questa stessa descrizione vale come regola per il retto uso della stessa
ragione. In questo senso la logica tra- dizionale era esattamente definita come
«arte di ragionare ». b) Il concetto della R. come autocoscienza rimonta a
Fichte. Esso è caratterizzato dall’identi- ficazione di R. e realtà e
presuppone il concetto della R. come discorso. Come discorso, la R. è
deduzione; e come deduzione ha un unico prin- cipio che è l'Io. Dall’Io deriva,
con necessità infal- libile, l’intero sistema del sapere che è nello stesso
tempo il sistema della realtà. « Fonte di ogni realtà è l'Io. Solo per e con
l’Io è dato il concetto della realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè
è. Perciò porsi ed essere sono una sola e medesima cosa » (Wissenschaftslehre,
1794, $ 4, C; trad. ital., pag. 92). Le equazioni su cui questa dot- trina si
fonda sono le seguenti: R. = sapere dedut- tivo; sapere deduttivo = realtà;
realtà + sapere = au- tocoscienza. Schelling non faceva che esprimere queste
equazioni asserendo: « La natura attinge il suo più alto fine, che è quello di
divenire interamente oggetto a se stessa, con l’ultima e più alta riflessione
che non è altro se non l’uomo o più generalmente ciò che noi chiamiamo ragione.
In tal modo per la prima volta si ha il completo ritorno della natura a se
stessa e appare evidente che la natura è origi- nariamente identica a ciò che
in noi si rivela come principio intelligente e cosciente (System des trans-
zendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 1; trad. ital., pag. 9). Ed Hegel
esprimeva lo stesso concetto nel modo seguente: «L’autocoscienza, ossia la cer-
tezza che le sue determinazioni sono tanto ogget- tive — determinazioni
dell’essenza delle cose — quanto suoi propri pensieri, è la R.; la quale, in
quanto è siffatta identità. è non solo la sostanza RAGIONE assoluta, ma la
verità come sapere» (Enc., $ 439). In altri termini per Hegel la R. è
l’identità dell’auto- coscienza come pensiero con quelle sue manifesta- zioni o
determinazioni che sono le cose o gli eventi; è l’identità di pensiero e
realtà. In forma epigrafica questo concetto veniva espresso da Hegel nel modo
seguente; «la R. è la certezza della coscienza di essere ogni realtà: così
l’idealismo esprime il con- cetto della R.» (Phdnomen. des Geistes, I, V, l;
trad. ital., pag. 209). Ovviamente, da questo punto di vista, la R. non è
discorsiva nel senso di conca- tenare tra loro espressioni linguistiche ed
effettuare la derivazione di una di esse dall’altra mediante regole determinate
o determinabili; ma è piuttosto la derivazione (pretesa) di tutte le
determinazioni del pensiero e della realtà l’una dall’altra in un unico
processo di cui si asserisce la perfetta « neces- sità ». Questo punto di vista
rende impossibile la considerazione formale delle procedure razionali che è
invece collegata con la concezione a della ragione. Come autocoscienza, la R.
non è mai formale: è sempre identica con la realtà: « L’intel- letto, dice
Hegel, determina e tien ferme le deter- minazioni. La R. è negativa e
dialettica perchè risolve in nulla le determinazioni dell’intelletto. Essa è
positiva perchè genera l’universale e in esso comprende il particolare»
(Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1* ediz.; trad. ital, pag. 5). « Com-
prende il particolare » significa che comprende le cose o determinazioni reali
che non sono altro, in ultima analisi, che le sue manifestazioni parti- colari.
La negazione della logica formale fa parte integrante di questo punto di vista,
perciò ritorna ogni volta che questo si presenta. Basti qui ricordare soltanto
il rifiuto di Croce della logica formale, fondata sullo stesso presupposto
hegeliano dell’iden- tità di R. e realtà, espresso nella forma dell’identità di
filosofia e storia: « La ricchezza della realtà, dei fatti, dell’esperienza che
parrebbe sottratta al con- cetto puro e quindi alla filosofia a cagione del
dichiarato distacco delle scienze empiriche, le viene invece ridata e
riconosciuta; e non più nella forma diminuita e impropria che è dell’empirismo
sibbene in modo totale o integrale. Il che si effettua mercè il congiungimento,
che è unità, di filosofia e storia » (Logica, 1920, pag. 392). c) Il concetto
della R. come autorivelazione o evidenza è stato stabilito da Husserl. Per
Husserl la R. è lo stesso manifestarsi fenomenologico degli oggetti (che
possono essere cose Oo essenze), sia che tale manifestarsi sia dotato del
carattere neces- sario o apodittico sia esso solo assertorio. Dice Husserl: « La
visione per così dire assertoria di una individualità, ad es., il percepire una
cosa o uno stato di fatto individuale si distingue nel suo carat- tere
razionale dalla visione apodittica della compren- sione di un'essenza o di un
rapporto di essenze» (Ideen, 1, $ 137). Il termine più comprensivo cioè il
concetto che comprende sia la visione assertoria, che è data di fatto ma può
essere diversa, sia la visione apodittica che è necessaria, è la coscienza
razionale che Husserl chiama pure, in generale, evidenza (Ibid., $ 137). Da
questo punto di vista il carattere fondamentale della razionalità è la validità
dell’atto di posizione: se l'oggetto è veramente posto, l’atto è valido e la
posizione ha carattere razionale (/bid., $ 139). Ma ciò che dal punto di vista
dell’atto noetico è la posizione dell’oggetto, dal punto di vista oggettivo è
il manifestarsi evidente dell’og- getto stesso, il suo darsi o il suo rivelarsi
(Ibid., $ 139). E poichè in ogni sfera dell’essere il modo di autorivelarsi
degli oggetti è diverso, ogni tipo di realtà porta con sè «una nuova concreta
dottrina della R.» (/bid., $ 152). Questo concetto della R. come
autorivelazione o autoevidenza è senz’altro accettato da Heidegger: « Proprio
perchè la fun- zione del /ogos è un puro lasciar vedere qualcosa, un lasciar
intuire l’ente, /ogos può significare R.» (Sein und Zeit, $ 7, B). In forma più
mitica lo stesso concetto è presentato da Jaspers: «La R. non è affatto una
vera e propria sorgente originaria ma, poichè è la connessione di tutto, è simile
a una sor- gente originaria nella quale vengono alla luce tutte le sorgenti»
(Vernunft und Existenz, 1935, II, 5; trad. ital, pag. 50). La direzione verso
cui la R. muove è un'infinita chiarezza; e ciò che in essa cerca di chiarirsi è
l’esistenza: « l’esistenza raggiunge la chiarezza solo attraverso la R.: la R.
ha un contenuto solo in virtù dell’esistenza » (/bid., II, 6; pag. 53). È ovvio
che anche da questo punto di vista una considerazione formale del procedimento
razio- nale è impossibile. La R. non è mai formale perchè è sempre riempita dal
contenuto che in essa si mani- festa evidente o si chiarisce. d) Il concetto
della R. come tautologia trova la sua origine in Hume che per primo distinse
netta- mente le « relazioni di idee » dalle « cose di fatto ». «Alla prima
classe appartengono le scienze quali la geometria, l’algebra e l’aritmetica e
in breve ogni proposizione certa intuitivamente [nel senso lockiano] o
dimostrativamente... Le proposizioni di questa classe si possono scoprire con
una pura operazione del pensiero e non dipendono da cose che esistono in
qualche luogo dell’universo » (/ng. Conc. Underst., IV, 1). Hume veramente non
af- fermò esplicitamente il carattere tautologico o (come si dice con termine
kantiano) analitico delle pro- posizioni che esprimono semplici rapporti delle
idee fra loro; ma in qualche modo lo presuppose insistendo sul fatto che le
proposizioni che esprimono cose di fatto non sono logicamente derivabili l’una
dall’altra. Tuttavia a formare la concezione in 721 esame della R. è
intervenuta anche un’altra compo- nente concettuale che era stata per la prima
volta esposta da Hobbes; la riduzione della R. a calcolo delle proposizioni
verbali. «La R., aveva detto Hobbes, non è altro che il calcolo — cioè l’addi-
zione e la sottrazione — delle conseguenze dei nomi generali usati per
contrassegnare e significare i nostri pensieri: per contrassegnarli quando
calco- liamo per noi stessi, per significarli quando dimo- striamo o approviamo
i nostri calcoli per gli altri uomini » (Leviathan, I, 5). Quest’idea di Hobbes
trovò la sua realizzazione soltanto a partire dalla metà del sec. xx con la
fondazione della logica matematica da parte di G. Boole (Laws of Thought, 1854)
che per la prima volta mostrò l’impossibilità di ridurre il ragionamento
matematico alle forme di ragionamento descritte da Aristotele e cominciò a
costruire una logica in stretta connessione con i procedimenti del calcolo. I
successi che questa logica registrò in seguito, ad opera soprattutto di Frege e
Russell (v. Logica), costituiscono un ante- cedente storico indispensabile del
concetto in esame della ragione. Che tale procedimento avesse carat- tere
tautologico apparve chiaro soltanto più tardi, cioè nell’ambito del Circolo di
Vienna, con l’opera di Wittgenstein (1922). Il fondamento di quest’opera è la
riduzione della R. al linguaggio. Wittgenstein asseriva che « le proposizioni
della logica sono tau- tologie» (Tractatus logico-philosophicus, 6.1); che « le
proposizioni della logica non dicono nulla (sono le proposizioni analitiche) »
(/bi4., 6.11) e che «le teorie che fanno apparire fornita di contenuto una
proposizione della logica sono sempre false » (/bid., 6.111). E aggiungeva: «La
caratteristica speciale delle proposizioni logiche è che dal solo simbolo si
può riconoscere che sono vere e questo fatto rac- chiude in sè tutta la
filosofia della logica. Parimenti uno dei fatti più importanti è che la verità
o falsità delle proposizioni non logiche non si può ricono- scere soltanto
dalla proposizione » (Tract., 6.113). In tal modo il procedimento razionale
ritenuto proprio di quelle discipline che Hume diceva avere per oggetto
soltanto relazioni di idee (cioè della logica e della matematica) è stato
ridotto alla tautologia. Wittgenstein dice che le proposizioni della logica,
come quelle della matematica (/bid., 6.21) non dicono nulla. Ciò non vuol dire
tuttavia che esse sono inutili perchè rivelano l’identità di significato che
c’è sotto forme proposizionali diverse e possono pertanto essere usate per la
trasformazione di una proposizione in un’altra che abbia lo stesso significato
ma una forma diversa. Tuttavia, nessuna delle proposizioni della logica e della
matematica fornisce alcuna informazione intorno al mondo. La riduzione della R.
a procedimento tautologico ha quindi i seguenti risultati: 1° sono razionali,
nel senso proprio del termine, solo i procedimenti formali della logica e della
matematica (come parte o tutto della logica); perciò razionalità e logicità
coincidono; 2° razionalità e logicità non hanno nulla a che fare con la realtà.
Pertanto questo con- cetto della R. costituisce l'inversione simmetrica del
concetto 5) che ha invece identificato razionalità e realtà ed ha opposto
entrambe le concezioni alla pura formalità logica, dichiarata priva di valore
(cfr., sulla concezione in esame, R. von MISES, Kleines Lehrbuch des
Positivismus, 1939, $ 10; trad. ital., pag. 164 sgg.; J. R. WeINBERG, An Exa-
mination of Logical Positivism, 1950, cap. II; tradu- zione ital, pag. 86
sgg.). Le quattro alternative tipiche che la teoria della R. ha finora seguite
sono chiaramente insufficienti di fronte al compito che alla R. si assegna come
guida autonoma dell’uomo in tutti i campi. La prima di esse si è storicamente
esaurita e l’abbandono della logica in cui essa si esprimeva non è che un segno
di quest’esaurimento. La 5) e c) rendono impossibile la determinazione di
procedimenti rigorosi; e la 5) mette in pericolo la stessa funzione direttiva
della ragione. La d) rende possibile lo sviluppo di una disciplina autonoma che
è la moderna logica mate- matica ma è troppo ristretta per esprimere i compiti
della R. in tutti i campi. È possibile bensì, in tutti i campi, servirsi delle
tecniche logico-matematiche costruite sul fondamento della nozione di R. come
tautologia; ma non tutti i procedimenti che possono definirsi razionali possono
ridursi a tali tecniche. Un procedimento razionale è in generale quello che
consente all’uomo di dominare una situazione, di affrontare i mutamenti di essa
e di correggere gli errori eventuali del procedimento stesso. Pertanto la
razionalità di un procedimento si può determinare soltanto nei confronti della
situazione specifica che esso consente di affrontare. E la considerazione della
R. rinvia subito (come voleva Husserl) alla considerazione delle sfere o dei
campi specifici, rispetto ai quali soltanto si può decidere la razio- nalità di
un procedimento. Da questo punto di vista, la teoria della R. può essere oggi
fornita, non da una metafisica della R., ma dalle ricerche metodologiche e critiche
che, dall'esame dei proce- dimenti autonomi, di cui l’uomo dispone nei singoli
campi di ricerca, risalgano alle condizioni generali della loro progettabilità.
RAGIONE SUFFICIENTE.V. FONDAMENTO. RAGIONEVOLE (lat. Rationabilis o Rationalis;
ingl. Reasonable; franc. Raisonnable; ted. Verniinftig). 1. Chi ha la
possibilità d’uso della ragione; e in questo senso si dice che l’uomo è un
animale ragionevole. S. Agostino afferma che i dotti «chiamarono R.
(rationabilis) chi usa o può far uso della ragione, razionale (rationalis) ciò
che è fatto o detto dalla ragione +; e pertanto ritiene che bisogna chiamare
razionale, per es., i discorsi o i bagni e R. colui che li fa (De Ordine, XI,
31). Ma questa distinzione non regge molto perchè gli antichi chiamarono razionale
anche l’uomo (cfr., ad es., QuinTILIANO, /nsf., V, 10, 56). E d’altronde chia-
miamo oggi R. anche ciò che è conforme a ragione. 2. Ciò che è conforme alla
ragione o alle regole che essa prescrive in un determinato campo d'indagine o
in generale. In questo senso Locke parlava della «ragionevolezza del
cristianesimo ». E si parla di una « R. certezza » per designare quella
certezza che si può desumere dalle regole del campo cui si fa riferimento, ma
non è assoluta. Dewey dice: «La ragionevolezza è questione di relazione tra
mezzi e risultati... È R. ricercare e scegliere i mezzi che con ogni
probabilità produrranno gli effetti ai quali si tende » (Logic, I; trad. ital.,
pag. 41-42). In entrambi i significati il termine R. (come quello correlativo
di ragionevolezza) implica una connotazione limitativa, la quale in primo luogo
esclude l’infallibilità della ragione; ed in secondo luogo include la
considerazione dei limiti e delle circostanze in cui la ragione stessa si trova
ad agire. Pertanto « esser R. » significa, nella lingua corrente, rendersi
conto delle circostanze e delle limitazioni che esse comportano con la rinuncia
ad un atteggia- mento, teoretico o pratico, di assolutismo. RAGIONI SEMINALI
(gr. 26yor oreppa- tixol; lat. Rariones seminales). Quelle parti della R.
divina da cui le cose si originano. Secondo gli Stoici, come ogni vivente è
prodotto da un seme, così ogni cosa è prodotta da una particella della R.
divina, che perciò è un seme razionale. La nozione sottolinea la
predeterminazione di ciò che si genera (Azzio, Plac., I, 7, 33; cfr. STOBEO,
Ecl., I, 17, 3). La nozione fu fatta propria dai neoplatonici (con- fronta
PLOTINO, Enn., II, 3, 16) e da S. Agostino (De diversis quaestionibus 83, q.
46). RAGION PIGRA (gr. &pydc Asyoc; lat. Jenava ratio; ted. Faule
Vernunft). Il ragionamento o l’ar- gomento che persuade all’inerzia. Platone
già chia- mava pigro l’argomento sofistico che è inutile cercare perchè non si
può cercare nè quello che si sa (dal momento che si sa) nè quello che non si
sa, dal momento che non si sa che cosa cercare (Men., 86 b). Ma sotto il nome
di R. pigra ci è stato specialmente tramandato un argomento di pro- babile
origine megarica, esposto dallo stoico Cri- sippo (PLUTARCO, Moralia, II, pag.
574 e; cfr. Stoi- corum Fragmenta, II, pag. 277) che Cicerone ha così
riportato: « Se per te è destino di guarire da questa malattia, guarirai sia se
ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se per te è destino
non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia
se non ricorrerai. Ora il tuo destino è l’una o l’altra di queste cose, dunque
non serve a niente ricorrere al medico » (De Fato, 12, 28). Leibniz fece talora
riferimento a questo vecchio argomento megarico o stoico (Théod., I, 55). Più
genericamente, Kant chiama R. pigra «ogni principio il quale porti a
considerare come assolutamente compiuta la pro- pria ricerca sicchè la R. si
metta tranquilla come se abbia pienamente terminato il suo compito » (Crit. R.
Pura, Dialettica; Appendice alla Dialet- tica trascendentale: Dello scopo
finale, ecc.). In questo senso più generale, l’espressione è adoperata
frequentemente anche oggi. RAGION PURA. V. Puro. RAMIFICATA TEORIA DEI TIPI.
Vedi ANTINOMIA. RANGO (ingl. Range; franc. Rang; ted. Rane). Termine talvolta
adoperato dai logici per indi- care l'insieme delle entità i cui nomi possono
essere sostituiti alla variabile di una formula. Il R. di una proposizione è
l'insieme degli stati di cose nei cui rispetti la proposizione è vera. // R.
del significato di un predicato P è l’insieme dei valori di x per i quali «Px»
è vero o falso (cfr., specialmente per quest’uso, A. Pap, Semantics and
Necessary Truth, 1958, passim). RAPPORTO. V. RELAZIONE. RAPPORTO DI COSE. V.
STATO DI cose. RAPPRESENTATIVO (ingl. Representative; franc. Représentatif;
ted. Vorstellend). 1. Il senso di questo aggettivo è più ristretto di quello
del corrispondente sostantivo giacchè contiene costan- temente il riferimento
al carattere di « similitudine » o di «quadro», che rimane escluso da alcuni
si- gnificati del sostantivo. Così «idea R.» è l’idea che si concepisce come
immagine o riproduzione del suo oggetto. E si dice che la conoscenza ha natura
R., se si ritiene che essa costituisca l’immagine o la copia dell'oggetto. 2.
Emerson chiamò uomini R. quelli che Hegel chiamava « individui della storia
universale » o altri romantici chiamavano « eroi »: cioè quelli che sono i
simboli e nel contempo gli strumenti di realizza- zione delle aspirazioni di
tutti gli uomini (Repre- sentative Men, 1850). 3. Nel senso politico: sistema
R., è il sistema che si fonda sul principio della delega, da parte dei
cittadini a un gruppo ristretto di essi, di certi specifici poteri politici.
RAPPRESENTAZIONE (lat. Repraesen- tatio; ingl. Representation; franc.
Représentation; ted. Vorstellung). Termine di origine medievale per indicare
l’immagine (v.) o l’idea ([v.] nel senso 2), o entrambe le cose. L’uso del
termine fu suggerito agli Scolastici dal concetto di conoscenza come di una
«similitudine» dell’oggetto. « Rappresentare qualcosa, diceva S. Tommaso,
significa contenere la similitudine della cosa» (De Verit., q. 7, a. 5). Ma fu
soprattutto l’ultima scolastica che mise in voga il termine, talvolta per
indicare il significato delle parole (cfr., ad es., GRAZIADIO DI ASCOLI,
Perihermenias, 2). Ochkam distingueva tre signi- ficati fondamentali. «
Rappresentare, diceva, ha parecchi sensi. In primo luogo, si intende con questo
termine ciò con cui si conosce qualcosa e in questo senso la conoscenza è
rappresentativa e rappresentare significa esser ciò con cui si conosce
qualcosa. In secondo luogo si intende per rappre- sentare il conoscer qualcosa,
conosciuta la quale si conosce un’altra cosa; e in questo senso l’imma- gine
rappresenta ciò di cui è l’immagine, nell’atto del ricordo. In terzo modo
s’intende per rappre- sentare il causare la conoscenza al modo in cui l’oggetto
causa la conoscenza » (Quodl., IV, q. 3). Nel primo senso la R. è l’idea nel
senso più gene- rale; nel secondo senso, è l’immagine; nel terzo, è l’oggetto
stesso. Questi sono in realtà tutti i possi- bili significati del termine: il
quale fu reso di nuovo significativo dalla nozione cartesiana dell’idea come
«quadro » o «immagine» della cosa (Méd., III); e fu diffuso soprattutto da
Leibniz che considerava ogni monade come una R. dell’universo (Mon., $ 60).
Proprio per suggestione di questa dottrina Wolff introduceva il termine
Vorstellung, per in- dicare la cartesiana idea, nell’uso filosofico della
lingua tedesca (Verninftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des
Menschen, 1719, I, $ 220, 232, ecc... A Wolff si deve la diffusione dell’uso
del termine nelle altre lingue europee. Kant fissava il significato
generalissimo di esso, da lui considerato come il genere di tutti gli atti o manifestazioni
conoscitive indipendentemente dalla sua natura di quadro o di similitudine
(Crit. R. Pura, Dialettica, libro I, sez. I). In tale significato gene-
ralissimo il termine è stato poi costantemente ado- perato nel linguaggio
filosofico. Hamilton difendeva l’uso della parola anche in inglese (Lectures on
Logic, 2* ed., 1866, I, pag. 126). Ma in questo senso i problemi inerenti alla
R. sono quelli inerenti o alla conoscenza in generale (v. ConosceENZA) o alla
realtà che costituisce il termine oggettivo della conoscenza (v. REALTÀ) 0, in
un’altra direzione, quelli relativi al rapporto tra le parole e gli oggetti
significati (per i quali V. SEGNO; SIGNIFICATO). RASOIO DI OCCAM. V. Economia.
RAZIOCINIO. V. RAGIONAMENTO. RAZIONALE (gr. 2oyixéc; lat. Rationalis, Ra-
tionabilis; ingl. Rational; franc. Rationnel; tedesco Verniinftig). 1. Ciò che
costituisce la ragione o concerne la ragione, in uno qualsiasi dei signifi-
cati di questo rermine (v.). 2. Lo stesso che ragionevole: ad es., « animale R.
», «comportamento R. ». 3. Che ha per oggetto la ragione cioè la sua forma o i
suoi procedimenti. In questo senso Se- neca (Ep., 89, 17) e Quintiliano (/rsr.,
XII, 2, 10) chiamarono « filosofia R.+ la logica, come fecero poi anche Wolff
(Philosophia rationalis sive logica, 1728) e altri. RAZIONALISMO (ingl.
Rationalism; francese Rationalisme; ted. Rationalismus). In generale, l’at-
teggiamento di chi si affida ai procedimenti della ragione per la
determinazione di credenze o di tecniche in un dato campo. Il termine fu usato
fin dal sec. xvII per designare tale atteggiamento nel campo religioso: « C'è
una nuova sètta diffusa fra di essi [Presbiteriani e Indipendenti] ed è quella
dei razionalisti: ciò che la loro ragione gli detta, essi lo tengono per buono
nello Stato e nella Chiesa, finchè non trovano di meglio » (CLARENDON, State
Papers, II, pag. xL, alla data del 14-x-1646). In questo senso Baumgarten
diceva: «Il R. è l’errore di chi elimina nella religione tutte le cose che sono
al di sopra della propria ragione» (Ethica philo- sophica, 1765, $ 52). Kant fu
il primo ad assumere il termine come insegna della propria dottrina ed a
estenderlo dal campo religioso agli altri campi d’indagine. Egli chiamò R. la
propria filosofia trascendentale (nello scritto del 1804 sui « Progressi della
metafisica », Werke, V, 3, pag. 101): mentre chiamava noolo- gisti o dogmatici
i filosofi che la storiografia tedesca dell’800 ha chiamato poi razionalisti
cioè da un lato Platone e dall’altro i wolfiani (Crit. R. Pura, Dottr. del
Metodo, cap. IV). Nel campo morale difendeva « il R. del giudizio, il quale
dalla natura sensibile non prende nient’altro che ciò che anche la Ragion pura
per sè può pensare, cioè la confor- mità alla legge » e che perciò si oppone
sia al mi- sticismo sia all’empirismo della Ragion pratica (Crit. R. Pratica,
I, cap. II, Della tipica del giudizio puro pratico). Nel campo estetico
analogamente parlava di un « R. del principio del gusto » (Critica del Giud., $
58). E infine caratterizzava come R. il suo punto di vista in materia
religiosa. « Il razio- nalista, egli diceva, in virtù del suo stesso titolo, si
deve mantenere dentro i limiti della capacità umana. Quindi non prenderà mai il
tono deciso del naturalista e non contesterà nè la possibilità nè la necessità
di una rivelazione... giacchè su questi punti nessun uomo può, mediante la sua
ragione, decidere cosa alcuna» (Religione, IV, sez. I; tra- duzione italiana
Durante, pag. 169). Dall’altro lato, Hegel fu il primo a caratteriz- zare come
R. l’indirizzo che va da Cartesio a Spinoza e Leibniz, contrapponendolo
all’empirismo dell’indirizzo che fa capo a Locke. Per R. egli intese la «
metafisica dell’intelletto » cioè «la ten- denza alla sostanza, per cui si
afferma, contro il dualismo, un'unica unità, un solo pensiero, al modo stesso
in cui gli antichi affermavano l’essere » (Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, III, pa- gina 329 sgg.; trad. ital., III, 2, pag. 68 sgg.). La
contrapposizione tra razionalismo ed empirismo è rimasta poi fissata negli
schemi tradizionali della storia della filosofia, per quanto lo stesso Hegel ne
avvertisse il carattere approssimativo. In quanto al R. religioso, Hegel
affermava che esso è « l’op- posto della filosofia» perchè pone «il vuoto al
posto del cielo» e perchè «la sua forma è un ra- gionare senza libertà non già
un intendere concet- tualmente » (/bid., I, pag. 113; trad. ital., I, pag. 95).
In base a queste notazioni storiche si può dire che il termine in questione può
essere inteso nei se- guenti significati: 1° come R. religioso, designa alcuni
indirizzi protestanti o un punto di vista sulla religione si- mile a quello di
Kant; 2° come R. filosofico, il termine designa pro- priamente la dottrina di
Kant (che lo fece suo); oppure l’indirizzo metafisico della filosofia moderna
da Cartesio a Kant; 3° nel suo significato generico, può essere adoperato a
designare qualsiasi indirizzo filosofico che faccia appello alla ragione. Ma in
questa ac- cezione così vasta il termine può indicare le filosofie più
disparate e manca di ogni capacità indivi- duante. RAZIONALIZZAZIONE (ingl.
Rationaliza- tion; franc. Rationalisation; ted. Rationalisierung). 1. Così è
stato talora chiamato il processo per il quale le scienze della natura
tendevano a costituirsi come discipline teoretiche adottando i procedimenti
della matematica: processo che si supponeva rea- lizzato perfettamente nella
meccanica razionale (cfr. HussERL, /deen, I, $ 9). L’ideale della R. è stato
ora sostituito da quello della assiomatizzazione (v. ASSIOMATICA). 2. Termine
di cui si avvalgono spesso psicologi e sociologi per indicare la tendenza a
cercare ar- gomenti e giustificazioni per credenze che ricavano la loro forza
non già da essi, ma da emozioni, interessi, istinti, pregiudizi, abitudini,
ecc. RAZZISMO (ingl. Racialism; franc. Racisme; ted. Rassismus). La dottrina
che tutte le manife- stazioni storico-sociali dell’uomo e i suoi valori (o
disvalori) dipendano dalla razza e che esista una razza superiore («ariana » o
« nordica +) de- stinata ad essere la guida del genere umano. Il fondatore di
questa dottrina è stato il francese Gobineau nel suo Essai sur l’inégalité des
races humaines (1853-55) che era diretto a difendere l’aristocrazia di fronte
alla democrazia. Verso il principio del ’900 un inglese tedeschizzato, Houston
Stewart Chamberlain diffuse il mito dell’arianesimo in Germania (Die Grundlagen
des XIX Jahrhunderts, 1899) identificando la razza superiore con quella ger-
manica. L’antisemitismo era antico in Germania e perciò la dottrina del
determinismo razziale e della razza superiore trovò qui facile diffusione
risolvendosi nell’appoggio del pregiudizio anti- ebraico e della credenza che
esiste una congiura giudaica per la conquista del dominio del mondo e che
pertanto il capitalismo e il marxismo e in generale quelle manifestazioni
culturali e politiche che indeboliscono l’ordine nazionale sono feno- meni
giudaici. Dopo la prima guerra mondiale il R. apparve ai Tedeschi come un mito
consola- torio, un’evasione dalla depressione della sconfitta; e Hitler ne fece
il caposaldo della sua politica. La dottrina fu elaborata da Alfredo Rosenberg
nel Mito del XX secolo (1930). Rosenberg affer- mava un rigoroso determinismo
razziale. Ogni ma- nifestazione culturale di un popolo dipende dalla sua razza.
La scienza, la morale, la religione, e i valori che esse scoprono e difendono
dipendono dalla razza e sono le espressioni della forza vitale della razza.
Perciò pure la verità è sempre tale soltanto per una razza determinata. La
razza su- periore è quella ariana che dal nord si è diffusa nell’antichità in
Egitto, in India, in Persia, in Grecia e in Roma e ha prodotto le antiche
civiltà: civiltà che decaddero perchè gli ariani si mescola- rono con razze
inferiori. Tutte le scienze, le arti, le istituzioni fondamentali della vita
umana sono state create da questa razza. Di fronte ad essa sta l’anti-razza
parassitica ebraica, che ha creato i veleni della razza: la democrazia, il
marxismo, il capitalismo, l’intellettualismo artistico e anche gli ideali di
amore, di umiltà, di uguaglianza dif- fusi dal cristianesimo, il quale
rappresenta una corruzione romano-giudaica dell’insegnamento del- l’ariano
Gesù. L'insieme di questa dottrina venne esplicitamente dal nazismo presentato
come un mito, creato, diffuso e mantenuto dalla stessa forza vitale della
razza. Il che non vuol dire che non si cercò di razionalizzarla, dando una base
scien- tifica al concetto di razza che ne era il fondamento. Ma in realtà
proprio l’uso che il R. fa della nozione di razza rivela, dal punto di vista
scientifico e filo- sofico, l’inconsistenza della dottrina. Il concetto di
razza è oggi unanimemente con- siderato dagli antropologi come un espediente
classificatorio adatto a fornire lo schema zoologico entro il quale possono
essere situati i vari gruppi del genere umano. La parola perciò deve essere
riservata solo per quei gruppi umani contrasse- gnati da differenti
caratteristiche fisiche che pos- sono essere trasmesse per eredità. Tali
caratteri- stiche sono principalmente: il colore della pelle, la statura, la
forma della testa e della faccia, il colore e la qualità dei capelli, il colore
e la forma degli occhi, la forma del naso e la struttura del corpo. Si
distinguono, tradizionalmente (e conven- zionalmente) tre grandi razze che sono
la bianca, la gialla e la nera, cioè la caucasica, la mongolica e la negroide.
Pertanto i gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e culturali non
possono es- sere chiamati, a nessun titolo, « razze »j} non sono una razza nè
gli Italiani, nè i Tedeschi, nè gli In- glesi, non lo furono i Latini o i
Greci, ecc. Non esiste alcuna razza «ariana» o «nordica». Nè esiste alcuna
prova che la razza o le differenze razziali influiscano in un modo qualsiasi
sulle ma- nifestazioni culturali o sulle possibilità di sviluppo della cultura
in generale. Non vi è prova neppure che i gruppi, in cui si può distinguere il
genere umano, differiscano nella loro capacità innata di sviluppo intellettuale
ed emozionale. Al contrario, gli studi storici e sociologici tendono a
rafforzare la veduta che le differenze genetiche sono fattori insignificanti
nella determinazione delle differenze sociali e culturali fra gruppi diversi di
uomini. Vasti mutamenti sociali si sono verificati senza essere in nessun modo
connessi con mutamenti del tipo razziale. Nè vi è prova che le mescolanze di
razza producano risultati svantaggiosi da un punto di vista biologico. È molto
probabile che non ci siano e non ci siano mai state, per quanto si può
rimontare nel tempo, razze «pure». I ri- sultati sociali delle mescolanze di razze,
sia buoni che cattivi, possono essere attribuiti a fattori so- ciali. Una
dichiarazione sulla razza fu emessa nel 1951 a Parigi, presso l’UNESCO da una
commis- sione composta da cinque cultori di genetica e sei antropologi
appartenenti a sei nazioni diverse. Essa consiste nell’esposizione dei
capisaldi che si sono or ora ricordati (e sui quali cfr. RUTH BE- NEDICT, Race,
Science and Politics, 1940; e RALPH Linton, The Science of Man in the World
Crisis, 7» ed., 1952). Ma in realtà il R. dovunque si riscontri e comunque lo
si giustifichi appartiene al rango di quella che Veblen chiamava psichiatria
applicata; cioè all'arte di sfruttare per scopi parti- colari un certo
pregiudizio esistente. Si tratta in questo caso di un pregiudizio estremamente
perni- cioso perchè contraddice ed ostacola la tendenza morale dell’umanità
verso l’integrazione universa- listica e perchè fa dei valori umani, a
cominciare dalla verità, fatti arbitrari che esprimono la forza vitale della
razza e così non hanno sostanza propria e possono essere manipolati
arbitrariamente per i fini più violenti od abbietti. REALE (lat. Realis; ingl.
Real; franc. Réel; ted. Real). 1. Che si riferisce alla cosa. Ad es.,
«definizione R. + è la definizione della cosa e non del nome di essa. 2. Ciò
che esiste di fatto o attualmente: v. cor- rispondentemente ai vari sensi del
termine REALTÀ. 3. Herbart chiamò Reali gli enti effettivamente esistenti «la
cui natura semplice e propria ci è sconosciuta ma sulle cui condizioni interne
ed esterne possiamo acquistare una somma di cono- scenze che può aumentare
all'infinito ». Tali enti sono tra loro irrelativi sicchè ogni loro rapporto
dev'essere considerato come una veduta acciden- tale (2uféllige Ansicht) che
non qualifica e non modifica la loro natura (Einleitung in die Philo- sophie,
1813, $ 152 sgg.). REALI, SCIENZE. V. SCIENZE, CLASSIFICA- ZIONE DELLE.
REALISMO (lat. Reglismus; ingl. Realism; franc. Réalisme; ted. Realismus). Il
termine co- minciò ad essere adoperato verso la fine del se- colo xv per indicare
l’indirizzo più antico della Scolastica in contrapposto all’indirizzo detto «
mo- derno » dei nominalisti o terministi. Il primo ad adoperarlo fu
probabilmente Silvestro Mazolino di Prieria nel Compendium dialecticae del 1496
(cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 292). Il R. affermava la realtà
degli universali (generi e specie) intendendo tuttavia in modi diversi questa
realtà stessa (v. UNIVERSALE). Nel senso più generale e moderno, il termine fu
ripreso da Kant nella prima edizione della Critica della Ragion Pura, per
indicare, da un lato, la dottrina, opposta a quella da lui difesa, che
considera lo spazio e il tempo indipendenti dalla nostra sensibilità, che è il
R. trascendentale; e dall'altro, la dottrina, sua propria, che ammette la realtà
esterna delle cose ed è il R. empirico. « L’idealista trascendentale, diceva
Kant, è un rea- lista empirico e riconosce alla materia, come fe- nomeno, una
realtà che non ha bisogno di essere dedotta ma è immediatamente percepita »
(Critica R. Pura, 13 ed., Dialettica trascendentale. Critica del quarto
paralogismo della psicologia trascenden- tale). Con Kant il termine entrava
nell’uso filo- sofico per designare dottrine di interesse attuale e non
semplicemente storico. Fichte affermava che «la dottrina della scienza è
realistica» perchè « mostra che è assolutamente impossibile spiegare la
coscienza delle nature finite se non si ammette l’esistenza di una forza
indipendente da esse, ad essa opposta, e dalla quale esse dipendano nella loro
esistenza empirica » (Wissenschaftslehre, 1794, $ V, II; trad. ital., pag.
231). Schelling parlava a sua volta di un idealismo realistico (Real-/dea-
lismus) o di un R. idealistico (/deal-Realismus) (Werke, I, X, pag. 107) nello
stesso senso di Fichte. Da allora in poi il R. è stato qualificato e definito
nei modi più diversi; e quasi sempre le dottrine che l’hanno assunto come
insegna hanno anche qualificato come realiste le dottrine del passato che erano
in accordo con il loro punto di vista. Così, ad es., Platone è stato classificato
realista perchè ammette la realtà delle idee (qualsiasi cosa ciò possa
significare); ma è stato anche definito idealista in quanto si tratta, per
l’appunto, di idee. Simili notazioni (e le dispute che fanno sor- gere) non
sono altro che perdite di tempo. Meno inutile forse è chiarire il significato
delle più note forme che il R. ha assunto nella filosofia moderna. In tal caso,
oltre a quelle già ricordate, si possono richiamare le seguenti: a) Il R.
empirico di Kant ha assunto vari nomi rimanendo sostanzialmente lo stesso cioè
il ricono- scimento dell’esistenza delle cose indipendente dal- l’atto del
conoscere. W. Hamilton chiamò questo punto di vista R. naturale o
presentazionismo e lo ritenne proprio della Scuola scozzese da cui deri- vava la
sua filosofia (v. PRESENTAZIONISMO). L’arti- colo famoso di G. E. Moore
pubblicato nel Mind del 1903, « La confutazione dell’idealismo », si ispira a
un identico punto di vista: difende l'indipendenza dell'oggetto conosciuto
dall’atto psichico con cui viene conosciuto. Questa indipendenza veniva rico-
nosciuta come la tesi del R. ingenuo (ted. Naiven Realismus) da G. Schuppe (Grundriss der
Erkenntnis- theorie und Logik, 1910, pag. 1-2). O. Kiilpe chia- mava lo stesso punto di vista R.
scientifico (Die Realisierung, II, 1920, pag. 148). Mentre J. Ma- ritain che ha
difeso la stessa forma di R. come meglio rispondente alla tradizione tomistica,
l’ba chiamata R. critico (Distinguer pour unir, 1932, pag. 149). Infine lo
stesso tipo di R. è chiamato materialismo dai filosofi sostenitori del materia-
lismo dialettico: così fa, per es., Lenin (Materia- lismo e empiriocriticismo,
1909; trad. ital., pag. 75). Questa stessa forma di R., senza aggettivi o con
aggettivi vari, ricorre frequentemente nella filosofia contemporanea e si può
riconoscere agevolmente nell’esistenzialismo, nello strumentalismo, nell’em-
pirismo logico e in tutte le correnti filosofiche che assumono come loro punto
di partenza il pensiero scientifico. b) Il R. trasfigurato (Transfigured
Realism) di H. Spencer: « Il R. a cui siamo impegnati è quello che asserisce
semplicemente che l’esistenza ogget- tiva è separata e indipendente
dall'esistenza sog- gettiva. Ma esso non afferma che ognuno dei modi
dell’esistenza oggettiva è in realtà quello che sembra nè che le connessioni
fra i modi sono oggettiva- mente quello che sembrano. Perciò questo R. è
nettamente distinto dal R. crudo; e per segnare la distinzione si può
propriamente chiamarlo R. tra- sfigurato » (Principles of Psychology, $ 472).
c) Il nuovo R., difeso in volume collettivo da un gruppo di pensatori americani
(E. B. HOLT, W. T. MARWIN, W. P. MONTAGUE, R. B. PERRY, W. B. PITKIN, E. G.
SPAULDING, The New Realism, 1912). Questa forma di R. è fondata sul principio
che la relazione conoscitiva non modifica gli enti tra i quali intercorre e che
pertanto il fatto che gli enti conosciuti ci appaiono solo in relazione con noi
non implica che il loro essere si esaurisca in questa relazione. Enti oggettivi
sono, secondo il nuovo R., anche i concetti astratti di cui si avvale la
scienza e l’errore stesso è un fatto oggettivo dovuto a una distorsione
fisiologica. Un punto di vista analogo a questo e come questo ispirato dalle
correnti della fenomenologia e del logicismo è stato difeso da Nicolai Hartmann
in una serie di opere a partire dai Grundziige einer Metaphysik der Erkenntnis
(1921). Sono costitutive del R. di Hart- mann le due tesi seguenti: 1° il
rapporto conoscitivo è estrinseco all'essere, che non risulta modificato o
qualificato da esso; 2° l’essere è costituito non solo da cose ma anche da
oggetti ideali o astratti o da valori. d) Il R. critico difeso in un volume
collettivo da un gruppo di pensatori americani (D. DRAKE, A. O. Lovejoy, J. B.
PRATT, A. K. RogERs, G. SAN- TAYANA, R. W. SeLLARS, C. A. STRONG, Essays in
Critical Realism, 1920) che difendeva fondamen- talmente il punto di vista
sostenuto da Santayana secondo il quale l’oggetto immediato della cono- scenza
è un'essenza (v.), mentre l’esistenza non è mai afferrata immediatamente o intuita
ma sem- plicemente affermata o posta o riconosciuta per esigenze emozionali e
pratiche che Santayana chia- mava con il nome di fede animale (Scepticism and
Animal Faith, 1923). REALTÀ (ingl. Reality; franc. Réalité; tedesco Realitàt,
Wirklichkeit). 1. Nel suo significato proprio e specifico il termine designa il
modo d’essere delle cose in quanto esistano fuori dalla mente umana ©
indipendentemente da essa. La parola realitas fu coniata nella tarda Scolastica
e precisamente da Duns Scoto. Questi l’adoperò per definire l’in- dividualità:
che consisterebbe nell’ ultima R. del- l’ente» la quale determina e contrae la
natura comune ad esse hanc rem, alla cosa singola (Op. Ox., II, d. 3, q. 5, n.
1). Questa realitas fu chiamata da Duns stesso o dagli scolari di Duns di
preferenza haecceitas. Il termine doveva poi passare a signi- ficare l’esse in
re della scolastica nel senso, per es., in cui S. Anselmo intendeva passare,
con la prova ontologica, dall’esse in intellectu dell’ Ente di cui non si può
pensare niente di maggiore» al suo esse in re (Prosl. 2); oppure nel senso in
cui gli Scolastici parlavano dell’universale in re cioè in- corporato nelle
cose. L’opposto di R. è perciò idealità che indica il modo d’essere di ciò che
è nella mente e non è o non può essere o non è ancora incorporato o attuato
nelle cose. Il riferi- mento alle cose è evidente anche in espressioni come «
definizione reale » per indicare la definizione della cosa e non del nome; e
«diritti reali» per indicare diritti che concernono le cose e non le persone.
Il problema cui direttamente ha dato luogo la nozione di R. è quello
dell’esistenza delle cose o del « mondo esterno ». Questo problema è nato con
Cartesio cioè col principio cartesiano che og- getto della conoscenza umana è
soltanto l’idea. Da questo punto di vista, diventa immediatamente dubbia
l’esistenza di quella R. cui l’idea sembra accennare ma di cui non è prova come
non è prova un dipinto della R. della cosa rappresentata. Per giustificare la
R. delle cose Cartesio aveva fatto ricorso alla veridicità di Dio: nella sua
perfezione Dio non può ingannarci e non può permettere che ci siano in noi idee
che non rappresentino nulla (Med., IV). Ma all’esistenza di Dio, Cartesio era
pervenuto, oltrecchè attraverso la rielaborazione della prova ontologica, anche
ammettendo il prin- cipio che «ci dev'essere nella causa efficiente © totale
almeno tanta R. quanta ce n’è nell’effetto »: un principio in base al quale
l’idea di Dio, che è l’idea della perfezione massima, deve avere come causa un
essere che ha tanta « R.» quanta è quella che l’idea rappresenta: cioè Dio
stesso (/bid., IM). Lo sviluppo ulteriore del problema portò alla ne- gazione
della realtà. L'empirismo inglese con Ber- keley e Hume riconduceva la R. delle
cose al loro essere percepito e perciò la negava come un modo d’essere
autonomo. Dall'altro lato, il razionalismo risolveva, con Leibniz, le cose in
elementi o atomi (monadi) di natura spirituale e con ciò negava ugualmente il
carattere specifico della loro R. (vedi IMMATERIALISMO). La R. delle cose
veniva in qualche modo riaf- fermata da Kant. Kant conserva al termine R.
(Realitàt) il suo significato specifico di R. delle cose o, come egli anche
dice, cosalità (Sachheit) (Crit. R. Pura, Analitica, II, cap. I): al quale con-
trappone la «idealità» dello spazio e del tempo che sono forme dell’intuizione
e non delle cose (Ibid., $ 3). Ma il problema concerne per lui l’esi- stenza
(Dasein) delle cose stesse. Questo è il pro- blema che egli esamina nella «
Confutazione del- l’idealismo ». La soluzione qui prospettata è che «la
coscienza della mia propria esistenza è insieme coscienza immediata
dell'esistenza di altre cose fuori di me». La prova di questa asserzione è che
la coscienza del tempo, cioè del mutamento, non sarebbe possibile senza la
coscienza di qualcosa di permanente; e questo qualcosa di permanente, non
potendo esser dato dalla stessa coscienza del tempo, può esser dato soltanto
dalla cosa esterna alla coscienza. Valida o no che fosse questa dimo-
strazione, è chiaro che Kant da un lato riteneva valido il primato della
coscienza stabilito da Car- tesio, per il quale appunto la R. delle cose
diventa un problema ed esige una dimostrazione; dall’altro, tendeva a
distruggere questa impostazione, con- nettendo la coscienza della propria
esistenza con la coscienza delle cose (v. Coscienza). Egli tuttavia non si
proponeva neppure il problema del modo d’essere specifico delle cose cioè del
tipo d’esistenza che ad esse è proprio. Eppure questo problema è strettamente
connesso con quello dell’« esistenza » delle cose e solo una qualche risposta
ad esso può dare significato alla soluzione positiva di questo ultimo; giacchè,
se le cose esistono nasce subito la domanda: qual’è il senso della loro
esistenza? Il problema della R. si deve pertanto ritenere composto di questi
due problemi, non separabili l'uno dall’altro: quello dell’esistenza e quello
del modo d’essere specifico delle cose. L’idealismo post-kantiano si soffermò
più sul secondo che sul primo di questi due problemi. Secondo Fichte, la R.
consiste in generale nell'attività dell’Io che « pone l’oggetto limitandosi» e
trasporta nell’og- getto una parte della sua attività. « Fonte di ogni R.
(Realitàt) è l’Io, dice Fichte. Solo per e con l’Io è dato il concetto della
realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere
sono una sola e medesima cosa. Ma il concetto del porsi e quello dell’attività
in generale sono, a loro volta, una sola e medesima cosa. Dunque, ogni R. è
attiva ed ogni cosa attiva è R. » (Wissen- schaftslehre, $ 4, C). Questa idea
della R. come attività entrò a costituire il bagaglio del Romanti- cismo e
influenzò il corso ulteriore del problema, « L’attività è la vera e propria R.
+, diceva Novalis (Fragmente, 190). Schopenhauer affermava decisa- mente «che
l’essenza degli oggetti intuibili è la loro azione; che proprio nell’azione
consiste la R. dell’oggetto e la pretesa di un’esistenza dell’oggetto fuori
della rappresentazione del soggetto e anche di un’essenza della cosa reale
diversa dalla sua azione, non ha senso alcuno, anzi è una contraddi- zione »
(Die Welt, I, $ 5). Come si vede, la riduzione della R. ad attività ha, in
origine, un senso ideali- stico. Essa è tuttavia servita ad avviare una nuova
alternativa nella soluzione del problema: quella che vede nella R. stessa non
un semplice oggetto di conoscenza, ma un modo d'essere che si rivela meglio ad
altre forme di esperienza. La nozione di attività che era rimasta cara al
Romanticismo fornisce il primo modello di questa soluzione. Dall’altro lato il
sensismo di Condillac aveva mostrato la derivazione dell'idea di R. dal senso
del tatto; ma il senso era stato in generale inteso da Condillac in modo attivo
e dinamico come guidato e sorretto dal bisogno e dai desideri (Trairé des
sensations, 1754, I, 3, 1; I, 7, 3; II, 5, 5). Più tardi Destut de Tracy aveva
messo in relazione l’idea di R. con l’esperienza della resistenza che le cose
oppongono al movimento (/déologie, 1801, cap. 8). Nella filosofia contemporanea
un’idea analoga è stata ripresa da Dilthey (Contributo alla soluzione del
problema dell'origine della nostra cre- denza nella realtà del mondo esterno,
in Gesammelte Schriften, 1890, V, 1, pag. 90 sgg.). La resistenza definirebbe
il modo d'essere della R., cioè delle cose; e l’esperienza di questa R.
sarebbe, corri. spondentemente, volitiva e pratica, più che cono- scitiva.
Scheler ha accettato questa interpretazione della R. (Die Wissensformen und die
Gesellschaft, pag. 455 sgg.). Una tesi sostanzialmente analoga fu presentata da
Santayana nel libro Scerricismo e fede animale (1923) nel quale egli mostrava
come la credenza nella R. è dovuta a esperienze puramente animali (la fame, la
lotta, ecc.) ed è giustificabile solo sulla base di tali esperienze. Lo stesso
San- tayana aveva presentato questa stessa nozione della R. nei Essays in
Critical Realism (1920), pubblicati da sette filosofi americani (v. REALISMO).
Nella filosofia più recente il problema della R. ha cessato quasi del tutto di
essere il problema del- l’« esistenza » delle cose per diventare, sempre più
esclusivamente, il problema del modo d’essere specifico delle cose stesse. Le
elaborazioni di questo problema seguono l’alternativa aperta dalle dottrine che
riconoscono il carattere non semplice- mente conoscitivo dell’esperienza della
realtà. Hei- degger ha esplicitamente negato il primato della coscienza dal
quale nasceva il problema dell’esi- stenza delle cose. «Il credere nella R. del
‘mondo esterno” con diritto o meno, il dimostrare questa R., sufficientemente o
no, il presupporla, esplici- tamente o no, sono tutti tentativi che presuppon-
gono innanzi tutto il soggetto senza mondo, cioè non consapevole del proprio
mondo, il quale deve perciò incominciare col fondare la sicurezza del suo mondo
» (Sein und Zeit, $ 43, a). Il problema dell’esistenza del mondo esterno o
delle cose si eli- mina quindi da sè quando si sia eliminato il pre- supposto
fallace del « soggetto senza mondo » cioè il presupposto che l’uomo non sia già
sempre, e prima di tutto, un essere nel mondo. Ripristi- nato questo che è il
carattere fondamentale del modo d’essere dell’uomo, che perciò appunto è un «
Esserci » (indicando il ci la sua relazione con il mondo), il problema della R.
diventa il problema del modo in cui le cose del mondo si presentano all'uomo o
sono in rapporto con lui. Secondo Heidegger, questo modo d’essere è la «
semplice presenza +; giacchè l’esistenza è il modo d’essere riservato
all’esserci cioè all'uomo. «Se l’espres- sione R. significa l’essere dell’ente
(res) sempli- cemente presente dentro il mondo (e nient’altro viene infatti con
essa pensato) ne consegue allora per l’analisi di questo modo di essere: l’ente
intra- mondano è concepibile ontologicamente solo se è stato chiarito il
fenomeno della intramondanità. Ma questo si fonda nel fenomeno del mondo, il
quale, da parte sua, in quanto essenziale momento della struttura
dell’essere-nel-mondo, appartiene alla costituzione fondamentale dell’Esserci.
L’es- sere-nel-mondo, di nuovo, è ontologicamente arti- colato nella totalità
dell’essere dell’Esserci, che venne caratterizzata come Cura» (/bid., $ 43, b).
Proprio perchè l’essere dell’Esserci cioè l’esistenza umana è Cura, gli enti
diversi da sè di cui questa esistenza si prende cura cioè le cose (il cui modo
d’essere è la R.) sono caratterizzati dall’utilizza- bilità. «Il modo d’essere
di questo ente è l’uti- lizzabilità; questa non deve però essere vista come una
visuale considerativa... L’utilizzabilità è deter- minazione
ontologico-categoriale dell’ente così come esso è in sè » (/bid., $ 15). In tal
modo Heidegger ha messo in luce il carattere strumentale delle cose: quel
carattere per cui esse possono valere come mezzi per l’uomo. Ma Heidegger
ritiene che questo carattere non appartenga alle cose relativamente al loro
rapporto con l’uomo ma costituisca il loro essere «in sè», la loro essenza. A
prescindere da questa pretesa, l’analisi di Heidegger può essere assunta come
una caratterizzazione del modo d’essere delle cose o della « R.+, intesa nel
suo significato proprio e specifico. Dall’altro lato, questa stessa analisi ha
mostrato il carattere arbi- trario del «problema della R.» qual’era inteso da
Cartesio in poi come problema di una R. «esterna » alla coscienza. Essa ha
infatti mostrato come tale problema sorga dal presupposto di una tesi
filosofica infondata cioè dalla tesi di un « sog- getto senza mondo » o in
altre parole di una esi- stenza dell'uomo che non consista nel rapporto con il
mondo. È significativo notare che quasi contempora- neamente a queste analisi
di Heidegger lo stesso problema della R. esterna veniva dichiarato uno «pseudo
problema» da un punto di vista total- mente diverso, cioè da quello del Circolo
di Vienna. Carnap (Scheinsprobleme in der Philosophie; das Fremdpsychische und
der Realismus-streit, 1928) e Schlick (Positivismus und Realismus, rist. in
Gesam- melte Aufsdtze, 1938) rigettavano sia la tesi della irrealtà del mondo
esterno sia quella della sua R. come pseudo-asserzioni, in quanto nè l’una nè
l’altra si prestano ad una verifica sperimentale. Ma il Circolo di Vienna non
presentava alcuna nuova soluzione del secondo aspetto, assai più legittimo, del
problema della R.: cioè del pro- blema del modo d'essere delle cose. Su questo
punto esso si limitava, e i suoi continuatori tut- tora si limitano, a
riproporre la vecchia tesi di Mach (Analyse der Empfindungen, 1900) che le cose
sono composte di quegli stessi elementi ultimi, le sensazioni, che compongono
l’io e che questi elementi ultimi sono in sè neutrali, cioè nè oggettivi nè
soggettivi. Questa tesi ovviamente non dà conto del carattere specifico della
R. delle cose: non dà conto cioè del perchè un insieme di tali elementi neutri
assuma a volta a volta le caratteristiche di una «cosa» o di un «io». Oltre al
significato fin qui seguito nelle sue varie interpretazioni, la parola R. è
usata comunemente anche negli altri significati seguenti, che devono tuttavia
essere ritenuti secondari perchè designati più opportunamente con altri termini
del dizio- nario filosofico. 2. In contrasto con apparenza, illusione e simili,
R. significa talora l’essere in uno qualsiasi dei suoi significati
esistenziali. Così nell’opera di BRADLEY, Appearance and Reality (1893) il
contrasto annun- ciato nel titolo è il contrasto tra l’apparire e l’es- sere
giacchè esso non viene limitato alla R. nel suo senso specifico cioè al modo
d’essere delle cose. Nello stesso senso ma con accentuazione critica ha inteso
il termine Dewey: « Nella sua più breve formula la R. diventa l’esistenza quale
noi desideriamo che sia, dopo che abbiamo analiz- zato i suoi difetti e deciso
quelli da eliminare; la ‘R.’ è ciò che l’esistenza sarebbe se le nostre
preferenze razionalmente giustificate fossero così completamente stabilite
nella natura da esaurire e definire il suo essere intero, e perciò da rendere
la ricerca e la lotta non necessarie. Ciò che vien tagliato fuori (dal momento
che il turbamento, la lotta il conflitto e l’errore ancora esistono empi-
ricamente, qualcosa è tagliata fuori) essendo escluso per definizione dalla
piena R., è assegnato a un grado o ordine dell’essere che si afferma metafisi-
camente inferiore: un ordine variamente chiamato: apparenza, illusione, spirito
mortale o puramente empirico, in contrapposto a ciò che realmente e veramente è
» (Experience and Nature, cap. II, pag. 54). 3. In contrasto con possibilità,
potenzialità e talora anche con necessità, la parola significa attua- lità o
effettualità o ciò che si è attuato od effet- tuato e possiede l’esistenza di
fatto. Il termine tedesco Wirklichkeit, in distinzione da Realitàt, ha questo
senso specifico, per quanto non sempre i filosofi si attengono strettamente a
questa distin- zione. In questo senso la parola designa una delle categorie
della logica di Hegel: « La R. è l’unità immediata, che si è prodotta,
dell’essenza e del- l’esistenza o dell'interno e dell’esterno» (Enc., $ 142):
con che Hegel intende dire che la R. è l’essenza che si è attuata come
esistenza o l’interno che si è manifestato effettivamente nell’esterno. Sulla
distinzione di Wirklichkeit da Realitat insistette Lotze (Mikrokosmos, III,
pag. 535). N. Hartman ha a sua volta utilizzato la distinzione, scorgendo nella
effettualità (Wirklichkeit) il senso primario dell’essere (Mòoglichkeit und
Wirklichkeit, 1938) (v. ESSERE). REALTÀ PRESUNTIVA (ted. Prasumptive Wirklichkeit).
Così ha chiamato Husserl la R. delle cose nei confronti della « R. assoluta »
cioè neces- saria, della coscienza (/deen, I, $ 46). REAZIONE (ingl. Reaction;
franc. Réaction; ted. Reaktion). 1. Un’azione uguale e di senso con- trario ad
un’azione determinata. In questo senso il termine è usato nella fisica
newtoniana. 2. In psicologia: qualsiasi risposta ad uno sti- molo. Tempo di
reazione: l'intervallo di tempo tra lo stimolo e la risposta. 3. In politica:
il movimento che tende ad annul- lare o neutralizzare gli effetti di una
rivoluzione o di un mutamento qualsiasi; o anche a rendere preventivamente
impossibile ogni mutamento. RECETTIVITÀ (ingl. Receptivity; francese
Reéceptivité; ted. Receprivitàt). La capacità di su- bire un'azione o di
registrare l’effetto dell’azione subita. Kant chiamò R. la capacità di rice-
vere le impressioni e la contrappose al carattere attivo della conoscenza che è
fondato sulla « spon- taneità dei concetti» (Crit. R. Pura, Logica tra-
scendentale, Intr., I). RECETTORE (ingl. Receptor). Termine della psicologia
contemporanea per indicare qualsiasi organo o struttura con cui l’organismo
riceva gli stimoli. Sono R. tanto gli organi di senso (per es., l’occhio,
l’orecchio, ecc.) quanto le strutture ner- vose che ricevono stimoli dalla
pelle, dai muscoli, dalle articolazioni, ecc. I primi sono chiamati
esterocettori, i secondi propriocettori. Talvolta si parla anche di
enterocertori per indicare i R. situati nei visceri. RECIPROCAZIONE (lat.
Reciprocatio; inglese Reciprocation). Nella logica del ’600, un modo di
confutazione che consiste nell’usare contro l’av- versario lo stesso argomento
di cui l’avversario si è avvalso: col che l’argomento stesso si dimostra
vizioso (cfr. JunGIUs, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 16, 20). RECIPROCITÀ
D'AZIONE (ingl. Recipro- city; franc. Reciprocité; ted. Wechselwirkung). È il
principio della connessione universale delle cose nel REALTÀ PRESUNTIVA mondo,
principio per il quale esse costituiscono una comunità, un tutto organizzato.
L'azione reci- proca non ha perciò nulla a che fare col principio di azione e
reazione enunciato da Newton. Kant fa dell’azione reciproca un principio puro
dell’in- telletto e vede in esso la terza analogia dell'espe- rienza (v.), la
quale si esprime dicendo « Tutte le sostanze, in quanto possono essere
percepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in un’azione reciproca
universale ». Come la succes- sione temporale trova il suo fondamento nella
connessione causale, così la simultaneità temporale trova il suo fondamento
nella R. d’azione tra le sostanze. Kant dice: «Senza comunità ogni per- cezione
(dei fenomeni nello spazio), sarebbe stac- cata dalle altre, e la catena delle
rappresentazioni empiriche, cioè l’esperienza, dovrebbe ricominciare daccapo ad
ogni nuovo oggetto, senza che la pre- cedente potesse minimamente collegarsi o
trovarsi con esso in rapporto temporale» (Crif. R. Pura, Analitica dei
princìpi, III, 3). Il senso della con- nessione reciproca è poi così chiarito
da Kant (loc. cit.): «La parola Gemeinschaft [= comunità] ha un doppio
significato, cioè può significare tanto communio, quanto commercium. Qui ce ne
serviamo nel secondo senso, come comunità dinamica, senza la quale, anche
quella spaziale (communio spatii) non potrebbe mai essere conosciuta empiricamente
». Non c’è da meravigliarsi che la filosofia della natura del Romanticismo
abbia fatto tesoro di questa nozione, di carattere così nettamente metafisico e
spiritua- stico. Schelling afferma (System des transzendentalen Idealismus,
pag. 228) che « La relazione di causalità non è costruibile senza l’azione
reciproca +; e Hegel (Enc., $ 154 sgg.) vede nel passaggio dalla causalità
all’azione reciproca il passaggio dalla necessità allo svelamento della
necessità, cioè alla libertà. Ciò che questo significa è espresso con tutta
chia- rezza da Lotze nel suo Microcosmo (III°, pag. 482): « L’azione reciproca
delle sostanze finite nel mondo si può intendere soltanto se esse sono parti di
una Sostanza infinita che le abbraccia tutte in se stessa ». Questa nozione
ricorre frequentemente nelle conce- zioni spiritualistiche del mondo, e non è
che la trascrizione, in termini più moderni, di quella sim- patia universale
(v. Simpatia) che le concezioni magiche (v. MAGIA) ammettevano tra le cose del
mondo. Non fa meraviglia pertanto che Schope- nhauer affermasse che «l’azione
reciproca non esiste »; giacchè « essa presupporrebbe che l’effetto sia a sua
volta la causa della sua causa e che ciò che segue sia nello stesso tempo ciò
che precede » (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom zurei- chenden Grunde,
1813, $ 20). RECIPROCO (ingl. Reciprocal; Converse; franc. Réciproque; ted.
Reziprok). In logica si chiama reciproca la proposizione ottenuta me- diante la
conversione della proposizione data, cioè mediante lo scambio del soggetto con
il predi- cato. Il termine latino tradizionale per tale pro- posizione è
conversa, che fu adoperato da Boezio (De syllogismo categorico, P. L., 64, col.
804; cfr. HAMILTON, Lectures on Logic, II, pag. 259). Per «inversa» si intende
invece comunemente la negativa di una proposizione (v. CONVERSIONE).
REDUPLICAZIONE (gr. iravadiràwa; la- tino Reduplicatio; ingl. Reduplication;
franc. Rédu- plication). Con questo termine che significa predica- zione
ripetuta, venivano indicate in logica alcune parole usate per connettere il
predicato al sog- getto quali come, in quanto, nella qualità di, ecc. Ad es.:
«l’uomo come animale è mortale». Le proposizioni in cui ricorre la R. si
chiamano redu- plicative (ARISTOTELE, An. Pr., I, 38, 49 a 26; Duns Scoro, In
An. Pr., I, 35, in Opere, I, pag. 327 a; Jungius, Logica Hamburgensis, II, 11,
22). REFERENTE. V. RIFERIMENTO. REGIME (lat. Regimen). In generale, guida o
direzione; o in particolare la guida e la direzione dello Stato, il governo.
REGIONE (ted. Region). 1. Termine adoperato da Husserl per indicare «la
superiore e completa unità di genere alla quale appartiene un concreto » cioè
«la totalità ideale di tutti gli individui pos- sibili di un'essenza concreta »
(/deen, I, $ 16). Ad es., «ogni oggetto empirico concreto si inserisce, con la
sua essenza materiale, in un genere mate- riale superiore, cioè in una R. di
oggetti empi- rici » (/bid., $ 9). Una regione in questo senso è la natura
(/bid., $ 10). Corrispondentemente, Husserl] parla di «ontologia regionale »
cioè ontologia che concerne le strutture di una determinata regione. 2. In
senso diverso, e connesso con la corri- spondente nozione topologica (v.
ToPoLoGia), il concetto è stato adoperato dalla psicologia della forma. K.
Lewin intende per R.: 1° ogni cosa in cui un oggetto dello spazio di vita, per
es., una persona, ha il suo posto o in cui si muove; 2° ogni cosa in cui si
possono distinguere diverse posizioni o parti allo stesso tempo o che è parte
di un tutto più vasto. In base a questa definizione la persona stessa è una R.
nello spazio di vita e anche lo spazio di vita, come un tutto, è una R.
(Principles of Topo- logical Psychology, 1936, pag. 93). REGNO (lat. Regnum;
ingl. Realm; francese Royaume; ted. Reich). Termine introdotto in filo- sofia
da Bacone per indicare il dominio dell’uomo sulla natura (cfr. il titolo della
prima parte del Novum Organum: « Aforismi sull’interpretazione della na- tura e
sul R. dell’uomo »). Leibniz adoperò il ter- mine in un senso diverso, come
dominio o campo di validità di un principio; e parlò di un «R. 47 — ABBAGNANO,
Dizionario di filosofiafisico della natura » e di un « R. morale della grazia »
(Mon., $ 87). Nello stesso senso Kant, parlò di un R. dei fini (v. Fin), di un
R. della libertà (cfr. Re- ligion, II, sez. ID; di un R. della grazia e di un
R. della natura (Crif. R. Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap. II, sez. II). Più
recentemente G. Santayana ha adoperato il termine in signi- ficato analogo
(Rea/ms of Being, 4 voll.: The Realm of Essence, The Realm of Matter, The Realm
of Truth, The Realm of Spirit, 1927-40). REGOLA
(lat. Regula; ingl. Rule; franc. Régle; ted. Regel). Si chiama R. qualsiasi
proposizione pre- scrittiva. Il termine è generalissimo e comprende le nozioni
più ristrette di norma, massima e legge. In questo senso definì la regola Wolff
come «una pro- posizione che enunci una determinazione conforme a ragione»
(Onrol., $ 475). E Kant analogamente affermava: « La rappresentazione di una
condizione generale cui un certo molteplice può essere sotto- posto si dice R.;
e, quando deve esservi sotto- posto, legge » (Crit. R. Pura, 1% ed., Deduzione
dei concetti puri dell’intelletto, 4). Questo signifi- cato generalissimo è
rimasto a caratterizzare la R. (v. Legge; Massima; NORMA). REGOLARITÀ (ingl.
Regularity; franc. Régu- ralité; ted. Regelmàssigkeit). In generale, confor-
mità alla regola. Kant vide nella R. la condizione nello stesso tempo del
pensiero e della realtà: « La R. che conduce al concetto di un oggetto è la
con- dizione indispensabile (conditio sine qua non) per percepire l’oggetto in
un’unica rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma» (Crit.
del Giud., $ 22, nota). Kant considera la stessa na- tura in generale come «R.
dei fenomeni nello spazio e nel tempo » (Crif. R. Pura, $ 26) (v. Na-
REGOLATIVO (ingl. Regulative; franc. Régu- latif; ted. Regulativ). Kant chiamò
R. l’uso delle idee della ragion pura che le fa valere come semplici regole del
lavoro intellettuale, in contrapposto all’uso costi- tutivo di esse per il
quale sono considerate come co- stitutive dell’oggetto stesso dell’attività
intellettuale. «Io affermo che le idee trascendentali non sono mai d’uso
costitutivo sicchè per mezzo di esse possono essere dati i concetti di certi
oggetti e che se sono intese a questo modo sono semplicemente concetti
sofistici (dialettici). Esse hanno invece un uso R. eccellente e
indispensabile: quello di indirizzare l’in- telletto a un certo scopo in vista
del quale le linee direttive di tutte le sue regole convergono come in un
punto: il quale sebbene non sia altro che un'idea (focus imaginarius) cioè un
punto da cui in realtà i concetti dell’intelletto non muovono perchè esso è
fuori dei limiti dell'esperienza possibile, serve nondimeno a conferire a tali
concetti la mag- giore unità con la maggiore estensione possibile » (Crit. R.
Pura, Appendice alla dialettica, Dell’uso regolativo, ecc.) (v. IDEE).
REGRESSIONE (ingl. Regression; franc. Ré- gresslon; ted. Regression). In
generale movimento inverso o ritorno. Spesso con significato peggio- rativo di
regresso cioè di un movimento opposto al progresso. Talvolta è stato chiamato
regressivo il metodo analitico e progressivo quello sintetico (cfr. HamiLtoN,
Lectures on Logic, II, pag. 7) (v. ANALISI). REGULA FIDEI. 1. Con questa
espressione si designa in teologia la regola che determina l’oggetto della fede
cioè il contenuto autentico della rivela- zione. Nella filosofia patristica e
scolastica, fu assunto come tale regola il « Simbolo degli apostoli » (Symbolum
Apostolorum) che comprendeva, oltre che il contenuto della Bibbia, anche
l’insieme della tradizione ecclesiastica (decisioni conciliari e pa- pali, le
opinioni degli scrittori approvati dalla Chiesa, ecc.) (cfr. M. GRABMANN, Die
Geschichte der scholastischen Methode, I, pag. 76 sgg.). Questa regola è rimasta valida per il cristianesimo
catto- lico mentre dal cristianesimo protestante è stata ristretta al contenuto
della Bibbia. La differenza tra cattolicesimo e protestantesimo s’impernia ap-
punto sulla differenza della regula fidei (v. RIFORMA). 2. Con la stessa
espressione si designa talora il principio che fa della fede la regola della
verità. Così questo principio viene espresso da S. Tom- maso: « Poichè la fede
si fonda sulla verità infalli- bile e poichè è impossibile dimostrare il
contrario del vero, è evidente che gli argomenti che si ad- ducono contro la
fede non sono dimostrazioni ma argomenti confutabili » (S. Th., I, q. 1, a. 8).
REIFICAZIONE (franc. Réification; ted. Ver- dinglichung). Termine adoperato da
scrittori marxisti per designare il fenomeno, sul quale Marx stesso aveva
insistito per il quale, nell’economia capita- listica, il lavoro umano diventa
semplicemente l’attributo di una cosa: «L’arcano della forma della merce
consiste semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini, come uno
specchio, i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasfor- mati in
caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali
delle cose pro- dotte e quindi rispecchia anche il rapporto sociale tra
produttori e lavoro complessivo come un rap- porto sociale di cose, avente
esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo qui pro quo i
prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibil- mente sopra sensibili, cioè
cose sociali » (Kapiral, I, I, $ 4). Il termine R. per indicare questo processo
è stato usato e diffuso da G. Lukacs (cfr. Geschichte und Klassenbewusstsein,
1922; traduzione francese, 1960, pag. 110 sgg.). RELATIVISMO (ingl. Relativism;
franc. Relati- visme; ted. Relativismus). La dottrina che afferma la relatività
della conoscenza, nel senso che fu dato a questa espressione nel sec. xIx e
cioè: 1° come azione condizionante del soggetto sui suoi oggetti di conoscenza;
2° come azione condizionante reci- proca degli oggetti di conoscenza. Questo
duplice condizionamento d’ogni oggetto di conoscenza fu per la prima volta
assunto come fondamento del R. da W. Hamilton: che insisteva da un lato sul
fatto che tutti gli oggetti esistenti pos- sono essere conosciuti solo in
rapporto con le facoltà umane e sotto condizioni determinate da queste facoltà
stesse (Lectures on Metaphysics, I, 1870, 5* ed., pag. 148); dall'altro sulla
condizio- nalità che gli oggetti di conoscenza esercitano l’uno sull’altro
(Discussion on Philosophy, 1852, pag. 13). Sul fondamento di questi due punti
(che non avevano niente di originale, perchè possono essere agevol- mente
riconosciuti come le tesi più generiche del- l’empirismo e del criticismo)
Hamilton affermava, nello stesso tempo, l’inconoscibilità dell’Assoluto e
l’esistenza di esso, giacchè si può credere anche in ciò che non si conosce
(Lectures, cit., II, pag. 530- 531). Queste tesi venivano utilizzate per
un’apolo- getica religiosa da E. L. Mansel (Philosophy of the Conditioned,
1866). Ma a diffonderle fu soprattutto il positivismo che, con Spencer,
accettava il punto di vista di Hamilton ammettendo la relatività della
conoscenza umana, l’inconoscibilità dell’Assoluto, e l’esistenza di esso (First
Principles, 1862, $ 23 sgg.). AI di fuori del positivismo, il R. è stato accet-
tato da alcune correnti del neo-criticismo e del prag- matismo. Nell’ambito del
primo C. Renouvier nei Essais de Critique Générale (1854-64) insisteva sulla
relatività del fenomeno, che non sussiste se non in rapporto ad altri fenomeni
e in rapporto al sog- getto conoscente (Essais, I, pag. 50 sgg.); e G. Simmel
affermava che « il R. si può formulare così, in rife- rimento ai princìpi della
conoscenza: i principi costi- tutivi fondamentali, esprimenti una volta per
tutte l’essenza delle cose, diventano princìpi regolativi, i quali sono
soltanto punti di vista per il progre- dire del conoscere » (Philosophie des
Geldes, 1900, pag. 68). Nell’ambito del pragmatismo, il R. veniva difeso da F.
C. S. Schiller; e diventava, da questo punto di vista, la negazione di ogni
verità « asso- luta » o «razionale» e il riconoscimento che la verità è sempre
relativa all'uomo cioè valida perchè utile a lui: onde Schiller vedeva nel
detto di Pro- tagora «l’uomo è misura di tutte le cose» la più grande scoperta
della filosofia (Studies in Humanism, 1902, pag. x sgg.). L’antica sofistica,
lo scetticismo e (parzialmente) l’empirismo e il criticismo diven- tavano da
questo punto di vista manifestazioni di un R. che andava in cerca dei suoi
precedenti e tentava di crearsi una tradizione. Ma in realtà il R. è stato
fenomeno moderno, legato alla cul- tura del sec. xrx, ed ha costituito una
specie di capovolgimento della filosofia dogmatica di questo secolo,
capovolgimento che ha gli stessi presup- posti di essa. Ciò si vede assai bene
nella mani- festazione estrema (la sola autentica) del R., cioè nella dottrina
esposta da O. Spengler nel suo libro Il tramonto dell'Occidente (1918-22): nel
quale si af- ferma la relatività non solo della conoscenza ma di tutti i valori
fondamentali della vita umana alle epoche della storia, considerate come entità
orga- niche ognuna delle quali cresce, si sviluppa e muore senza rapporto con
l’altra. Da questo punto di vista, la relatività investe non solo la verità
reli- giosa e filosofica ma anche quella morale e scien- tifica «Ogni cultura,
diceva Spengler, ha il suo proprio criterio, la cui validità comincia e finisce
con esso. Non vi è alcuna morale umana univer- sale » (Der Untergeane des
Abendlandes, I, cap. I, pag. 55). In questa forma, che è la sola rigorosamente
coerente, il R. afferma la relatività dei valori solo perchè considera
necessario il rapporto tra i valori stessi e l’epoca storica cui appartengono
negando la possibilità che essi possano relativizzarsi ad altri uomini, epoche
e circostanze, riuscendo così ad ottenere una autonomia parziale che
smentirebbe il relativismo. Lo stesso punto di vista si trova spesso difeso in
quello che oggi si chiama il R. culturale, il cui punto di partenza è il
riconosci- mento della diversità dei costumi e delle norme che vigono
nell’ambito di culture diverse. Questo R. ha radici remote (Erodoto, Protagora,
e i Di- scorsi doppi, un testo di ispirazione sofistica, forse della prima metà
del sec. Iv a. C.); ma è ora ap- poggiato dal riconoscimento, pressochè
universale, della pluralità e della eterogeneità delle culture. Ha difeso
questo R. nella sua forma estrema Herskovits (Cultural Anthropology, 1955); su
di esso vedi il volume collettivo Relativism and the Study of Man, a cura di ScHOECK
e WicciNS, 1961). RELATIVITÀ, TEORIA DELLA (inglese Theory of Relativity;
franc. Théorie de la relativité; ted. Relativitàtstheorie). Con questo termine
s’in- tendono due corpi di dottrina formulati da Ein- stein di cui il primo nel
1905 col nome di R. spe- ciale e il secondo nel 1913 con il nome di R.
generale. La relatività speciale s’impernia sul rico- noscimento che la scelta
di un sistema di riferi- mento, indispensabile per effettuare misure, può
influenzare i risultati di queste misure; e che non essendoci un sistema di
riferimento privilegiato (o «assoluto 1), come aveva creduto la fisica clas-
sica, è indispensabile da un lato specificare il sistema rispetto al quale la
misura viene eseguita, dall’altro trovare formule di trasformazione che rendano
valide tali misure anche per altri sistemi. La R. generale è sostanzialmente
l’estensione del principio di R. a tutti i sistemi, oltre che a quelli
inerziali per i quali vale la R. speciale; ed è perciò, sostanzialmente una
teoria della gravitazione che riduce la gravitazione stessa a una deformazione
del continuo quadri- mensionale dello spazio-tempo (cfr. A. EINSTEIN, L.
INFELD, The Evolution of Physics, 1938; tradu- zione italiana, 1950; e, per la
bibliografia, il volume dedicato a Einstein nella collezione « Living
Philosophers » di Schilpp, 1949). La teoria della R. ha avuto numerose
interpre- tazioni filosofiche. Una di esse è quella relativi- stica, che l’ha
intesa come una conferma del re- lativismo filosofico (cfr., ad es., A.
ALIOTTA, // relativismo, l’idealismo e la teoria di Einstein, 1948). Un'altra è
quella idealistica o spiritualistica che è stata difesa specialmente da A.
Eddington (The Nature of the Physical World, 1928; The Philosophy of Physical
Science, 1939). Ma in realtà la teoria della R. si presta a interpretazioni
filosofiche meno ancora delle teorie classiche. La R. di cui essa parla non ha
niente a che fare con la R. del relativismo: una misura è bensì relativa ma non
all’uomo o al soggetto conoscente, bensì al sistema di riferimento e può essere
espressa anche in base ad altri sistemi. Nè la teoria della R. è più
soggettivistica o ideali- stica della fisica classica. La più importante
lezione che la filosofia può trarre da essa è una lezione di metodo, e può
essere desunta dalle seguenti parole di Einstein: « Per il fisico, un concetto
ha valore soltanto quando è possibile discernere se esso nel caso concreto
conviene o no. Ci occorre perciò una definizione della contemporaneità la quale
fornisca il metodo per riconoscere mediante espe- rimenti se i due colpi di
folgore sono stati contem- poranei o no. Finchè questa condizione non sia
adempiuta, io come fisico (e anche come non fisico) mi affido a un'illusione se
credo di poter annettere un significato alla espressione di contemporaneità +
(Uber die spezielle und die allgemeine Relativitàts- theorie, 1917, $ 8; trad.
ital., pag. 18). Queste parole esprimono l’esigenza generale che una
proposizione qualsiasi, per essere valida, deve poter essere attestata o
provata con metodo adatto (v. SIGNIFICATO). RELATIVO (lat. Relativus; ingl.
Relative; fran- cese Relatif; ted. Relativ). 1. Ciò che entra in una relazione
o funge da termine di una relazione. In questo senso si dice «il fenomeno x è
R. a y come a sua causa ». 2. Un termine che non ha significato, o non ha
significato esatto, se non in riferimento ad un altro termine. In questo senso
« maggiore +, « minore », « doppio », ecc., sono R. perchè si dicono sempre in
riferimento a qualche altra cosa. 3. Ciò che vale soltanto in determinate
circo- stanze o condizioni e non vale fuori di esse. In questo senso si dice
che la conoscenza è R. o che sono R. i valori; e che l’opposto di R. è l’«
asso- luto » o 1° incondizionato ». 4. Ciò che è una relazione o concerne una
re- lazione. In questo senso si dice, ad es., che «la conoscenza è R.»
intendendo che essa consiste nello stabilire relazioni tra dati. Ma l’aggettivo
relazionale (v.) è in questo caso più adatto. 5. Come sostantivo il termine è
usato da Schroder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce (Coll. Pap., 3.456-526:
«The Logic of Relatives», 1897). In questo senso il termine è sinonimo di
relazione. RELAZIONALE (ingl. Relational; tedesco Relational). Ciò che è una
relazione o concerne una relazione. L'aggettivo esclude il significato re- lativistico
che il termine relativo (v.) può avere. Esso è pertanto usato di preferenza dai
filosofi che, pur insistendo sull’importanza della relazione, non intendono
giungere a conclusioni relativistiche. N. Hartmann ha distinto a questo
proposito re- lazionalità da relatività: i valori, ad es., sono in relazione
con l’uomo e con il suo mondo senza perdere la loro irrelativa assolutezza
(Erhik, 1949, pag. 140). Il termine relazionismo è stato usato in Italia per
indicare una filosofia che consideri la relazione come il fatto essenziale
dell’universo e dell'uomo, ma senza implicazioni relativistiche (cfr. E. Paci,
Dall’esistenzialismo al relazionismo, 1957, pag. 45 e passim). RELAZIONE (gr.
tò npéc ni; lat. Ad aliquid, Relatio; ingl. Relation; franc. Relation; ted. Re-
lation). Il modo d’essere o di comportarsi degli oggetti tra loro. Questa
definizione non è che un semplice chiarimento verbale del termine, che non può
essere altrimenti definito in generale, cioè fuori delle interpretazioni
specifiche che i filosofi ne hanno dato. Questa è d'altronde la definizione
rettificata che Aristotele dette della R.: come ciò «il cui essere consiste nel
comportarsi in un certo modo verso qualcosa » (Car., 7, 8 a 33); che so-
stanzialmente coincide con quella di Peirce: «La R. è un fatto circa un numero
di cose » (Coll. Pap., 3.416). I due problemi fondamentali ai quali il con-
cetto di R. ha dato origine e dalle cui soluzioni dipendono le determinazioni
del concetto stesso, sono i seguenti: 1° Devono essere considerate in- cluse,
nel concetto di relazione, le determinazioni sostanziali (essenziali e
qualitative) o tali deter- minazioni devono essere escluse dal concetto stesso?
2° Costituiscono le R. entità reali o sono soltanto entità mentali? I problemi
sono, ovviamente, inter- dipendenti e sul fondamento delle risposte colle- gate
che essi hanno ricevuto nel corso della storia si possono distinguere tre
dottrine fondamentali: A) quella che ammette l’oggettività e la realtà delle
R.; 8) quella che nega la realtà e l’ogget- tività delle R.; C) quella che
ammette l’ogget- tività delle R. ma non la loro realtà. A) Platone ammise
certamente l’oggettività delle R. ma è dubbio se ne ammettesse la realtà. «Io
credo che tu ammetta, egli disse, che di alcuni degli enti si debba dire che
sono unicamente per sè e di altri invece che sono sempre in R. con altri »
(Sof., 255 c-d). Però gli enti in R., come il diverso e l’identico, non sono
l'essere (/bid., 255 c-d): il che potrebbe anche voler dire che non hanno
esistenza o realtà, come tali. La dottrina di Ari- stotele è ugualmente confusa
su questo punto. Aristotele distinse tre specie di R.: 1° le R. quan- titative,
come quelle espresse da doppio, metà, ecc.; 2* le R. potenziali che consistono
in una potenza attiva o passiva, come l’esser causa o causato, il tagliare o
l’essere tagliato, ecc.; 3* le R. che hanno il loro termine in un oggetto
reale, come la mi- sura rispetto al misurabile, il conoscere rispetto al
conoscibile, la sensazione rispetto al sensibile (Met., V, 15, 1020 b 25).
Questa distinzione sembra già implicare l’esistenza di R. reali, quelle della
specie 2* e 38; e infatti Aristotele stesso dice che: «alcune R. si trovano di
necessità dentro o in- torno alle cose cui sono riferite » e che «tale è il
caso della disposizione, del possesso e della sim- metria » (Top., IV, 4, 125 a
33). Tuttavia buona parte del capitolo delle Caregorie dedicato alle R. dibatte
il problema se fra le R. ci siano sostanze; e la conclusione, sebbene non
categorica, è nega- tiva: certamente non ci sono fra le R. sostanze prime e
anche le sostanze seconde difficilmente si può dire che siano R. (Car., 7, 8 b
15). Inoltre uno degli argomenti addotti da Aristotele contro la dottrina delle
idee è che essa condurrebbe ad ammettere la realtà delle R.: laddove «la R. è
meno di tutte le cose o natura o sostanza, vien dopo la qualità e la quantità
ed è piuttosto una de- terminazione della quantità, come è stato detto, ma non
materia +» (Mer., XIV, 1, 1088 a 21). In questo caso Aristotele considera
ovviamente soltanto le R. di specie 1*; ma la sua affermazione non è
condizionata da alcuna limitazione. Non fa me- raviglia perciò che ad
Aristotele si siano in se- guito appellati sia coloro che negavano sia coloro
che affermavano la realtà delle relazioni. Plotino riprodu- ceva la dottrina di
Aristotele con le stesse confusioni (Enn., VI, 1, 6). La scolastica cristiana
la stiliz- zava nella distinzione tra R. di ragione, R. poten- ziale e R.
reale, distinzioni che corrispondono esat- tamente allespeciedistinte da Aristotele.
Ma la scolastica cristiana aveva interesse per motivi teo- logici, dovendo
utilizzare il concetto di R. per il chiarimento del dogma della trinità, ad
ammettere la realtà delle R.; e questa era la tesi difesa da S. Tommaso contro
«coloro che affermarono la R. non esser cosa di natura ma solo di ragione »;
tesi che S. Tommaso dichiarò falsa perchè « le stesse cose hanno l’una rispetto
all’altra un ordine o una disposizione naturale » (S. 7%., I, q. 13, a. 7). Su
questa base S. Tommaso riesponeva le distinzioni aristoteliche, difendendo il
carattere reale delle R. in cui la scienza e la sensibilità consistono, in
quanto tali R. «sono ordinate a conoscere o a percepire le cose» (/bid.). Le R.
di ragione sono soltanto quelle nelle quali entrambi i termini sono enti di
ragione, cioè quelle che si hanno « quando l'ordine o la disposizione non ci
può essere se non secondo l’apprensione della ragione come nel caso in cui si
dice che una cosa è identica all’altra » (Ibid.). Ma affermare la realtà delle
R. significa privi- legiare un certo tipo di R. cioè modellare tutte le R.
sulle relazioni delle specie 22 e 3* aristoteliche o più precisamente significa
considerare ogni tipo di R. come una potenzialità o disposizione o una
condizione o uno stato dei termini relativi. Su questa natura della R.
insistette, alla fine del se- colo x, Duns Scoto, che avanzò la dottrina della
R. come respectus: un termine che intende tra- durre la parola greca oytow
(usata, per es., da SimpLICIO, Ad Car., 61 B) e significa disposizione.
L'argomento principale addotto da Duns Scoto in favore della sua teoria era
che, se non si ammette un tale respecius non si riesce a comprendere la
composizione degli enti: giacchè se l’unione di a e b non è che gli stessi a e
5 assoluti, il composto di a e b non differisce in nulla da a e 5 separati,
perciò non è un composto (Op. Ox., II, d. 1, q. 4, n. 5). La dottrina veniva
seguita da tutti gli scrittori sco- tisti, ma combattuta da Ockham e dai
nomina- listi e terministi del sec. x1v (v. oltre). Nel sec. XVII Jungius
ancora faceva appello a tale dottrina, con- siderando la R. come habitudo o
respectus (Logica Hamburgensis, I, 8, 4). In epoca moderna, al pro- blema delle
R. è stata data un’impostazione ana- loga a quella di Duns da F. H. Bradley, il
quale ha mostrato che le R. non possono essere intese se non come attributi del
relativo e quindi come consistenti in una qualità o modificazione dei ter- mini
relativi. Ma in un modo o nell’altro la relazione è incomprensibile perchè non
fa che pre- dicare l’identico del diverso o il diverso dell’iden- tico
(Appearance and Reality, 1902, 2* ediz., pag. 21 seguenti). Questa dottrina
cosiddetta delle « R. in- terne » è stata specialmente combattuta dai logici
matematici. B) La seconda dottrina fondamentale della R. è quella che nega
l’oggettività e la realtà di esse e le considera accidentali o soggettive. Tale
dottrina fu presentata per la prima volta da Avicenna, che riproduceva un punto
di vista difeso dalla setta maomettana dei Motakallimun e si avvaleva di
corrispondenti tesi aristoteliche. Diceva Avicenna: « Se si pone che una R.
esista, subito bisogna dire che essa è un accidente, giacchè non vi è dubbio
che non si può intendere di per sì ma sempre di qualcosa rispetto a qualcosa »
(Mer., III, 10). Af- fermare il carattere accidentale delle R. equivaleva per
Avicenna a negarne la realtà: giacchè, come accidenti, le R. non sono sostanze.
Quando nel sec. xIV questa dottrina fu ripresa da filosofi nomi- nalisti e
terministi, assunse la forma di una ridu- zione della R. a pura sentità di
ragione», priva di realtà o fondamento fuori dell'anima umana. Tale è la
dottrina sostenuta da Enrico di Gand (Quodl., IX, q. 3; V, q. 6), Herveus
Natalis (Quodi., I, q. 9) e Pietro Aureolo. Quest'ultimo affermava: «La R. non
ha esistenza nelle cose, prescindendo da ogni apprensione intellettivo-sen-
sibile, ma esiste oggettivamente solo nell’anima poichè nelle cose non ci sono
se non fondamenti e termini: l’abitudine e la connessione delle cose deriva
dall'anima conoscitiva » (Z1 Sent., I, d. 30, q. 1). Questo fu pure il punto di
vista difeso da Ockham il quale istituì una critica minuziosa della dottrina
del respectus. Secondo Ockham questa dottrina moltiplicherebbe le entità
all’infinito: «Col movimento del mio dito riempirei tutto l’universo, il cielo
e la terra, di nuovi accidenti: giacchè mutando la posizione del dito rispetto
alle altre parti del cielo vi sarebbero altrettanti nuovi respectus in queste
parti che sono infinite e quindi infiniti nuovi accidenti» (Quod!. VII, q. 8;
In Sent., II, q. 2, Y). Ogni corpo conterrebbe per motivi analoghi infinite
realtà: giacchè ogni corpo può essere considerato doppio rispetto alla sua metà
e questa metà doppia della sua metà e così via (Quodl., VI, q. 10; Summa Log.,
I, 50). Ockham tuttavia non afferma il carattere puramente men- tale delle R.,
come aveva fatto Avicenna (v. oltre). Questa dottrina si riaffacciò nell’ambito
del carte- sianesimo. Fu difesa da Locke che considerò le R. come idee
complesse, consistenti « nel considerare e confrontare un’idea con un’altra»
(Saggio, II, 12, 7); e riconobbe esplicitamente il carattere soggettivo di
esse, pur non escludendo il loro rife- rimento alle cose. « Poichè i modi misti
e le R. non hanno altra realtà da quella che posseggono nello spirito umano, a
rendere reali questa specie di idee altro non si richiede se non che siano così
foggiate che vi sia la possibilità di un'esistenza conforme ad esse » (/bid.,
II, 30, 4). Leibniz a sua volta affermava che la realtà delle R. è mentale o fenomenica
(Nouv. Ess., II, 12, 7) e che pertanto esse «hanno una realtà dipendente dallo
spirito, come le verità, ma non dallo spirito degli uomini, perchè c’è
un'intelligenza suprema che le determina tutte in tutti i tempi » (/bid., II,
30, 4). In conformità di questo stesso concetto, Wolff definiva la R. come «ciò
che non conviene alla cosa assolutamente ma che s'intende solo quando essa
viene riferita ad altro» (Logica, $ 856); e aggiungeva che la R. « non aggiunge
alcuna realtà all’ente » (/bid., $ 857). La soggettività delle R. è poi il
principio fondamen- tale del kantismo (« Se sopprimessimo il nostro sog- getto
o anche solo la natura soggettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutte
le R. fra gli og- getti nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il
tempo sparirebbero» Crit. R. Pura, $ 8); e sullo stesso principio (il più delle
volte assunto implicitamente) è fondata buona parte della filo- sofia
contemporanea. C) La terza concezione fondamentale delle R. è quella che le
considera come non reali ma og- gettive. Ockham che è stato il più deciso
critico della realtà delle R. ne aveva anche affermato, a suo modo, il
carattere oggettivo. « Non è l’intel- letto, egli diceva, che rende Socrate
simile a un altro, più che non sia l’intelletto a renderlo bianco » (In Sent.,
I, d. 30, q. 1 P): il che vuol dire che la relazione, come intenzione o
concetto dell’anima, si riferisce a più cose isolate o è più cose isolate «come
il popolo è più uomini e nessun uomo è popolo » (/bid.). Tuttavia in queste
affermazioni, come in quelle di Locke e di altri che insistevano sul
riferimento oggettivo della R. (come concetto o idea) tale riferimento è inteso
come riferimento alla realtà. La caratteristica della dottrina moderna in pro-
posito è che la oggettività della R. non implica la sua realtà: cioè che il
riconoscimento che la R. sia oggettiva non significa che essa interceda in ogni
caso tra cose o entità reali. Questo senso della R. è strettamente connesso col
significato che l’essere predicativo ha assunto nella logica contemporanea (v.
EsseRE). Da questo punto di vista l’intera mate- matica e l’intera logica sono
state definite « scienze delle R.+ (v. Logica; MATEMATICA). In partico- lare,
per ciò che riguarda la logica, sia il ca/colo proposizionale sia quello delle
classi possono essere considerati come vertenti esclusivamente su R.: dal
momento che R. sono i connettivi: e, o, non, se... allora di cui si occupa il
calcolo proposizionale; e R. sono le entità di cui si occupa l’algebra delle
classi. Tuttavia il calcolo delle R. costituisce anche una branca specifica
della logica contemporanea, branca che è stata fatta avanzare specialmente da
E. Schròder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce {The Logic of Relatives,
1897, Coll. Pap., 3.456-526) In questo senso ristretto, si intendono per R. le
funzioni proposizionali diadiche o poliadiche cioè a due o più variabili, che
sono scritte nella forma f (x, }) 0, più frequentemente, nella forma xRy. Le
caratteristiche più generali della R. in questo senso sono le seguenti: 1° Se R
è tale che intercede non solo tra x e y ma anche tra y e x, la R. si dice
simmetrica. È, ad es., simmetrica la R. fra due fratelli. Nel caso contrario la
R. si dice asimmetrica. Le R. « prima», « dopo », «a sinistra di» sono
asimmetriche. 2° Se R è tale che quando x ha la R. R ayeyhalaR. Ra z, anche x
halaR. Raz, si dice transitiva. Sono transitive le R. « minore », 4 precede »,
«a sinistra»; è intransitiva la R. di paternità. 3° Se R è tale che nessun
termine sta nella R. R con se stesso, la R. si dice aliorelativa. Sono
aliorelative le R. « fratello +, « marito », « padre », ecc. 4° Se R è tale
che, dati due diversi termini del campo, x e y, può intercedere tra x e y o tra
yexotraxe yetra yex, la R. si dice coerente. È coerente la R. «maggiore o
minore», non è coerente la R. «antenato ». 5° Il termine x che ha la R. R ad
uno 0 più termini (y, z...) si chiama dominante; mentre si chiamano dominanti
inversi i termini con cui il termine x ha la R. R cioè i termini y, z, ecc.
Nella R. di « paternità », padre è il dominante, figli sono i dominanti
inversi. 6° Il campo di una R. consiste nell’insieme del dominante e dei
dominanti inversi. Nel caso della R. di paternità, il campo è l’insieme
padre-figli. 7° Si dice che una R. ne implica un’altra, se questa è valida ogni
qualvolta che la prima è valida. Queste nozioni elementari definiscono la
natura oggettiva, tuttavia non reale, delle R. così come sono costantemente
adoperate dalla logica e dalla matematica contemporanee. Si tratta di caratte-
ristiche che generalizzano al massimo la nozione di R., permettendo di
includere in essa, e di chia- rire con essa, i concetti più disparati (cfr.
WHI- TEHEAD and RUSSELL, Principia mathematica, vol. I, 1925). Per
un’esposizione sommaria della nozione delle R. in ordine ai concetti
fondamentali della matematica cfr., dello stesso RUSSELL, Introduction to
Mathematical Philosophy, 1918; trad. ital., 1947. Per gli aspetti matematici
cfr. W. v. O. QuInE, Me- thods of Logic, 1952, specialmente $ 40. RELIGIONE (lat.
Religio; ingl. Religion; fran- cese Religion; ted. Religion). La credenza in
una garanzia soprannaturale offerta all'uomo per la propria salvezza; e le
tecniche dirette a ottenere o conservare questa garanzia. La garanzia, cui la
R. fa appello, è soprannaturale nel senso che va al di là dei limiti cui
possono giungere i poteri ri- conosciuti propri dell’uomo; che agisce 0 può
agire anche là dove tali poteri sono riconosciuti impotenti; e che il suo modo
d’azione è misterioso o imperscrutabile. L'origine soprannaturale della
garanzia non implica necessariamente che essa sia offerta da una divinità e che
pertanto il rapporto con la divinità sia necessario alla R.: in realtà esistono
R. atee; e tale fu il buddismo pri- mitivo, ripreso o difeso in questo suo carattere
anche da scuole posteriori (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, pag.
71 sgg.; 312 sgg.). Inoltre la determinazione del rapporto dell’uomo con la
divinità, quindi il compito di dimostrare l’esistenza di essa e di chiarire i
suoi caratteri e le sue fun- zioni nei confronti dell’uomo e del mondo, è stato
spesso ritenuto proprio della filosofia più che della R.; e l’assolvimento di
quel compito può anche avere carattere anti-religioso, come è accaduto nel-
l’epicureismo che ha inteso stabilire nello stesso tempo l’esistenza della
divinità e la sua indifferenza al mondo e agli uomini, regolando su questa base
i rapporti di essa con l’uomo (EPICURO, Lettera a Meneceo, 123-24; FILODEMO, De
pietate, pag. 122; fr. 38, Usener). Dall'altro lato questo stesso rap- porto
tra l’uomo e Dio è oggi, da alcuni teologi, ritenuto proprio della fede anzichè
della R. perchè indipendente dalle forme mitiche che la R. ha as- sunto ed è
costitutivo dell’esistenza umana nel mondo (v. FepE; Dro; Dio, MORTE DI). In ogni
caso, la salvezza di cui la R. intende essere la garanzia, non è
necessariamente la sal- vezza da questo o quel male o dai mali del mondo: può
anche essere una salvezza dal mondo consi- derato come un male nella sua
totalità, come in- fatti accade nello stesso buddismo. Nella definizione
proposta, inoltre, occorre sottolineare la differenza tra la credenza nella
garanzia soprannaturale e le tecniche dirette a ottenere o conservare tale ga-
ranzia. Per tecniche s’intendono tutti gli atti o le pratiche del culto:
preghiera, sacrificio, rito, ceri- monia, servizio divino o servizio sociale.
La cre- denza nella garanzia soprannaturale è l’atteggia- mento religioso
fondamentale che può anche essere semplicemente interiore o privato e
costituisce la religiosità individuale; le tecniche dirette a ottenere e
conservare quella garanzia costituiscono invece il lato oggettivo e pubblico
della R., il suo aspetto istituzionale. Una R. naturale è costituita sempli-
cemente da quell’atteggiamento; una R. positiva è costituita essenzialmente da
queste tecniche. Il concetto di R. comprende tuttavia entrambi gli aspetti.
Etimologicamente, la parola significa probabilmente « obbligazione +; ma
Cicerone la fece derivare da relegere: « Quelli che compivano con accortezza
tutti gli atti del culto divino e per così dire li rileggevano attentamente,
furono detti religiosi da relegere, come eleganti da elegere, diligente da
dili- gere e intelligenti da intelligere; infatti in tutte queste parole si
nota il medesimo valore di /egere che c’è in R.» (De nat. deor., JI, 28, 72).
Lattanzio invece (/nsr. Div., IV, 28) e S. Agostino (Retract., I, 13) fanno
derivare la parola da religare; e Lattanzio cita a questo proposito
l’espressione di Lucrezio « scio- gliere l'animo dai nodi della R.» (De nat.
rer., I, 930). È pure da notare che il greco non possiede l’esatto equivalente
della parola latina e moderna. Aarpela significa servizio divino e si riferisce
per- tanto solo al secondo degli elementi della reli- gione. S. Agostino (De
Civ. Dei, X, 1) stabiliva la corrispondenza tra religio e Opnorele; ma anche
questa parola si riferisce esclusivamente alle tecniche della religione. Le
diverse definizioni che sono state date della R. possono essere classificate
sul fondamento dei due fondamentali problemi cui esse rispondono cioè: I. Sul
fondamento del problema dell’origine della R. che è poi in realtà il problema
del tipo di validità propria della R.; II. Sul fondamento del problema della
funzione riconosciuta propria della R. cioè del carattere specifico della
garanzia che essa offre alla salvezza dell’uomo. I. Come accade anche in altri
casi, il problema dell’origine è in realtà il problema del tipo di vali- dità
che s’intende riconoscere alla R. stessa. Si possono distinguere tre soluzioni
di questo pro- blema cioè: 1° la dottrina dell’origine divina della R.; 2° la
dottrina dell’origine politica della R.; 3° la dottrina dell’origine umana
della religione. 1° La dottrina dell’origine divina della R. esprime il
riconoscimento del valore assoluto (0 infinito) della R. stessa. Ovviamente, la
pretesa di un’origine soprannaturale o divina è intrinseca ad ogni R. giacchè
ogni R. pone a suo fondamento una rivelazione originaria che ne garantisca la
verità oppure considera come continuamente con- fermate da testimonianze
soprannaturali le credenze e le istituzioni con cui si identifica: il che vale
lo stesso. Perciò, dal punto di vista della filosofia il riconoscimento
dell’origine divina o del valore assoluto della R., si effettua mediante la
tesi che la R. è rivelazione. Questa tesi è, si può dire, nien- t’altro che
l’espressione filosofica del valore asso- luto che la R. riconosce a se stessa.
Questo punto di vista è stato espresso con tutta chiarezza da Hegel: « Nel
concetto della vera R., egli ha detto, cioè di quella il cui contenuto è lo
Spirito asso- luto, è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, cioè
rivelata da Dio» (Enc., $ 564). Ed Hegel ag- giunge che «se a Dio si nega la
rivelazione non resterebbe altro contenuto da attribuirgli che l’in- vidia. Ma
se la parola spirito deve avere un sensoesso significa la rivelazione di sè»
(/bid., $ 564). Non diverso da questo è il concetto che della R. dette
Schleiermacher: «L'universo è un'attività ininter- rotta e ci si rivela in ogni
momento. Ogni forma che esso produce, ogni essere al quale dà, per la pienezza
della sua vita, un'esistenza particolare, ogni avvenimento che esso partorisce
dal suo seno sempre ricco e fecondo, è un’azione che esso eser- cita su di noi;
e così accettare ogni cosa partico- lare come una parte del Tutto, ogni cosa
finita come un’espressione dell’Infinito, in ciò consiste la R. + (Reden iiber
die Religion, 1799, II; traduzione ital., pag. 39). La stessa dottrina si può
esprimere dicendo che la R. è l’esperienza del divino e che essa, come ogni
esperienza, rivela la realtà del suo oggetto. Questo è il concetto che Bergson
dette della R. autentica cioè del misticismo: «Se le so- miglianze esteriori
tra i mistici cristiani possono dipendere da una comunanza di tradizioni e di
insegnamenti, il loro accordo profondo è segno di una identità di intuizione
che si può spiegare più semplicemente con l’esistenza reale dell’essere con cui
si credono in comunicazione» (Deux sources, III; trad. ital., pag. 270-71). 2°
La dottrina dell’origine politica della R. riduce la R. stessa ad uno
stratagemma politico: perciò riduce a zero il valore intrinseco di essa. Questa
dottrina fu per la prima volta sostenuta da Critia, uno dei trenta tiranni di
Atene. Secondo Critia «gli antichi legislatori finsero la divinità come una
specie di ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, affinchè nessuno
recasse ingiuria o tra- dimento al suo prossimo, per paura di una vendetta
degli dèi ». Questo stratagemma fu reso necessario dal fatto che « le leggi distoglievano
bensì gli uomini dal compiere aperte violenze ma che essi le com- mettevano di
nascosto » sicchè « un qualche uomo ingegnoso ed esperto inventò per gli uomini
il timore degli dèi onde ci fosse uno spauracchio per i mal- vagi anche per
quello che di nascosto facessero, di- cessero o pensassero » (Sesto EMmP., Adv.
Math., IX, 54). Concezioni analoghe ricorrono di tanto in tanto nella storia
della filosofia: si possono riconoscere nel libertinismo e in talune correnti
del- l’illuminismo e del marxismo. 3° La dottrina dell’origine umana della R. è
quella che la considera come una formazione umana, che ha le sue radici nella
situazione del- l’uomo nel mondo. Questa dottrina non è impe- gnata ad
attribuire alla R. una validità determinata: è piuttosto impegnata a
comprenderla come un fe- nomeno umano ed a esprimerla in un concetto abbastanza
esteso da comprendere le sue manife- stazioni disparate. La considerazione
della R. da questo punto di vista si è orientata verso due tipi di spiegazione.
Il primo ha considerato la religione come una forma di appagamento del bisogno
feo- retico cioè del bisogno di conoscenza. Il secondo ha considerato la
religione come suggerita all’uomo dalla situazione in cui egli viene a trovarsi
nel mondo e cioè, sostanzialmente, dai suoi bisogni pratici. Una soluzione del
primo tipo fu quella data da Epi- curo che vedeva l’origine della R. nelle
immagini dei sogni e nel bisogno dell’uomo di spiegare la regola- rità dei
movimenti celesti (LUCREZIO, De nat. rer., V, 1167 sgg.). La R. sarebbe
contemplativa più che pratica. Fu Hobbes il primo a riconoscere la sua origine
pratica. Facendo proprio il detto di Stazio -« Primus in orbe deos fecit timor
+ (Theb., III, 661), Hobbes riconosceva la causa principale del sorgere della
R. nel timore che deriva all'uomo dalla sua incertezza per il futuro. «Dal
momento che è sicuro che vi sono cause di tutte le cose che sono state o
saranno, è impossibile per l’uomo che cerca con- tinuamente di garantirsi
contro i mali che teme e di procurarsi i beni che desidera, di non vivere nella
perpetua preoccupazione del tempo a ve- nire cosicchè ogni uomo, e specialmente
quello più previdente, vive in uno stato simile a quello di Prometeo ». Da
questo stato di timore nonchè dalla speranza di vedersi assicurati i beni di
cui ha bi- sogno e dal desiderio di raggiungere una cono- scenza completa del
mondo, nasce, secondo Hobbes, la R. (Zeviath., I, 12). Una dottrina analoga, ma
esposta in modo più articolato fu ripresentata da Hume nella Storia naturale
della religione (1757). La R. non sorge dalla contemplazione ma dall’in-
teresse dell’uomo per gli eventi della vita e quindi dalle speranze e dai
timori incessanti che lo agitano. Sospeso fra la vita e la morte, tra la salute
e la malattia, tra l'abbondanza e la privazione, l’uomo attribuisce a cause
segrete e sconosciute i beni di cui gode e i mali da cui è continuamente minac-
ciato (Natural History of Religion, II, in Essays, II, pag. 316). Voltaire così
esponeva lo stesso con- cetto: «È naturale che un paese, spaventato dal tuono,
afflitto dalla perdita delle sue messi, maltrat- tato dal paese vicino,
sentendo tutti i giorni la sua debolezza, sentendo dappertutto un potere
invisibile, abbia infine detto: ‘ C’è qualche essere al di sopra di noi che ci
fa del bene e del male » (Dicrionnaire philosophique, 1764, art. Religion, Il).
Questa dottrina ha subìto un’eclissi sino ai primi decenni del sec. xx. Da un
lato infatti il concetto ro- mantico della R. come rivelazione o sentimento
del- l’infinito fu partecipato anche da filosofi che nega- vano la validità
della religione. Feuerbach, ad es., trasformando la teologia in antropologia,
affermava: «La R. è la coscienza dell’infinito: perciò essa non è e non può
essere altro che la coscienza che l’uomo ha, non della limitazione, ma
dell’infinità del suo essere » (Wesen der Christenthum, 1841, $ 1). Max Miiller
analogamente vedeva l’essenza della R. nella potenziale capacità umana di «
afferrare l’in- finito » (Vorlesungen iber den Ursprung und die Entwicklung der
Religion, 1880, pag. 28). Per quanto con queste espressioni si intendesse
sotto- lineare l’origine umana della R., si faceva tut- tavia uso di concetti
che erano meglio serviti ad esprimere l’origine divina e il valore assoluto
della R. stessa. Dall’altro lato, anche nel campo dell’in- dagine sociologica,
la quale cominciava a prendere in esame le forme che la R. assume presso i
popoli primitivi, si manifestava la tendenza a considerare la R. sotto l'angolo
visuale della contemplazione, interpretandola come una concezione del mondo (o
filosofia) grossolana bensì ma non priva di una certa coerenza. E. B. Tylor
vedeva l’essenza della R. primitiva nell’animismo (v.) cioè nella credenza in
esseri spirituali assunti come presenti in tutte le cose e come cause di tutti
gli eventi (Primitive Culture, 1871). La R. sarebbe così una metafisica della
natura. Una metafisica della società essa sarebbe invece secondo Durkheim, per
il quale essa « è il mito che la società fa di se stessa » nel senso che «
quella realtà che le mitologie si sono rappre- sentate sotto tante forme
differenti, ma che è la causa obbiettiva universale ed eterna di quelle sen-
sazioni sul generis di cui è fatta l’esperienza reli- giosa, è la società »
(Formes élémentaires de la vie religieuse, 1937, pag. 597). Ciò vuol dire che
la R. primitiva consiste nell’attribuire a una supposta realtà i caratteri
stessi della società primitiva: cioè quei caratteri che la società primitiva
ritiene essen- ziali a se stessa. Queste tesi di Durkheim si fonda- Vano soprattutto
su una interpretazione del rfore- mismo. Il totem è secondo Durkheim il simbolo
della forza che sostiene l’individuo: forza che è la società stessa; e da
questa veramente la mente primitiva attinge tutte Je sue categorie per l’inter-
pretazione del mondo. In tal modo, la R. conserva per Durkheim un carattere
contemplativo: carat- tere che viene ad essa anche riconosciuto dall’altro
grande sociologo francese Lucien Lévy-Bruhl, che esprime questa tesi
identificando con il misticismo non soltanto la R. ma l’intera vita dei popoli
primitivi (L’expérience mystique et les symboles chez les primitifs, 1938). Per
tutti questi indirizzi filosofici e sociologici la R. è, alla sua origine, un
fatto cono- scitivo: è un tentativo di spiegarsi il mondo o di formarsene
un’idea in base a un certo numero di esperienze più frequentemente ricorrenti
nella vita degli uomini. Il ritorno alla concezione settecentesca della R. cioè
alla concezione che vede la radice di essa nella situazione dell’uomo nel
mondo, si effettua soltanto negli indirizzi più moderni e critici della
sociologia. Cominciò W. Robertson Smith a in- 745 sistere sull’importanza che,
nella R. primitiva, ha il secondo dei due elementi della R. cioè le tec- niche.
«La R. nei tempi primitivi non fu un si- stema di credenze con applicazioni
pratiche; fu un corpo di pratiche tradizionalmente fissate alle quali ogni
membro della società si conformava naturalmente. Gli uomini formano regole
generali di condotta prima di cominciare ad esprimere in parole i princìpi generali;
le istituzioni politiche sono più vecchie delle teorie politiche e in ma- niera
simile le istituzioni religiose sono più vecchie delle teorie religiose »
(Lectures on the Religion of the Semites, 1907, pag. 16). Più tardi l’opera di
G. Frazer (The Golden Bough, 1911-14) mostrava la stretta connessione tra R. e
magia, partendo dalla considerazione che l’uomo è dominato in primo luogo dalla
preoccupazione di controllare gli eventi naturali allo scopo di piegarli alle
esi- genze della vita. La differenza tra la magia e la R. consiste, secondo
Frazer, in questo: che la prima tende al diretto controllo degli eventi
naturali mentre la seconda cerca le vie di propiziarsi le potenze su- periori
che presiedono alla natura. Questa dot- trina è quella che ha avuto la migliore
accoglienza da sociologi e filosofi. A. Loisy sosteneva un punto di vista assai
vicino a quello di Frazer (Essai hi- storique sur le sacrifice, 1920) e B.
Malinowski portava nuove prove alla stessa tesi. Secondo Ma- linowski la R. e
la magia sorgono e funzionano entrambe in situazioni di tensione emozionale:
crisi della vita, riuscite infelici, morte e iniziazione ai misteri della
tribù, amori infelici e odii insoddi- sfatti. R. e magia concordano anche
nell’offrire una via d’uscita da tali situazioni mediante credenze e pratiche
che si riferiscono al dominio del sopran- naturale. Si distinguono tuttavia tra
di loro, in quanto la magia ba una tecnica limitata e semplice, la R. comprende
un insieme di tecniche; la magia è limitata a una classe di persone che fa di
essa la sua professione; la R. invece è una faccenda di tutti e ogni individuo
vi ha parte attiva. E infine le funzioni dell’una e dell’altra sono diverse: la
fun- zione della magia è quella di sopperire, con stru- menti soprannaturali,
alla mancanza o all’imper- fezione degli strumenti naturali, mentre la funzione
della R. è quella di rafforzare certi speciali atteggia- menti: il coraggio e
la fiducia nella lotta contro le difficoltà (Magic, Science and Religion,
1925). Non molto diversa da questa, sebbene espressa in termini teologici e
mistici, fu la tesi difesa da Rudolf Otto nel suo libro intitolato // sacro
(1917). Dalla paura, secondo Otto, deriva il sentimento di essere davanti a un
potere superiore, che si cristallizza in ciò che egli chiama il tremendum o la
maiestas; dal senso di disperazione, di impotenza e di insignificanza deriva il
sentimento creaturale descritto nell’Antico testamento, e dalle fantasie
compensatrici nasce in- fine il concetto di ciò che è completamente altro, che
si mescola con gli eventi più familiari senza cessare di apparire nuovo ed
estraneo. Gli ingre- dienti costitutivi del soprannaturale erano così ri-
condotti, anche da Otto, alla situazione dell’uomo nel mondo. La quale rimane
il punto di partenza delle più moderne teorie della religione. Secondo Freud la
R. «dà agli uomini informazioni circa la sorgente e l’origine dell’universo,
garantisce ad essi la protezione e la felicità finale fra le mutevoli vicende
della vita e guida i loro pensieri e le loro azioni per mezzo di precetti che
sono appoggiati dall’intera forza della sua autorità » (A New Series of
Introductory Lectures on Psycho-Analysis, 1933, pag. 220). Su questi fondamenti
Freud pensa che la R. consista nella credenza in un padre sopran- naturale che
salvaguarda gli uomini dai pericoli e li compensa e punisce a seconda dei casi.
Il rap- porto fra l’uomo e la divinità si modellerebbe così sul rapporto tra
figlio e padre (/bid., pag. 222 sgg.). Prescindendo dallo sfondo psicanalitico
di questa concezione, i suoi caratteri non sono diversi da quelli delle altre
cui si è fatto riferimento: la R. è intesa come un correttivo, una difesa o una
pro- testa nei confronti della situazione di incertezza e di pericolo in cui
l’uomo è nel mondo. Tale è anche il concetto che Bergson ha dato della R.
statica, al quale egli ha contrapposto la R. dinamica cioè il misticismo. La R.
statica sarebbe infatti «la reazione difensiva della natura contro il po- tere
disgregatore dell’intelligenza »; nel senso che l’intelligenza fa vedere
chiaramente all’uomo l’in- certezza e pericoli della vita e l’inevitabilità
della morte, mentre la R. sarebbe l’insieme delle rea- zioni difensive contro
le rappresentazioni intellet- tuali della condizione umana nel mondo (Deux sources,
1932, cap., II; trad. ital, pag. 131 sgg.). Limitatamente alla R. primitiva,
una tesi analoga è stata difesa sulla base di un vasto materiale docu- mentario
da P. Radin nel suo libro sulla R. dei pri- mitivi(Primitive Religion, its
Nature and Origin, 1937). II. Il secondo problema del quale le definizioni
proposte della R. intendono costituire risposte è quello della funzione
specifica della religione. Questo problema può essere inteso in due sensi. In
primo luogo, come problema della garanzia che la R. pretende offrire alla
salvezza dell’uomo e di questo problema si possono addurre tre soluzioni prin-
cipali: 1° la R. come liberazione dal mondo; 2° la R. come verità; 3° la R.
come moralità. In secondo luogo, il problema stesso può essere inteso dal punto
di vista della funzione che la R. esercita nella so- cietà o nell'economia
generale della vita umana (4°). 1° La garanzia che la R. pretende di of- frire
all'uomo può essere innanzitutto quella della liberazione dal mondo,
considerato nella sua tota- lità come un male. Questa è la dottrina propria del
buddismo: « Non c’è da godere di ciò che è nato e diventato, di ciò che si è
formato e costituito, che è instabile, dipendente dalla vecchiezza e dalla
morte, nido di malattie, fragile, sorto per il transito di cibo. Fuggire da
questo stato vuol dire trovare un altro stato tranquillo, al di là del dominio
del pensiero, stabile, non nato, non formatosi, senza dolore, senza passione,
gioia che pon fine ad ogni condizione di miseria e distrugge per sempre ogni elemento
di esistenza » (Ztivuttaka, 43; trad. Pavolini). Questo stato in cui
l’esistenza stessa è distrutta è il nirvana. Ma secondo lo stesso buddismo il
nirvana è anche lo stato di beatitudine di chi già in questa vita ha eliminato
da sè il desiderio e quindi il germe della futura esistenza. Sotto questo
aspetto, dallo stesso buddismo, la salvezza è concepita non solo come
liberazione dal mondo ma anche come liberazione dai mali del mondo. Questi due
aspetti sono in realtà presenti in molte R. tranne che nella R. d'Israele che
ignora il primo: la promessa di una beatitudine che è al di là del mondo o che
si rag- giungerà solo dopo la morte va abitualmente con- giunta con la promessa
di una felicità, di una pace o di un benessere nella stessa esistenza mondana.
Quando la felicità o la pace si può raggiungere in questa esistenza solo
oltrepassando la condizione umana e deificandosi cioè unendosi con Dio o col
principio cosmico, si ha il misticismo (v.). Nel misticismo, Bergson ha visto
la R. dinamica, la continuazione super organica dello slancio vitale, l’impulso
verso la creazione di una società nuova fondata sull’amore universale (Les deux
sources, 1932, cap. III). In realtà il misticismo non è che una determinata
soluzione del problema della salvezza ed è la soluzione propria di una
religiosità pri- vata, contemplativa e solitaria cui ogni attività e i rapporti
stessi fra gli uomini risultano estranei e insignificanti. 2° Che la R.
contenga la garanzia infal- libile della propria verità e di ogni verità che
possa essere collegata con essa, è pretesa implicità in ogni R. come tale. Dal
punto di vista filosofico questa stessa tesi si presenta nella forma dell’iden-
tità tra R. e filosofia e della differenza puramente formale tra esse. Questa
fu, per es., la dottrina sostenuta da Hegel: « La filosofia ha i suoi oggetti
in comune con la R. perchè oggetto di entrambe è la verità, e nel senso
altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la verità » (Enc., $
1). La R. tuttavia si distingue dalla filosofia in quanto esprime la verità non
nella forma del con- cetto ma in quella della rappresentazione e del sen-
timento. «La R., dice Hegel, è il rapporto con l’Assoluto nella forma del
sentimento, della rap- presentazione, della fede; e nel suo centro onni- comprensivo,
tutto è soltanto come qualcosa di accidentale e di evanescente » (Fi/. del
Dir., $ 270). Il che vuol dire che ciò che la R. intuisce in modo accidentale,
approssimativo e confuso, la filosofia dimostra con necessità (Enc., $ 573). È
chiaro tuttavia che la dottrina dell’identità tra R. e filosofia può anche
essere affermata dal punto di vista della superiorità della R. come forma o ri-
velazione della verità: così fa quella filosofia della fede di Haman, Herder e
Jacobi contro la quale lo stesso Hegel polemizza (v. FEDE, FILOSOFIA DELLA). È
tuttavia evidente che in tal caso non è alla R. che si affida la garanzia della
verità, ma ad un organo, la fede, dalla quale dipendono, quanto alla loro
validità, sia la filosofia sia la R. sia ogni altro sapere. Perciò l’attribuire
alla R., come og- getto specifico, la verità significa il più delle volte, dal
punto di vista filosofico, attribuirle la funzione di manifestare la verità in
una forma, che è bensì infallibile e certa, ma inferiore a quella che la verità
stessa può assumere nella filosofia. Così secondo Gentile, la R. è
«l’esaltazione dell’og- getto sottratto ai vincoli dello spirito, in cui con-
siste l’idealità, la conoscibilità e razionalità del- l'oggetto stesso »
(Teoria gen. dello spirito, 1913, XIV, 7). L'essenza della R. è perciò il misti
cismo che è l’annullamento del soggetto nell’og- getto e per cui l'essere di
Dio è il non essere del soggetto (Discorsi di religione, 1920, pag. 78). La R.
trova la sua verità solo nella filosofia che risolve Dio nell’atto del
pensiero. « Questo Dio come può essere volontà da riconoscere e pregare e
deprecare e a cui subordinarsi, se Dio è dentro all'uomo, al suo io, ed è
propriamente il suo io nel suo attuarsi? » (Sistema di logica, II, 1922, IV, 8,
4). In modo più chiaro e sbrigativo Croce ha detto che la R. è una forma
provvisoria e im- perfetta della filosofia, per cui il filosofo dovrebbe
vedere nell’uomo religioso « il suo
fratello minore, il suo se stesso di un momento prima » (Fil. della pratica,
1909, pag. 314). 3° Che la R. offra una garanzia ai valori morali dell’uomo,
intendendosi per morali i valori che presiedono all’ordine della vita
associata, è credenza assai antica. Era questo il compito fon- damentale che
Platone attribuiva alla R.: «La di- vinità che, secondo la tradizione, regge il
principio e la fine e il corso di tutti gli esseri, procede secondo la sua
natura nel suo andamento circolare; e ad essa tien dietro sempre la giustizia
punitiva per coloro che hanno abbandonato la legge divina» (Leggi, 715 e, 716
a). Nel mondo moderno questo punto di vista è stato assunto e difeso da Kant.
«La R., egli ha detto, considerata dal punto di vista soggettivo, è la
conoscenza di tutti i nostri doveri come co- mandi divini. Quella in cui io
devo prima sapere che qualcosa è un comando divino per riconoscerla poi come
mio dovere, è la R. rivelata (o che esige una rivelazione); quella invece in
cui io devo sa- pere che qualcosa è un dovere prima che la possa ri- conoscere
come un comando divino è la R. naturale + (Religion, IV, sez. I). Kant osserva
che questa de- finizione della R. previene parecchie interpretazioni false del
concetto di essa. In primo luogo, infatti, esclude che la R. richieda una
scienza di Dio e include che per essa basta possedere la semplice idea di Dio.
In secondo luogo quella definizione previene «la falsa idea che la R. sia un
insieme di doveri speciali che si riferiscono immediata- mente a Dio» e perciò
impedisce di ammettere, oltre i doveri umani etico-sociali, «i servizi da
cortigiani con i quali potremmo tentare di com- pensare le nostre mancanze ai
doveri della prima specie » (/bid., IV, sez. I, Nota). In questa inter-
pretazione tuttavia ciò che la R. garantirebbe è l’assolutezza del comando
morale: non garantirebbe invece (perchè rientra nella sfera della libertà
umana) l'effettuazione del comando morale cioè la vera e propria realizzazione
dei valori morali nel mondo. Alla R., tuttavia, si chiede o si attribuisce il
più delle volte proprio questa seconda specie di ga- ranzia: la garanzia cioè
che i valori morali, e in generale quelli che interessano l’uomo e la sua vita
spirituale, non siano unicamente affidati alla buona volontà degli uomini ma
trovino nella prov- videnza divina una loro salvaguardia infallibile che ne
garantisca il trionfo finale. In questo senso H. Héffding ha affermato che la
R. è «la credenza nella conservazione dei valori » (Religionsphilo- sophie,
1902, pag. 13): la fede religiosa sarebbe la convinzione « della saldezza,
certezza e della inin- terrotta connessione della relazione fondamentale dei
valori con la realtà» (/bid., 1902, pag. 105). Questo è proprio quell’ottimismo
provvidenzialistico che molti indirizzi filosofici, idealistici e spiritua-
listici desumono o credono di desumere dalla R. e in nome del quale
istituiscono più o meno inte- ressate apologetiche religiose. 4° Considerando
la funzione della R. non già nei confronti della garanzia soprannaturale che
essa pretende di offrire ma nei confronti dei rap- porti inter-umani, tra i
quali essa si inserisce come sistema di credenze e di istituzioni, si può
agevol- mente mettere in luce l’utilità biologica e sociale della R. stessa. Non
che l’accordo tra i filosofi sia unanime su questo punto. Sostenendo la non
ingerenza della divinità nelle faccende umane gli Epicurei avevano di mira
l'eliminazione del timore degli dèi e consideravano pertanto la R. come fonte
aggiuntiva di preoccupazione e paura e non come aiuto (cfr. EricuRro, Ep. a
Meneceo, 123; Ep. a Erodoto, T7; Mass. Cap., 1). Anche qualche sociologo
contemporaneo non manca di osservare che spesso i riti religiosi e le credenze
con essi associate sono fonti di angoscia sicchè l’effetto psicologico del rito
sembra quello di creare nel- l’uomo un senso di insicurezza e di pericolo (cfr.
A. R. RADCLIFFE-BROWN, Structure and Func- tion in Primitive Society, 1952,
pag. 148-49). Ma anche in questo caso si può riconoscere la funzione sociale
della R. e cioè il rafforzamento ad essa dovuto dei vincoli sociali,
soprattutto nella società primitiva (Ibid., pag. 157 sgg.). A. Loisy diceva: «
Abbandonato alla mercè degli elementi, delle sta- gioni, di ciò che la terra
gli dà e gli rifiuta, delle buone o cattive possibilità della sua caccia o
della sua pesca, delle vicende delle sue lotte con i suoi simili, l’uomo crede
trovare il mezzo per regolariz- zare con simulacri di azione le sue possibilità
più o meno incerte. Ciò che egli fa non serve a niente rispetto allo scopo che
si propone, ma egli acquista fiducia nelle sue imprese, in se stesso, osa e
osando ottiene realmente più o meno ciò che vuole. Fiducia rudimentale e
attraverso un’umile strada; ma è il cominciamento del coraggio morale » (Essai
histo- rique sur le sacrifice, 1920, pag. 533). Questo punto di vista fu più
tardi sviluppato da Malinowski (Magic, Science and Religion, ed. Anchor Books,
1925, pag. 89). Ed è come si è visto più o meno il punto di vista di Bergson. È
un punto di vista che i sociologi hanno riscontrato soprattutto nei confronti
delle società primitive; ma è pur noto (v. PRIMITIVI) che la sociologia
contemporanea tende a eliminare l’abisso tra mentalità primitiva e mentalità
secondaria o civile. AI di là dei limiti in cui le tecniche razionali gli
consentono il con- trollo degli eventi che lo interessano, limiti, nono- stante
tutto, assai ristretti, l’uomo rivendica di fatto la sua libertà di fede e si
affida a credenze libera- trici o consolatrici e a tecniche che gli promettono
una salvezza immancabile. Che egli possa o non possa ottenere da queste
tecniche ciò che promet- tono, la loro funzione è ben chiara: quella di dargli
speranza e coraggio e di consolidarlo nel suo rap- porto con gli altri uomini e
con il mondo. RES DE RE NON PRAEDICATUR. La massima di Abelardo (riferita da
GIOVANNI DI SA- LIsBuRY, Metalogicus, II, 17), secondo la quale l’universale
non può essere nè una cosa nè una voce ma soltanto un’espressione (sermo)
giacchè solo l’espressione può essere predicata di più cose (v. UNIVERSALE). RESIDUI E DERIVAZIONI (ingl.
Residues and Derivations; franc. Résidus et dérivations). Con questi termini Vilfredo Pareto designò i due
fattori delle teorie non scientifiche che corrispondono ai due fattori delle
teorie scientifiche, cioè alle affer- mazioni sperimentali e alle deduzioni
logiche. I residui sono gli istinti, i sentimenti, gli inte- ressi, ecc., che
costituiscono i materiali delle teorie non scientifiche; e le derivazioni sono
le sistemazioni logiche o pseudologiche date a tale materiale (Traf- tato di
sociologia generale, 1916, $ 803, 850, 870, 1397). Cfr. la discussione di
questa dottrina in TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action, 2* ediz.,
1949, pag. 196 sgg. RESIDUI, METODO DEI (ingl. Method of Residues; franc. Méthode des résidus;
ted. Rilck- standsmethode). Uno dei quattro
metodi della ri- cerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e pre- cisamente
quello espresso dalla regola: « Sottratta da un fenomeno la parte che si è
riconosciuta, per precedenti induzioni, come l’effetto di certi ante- cedenti,
il residuo del fenomeno è l’effetto dei rima- nenti antecedenti » (Logic, III,
8, $ 5) (v. Concomi- TANZA; (CONCORDANZA; DIFFERENZA). RESIDUO FENOMENOLOGICO
(tedesco Phanomenologische Residuum). Così Husserl ha chia- mato l’essere
proprio della coscienza in quanto «non viene toccato nella sua assoluta essenza
dalla neutralizzazione fenomenologica » cioè dall’epoché (Ideen, I, $ 33).
RESPONSABILITÀ (ingl. Responsibility; franc. Responsabilité; ted. Verantwortlichkeit).
La possibilità di prevedere gli effetti del proprio com- portamento e di
correggere il comportamento stesso in base a tale previsione. La R. è cosa
diversa dalla semplice imputabilità (gr. alzia; lat. Imputatio; in- glese
Imputability; franc. Imputabilité; ted. Zure- chenbarkeit) che significa
l’attribuzione di un’azione a un agente come alla sua causa. Alla nozione di
imputabilità faceva riferimento Platone quando, a proposito della scelta che le
anime fanno del proprio destino affermava: « Ciascuno è la causa della propria
scelta, la divinità non ne è imputabile» (Rep., X, 617e; cfr. Timeo, 42 d).
Wolff definiva l'imputazione come « il giudizio con il quale l’agente è
dichiarato causa libera di ciò che consegue dalla sua azione cioè del bene o
del male che da essa derivano sia a lui stesso sia agli altri » (Phi/osophia
practica, I, $ 527). E questa definizione era sempli- cemente ripetuta da Kant:
«L’imputazione (im- putatio) nel significato morale è il giudizio per mezzo del
quale qualcuno è considerato come au- tore (causa libera) di un’azione che è
sottomessa a leggi e si chiama fatto » (Mer. der Sitten, I, Intr., IV).
L’imputabilità così intesa è un concetto com- pletamente diverso da quello di
responsabilità. Il concetto e il termine di R. sono recenti e compaiono per la
prima volta in inglese e in fran- cese nel 1787 (precisamente compaiono in
inglese nel Federalist di Alessandro Hamilton, folio 64; cfr. R. McKron, in
Revue Internationale de Phi- losophie, 1957, n. 1, pag. 8 sgg.). Il primo
signi- ficato del termine fu quello politico, in espres- sioni come «governo
responsabile» o «R. del governo » che esprimevano il carattere per cui il
governo costituzionale agisce sotto il controllo dei cittadini ed in vista di
questo controllo. In filosofia, il termine fu usato nelle dispute sulla
libertà; e tornò utile soprattutto agli empiristi inglesi che vollero mostrare
l’incompatibilità di un giudizio morale con la libertà e con la ne- cessità
assolute (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst.,
VIII, 2; STUART MILL, nota alla Analysis of the Phenomena of the Human Mind di
J. Mit, 1869, II, pag. 325). La
nozione di R. è infatti fondata su quella della scelta e la nozione di scelta è
essen- ziale al concetto della libertà limitata (v. LIBERTÀ). È chiaro infatti
che nel caso della necessità, la previsione degli effetti non potrebbe influire
sul- l’azione; e che tale previsione non potrebbe influire sull’azione nel caso
della libertà assoluta, che fa- rebbe il soggetto indifferente alla previsione
stessa. Il concetto di R. si inscrive pertanto in un deter- minato concetto
della libertà; ed anche nel lin- guaggio comune si dice « responsabile » una
per- sona o si apprezza il suo «senso di R.» quando si vuole indicare che la
persona in questione include, nei motivi del suo comportamento, la previsione
degli effetti possibili del comportamento stesso (cfr. il fascicolo citato
della Revue Internationale de Philosophie e specialmente gli articoli di
McKeon, Abbagnano e Weil. Per la distinzione tra imputa- bilità e R., cfr.
SCHELER, Der Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 504 sgg.) (V. INTENZIONE).
RESTRIZIONE (lat. Restrictio; ingl. Restric- tion; franc. Restriction; ted.
Restriktion). A partire dalla logica del xm secolo, la limitazione dell’esten-
sione o denotazione di un termine comune in modo che esso si riferisca a un
numero minore di oggetti designati (cfr. Lamberto di Auxerre, in PRANTL,
Geschichte der Logik, III, pag. 31, n. 130). Pietro Hispano distinse quattro
specie di R.: quella fatta col nome, come quando si dice « uomo bianco » per
cui il termine uomo non sta per (non supponit pro) i negri; con il verbo, come
quando si dice « l’uomo corre » e la proposizione si riferisce solo ai
presenti; quella fatta per participio come quando si dice «l’uomo correndo discute
»; e quella fatta per im- plicazione come nel caso «l’uomo, che è bianco, corre
+ (Summ. Log., 11.02). Il processo inverso è l'ampliamento o estensione.
Hamilton ha chiamato R. il rapporto di subalternazione (v.). RETORICA (ingl.
Rhetoric; franc. Rhétorique; ted. Rhetorik). L’arte di persuadere mediante
l’uso di strumenti linguistici. La R. fu la grande inven- zione dei Sofisti e
Gorgia di Leontini (sec. v a. C.) fu uno dei suoi fondatori. Il dialogo di
Platone che s’intitola a lui insiste sul carattere fondamentale della R.
sofistica: la sua indipendenza dalla dispo- nibilità di prove o argomenti che
producano un reale sapere o una convinzione razionale. Scopo della R. è quello
« di poter persuadere con discorsi i giudici nei tribunali, i consiglieri nel
consiglio, i membri dell’assemblea nell’assemblea e in ogni altra riunione
pubblica» (Gorg., 452 e). Il retore pertanto è abile « nel parlare contro tutti
e su ogni argomento, sicchè riesce, alla maggior parte delle persone, più
persuasivo di ogni altro, rispetto a tutto ciò che vuole» (/bid., 457 a). La R.
così intesa apparve a Platone più vicina all’arte culi- naria che alla
medicina: più diretta ad appagare il gusto che a migliorare la persona (/bid.,
465 c). Ad essa Platone contrappose una R. pedagogica o educativa che fosse
«l'arte di guidar l’anima per via di ragionamenti, non solo nei tribunali e
nelle assemblee popolari ma anche nelle conversazioni private » (Fedr., 261 a):
ma la R. così intesa si identifica con la filosofia. Platone pertanto non
riservò alla R. una funzione specifica. Riconobbe invece tale funzione
Aristotele che considerò la R. in stretta connessione con la dialettica e come
la controparte di essa (Rer., I, 1, 1354 a 1). La R. è, secondo Aristotele, «la
facoltà di considerare in ogni caso i mezzi disponibili di persuasione +
(/bid., I, 2, 1355 b 26). Mentre ogni altra arte può istruire o persuadere
soltanto intorno ai suoi propri og- getti, la R. non è limitata da una speciale
sfera di competenza ma considera i mezzi di persuasione che si riferiscono a
tutti gli oggetti possibili (/bid., I, 2, 1355 b 26). La R. pertanto desume
dalla Topica la considerazione degli argomenti probabili (che sono appunto
quelli che hanno la capacità di per- suadere) e fornisce le regole per l’uso strategico
di tali argomenti. Questo concetto della R. stabilito da Aristotele è prevalso
per molti secoli. L’umanesimo sotto- lineò l’importanza della R. cui però
intese rico- noscere, sull’esempio platonico e ciceroniano, un valore
sostanziale (cfr. Testi umanistici sulla R. di M. Nizolio, F. Patrizi, P. Ramo,
a cura di E. GARIN, P. Rossi, C. VasoLI, 1953). Con Pietro Ramo, il compito
della R. ritorna ad essere sostan- zialmente quello aristotelico: «La tecnica
della persuasione che Ramo indaga nei testi ciceroniani, questa capacità di
volgere il linguaggio alle espres- sioni più compiute e tecnicamente elaborate
dev’es- sere però sempre unita all’esercizio della filosofia, alla quale resta
affidata, per mezzo della dialettica, la costruzione essenziale di tutti i
princìpi cono- scitivi. Perciò alla R. intesa nel significato più tecnico e
particolare, il Ramo concederà soltanto 750 le due funzioni propedeutiche della
e/ocutio e della pronunciatio... laddove invece affiderà alla dialettica contro
le pretese di Quintiliano e di Ci- cerone il compito di organizzare la vera
sostanza del discorso logico » (C. VasoLI, Op. cit., pag. 117- 118). Dopo la
fioritura del Rinascimento le sorti della R. decaddero sino alla quasi completa
eclissi che essa subì nel sec. xIx. Il dogmatismo razio- nalistico iniziato da
Cartesio e diventato massiccio nell’800, fu la causa maggiore della decadenza
della retorica. Dove la ragione è tutto e può tutto, un’arte che voglia cercare
gli strumenti della per- suasione è ovviamente fuori luogo. Perciò non fa
meraviglia che con l’abbandono del dogmatismo razionalistico la R. torna oggi
agli onori della ri- balta nel senso classico di arte della persuasione ma con
l’avvertimento moderno della molteplicità delle condizioni a cui l’arte della
persuasione deve guardare. Il Traité de l’argumentation di Perelman e
Olbrechts-Tyteca (1958) s’inizia con le seguenti parole: «La pubblicazione di
un trattato consa- crato all’argomentazione e il suo riattaccarsi a una vecchia
tradizione, quella della R. e della dialettica greca, costituiscono una rottura
con una conce- zione della ragione e del ragionamento, originata da Cartesio,
che ha impresso il suo sigillo sulla filosofia occidentale dei tre ultimi
secoli ». Non c’è alcun dubbio sulla correttezza di questa osserva- zione. Se
la ragione è infallibile e la ricerca umana può essere affidata in ogni campo
alle sue infalli- bili regole, non c’è posto per la R. che è l’arte della
persuasione. Ma se nella sfera del sapere umano la parte dell’incerto, del
probabile, dell’approssi- mativo è assai grande, la persuasione può avere la
sua funzione e l’arte di essa può essere coltivata. RETRODUZIONE (ingl.
Retroduction). Ter- mine introdotto da Peirce per indicare il primo stadio
della ricerca, che procede, come l’induzione, dal conseguente all’antecedente
ma è compiuto in modo spontaneo cioè senza un metodo rigoroso («Reality of
God», in Values in a Universe of Chance, pag. 368 sgg.) (v. ABDUZIONE).
RETROSPEZIONE (ingl. Retrospection; fran- cese Rétrospection). Bergson ha
indicato con questo termine la tendenza a «rigettare nel passato, allo stato di
possibilità o di virtualità, le realtà attuali » (La pensée et le mouvant, 3°
ediz., 1934, pag. 26). RETTITUDINE (gr. èp96mne, xarépwor; lat. Rectitudo;
ingl. Rectitude; franc. Rectitude; ted. Rechtlichkeit). Il criterio o la misura
razionale delle cose, cioè il principio per giudicarle. Platone dice, ad es.,
che «La R. del nome è quella che mostra quale la cosa sia » (Crat., 428 e),
intendendo che questo è il criterio per giudicare della giustezza del nome.
Aristotele usa nello stesso senso l’espres- sione retta ragione (èp8dc Xbyoc) e
identifica la retta ragione con la saggezza (Er. Nic., VI, 13, 1144 b 23). Ma
furono soprattutto gli Stoici a dare un significato tecnico al termine
intendendo per essa «la convenienza o il bene stesso, che consiste nel
raggiungere l’accordo con la natura » (Cicer., De Fin., III, 14, 45). Poichè
l’accordo con la natura è il criterio di ogni valutazione la R. non è che
questo criterio. In un senso analogo, Duns Scoto chiamò rectitudines le
proposizioni teologiche in quanto forniscono la conoscenza del retto com-
portamento dell’uomo di fronte a Dio (Op. Ox., Prol., q. 4, n. 31). Ai nostri
giorni Heidegger ha contrapposto la R. alla verità intesa come rivelazione
dell’essere. Se- condo Heidegger, fu Platone a far prevalere per la prima volta
il concetto della verità come R. cioè come criterio del giudizio umano ed è
stato per- tanto Platone a preparare il terreno per la nascita del
soggettivismo moderno (« Die Zeit des Welt- bildes », 1938, in Holzwege, 1950,
pag. 84). REVERSIBILE (ingl. Reversible; franc. Ré- versible; ted. Umkehrbar).
Si qualificano con questo termine i processi che non hanno un senso definito
(v. IRREVERSIBILE). RICERCA (gr. tnenows; lat. Investigatio, Inqui- sitio;
ingl. Inquiry; franc. Recherche; ted. Unter- suchung). Per quanto il concetto
di R. si connetta spesso strettamente con quello di filosofia (come accade in
Platone, cfr. ad es., Teet., 196 d; Men., 81 e), difficilmente la R. stessa è
stata fatta oggetto di indagine filosofica. Nel mondo moderno Dewey ha
considerato la logica come teoria della ricerca. « Tutte le forme logiche, egli
ha detto, con le loro proprietà caratteristiche, nascono attra- verso il lavoro
di R., e concernono il controllo della R. in vista della attendibilità delle
asserzioni prodotte +». In questo senso «la R. sulla R. è causa cognoscendi
delle forme logiche mentre l’indagine primitiva è causa essendi delle forme
rivelate da quell’indagine » (Logic, 1939, I; trad. ital., pag. 34). La R. è
definita da Dewey come «la trasforma- zione controllata o diretta di una
situazione indeter- minata in altra che sia determinata, nelle distinzioni e
relazioni che la costituiscono, in modo da con- vertire gli elementi della
situazione originaria in una totalità unificata » (Logic, VI; trad. ital., pa-
gina 157). RICETTIVITÀ (ingl. Receptivity; franc. Ré- ceptivité; ted.
Receptivitàt). La possibilità delle af- fezioni (v.) cioè di accogliere o
subire azioni. In questo senso Kant considera la sensibilità come «la R. del
nostro animo a ricevere rappresentazioni cioè a subire affezioni in un modo
qualunque » (Crit. R. Pura, Log. trasc., Intr., I). Lo stesso che passività. È
il contrario di spontaneità (v.) o atti- vità (v.). RIFLESSIONE
RICONCILIAZIONE. V. Sintesi. RICONOSCIMENTO (ingl. Recognition; franc.
Reconnaissance; ted. Anerkennung). 1. In generale, conoscere qualcosa per
quella che è. In questo senso si dice, per es.: «L'ho riconosciuto per un
ladro» Oppure «Riconosco la giustezza di questa osservazione ». 2. Uno degli
aspetti costitutivi della memoria in quanto ad essa gli oggetti sono dati come
già pre- cedentemente conosciuti (v. MEMORIA). RICORDO. V. MEMORIA. RICORRENZA
(ingl. Recurrence; franc. Récur- rence; ted. Recurrenz). 1. Ciò che torna ad
accadere o si ripete a intervalli, regolari o irregolari. In questo senso si
dice ricorrente un evento che si ripete pressapoco allo stesso modo, ad
intervalli di tempo. 2. Si chiama anche con questo termine il ragio- namento
riflessivo o auto-referentesi che dà luogo alle antinomie logiche (v.
ANTINOMIE). 3. In matematica, s'intende per « ragionamento per R. » il
principio dell’induzione matematica (vedi INDUZIONE MATEMATICA). RICORSO. Vico
intese con questo termine il ritorno della storia sui suoi passi che si
verifica quando i rimedi che la Provvidenza dispone contro la corruzione degli
stati vengano meno o non agi- scano efficacemente. Il R. consiste nel
rinselvati- chirsi degli uomini, nel loro ritorno alla durezza della vita
primitiva che li disperde e falcidia, finchè il poco numero degli uomini
rimasti e l'abbondanza delle cose necessarie alla vita rendono possibile la
rinascita di un ordine civile, di nuovo fondato sulla religione e la giustizia
(Scienza Nuova, 1744, Conclusione). RIDUCIBILITÀ, ASSIOMA DI. V. ANTI- NOMIE.
RIDUZIONE (ingl. Reduction; franc. Réduc- tion; ted. Reduktion). 1. La
trasformazione di un enunciato in un altro equipollente più semplice o più
preciso o tale che riveli la verità o la falsità dell’enunciato originario. Si
parla pure di «R. della scienza ai termini dell’esperienza immediata» (Quine,
From a Logical Point of View, II, 5), o di R. delle estensioni alle intensioni
o delle classi a proprietà (CARNAP, Meaning and Necessity,$ 23, 33). 2. La
spiegazione che consiste nel considerare certi ordini di fenomeni come soggetti
alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un altro ordine di fenomeni; per
es., quella che consiste nel con- siderare i fenomeni organici come soggetti
alle leggi dei fenomeni fisici e questi ultimi come soggetti alle leggi dei
fenomeni meccanici. Su questo tipo di spiegazione, cfr. E. NAGEL, « The Meaning
of Reduction in the Natural Sciences», 1949, in Science and Civilisation, ed.
R. T. Staufer, 1949, pag. 99-138). 3. Per R. fenomenologica Husserl intese la
stessa epoché fenomenologica cioè la neutralizzazione del- l’atteggiamento
naturale o la messa in parentesi del mondo (/deen, I, $ 56 sgg.). Talvolta, più
parti- colarmente, intese per R. il momento positivo dell’epoché cioè quello
della riflessione interna sul- l’atto, che cerca di cogliere l’atto stesso
nella sua intenzionalità (cfr. specialmente Die XKrisis der europàischen
Wissenschaften, 1954, pag. 247). 4. Per R. ai principi, v. RITORNO, 2.
RIFERIMENTO (ingl. Reference; franc. Ré- férence; ted. Bericht). x. In generale
l’atto di porre un oggetto qualsiasi in una relazione qualsiasi con un altro
oggetto. In questo senso il termine ha un significato assai esteso: uno stesso
oggetto, per es., un comportamento può essere riferito al suo au- tore, ai suoi
effetti, al suo fine, alle sue intenzioni, alle sue condizioni, ecc. Il senso
specifico del R., cioè della relazione che esso stabilisce, è di volta in volta
chiarito o suggerito dal contesto. 2. Più particolarmente, si chiama R. l’atto
che stabilisce il rapporto tra il simbolo e il suo oggetto, cioè l’atto
dell’interpretazione (v.). Sono stati so- prattutto Ogden e Richards a
diffondere in questo senso l’uso del termine. Essi identificarono addi- rittura
il R. con il pensiero ed entrambi con quello che essi chiamarono il significato
conoscitivo (The Meaning of Meaning, 103 ediz., 1952, pag. 9 sgg.). Nell'ambito
di questo significato, gli stessi autori hanno chiamato referendo (referend) il
veicolo o lo strumento di un atto di R. e referente (referent) l’oggetto verso
il quale l’atto di R. è diretto. RIFIUTO, GRAN (ingl. Great Refusal; fran- cese
Grand Refus). Il R. della realtà in favore dell’immaginazione, e delle
possibilità che essa scopre, nell’arte. In tal senso l’espressione fu ado-
perata da André Breton nel primo manifesto dei surrealisti (1924) (Les
manifestes du surréalisme, 1946). L'espressione è stata fatta propria da H.
Mar- cuse per indicare « la protesta contro la repressione superflua, la lotta
per la forma definitiva di libertà: il vivere senza angoscia» (Eros and
Civilization, 1954, cap. VII). V. UTOPIA. RIFLESSA, AZIONE. V. AZIONE RIFLESSA.
RIFLESSIONE (ingl. Reffection; franc. Ré- flexion; ted. Reflexion). In generale
l’atto o il pro- cedimento con il quale l’uomo prende a considerare le sue
stesse operazioni. Questo concetto è stato determinato in tre modi e cioè: 1°
come cono- scenza che l’intelletto ha di sè; 2° come coscienza; 3° come
astrazione. 1° Aristotele, per quanto non usi il termine R., ammette il fatto
ovvio che l'intelletto « può pen- sare se stesso» (De An., III, 429 b 9). Gli
Scola- stici espressero questa possibilità con il termine «R.s. S. Tommaso
dice: « Poichè l’intelletto ri- flette sopra se stesso, esso intende, secondo
questa R., sia il suo intendere sia la specie mediante la quale intende » (S.
Th., I, q. 85, a. 2). Egli attribuisce anche alla R. una funzione specifica
giacchè l’in- telletto che ha per suo oggetto proprio l’universale, non può
intendere il particolare se non riflettendo su se stesso e considerando ciò da
cui astrae l’uni- versale (/bid., I, q. 86, a. 1). La R. tuttavia non è dagli
Scolastici ritenuta fonte autonoma di cono- scenza. Ciò accade per la prima
volta solo con Locke. 2° Con Locke, s°inizia il concetto della R. come
coscienza. Secondo Locke, la seconda delle due fonti principali (la prima
essendo la sensazione) dalle quali l’intelletto trae le sue idee è la R., in-
tesa come «la percezione delle operazioni che l’anima nostra compie dentro di
sè sulle idee che ha ricevuto mediante i sensi: operazioni che, di- ventando
l’oggetto delle R. dell’anima, producono nell’intelligenza un’altra specie di
idee che gli og- getti esterni non le avrebbero potuto fornire e tali sono le
idee di ciò che si chiama percepire, pensare, dubitare, credere, ragionare,
conoscere, volere, ecc. ». (Saggio, II, 1, 4). Locke chiama pure senso interno
la R.: la quale, in questo senso non è altro che la coscienza, col quale nome
fu spesso chiamata dai filosofi inglesi posteriori. La definizione di Vauve-
nargues « La R. è la potenza di ripiegarsi sulle idee, di esaminarle, di
modificarle o di combinarle in diversi modi: essa è gran principio del
ragionamento, del giudizio, ecc. » (Intr. à la connaissance de l’esprit humain,
1746, I, 2) e quella di Leibniz «La R. non è altro che l’attenzione a ciò che è
in noi, mentre i sensi non ci danno affatto ciò che noi portiamo già con noi»
(Nouv. Ess., Avant- propos) danno lo stesso significato: la R. è coscienza. Con
questo termine, appunto, essa veniva definita da Kant. «La R. (reffexio), egli
diceva, non mira agli oggetti stessi per acquistarne direttamente i con- cetti,
ma è quello stato dello spirito in cui comin- ciamo a disporci a scoprire le
condizioni soggettive che ci rendono possibile arrivare ai concetti. Essa è la
coscienza della relazione tra le rappresentazioni date e le varie fonti di
conoscenza » (Crit. R. Pura, Analitica dei Principi. Anfibolia dei concetti
della riflessione). Kant distingueva inoltre la R. /ogica, che è il semplice
confronto delle rappresentazioni fra di loro, dalla R. trascendentale che si
dirige agli oggetti stessi e contiene « la ragione della possibilità del
paragone oggettivo delle rappresentazioni tra loro. La R. trascendentale ha
perciò per oggetto i concetti di identità-diversità, di concordanza- posizione,
di interno-esterno, di materia-forma, che per l’appunto forniscono il
fondamento di ogni possibile confronto tra le rappresentazioni » (/bid.). Il
carattere attivo e creativo della R., che porta alla luce la vera natura di ciò
su cui indaga e perciò in qualche modo produce tale natura, fu uno dei punti
fondamentali della filosofia di Hegel: « Poichè nella R. si ottiene la vera
natura e questo pensiero è mia attività, così quella vera natura è parimenti il
prodotto del mio spirito, cioè del mio spirito come Soggetto pensante, di me
nella mia semplice uni- versalità, come Io che è senz’altro da sè, ossia della
mia libertà » (Enc., $ 23). Una funzione me- tafisica fu attribuita alla R.
anche da Maine de Biran: «Chiamo R., egli disse, la facoltà per la quale lo
spirito appercepisce in un gruppo di sensazioni o in una combinazione di
fenomeni i rapporti comuni di tutti gli elementi con una unità fondamentale,
per es., di più modi o qualità con l’unità di resi- stenza, di più effetti
diversi con una medesima causa, di modificazioni variabili con lo stesso io o
soggetto, ecc.» (Fondements de la psychologie, ed. Naville, II, pag. 225). Nè
molto diverso da questo significato è quello attribuito al termine da Husserl
quando afferma: « Ogni cogifatio può di- ventare oggetto di una cosiddetta
percezione in- terna e successivamente oggetto di una valutazione riflessa, di
approvazione o disapprovazione, ecc.» (Ideen, I, $ 68). In questo senso la R. è
quella che Husserl chiama la percezione immanente, cioè la percezione che
costituisce un’unità immediata con il percepito, ed è la coscienza stessa
(/bid., $ 68). Husserl ha pure distinto la R. naturale, che si ef- fettua nella
vita comune dalla R. fenomenologica o trascendentale che si fa praticando
l’epoché (v.) universale quanto alla esistenza o alla non-esistenza del mondo
(Carr. Med., $ 15). 3° Il terzo concetto della R., è quello che la considera
come astrazione e precisamente astra- zione falsificatrice. Questo concetto
della R. fu proprio dell’idealismo romantico. Cominciò con Fichte, che vide
nella R. l’atto con cui l’io con- sidera se stesso come limitato dall’oggetto:
« L’Io ha in sè la legge di riflettere sopra se stesso come riempiente
l’infinito. Ma esso non può riflettere sopra se stesso, e in generale su nulla,
se ciò su cui riflette non è limitato. Il compimento di questa legge è dunque
condizionato e dipende dall’og- getto » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 8). Come
Schel- ling chiariva, la R. è in questo senso un’astrazione perchè porta a
separare l’oggetto dell'Io dall’Io stesso, mentre in realtà l'oggetto non è
altro che un prodotto dell’Io. « Quella separazione dell’atto dal prodotto si
chiama nell’uso ordinario del lin- guaggio astrazione. Come prima condizione
della R. compare dunque l’astrazione » (System des trans- zendentalen
Idealismus, III, epoca III, I; trad. ital., pag. 179). Hegel a sua volta,
mentre esaltava (come si è visto) la R. come attività che non solo mette in
luce ma produce la natura razionale delle cose che investiga, riteneva
falsificatore l’intelletto ri- flettente. « Per l’intelletto riflettente o
riflessivo è da intendere in generale l'intelletto astraente, e con ciò
separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione, codesto
intelletto si com- porta come l’ordinario intelletto umano o senso comune e fa
valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile; che i
pensieri siano soltanto pensieri, nel senso che la percezione sen- sibile dia
loro sostanza e realtà; e che la ragione in quanto resta in sè e per sè non
produca altro che sogni » (Wissenschaft der Logik, Intr.; trad. ital., I, pag.
27). In altri termini la R. è caratterizzata dalla separazione tra concetto e
realtà, separazione che è una falsa astrazione; mentre la ragione è ca-
ratterizzata dalla identità di concetto e realtà. In tal modo, per Hegel, la
filosofia della R. è quella del senso comune, che culmina nella filosofia di
Kant la quale afferma l’inconoscibilità della cosa in sè. Nella filosofia contemporanea
il termine è usato prevalentemente nel significato 2° ed ha perciò come
sinonimi i termini «consapevolezza », « co- scienza », « introspezione », «
senso interno +, « osser- vazione interiore ». RIFLESSIVA, PSICOLOGIA. V.
Psico- LOGIA, B). RIFLESSIVITÀ (ingl. Reflectivity; franc. Ré flexivité; ted.
Reflectivitàt). Il carattere di una re- lazione non aliorelativa: cioè tale che
un termine può averla con se stesso. Per es., la relazione non più grande di è
riflessiva (v. RELAZIONE). RIFLETTENTE E DETERMINANTE (ingl. Reflecting and
Determinant; franc. Réfléchis- sant et déterminant; ted. Reflectierend und Bestim- mend). Giudizio
determinante e giudizio R. sono, secondo Kant, i due modi d’azione della
facoltà
del giudizio (v. GIUDICATIVA, FACOLTÀ).
In genere, secondo Kant, il giudizio è «la facoltà di pensare il particolare
come contenuto nel generale ». Se è dato il generale (la regola, il principio,
la legge) il giudizio che opera la sussunzione del particolare è determinante.
Se invece è dato il particolare e il giudizio vi vede trovare il generale, esso
è sempli- cemente R. (Crit. del Giud., Intr., $ Iv). « Giudizio determinante »
significa giudizio che determina o costituisce l’oggetto: come fa, secondo Kant,
il giudizio intellettuale (considerato nella Critica della Ragion Pura) il
quale per l’appunto forma l’oggetto empirico unificando secondo le categorie il
materiale dell’esperienza. « Giudizio R.» significa giudizio che trova già
costituito l’oggetto e perciò deve limitarsi a riflettere su di esso per
trovare il modo di subordinarlo ad una unità o legge che è però semplicemente
soggettiva: come fa da un lato il giudizio di gusto, che giudica gli oggetti
secondo il criterio del bello, e dall’altro il giudizio te- 48 — ABBAGNANO,
Disionarin di filosofia. leologico che giudica gli oggetti secondo il criterio
de fine. RIFORMA (ingl. Reformation; franc. Réfor- mation; ted. Reformation).
Il rinnovamento della vita religiosa avvenuto nell’Europa del sec. xvi mediante
il ritorno alle origini del Cristianesimo. Preparata dall’umanista Erasmo da
Rotterdam (1466-1536) la R. fu iniziata dall’opera del monaco agostiniano
Martin Lutero (1483-1546) che nel 1517 affiggeva, alle porte della Cattedrale
di Wittenberg, 95 tesi contro la vendita delle indulgenze. Nel suo indirizzo
complessivo la R. protestante appare come una delle vie di realizzazione di
quel ritorno ai principi che fu l’emblema del Rinascimento (v.). Nel dominio
religioso, il ritorno ai principi por- tava a negare il valore della tradizione
e quindi della Chiesa che se ne riteneva la depositaria e l’interprete. Nello
scritto Contro Enrico VIII d'In- ghilterra (1522) Lutero contrapponeva alla
tradi- zione ecclesiastica, e a tutti i riti e le glosse che essa aveva
accumulato nei secoli, il ritorno diretto alla parola di Cristo, cioè al
Vangelo. L’insegna- mento fondamentale del Vangelo è secondo Lutero la
giustificazione per mezzo della fede la quale im- plica due corollari
fondamentali: 1° la negazione del valore delle opere cioè delle tecniche
religiose (riti, sacrifici, cerimonie) e la riduzione dei sacra- menti a quelli
di cui la Bibbia fa menzione cioè battesimo, penitenza ed eucarestia, anch'essi
però sottratti a ogni giurisdizione sacerdotale e consi- derati come
espressione del diretto rapporto del- l’uomo con Dio. Al culto sacerdotale,
Lutero con- trappose l’esercizio dei doveri civili come l’unico «servizio
divino » che abbia valore religioso; 2° la negazione della libertà umana e il
riconoscimento della predestinazione da parte di Dio. La fede è il segno sicuro
di questa predestinazione e quindi l’indizio della salvezza (De Libertate
Christiana, 1520). Su questo punto nacque la polemica tra Erasmo e Lutero: alla
Diatribe de libero arbitrio (1524) di Erasmo, Lutero rispondeva col De servo
arbitrio (1525) nel quale ribadiva il carattere imper- scrutabile della scelta
divina (cfr. PREDESTINAZIONE). Delle altre due principali figure della R.
prote- stante Ulrico Zuinglio (1484-1531) e Giovanni Cal- vino (1509-64), il
primo si spinse al di là di Lutero nella negazione delle forme religiose
tradizionali, attribuendo allo stesso sacramento dell’eucarestia un valore
puramente simbolico e negando l’obbe- dienza passiva all’autorità politica; il
secondo con- siderò il ritorno ai princìpi specialmente come ri- torno alla
religiosità del Vecchio Testamento. Nella sua /stituzione della religione
cristiana (pubblicata in latino nel 1536 e in francese nel 1541: questa
traduzione è il primo testo letterario della prosa francese) Calvino si propose
infatti di mostrarel’unità del Vecchio e del Nuovo Testamento e riprese
specialmente da esso il principio che la buona riuscita nelle faccende della
vita è una prova evidente del favore di Dio, un segno della sua pre- dilezione.
Fu specialmente questo principio a fare dell’etica calvinista l’ispiratrice
della nascente bor- ghesia capitalistica; del suo spirito attivo e aggres-
sivo, sprezzante d’ogni sentimento e teso alla buona riuscita degli affari.
RIGORISMO (ingl. Rigorism; franc. Rigorisme; ted. Rigorismus). Nella
terminologia religiosa del sec. xvili R. si oppose a /assismo e designò il
punto di vista di coloro (specialmente Giansenisti e Padri dell’oratorio) che
maggiormente erano ostili al prin- cipio della morale rilassata (cfr. BAYLE,
Dictionnaire historique et critique, art. « Rigoristes +). Secondo Kant si
chiamano di solito rigoristi coloro che non ammettono « alcuna neutralità
morale (adiaphora) nè negli atti, nè nei caratteri umani» mentre si chiamano
latitudinari gli altri (Religion, I, Osservazione). Lo stesso Kant però (nello
stesso passo) mostra di ac- cogliere per conto suo il principio rigoristico:
sicchè non a torto si è parlato e si parla di «R. morale» a proposito della
dottrina morale kantiana. RILEVANTE (ingl. Relevant; franc. Relevant; ted.
Bedeutend). Si chiama R. un enunciato signifi- cante, specie se è importante
per il significato com- plessivo del contesto in cui ricorre. Si chiamano
talora R. anche gli elementi di fatto importanti per il giudizio di una
situazione determinata. RIMORSO (ingl. Remorse; franc. Remords; ted. Reue) (v.
PENITENZA). RINASCIMENTO (ingl. Renaissance; fran- cese Renaissance; ted.
Renaissance). S’intende con questo termine il movimento letterario, artistico e
fi- losofico che va dalla fine del sec. x1v alla fine del se- colo xvi e che si
diffuse dall’Italia negli altri paesi d'Europa. La parola e il concetto di R.
hanno ori- gine religiosa, come è stato accertato dagli studi di Hildebrand,
Walser e Burdach: rinascita è la seconda nascita, la nascita dell’uomo nuovo o
spi- rituale di cui parlano l’Evangelo di S. Giovanni e le Lettere di S. Paolo.
Concetto e parola si con- servano per tutto il Medio Evo a indicare il ritorno
dell’uomo a Dio, la sua restituzione a quella vita che egli ha perduto con la
caduta di Adamo. A partire dal sec. xv la parola viene invece usata per
indicare un rinnovamento morale intellettuale e politico ottenuto attraverso il
ritorno ai valori di quella civiltà in cui si ritiene che l’uomo abbia trovato
la sua realizzazione migliore, cioè alla ci- viltà greco-romana. Il R. fu
pertanto portato a sottolineare polemicamente la sua propria dif- ferenza di
orientamento dall’età medievale, nel suo tentativo di rapportarsi all’età
classica e di desumere direttamente da essa l'ispirazione delle RIGORISMO
proprie attività. D’altra parte però non mancano gli elementi di continuità tra
il R. e il Medio Evo; e molti dei problemi preferiti da umanisti e filo- sofi
del R., sono gli stessi di quelli dibattuti nel Medio Evo come sono le stesse
le soluzioni. Si spiega quindi perchè l’interpretazione del R. è oscillata fra
i due estremi di una contrapposizione radicale tra Medio Evo e R. o di una loro
intrinseca continuità. La prima posizione fu assunta da Jacopo Burckhardt (Die Kultur
der Renaissance in Italien, 1860) e ripetuta e amplificata da Gentile e dai
suoi scolari. Laseconda concezione si ispira soprattutto all’opera di K.
Burdach (Vom Mittelalter zu Refor- mation, Renaissance, Humanismus, 1926*), ed
è stata portata alla sua forma estrema da G. Toffanin (Storia dell’ Umanesimo,
1933). I caratteri fondamen- tali dell’età del R. possono essere brevemente
rica- pitolati nel modo seguente: 1° L’umanesimo cioè il riconoscimento del va-
lore dell’uomo e la credenza che l’umanità si è realizzata nella sua forma
perfetta nell’antichità classica (v., su questo punto, UMANESIMO). 2° Il
rinnovamento religioso effettuato o con il tentativo di ricollegarsi a una
rivelazione originaria cui si sarebbero ispirati gli stessi filosofi classici,
come fa il platonismo (Cusano, Pico, Ficino); o mediante il tentativo di
rifarsi alle fonti originarie del Cri- stianesimo saltando a piè pari la
tradizione medie- vale, come fa la Riforma protestante (v. RIFORMA). 3° Il
rinnovamento delle concezioni politiche ef- fettuato col riconoscimento
dell’origine umana o naturale delle società e degli stati (Machiavelli) o col
tentativo di ritornare alle forme storiche ori- ginarie o alla natura delle
istituzioni sociali [giusna- turalismo (v.)]. 4° Il naturalismo cioè il risorto
interesse per l’indagine diretta della natura che si manifesta sia
nell’aristotelismo, negli indirizzi magici, sia nella metafisica della natura
(Campanella e Bruno) sia nel primo affermarsi della scienza moderna. Sul R.
cfr. la Bibliografia di H. BARON, « Renais- sance in Italien», in Archiv fiir
Kulturgeschichte, 1927, 1931. Cfr. specialmente E. Cassirer, Indi- viduo e
cosmo nella filosofia del R., e gli scritti di E. Garin (in particolare: Medio
Evo e R., 1954). RIPETIZIONE (ingl. Repetition; franc. Ré- pétition; ted.
Wiederholung). 1. Termine introdotto nella terminologia esistenzialistica da
Kierkegaard che, per chiarirne il significato lo avvicinava alla espressione
aristotelica quod quid erat esse (v. Es- SENZA; Sosranza). Tale espressione che
alla let- tera significa ciò che l’essere era esprime infatti la necessità e
immutabilità dell’essere, il suo ripetersi. Kierkegaard si è servito del
concetto soprattutto per descrivere la natura della vita etica: a diffe- renza
della vita estetica, la quale cerca di evitare la R. e vuole ad ogni istante la
novità (perciò è simbolizzata da Don Giovanni) la vita etica si fonda sulla
continuità, sulla scelta ripetuta che l’individuo fa di se stesso e del proprio
compito, perciò è simboleggiata dal matrimonio (Die Wieder- holung, 1843; cfr.
Diario, IV, A, 156). Heidegger a sua volta ha utilizzato il concetto per
caratterizzare l’esistenza autentica, quale si realizza nell’angoscia.
L’angoscia, in quanto libera l'uomo « dalle possi- bilità nulle e lo fa libero
per quelle autentiche » consiste nel riprendere, per l'avvenire, le possibilità
che sono già state nel passato: il che è appunto la R. (Sein und Zeit, $ 68b).
R. è da questo punto di vista la decisione autentica. « La R. è l’esplicito
tramandamento cioè il ritorno su possibilità del- l’Esserci che è già stato.
L’autentica R. di una possibilità di esistenza già stata, il fatto che l’Es-
serci si scelga i suoi eroi, si fonda esistenzialmente nella decisione
anticipatrice; perchè è in essa che viene primariamente scelta la scelta la
quale rende liberi per la lotta successiva e per la fedeltà a ciò che è da
ripetere » (/bid., $ 74). Ciò vuol dire che la decisione autentica, in cui
consiste la storicità dell’esistenza umana, è una R. o almeno (come Heidegger
dice nello stesso luogo) una replica di possibilità passate. 2. Nella filosofia
della scienza, il concetto di R. viene adoperato per esprimere il fondamento di
ogni proposizione induttiva: la quale sarebbe (se- condo la dottrina di Hume)
l’espressione di una R. di casi (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst., V, 1). Da
questo punto di vista, la R. è stata assunta spesso come la giustificazione
delle proposizioni universali. K. Popper ha fatto la critica di questa dottrina
che egli chiama «dottrina del primato della R.» (The Logic of Scientific
Discovery, 1959, pag. 420 segg.) (v. INDUZIONE; TEORIA). RISCHIO (gr. xivòuvoc;
ingl. Risk; francese Risque; ted. Wagniss, Gefahr). In generale, l’aspetto
negativo della possibilità, il poter non essere. La no- zione ricorre
frequentemente nelle filosofie in cui il riconoscimento del possibile come tale
trova posto: come in quella di Platone e degli esistenzialisti con- temporanei.
Aristotele considerava il R. come «l'avvicinarsi di ciò che è terribile »
(Rer., II, 5, 1382 a 33). Platone considerava il R. come inerente
all'accettazione di certe ipotesi o credenze e lo considerava « bello » (Fed.,
114 d). Nell’esistenzia- lismo il R. è considerato inerente alla scelta che
l'io fa di se stesso, e ad ogni decisione esistenziale (cfr. Jaspers, Phil.,
II, pagina 180, 403, ecc.) L’accettazione del R. implicito in questa scelta è
uno dei punti cardini dell’esistenzialismo con- temporaneo: «La pretesa
implicita nella decisione è fondata su di una indeterminazione effettiva cioè
sulla possibilità che le cose si svolgano diver- samente da ciò che io decido;
ma è anche fondata sull’assunzione, da parte di me che decido, di questo R. e
sulla considerazione di tutte le possibili garanzie che posso conseguire +
(ABBAGNANO, /ntro- duzione all’esistenzialismo, 4* ediz., 1957, I, 3).
RISENTIMENTO (ingl. Resentment; fran- cese Ressentiment; ted. Ressentiment).
L’odio im- potente contro ciò che non si può essere o non si può avere. La
nozione è stata per la prima volta introdotta da Nietzsche nella Genealogia
della mo- rale (1887): « La rivolta degli schiavi nella morale contemporanea,
dice Nietzsche, comincia quando il R. stesso diviene creatore e genera valori;
il R. di quegli esseri ai quali la vera reazione, quella del- l’azione, è
negata e che perciò non trovano com- penso che in una vendetta immaginaria »
(Genealogie der Moral, I, $ 10). La morale cristiana è, secondo Nietzsche,
frutto del R. in questo senso: è una manifestazione dell’odio contro i valori
propri della casta superiore aristocratica, inaccessibili agli in- dividui
inferiori. Un’altra manifestazione del R. è, secondo Nietzsche, la rabbia
segreta dei filosofi contro la vita per cui la filosofia è stata finora « la
scuola della calunnia »: la calunnia s'intende del mondo reale o sensibile al
quale i filosofi hanno cercato di sostituire il mondo ideale della meta- fisica
e della morale (Wille zur Mackht, ediz. 1901, $ 259, 287). A sua volta Scheler
ha insistito sulla azione del R. nel campo morale, pur negando che esso possa
applicarsi alla concezione cristiana cui Nietzsche si riferiva. Non l’amore
cristiano, ma l’umanitarismo e l'altruismo moderni sono, se- condo Scheler, un
prodotto del risentimento. Il concetto di uguaglianza fra gli uomini,
l’afferma- zione del soggettivismo dei valori e la subordinazione di tutti i
valori a quelli di utilità sono, secondo Scheler altri tre prodotti del R.
nella vita moderna (Uber Ressentiment, 1912; trad. franc., 1958) (cfr. R. K.
MERTON, Social Theory and Social Structure, 2% ediz., 1957, pag. 155 sgg.).
RISERVA (lat. Reservatio; ingl. Reservation; franc. Restriction; ted.
Reservation). Uno dei punti tipici della casistica cattolica del xvi secolo e
del probabilismo o lassismo: la tesi che una deliberata menzogna non impegna
chi la pronunzia e non è peccato. Nella IX delle sue Lettere provinciali (1656)
B. Pascal faceva una critica famosa di questa tesi. RISPETTO (gr. alc; lat.
Respectus; inglese Respect; franc. Respect; ted. Achtung). Il riconosci» mento
della dignità propria o altrui e il compor- tamento fondato su questo
riconoscimento. Demo- crito per primo ha fatto del R. il principio dell’etica:
« Non devi aver R. per gli altri uomini più che per te stesso nè agir male
quando nessuno lo sappia più che quando tutti lo sappiano; ma devi avere per te
stesso il massimo R. e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che
non si deve fare » (Fr., 264, Diels). Nel discorso con cui Pro- tagora espone,
nel dialogo omonimo di Platone, l’origine della società umana è detto che
«Zeus, temendo che l’intera nostra stirpe si estinguesse, mandò Ermes a portare
fra gli uomini il R. reci- proco e la giustizia affinchè fossero princìpi ordi-
natori delle città e creassero fra i cittadini vincoli di benevolenza » (Prot.,
322 c). Il R. reciproco e la giustizia, sono, così intesi, i due ingredienti
fonda- mentali dell’« arte politica» cioè della tecnica del vivere insieme.
Aristotele aveva invece incluso il R. fra le emo- zioni, escludendolo dalle
virtù (Ef. Nic., II, 7, 1108 a 32), e lo aveva contrapposto al timore (/bid.,
10, 9, 1179b 11). E alla sfera delle emo- zioni lo riduce anche Kant
considerandolo tuttavia come un sentimento sui generis, anzi come il solo
sentimento morale e non patologico. Il sentimento del R. «è prodotto soltanto
dalla ragione. Esso non serve al giudizio delle azioni, nè a fondare la legge
morale oggettiva ma semplicemente come movente a fare in sè di questa legge la
massima ». Il R. si riferisce sempre alle persone mai alle cose; ed è proprio
di un essere razionale finito perchè suppone l’azione negativa della ragione
sulla sen- sibilità, quindi la sensibilità. Perciò «a un essere supremo oppure
a un essere libero da ogni sensi- bilità, al quale perciò la sensibilità non
può essere un ostacolo per la ragion pratica, non può essere attribuito il R.
alla legge» (Crir. R. Prat., I, I, cap. II). La nozione di R. è stata, anche
fuori della filosofia, fortemente influenzata da queste os- servazioni di Kant.
Per R. comunemente s’intende l'impegno a riconoscere negli altri uomini, o in
se stesso, una dignità che si è in obbligo di salva- guardare. RITMO (ingl.
R&ythm; franc. Rythme; tedesco Rhythmus). L’alternarsi di fenomeni opposti
nello stesso processo. Questo è il significato che il ter- mine ha ricevuto nel
positivismo il quale per la prima volta ne ha fatto un uso specifico, estenden-
done il significato originario di movimento regolar- mente ricorrente. Spencer
ha parlato così di una legge del R. secondo la quale il massimo e il minimo, la
caduta e l’elevazione, si alternano nello sviluppo di tutti i fenomeni: legge
che è uno dei princìpi fondamentali dell’evoluzione (First Principles, II, cap.
10). Su questa stessa legge ha insistito Ardigò (Op., II, pag. 227; V, pag.
232, ecc.). E più re- centemente Whitehead: « Nel modo del R., una serie di
esperienze che formano una determinata successione di contrasti raggiungibili
nell’ambito di un metodo preciso, è regolato in modo che la fine di un ciclo è
lo stadio antecedente adatto per l’inizio di un altro ciclo simile. Il ciclo è
tale che il suo proprio completamento produce le condizioni per la sua semplice
ripetizione » (The Function of Reason, 1929, cap. I; trad. ital., pag. 25; cfr.
The Aims of Education, 1929, cap. II,
III). RITO (ingl. Rite; franc. Rite; ted. Ritus). Una tecnica magica o
religiosa: cioè diretta o ad otte- nere un controllo delle forze naturali che
le tecniche razionali non possono offrire o ad ottenere che sia mantenuta o
conservata per l’uomo una certa ga- ranzia di salvezza nei confronti di queste
forze. Il concetto del R. come «pratica relativa alle cose sacre » è stato
chiarito da Durkheim (Formes élémentaires de la vie religieuse, 1912, passim)
(cfr. T. Parsons, 7he Structure of Social Action, 23 ediz., 1949, pag. 420
sgg.; 673 sgg., ecc.; cfr. RE- LIGIONE). RITORNO (gr. èriorpoph; lat.
Conversio; in- glese Return; franc. Retour; ted. Riickgang). 1. Nel
neoplatonismo antico, il movimento per cui l’anima ripercorre a ritroso il
processo dell’emanazione, ri- congiungendosi, mediante la contemplazione, alla
sua origine: Bene, Causa, Dio, Unità. Diceva Plotino: «La purificazione è
necessaria all’unione: l’anima si unisce al Bene ritornando verso di esso. Ma
dunque la conversione segue alla purificazione? Proprio così, il R. accade dopo
la purificazione. Il R. è dunque la virtù dell’anima? Sì, è la virtù che
risulta e deriva all’anima dal ritorno. E che cosa è il R.? È la contemplazione
e l'impronta che gli oggetti intelligibili producono nell’anima allo stesso
modo in cui la visione è prodotta dagli oggetti visibili » (Enn., I, 2, 4).
Proclo generalizzava il concetto del R. attribuendolo a tutte le mani-
festazioni dell’essere, delle quali ognuna effettue- rebbe il R. a suo modo.
«Ogni essere compie il suo R. o soltanto rispetto alla sostanza o anche
rispetto alla vita o alla conoscenza: giacchè o ha acquistato dalla Causa
soltanto l’essere o ha avuto anche la vita o ha avuto anche la facoltà conosci-
tiva. In quanto solo è, effettua un R. alla Sostanza; in quanto vive, ritorna
alla Vita e in quanto conosce, alla Conoscenza. Difatti allo stesso modo in cui
è proceduto dalla Causa prima, così vi ritorna; e le misure del R. sono
determinate dalle misure della processione (Ist. Teol., 39). 2. Il Rinascimento
ricollegandosi a questa con- cezione generalizzata di Proclo considerò il R. ai
principi come l’unica via per effettuare un rinnova- mento radicale della vita
singola e associata del- l’uomo. Pico della Mirandola univa il vecchio concetto
neoplatonico del R. ai princìpi con quello nuovo di via del rinnovamento (De
Ente et uno, VII, Proem.). Machiavelli considerava la « ridu- zione ai princìpi
» come il solo modo in cui le co- munità umane potessero rinnovarsi e sfuggire
alla decadenza e alla rovina: in quanto, egli diceva, tutti i princìpi hanno in
sè qualche bontà dalla quale le cose possono riprendere la loro vitalità e la
loro forza primitiva (Discorsi, III, 1). E Cam- panella vedeva la via del
rinnovamento religioso nello stesso principio che egli riteneva espresso dal
salmo XXII: Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines
terrae, le cui prime due parole egli poneva come titolo dello scritto con cui
annunciava il rinnovamento religioso (Quod reminiscentur, 1615). D'altronde la
stessa Riforma protestante obbediva all'esigenza di ritornare ai princìpi,
rifacendosi direttamente alla fonte pri- mitiva della religiosità cristiana
cioè alla Bibbia; e dall’altro lato la Controriforma intese ricondurre la
Chiesa alla forza espansionistica che essa posse- deva nel periodo delle sue
origini. Un’altra forma in cui si presentò lo stesso principio è quella del R.
alla natura: la natura essendo considerata il più delle volte come principio o
l’origine degli esseri. In questa forma il R. ai princìpi è un’esi- genza
frequente nel pensiero dei secoli xv e xvi. RITSCHLIANISMO (ingl.
Ritschlianism; fran- cese Ritschlianisme; ted. Ritschlianismus). Una cor- rente
del cristianesimo protestante del xrx secolo che fa capo ad Alberto Ritschl
(1822-89), secondo la quale la religione si fonda esclusivamente sul sentimento
e la rivelazione interiore: rivelazione che si concreta specialmente nei
giudizi di valore, che sono indipendenti dai fatti e sollevano l’uomo a una
sfera superiore a quella della sua limitazione empi- rica. La comunità dei
fedeli, mentre rafforza la rivelazione del sentimento interno, ne attua le esi-
genze; il regno di Dio si realizza per l'appunto in essa (cfr. K. BARTH, Die
protestantische Theo- logie in 19. Jahrhundert, 1947). RIVELAZIONE (ingl.
Revelation; franc. Révé- lation; ted. Offenbarung). La manifestazione della verità
o della realtà suprema agli uomini. La R. è stata intesa in due modi: 1° come
R. storica; 2° come R. naturale. 1° La R. storica è quella che ogni religione
positiva assume a suo fondamento. Essa consiste nella illuminazione di cui sono
stati gratificati uno o più membri della comunità che hanno avuto come compito
quello di incamminare la comunità stessa sulla via della salvezza. La R. in
questo senso è un fatto storico, cui si attribuisce l’ori- gine della
tradizione religiosa. 2° La R. naturale è la manifestazione di Dio nella natura
e nell’uomo. Talvolta questa formaR. viene ammessa insieme alla prima, talaltra
viene negata o subordinata alla prima. Soltanto il concetto di R. naturale ha
valore filosofico, l’altro essendo specificatamente religioso. Tuttavia il
concetto della realtà naturale ed umana come manifestazione di un Principio
soprannaturale o divino è stato attinto dalla filosofia alla stessa religione
ed è proprio delle filosofie che hanno carattere o finalità religiosa.
Nell’antichità, quel concetto fu proprio dei neo- platonici per i quali il
mondo, come prodotto del- l'emanazione divina, rivela, almeno parzialmente ©
imperfettamente, la stessa natura divina che lo produce. Da questo punto di
vista Scoto Eriugena chiamava reofania (v.) il processo che da Dio discende
all’uomo e dall'uomo ritorna a Dio; e chiamava teofania anche tutta l’opera
della crea- zione in quanto manifesta la sostanza divina che in essa e
attraverso di essa diventa visibile (De divis. nat., I, 10; V, 23). Questo concetto
è ritornato frequentemente nella storia della filosofia; ma la sua massima
ricorrenza è stata la filosofia del romanticismo (v.). Diceva Fichte, ad
esempio: «Il sapere è l’esistenza, la manifestazione, la per- fetta immagine
della forza divina » (Grundziige der gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, IX).
Questo pensiero domina anche le filosofie di Schelling e Hegel. Bisogna
tuttavia osservare che in esse la R. non è soltanto manifestazione: è anche,
come diceva Fichte, esistenza (cioè realizzazione) di Dio. È questo il tratto
specifico che il concetto di R. assume nel romanticismo e che conserva in forma
più o meno decisa in quelle filosofie della R. che costituiscono il secondo
romanticismo e che hanno come insegna la difesa della tradizione. Le filosofie di
Maine De Biran, di Rosmini, di Gioberti, di Mazzini muovono tutte dal principio
che la coscienza sia la R. di Dio. Maine De Biran non faceva che esprimere a
questo proposito una convinzione assai comune asserendo che la R. non è
soltanto quella esterna della tradizione orale o scritta ma anche quella
interna o della coscienza giacchè l'una e l’altra vengono direttamente da Dio
((Euvres, ed. Naville, III, pag. 96). Senza la tonalità religiosa che essa
aveva nel secolo scorso, il concetto di R. è stato assunto a fondamento della
filosofia di Heidegger. La R. dell’essere non è tuttavia mai perfetta ed
esauriente, secondo Heidegger, perchè l’essere si nasconde nello stesso tempo
che si rivela: « L’es- sere sottrae se stesso mentre si rivela nell’ente. Così l’essere,
illuminando l’ente, nel contempo lo svia e lo avvia verso l’errore » (Holzwege,
pag. 310). La R. dell’essere accade, secondo Heidegger, at- traverso il
linguaggio: il quale per Heidegger non è strumento umano ma l’essere stesso
nella sua R. (Brief tiber den Humanismus, pag. 81). D'altrondla concezione del
linguaggio come R. non è oggi soltanto di Heidegger (v. LinguaGGio): il che è
un’altra prova della persistenza in filosofia del con- cetto teologico di
rivelazione. RIVOLUZIONE (ingl. Revolution; franc. Ré- volution; ted.
Revolution). La violenta e rapida distruzione di un regime politico; oppure il
mu- tamento radicale di una qualsiasi situazione cul- turale. In questo secondo
senso si parla di « R. filosofica » o « artistica » o « letteraria » o «del co-
stume ?, ecc. o anche di « R. copernicana». Ma è chiaro che in questo senso
l’uso della parola è diretto soltanto a sottolineare l’importanza del mu-
tamento intervenuto e non ha un significato pre- ciso. L'unico significato
preciso del termine è quello politico, che esso ha incominciato ad acquistare
nel sec. xvmi. Le vere e proprie R. sono state quella inglese, quella
americana, quella francese e quella russa; ma talvolta si chiamano R. anche le
tra- sformazioni politiche che hanno avuto minore im- portanza nella storia
generale del mondo ma se- gnano date fondamentali nella storia di un paese
determinato. ROMANTICISMO (ingl. Romanticism; fran- cese Romantisme; ted.
Romanticismus). Si indica con questo nome il movimento filosofico letterario e
artistico che si iniziò negli ultimi anni del sec. xvm, ebbe la sua massima
fioritura nei primi decenni del sec. xIx e costituì l’impronta propria di
questo secolo. Il significato corrente del termine « roman- tico » che
significa « sentimentale » deriva da uno degli aspetti più appariscenti del
movimento roman- tico cioè dal riconoscimento del valore da esso attribuito al
sentimento: una categoria spirituale che l’antichità classica aveva ignorato o
disprez- zato, che il ’700 illuministico aveva riconosciuto nella sua forza e
che nel R. acquista un valore predominante. Questo valore predominante è la
principale eredità che il R. riceve dal movimento dello Sturm und Drang (v.),
il quale costituisce il tentativo di superare i limiti che l’illuminismo aveva
riconosciuti propri della ragione umana con l’appello all’esperienza mistica e
alla fede. Ciò che la ragione non può dare, può darlo invece, secondo i
filosofi dello Sturm und Drang, Haman, Herder, Jacobi, la fede intesa pertanto
come fatto di sentimento o di esperienza immediata. Ma, proprio per questo, la
ragione continuava ad essere per i seguaci dello Sturm und Drang (tra i quali
ci furono Goethe e Schiller nella loro giovinezza) ciò che era per
l’Illuminismo: una forza umana finita, capace bensì di trasformare gradualmente
il mondo, ma non assoluta nè onnipotente, e perciò sempre più o meno in
contrasto con il mondo stesso ed in lotta con la realtà che essa è destinata a
trasformare. Dallo Sturm und Drang si passa al R. solo quando questo concetto
della ragione viene abbandonato e per ragione comincia ad intendersi una forza
infinita (cioè onnipotente) che abita il mondo e lo domina e perciò costituisce
la sostanza stessa del mondo. Il principio dell’auto- coscienza (v.) cioè
dell’infinità della coscienza che è tutto e fa tutto nel mondo, è il principio
fonda- mentale del R. e da esso derivano i tratti salienti del movimento.
Fichte identificò per la prima volta la ragione con l’Io infinito o
Autocoscienza assoluta e ne fece la forza dalla quale l’intero mondo è prodotto.
L’infinità in questo senso era un'infinità di coscienza o di potenza, non
un'infinità di esten- sione o di durata; e trovava il suo modello in concetti
della filosofia neoplatonica e specialmente in Plo- tino. Hegel contrapponeva a
questo proposito al falso infinito o cattivo infinito, che è diverso dal finito
cioè dalla realtà o dal mondo e si contrappone a esso e cerca di trasformarlo o
di superarlo, il vero infinito, che si identifica con il finito stesso cioè con
il mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito è un Principio
spirituale creativo: quello che Fichte chiamò /o, Schelling Assoluto, e Hegel
Idea. Ma l’infinito o meglio l’infinità di coscienza può essere intesa in due
modi. In primo luogo, come attività razionale che si muove da una determi-
nazione all’altra con necessità rigorosa sì che ogni determinazione può essere
dedotta dall’altra asso- lutamente e a priori. È questo il concetto che del-
l’infinità di coscienza ebbero Fichte, Schelling ed Hegel (il secondo tuttavia
solo in una prima fase della sua filosofia). In secondo luogo, l’infinità di
coscienza può essere intesa come un'attività libera, amorfa cioè priva di
determinazioni rigorose e tale che si pone continuamente al di là di ogni sua
determinazione: e in questo senso l’infinità di coscienza è sentimento. ll
sentimento è l’infinito nella forma dell’indefinito e in questa forma rico-
nobbero l’infinità di coscienza Schleiermacher e la cosiddetta scuola romantica
(F. Schlegel, Novalis, Tieck, ecc.). Il R. letterario si iniziava infatti con
l’opera di Federico Schlegel (1772-1829) che pubblicava, dal 1798 al 1800, in
collaborazione con il fratello Au- gusto Guglielmo, il periodico Arhenaeum che
fu il primo organo della scuola romantica. Federico Schlegel esplicitamente
additava in Fichte l’inizia- tore del movimento romantico cioè lo scopritore
del concetto romantico dell’infinito. Ma interpre- tava l’infinito come al di
fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento. Lo stesso
concetto dell’infinito ricorre nel poeta e letterato Ludovico Tieck e in
Novalis: il quale sosteneva un idealismo magico, secondo cui il mondo non è che
una grande opera di poesia. A questa stessa corrente appartiene il teologo
Federico Schleier- ROMANTICISMO macher (1768-1834) che definì la religione come
«il sentimento dell’infinito ». Su questa interpretazione del principio
infinito, si fonda la supremazia che talvolta il R. attribuisce all’arte. Se
infatti l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell’arte che nella filosofia:
giacchè la filosofia è razionalità e l’arte invece appare airomantici come «
espressione del sentimento +. Schel- ling, che inclinava verso questa
interpretazione ritenne appunto che la migliore manifestazione dell’Assoluto si
avesse nell’arte; che il mondo fosse una specie di poema o di opera d’arte il
cui autore è l'Assoluto; e che l’esperienza artistica fosse per l’uomo il solo
mezzo efficace per avvicinarsi all’Assoluto cioè al modo in cui l'Assoluto ha
dato origine al mondo. Quando il movimento romantico si diffonde al di fuori
della Germania, è proprio quest’aspetto del R. che viene assunto come bandiera.
Il R. di Madame de Staél e di Chateaubriand consiste appunto prevalentemente
nell’esaltazione dei valori del sentimento; e in questa stessa forma il R.
trovò la sua espressione in Italia. Queste due interpretazioni
dell’autocoscienza fu- rono spesso in contrasto; ed Hegel specialmente condusse
la polemica contro il primato del senti- mento. Ma è proprio il loro contrasto
e la loro polemica che costituisce il tratto fondamentale del movimento
romantico nel suo complesso. Tuttavia appartiene soltanto alla scuola romantica
del senti- mento uno dei tratti più appariscenti del R., l’îronia: che è
l’impossibilità, per Ja coscienza infinita, di prender sul serio e considerare
come cosa salda i suoi prodotti (la natura, l’arte, l’io stesso) nei quali non
può vedere altro che le proprie manifesta- zioni provvisorie. Sono invece
caratteri comuni e fondamentali di tutte le manifestazioni del R. l’ottimismo,
il provvi- denzialismo, il tradizionalismo e il titanismo. L’of- timismo è la
convinzione che la realtà è tutto ciò che dev'essere ed è, ad ogni momento,
razionalità e perfezione. È per questo ottimismo che il R. tende a esaltare il
dolore, l’infelicità e il male. L'’infinità dello spirito infatti si manifesta
egual- mente in questi aspetti della realtà ma li supera e li concilia nella
sua perfezione. Hegel ci presenta il mondo romantico nella felicità della sua
perfetta pacificazione razionale. Schopenhauer ce lo presenta nell’infelicità
dei suoi contrasti irrazionali e pur tuttavia soddisfatto di riconoscersi in
questo con- trasto. La volontà irrazionale di Schopenhauer è un principio non
meno ottimistico della ragione assoluta di Hegel. Con l’ottimismo metafisico
del R. si connette il suo provvidenzialismo storico. La storia è un processo
necessario nel quale la ragione infinitamanifesta o realizza se stessa, sicchè
in essa non c’è nulla di irrazionale o d’inutile. Il R. si pone, su questo
punto, nel più radicale contrasto con l’il- luminismo. L’illuminismo
contrappone tradizione e storia: alla forza della tradizione che tende a con-
servare e a perpetuare pregiudizi, ignoranze, violenze e frodi, l’illuminismo
oppone la storia come rico- noscimento di queste cose per quelle che sono e
sforzo razionale di liberazione da esse. Per il R. invece tutto ciò che è
tramandato è manifestazione della Ragione infinita: è verità e perfezione.
Pertanto lo spirito illuministico è critico e rivoluzionario; lo spirito romantico
è esaltativo e conservatore. Il con- cetto della storia come piano
provvidenziale del mondo domina tutta la filosofia dell’800; e la stessa
filosofia del ’900 non arriva a liberarsene se non attraverso amare esperienze
storiche e cul- turali. È in questa concezione della storia che si manifesta
meglio l’affinità tra l’idealismo e posi- tivismo nel senso comune del
romanticismo. Comte ha lo stesso concetto che della storia avevano Fichte e
Schelling e che più tardi ebbero Croce e gli epi- goni novecenteschi del
romanticismo. La storia, come manifestazione di un principio infinito (Io,
Autocoscienza, Ragione, Spirito, Umanità o co- munque si chiami) è razionalità
intera e perfetta e non conosce nè l’imperfezione nè il male. Il colmo di
questo concetto della storia si ha in Hegel (ripetuto da Croce): la storia non
è progresso al- l’infinito, giacchè, se fosse tale, ogni suo momento sarebbe
meno perfetto dell’altro; essa è infinita perfezione di ogni suo momento. La
contrappo- sizione hegeliana del «vero infinito » al «cattivo infinito» non
significa altro. Ovviamente, in un simile concetto della storia, non c’è posto
per l'individuo e le sue libertà, per le quali l’illumi- nismo si era battuto.
C'è posto solo per gli « eroi » o «individui della storia cosmica» che sono gli
strumenti di cui la provvidenza storica si avvale per realizzare astutamente i
suoi fini. Un aspetto importante del provvidenzialismo romantico è il
rradizionalismo: l'esaltazione della tradizione e delle istituzioni in cui essa
si incarna è difatti uno degli aspetti tipici del movimento romantico. A questo
atteggiamento fu dovuta la rivalutazione del Medio Evo che è caratteristica del
romanticismo. Il Medio Evo era apparso all’illu- minismo (come già
all’umanesimo) un’epoca di decadenza e di barbarie: cioè come l’epoca in cui
fossero andati smarriti i valori umani e razionali che l’antichità classica
aveva creati. Per il R. non esistono epoche di decadenza o di barbarie giacchè
tutta la storia è razionalità e perfezione. Nel Me- dio Evo anzi, secondo il
R., si possono e si debbono scorgere le origini del mondo moderno meglio che
nel mondo classico: sicchè il ritorno al Medio Evocostituisce una delle parole
d'ordine dell’atteggia- mento romantico. In virtù dello stesso atteggia- mento
il R. tedesco cominciò ad esaltare le tradi- zioni originarie della nazione
tedesca; e nacque la prima forma del nazionalismo che doveva diffon- dersi e
diventare uno dei tratti salienti della cultura europea nel sec. xx. Il
concetto di nazione è difatti composto di elementi tradizionali: la razza, la
lingua, il costume, la religione: elementi che non possono essere negati o
rinnegati senza tradimento perchè costituiscono ciò che la nazione è stata già
da sempre. Il concetto settecentesco di popolo era invece definito dalla
volontà e degli interessi comuni degli individui. Tradizionalismo e
nazionalismo affondano le loro radici nel comune terreno del provvidenzialismo
romantico. Infine, uno degli aspetti fondamentali del R., e tra i più
appariscenti, è il rifanismo. Infatti il culto e l’esaltazione dell’infinito
hanno, come loro con- troparte negativa, l’insofferenza o l’insoddisfazione del
finito. E in questa insofferenza (o insoddisfazione) si radica l’atteggiamento
di ribellione verso tutto ciò che appare o è un limite o una regola e la sfida
incessante a tutto ciò che, per la sua finitudine, appare impari o inadeguato
nei confronti dell’in- finito. Prometeo è assunto come il simbolo di questo
titanismo, con una interpretazione che è molto distante dallo spirito dell’antico
mito greco. Per questo Prometeo era colui che aveva infranto, per rendere
possibile la sopravvivenza del genere umano, la legge del fato e che
giustamente subiva le conse- guenze di questa infrazione. Per il R., invece, è
il simbolo della sfida e della ribellione al finito: di una sfida e di una
ribellione, cioè, che non traggono la loro ragione da ciò cui s'oppongono ma
solo dal fatto che ciò a cui s’oppongono non è l'infinito. L'atteggiamento del
titanismo non conduce alla critica delle situazioni di fatto e allo sforzo di
tra- sformarle, perchè non ritiene che una situazione di fatto sia o possa
essere superiore o preferibile all’altra; ma si esaurisce in una protesta
univer- sale e generica e non può impegnarsi in alcuna decisione concreta. Il
culto e l’esaltazione dell’infinito, il non con- tentarsi di meno
dell’infinità, costituiscono i tratti salienti dello spirito romantico. Come
già si è detto, lo stesso positivismo rientra in questo spirito. Esso estende
il concetto di progresso a tutta la storia del mondo: questo significa,
infatti, « evoluzione ». Esso fa della storia umana un progresso neces- sario e
infallibile. Infine esso fa della scienza, che è la manifestazione umana da
esso prediletta, l’in- finito stesso della verità e la elegge ad unica guida
degli uomini in tutti i campi. Gli aspetti che il R. rivestì nella politica,
nel- l’arte e nel costume sono strettamente collegati con i caratteri ora
chiariti. Nella politica, il R. è di- fesa ed esaltazione delle istituzioni
umane fonda- mentali, come son quelle nelle quali s’incarna il Principio
infinito: lo stato e la chiesa, con tutto ciò che implicano. Nell'arte, esso
cerca la realiz- zazione dell’infinito in forme grandiose e dram- matiche in
cui i contrasti sono portati all’estremo per poi conciliarsi e pacificarsi in
forma altret- tanto estrema e definitiva. Nel costume, l’amore romantico va in
cerca dell'unità assoluta fra gli amanti, della loro identificazione
nell’infinito; e a questa unità o identificazione sacrifica il senso au-
tentico del rapporto amoroso e la sua possibilità di costituire la base di una
vita comune (v. AMORE). ROSMINIANESIMO. S’intendono con questo termine i tratti
salienti della filosofia di Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e specialmente:
1° il tradizionalismo cioè la preoccupazione di difendere i valori tradizionali
e di giustificare la tradizione come prodotto o manifestazione di Dio; 2° l’on-
tologismo cioè la tesi che lo spirito umano fruisce di una immediata e
certissima, per quanto par- ziale, conoscenza dell’essere e che tale conoscenza
è la base di tutto il sapere (v. OnToLOGIA); 3° lo scolasticismo cioè la
concezione della filosofia come strumento diretto a giustificare le verità
della re- ligione. ROTTURA (ted. Zerrissenheit). Termine intro- dotto dalle
filosofie esistenzialistiche. Per Jaspers, la R. del mondo si ha quando la
ricerca diretta a trovare una totalità assoluta e onnicomprensiva mette capo a
una molteplicità di prospettive, ognuna delle quali è relativa a un certo punto
di vista e nessuna delle quali perciò può valere come un mondo (Phi/., I, pag.
64 sgg.). Secondo Heidegger, la R. del mondo si ha con la scienza e con la tec-
nica che organizzano il distacco dell'uomo dalla natura (Erlduterungen zu
Hòlderlin, pag. 271 sgg.).SABELLIANISMO (ingl. Sabellianism; fran- cese
Sabellianisme; ted. Sabellianismus). La dottrina trinitaria sostenuta da
Sabellio nella prima metà del n secolo d. C.: dottrina che insistendo
sull’unità della Sostanza divina riduceva le Persone divine a tre modi o manifestazioni
dell’unica Sostanza. La dottrina fu chiamata perciò anche modalismo (v.).
SACERDOTALISMO (ingl. Sacerdotalism). Termine adoperato soprattutto da
scrittori anglo- sassoni per designare la tendenza ad accordare, nella
religione, la massima importanza all’aspetto ecclesia- stico e sacramentale a
scapito di quello interiore o spirituale. SACRIFICIO (ingl. Sacrifice; franc.
Sacrifice; ted. Opfer). La distruzione di un bene o la rinuncia ad esso, in
onore della divinità. Il S. è una delle più diffuse tecniche religiose. Il suo
scopo è o la purificazione cioè la liberazione da qualche colpa o peccato: nel
qual caso il S. appare come disinte- ressato e cioè senza un immediato fine
utilitario; 0 la consacrazione che ha sempre un fine più o meno utilitario consistendo
nel persuadere la divinità a concedere la sua garanzia alla cosa o alla persona
che si consacra. Sia la purificazione che la consacra- zione banno il più delle
volte carattere simbolico: nel senso che il dono sacrificato non ha soltanto il
valore economico che la comunità gli attribuisce ma anche una certa relazione
simbolica con lo scopo purificatorio o consacrativo della cerimonia
sacrificale. Questi tratti sono riconoscibili nelle tec- niche sacrificali di
tutte le religioni, quali che sia il loro grado di sviluppo o di raffinamento
intel- lettuale (cfr. S. REINACH, Cultes, mythes et religions, 1905; E.
DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912; A. Loisy, Essai
historique sur le sacrifice, 1920; P. RADIN, Primitive Religion, 1937). SACRO (gr. tepéc; lat. Sacer;
ingl. Sacred; fran- cese Sacré; ted. Heilig). L’oggetto religioso in ge- nerale: cioè tutto ciò che
è l’oggetto di una garanzia soprannaturale o che concerne tale garanzia. Poichè
questa garanzia può essere talvolta negativa o proi- bitiva, il S. ha il
duplice carattere di ciò che è santo e di ciò che è sacrilego cioè di ciò che è
S. perchè prescritto o esaltato dalla garanzia divina o di ciò che è S. perchè
proibito o condannato dalla stessa garanzia (cfr. DURKHEIM, Les formes
élémentaires de la vie religieuse, 1912). R. Otto ha chiamato questi due
aspetti rispettivamente quelli del fascinoso e del tremendo (Das Heilige,
1917). Heidegger, interpretando una poesia di Hélderlin che identifica la
natura con il S., ha considerato il S. stesso come la radice del destino degli
uomini e degli dèi. «Il S., egli ha detto, decide inizial- mente intorno agli
uomini e agli dèi, se siano, chi siano, come siano e quando siano » (Er/auter-
ungen zu Holderlin, 1943, pag. 73-74). Heidegger afferma pure che «il S. non è
S. perchè divino, ma il divino è divino perchè è S.» (/bid., pag. 58). SAGACIA
(gr. edovveola; lat. Sagacitas; inglese Sagacity; fran. Sagacité; ted.
Sagazitàt). La perspi- cacia nell’indagine. Aristotele identificò la S. con
l’apprendere (Et. Nic., VI, 10, 1143 a 17). E Kant la definì come «il dono
naturale che consiste nel giu- dicare in precedenza (iudicium praevium) dove si
può trovare la verità e di utilizzare le più piccole circo- stanze per
scoprirla » (Antr., I, $ 56). SAGGEZZA (gr. ppémot; lat. Sapientia, Pru-
dentia; ingl. Wisdom; franc. Sagesse; ted. Weisheit). In generale, la
disciplina razionale delle faccende umane: cioè il comportamento razionale in
ogni campo o la virtù che determina ciò che è bene o male per l’uomo. Il
concetto di S. fa tradizional- mente riferimento alla sfera propria delle
attività umane ed esprime la condotta razionale nell’am- bito di questa sfera,
cioè la possibilità di dirigerla nel modo migliore. La S. non è la conoscenza
di cose alte e sublimi, remote dalla comune umanità, come la sapienza (v.): è
la conoscenza delle fac- cende umane e del miglior modo di condurle. Il primato
accordato alla S. o alla sapienza denuncia l’interpretazione fondamentale che
si dà della filo- sofia: il primato accordato alla sapienza è proprio del
concetto della filosofia come contemplazione pura; il primato accordato alla S.
esprime il con- cetto della filosofia come guida dell’uomo nel mondo (v.
FILOSOFIA, JI). La netta distinzione tra S. e sapienza è stata fatta da
Aristotele. Platone non distingue nep- pure tra i due termini.|Egli chiama
sapienza (vogla) la scienza che presiede all’azione virtuosa (Rep. IV, 443 e;
cfr. 428b) che è lo stesso di saggezza! E della S. dice che «la più alta e di
gran lunga la più bella è quella che si occupa degli ordinamenti politici e
domestici e a cui si dà il nome di prudenza e di giustizia » (Conv., 209 a). Un
sapere fine a se stesso è estraneo all’impostazione della sua filo- sofia.
Questo sapere viene invece esaltato da Ari- stotele come la forma più alta e
divina del sapere stesso (v. SAPIENZA): di fronte ad esso la S. si ab- bassa a
cosa meramente umana, che perciò ha minor pregio. Da questo punto di vista,
essa è definita come «l’abito pratico razionale che con- cerne ciò che è bene o
male per l’uomo » (Er. Nic., VI, 5, 1140 b 4). Ma «l’uomo non è l’essere mi-
gliore del mondo » (Zbid., VI, 7, 1141 a 21). È un essere mutevole; e la S. che
lo concerne è mutevole anch'essa, mentre la sapienza è sempre la stessa (Ibid.,
1141 a 20 sgg.). Aristotele pertanto pone al di sopra di tutto la sapienza il
cui oggetto è ciò che non può mutare nè essere diverso da com'è: il necessario.
Questa distinzione e contrapposizione di Aristo- tele si sono mantenute nei
secoli; e il modo di intendere la sapienza o S. (che in alcune lingue sono
indicate dalla stessa parola) rivela l’orienta- mento generale di una
determinata filosofia verso la contemplazione o verso l’azione. La filosofia
post-aristotelica fece prevalere l’ideale della sag- gezza. Epicuro diceva che
la S. «da cui nascon tutte le virtù è anche più preziosa della filosofia »
(Lett. a Menec., 132). Gli Stoici identificavano con la S. la virtù intera,
dalla quale tutte le altre di- pendono (Diog. L., VII, 125-26). Il
neoplatonismo dall’altro lato, tornava all’esaltazione della sapienza (PLOTINO,
Enn., V, 8, 4). Mentre S. Tommaso ripro- duceva la distinzione aristotelica
chiamando la S. prudentia e considerandola «la consigliera intorno alle cose
che concernono l’intera vita dell’uomo e anche l’ultimo fine della vita umana»
(S. 7à., II, 1, q. 57, a. 4). Il mondo moderno si riattacca di pre- ferenza
all’ideale pratico della S., che ritorna in Cartesio (Princ. Phil., pref.) ed
in Leibniz. Que- st’ultimo unisce nella sua definizione l’aspetto teo- retico e
l'aspetto pratico: «la S. è la perfetta cono- scenza dei princìpi di tutte le
scienze e dell’arte di applicarli» (De /a sagesse, Op.,ed. Erdmann, pag. 673):
ma l’inclusione dell’aspetto pratico significa il rifiuto dell’ideale della
sapienza. Allo stesso ambito appar- tiene la definizione di Kant: «La S.
consiste nel- l’accordo della volontà di un essere col suo scopo finale » (Mer.
der Sitten, II, $ 45). Hegel accentuava il carattere umano e mondano della S.,
parlando di una S. mondana (Weltweisheit) che il Rinascimento avrebbe
contrapposto, come ragione umana, alla ragione divina cioè alla reli- gione
(Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, I, pag. 92 sgg.). E Schopenhauer
accentua ancora di più il carattere mondano della S. intendendo per essa
«l’arte di trascorrere la vita nel modo più piacevole e felice possibile »
(Aphorismen zur Lebensweisheit, Pref.). Ai filosofi contemporanei la parola S.,
come ‘sapienza’, sembra troppo solenne perchè essi si soffermino a chiarirne il
concetto. La S. rimane tuttavia legata, per loro come per gli antichi, alla
sfera delle faccende umane e si può dire costituita dalle tecniche vecchie o
nuove di cui l’uomo di- spone per la migliore condotta della sua vita. SAGGIO (gr. copéc; lat. Sapiens;
ingl. Sage; franc. Sage; ted. Weise).
La figura stereotipa del S. fu delineata nella filosofia greca dell'età ales-
sandrina da Epicurei, Stoici e Scettici, ma soprat- tutto dagli Stoici, e
rimase fissata nella tradizione con certe caratteristiche fondamentali. Il
carattere primo e fondamentale che tutt’e tre le scuole attri- buiscono al S. è
la serenità o l’indifferenza alle vicende o ai movimenti umani: serenità che
esse chiamano con i nomi ararassia, aponia, o aparia (v.). Gli altri caratteri
sono i seguenti: 1° L’isolamento, cioè la netta separazione del S. dagli altri
mortali, con i quali non ha nulla in comune. Gli Stoici portavano questa
separazione all'estremo limite ammettendo due specie di uomini, quelli che
praticano la virtù e quelli che non la pra- ticano e ritennero che i primi sono
S. tutti gli altri pazzi (StoBEO, Ecl., II, 7, 11; 65, 12). 2°
L’improgredibilità, per la quale chi non è S. è stolto o pazzo e non può
esserci un S. che sia più S. di un altro. « Chi è immerso nell'acqua, dice
Cicerone esponendo questa dottrina, se non è lontano dalla superficie tanto da
poter quasi affio- rare, non può respirare più che se fosse ancora sul fondo
...: allo stesso modo chi si è avanzato al- quanto verso l’abito della virtù
non è soggetto all’infelicità meno di chi non si sia avanzato af- fatto » (De
Fin., III, 14, 48). 3° L’autarchia. Questo carattere è stato già esaltato da
Aristotele: «Il giusto ha ancora bi- sogno di persone che egli possa trattare
giusta- mente e con le quali essere giusto, similmente anche l’uomo moderato e
il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi: il S. invece può
contemplare da sè solo, tanto più quanto più è S.; forse è meglio se ha
collaboratori, tuttavia egli è del tutto auto- sufficiente » (Er. Nic., X, 7,
1177a 30). Aristotele tuttavia si riferiva all’attività contemplativa, cui li-
mitava l’attività propria del S.; le scuole post-ari- stoteliane estendono il
carattere di auto-sufficienza del S. a tutte le manifestazioni della sua vita,
non limitata necessariamente alla contemplazione. 4° La rinuncia. Fu questo il
carattere del S. sul quale insistettero soprattutto gli Stoici latini,
Epitteto, Seneca e Marco Aurelio. La distinzione stabilita da Epitteto tra le
cose su cui l’uomo ha potere e che sono i suoi stessi stati d’animo e le cose
su cui non ha potere, che sono le cose esterne, fa sì che il S. deve
prescindere dalle cose esterne e riporre il bene e il male solo in quelle che
sono in suo potere (Manuale, 31). Questo im- plica la rinuncia del S. ad
occuparsi delle cose stesse e la sua accettazione della massima « sop- porta e
astieniti» (A. GELLIO, Noct. Att., XVII, 19, 6). 5° La coscienza. Questo tratto
fu aggiunto alla figura del S. dal neoplatonismo che esaltò soprattutto in lui
la facoltà di guardare in sè stesso e di trarre tutto da sè. Dice Plotino: «Il
S. trae da se stesso ciò che egli manifesta agli altri: egli guarda solo a se
stesso: non solo tende a unifi- carsi e a isolarsi dalle cose esterne ma è
rivolto a se stesso e trova dentro di sè tutte le cose + (Enz., III, 8, 6; cfr.
I, 4, 4). Questo movimento per cui il S. guarda se stesso e trova tutto in se
stesso è la coscienza (v.); e da questo punto di vista solo nel S. la coscienza
si realizza e vive. SALTO (lat. Saltus; ingl. Leap; franc. Saut; ted. Sprung).
Termine adoperato da Kierkegaard per indicare il « passaggio qualitativo » cioè
il pas- saggio brusco e senza mediazione da una categoria al- l’altra o da una
forma di vita all’altra (per es., dalla vita etica alla vita religiosa) o in
genere da uno stato all’altro (per es., dall’innocenza al peccato, dal peccato
alla fede, ecc.). Kierkegaard contrap- pose questa nozione di S. alla nozione
hegeliana di mediazione (v.) e la illustrò ravvicinandola: 1° Al- l’entimema
(v.) cioè al sillogismo contratto nel quale si omette una premessa e si passa
direttamente dalla promessa maggiore alla conclusione (« Tutti gli animali sono
mortali, perciò l’uomo è mor- tale +) (Diario, VIA, 33). La parola S. si trova
a questo proposito adoperata da Kant: « Un S. (saltus) nella deduzione o nella
prova è la connes- sione di una premessa con la conclusione, sicchè l’altra
premessa viene tralasciata » (Logik, 1800, $ 91). 2° All’analogia e
all’induzione: la prima delle quali stabilisce un rapporto tra cose
qualitativa- mente diverse, la seconda delle quali passa dal particolare
all’universale (Diario, V A, 74). 3° Alla dottrina hegeliana del passaggio dal
mutamento quantitativo a un mutamento qualitativo. Questa è la fonte autentica
del concetto kierkegaardiano. Diceva Hegel: « L'acqua, con il cambiare tempe-
ratura, non diventa semplicemente più o meno calda, ma passa attraverso gli
stati solido, gas- soso o liquido. Questi diversi stati non nascono a poco a
poco, ma il semplice processo graduale del mutamento di temperatura viene
interrotto da essi e il subentrare di un altro stato è un salto. Ogni nascita e
ogni morte, invece di essere un continuo a poco a poco, è anzi un troncarsi
dell’a poco a poco e un S. dal mutamento quanti- tativo nel mutamento
qualitativo » (Wissenschaft der Logik, I, sez. III, cap. II, B; trad. ital.,
pag. 418- 419). Kierkegaard rimprovera a Hegel di aver confinato questo
concetto nel dominio della logica (Der Begriff Angst, I, $ 2; trad. ital., pag.
35 e nota). Jacobi aveva adoperato l’espressione S. morrale (in italiano) per
caratterizzare il passaggio dalla fede alla conoscenza filosofica (Werke, IV,
pag. xL sgg.); mentre Kant adoperava la stessa espressione per indicare il
passaggio dalla ragione alla fede cieca (Religion, B 158). SALVEZZA (ingl.
Salvation; franc. Salut; te- desco Heil). La liberazione da un male mortale che
minacci il corpo o l’anima dell’uomo. La S. può essere intesa: 1° come
liberazione da questo 0 quel male particolare che incomba sull’uomo nel mondo.
In questo senso il termine è inteso anche fuori della religione; 2° come
liberazione dal mondo, inteso nella sua totalità come un male; pertanto come
interruzione definitiva della catena delle nascite (bud- dismo); o come
liberazione da ogni sofferenza o do- lore o punizione. Ed in questo senso il termine
ha significato specificatamente religioso (v. RELIGIONE). SAMSARA. V. Buppismo.
SANKHYA. Uno dei grandi sistemi di filosofia indiana secondo il quale esistono
due sostanze op- poste ma entrambe eterne e infinite: le anime (pu- rusa) che
sono molteplici semplici e inattive e la na- tura (prakrri) che è unica,
complessa e dinamica. Il sistema non ammette l’esistenza della divinità re-
golatrice del mondo. Ogni cosa nasce dalla natura e ritorna ad essa con un
movimento circolare che continuamente si ripete (cfr. G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, cap. V, e relativa biblio- grafia). 764 SANSIMONISMO
(ingl. Saint-Simonism; fran- cese Saint-Simonisme; ted. Saint-Simonismus). La
dot- trina del Conte Claudio Enrico di Saint-Simon (1760-1825) esposta in
numerosi scritti dei quali i principali sono /ntroduction aux travaux scien-
tifigues du XIX° siècle, 1807; L’industrie, 1816-18; Nouveaux christianisme,
1825, ecc. Saint-Simon è il vero fondatore del positivismosociale cioè di
quella dottrina che vuol porre la scienza, e la filosofia fon- data sulla
scienza, a fondamento di una riorganizza- zione radicale della società umana.
Nella nuova società il potere spirituale sarà affidato agli scien- ziati e il
potere temporale agli industriali. Nel Nuovo cristianesimo Saint-Simon definì
l’avvento della so- cietà tecnocratica come il ritorno al cristianesimo
primitivo. Il S. contribuì a formare la coscienza dell'importanza sociale e
spirituale delle conquiste della scienza e della tecnica e incoraggiò potente-
mente lo sviluppo industriale: ferrovie, banche, in- dustrie, anche l’idea dei
canali di Suez e di Panama furono dovuti a sansimonisti (v. POSITIVISMO).
SANTITÀ (gr. dowbmg; lat. Sanctitas; inglese Holiness; franc. Sainteté; ted.
Heiligkeit). Questo termine ha due significati fondamentali: 1° un significato
oggettivo per cui significa inviolabilità e designa in generale un valore che
va in ogni caso riconosciuto o salvaguardato; 2° un signi- ficato soggettivo
per cui designa il grado ec- cellente e superiore della virtù o della religione
come virtù. Nel primo senso si dice santo ciò che è sancito o garantito da una
legge umana o divina: per es., la santità delle leggi o del giuramento, ecc.
Nel secondo senso si dice santo l’essere che realizza in sè la vita morale o
religiosa nel suo grado più alto. Nel primo senso Platone dice « assegnare
rettamente a tutti ciò che è giusto ed è santo » (Pol., 301 d); nel secondo
senso egli nega che la S. consista nel «far cosa gradita agli dèi» (Eut., 6 e)
e identifica la S. col grado supremo della virtù cioè con la giu- stizia (Rep.,
X, 615b; Leggi, II, 663 b, ecc.). Sempre in questo secondo senso, S. Tommaso
identificava la S. con la religione cioè con la virtù più alta (S. 7A., II, 2,
q. 81, a. 8); e Kant definiva la S. come «la conformità completa della volontà
alla legge mo- rale ». In questo senso, secondo Kant, la S. è « una perfezione
di cui non è capace nessun essere ra- zionale del mondo sensibile in nessun
momento della sua esistenza ». Perciò si può ammettere sol- tanto come il
limite di un progresso all’infinito verso la perfezione morale (Crit. R. Prar.,
I, II, cap. II, $ 4). Dall'altro lato Kant ammette pure la S. nel senso
oggettivo, che definisce come inviolabilità. Così egli dice che «la legge
morale è santa (in- violabile) » (Zbid., $ 5), e che «l’umanità deve essere
santa per noi stessi nella nostra persona +» (/bid., $ 5): nei quali casi
ovviamente la nozione di S. è quella di un valore supremo, che non si può
disconoscere. Queste notazioni kantiane sono state largamente ripetute nella
filosofia moderna. SANZIONE (lat. Sanctio; ingl. Sanction; fran- cese Sanction;
ted. Sanktion). Del termine ci sono due concetti fondamentali che corrispondono
ai due fondamentali indirizzi dell’erica (v.): 1° Per il primo, che corrisponde
all’etica del fine, la S. è la conseguenza piacevole o dolorosa (ricompensa o
pena) che un’azione determinata pro- duce in un determinato ordinamento
(naturale, mo- rale o giuridico). In questo caso, la natura della S. dipende
dalla natura dell’ordinamento cui si fa riferimento ed esistono S. naturali,
morali, giuri- diche a seconda che è l’ordinamento della natura o quello morale
o quello statuale a determinare la sanzione. 2° Per il secondo significato, la
S. è in gene- rale, uno stimolo della condotta. Fu questo il con- cetto della
S. stabilito da Bentham: « Gli stimolanti della condotta, egli disse,
trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle speranze e dei
timori: delle speranze che ci offrono un ecce- dente di piaceri, dei timori che
prevedono per anti- cipazione un eccedente di dolore. Questi stimolanti possono
opportunamente ricevere il nome di S.» (Deontology, 1834, I, 7). Questo stesso
concetto di S. fu accettato dagli utilitaristi inglesi (cfr. STUART MILL, Urilitarianism,
cap. III) (v. PENA). SAPERE (ingl. Knowing; franc. Savoir; tedesco Wissen).
Questo verbo sostantivo viene usato in due significati principali: 1° Come
conoscenza in generale e in questo caso designa ogni tecnica ritenuta adatta a
dare informazioni intorno a un oggetto; o un insieme di tali tecniche; o
l’insieme più o meno organiz- zato dei loro risultati. W. James accettò la
distin- zione stabilita da J. Grote (Exploratio philosophica, 1856, pag. 60)
tra conoscere una cosa o una persona o un oggetto qualsiasi, che significa
avere una certa familiarità con questo oggetto; e S. qualcosa in- torno
all’oggetto, il che significa averne una cono- scenza, magari limitata, ma
esatta, di natura intel- lettuale o scientifica (The Meaning of Truth., 1909, pag.
11-12). Ma questa distinzione si diffuse so- prattutto nella forma che a essa
dette Russell in un famoso articolo del 1905. «La distinzione tra esperienza
diretta (acquaintance) e conoscenza circa (Knowledge about) è la distinzione
fra le cose che ci sono immediatamente presenti e quelle che noi raggiungiamo
solo per mezzo di frasi denotanti +» (sOn Denoting», 1905, in Logic and
Knowledge, 1956, pag. 41). Tale distinzione costituì uno dei capisaldi della
dottrina del Circolo di Vienna; e per quanto Carnap ne abbia riconosciute
presto le difficoltà («Testability and Meaning», in Readines in the Philosophy
of Science, 1953, pag. 48 sgg.) essa ha continuato e continua ad essere il
presupposto di molte dottrine, quella di Carnap compresa (v. ESPERIENZA). 2°
Come scienza, cioè come conoscenza in qualche modo garantita nella sua verità
(per questo significato v. SCIENZA). SAPERE AUDE. Il motto di Orazio (£pist.,
XII, 40) fu assunto nel sec. xvi come l’insegna dell’illuminismo (« Osa
conoscere +) e in questo senso fu richiamato da Kant, nel suo scritto
sull’illumi- nismo (Was ist Aufkldrung?, 1784, in Werke, edi- tore Cassirer,
IV, pag. 169), che lo traduceva di- cendo: « Abbi il coraggio di servirti del
tuo proprio intelletto ». Già nel 1736 il motto era stato assunto come emblema
da una « Società degli Aletofili » di Berlino che si ispirava a Wolf (cfr.
sulle vicende del motto: FRANCO VENTURI in Rivista Storica Ita- liana, 1959,
pag. 119 sgg.). SAPIENZA (gr. copia; lat. Sapientia; inglese Wisdom; franc.
Sagesse; ted. Weisheit). La più alta conoscenza delle cose più eccellenti. La
S. è caratte- rizzata: 1° dall’essere il grado di conoscenza più alto, cioè più
certo e più completo; 2° dall’avere per oggetto le cose più alte e sublimi cioè
le cose divine. Questo fu almeno il concetto che si ebbe della S. quando si
cominciò a distinguerla dalla saggezza (v.), il che accadde con Aristotele.
Sino ad Ari- stotele e nello stesso Platone, S. e saggezza signi- ficarono la
stessa cosa e cioè la saggezza: la condotta razionale della vita umana (cfr.
PLATONE, Rep., 428 b; 443 e). Aristotele distinse e contrappose le due cose.
«La S., egli disse, è la più perfetta delle scienze. Il sapiente deve sapere
non solo ciò che deriva dai princìpi ma essere nel vero anche in- torno ai princìpi.
Sicchè la S. può dirsi insieme intelletto e scienza, ed essendo a capo delle
scienze sarà la scienza delle cose più eccellenti » (Er. Nic., VI, 7, 1141 a
16). Intelletto e scienza stanno qui nel senso specifico definito da
Aristotele: l’intel- letto (vods) come conoscenza diretta dei princìpi della
dimostrazione (/bid., VI, 6, 1141 a 7); e la scienza come « abito della
dimostrazione » o facoltà dimostrativa (/bid., VI, 3 1139b 31). La S. è perciò
la conoscenza più certa e perfetta perchè è insieme conoscenza dei princìpi e
delle dimostra- zioni che da essi seguono. Inoltre, come tale, è anche la
scienza delle cose più alte e sublimi. «Vi sono altre cose molto più divine
dell’uomo per natura, come gli astri luminosi di cui si compone il mondo... Perciò
si dice che Anassagora e Talete e siffatti uo- mini sono sapienti e non saggi
giacchè non cono- scono ciò che giova a se stessi ma cose eccezionali,
meravigliose, difficili e divine, ma inutili giacchè essi non indagano intorno
ai beni umani» (/bid., VI, 7, 1041b 1). L’oggetto specifico della S. è pertanto
il necessario, ciò che non può essere altri- menti (/bid., 1041 b 11); mentre
la saggezza ha per oggetto le faccende umane che sono mutevoli e contingenti.
Questa dottrina aristotelica costituisce uno dei punti in cui il distacco
polemico tra Ari- stotele e Platone è più accentuato: Platone avendo di mira
nella sua filosofia la saggezza umana e contrapponendo Aristotele a tale
saggezza la divina sapienza. L’affermazione del primato della S. carat- terizza
le filosofie di tipo contemplativo come l’af- fermazione del primato della
saggezza caratterizza la filosofia del tipo orientativo o pratico (v. FiLo-
sora, Il). Stante il riconosciuto carattere « divino » della S. non fa
meraviglia che nelle filosofie a sfondo re- ligioso dell’età alessandrina e
posteriori la S. sia stata sostanzializzata e intesa come una specie di
intermediaria fra Dio e il mondo: un’equivalente del /ogos (v.). Secondo
Plotino c'è una S. che è sostanza e della quale nessun’altra S. è migliore; ed
essa «crea tutti gli esseri, che tutti emanano da essa ed è essa stessa gli
esseri che nascono insieme con essa e si identificano con essa, sicchè un’unica
cosa sono S. e sostanza » (Enn., V, 8, 4). Questa concezione si trovava già nel
libro biblico della Sapientia, dove è detto di essa: « È un vapore della virtù
divina e una emanazione sincera della luce di Dio onnipotente. È splendore
della luce eterna, è lo specchio immacolato della maestà di Dio e l’immagine
della Sua bontà. Pur essendo una, può tutto; e permanendo in sè innova tutte le
cose e si trasporta di nazione in nazione nelle anime sante, costituendo gli
amici di Dio e i profeti» (Sap., VII, 25-27). Gli Gnostici avevano, dall'altro
lato, personificata la S. e fatto di essa l’ultima emanazione o eone che vuol
uscire dal suo stato di desiderio e raggiungere la conoscenza diretta del Padre
(IRENEO, Adv. Haer., II, 5). Gli Stoici stessi avevano chiamato Dio, come anima
del mondo, « la perfetta sapienza » (Cicer., Acad., I, 29). La filosofia
medievale ritorna, con S. Tommaso, al concetto aristotelico della sapienza. La
S. ha, secondo S. Tommaso, in comune con tutte le scienze la capacità di
dedurre le conclusioni dai princìpi; ma anche qualche cosa in più delle altre
scienze « in quanto giudica di tutte le cose, non solo quanto alle conclusioni
ma anche quanto ai primi princìpi: sicchè è una virtù più perfetta della
scienza» (S. 7h., III, q. 57, a. 2, ad 1°). Nella filosofia mo- derna, il
termine ha conservato il suo significato di conoscenza perfetta sia per la sua
completezza che per la natura del suo oggetto. SAPIENZA POETICA. Così Vico
chiamò nel secondo libro della Scienza Nuova (1744) la cultura primitiva del
genere umano, in quanto fondata sulla sensibilità più che sull’intelligenza: «La
S. poetica che fu la prima S. della gentilità, dovette incominciare da una
metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma
sen- tita ed immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome
quelli che erano di niuno razio- cinio e tutti robusti sensi e vigorosissime
fantasie ». Vico parla di una logica poetica, di una morale poetica, di
un’economia poetica, di una politica poe- tica, di una storia poetica, di una
fisica poetica, di una cosmografia poetica, di un’astronomia poetica, di una
cronologia poetica, di una geografia poetica, come parti della S. poetica.
SARCASMO (gr. capxao 6g; ingl. Sarcasm; fran- cese Sarcasme; ted. Sarkasmus).
L'ironia congiunta all’amara presa in giro di colui contro il quale è diretta.
Il concetto è di origine stoica (cfr. STOBEO, Ecl., II, 6, 222). SAVI, SETTE (gr. Zopiotal;
ingl. Seven Sqges; franc. Sept Sages; ted. Sieben Weisen). Così furono chiamati alcuni personaggi dell’antichità
greca che espressero la loro saggezza in sentenze o motti bre- vissimi, onde
ebbero anche il nome di Gnomici. Essi furono variamente enumerati dagli
scrittori antichi. Talete, Biante, Pittaco e Solone sono com- presi in tutte le
liste. Platone, che per primo li enumerò, aggiunse ad essi Cleobulo, Misone e Chi-
lone (Pror., 343 a). A Talete si attribuisce il motto « Conosci te stesso »
(Dioc. L., I, 40). A Biante il motto «I più sono malvagi » (/bid., I, 88): e
l’altro motto « La carica rivela l’uomo + (ARIST., Et. Nic., V, 1, 1029 b 1). A
Pittaco il motto « Sappi cogliere l'opportunità » (Dioc. L., I, 79). A Solone i
motti «Prendi a cuore le cose importanti?, e « Nulla troppo + (/bid., I, 60,
63). A Cleobulo il motto «Ottima è la misura » (/bid., I, 93). A Misone il
motto «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle
parole» (/bid., I, 108). A Chilone i motti « Bada a te stesso + e « Non desi-
derare l’impossibile » (/bid., I, 70). SCACCO (franc. Échecj tedesco
Scheitern). Secondo Jaspers, è l’esperienza dell’impossibilità dell’esistenza,
nei suoi aspetti particolari o nel suo insieme; e specialmente l’esperienza
dell’im- possibilità di superare le sifuazioni-limite (v.). Il valore positivo
dello S. consiste nel fatto che esso manifesta o rivela (negativamente) la
trascendenza dell'essere; ed è pertanto una cifra (v.) di questa trascendenza
(Philosophie, III, pag. 219 sgg.) (v. EsI- STENZIALISMO). SCANDALO (ingl.
Scandal; franc. Scandale; te- desco Skandal). Kierkegaard ha fatto dello S. una
categoria religiosa, definendola come «il peccato di disperare della remissione
dei peccati +. Che il peccato possa essere perdonato è, per l’intelletto umano,
la cosa più impossibile di tutte: la reli- gione è da questo punto di vista la
« possibilità dello scandalo +» (Die Krankheit zum Tode, Il, B, B; trad. ital.,
Fabro, pag. 347; cfr. Diario, X! A, 133). SCELTA (gr. alpeow, rmpoalpeo; lat.
Electio; ingl. Choice; franc. Choix; ted. Wahl). Il procedi- mento con cui una
possibilità determinata, a pre- ferenza di altre, viene assunta o fatta propria
o decisa o realizzata in modo qualsiasi. Il concetto di S. è strettamente
legato a quello di possibilità (v.), sicchè non solo non c’è S. dove non c’è
possibilità (giacchè la possibilità è per l'appunto ciò che si offre ad una S.)
ma neppure c’è possibilità dove non c’è S. giacchè l’anticipazione, la
progettazione o la semplice previsione delle possibilità sono scelte.
Dall’altro lato il concetto di S. è una delle determinazioni fondamentali del
concetto di /i- bertà (v.). Il concetto di S. è continuamente presente a
Platone che, nel mito di Er, fa dipendere il destino dell’uomo dalla S. che
ciascuno fa del proprio modello di vita: «Non c’era, egli dice, nulla di
necessariamente preordinato per l’anima perchè ciascuna doveva cambiare secondo
la S. che essa faceva » (Rep., X, 618 b). Ma solo Aristotele ci ha dato la
prima esauriente analisi della S. distinguen- dola: 1° dal desiderio che è
comune anche agli esseri irragionevoli, mentre la S. non lo è (Er. Nic., III,
2, 1111 b 3); 2° dalla volontà, perchè si pos- sono volere anche le cose
impossibili, per es., l’im- mortalità, ma non si possono scegliere (/bid., 1111
b 19); 3° dall’opinione, che anch'essa può ri- guardare le cose impossibili,
per es., quelle eterne, che non dipendono da noi (/bid., 1111 b 30). A queste
determinazioni negative, Aristotele aggiunse la determinazione positiva che la
S. «è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero + (/bid., 1112 a 15);
alla quale si può aggiungere l’altra fondamentale, che si desume dalle
determinazioni negative: la S. concerne solo le cose possibili. Quest’ultima
determinazione, che è quella fon- damentale, veniva esplicitamente sottolineata
da S. Tommaso, che ripeteva sostanzialmente l’analisi aristotelica (S. Th., II,
1, q. 13, a. 5). La nozione di S. è stata sempre ampiamente utilizzata dai
filosofi, specialmente nella discussione del problema della libertà (v.) ma non
è stata fre- quentemente sottoposta ad analisi. A partire da Kierkegaard, la
filosofia dell’esistenza ha sottoli- neato il valore della S., per ciò che
concerne la personalità stessa dell’uomo o la sua esistenza. E ha considerato
la S. soprattutto sotto l’angolo vi- suale della sua stessa possibilità: cioè
come S. della scelta. Dice Kierkegaard: «La S. è decisiva per il contenuto
della personalità: con la S. essa spro- fonda nella cosa scelta e se essa non
sceglie, appas- sisce in consunzione» (Werke, II, pag. 148). Da questo punto di
vista la S. importante non è quella tra il bene e il male ma quella tra
scegliere e non sce- gliere. « Con questa S., scelgo non tra il bene e il male
ma scelgo il bene; ma in quanto scelgo il bene, scelgo con ciò la S. tra il
bene e il male. La S. originaria è sempre presente in ogni S. ul- teriore »
(/bid., II, pag. 196). Questo concetto è stato frequentemente ripetuto
nell’esistenzialismo contemporaneo. Secondo Heidegger, la S. auten- tica è la
S. di ciò che è stato già scelto cioè la S. di quelle possibilità che sono già
proprie dell’uomo. « Ripetizione della S. significa sceglimento di questa
stessa S., decidersi per una possibilità che ba la radice nel proprio se
stesso. Nello scegliere la S., l’Esserci si rende per la prima volta possibile
il suo autentico poter essere» (Sein und Zeit, $ 54). Ma in questo senso la «
S. della S. » è semplicemente l'accettazione o il riconoscimento di ciò che si
è, con la rinuncia ad ogni pretesa di mutamento o di liberazione. E nello
stesso senso Jaspers dice: «Io non posso rifarmi da capo e scegliere tra
l’esser me stesso e il non esser me stesso come se la libertà fosse soltanto uno
strumento. Ma in quanto scelgo io sono, se non sono non scelgo » (Phil., Il,
pag. 182). Ciò vuol dire che ciò che posso scegliere è soltanto il mio me
stesso: quel me stesso che è identico con la situazione, col luogo della realtà
in cui mi trovo (/bid., I, pag. 245). La S. della S. è in realtà la S. di ciò
che già si è e non si può non essere. Questo concetto di S. della S. finisce
per eliminare la S. stessa: la quale, come Aristotele aveva riconosciuto, e
sempre le- gata al possibile. Dall’altro lato, Sartre ha insi- stito sulla
perfetta arbitrarietà della S., ha identi- ficato S. e coscienza e ha pertanto
visto un atto di S. in ogni atto di coscienza (L’étre et le néant, pag. 539
sgg.). Ciò può essere vero, ma in qualche modo è opportuno rintracciare un senso
più spe- cifico di S., un senso per il quale non tutti gli atti siano scelte.
Questo senso può essere appunto quello di S. della S.; ma non come S. di ciò
che è già stato scelto, bensì come S. di ciò che può ancora essere scelto. In
tal senso la 4 S. possibile » è non soltanto la S. che si offre come una possi-
bilità, ma la S. che, una volta effettuata, si ripre- senta ancora possibile.
Inteso in questo senso, il concetto di S. diventa suscettibile di trattamento
oggettivo e diventa capace di orientare l’analisi delle tecniche di scelta. Da
questo punto di vista, è indispensabile determinare in primo luogo il con-
testo delle S. cioè il campo delle possibilità (v.) oggettive in cui la S. deve
operare. Per es., a un uomo che ha subito un torto le S. che gli si of- frono
per vendicarsi del suo avversario ricorrendo alla forza o alla violenza sono
diverse da quelle che gli sono offerte dal sistema giuridico in cui vive.
Inoltre, sempre in riferimento a uncontesto determinato, si può distinguere il
grado delle S. che è il numero delle possibilità offerte da un determinato
contesto, dall’estensione delle S., che è il numero di individui che hanno
accesso a una S. determinata in un dato contesto. Estensione e grado possono
stare fra loro in tutti i rapporti possibili, perchè l’aumento del grado può
influire su quello dell’estensione e reciprocamente. Il cri- terio della
ripetibilità delle S., sul fondamento delle considerazioni precedenti, e
specialmente sulla base delle regole tecniche del contesto, è universalmente
(per quanto implicitamente adoperato) da tutte le discipline: sicchè, per es.,
un assioma matematico o logico continua ad essere ammesso (cioè la sua S. viene
ripetuta) finchè non conduce a una con- traddizione; una tecnica scientifica o
produttiva rimane in uso (cioè è continuamente S.) finchè non da luogo a
inconvenienti o non se ne trova una migliore; e via dicendo. Della nozione di
S. si fa oggi un uso larghissimo in tutte le scienze e specialmente nella
matematica, nella logica, nella psicologia e nella sociologia. Ma, come si è
detto, raramente essa viene sottoposta ad analisi da queste scienze, che ne
presuppongono il significato corrente. Dall'altro lato le analisi istituite dai
filosofi non sempre rendono conto dei caratteri fondamentali della S. stessa.
Bergson, ad es., ha considerato le alternative davanti alle quali ogni S. si
trova situata come false « spazia- lizzazioni » degli stati interiori di
esitazione; e per- tanto ha concepito la S. come distaccantesi «al modo di un
frutto maturo» dagli stati successivi dell’io (Les données immédiates de la
conscience, 1889, pag. 134). Ma è chiaro che se le alternative sono fittizie,
fittizia è la S. stessa la quale vive solo nel possibile, che è costituito da
alternative. Un tratto più autentico della S. umana è stato messo in luce da
Dewey: « La S. non è l'emergere di una preferenza dall’indifferenza: è
l'emergere di una preferenza unificata da un insieme di preferenze competitive
». Pertanto la S. ragionevole è soltanto quella che unifica e armonizza
differenti tendenze che sono in concorrenza fra loro (Human Nature and Conduct,
1929, pag. 193). Dewey ha così fatto cadere fuori della S. il criterio della
ragionevolezza della S., mettendosi su un piano sul quale si pos- sono
suggerire innumerevoli criteri. Egli ha tuttavia il merito di avere
sottolineato l’importanza della S. e la sua onnipresenza. « L'operazione della
S., ha detto, è inevitabile in qualsiasi intrapresa entri la riflessione. In se
stessa, non è falsificatrice. L'’illu- sione giace nel fatto che la sua
presenza è nascosta, camuffata, negata. Un metodo empirico ritrova e mette in
chiaro l'operazione della S., come fa per qualsiasi altro evento» (Experience
and Nature, 1926, pag. 35). SCELTE, ASSIOMA DELLE (ingl. Axiom of Choice; franc.
Axiome de choix; ted. Auswahl- prinzip). Va con questo nome un principio enun-
ciato da Zermelo nel 1904 secondo il quale: data una classe XK i cui membri
sono classi non vuote a, b, c, ... esiste una funzione f che fa corrispondere
ad ogni classe a, d, c, un elemento e uno solo della classe stessa f (a), f
(5), f (c), ... Questo postulato nella forma di un assioma moltiplicativo, fu
rie- sposto da Russell nella forma seguente: data una classe X i cui membri
sono classi non vuote, che non hanno alcun membro in comune, esiste una classe
A, i cui membri sono tutti membri dei membri di X e che ha solo un membro in
comune con ciascun membro di X. I due assiomi sono stati dimostrati equivalenti
dallo stesso Zermelo. Un’assunzione del genere era frequentemente utilizzata
dai matema- tici, ma la sua enunciazione esplicita ad opera di Zermelo suscitò
dubbi e discussioni: dubbi e di- scussioni che vertono sostanzialmente sul
concetto di «esistenza » dei membri di un insieme. Il postu- lato di Zermelo,
se applicato agli insiemi infiniti, significa semplicemente che si può parlare
della esistenza di un membro dell’insieme anche se non è data una regola
precisa che consente di costruire o riconoscere il membro stesso (cfr. K.
GODEL, The Consistency of the Axiom of Choice and of the Generalized Continuum
Hypothesis with the Axioms of Set Theory, 1940; L. GevMonaT, Storia e filosofia
dell'analisi infinitesimale, 1948). SCETTICISMO (gr. oxertiyà dyoyh; inglese
Scepticism; franc. Scepticisme; ted. Skepricizmus). Con questo termine, che
significa ricerca, s'intende la tesi che è impossibile decidere sulla verità o
falsità di una proposizione qualsiasi. Lo S. non ha nulla a che fare col
relativismo o con le dottrine che tutto è vero o che tutto è falso, giacchè
tali dottrine intendono per l’appunto fornire quel cri- terio di decisione che
lo S. nega che ci sia. Sesto Empirico ha definito con molto rigore la natura
dello S. affermando che il principio fondamentale dello S. è questo: « A ogni
ragione si oppone una ragione di egual valore ». Tale principio infatti im-
pedisce di prender partito per un’affermazione qual- siasi o la sua negazione e
perciò consente di mante- nere l’imperturbabilità (/p. Pirr., I, 12). Lo S. fu
difeso nell’antichità da tre scuole filosofiche diverse: 1° dalla scuola di
Pirrone alla quale esplici- tamente si riattaccava Sesto Empirico (1 secolo)
(v. PIRRONISMO); 2° dalla terza Accademia o nuova Accademia, il cui indirizzo
scetticheggiante fu iniziato da Car- neade di Cirene (i secolo a. C.), che, pur
ammet- tendo l’impossibilità di decidere sul vero o sul SCELTE, ASSIOMA DELLE
falso, riteneva legittimo l’uso di criteri di credibilità puramente soggettivi;
3° da un gruppo di pensatori fioriti dall’ul- timo secolo a. C. al I secolo d.
C. di cui i principali furono Enesidemo (1 secolo a. C.), Agrippa e Sesto
Empirico. Questi pensatori ripresero lo S. rigoroso di Pirrone. Enesidemo
enunciava dieci modi per giungere alla sospensione del giudizio ed Agrippa ne
aggiungeva altri cinque (v. TROPI). Sesto Empi- rico, infine, le cui opere ci
sono state conservate, ha fatto valere le sue istanze scettiche sui principali
temi della filosofia antica e ha riaffermato il carat- tere investigativo,
sospensivo e dubitativo dello S. (Ip. Pirr., I, 7. Il vero precedente storico dello
S. antico è la scuola eleomegarica (v. MegaRICI) la quale si com- piacque di
enunciare quegli argomenti insolubili che rappresentano casi tipici
dell’impossibilità di de- cidere sulla falsità o verità di una tesi (v. ANTI-
NOMIE). Nella storia ulteriore della filosofia lo S. non è mai ritornato nella
sua forma classica. Il Medio Evo lo ignora completamente. Nel Rinasci- mento
esso riaffiora nella meditazione di Mon- taigne, come una delle esperienze
fondamentali alle quali Montaigne fa più frequente riferimento. « Noi non
abbiamo comunicazioni con l’essere perchè l’intera natura umana è sempre in
mezzo tra la nascita e la morte e non attinge di sè che una apparenza oscura ed
umbratile, un’incerta e de- bole opinione» (Essais, ed. Plattard, I, pag. 399).
Montaigne ha in vista soprattutto quel carattere dello S. che gli antichi
scettici chiamavano investi- gativo e che per lui è sperimentativo: « Se la mia
anima potesse prender piede io non mi sperimenterei ma mi risolverei; ma essa è
sempre in tirocinio ed in prova » (/bid., III, 2, pag. 29). E lo stesso signi-
ficato fondamentale ha lo S. di P. Charron che nel libro Sulla saggezza fa
derivare da esso una saggezza naturale e razionale che rende serena la vita e
non è in contrasto con la religione. Queste stesse cose erano dette da
Francesco Sanchez nel Quod nihil scitur (1581). Ma queste non sono, come si
vede, forme di autentico scetticismo. Nè un tale S. si ritrova in colui che,
nel °700, si fece esplicito di- fensore della « filosofia accademica o scettica
» cioè in D. Hume. «Il grande avversario del pirronismo o dei princìpi
esagerati dello S. è l’azione, l’atti- vità e le occupazioni della vita comune»
diceva Hume (/ng. Conc. Underst., XII, 2). Hume contrap- poneva pertanto allo
S. esagerato o eccessivo lo S. mitigato che consiste nella «limitazione delle
nostre ricerche a quegli oggetti che meglio si adat- tano alla ristretta
capacità della mente umana » (Ibid., XII, 3). Ma tale S. non si distingue dalla
tendenza critica della filosofia e pertanto non può essere propriamente
chiamato scetticismo. Nella filosofia moderna la funzione dello S. è stata
duplice. In primo luogo è servito spesso, come bersaglio polemico o ipotesi da
ridurre all’assurdo, ai filosofi che si proponevano di fondare una qualsiasi
dot- trina dogmatica. In secondo luogo è servito come insegna di battaglia
contro determinate filosofie. Così A. E. Schulze contrappose lo S. di Hume al
razionalismo di Kant in un’opera che intitolò al nome dello scettico antico
Enesidemo (1792). In modo analogo G. Rensi si appellò allo S. contro
l’idealismo hegeliano italiano nei primi decenni del sec. xx (Lineamenti di
filosofia scettica, 1917). Ma quello di Rensi fu un curioso S., mescolato con
il materialismo (// materialismo critico, 1934) e perfino con il misticismo
(Testamento filoso- fico, 1939). Sullo S. antico, cfr. DAL PRA, Lo S. greco,
1950. Sullo S. rinascimentale, cfr. R. Hoopes, in Hunt- ington Library; R. H.
PoPKIN, in Review of Meta- physics, 1953, e relative bibliografie. SCHEBLIMINI.
Termine che ricorre nel titolo di uno scritto di J. G. Hamann (Golgotha und S.,
1784) diretto contro Mendelssohn. Il termine, probabilmente desunto da uno
scritto di Lutero, significa l’ispirazione divina e l’esaltazione che essa
comunica, donde la sua opposizione simmetrica a «Golgotha» che è il simbolo
dell’umiliazione. (Cfr. i chiarimenti di L. SCHREINER nel vol. II degli I. G.
Hamanns Hauptschriften erklart, 1956; e V. VERRA, Dopo Kant. Il criticismo
nell’età pre- romantica, 1957, pag. 147 sgg.). SCHEMA (gr. oxfua; ingl. Scheme;
fran- cese Schéma; ted. Schema). Nel significato comune di forma o figura, la
parola viene comunemente usata dai filosofi. Un senso specifico fu dato al
termine solamente da Kant che intese per esso l’intermediario tra le categorie
e il dato sensibile, intermediario la cui funzione sarebbe quella di eli-
minare l’eterogeneità dei due elementi della sintesi, essendo generale come la
categoria e temporale come il contenuto dell’esperienza. In questo senso lo S.
o più precisamente lo S. trascendentale è «la rappresentazione di un
procedimento generale per cui l’immaginazione offre ad un concetto la sua
immagine » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. I). Kant distingue vari tipi
di S. secondo i quattro gruppi delle categorie; e pone tra essi il numero (S.
della quantità) e la cosalità (S. della qualità). In generale gli S. sono
determinazioni del tempo e costituiscono perciò fenomeni o concetti sensibili
di oggetti in accordo con una categoria determinata (/bid., Anal. dei Princ.,
cap. I). In modo analogo lo S. fu inteso da Schelling, che lo distingueva
dall’immagine (rispetto alla quale è più generale) e dal simbolo; Schelling
intendeva per S. «l'intuizione della regola secondo cui l’og- getto può essere
prodotto » e pertanto ne chiariva la nozione con l’esempio dell’artigiano che
deve creare un oggetto di forma determinata in con- formità di un concetto
(System des transzenden- talen Idealismus, 1800, III, cap. II, 3* epoca- trad.
ital., pag. 183). Questo significato kantiano e schellinghiano è l’unico
significato tecnico della parola che talora ancora ricorre (cfr., ad es.,
LEWIS, An Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 134). AI di fuori di essa,
il termine significa semplicemente modello o immagine generale o forma (come
av- viene, per es., in BERGSON, Matière et mémoire, pag. 130 sgg.; Énergie
spirituelle, pag. 161; La pensée et le mouvant, pag. 216) o progetto ge-
nerale. SCHEMATISMO (gr. cynuariopée; ingl. Sche- matism; franc. Schématisme;
ted. Schematismus). 1. Configurazione o struttura. Questo è il signifi- cato
comune del termine greco, al quale fece riferimento Bacone parlando dello S.
latente come di uno dei due aspetti fondamentali dei fenomeni naturali (l’altro
è il processo latente o processo alla forma). Per S. latente Bacone intese la
con- figurazione o struttura dei corpi considerati stati- camente (De Augm.
Scient., II, 1), sicchè lo studio dello S. fu da lui paragonato a ciò che è
l’anatomia per i corpi organici (Nov. Org., II, 7). 2. Kant intese per S. «il
modo di comportarsi dell’intelletto con gli schemi» (Crit. R. Pura, Anal. dei
Princ., cap. I). E in senso analogo usava la parola Schelling (System des
transzendentalen Idealismus, III, cap. II, 3* epoca). Sulla dottrina kantiana
dello S., cfr. E. Paci, « Critica dello sche- matismo trascendentale », in
Rivista di Filosofia, 1955, n. 4; 1956, n. 1. SCHIAVITÙ (gr. sovàela; lat.
Servitus; in- glese Slavery; franc. Esclavage; ted. Sklavereì). La
giustificazione della S., presso i filosofi, ha rivestito sempre la stessa forma:
la S. è cosa utile non solo al padrone ma allo schiavo stesso. Questo è il
motivo per cui Aristotele ritiene la S. come una delle divisioni naturali della
società pari a quella tra femmina e maschio. Infatti poichè c’è «chi è
naturalmente disposto al comando » e « chi è naturalmente disposto ad essere
comandato » la loro unione è «ciò per cui entrambi possono so- pravvivere ». La
stessa cosa (cioè la S.) è quindi « vantaggiosa sia per il padrone che per lo
schiavo + (Pol., I, 2, 1252 a). Lo stesso S. Tommaso ripe- teva, citando
Aristotele, questa considerazione: « Che quest'uomo sia servo, a preferenza di
un altro è cosa che da un punto di vista assoluto non ha una ragione naturale
ma solo la ragione di una qualche utilità, in quanto è utile allo schiavo che
egli sia governato da uno più saggio ed è utile a costui che egli si giovi
dello schiavo » (S. Tà., II, 2, q. 57, a. 3, ad 2°). L’illustrazione che della
figura servo-padrone ha dato Hegel nella Fenome- nologia dello spirito
obbedisce allo stesso spirito di giustificazione. Il signore è l’autocoscienza
del servo e il servo è lo strumento che elabora gli oggetti affinchè il signore
ne goda e affinchè, in questa maniera egli stesso partecipi, per mediazione, al
godimento dell’oggetto come il padrone partecipa per mediazione alla produzione
di esso (Phanom. des Geistes, I, IV, A; trad. ital., pag. 168 sgg.). D'altronde
il cristianesimo aveva reso insigni- ficante la S.; e, in un certo senso, anche
la sua condanna. Poichè sia il giudeo che il greco, sia il servo che il libero,
sia il maschio che la femmina « fanno una sola cosa in Gesù Cristo » (Ga/.,
III, 28) non è importante che si sia schiavi o liberi, ma basta essere «liberto
del Signore» (/ Cor., VII, 21-22). Nel mondo antico soltanto gli Stoici con- dannarono
senza riserve la S.: « Solo il sapiente è libero e i malvagi sono schiavi:
giacchè la libertà non è che l’autodeterminazione e la S. è l’assenza
dell’autodeterminazione. C’è poi un’altra S. che consiste nella soggezione o
nella compera e nella soggezione, cui si contrappone la padronanza, che è
malvagia anch'essa » (Diog. L., VII, 121). Accanto alla negazione della S. come
istituzione sociale, gli Stoici fecero prevalere il concetto della S. come
stato o situazione morale. Diceva Seneca: « ‘Sono schiavi *. Sì, ma anche
uomini. ‘ Sono schiavi ”. Sì, ma anche compagni di abitazione. ‘ Sono schiavi
’. Sì, ma anche umili amici. ‘ Sono schiavi ’. Sì, ma anche compagni di
schiavitù, se rifletterai che gli uni e gli altri sono soggetti ai capricci
della fortuna » (Ep., 47): concetti che sono variamente ripetuti nella
letteratura romana, per quanto non trovas- sero alcun riscontro nel diritto
romano codificato, che faceva dello schiavo la «cosa? del padrone. Nel mondo
moderno, è stata la filosofia illumini- stica a rendere assurda e ripugnante la
nozione stessa di S.: la difesa che essa fece della nozione di eguaglianza
significa appunto la condanna della S. in tutte le sue forme e gradi (cfr., ad
es., VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, 1764, arti- colo « Egalité +).
SCIENTISMO (ingl. Scientism; franc. Scien- tisme; 1. L'atteggiamento proprio di
chi si av- vale dei metodi e dei procedimenti della scienza. Questo è il
significato che il termine ha spe- cialmente in inglese (cfr. però anche LE
DANTEC, Contre la métaphysique, 1912, pag. 51). 2. L’atteggiamento di chi dà
importanza prepon- derante alla scienza nei confronti delle altre attività
umane o ritiene che non ci siano limiti alla validità e all’estensione della
conoscenza scientifica. In questo senso il termine equivale a positivismo ma
con una connotazione peggiorativa. Dice Bergson: SCIENTISMO « Noi abbiamo
soltanto domandato alla scienza di restare scientifica, di non avvolgersi in
una meta- fisica incosciente che si presenta allora agli igno- ranti, o ai
semidotti, sotto la maschera della scienza. Durante più di mezzo secolo questo
S. ha ingombrato la strada della metafisica» (La SCIENZA (gr. ètriomhun; lat.
Scientia; in- glese Science; franc. Science; ted. Wissenschaft). Una conoscenza
che includa, in modo o misura qualsiasi, una garanzia della propria validità.
La limitazione espressa con le parole «in modo o mi- sura qualsiasi » è qui
inclusa per rendere la defini- zione applicabile alla S. moderna che non ha
pretese di assolutezza. Ma il concetto tradizionale della S. è quello per il
quale la S. include una garanzia assoluta di validità ed è perciò, come
conoscenza, il grado massimo della certezza. L’op- posto della S. è l'opinione
(v.), caratterizzata per l'appunto dalla mancanza di garanzia circa la sua
validità. Le differenti concezioni della S. si pos- sono distinguere a seconda
della garanzia di vali- dità che le si riconosce. Questa garanzia può
consistere: 1° nella dimostrazione; 2° nella descri- zione; 3° nella
correggibilità. 1° La dottrina che la S. provvede a garantire la propria
validità dimostrando le sue affermazioni, cioè connettendole in un sistema o in
un organismo unitario nel quale ciascuna di esse sia ne- cessaria e nessuna
possa essere tolta, aggiunta o mutata, è l’ideale classico della scienza.
Platone paragonava l’opinione (v.) alle statue di Dedalo che sono sempre in
atto di fuggire: le opinioni difatti « disertano dall'anima umana sicchè non
hanno gran pregio finchè qualcuno non riesce a legarle con un ragionamento
causale +. Ma « quando siano legate diventano S. e rimangono fisse. Ecco perchè
la S. (conclude Platone) è più valida della retta opinione e differisce da essa
per la sua con- nessione » (Men., 98 a). La dottrina della S. di Aristotele è
molto più ricca e circostanziata, ma obbedisce allo stesso concetto. La S. è «
conoscenza dimostrativa ». Per conoscenza dimostrativa s’in- tende quella per
cui «si conosce la causa di un oggetto cioè si conosce perchè l’oggetto non può
esser diverso da com'è» (An. Pr., I, 2, 71b 9 sgg.). Di conseguenza, l’oggetto
della S. è il necessario (v.); e perciò la S. si distingue dall'opinione e non
coincide con essa: se coincidesse, « si sarebbe con- vinti che un medesimo
oggetto possa comportarsi diversamente da come si comporta e si sarebbe, al
tempo stesso convinti che non possa compor- tarsi diversamente» (An. Posr., I,
33, 89a 38). Perciò Aristotele esclude che ci possa essere S. del non
necessario: della sensazione (/bid., 31, 87 b 27) e dell’accidentale (Mer., VI,
2, 1027 a 20); mentre identifica la conoscenza scientifica con la conoscenza
dell’essenza necessaria o sostanza (/bid., VII, 6, 1031 b 5). La più perfetta
realizzazione di questo ideale della S. furono gli Elementi di Euclide (sec. Im
a. C.). Quest'opera, che ha voluto realiz- zare la matematica come S.
perfettamente deduttiva, senza nessun appello all’esperienza o all’induzione, è
rimasta per molti secoli (e sotto certi aspetti rimane a tutt'oggi) il modello
stesso della scienza. Attraverso gli E/ementi di Euclide la concezione della S.
di Platone e di Aristotele si trasmise più efficacemente che attraverso la
delineazione teorica di Aristotele. Da tale delineazione gli antichi non si
scostarono. Gli Stoici la ripetettero affermando che «la S. è la comprensione
sicura, certa e im- mutabile fondata sulla ragione» (Sesto E., Adv. Math., VII,
151) o che essa «è una compren- sione sicura o un abito immutabile ad
accogliere rappresentazioni, fondato sulla ragione» (Droc. L., VII, 47). S.
Tommaso ripeteva le notazioni aristo- teliche (S. 77., II, 1, q. 57, a. 2) e
Duns Scoto accentuava il carattere dimostrativo e necessario della S.
escludendo da essa ogni conoscenza priva di quei caratteri, quindi l’intero
dominio della fede (Op. Ox., Prol., q. 1, n. 8). Anche l’ultima sco- lastica,
con Ockham, manteneva in piedi l’ideale aristotelico della S. (In Sent., III,
q. 8). Il sorgere della S. moderna non ha messo in crisi questo ideale. Da un
lato il necessitarismo degli aristotelici viene condiviso anche dai loro
avversari; dall’altro persiste la suggestione della matematica come S. perfetta
per la sua organizza- zione dimostrativa; e Galilei stesso poneva le « di-
mostrazioni necessarie » accanto alla « sensata espe- rienza » come fondamento
della S. (Opere, V, pag. 316). L’ideale geometrico della S. domina pure le
filosofie di Cartesio e Spinoza. Cartesio voleva organizzare tutto il sapere
umano sul mo- dello dell’aritmetica e della geometria: le sole S. che egli
riconosceva «prive di falsità e di incer- tezza » perchè fondate interamente
sulla deduzione (Regulae ad directionem ingenii, IL E Spinoza chiamava S.
intuitiva la estensione del metodo geo- metrico all'intero universo, estensione
per il quale «dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi di
Dio si procede alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose + (Er., II, 40,
scol. 2°). Kant contrassegnava questo vecchio ideale con un nuovo termine,
quello di sistema (v.). « L’unità sistematica, egli diceva, è ciò che prima di
tutto fa di una cono- scenza comune una S. cioè di un semplice aggregato un
sistema +; e aggiungeva che per sistema bisogna intendere « l’unità di
molteplici conoscenze rac- colte sotto un’unica idea » (Crif. R. Pura, Dottrina
del metodo, cap. III; cfr. Meraphysische Anfangs- griinde der
Naturwissenschaft, Vorrede). Questo concetto della S. come sistema, introdotto
da Kant, è diventato un luogo comune della filosofia dell’800 ed è ancora
quello cui fanno oggi ricorso le filosofie di carattere teologico o metafisico.
Ciò è accaduto soprattutto perchè il Romanticismo lo ha fatto suo e lo ha
ripetuto fino alla nausea. Diceva Fichte: « Una S. dev’essere una unità, un
tutto... Le singole proposizioni in generale non sono S., ma diventano S. solo
nel tutto, mercè il loro posto nel tutto, la loro relazione con il tutto »
(Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ I) Schelling ripeteva: « Si
ammette generalmente che alla filosofia convenga una forma sua particolare che
si dice sistematica. Presupporre una tal forma non dedotta tocca ad altre S.
che già presuppongono la S. della S., ma non già a questa che si propone per
oggetto la possibilità di una S. siffatta » (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, I, cap. I; trad. ital., pag. 27). E Hegel affermava
perentoria- mente: « La vera forma nella quale la verità esiste può essere
soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si
avvicini alla forma della S. — cioè alla meta, raggiunta la quale essa sia in
grado di abbandonare il nome di amore del sapere per essere vero sapere — ecco
ciò che io mi sono proposto» (Phanom. des Geistes, Prefa- zione, I, 1). Fichte,
Schelling e Hegel ritenevano che il solo sapere sistematico, quindi la sola S.,
fosse la filosofia. Ma il concetto di sistema è ri- masto a caratterizzare la
S. in generale, quindi anche la S. della natura, per molti filosofi dell’800.
H. Cohen vedeva nel sistema la categoria più alta della natura e della S.
(Logik, 1902, pag. 339). Husserl poneva il carattere essenziale della S. nella
« unità sistematica » che in essa trovano le singole conoscenze e i loro
fondamenti (Logische Unter- suchungen, 1900, I, pag. 15); e additava nel
sistema l’ideale stesso della filosofia, se essa vuole organiz- zarsi come «S.
rigorosa» (Philosophie als strenge Wissenschaft, 1910-11; trad. ital., pag. 5).
L'ideale della S. come sistema ha continuato a vivere anche molto tempo dopo
che le S. naturali si sono allon- tanate da esso e hanno cominciato a
polemizzare contro «lo spirito di sistema ». Se si può oggi considerare
tramontato l’ideale classico della S. come sistema compiuto di verità
necessarie o per evidenza o per dimostrazione, non si possono tuttavia
considerare tramontate tutte le caratteristiche di esso. Che la S. sia, o tenda
ad essere, un sistema, un’unità, una totalità organiz- zata, è pretesa che
viene talora condivisa anche dalle altre concezioni della S. stessa. Ciò che
questa pretesa conserva in ogni caso di valido è l’esigenza che le proposizioni
che costituiscono il corpo linguistico di una S. siano tra loro compa- tibili
cioè non contraddittorie. Questa esigenza in- dubbiamente è assai più debole di
quella che vorrebbe che tali proposizioni costituissero una unità o un sistema;
anzi, parlando a rigore, è un’esigenza totalmente diversa giacchè la non con-
traddittorietà non implica in alcun modo l’unità sistematica. Tuttavia, nel
corrente linguaggio scien- tifico o filosofico, spesso l’esigenza sistematica
vicne ridotta a quella della compatibilità. 2° La concezione descrittiva della
S. si è ve- nuta formando a partire da Bacone e per opera di Newton e dei
filosofi illuministi. Il suo fonda- mento è la distinzione baconiana tra
anticipazione e interpretazione della natura: l’interpretazione con- sistendo
nel «condurre gli uomini davanti ai fatti particolari e ai loro ordini » (Nov.
Org., I, 26, 36). Newton stabiliva il concetto descrittivo della S.
contrapponendo il metodo dell’analisi al metodo della sintesi. Quest’ultimo
consiste « nell’assumere che le cause sono state scoperte, nel porle come
princìpi e nello spiegare i fenomeni procedendo da tali principi e considerando
come prova questa spiegazione ». L'analisi consiste invece «nel fare
esperimenti ed osservazioni, nel trarre conclusioni generali da essi per mezzo
dell’induzione e nel non ammettere contro le conclusioni obiezioni che non
siano derivate dagli esperimenti o da altre verità certe» (Opricks, III, 1, q.
31). La filosofia del- l’illuminismo esaltò e diffuse l’ideale scientifico di
Newton. « Questo grande genio, diceva D’Alembert, vide che era tempo di bandire
dalla fisica le con- getture e le ipotesi vaghe o almeno di darle solo per quel
che valgono e di sottoporre questa S. sol- tanto alle esperienze e alla
geometria » (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in (Euvres, ed. Con-
dorcet, pag. 143). Nello stesso tempo D’Alembert dichiarava ormai inutile, per
la S. e per la filo- sofia, lo spirito di sistema. « Tutte le S., egli diceva,
rinchiuse, per quanto è possibile, nei fatti e nelle conseguenze che si possono
da essi dedurre, non accordano nulla all’opinione, salvo quando vi sono
costrette ». La S. si riduce così all’osservazione dei fatti e alle inferenze o
ai calcoli fondati sui fatti. Il positivismo ottocentesco non faceva che appel-
larsi allo stesso concetto della scienza. Diceva Comte: « Il carattere
fondamentale della filosofia positiva è quello di considerare tutti i fenomeni
come soggetti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui
riduzione al minimo nu- mero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi,
mentre consideriamo come assolutamente inaccessibile e priva di senso la
ricerca di quelle che si chiamano cause, sia primarie sia finali» (Cours de
phil. positive, I, $ 4; vol. I, pag. 26-27). Ma il positivismo insistette anche
su quel carattere della S. che già Bacone aveva messo in luce: il carattere
attivo od operativo, per cui essa permette all’uomo di agire sulla natura e
dominarla mediante la previsione dei fatti resa possibile dalle leggi (Ibid.,
II, $ 2; pag. 100). L’ideale descrittivo della S. non implica pertanto che la
S. consista nel rispec- chiamento o nella riproduzione fotografica dei fatti.
Da un lato, il carattere anticipatorio della cono- scenza scientifica per il
quale essa si concreta in previsioni fondate sui rapporti accertati tra i fatti
le toglie il carattere fotografico: non si può infatti fotografare il futuro.
Dall'altro lato, la stessa S. positivistica ha messo in luce il carattere
attivamente orientato della descrizione scientifica. Le considera- zioni di
Claude Bernard a questo proposito sono particolarmente importanti: « La
semplice constata- zione dei fatti, egli dice, non potrà mai giungere a
costituire una scienza. Si possono moltiplicare i fatti e le osservazioni, ma
questo non farà appren- dere nulla. Per istruirsi bisogna necessariamente
ragionare su ciò che si è osservato, paragonare i fatti e giudicarli con altri
fatti che servono di controllo » (Zntr. à l’étude de la médecine expéri-
mentale, 1865, I, 1, $ 4). Da questo punto di vista, una S. di osservazione
sarà una S. che ragiona sui fatti dell’osservazione naturale cioè sui fatti
puramente e semplicemente constatati; mentre una S. sperimentale o di
esperimento ragionerà sui fatti ottenuti nelle condizioni che lo sperimentatore
ha creato e determinato lui stesso (2bid., 1865, I, 1,84). La dottrina della S.
di Mach non potrebbe chia- marsi descrittiva se per descrizione si intendesse
la riproduzione fotografica degli oggetti, ma si può chiamare descrittiva nel
senso ora chiarito. Dice Mach: « Se escludiamo ciò che non ha senso ri-
cercare, vedremo apparire più nettamente ciò che possiamo realmente attingere
mediante le S. par- ticolari: tutte le relazioni e i differenti modi di
relazione degli elementi tra loro » (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad.
franc., pag. 25). L’innovazione di Mach consiste nel suo concetto degli
elementi: tali elementi essendo per lui comuni sia alle cose che alla coscienza
e diversi nella coscienza e nella cosa solo in quanto appartenenti ad insiemi
diversi (1bid., cap. I; trad. franc., pag. 25; cfr. Die Analyse der
Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag. 14). La fun- zione economica che Mach
attribuì alla S. o, più precisamente ai concetti scientifici, non toglie per-
tanto il carattere descrittivo della S., riconoscibile nella tesi che la S. ha
per oggetto i rapporzi fra gli elementi. Appunto perchè la S. considera i
rapporti tra i fatti, essa è una descrizione abbreviativa ed economica dei
fatti stessi (Die Mechanik; trad. ingl., 1902, pag. 481 sgg.). Allo stesso modo
Bergson riconosce il carattere convenzionale ed economico della S. dal fatto
che essa, che ha come suo organo l’intelligenza, si ferma non sulle cose ma sui
rap- porti tra le cose o le situazioni (Év. créarr., 83 ediz., 1911, pag. 161,
356). L’ideale descrittivo della S., ricorre ancora in scrittori recenti. Dewey
afferma: « Nella S., poichè i significati sono deter- minati sulla base della
loro relazione reciproca come significati, le relazioni divengono gli oggetti
dell’indagine e le qualità vengono assai sminuite di importanza, rivestendo una
funzione soltanto in quanto siano d’aiuto nello stabilire relazioni » (Logic,
VI, $ 6; trad. ital., pag. 171). Ora le re- lazioni non sono che un altro nome
per /eggi giacchè la legge non è che l’espressione di una relazione: sicchè lo
stesso concetto della S. si può riscontrare in tutti gli scrittori che
riconoscono nella formulazione della legge il compito della scienza. Diceva H.
Dingler: «Il compito principale della S. consiste nel raggiungere leggi nel
maggior numero possibile » (Die Methode der Physik, 1937, I, $ 9). E più recentemente
R. B. Braithwaite ha affermato: «Il concetto fondamentale della S. è quello
della legge scientifica e lo scopo fondamen- tale di una S. è lo stabilimento
di leggi. Per capire il modo in cui una S. opera e il modo in cui essa fornisce
spiegazioni dei fatti che investiga, è ne- cessario capire la natura delle
leggi scientifiche c il modo di stabilirle » (Scientific Explanation, Cam-
bridge, 1953, pag. 2). 3° Una terza concezione è quella che riconosce come
unica garanzia della validità della S. la sua autocorreggibilità. Si tratta di
una concezione che si è affacciata nelle avanguardie più critiche o meno
dogmatiche della metodologia contemporanea e non ha ancora raggiunto gli
sviluppi assunti dalle due concezioni precedenti; ma che è tuttavia significa-
tiva, sia perchè muove dall’abbandono di ogni pre- tesa alla garanzia assoluta,
sia perchè apre nuove prospettive allo studio analitico degli strumenti di
indagine di cui le S. dispongono. Il presupposto di questa concezione è il
fallibilismo (v.) che Peirce riconosceva proprio di tutta la conoscenza umana
(Coll. Pap., I. 13, 141-52). Ma la tesi in questione è stata per la prima volta
espressa da Morris R. Cohen: « Noi possiamo definire la S. come un sistema
autocorrettivo.. La S. invita al dubbio. Essa può svilupparsi 0 progredire non
solo perchè è frammentaria ma anche perchè nessuna sua pro- posizione è in se
stessa assolutamente certa e così il processo di correzione può operare quando
tro- viamo prove più adeguate. Ma bisogna notare che il dubbio e la correzione
sono sempre in accordo con i canoni del metodo scientifico così che questa
ultima è il suo legame di continuità » (Srudies in Philosophy and Science,
1949, pag. 50). M. Black ha più recentemente adottato un punto di vista
analogo: «I princìpi stessi del metodo scientifico devono a loro volta essere
considerati come provvi- sori e soggetti a ulteriori correzioni, in modo che
una definizione di ‘ metodo scientifico * sarebbe verifica- bile in qualche
esteso senso del termine » (Problems of Analysis, 1954, pag. 23). In termini
apparente- mente paradossali ma equivalenti, K. Popper aveva affermato nella
Logica della ricerca (1935) che l’ar- mamentario della S. è diretto, non alla
verifica, ma alla falsifica delle proposizioni scientifiche. « 11 nostro metodo
di ricerca, egli diceva, non è diretto a difendere le nostre anticipazioni per
provare che abbiamo ragione, ma al contrario è diretto a di- struggerle. Usando
tutte le armi del nostro arma- mentario logico, matematico e tecnico, noi
tentiamo di provare che le nostre anticipazioni sono false, per avanzare, al
loro posto, nuove ingiustificate e ingiustificabili anticipazioni, nuovi
‘frettolosi e pre- maturi pregiudizi’ come Bacone derisoriamente le chiamava »
(The Logic of Scientific Discovery, 23 edi- zione, 1958, $ 85, pag. 279). Con
questo Popper ha voluto segnare l’abbandono dell’ideale classico della S.: « Il
vecchio ideale scientifico dell’episteme, della conoscenza assolutamente certa
e dimostra- bile, si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’obbiet- tività
scientifica rende inevitabile che ogni asser- zione scientifica rimanga per
sempre come un tentativo ». L'uomo, non può conoscere ma solo congetturare
(/bid., pag. 278, 280). Affermare che gli strumenti di cui la S. dispone siano
diretti a dimostrar false le asserzioni della S. è un altro modo per esprimere
il concetto dell’autocorreggibi- lità della S.: provar falsa un’asserzione
significa infatti sostituirla con un’altra asserzione, non an- cora provata
falsa, quindi correttiva della prima. La nozione dell’autocorreggibilità
costituisce indub- biamente la garanzia meno dogmatica, che la S. può esigere,
della propria validità. Essa consente un’analisi meno pregiudicata degli
strumenti di ac- certamento e di controllo di cui le singole S. di- spongono
(cfr. Beyond the Edge of Certainty, a cura di R. C. Colodny, 1965). SCIENZA,
DOTTRINA DELLA (inglese Science of Science; franc. Doctrine de la science; ted.
Wissenschaftslehre). Espressione con cui Fichte designò «la S. delle S. in
generale » cioè la S. che espone in modo sistematico il principio fondamen-
tale su cui poggiano tutte le altre scienze. « Ogni possibile S. ha un
principio fondamentale che in essa non può essere dimostrato ma dev'essere già
certo prima di essa. Ora dove dev'essere dimo- strato questo principio
fondamentale? Senza dubbio in quella S. la quale deve fondare tutte le possi-
bili S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital., pag.
11-12). Fichte identificava la dottrina della S. con la filosofia e vedeva il
suo principio fondamentale nell’Io. L’espressione viene tuttora usata
prevalentemente in riferimento a Fichte. Tuttavia B. Bolzano l’ado- però come
titolo di un’opera per indicare la dottrina che espone le regole per la
divisione del campo del sapere nelle singole S. e per l’apprendimento del
sapere stesso (Wissenschaftslehre, 1837, I, $ 6; cfr. IV, $ 392 sgg.). Ma per
la disciplina che con- sidera le forme o i procedimenti della conoscenza
scientifica sono state più frequentemente adoperate le parole gnoseologia (v.)
e metodologia (v.). SCIENZA NUOVA. Espressione con cui G. B. Vico designò la
sua opera maggiore, pub- blicata per la prima volta nel 1725 e in nuove
edizioni nel 1730 e nel 1744. Il titolo completo Principi di una scienza nuova
intorno alla comune natura delle nazioni dice l’intento dell’opera. Vico si
proponeva di instaurare una S. che avesse per suo compito la ricerca delle
leggi che sono proprie del mondo della storia umana, al modo in cui la S.
naturale ricerca leggi del mondo naturale. Vico vuol essere il Bacone del mondo
della storia e si propone di rintracciare l’ordine di tale mondo e di
esprimerlo in leggi. Le fondamentali caratte- rizzazioni che egli dà della S.
nuova sono le seguenti (cfr. specialmente S. N. del 1744, I, Del metodo): 1° la
S. nuova è una « teologia civile ragionata della provvidenza divina »: cioè la
dimostrazione dell’ordine provvidenziale che si va attuando nella società umana
a misura che l’uomo si solleva dalla sua caduta e dalla sua miseria primitiva.
Vico contrappone questa teologia civile alla teo- logia fisica della
tradizione, la quale dimostra l’azione provvidenziale di Dio nella natura; 2°
la S. nuova è «una storia delle umane idee sulla quale sembra dover procedere
la metafisica della mente umana»: essa è cioè la determinazione dello sviluppo
intellettuale umano dalle rozze ori- gini fino alla «ragione tutta spiegata +.
In questo senso essa è anche una « critica filosofica che mostra l’origine
delle idee umane e la loro successione +; 3° in terzo luogo la S. nuova tende a
descri- vere «una storia ideale eterna, sopra la quale cor- rano in tempo le
storie di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e
fini ». Come tale, la S. nuova è anche una S. dei principi della storia
universale e del diritto naturale universale; 4° la S. nuova è inoltre « una
filosofia dell’au- torità » cioè della tradizione, giacchè dalla tradizione
desume le prove di fatto (o filologiche) che accer- tano l’ordine di
successione delle età della storia. Sul concetto della storia di Vico, v.
STORIA. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE (ingl. Classification of Sciences;
franc. Classification des sciences; ted. Klassifikation der Wissenschafte). Mentre un'enciclopedia (v.) è il tentativo di dare il
quadro completo di tutte le discipline scientifiche e di fissare in modo
definitivo i loro rapporti di coordinazione e subordinazione, una
classificazione delle S. ha solo l’intento più modesto di dividere le S. in due
o più gruppi secondo l’affinità dei loro oggetti o dei loro strumenti
d’indagine. È ovvio che anche le enciclopedie delle S. possono essere
considerate come semplici classificazioni; ma molto più efficaci sono state nei
confronti dello stesso la- voro scientifico alcune semplici classificazioni
pre- sentate dai filosofi dell’800. La più famosa di tutte è quella proposta da
Ampère di S. dello spirito o noologiche e S. della natura o cosmologiche (Essai
sur la philosophie des sciences, 1834). Questa classificazione è stata
estesamente accettata e ta- lora riespressa con altri termini, per es., come
distinzione tra S. culturali e S. naturali (Du Bols- ReyMonp, Kulturgeschichte
und Naturwissenschaften, 1878). Alla sua diffusione contribuì soprattutto Dil-
they che nella Introduzione alle scienze dello spirito (1883) insistette sulla
differenza tra le scienze che mirano a conoscere causalmente l’oggetto, che ri-
mane esterno, cioè le S. naturali e quelle che invece mirano a comprendere
l’oggetto (che è l’uomo), e a riviverlo intrinsecamente, cioè le S. dello
spirito. Windelband a sua volta distingueva tra S. nomo- tetiche che cercano di
scoprire la legge e concernono la natura; e S. idiografiche che hanno invece di
mira il singolo nella sua forma storicamente de- terminata e hanno per oggetto
la storia (Geschichte und Naturwissenschaften, 1894, poi nei Praludien). In
modo più riuscito Rickert esprimeva la stessa differenza affermando che le S.
della natura hanno carattere generalizzante mentre le S. dello spirito hanno
carattere individuante (Die Grenzen der na- turwissenschaftlichen
Begriffsbildung, 1896-1902, pa- gina 236 sgg.) (v. STORIOGRAFIA). Da un altro
punto di vista, Comte aveva di- stinto due specie di S. naturali: le S.
astratte o generali che hanno per oggetto la scoperta delle leggi che regolano
le diverse classi dei fenomeni e le S. concrete, particolari, descrittive, che
consi- stono nell’applicazione di queste leggi alla storia effettiva dei
differenti esseri esistenti (Cours de phil. positive, 1830, I, II, $ 4).
Spencer riprendeva questa distinzione e a sua volta divideva tutte le S. in
astratte (logica formale e matematica), astratto- concrete (meccanica, fisica,
chimica) e concrete (astronomia, mineralogia, geologia, biologia, psico- logia,
sociologia) (The Classification of the Sciences, 1864). E Wundt semplificava
questa classificazione riducendola a due gruppi soltanto: quello delle S.
formali (logica e matematica) e quello delle S. reali (le S. della natura e
dello spirito) (System der Philosophie, 1889). Poco diversa da questa è la
classificazione triadica di Ostwald in S. formali, S. fisiche e S. biologiche
(Grundriss der Naturphilo- sophie, 1908). La distinzione tra S. formali e S.
reali è ancora largamente accettata. R. Carnap l’ha riproposta sul fondamento
che le S. formali conter- rebbero solo asserzioni analitiche e le S. reali o
fattuali conterrebbero anche asserzioni sintetiche (in Erkenntniss, 1934, n. 5;
ora in Readiîngs in the Philosophy of Science, 1953, pag. 123 sgg.). Così
interpretata la classificazione lascia, come nota Carnap, intatta l’unità della
S. giacchè «le S. formali non hanno oggetto affatto: sono sistemi di asserzioni
ausiliarie senza oggetto e senza con- tenuto » (/bid., pag. 128). Queste ultime
parole di Carnap si spiegano tenendo presente che alla distinzione tra le varie
S. non si può dare oggi un carattere assoluto 0 rigoroso. Le seguenti parole di
von Mises esprimono bene il punto di vista più diffuso sull’argomento:
«Ogni ripartizione e suddivisione delle
S. ha solo un’importanza pratica e provvisoria, non è siste- maticamente
necessaria e definitiva, cioè dipende dalle situazioni esterne in cui si compie
il lavoro scientifico e dalla fase attuale di sviluppo delle singole
discipline. I progressi più decisivi hanno spesso origine dal chiarimento di
problemi che si trovano al confine di settori sino ad allora trattati
separatamente » (K/eines Lehrbuch des Positivismus, 1939, V, 7). SCOLASTICA
(ingl. Scholasticism; franc. Sco- lastique; ted. Scholastik). x. Propriamente,
la filo- sofia cristiana del Medio Evo. Si chiamò scholasticus nei primi secoli
del Medio Evo l'insegnante di arti liberali ed in seguito il docente di
filosofia o teologia che teneva le sue lezioni prima nella scuola del chiostro,
o della cattedrale, poi nell’Università. S. significa perciò, alla lettera, la
filosofia della scuola. Poichè le forme dell’insegnamento medie- vale erano
due, la /ecrio, che consisteva nel com- mento di un testo e la disputatio, che
consisteva nell’esame di un problema fatto con la discussione degli argomenti
che si possono addurre pro e contra, l’attività letteraria assunse nella S.
prevalentemente la forma di Commentari o di raccolte di questioni (v.
QUESTIONE).Il problema fondamentale della S. è quello di portare l’uomo alla
comprensione della verità rive- lata. La S. è l’esercizio dell’attività
razionale (0, in pratica, l’uso di una qualche determinata filosofia, che è
quella neoplatonica o quella aristotelica) allo scopo di accedere alla verità
religiosa, di dimostrarla o chiarirla nei limiti in cui questo è possibile e di
approntare per essa un armamentario difensivo contro l’incredulità e le eresie.
La S. pertanto non è una filosofia autonoma, come, ad es., la filosofia greca:
il suo dato o il suo limite è l’insegnamento religioso, il dogma. Nel suo
stesso compito essa non si fida delle sole forze della ragione ma fa appello,
per aiuto, alla stessa tradizione reli- giosa o filosofica con l’uso delle
cosiddette aucio- ritates. Auctoritas è la decisione di un concilio, un detto
biblico, la sentenzia di un padre della chiesa o anche di un grande filosofo
pagano, arabo o giudaico. Il ricorso all’autorità è la manifestazione tipica
del carattere comune e super-individuale della ricerca S., nella quale il
singolo vuole conti- muamente sentirsi appoggiato dalla responsabilità
collettiva della tradizione ecclesiastica. La S. medievale si suole distinguere
in tre grandi periodi: 1° l’alta S. che va dal rx secolo alla fine del x secolo,
che è caratterizzata dalla fiducia nell’armonia intrinseca e sostanziale di
fede e ra- gione e nella coincidenza dei loro risultati; 2° il fiorire della S.
che va dal 1200 ai primi anni del 1300, che è l’epoca dei grandi sistemi nel
quale l’accordo tra fede e ragione viene ritenuto solo parziale, senza che
tuttavia si ritenga possibile il loro contrasto; 3° la dissoluzione della S.
che va dai primi decenni del 1300 sino al Rinascimento durante la quale il tema
fondamentale è per l’ap- punto il contrasto tra fede e ragione. Questo concetto
della S. è stato avviato dall'opera fondamentale di M. GRABMAN, Die Geschichte
der scholastischen Methode (1909, rist.
1956). Non sono mancati i tentativi di considerare la S. come una sintesi
dottrinale completa nella quale con- fluissero e si fondessero i contributi
individuali (per es., da parte di De WuLF, Histoire de la philosophie
médiévale, 1900 e successive ed.); ma questi tentativi non hanno base storica e
si riducono a mettere fuori dalla S. un gran numero di autori S. e a stabilire,
tra gli altri, concordanze e unifor- mità fittizie (cfr. AsBagnANO, Storia
della fil., 2% ed., 1958, I, $ 171, e relativa bibliografia). 2. Per estensione
si può chiamare S. ogni filosofia che si assuma il compito di illustrare e difendere
razionalmente una determinata tradi- zione o rivelazione religiosa. In questo
compito di regola una S. si avvale di una filosofia già stabilita e famosa:
sicchè in questo senso la S. è l’utilizza- zione di una filosofia determinata
per la difesa e l’illustrazione di una determinata tradizione reli- giosa (v.
FiLosoria). In questo senso generalizzato le S. sono molte, sia nell’antichità
che nel mondo moderno. Nell’antichità furono S. il neoplatonismo, il
neopitagorismo, ecc. Nel Medio Evo furono S. la filosofia degli arabi e dei
giudei. Nel mondo moderno è una scolastica la filosofia di Malebranche, quella
di Berkeley, della destra hegeliana, di Ro- smini, di molti spiritualisti, ecc.
SCOMMESSA (ingl. Wager; franc. Pari; tede- sco Wette). Viene così chiamato il
famoso argomento di Pascal in favore della fede. Poichè l’esistenza di Dio non
si può dimostrare, Pascal dimostra che è conveniente scommettere sull’esistenza
di Dio. « La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno che
scegliendo l’altro perchè bisogna scegliere necessariamente. Ecco un punto
liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita dando a
croce il senso che Dio esiste. Valutiamo i due casi: Se guadagnate, guada-
gnate tutto; se perdete, non perdete niente. Scom- mettete dunque che egli
esiste, senza esitare» (Pensées, 233). Pascal aggiunge che, una volta decisi a
scom- mettere, sarà facile credere, « facendo tutto come se si credesse,
prendendo l’acqua benedetta, facendo dir messe, ecc. Ciò vi farà credere e vi
abbrutirà (abétira) (Ibid.).» L'argomento fu ripetuto da W. James nella sua
Volontà di credere (1897). James interpreta il passo pascaliano come se dicesse
che è irrazionale correre il rischio di perdere la verità, pur di non incorrere
eventualmente in errore (The Will to Believe, cap. I). L’argomento pascaliano
non è suscettibile di molte interpretazioni e tutte le discussioni intorno ad
esso tendono piuttosto a difenderlo o a confutarlo. È soprattutto riuscita
sconcertante l’espressione ado- perata da Pascal «vi abbrutirà» (vous abérira).
E non è mancato chi ha cercato espungerla dal testo pascaliano, leggendo invece
a/lestira che significhe- rebbe « vi renderà pronto » (GAILLARD, « Une nou-
velle leson d’un mot célèbre de Pascal», in Annales de l'Université de
Grenoble, XXI, 13). Ma in realtà l’espressione pascaliana non intende ridurre
la fede all’abbrutimento, ma si riferisce ad uno dei punti fondamentali della
dottrina di Pascal, per cui la fede deve investire non soltanto lo spirito
dell’uomo ma anche la macchina, l’auroma che è nell'uomo (Pensées, 250) cioè il
complesso delle abitudini che fissano la fede stessa e la sottraggono al
dubbio. L’abétira si riferisce a questo secondo aspetto, senza il quale la fede
stessa è incompleta. SCOPRIMENTO (ted. Entdecktheit). Secondo Heidegger, «la
possibilità dell’essere di ogni ente non conforme all’Esserci » [cioè di ogni
cosa del mondo] di essere rintracciata e determinata « attra- verso un
particolare processo che la scopre mo- vendo dall'ente che per primo s'incontra
nel mondo ». È, secondo Heidegger, uno dei caratteri fondamentali delle cose,
in quanto utilizzabili, quindi della mondità in generale (Sein und Zeit, $ 18).
SCOTISMO (ingl. Scorism; franc. Scotisme; ted. Scotismus). La dottrina di Giovanni
Duns Scoto (1266-1308) e dei suoi seguaci caratterizzata dai seguenti punti: 1°
la dottrina del carattere pratico della scienza teologica, che non conterrebbe
verità tco- retiche ma solo regole per la condotta umana in vista della
salvezza ultramondana; 2° l’affermazione della indimostrabilità di un numero
rilevante di proposizioni filosofiche e teo- logiche. Già Duns Scoto riteneva
impossibile dimostrare, ad es., tutti gli attributi di Dio o l’im- mortalità
dell'anima. Nello scritto a lui attribuito ma di dubbia autenticità intitolato
Theoremara nu- merose altre proposizioni teologiche sono dichiarate
indimostrabili; 3° la dottrina dell’univocità dell’essere, che lo S. sostiene
in polemica con il tomismo, e per la quale la metafisica è la scienza suprema,
avendo per oggetto l’essere in generale, cioè sia quello delle creature sia
quello di Dio; 4° la dottrina dell’individuazione, che fa con- sistere
l’individuazione stessa nell’ultima determi- nazione della forma, della materia
e del loro com- posto cioè nella Aaecceitas (v. INDIVIDUAZIONE). Questa
dottrina fu interpretata dalla scuola di Scoto, in polemica con la dottrina
tomistica che l’individuazione dipende dalla materia signata, nel senso che
l’individuazione dipende dalle forme e precisamente dal sovrapporsi di un
numero inde- finito di forme nello stesso composto; 5° il volontarismo, cioè la
dottrina del primato della volontà, che Duns Scoto condivide con Enrico di Gand
(v. VOLONTARISMO). SCOZZESE, SCUOLA (ingl. Scottish School; franc. École
écossaise; ted. Schortische Schule). Un gruppo di filosofi scozzesi che
comprende Tom- maso Reid (1710-96), Dugald Stewart (1753-1828), Tommaso Brown
(1778-1820), Guglielmo Hamilton (1788-1856) ed Enrico Mansel (1820-71), le cui
dottrine fondamentali sono: 1° l’appello al senso comune per garantire alcune
verità teoretiche e morali che si ritengono fondamentali per l’uomo (v. SENSO
COMUNE); 2° il realismo naturale cioè la teoria che l’oggetto immediato del
conoscere non è l’idea (come da Cartesio a Hume si era ritenuto) ma la stessa
cosa esterna (v. REALISMO). SCRUPOLO (ingl. Scruple; franc. Scrupule; ted.
Skrupel). Esitazione ad agire per una incerta valutazione della situazione cioè
perchè non si sa se l’azione progettata sia corretta o meno. Tale è il
significato della parola in frasi come «Gli è venuto uno S.» oppure « Agire
senza S.». Scrupolosità significa dall’altro lato l’atteggia- mento di chi
suscita a se stesso S. al fine di eseguire meglio un lavoro o di svolgere più
accuratamente un'attività qualsiasi. SECONDARIA, PROPOSIZIONE (ingl. Secondary
Proposition; franc. Proposition secondaire; ted. Sekundàr Satz). Boole indicò
con questa espressione le proposizioni che hanno per oggetto altre
proposizioni, mentre chiamò pri- marie le proposizioni che hanno per oggetto le
relazioni tra cose (Laws of Thought, 1854, cap. XI). SECONDARIE E PRIMARIE,
QUALITÀ. V. QUALITÀ. SECUNDUM QUID ET SIMPLICITER (FALLACIA). Identificata già
da Aristotele (Soph. El., 5, 167 a), è la fallacia (v.) che consiste nel pas-
sare da una premessa in cui un certo termine è preso in senso relativo ad una
conclusione in cui il termine stesso è preso in senso assoluto (« Se il
non-essere è oggetto di opinione, il non-essere è 1). (Cfr. Pietro Ispano,
Sunm. Log., 7.46 sgg.). G.P. SEGNALE (ingl. Signal; franc. Signal; te- desco
Signal). 1. Lo stesso che segno (v.). Morris intende la parola nel senso di
segno naturale (Signs, Language and Behavior, I, 8). 2. Lo stesso che simbolo
(v.). In questo secondo senso la parola è usata quando si parla, per es., di un
«S. di pericolo +: S. qui è un segno conven- zionale cioè un simbolo. SEGNO
(gr. omuetov; lat. Signum; ingl. Sign; franc. Signe; ted. Zeichen). Qualsiasi
oggetto od evento, usato come richiamo di altro oggetto od evento. Questa
definizione che è quella general- mente adoperata o presupposta nella
tradizione filosofica antica e recente, è generalissima e consente di
comprendere sotto la nozione di S. ogni possi- bilità di riferimento: per es.,
quello dell’effetto alla causa o viceversa; della condizione al condi- zionato
o viceversa, dello stimolo di un ricordo al ricordo stesso; della parola al suo
significato; del gesto indicativo (per es., un braccio teso) alla cosa
indicata; dell’indizio o del sintomo di una situazione alla situazione stessa,
ecc. Tutte queste relazioni possono essere comprese nella nozione di segno. In
senso proprio e ristretto, tuttavia, questa nozione dev’essere assunta come la
possibilità del riferimento di un oggetto o evento presente ad un oggetto o
evento non presente o la cui presenza o non presenza è indifferente. In questo
senso più ristretto la possibilità d’uso dei S. o semiosi è la caratteristica
fondamentale del comportamento umano perchè consente l’utilizzazione del
passato (di ciò che « non è più presente ») per la previsione e la
progettazione del futuro (di ciò che «non è ancora presente +). In tal senso si
può dire che l’uomo è per eccellenza un animale simbolico, in questo suo
carattere venendo a radicarsi la possi- bilità di scoperta e d’uso di quelle
recniche, in cui consiste propriamente la sua ragione (v.). La dottrina del S.
quale fu per la prima volta formulata dagli Stoici conserva ancor oggi la sua
validità. Gli Stoici chiamavano S. in generale « ciò che sembra rivelare
qualcosa »; ma in senso proprio chiamavano S. «ciò che è indicativo di una cosa
oscura » cioè non manifesta (Sesto Emp., Adv. Math., VIII, 143; /p. Pirr., I,
99 sgg.). Considera- vano pertanto i S. di due specie fondamentali: S.
rammemorativi che si riferiscono a cose solo occasionalmente oscure, per es.,
il fumo che è S. del fuoco; e S. indicativi che non vengono mai osservati
insieme con la cosa indicata che è oscura per natura; e in questo senso i
movimenti del corpo si dicono S. dell’anima (/bid., VIII, 148-155). Sappiamo
pure che gli Stoici vedevano nella capa- cità dell’uomo di usare i S. la sua
differenza dal- l’animale (/bid., VIII, 276); e consideravano il S. come un
prodotto intellettuale, identificandolo con « una proposizione costituita da
una connessione valida e rivelatrice del conseguente » (/bid., VIII, 245). Gli
Epicurei invece consideravano il S. di natura sensibile e tale da consentire e
fondare l’in- duzione (Ibid, VIII, 215 sgg.; cfr. INDUZIONE). In seguito, sul
modello della dottrina stoica, il S. veniva sempre definito come la relazione
di riferimento fra due termini connessi. S. Tommaso non escludeva che si
potesse chiamar S. la causa sensibile di un effetto occulto (.S. Th., I, 70, a.
2, ad 2°). La logica terministica distinse il riferimento del S. al suo
denotato, che è il rapporto di significa- zione istituito ad arbitrio, dalla
supposizione (v.) che è il rapporto per il quale il termine compreso in una
proposizione sta in luogo di qualcosa (confronta Pretro Ispano, Summ. Log.,
6.03). Ockham defi- niva il S. come « tutto ciò che, una volta appreso, fa
venire a conoscere qualche altra cosa » (Surmna Logicae, I, 1); e distingueva
il S. naturale ch: è il concetto (o intenzione dell'anima) in quanto è prodotto
dalla cosa stessa al modo in cui il fumo è prodotto dal fuoco, dal S.
convenzionale, cioè istituito ad arbitrio che è la parola (/bid., I, 14). La
filosofia inglese del 6-700 si servi ampiamente della nozione di S. ma non lo
definì in modo nuovo. Hobbes diceva: « Un S. è l'antecedente
evidentedelconseguente o, al contrario, il conseguente dell’an- tecedente
quando conseguenze simili sono state osservate prima; e più spesso sono state
osservate, meno incerto è il S. » (Leviarh., I, 3). Berkeley si servì della
nozione di S. per definire la funzione delle idee generali, che sarebbero idee
particolari «assunte a rappresentare o a stare per altre idee particolari della
stessa sorta + (Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12). E Wolff dava
nell’ultimo capitolo della sua Ontologia una lucida e stringata dottrina del S.
definendolo come « un ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza
passata o futura di un altro ente » (Onr., $ 952) e distinguendo con-
seguentemente il S. dimostrativo che indica un designato presente, il S.
prognostico il cui designato è futuro e il S. rammemorativo o memoriale il cui
designato è passato (/bid., $ 954). In base a questi concetti, ogni
procedimento conoscitivo può ov- viamente essere considerato un procedimento
se- gnico. Kant invece, da un lato considerò le parole e i S. visibili (algebrici,
numerici, ecc.) come sem- plici espressioni dei concetti cioè come «
caratterisensibili » che designano concetti e servono solo come mezzi
soggettivi di riproduzione; dall'altro considerò i simboli come
rappresentazioni analo- giche, cioè infra-intellettuali, degli oggetti intuiti
(Crit. del Giud., $ 59; Antr., I, $ 38). Pertanto, secondo Kant, «chi sa
esprimersi sempre soltanto in modo simbolico ha pochi concetti intellettuali e
ciò che spesso si ammira nella vivace espressione che i selvaggi (e talvolta
anche i pretesi sapienti di un popolo rozzo) usano nei loro discorsi, non è che
povertà di idee, e quindi anche di parole per esprimerle» (/bid., $ 38). I
kantiani tuttavia non fu- rono così alieni come il loro maestro dal ridurre
tutta la conoscenza all’uso dei segni. H. Helmholtz considerava le sensazioni
come segni prodotti nei nostri organi di senso dall’azione delle forze esterne;
e riponeva la validità di questi S., non n lla loro somiglianza con le cose, ma
nel fatto che essi hanno tra loro un ordine che riproduce quello che c’è tra le
cose (Die Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879). Nella stessa linea di pensiero
E. Cassirer ha studiato le forme simboliche della vita umana nonchè il loro
significato concettuale (Die Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll.,
1923-29) ed ha chiamato l’uomo animal symbolicum (Essay on Man, 1944, cap. II;
trad. ital., pag. 49). Quando la teoria dei S., per influenza della logica
matematica, viene ripresa nella filosofia contempo- ranea, i suoi tratti
fondamentali non mutano; ma ad essa viene aggiunta un altro ordine di consi-
derazioni, precisamente quelle che cadono sotto la cosiddetta pragmatica (v.):
cioè le considerazioni che concernono il rapporto del S. coi suoi inter- preti.
Si può dire che da questo punto di vista non già il S. ma la semiosi (v.) cioè
l’uso dei S. o il comportamento segnico, sia il proprio oggetto della semiotica
cioè della teoria dei segni. Questo indirizzo è stato inaugurato da C. S.
Peirce. Dopo aver dato la definizione tradizionale del S. (come «qualcosa
conoscendo la quale conosciamo qual- cos’altro »), Peirce aggiunge che « un S.
è un oggetto che è da un lato in relazione con il suo oggetto e dall’altro in
relazione con un interpretante in modo tale da portare l’interpretante in una
relazione con l’oggetto corrispondente alla sua propria relazione all’oggetto
». Il S. è pertanto una relazione triadica tra il S. stesso, il suo oggetto e
l’interpretante (Coll. Pap., 2.243 sgg.; 8.332). Conseguentemente Peirce
classificava i S. sotto tre punti di vista diversi: di per se stessi cioè come
S.; nella loro relazione al- l'oggetto; nella loro relazione all’interpretante.
Con- siderati in se stessi i S. possono essere apparenze o qualisegni; od
oggetti o eventi individuali, cioè sinsegni (nella quale parola la sillaba sin
è la prima sillaba di semel, simul, similar, ecc.); o tipi generali o legisegni
(Ibid., 8.334). Considerati in rapporto all’oggetto rappresentato, un S. può
essere: una icona, per es., una percezione visiva o un’audizione musicale; un
indice come sarebbe un nome proprio o il sintomo di una malattia; o un simbolo
che è un S. convenzionale (/bid., 8.335). Rispetto all’oggetto immediato il S.
può essere S. di una qualità, di un ente o di una legge. Rispetto al suo
interpretante, infine, il S. può essere un rema, un dicente o un argomento,
cioè un termine, una proposizione o un ragionamento (/bid., 8.337). Questa
classificazione di Peirce è stata da lui riespressa con un’altra ter- minologia
che ha avuto più fortuna. Egli ha chia- mato ripo una forma definitamente
significante, che non è una singola cosa o un singolo evento e non esiste da sè
ma determina le cose che esistono; gettone (token) un evento singolo che accade
una volta sola, come questa o quella parola che si trova su una sola linea di
una sola pagina di una sola copia di un libro; e fono (tone) un carattere
indefinitamente significante come un tono di voce (Coll. Pap., 4.537). Queste
tre specie corrispondono rispettivamente a legisegno, sinsegno, qualisegno
della classificazione precedente (v. PAROLA; TIPO). Molta fortuna ha avuto (e
non meritata) la clas- sificazione dei S. che Ogden e Richards dettero in The
Meaning of Meaning (1923). Essi distinsero un uso simbolico e un uso emotivo
dei S.: l’uso sim- bolico è l’asserzione cioè il riferimento del S. a un
oggetto; l’uso emotivo tende invece a esprimere e a produrre sentimenti e
atteggiamenti. « Sotto la funzione simbolica sono incluse sia la simbolizza-
zione del riferimento sia la comunicazione di esso all’ascoltatore, cioè la
produzione nell’ascoltatore di un riferimento simile. Sotto la funzione emotiva
sono incluse sia l’espressione di emozioni, atteg- giamenti, umori, intenzioni,
ecc., del parlante sia la loro comunicazione cioè la loro evocazione nel-
l’ascoltatore » (The Meaning of Meaning, 10* ediz., 1952, pag. 149). Questa
classificazione è stata utiliz- zata (specialmente da C. L. STEVENSON, Ethics
and Language, 1944) per l’analisi del linguaggio della morale e in generale del
linguaggio normativo, ma ha deboli fondamenti, soprattutto per l’impos-
sibilità in cui si trova di fornire un criterio semplice e sufficientemente
sicuro per effettuare nei casi particolari la distinzione proposta. Una più
arti- colata e spregiudicata classificazione dei segni è quella di C. Morris
che distingue gli identificatori che significano la localizzazione nello spazio
e nel tempo; i designatori che significano le caratteristiche dell'ambiente;
gli apprezzatori che significano uno status preferenziale e i prescrittori che
significano la richiesta di risposte specifiche (Signs, Language and Behavior,
1946, II, 2; trad. ital., pag. 97). Da questi S. che complessivamente chiama
/essicali Morris distingue i S. formatori i quali significano che «la
situazione significata in altro modo è una situazione di alternative» (/bid.,
VI, 1). Questi ultimi sono distinti in dererminatori, come « tutti », « alcuni
», « nessuno »; connettori come le virgole, le parentesi, la copula, le
congiunzioni e € 0, ecc., e i manieratori, che sono i S. di interpunzione.
Morris ha fatto prevalere nella filosofia contem- poranea la teoria dei S.
stabilita da Peirce intro- ducendo un'utile terminologia: chiamando veicolo
segnico l’oggetto o evento che serve da S.; designato l’oggetto cui il S. si
riferisce, interpretante l’effetto del S. sull’interprete cioè il senso del S.;
ed infine interprete il soggetto del processo segnico (Foundations of the
Theory of Signs, 1938, II, 2). Morris ha pure insistito, sulle orme di Peirce,
sul carattere comportamentistico del processo segnico; ha cercato anzi di
definire il S. in termini puramente comportamentisti. La definizione cui è
giunto è la seguente: « Se qualcosa A guida il comportamento verso un fine in
un modo simile (ma non necessa- riamente identico) a quello in cui qualche altra
cosa, B, guiderebbe il comportamento verso quel fine nel caso che B fosse
osservata, allora A è un S.» (Ibid., I, 2; trad. ital., pag. 21). L’infiuenza
della teoria dei riflessi condizionati su questa definizione è evidente (v.
AZIONE RIFLESSA). Carnap, e con lui molti altri, hanno accettati i fondamenti
della teoria di Morris, come pure la divisione della semiotica generale nelle
tre parti da lui proposte (cfr. R. CaRNAP, Foundations of Logic and Mathe-
matics, 1939, I, 2; trad. ital., pag. 6-7) (v. SEMIOTICA). SELEZIONE (ingl.
Selection; franc. Sélection; ted. Selektion). Scelta: sia intesa come procedi-
mente deliberato sia intesa come risultato di un procedimento non deliberato.
In questo secondo senso C. Darwin parlò di S. naturale come nel procedimento
attraverso il quale la lotta per la vita assicura la sopravvivenza del più
adatto (Origin of Species, IV, $ 1). SEMANTICA (ingl. Semantics; franc. Séman-
tique; ted. Semantik). Propriamente, la dottrina che considera il rapporto dei
segni con gli oggetti cui si riferiscono, cioè il rapporto di designazione. Il
termine, che fu proposto per tale dottrina da Bréal (Essais de sémantique.
Science des significations, 1897), trova la sua giustificazione etimologica nel
verbo greco anualvew, introdotto da Aristotele per indicare quella specifica
funzione del segno lin- guistico per cui questo «significa», «designa» qualche
cosa. La S. sarebbe quindi quella parte della linguistica (e in particolare
della Logica) che studia, analizza, la funzione significatrice dei segni, i
nessi tra i segni linguistici (parole, frasi, ecc.) e i loro significati.
Sebbene questa ne sia l’accezione più generalmente diffusa, tuttavia nella
filosofia e nella Logica contemporanea il termine viene im- piegato anche in
altre. Per es., A. Korzybski (Science and Sanity) adopera « S. » per indicare
una teoria relativa all'uso del linguaggio, soprattutto nei rapporti delle
nevrosi che secondo questo autore sono provocate da, o sono causa di, certi
abusi linguistici. I logici polacchi in genere (e in parti- colare Chwistek),
che pure hanno contribuito po- tentemente a far nascere questo ultimo ramo
della Logica formale, non essendo soliti distinguere tra proposizione ed
enunciato, tra significato logico e forma linguistica di una proposizione, usano
questo termine per indicare in genere la Logica formale. Ciononostante fu
proprio sotto la spinta degli studi dei logici polacchi che verso il 1956 si
cominciò a delimitare il campo di questa nuova disciplina. Fu per opera di Ch.
W. Morris e R. Carnap che si cominciarono a distinguere in seno alla semiotica
(teoria dei segni in generale, dei segni linguistici in particolare) alcuni
aspetti fondamentali: la pragmatica, che studia il comportamento segnico di
esseri umani che si scambiano segni per deter- minate cause, per certi scopi,
ecc. (e quindi è un ramo della psicologia e/o della sociologia); la S., la
quale, prescindendo dalle circostanze concrete (psicologiche e sociologiche)
del comportamento linguistico, restringe il suo campo all’analisi del rapporto
tra segno e referente (significatum, desi- gnatum, denotatum); e infine la
sintattica, la quale, facendo astrazione anche dai significati, studia i
rapporti intercorrenti tra i segni in se stessi entro un dato sistema
linguistico. S. e sintattica vengono di fatto a costituire due grandi capitoli
in cui si spezza la Logica formale pura. Però di quest’ultima fa parte non
tanto la S. descrittiva, ricerca empi- rica rivolta alla descrizione di un
determinato si- stema semantico (o gruppo di sistemi affini) e quindi
pertinente piuttosto alla Linguistica che alla Lo- gica, quanto invece la S.
pura, la quale costituisce a priori le regole di un sistema sintattico
generale. Questa pertanto, piuttosto che una dottrina dei significati, appare
come una teoria generale della verità e della deduzione nei sistemi sintattici
in- terpretati, e perciò la sua distinzione dalla sintattica diviene molto
sottile e problematica (cfr. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, 1938,
cap. IV; CARNAP,
Foundations of Logic and Mathematics, 1939, I, 2; Meaning and Necessity, 1957,
pag. 233; Introduction to Semantics, 1942; 2 ediz., 1958; Linskvy, editor,
Semantics and the Philosophy of Language, 1952). Quine ha recentemente insistito sulla diversità del
riferimento semantico vero e proprio, che sa- rebbe il significare, dal
riferimento del nominare. Tale diversità risulta, per es., dal fatto che si può
no- minare lo stesso oggetto, come quando si dice «Scott» e «l’autore di
Waverley », mentre i signi- ficati sono diversi. La S. conterrebbe così due
parti: una teoria del significato alla quale apparterrebbe l’analisi dei
concetti di sinonimia, significanza, ana- liticità, implicazione; e una teoria
del riferimento alla quale apparterrebbe l’analisi dei concetti di nomi-
nazione, verità, denotazione, estensione. Ma Quine stesso osserva che finora la
parola S. è stata ado- perata soprattutto per la teoria del riferimento,
sebbene il nome sarebbe più adatto alla teoria del significato (From a Logical
Point of View, 1953, VII, 1; II, 1). V. SIGNIFICATO. SEMASIOLOGIA. Lo stesso
che semantica (v.). SEMI (gr. oréppata; lat. Semina). Così sono stati spesso
chiamati gli elementi ultimi delle cose. Anassagora usò per primo il termine
per designare le particelle che Aristotele chiamò omeomerie (Fr., 4, Diels). Il
termine fu poi adoperato da Epicuro (Fr., 250, Uesener) e da Lucrezio (De nat.
rer., VI, 201 sgg.; VI, 444, ecc.). La stessa metafora è nella nozione stoica
di ragioni seminali (v.). SEMIOSI (ingl. Semiosis). Il processo in cui qualcosa
funziona come segno, che è l’oggetto proprio della semiotica, nel senso di
Morris (Foun- dations of the Theory of Signs, 1938, II, 2). L’espres- sione è
equivalente a quella di comportamento segnico dallo stesso Morris preferita nel
volume Signs, Language and Behavior, 1946, I, 2 (v. SEGNO). SEMIOTICA (gr. tò
muiwrxéy; lat. Semioric; franc. Sémiotique; ted. Semiotik). Il termine ado-
perato dapprima per indicare la scienza dei sin- tomi nella medicina (cfr.
GaLENO, Op., ed. Kiin, XIV, 689) fu proposto da Locke per indicare la dottrina
dei segni, corrispondente alla logica tra- dizionale (Saggio, IV, 21, 4); e in
seguito adope- rato da Lambert come titolo della terza parte del suo Nuovo
organo (1764). Nella filosofia contem- poranea, C. Morris ha fatto prevalere,
il concetto della S. come teoria della semiosi (v.) più che del segno; e la
divisione della S. stessa in tre parti, che corrispondono alle tre dimensioni
della semiosi: la semantica che considera il rapporto dei segni con gli oggetti
cui si riferiscono; la pragmatica che considera la relazione dei segni con gli
interpreti; e la sintattica che considera la relazione formale dei segni tra
loro (Foundations of the Theory of Signs, 1938, II, 3). Accettata da Carnap
(Founda- tions of Logic and Mathematics, 1939, I, 2), questa distinzione si è
largamente diffusa nella filosofia e nella logica contemporanea (v. PRAGMATICA;
SE- MANTICA; SINTASSI). SEMPLICE (gr. arà60g; lat. Simplex; inglese Simple;
franc. Simple; ted. Einfach). Ciò che manca di varietà o di composizione: vale
a dire ciò che esiste in un unico modo o che è privo di parti. Nel primo senso,
come mancanza di varietà, intese il S. Aristotele: « Nel senso pri- mario e
fondamentale è necessario ciò che è S.: giacchè non è possibile che questo sia
in modi diversi o che sia ora in un modo ora in un altro » (Met., V, 5, 1015 b
12). Nel secondo senso ado- però la parola Leibniz che definì la monade una
sostanza S. perchè senza parti (Monadologia, $ 1). TI concetto rimase fissato
in questo senso per opera di Wolff (Onrol., $ 673). Nella logica terministica
medievale era adoperato nello stesso senso il ter- mine incomplexum (= non
composto), come con- trario a complesso (v.): cioè o nel senso di un ter- mine
che è costituito da una sola parola o nel senso del termine di una
proposizione, sia esso costituito da una o più parole (cfr. OckHAM, Expositio
aurea, foglio 40 b). Per semplicità come caratteristica delle ipotesi 0 delle
teorie scientifiche s'intende l’esigenza dell’eco- nmomia (v.) cui esse devono
obbedire (v. TEORIA). Corrispondentemente, per semplificazione s'intende ogni
procedura atta a rendere economica la con- cettualizzazione o la teorizzazione,
cioè ogni pro- cedura che riduca il numero o la complessità dei concetti
adoperati. SENSAZIONE (gr. atomo; lat. Sensus, Sensio; ingl. Sensation; franc.
Sensation; ted. Emp- findung). Il termine ha due significati fondamentali: 1°
un significato generalissimo per cui designa la totalità della conoscenza
sensibile cioè tutti e ognuno i suoi costituenti; 2° un significato speci- fico
per cui designa gli elementi della conoscenza sensibile cioè le parti ultime
indivisibili da cui essa si suppone costituita. Questo secondo significato
ricorre soltanto nella filosofia moderna. 1° Aristotele intende sotto il
termine S.: a) le qualità elementari come il bianco, il nero, il dolce, ecc.
(De An., III, 2, passim); b) la perce- zione dell’oggetto reale, che chiama S.
in arto e che fa coincidere con la realtà stessa dell’oggetto: onde una S.
uditiva in atto è identica col suono in atto (/bid., III, 2, 425b 26); c) la
facoltà di sentire in generale o senso comune (v.), al quale attribuisce la
funzione di percepire i sensibili co- muni e le S. stesse (cioè il sentir di
sentire) (De Somno, 2, 455a 17; De An., III, 2, 426b 11; 415 b 12); d) il senso
particolare o proprio come l’udito, la vista, ecc. (De Somno, 2, 455 a 14; De
An., III, 2, passim); e) l’organo di senso, più frequentemente detto sensorio
(De Part. An., II, 10, 657a 3; IV, 10, 686a 8; De Sensu, 3, 440 a 19). Questa
terminologia si mantiene lunga- mente nella storia del pensiero occidentale
cioè sino a quando, con Cartesio, il concetto di S. comincia ad essere
nettamente distinto da quello di percezione. 2° Nel suo più specifico
significato il concetto di S. fu delimitato da Cartesio che intese per essa il
semplice avvertimento dei « movimenti che ven- gono dalle cose » e la distinse
dalla percezione che è invece il riferimento alla cosa esterna (Passions de
l’îme, I, 23). Da questa distinzione, che si consolidò sempre più dopo
Cartesio, specialmente per opera della Scuola scozzese, la S. veniva ri- dotta
ad essere l’unità elementare della conoscenza sensibile, quel che Locke chiamò
«idea semplice », e considerata come il materiale della conoscenza; mentre la
funzione conoscitiva vera e propria, cioè il riferimento all’oggetto, veniva
assunta dalla percezione (v.). È questo il concetto che fu accettato e diffuso
da Kant: « La S., egli disse, è l’elemento puramente soggettivo della nostra
rappresentazione delle cose che son fuori di noi; ma è propriamente l’elemento
materiale della rappresentazione stessa, il reale, ciò con cui è dato alcunchè
di esistente » (Crit. del Giud., Intr., $ VII; cfr. Crit. R. Pura, $ I;
Dialettica trascendentale, libro I, sez. I: « Una percezione che si riferisca
unicamente al soggetto come modificazione del suo stato, è S. »). Il carat-
tere primordiale o elementare della S. veniva egualmente accentuato da Hegel,
per quanto in forma arbitraria e fantastica: «La S. è la forma dell’agitarsi
ottuso dello spirito nella sua indivi- dualità priva di coscienza e di
intelletto ». In un certo senso è vera, secondo Hegel, l’asserzione che «tutto
è nella S.» nel senso che tutto ha la fonte e l’origine in essa; ma fonte e
origine significano solo la maniera prima e più immediata in cui qualcosa
appare e la S. non si giustifica da sè (Enc., $ 400). Il concetto di S. come
elemento semplice ed ultimo della conoscenza fu dapprima accettato e illustrato
da filosofi, poi posto a fondamento della nascente psicologia dai primi cultori
di questa scienza. Condillac fu il primo a realizzare la por- tata di questo
concetto. Se la S. è l’elemento ultimo della conoscenza, si deve poter
ricostruire, a partire da essa, l’intero mondo della conoscenza o dell’attività
spirituale umana. Questa è la dimo- strazione che egli si accinse a dare nel
7ratfato delle S. (1754), nel quale assumeva a fondamento il principio che «il
giudizio, le riflessioni, le pas- sioni e in una parola tutte le operazioni
dell’anima non sono che la S. stessa che si trasforma varia- mente » (7raité
des sensations, Compendio della prima parte). Pur nella sua polemica contro il
sensismo, Maine de Biran riconosce il carattere semplice ed elementare della S.
(CEuvres, ed. Na- ville, II, pag. 115); come le riconosce tale carattere
Herbart (Allgemeine Metaphysik, 1828, II, pag. 90). Il concetto del carattere
elementare della S. fu posto a base della psicologia da H. Spencer che
affermava che «le S. sono stati di coscienza pri- mariamente indecomponibili »
(Principles of Psy- chology, 1855, $ 211). Il principio veniva consacrato da G.
Fechner nei suoi E/emente der Psychophysik (1860) e da Wundt il quale
esplicitamente definiva le S. come « quegli stati di coscienza che non si trali
e quindi come i componenti semplici di ogni oggetto sia fisico sia psichico
(Analyse der Emp- findungen, 1903, 48 ediz., pag. 14, 17, ecc.). Le esperienze
elementari di cui R. Carnap parlava nella Costruzione logica del mondo sono
ancora le S. (Die logische Aufbau der Welt, 1928, $ 67). Quando la psicologia
della forma (v. PSICOLOGIA) ba eliminato l’atomismo e l’associazionismo della
vecchia psicologia, il concetto di S. è diventato pressochè inutile. Ancora la
psicologia parla di S. per indicare i suoni, colori, ecc. Ma poichè questo
materiale viene dato all’uomo soltanto nel suo ri- ferimento all’oggetto
esterno, cioè nella percezione, la percezione stessa diventa l’oggetto proprio
della psicologia; e il concetto della S. come unità psi- chica elementare
diventa inutile. SENSIBILE (gr. alo@nt6<; lat. Sensibilis; in- glese
Sensible; franc. Sensible; ted. Sensibel). 1. Ciò che può essere percepito dai
sensi. In questa acce- zione « il S. » è l’oggetto proprio della conoscenza S.
come « l’intelligibile » è l'oggetto proprio della co- noscenza intellettiva
(ARIST., De An., II, 6, 418 a 7; KANT, Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap.
III, Nota). Aristotele aveva distinto i S. propri e i S. co- muni (v. SENSO
COMUNE); e il S. accidentale dal S. per sè, in quanto il primo si percepisce
acci- dentalmente, come accade quando si percepisce il bianco percependo una
persona che è bianca (De An., II, 6, 418a 16). 2. Ciò che ha la capacità di
sentire. In questa accezione si chiamano «esseri S.» gli animali o si dice che
«x è particolarmente S. a qualcosa ». In corrispondenza del significato 4° di
senso (v.), si chiama talora S., specialmente in inglese, chi pos- siede buon
senso o in generale è capace di giudicare rettamente. 3. Chi ha la capacità di
partecipare alle emozioni altrui o di simpatizzare (v. SIMPATIA). SENSIBILITÀ
(ingl. Sensibility, Feeling; fran- cese Sensibilité; ted. Sinnlichkeit). 1.
L’intera sfera delle operazioni sensibili dell’uomo, comprensiva sia della
conoscenza sensibile sia degli appetiti, degli istinti e delle emozioni. 2. La
capacità di ricevere sensazioni e di reagire agli stimoli. Per es., «La S.
delle piante». 3. La capacità di giudizio o di valutazione in un campo
determinato. Per es., «S. morale», «S. artistica 1, ecc. 4. La capacità di
partecipare alle emozioni altrui o di simpatizzare. In questo senso si dice
sensibile chi si commuove con gli altri e insensibile chi resta indifferente
alle emozioni altrui (v. SIMPATIA). SENSISMO (ingl. Sensationalism; franc. Sen-
sualisme, Sensationisme; ted. Sensualismus). La dot- trina che riduce tutta la
conoscenza alla sensazione € tutta la realtà all'oggetto della sensazione. Kant
chiamava sensista Epicuro (Crit. R. Pura, Dottrina del Metodo, cap. IV). Il
nome è stato, nella filosofia moderna, riservato a quelle dottrine che ammet-
II, 5, 416b 33) e così è rimasto costantemente definito nella tradizione
filosofica (S. ToMmMaso, S. Th., I, q. 78, a. 3; Duns Sooro, /n Sent., I, d. 3,
q. 8; WOLFF, Psychol. empirica, $ 67; KANT, Antropologia, I, $ 7; ecc.). Il S.
in questa accezione comprende sia la capacità di ricevere le sensazioni sia la
consapevolezza che si ha delle sensazioni stesse e in generale delle proprie
operazioni: capa- cità che nella filosofia moderna è detta più spesso S.
interno o riflessione (cfr. Locke, Saggio, II, 1, 4; KANT, Crit. R. Pura,
Estetica, $ 1); e talora S. intimo (MAINE DE Biran, Journal intime, I, pag.
13-14; (Euvres, ed. Tisserand, pag. 15, ecc.) o coscienza (v.). 2. La
sensazione o il complesso delle sensazioni, come quando si dice «Il S.
testimonia che... a. Oppure: gli appetiti sensibili e in particolare i de-
sideri sessuali. 3. L’organo di S., ciò che più propriamente si chiama il
sensorio o, nella terminologia moderna, il recettore. 4. La capacità di
giudicare in generale. In questo significato la parola viene adoperata nelle
seguenti espressioni: buon S., che Cartesio ritiene sinonimo di ragione e
definisce come «la facoltà di giudicar bene e di distinguere il vero dal falso
» (Disc., I). S. morale, che Shaftesbury (Characteristics of Men, 1711) e
Hutchinson (System of Moral Philosophy, 1755) assunsero come una capacità
istintiva di va- lutazione morale e quindi come guida infallibile dell’uomo. S.
razionale o S. logico, che Romagnosi assunse come l’attività che giudica e
ordina le sensazioni (Che cos'è la mente sana, 1827, $ 10). A questa stessa
accezione del termine si connette l’espressione S. comune sulla quale v. la
voce a parte; nonchè altre espressioni come S. pratico, S. degli affari, S.
artistico, ecc., che designano egualmente la capacità di giudicare o di
orientarsi nei campi particolari indicati dall’aggettivo o dal genitivo. 5. Lo
stesso che Significato (v.). SENSO COMPOSTO E DIVISO, FAL- LACIA DEL. V.
Composizione; DIVISIONE. SENSO COMUNE (gr. xowà aloBnos; latino Sensus communis;
ingl. Common Sense; franc. Sens commun; ted. Gemeinsinn). 1. Aristotele intese con questa
espressione la capacità generale di sentire, alla quale attribuì una duplice
funzione: 1° quella di costituire la coscienza della sensazione cioè il «sentir
di sentire» giacchè tale coscienza non può appartenere ad un organo particolare
di S., per es., alla vista o al tatto (De Somno, 2, 455a 13); 2° quella di
percepire le determinazioni sensibili co- muni a più S., come il movimento, la
quiete, la figura, la grandezza, il numero e l’unità (De An., III, 1, 425 a
14). La nozione fu ammessa anche dagli Stoici che affidavano al S. comune le
stesse funzioni (StoBEO, Ecl., I, 50). Ripresa da Avicenna (De An., III, 30),
passò nella scolastica medievale (cfr.S. ToMm- Maso, S. Th., I, q. 78, a. 4) ed
anche in seguito fu comunemente accettata da tutti gli aristotelici e dagli
scrittori che comunque si ispirarono alla psi- cologia aristotelica. 2.
Nell’uso degli scrittori classici latini, il termine ha il significato di
consuetudine, gusto, modo di vivere o di parlare comune. In questo senso, Cice-
rone avverte che per l’oratore è difetto gravissimo «aborrire dal genere
volgare del discorso e dalla consuetudine del S. comune» (De Or., 1, 3, 12;
cfr. 2, 16, 68); e Seneca afferma che la filosofia intende sviluppare il S.
comune (Ep., 5, 4; cfr. 105, 3). Vico non faceva che esprimere in una formula
la- pidaria la tradizione degli autori latini, quando af- fermava: « Il S.
comune è un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un
or- dine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano »
(Sc. Nuova, 1744, De- gnità 12), e quando affidava al S. comune l’ufficio di
accertare e determinare «l’umano arbitrio, di sua natura incertissimo,...
d’intorno alle umane necessità o utilità » (/bid., Degnità 11). Allo stesso
significato si riconnette l’uso del termine presso la Scuola scozzese. Nella
Ricerca sullo spirito umano secondo i principî del senso comune (1764) T. Reid
adopera l’espressione per designare le credenze tra- dizionali del genere
umano, ciò che tutti gli uomini credono o devono credere. Il S. comune è, per
tutta la Scuola scozzese, il criterio ultimo di giu- dizio e il principio
dirimente di tutti i dubbi filosofici. L’espressione ricorre ora comunemente in
un significato analogo, per quanto privo dell’accentua- zione elogiativa di cui
la privilegiavano i filosofi scozzesi. Dewey, ad es., sottolinea il carattere
pratico del S. comune. «Poichè i problemi e le indagini del S. comune
riguardano le interazioni che si stabiliscono da parte degli esseri viventi con
l’ambiente al fine di realizzare oggetti d’uso e di fruizione, i simboli
impiegati sono quelli che si sono determinati nella cultura corrente di un
gruppo sociale. Essi formano un sistema, ma si tratta di un sistema di
carattere pratico piuttosto che intel- lettuale. Questo sistema è costituito
dalle tradizioni, occupazioni, tecniche, interessi ed istituzioni stabi- lite
del gruppo. Le significazioni che lo compon- gono sono un portato del comune
linguaggio quo- tidiano col quale i membri del gruppo comunicano tra loro»
(Logic, VI, 6; trad. ital., pag. 170). 3. Nella dottrina di Kant il S. comune è
il prin- cipio del gusto cioè della facoltà di giudicare degli oggetti del
sentimento in generale. « Un tal prin- cipio, dice Kant, non potrebbe esser
considerato che come un S. comune, che è essenzialmente diverso
dall’intelligenza comune la quale talvolta si chiama anche S. comune (sensus
communis); perchè questa giudica, non secondo il sentimento, ma secondo con-
cetti sebbene si tratti ordinariamente di concetti oscu- ramente rappresentati
» (Crif. de/ Giud., $ 20). L’in- telligenza comune (Gemeine Verstand) di cui
qui parla Kant è il S. comune degli scrittori latini e della Scuola scozzese
che Kant ritiene inutile in filo- sofia (Prol., A 197); seguito in ciò da Hegel
e da altri (cfr. R. CANTONI, Tragico e senso comune, pag. 35 sg.). SENSORIALE
(ingl. Sensory; franc. Senso- riel; ted. Sensorisch). Che concerne il sensorio,
cioè l’organo di senso. SENSORIO (gr. alo@hpiov; lat. Sensorium). Nella
terminologia aristotelica, un organo di senso (De An., II, 9, 421b 32; De Part.
An., II, 10, 657 a 3; ecc.): ciò che oggi si chiama un recettore. SENSUALISMO
(franc. Sensualisme). 1. L’at- teggiamento che consiste nell’attribuire
importanza eccessiva ai piaceri dei sensi. In tale significato adopera la
parola Berkeley (A/ciphron, II, 16). 2. Lo stesso che sensismo (v.). Quest’uso,
che si presenta solo raramente in taluni scrittori francesi e italiani del
secolo scorso è dovuto alla suggestione del termine tedesco corrispondente a
sensismo, Sensualismus. SENSUALITÀ (lat. Sensualitas; ingl. Sensua- lity;
franc. Sensualité; ted. Sinnlichkeit). La tendenza a indulgere ai piaceri
sensibili. e, cioè all'amore. « Vicende S.+, «crisi S.+, ecc., sono espressioni
che si riferiscono a situazioni in cui è in giuoco l’amore e precisamente
l’amore sessuale. Spesso l’aggettivo S. include anche un riferimento all'amore
nel senso romantico (v.): come accade nel titolo di due romanzi famosi: // viaggio
S. di STERNE e L'educazione S. di Flaubert. In senso specifico adoperò
l’aggettivo F. Schiller per indicare una specie di poesia in contrapposto alla
poesia ingenua (v. INGENUITÀ). SENTIMENTALITÀ o SENTIMENTA- LISMO (ingl.
Sentimentalism; franc. Sentimenta- lisme; ted. Sentimentalitàt). È
l’abbandonarsi alle emozioni proprie o altrui, l’esaltarsi in esse e per esse
senza rapporto con la loro forza effettiva, il loro limite e la loro funzione.
Kant vide nel senti- mentalismo la debolezza di lasciarsi dominare, anche
contro la propria volontà, dalla partecipa- zione allo stato emotivo degli
altri. La contrappose perciò alla padronanza di sè: la quale rende possi- bile
quella finezza di sentimento per cui si giudica dell’emozione degli altri, non
secondo la propria forza, ma secondo la loro debolezza. Di fronte alla
padronanza di sè, è ridicolo e puerile il lasciarsi do- minare dall’emozione
altrui, abbandonandosi senza discrezione a partecipare a tale emozione (Antr.,
I, $ 62). In realtà però si ha sentimentalismo anche quando ci si abbandona
alle proprie emozioni o alla loro manifestazione esterna illudendosi sulla loro
forza e consistenza o amplificandone l’importanza. SENTIMENTO (ingl. Sentiment;
franc. Sen- timent; ted. Geftihl). Il termine può significare: 1° lo stesso che
emozione nel significato più gene- rale o qualche tipo o forma superiore di
emozione. Per questo significato v. EMOZIONE; 2° opinione, nel senso in cui si
dice « ho il S. che qualcosa non va » per significare un’opinione che si ritiene
esatta ma di cui non si saprebbe al momento dare giusti- ficazione. Per questo
significato v. OPINIONE; 3° la fonte delle emozioni cioè il principio, la
facoltà o l’organo che presiede alle emozioni stesse e da cui esse dipendono;
ovvero la categoria nella quale esse rientrano. In questo senso la parola viene
ora adoperata nell’uso corrente, quando, per es., si contrappone il «S.» alla
«ragione» (considerata invece come l'organo o la facoltà delle conoscenze
obiettive) e in frasi come questa: «La politica non si fa col sentimento ».
Quest’uso trova la sua giustificazione in una tradizione filosofica
relativamente recente cioè in quella della filosofia moderna. Difatti la
filosofia antica e medievale non conosce il S. come fonte o principio di
affezioni, affetti o emozioni e pertanto non adopera questa nozione come ca-
tegoria per ordinare e classificare le affezioni del- l'anima. Nè la psicologia
platonica, che distingue un'anima razionale, un’anima concupiscibile e una
anima irascibile (Rep., IV, 12-15); nè la psicologia aristotelica che distingue
un principio vegetativo, un principio sensitivo e un principio intellettivo (De
An., II, 2) riconoscono una fonte e un prin- cipio autonomo delle emozioni, le
quali vengono ripartite tra le varie partizioni o princìpi ammessi, non esclusa
quella razionale o intellettiva. Lo stesso accade nella filosofia medievale che
segue le orme della psicologia aristotelica. In realtà, il riconosci- mento di
una fonte o principio autonomo delle emozioni è connesso col riconoscimento
della sog- gettività umana come alcunchè di irreducibile a un complesso di
elementi oggettivi od oggettivabili o a modificazioni passive prodotte da tali
elementi. Questo riconoscimento caratterizza gl’inizi della fi- losofia moderna
ed è, come si sa, un portato del cartesianesimo. I presupposti di questo
riconoscimento vanno ricercati in quella linea di pensiero che va da Pascal ai
moralisti francesi e inglesi (La Rochefoucauld, Vauvenargue, Shaftesbury e
Hume) sino a Rousseau SENTIMENTO e a Kant e culmina in quest’ultimo: quello
stesso in- dirizzo che ha portato all’elaborazione del concetto moderno di
passione, come emozione dominante, e a quella nozione di gusto (v.) che è
strettamente collegata con quella di sentimento. Il «S.», il «cuore ?, lo
«spirito di finezza » furono le espres- sioni adoperate da Pascal per indicare
il principio o l’organo delle emozioni, in quanto distinto dal principio o
dall’organo dei ragionamenti e irriducibile ad esso. «Quelli che sono avvezzi a
giudicare col S., dice Pascal, non capiscono niente nelle cose di ragionamento
perchè vogliono penetrar subito la questione con un colpo d’occhio e non sono
avvezzi a cercare i princìpi. E gli altri, al con- trario, che sono avvezzi a
ragionare per princìpi, non capiscono niente delle cose di S. perchè ricer-
cano i princìpi e non possono coglierli con un sol colpo d’occhio » (Pensées,
3). Al S. o al cuore è dovuta la stessa certezza che i primi princìpi del ra-
gionamento hanno («I princìpi si sentono, le propo- sizioni si deducono e in
ciascuna di queste due forme vi è certezza, quantunque raggiunta per vie di-
verse »); e al S. e al cuore è affidata la vera reli- giosità cui il
ragionamento può solo avvicinare e di cui solo può dare l’attesa (/bid., 282).
All’elabo- razione e al riconoscimento della categoria del S. hanno poi
contribuito i moralisti inglesi e francesi sopra accennati con la loro
accentuazione della parte dominante delle emozioni nella vita dell’uomo. Infine
bisogna ricordare che il « ritorno alla natura » bandito da Rousseau come lo
strumento adatto a liberare l’uomo dai mali prodotti dagli artifici sociali e a
riportarlo alla bontà originaria, è inteso da lui come ritorno al primitivo S.
naturale. Il S. naturale è un istinto, una tendenza originaria, che porta
l’uomo al bene; e che quando non è alterata, sofisticata o bloccata, lo
mantiene e lo fa progredire nel bene stesso. In queste famose tesi di Rousseau
sta forse la prima nascita della cate- goria del S. come principio a sè della
vita spirituale. Ma il primo che ha teorizzato, filosoficamente, questa
categoria e l’ha inclusa in una nuova tri- partizione dei poteri o delle
facoltà spirituali, è stato probabilmente Kant. Mentre Wolff (e sulle sue orme
i wolffiani) ammetteva soltanto due atti- vità fondamentali dello spirito
umano, il conoscere e il volere, oggetti delle due branche fondamentali della
filosofia, la teoretica e la pratica, Kant ha riconosciuto un terzo potere o
facoltà, quello del sentimento. « Tutti i poteri o le facoltà dell’anima, dice
Kant (Crir. d. giud., Intr., $ III) possono essere ricondotte a tre, che non si
lasciano ulteriormente ridurre a un principio comune: il potere conoscitivo, il
S. del piacere o del dolore e il potere di desi- derare +. Il S. del piacere o
del dolore deve essere inserito tra il potere conoscitivo e il potere di desi-
derare e gli deve essere riconosciuto un proprio principio autonomo, che Kant
chiama facoltà del giudizio (v.). Il S. è così il campo proprio della critica
della facoltà del giudizio, come la facoltà di desiderare è il campo proprio
della critica della ragion pratica. Kant contrassegna il S. come l’aspetto
irriducibilmente soggettivo di ogni rappresentazione. Egli dice (/bid., $ VIN):
«Quello che vi è di soggettivo in una rappresentazione e che non può affatto
diventare un pezzo di conoscenza è il piacere o il dolore che è legato con la
rappresentazione; giacchè attraverso di essi io non conosco nulla dell'oggetto
della rappresentazione sebbene essi possano essere l’effetto di una qualche
conoscenza ». Conformemente a questa rivendicazione dell’auto- nomia del S.
come categoria spirituale, Kant divide la prima parte della sua Antropologia
pragmatica, parte destinata al « modo di conoscere interno ed esterno
dell’uomo» in tre libri rispettivamente dedicati al potere conoscitivo, al S.
del piacere e del dolore e al potere appetitivo. A sua volta, il secondo libro
è diviso in due parti principali, la prima dedicata al «S. del piacevole e del
piacere sensibile nella sensazione di un oggetto »; la seconda dedicata al « S.
del bello, cioè al S. in parte sensibile, in parte intellettuale proprio
dell’intuizione riflessa o del gusto». Questa seconda parte ricapitola in forma
popolare i risultati della Critica del giudizio, la prima contiene una serie di
osservazioni sul S. del piacere e del dolore in connessione con i dati dei
sensi (cfr. pure, Mer. der Sitten, Intr., 1, nota) (v. EMOZIONE). Con ciò il S.
aveva fatto il suo ingresso ufficiale come categoria indipendente nella
considerazione filosofica dell’uomo. Hegel stesso lo accoglie come una
determinazione dello spirito soggettivo e lo definisce come «un’affezione
determinata», ma determinata in modo semplice cioè tale che, anche se il suo
contenuto è solido e vero (e non sempre lo è) esso assume la forma di « particolarità
acci- dentale ». Hegel aggiunge: «Quando un uomo, discutendo di una cosa, non
si appella alla natura e al concetto della cosa o almeno alla ragione,
all’universalità dell’intelletto, ma al suo S., non c'è altro da fare che
lasciarlo stare; perchè egli in tal modo si rifiuta di accettare la comunanza
della ragione e si rinchiude nella sua soggettività isolata, nella sua
particolarità » (Enc., $ 447). Hegel era su questo punto in polemica con
l’indirizzo letterario del Romanticismo. Questo infatti fece della scoperta e
dell’esaltazione del S. la propria bandiera, scorgendo nel S. stesso la forma
più intima e nello stesso tempo più libera della vita spirituale. Per i
Romantici artista può essere solo colui che, come dice Federico Schlegel (/deen,
$ 13), «ha una sua religione, un’intuizione originale 30 — ABBAGNANO,
Dizionario di filosofia. dell’infinito ». Questa intuizione originale dell'in-
finito è ciò che i Romantici chiamano sentimento. Il S., in altri termini, è la
manifestazione dell’In- finito, cioè di Dio stesso, all’intimità della
coscienza. I tratti che definiscono il S. nella concezione ro- mantica sono
perciò due: 1° il suo carattere di intimità estrema, per cui esso costituisce
quanto di più soggettivo c’è nel soggetto; 2° la sua capacità di rivelare il
Principio infinito della realtà. Per questo secondo aspetto il S. viene inteso
dai Roman- tici, alternativamente o contemporaneamente, come l’organo proprio
dell’arte, della filosofia e della religione. Come organo della religione lo
considerò Schleiermacher in quanto ritenne che « il S. soltanto rivela
l’Infinito » (Reden, II; trad. ital., pag. 43): una tesi che è stata poi
ripresentata e difesa frequen- temente. In tempi recenti come organo dell’arte
il S. è stato considerato da Gentile (Filosofia del- l’arte, 1931) in quanto
l’arte è la « pura, intima, e farà quindi una parte importante alle donne, che
rappresentano per l’appunto l’elemento affettivo del genere umano (Politique
positive, I, pag. 204 sgg.). Questo accadrà perchè la morale di questa futura
società sarà l’altruismo, ma un altruismo sviluppato al punto di creare
inclinazioni o istinti benevoli, che agiscano, come fa appunto il S., senza più
bisogno della riflessione. Le preoccupazioni reli- giose e morali di Comte lo
condussero ad insistere sul valore del S. e ad esaltare il S. stesso in modo
romantico. Ma al di fuori e contro il Romanticismo, il S. fu accolto come
categoria fondamentale della vita spirituale e cioè come una delle « facoltà »
o « poteri + dello spirito. Ed è curioso che mentre Kant aveva, come si è
visto, ammessa la tripartizione di cono- scenza, S. e volontà, solo in base a
un modesto ma valido motivo metodologico, cioè per la ragione che i tre gruppi
di fenomeni non si lasciano ricon- durre ad un principio comune, subito dopo
Kantquesta tripartizione comincia ad essere dogma- tizzata: a Fries essa già
appare come un risultato immediato dell’osservazione di sè (Anthropologie, T,
1837, $ 4). Herbart, per quanto negasse la dottrina delle facoltà dell'anima e
ritenesse che esse sono piuttosto «concetti di classe +, secondo i quali si
ordinano i fenomeni osservati, incluse tuttavia tra tali concetti di classe
quello di sentimento. E Be- necke vedeva nel S. le basi della morale e della
religione, la quale ultima si originerebbe appunto dal S. di dipendenza
dell’uomo da Dio, S. giusti- ficato dalla frammentarietà della vita umana e
dall’esigenza di un completamento che può venirle solo da Dio (System der
Metaphysik und Religions- philosophie, 1840). Rosmini considerò il S. come la
coscienza di sè che è il punto di partenza e la base per ogni conoscenza
dell’anima (Psicologia, $ 69). La tripartizione delle facoltà dello spirito in
conoscenza, sentimento e volontà rimase come uno schema pressochè costante
nella filosofia del se- colo xtx. Alla sua diffusione molto contribuì l’opera
di Cousin che a quella tripartizione fece corrispon- dere tre valori assoluti:
il Vero, il Bello e il Bene (Du vrai, du beau et du bien fu il titolo della più
nota opera di Cousin, 1853). E se si prescinde dalle critiche di carattere
metodologico sull’oppor- tunità di simili rigidi schemi di ripartizione per la
considerazione dei fenomeni spirituali, quella ripar- tizione è tuttora la più
diffusa e si è incorporata con il modo comune di pensare. Una eccezione è
rappresentata da Croce, che ha ridotto le forme dello spirito alle due ammesse
già da Wolff: la teoretica e la pratica con una critica del S. consi- derato
come categoria spuria ed ambigua. Nel S., Croce ha visto una parola « adoperata
a deno- minare una classe di fatti psichici costituita secondo il metodo
naturalistico e psicologico »: una no- zione che ha esercitato varie volte
nell’estetica, nella storiografia, nella logica e nell’etica una fun- zione
negativa e critica, contrapponendo a inter- pretazioni troppo limitate ed
anguste ciò che di « indeterminato » e «semi-determinato + rimaneva fuori di
tali interpretazioni. La testimonianza a cui egli fa appello per rigettare
questa categoria, è quella dell’osservazione interiore: « Cerchi chi vuole nel
suo spirito; e si provi a indicare un atto solo che sia a differenza dei sopra
indicati [cioè degli atti teoretici e pratici] qualcosa di nuovo e originale e
meriti la speciale denominazione di S. » (Fil. della pratica, I, I, c. 2). Ma
questo genere di testimonianza è oltremodo variabile e fuori di qualsiasi
controllo; a Fries, per es., e a molti altri, la distinzione del S. dalle altre
attività spirituali parve così lampantemente sostenuta dalla testi- monianza
interiore come a Croce è parsa da essa smentita. E in realtà l’uso di tali
categorie, come S., attività teoretica, attività pratica, può essere discusso e
quindi limitato e regolato, solo in base all’analisi precisa di un gruppo
delimitabile di feno- meni: analisi che Croce non ha neppure tentato. Nella
filosofia contemporanea, tuttavia, tali analisi non mancano e sono tra i
contributi meno discu- tibili che essa ha portato ad una positiva conoscenza
dell’uomo nel suo mondo. Uno di questi contributi e fra i più importanti è
quello di Max Scheler; il quale si è rifatto alle parole di Pascal, « Il cuore
ha ragioni che la ragione non conosce +, interpre- tandole non nel senso,
abbastanza frequente della filosofia moderna e contemporanea (v. CUORE), che la
ragione debba avere una certa condiscendenza per il S. e cercare di rispondere
alle sue esigenze, ma nel senso che il S. ha sue proprie leggi e suoi propri
oggetti e costituisce così un mondo rispetto a quello della conoscenza
razionale. Scheler co- mincia col distinguere, dai semplici stati emotivi che
non hanno carattere intenzionale, non si rife- riscono cioè immediatamente ad
un loro proprio oggetto (v. EMOZIONE), il S. originario e intenzionale che è
invece una particolare reazione allo stato emotivo e consiste nel modo
estremamente vario e mutevole di atteggiarsi di fronte allo stato emotivo cioè
di affrontarlo, tollerarlo, goderlo, soffrirlo, ecc. Per es., uno stato emotivo
è il piacere sensibile corrispondente al carattere gradevole di un pranzo, di
un profumo, di un lieve contatto. Il S. puro consiste invece nelle reazioni
dell’io a tale stato emotivo: per es., nel goderlo più o meno o nel tollerarlo,
ecc. Sicchè mentre uno stato emotivo rientra nel contenuto fenomenico, un S.
puro rientra nelle funzioni destinate ad apprendere tale contenuto. Da questo
punto di vista l'attitudine a soffrire e a godere non ha nulla a che fare con
la sensibilità nei riguardi del piacere e del dolore. Il grado del piacere o
del dolore può essere lo stesso, eppure la sofferenza o il godimento che hanno
di tale piacere o dolore due individui o lo stesso in- dividuo in momenti
diversi può essere completa- mente diverso. Ora mentre gli stati emotivi si
pos- sono riferire solo indirettamente agli oggetti o fatti che li provocano o
di cui sono considerati i segni, i sentimenti puri si riferiscono
immediatamente ad un loro oggetto specifico, che è il valore. Il S. ha quindi
col valore l'identica relazione che si riscontra fra la rappresentazione e il
suo oggetto: la relazione intenzionale (v. INTENZIONALITÀ). Mentre occorre un
atto di riflessione per connet- tere uno stato emotivo con l’oggetto di cui è
segno o che riteniamo l’abbia provocato, il S. è connesso col suo oggetto
specifico, il valore, in modo immediato, come accade, per es., quando sentiamo
la bellezza dei monti nevosi al tramonto. La connessione intenzionale tra S. e
valore non ha quindi nulla a che fare con un legame causale tra S. ed oggetto
ed è anche indipendente con la causa- lità psichica individuale cioè dalle
leggi che regolano la vita psichica dell’individuo. E difatti quando le
esigenze dei valori non sono sodisfatte, noi sof- friamo, ad es., di non
poterci rallegrare di un avvenimento quanto il suo valore meriterebbe, oppure
di non poterci rattristare come, ad es., la morte di una persona amata lo
richiederebbe (Formalismus, pag. 260 sgg.). In tal modo, secondo Scheler, il S.
apre l’accesso ad un mondo di oggetti, che sono altrettanto reali come le cose
o i fatti che sono gli oggetti della rappresentazione, ma non hanno nulla in
comune con essi perchè non sono nè cose nè fatti, ma valori. Scheler è pertanto
d’accordo con Kant nel ritenere che il S. non sia «un pezzo di conoscenza »; ma
non è d’accordo con lui nel ritenere che esso non abbia alcun oggetto e sia
quindi privo di carattere intenzionale. Sono privi di oggetti e sono quindi
puri stati emotivi solo le emozioni sensibili, mentre i senti- menti vitali e
quelli psichici possono sempre rive- lare un carattere intenzionale (cioè
riferirsi ad un oggetto-valore) e quelli spirituali lo rivelano necessariamente
(per la distinzione dei gradi emo- zionali, v. EMOZIONE). L'analisi di Scheler
è molto importante perchè getta nuova luce sulla vita emozionale dell’uomo.
Essa tuttavia è stata fatta servire, da Scheler stesso, alla fondazione di una
vera e propria metafisica dei valori, nella quale i che sia suscettibile di
controllo (v. REALTÀ) e non c’è ragione d’identificare l’intenzionalità emotiva
con l’intenzionalità conoscitiva; anzi Scheler stesso dà buone ragioni in
contrario. Se le cose stanno così, se cioè l’intenzionalità del S. è differente
dall’inten- zionalità della conoscenza, e sono così diversi i rispettivi
oggetti, la critica mossa da Scheler all’in- dirizzo della psicologia
contemporanea di negare « la funzione conoscitiva » dei S., perde la sua base.
La psicologia contemporanea ammette infatti la funzione dei S. nel
comportamento vitale dell’or- ganismo e vede in essi l’annunzio di situazioni
presenti o future, annunzio che permette di af- frontare tali situazioni al
modo in cui un dispo- sitivo d’allarme mette in opera i mezzi per affron- tare
un pericolo. Come Scheler, Heidegger ha riconosciuto l’importanza fondamentale
del S., che egli ritiene radicato nella sostanza stessa dell’uomo, cioè nella
struttura ontologica della sua esistenza. Heidegger chiama situazione affettiva
(Befindlichkeit) la tonalità emotiva dell’affaccendarsi quotidiano dell’uomo e
vede in questa tonalità una manifesta- zione essenziale dell’essere dell'uomo
nel mondo. « L’emotività propria della situazione affettiva, egli dice (Sein
und Zeit, $ 29) costituisce essenzialmente l’essere aperto del mondo da parte
dell’Esserci, cioè dell’uomo esistente ». Il poter essere colpito dalla
minaccia delle cose o degli eventi del mondo e il reagire a questa minaccia con
la paura o con l’intrepidezza, è, secondo Heidegger, la situazione fondamentale
di un ente, che come l’uomo vive in un ambiente che gli fornisce le cose da
utilizzare e che perciò lo può minacciare con la non utiliz- zabilità, con la
resistenza delle cose stesse. Anche qui, se si prescinde dal linguaggio
specifico dell’on- tologia di Heidegger, l’analisi risulta fondamental- mente
concordante con quella della psicologia contemporanea; e la nozione del S. come
capacità di apprendere il valore che un fatto o una situa- zione presenta per
l’essere (animale o uomo) che la deve affrontare, ne esce riconfermata. Infine
bisogna ricordare che il riconoscimento del S. come « sede primaria della
datità dei valori » è stato effettuato anche da Nicolai Hartmann, che l’ha
posto a base della sua etica (Ethik, 1926). SENTIMENTO FONDAMENTALE. Con questo
termine Rosmini ha indicato la coscienza che l’uomo ha del proprio io e della
connessione, costitutiva di esso, di anima e corpo. « Nell'uomo, quale è
naturalmente al primo istante del viver suo, vi è: 1° un sentimento unico
costante-fonda- mentale, animale-spirituale; 2° una percezione razionale,
immanente, del sentimento animale » (Psicologia, 1850, $ 256). SEPARAZIONE (gr.
Bwxpiow; lat. Sepa- ratio; franc. Séparation; ted. Trennung). La riso- luzione
di un composto nelle sue parti o nei suoi elementi. Il termine fu usato da
Anassagora (Fr., 10, Diels) e da Empedocle (#7., 58, Diels) (cfr. PLAT., Sof.,
243b; ArRIsT., Met., I, 4, 985 a 25). SEQUENZA (lat. Sequentia; ingl. Sequence;
franc. Séquence; ted. Folge). Un insieme di termini tra i quali intercede una
relazione di prima e dopo (cfr. PelrcE, Coll. Pap., 3. 562 B). SERIE (ingl.
Series; franc. Série; ted. Reihe). 1. Un insieme di termini tra i quali
intercorre una qualsiasi relazione definibile. 2. Una relazione asimmetrica,
transitiva e coerente. In questo senso la S. non è l’insieme dei termini cioè
il campo della relazione, ma la relazione stessa; e, per es., le S.: 1, 2, 3;
1, 3, 2; 2, 3, 1, sono diverse per quanto abbiano lo stesso campo (cfr. B.
RussELL, Introduction to Mathematical Philosophy, IV; trad. ital., pag. 47) (v.
RELAZIONE). SERIETÀ (ingl. Earnestness; franc. Sérieux; te- desco Ernst).
Kierkegaard ha fatto della S. una specie di categoria morale definendola come «
l’ori- ginalità conquistata dal sentimento, conservata nella responsabilità
della libertà e affermata nel godi- mento della beatitudine». La S. consiste
nella ripeti- zione (v.) ed è la condizione affinchè la ripetizione stessa non
diminuisca il valore degli atti ripetuti (Der Begriff Angst, IV, $ 2, 0). SESSO
(ingl. Sex; franc. Sexe; ted. Sex). 1. I fi- losofi si sono solo raramente
occupati del sesso come di un costituente dell’uomo. Nel Convivio platonico
Aristofane espone, sulle origini del sesso, il mito degli androgini, dai quali
per separazione vo- luta da Zeus a scopi punitivi sarebbero derivati i due
sessi complementari (Conv., 189 e). Ma le spe- culazioni platoniche vertono
propriamente, non sul S., ma sull’amore. E così fanno quelle di altri filosofi,
compreso Schopenhauer che nella sua Metafisica del- l’amore sessuale considera
l’amore sessuale come il semplice espediente di cui «il genio della specie »,
cioè la Volontà di vita, si servirebbe per favorire l’opera oscura e
problematica della propagazione della specie. Nel mondo moderno, l’azione della
psi- canalisi (v.) ha richiamato l’attenzione dei filosofi sul S.; e
specialmente i fenomenologici e gli esisten- zialisti si sono occupati dei
fenomeni relativi. Una valorizzazione dell'atto sessuale come forma di
espressione della personalità umana è stata tentata da Max Scheler nel libro
sulla Wesen und Formen der Sympathie (1923; trad. franc., pag. 168 sgg.). E
mentre Heidegger ha considerato come privo di sessualità il Dasein, Sartre ha
considerato la sessualità stessa come una struttura fondamentale dell’esi-
stenza. Dice Sartre: « Benchè il corpo abbia un com- pito importante, bisogna
riportarsi all’essere nel mondo e all’essere per altri: io desidero un essere
umano, non un insetto o un mollusco e lo desidero in quanto esso è, ed io sono,
in situazione nel mondo, e in quanto è un altro per me e io sono un altro per
esso » (L’étre et le néant, 1943, pag. 452-53). Il sesso sarebbe la struttura
fondamentale dell’esi- stenza umana in quanto esistenza nel mondo (cfr. pure
ABBAGNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 55) (v. AMORE; PSICANALISI). 2. I
filosofi hanno invece spesso insistito sulla differenza sessuale. Aristotele
ritenne che la donna costituisce una mostruosità naturale, resa tuttavia inevitabile
dalla conservazione della specie (De Gen. An., 7, 775 a 15-17). La donna
differisce dal- l’uomo per il grado minore in cui partecipa dei poteri della
ragione (Po/., 1260 a 11-14): pertanto il suo posto è subordinato a quello
dell’uomo e a le funzioni biologiche entra poco o nulla. SETTA (lat. Secta;
ingl. Sect; franc. Secte; ted. Sekte). 1. Scuola o indirizzo filosofico. In
questo senso la parola è usata dagli scrittori latini (CIcER., Brut., 31, 120;
Quint., /st. Or., V, 7, 35, ecc.). 2. Gruppo di persone che difendono con fana-
tismo o intolleranza una credenza qualsiasi. In questo senso si adopera oggi
l'aggettivo sertario. SFERA (gr. cpaipo, opatpoc; lat. Globus; in- glese Globe;
franc. Globe; ted. Sphdre). Secondo gli antichi la figura perfetta, che
comprende in sè tutte le altre figure ed è l’immagine dell’omogeneità e della
perfezione (cfr. PLAT., Tim., 33 b). Parmenide paragonava ad una «S.
perfettamente rotonda » l’essere in quanto è definito da ogni parte, uguale a
se stesso e tale che in nessuna sua parte sia maggiore O minore di se stesso
(Fr., 8, 41, Diels). Ed Empedocle chiamava sfero la fase perfetta dell’essere,
quella nella quale domina l’amicizia: « Ma da ogni parte era uguale e per tutto
infinito, lo sfero rotondo che gode della sua avvolgente solitudine» (F7., 28,
Diels). Nel Rinascimento, Nicolò Cusano ripren- deva queste speculazioni,
insistendo sulla perfe- zione della figura circolare (De docta ignorantia, I,
21) e attribuendo la forma sferica all’anima stessa (De ludo globi, I). SFORZO
(ingl. Effort; franc. Effort; ted. Stre- ben). L'attività diretta a vincere un
ostacolo o una resistenza qualsiasi. La nozione fu introdotta in filosofia da
Fichte che se ne avvalse per mostrare la derivazione della realtà dall’Io: «
L’attività pura dell’io, rientrante in se stessa, è, in relazione ad un oggetto
possibile, uno S.; anzi, uno S. infinito. Questo S. infinito è all’infinito la
possibilità di ogni oggetto: senza S., non c’è oggetto» (Wissenschafts- lehre,
1794, $ 5, II; trad. ital., pag. 213-14). Maine de Biran si avvalse della
nozione e identificò con l’esperienza immediata dello S. sia il principio
metafisico di causalità sia la libertà dell’io. Preso nella sua sorgente, lo S.
è libertà cioè è l’io come libertà; nei confronti della resistenza che gli si
oppone, è necessità (Fondements de la psychologie, in CEuvres, ed. Naville, II,
pag. 284). Si può consi- derare questo concetto come una continuazione del più
antico concetto di corato (v.). SI (ted. Man). V. ANONIMIA. SIGNIFICANZA (ingl.
Significance; ted. Be- deutsamkeit). 1. Lo stesso che significato (v.). 2.
Importanza o valore. Da questo punto di vista si chiamano, per es.,
significanti gli eventi di importanza storica. SIGNIFICATO (gr. rexrév; lat. Significatio; ingl.
Meaning; franc. Signification; ted. Bedeutung). Si intende con questo termine la dimensione se-
mantica del procedimento segnico cioè la possibilità di riferimento del segno
al suo oggetto. Gli aspetti (o condizioni) fondamentali del S. sono due: 1° un
nome o un concetto o una essenza (per es., « Ales- sandro Manzoni», «uomo»,
«l’autore dei Pro- messi Sposi »), usato allo scopo di delimitare e orientare
il riferimento; 2° l’oggetto (per es., rispettivamente, Alessandro Manzoni, gli
uomini, Alessandro Manzoni) al quale il nome o il concetto o l’essenza è
riferito. I due aspetti del S. sono inscindibili; il secondo è una funzione del
primo perchè è il nome o concetto che determina a quale oggetto il riferimento
possa o non possa indiriz- zarsi. Ma i due aspetti non si identificano tra loro
giacchè l’oggetto può essere lo stesso, mentre il nome o concetto adoperato per
il riferimento è diverso: come nel caso di « Alessandro Manzoni + e «l’autore
dei Promessi Sposi» che si riferiscono allo stesso oggetto ma sono nomi
diversi. Nè le determinazioni che hanno lo stesso oggetto possono essere
ritenute equivalenti perchè non sono sosti- tuibili l’una all’altra; e, per
es., chiedere « se Ales- sandro Manzoni è l’autore dei Promessi Sposi + non è
lo stesso che chiedere « se Alessandro Manzoni è Alessandro Manzoni». La
differenza tra i due aspetti del S. (o la relazione tra di essi) costituisce la
base dei problemi cui il termine ha dato luogo e delle diverse definizioni che
ha ricevuto. Gli Stoici, che hanno fondato la dottrina del S., riconobbero
entrambi gli aspetti di esso. « Tre sono gli elementi che si collegano, il S.,
ciò che significa e ciò che è. Ciò che significa è la voce, per es., ‘ Dione ’.
Il S. è la cosa indicata dalla voce, che noi cogliamo pensando alla cosa
corrispondente. Ciò che è, è il soggetto esterno, per es., lo stesso Dione»
(Sesto EMP., Adv. Math., VIII, 12). Più particolarmente, il S. è per essi « una
rappresenta- zione razionale cioè una rappresentazione grazie alla quale e
possibile esporre con un discorso ciò che è rappresentato » (/bid., VIII, 70;
Dio. L., VII, 63). In queste notazioni i due aspetti del S. sono chiamati
rispettivamente « voce » o « rappre- sentazione razionale » e « ciò che è » o
«soggetto ». «Ciò che è» o «il soggetto » è il S. come oggetto; la «voce» o la
«rappresentazione razionale » è il S. come nome, concetto o essenza. Gli Stoici
riser- vano particolarmente a quest’ultimo il nome di S.; e in ciò (come
vedremo) sono seguiti da alcuni autori moderni. Nella logica medievale, la
distin- zione tra i due aspetti del S. fu espressa come distinzione tra
significazione e supposizione. Dice Pietro Ispano: « La supposizione e la
significazione differiscono perchè la significazione è fatta mediante
l'imposizione di una voce per significare un og- getto, ma la supposizione è
l’accezione di un termine già significante per qualcosa d'altro, e, per es.,
quando si dice ‘l’uomo corre’, questo termine ‘l’uomo ’ sta per Socrate e per
Platone. La significazione perciò è precedente alla suppo- sizione e le due cose
non sono identiche giacchè il significare è proprio della voce e la
supposizione è propria del termine che è già composto di voce e S.» (Summ.
Log., 6.03). Qui per significatio viene inteso ciò che gli Stoici intendevano
per lecton: il concetto o la rappresentazione che è adoperata per il
riferimento obbiettivo, mentre il riferimento obbiettivo stesso è designato
come suppositio. Ma in più degli Stoici questa dottrina include la separazione
dei due aspetti del S., attri- buendo il primo ai termini isolatamente presi,
il secondo ai complessi cioè alle proposizioni. Una dottrina identica veniva
esposta nel Medio Evo da Ockham (Summa Logicae, I, 63), da Buridano
(Sophismata, 2) e da Alberto di Sassonia (Logica, II, 1); mentre S. Tommaso
accennava a una dottrina diversa solo terminologicamente, per la quale il S. e
la supposizione coincidono nei termini singolari ma non in quelli generali, per
i quali il S. è l’essenza (S. Th., I, q. 39, a.4, in principio). Sulla
distinzione fra i due aspetti del S. si fonda la distinzione che la logica
moderna di stampo tradizionale ha stabilito tra i due elementi del con- cetto:
chiamati talora comprensione ed estensione {v. COMPRENSIONE); talaltra
intensione ed estensione (v. INTENSIONE): talaltra ancora connotazione e denotazione
(v. ConnoTazIoNE). La prima coppia di termini fu introdotta dalla logica di
Portoreale (I, 6); la seconda da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9); la terza da
Stuart Mill (Logic, I, 1,8 59). Quest'ultimo proponeva di restringere il
significato di S. alla connotazione, chiamando denotazione il riferimento
obbiettivo. Egli diceva: « Ogni volta che i nomi dati agli oggetti apportano
qualche informazione cioè ogni volta che essi, propriamente, hanno un S., il S.
risiede non in ciò che essi denotano ma in ciò che essi connotano. I soli nomi
di oggetti che non connotano niente sono i nomi propri; e questi, strettamente
parlando, non hanno signi- ficato » (/bid., I, 2, $ 5). Ciò che egli intendeva
con connotazione appare chiaro dal seguente passo: «La parola uomo, per es.,
denota Pietro, Gianna, Giovanni e un numero indefinito di altri individui, dei
quali, presi come una classe, esso è il nome. Ma quella parola viene applicata
ad essi in quanto essi posseggono, e per significare che posseggono, certi
attributi » (/bid.). Gli attributi che costituiscono l’uomo e cioè ad es., la
corporeità, l’animalità, la razionalità, ecc. formano pertanto la connotazione
del nome « uomo »: ciò che nella tradizione filoso- fica si chiamava «essenza»
o, più tardi, «concetto». G. Frege non faceva pertanto che dare espressione ad
una vecchia e nuova tradizione distinguendo senso e significato. « Pensando a
un segno, diceva, (sia esso un nome o un nesso di più parole o una semplice
lettera) dovremo collegare ad esso due cose distinte: cioè non soltanto
l’oggetto designato che si chiamerà S. (Bedeutung) di quel segno, ma anche il
senso (Sinn) del segno, che denota il modo in cui quell’oggetto ci viene dato
». Frege avvertiva che per senso o nome intendeva « una qualunque indicazione
che compiesse ufficio di un nome pro- prio cioè fosse un oggetto determinato
(prendendo la parola oggetto nel modo più ampio)» (Uber Sinn und Bedeutung,
1892, $ 1; trad. ital., in Arit- metica e logica, pag. 218-19). La stessa
distinzione veniva effettuata da Peirce con una terminologia diversa: Peirce
parlava dell’oggerto del segno e dell’interpretante del segno stesso, che è il
senso di Frege. Diceva Peirce: « Il segno crea qualche cosa nello spirito
dell’interprete e questo qualche cosa, in quanto è stato creato dal segno è
stato anche creato, in modo mediato e relativo, dall’oggetto del segno, per
quanto l’oggetto sia essenzialmente altro dal segno. Questa creatura del segno
è detta l’inter- pretante » (Coll. Pap., 8.179; lo scritto è del 1903). Questa
terminologia è stata sostanzialmente accet- tata da Morris, che ha chiamato
designato (desi- gnatum) l’oggetto e interpretante il concetto (Foun- dations
of the Theory of Signs, 1938, $ 2). Vero è che Morris ritiene inutile il
termine stesso di S., sembrandogli esso ricco di confusioni e pretende farne a
meno nella sua trattazione (/bid., $ 12). Ma in realtà ne può fare a meno
soltanto perchè ha introdotto nella sua analisi del segno, sotto altri nomi, i
due componenti del S. che la tradizione ha costantemente distinto. I logici
contemporanei mani- festano la tendenza, già presente in Stuart Mill, a
restringere la parola S. alla sfera della connota- zione. Lewis, riservando il
termine S. per entrambi gli aspetti, distingue la significazione
(signification) del termine (cioè la connotazione) dal suo riferi- mento
obbiettivo che egli distingue in denotazione e comprensione: la prima essendo
la classe di tutte le cose reali alle quali il termine si applica, la seconda
essendo la classe di tutte le cose possibili alle quali si applica (Analysis of
Knowledge and Valuation, 1946, cap. III, pag. 39 sgg.). Dalla stessa significa-
zione, Lewis poi distingue il «S.-senso» (sense meaning) che si distinguerebbe
da essa per essere il modo in cui lo spirito si riferisce alla significazione
stessa (/bid., pag. 133 e nota 3). Ma queste distin- zioni non modificano
sostanzialmente la dicotomia tradizionale del significato di significato. La
stessa dicotomia viene espressa da Quine come quella tra S. (o connotazione o
intensione) e nominazione (naming) che sarebbe l’estensione o denotazione (From
a Logical Point of View, 1953, II, 1); e da Carnap che fonda su di essa la
dicotomia di due operazioni fondamentali possibili rispetto a una data
espressione linguistica: quella di « analizzare l’espressione stessa con lo
scopo di capirla, di affer- rarne il S. e quella che invece consiste in
ricerche concernenti la situazione di fatto alla quale l’espres- sione si
riferisce » (Meaning and Necessity, 1947, $ 45). Ed ha inoltre insistito sul fatto
che il concetto di si- gnificato intensionale, come condizione generale che un
oggetto deve adempiere affinchè un parlante XY predichi quel significato
dell’oggetto stesso, è privo di qualsiasi riferimento psicologico e può essere
ap- plicato anche a un robot (/bid., pag. 246 e n. 5). A sua volta Church ha
adottato la terminologia di Frege chiamando senso la connotazione e signi-
ficato la denotazione; e in più introducendo la parola concetto: « Diremo che
un nome denota o nomina la sua denotazione ed esprime il suo senso. Meno
esplicitamente possiamo parlare di un nome che ha una certa denotazione ed fa
un certo senso. Del senso diciamo che derermina la denotazione o è un corcetto
della denotazione » (/ntroduction to Mathematical Logic, 1956, $ 01). Di fronte
a questa salda e, salvo la varietà della terminologia, uniforme tradizione
stanno i tentativi di modificarla o ridu- cendo l’una all'altra le due
dimensioni del S. (A) o aggiungendo nuove specie di significati (2). A) Il
tentativo di ridurre una delle dimensioni del S. all’altra è stato effettuato
in entrambe le dire- zioni: cioè riportando sia il senso al S. sia il S. al
senso. Il primo tentativo è quello proprio di Rus- sell e Wittgenstein.
L’intera teoria esposta nell’arti- colo di Russell del 1905 («On Denoting» ora
in Logic and Knowledge, 1956, pag. 41 sgg.) nonchè nel I capi- tolo dei
Principia Mathematica di Russell e White- head (1910) e nell’altro libro di
Russell, An /nquiry into Meaning and Truth (1940), è, nelle stesse parole di
Russell, che « non c’è alcun significato, ma solo talvolta una denotazione »
(Logic and Knowledge, pag. 46, nota). E difatti per Russell il S. di un sim-
bolo si riduce unicamente ai componenti del fatto cui il simbolo stesso si
riferisce. «I componenti del fatto che fa una proposizione vera o falsa, a
seconda dei casi, sono i S. dei simboli che noi dobbiamo capire per capire la
proposizione» (Logic and Know- ledge, pag. 196). È proprio da questo punto di
vista che il linguaggio ideale è quello che ha la sola sin- tassi e nessun
vocabolario: giacchè il vocabolario è perchè costituisce una ridu- zione
all’assurdo della eliminazione del senso (Sinn) dal S.: il riferimento
all'oggetto, non essendo guidato o limitato dal concetto, è sempre legittimo e,
dove non appare tale, è solo perchè non è stato effet- tuato.La riduzione
inversa del S. al senso cioè il ten- tativo di ridurre l’intero S. alla
connotazione o concetto è stato effettuato da Husserl. Questi ha negato che
l’oggetto costituisse il S. o coincidesse con esso (Logische Untersuchungen,
II, pag. 46). La sua tesi è che «il S. logico è un'espressione » nel senso che
esso solleva «al regno del /ogos, del concettuale, quindi dell’universale » il
senso (Sinn) percettivo della cosa. In altri termini Husserl sosti- tuisce alla
dicotomia oggetto-concetto la dicotomia senso (percepito)-concetto: nella quale
il concetto è l’essenza della cosa, la sua concettualizzazione o espressione
compiuta (/deen, I, $ 124). Un tentativo di riduzione analogo a questo è stato
quello di Royce il quale, dopo aver distinto il S. esterno di un’idea, che è la
corrispondenza dell'idea con l'oggetto, dal S. interno di essa che è «lo scopo
consapevole incor- porato nell’idea», riduce a quest’ultimo lo stesso S.
esterno, sul fondamento che è « l’idea stessa che sceglie l’oggetto con il
quale vuole essere confron- tata » (The World and the Individual, 1901, II,
cap. 1). B) 1 principali tentativi di presentare nuove specie di S. in aggiunta
o in concorrenza con le due consacrate dalla tradizione sono i seguenti: 1° La
definizione del S. come uso. Questa è la tesi delle Philosophical
Investigations (1953) di Wittgenstein. « Per un’estesa classe di casi — seb-
bene non per tutti — nei quali adoperiamo la pa- rola ‘ S. * essa può essere
definita così: il S. di una parola è il suo uso nel linguaggio. E il S. di un
nome è qualche volta spiegato indicando il suo portatore» (Op. cit., $ 43). Ma
per quanto pre- sentata, dallo stesso Wittgenstein e da altri, in con- correnza
con la definizione semantica di S., la nozione di uso appartiene ad un'altra
sfera di problemi e ad un altro livello di indagine. Il pro- blema cui essa
risponde è difatti quello della for- mazione dei significati nelle lingue
naturali. L’uso non è il S., ma lo determina: nel senso che ad esso è dovuta la
connessione tra un oggetto e una voce (o in generale un veicolo segnico). Le
definizioni di un dizionario sono senza dubbio stabilite dal- l’uso; esse
tuttavia esprimono la connotazione e la denotazione dei termini. Pertanto la
teoria dell'uso non è una teoria del S., ma piuttosto una teoria circa
l’origine e la formazione delle lingue naturali. 2° La proposta di un S.
emotivo accanto al S. « simbolico » o « descrittivo». Questa proposta, fatta da
Ogden e Richards (Meaning of Meaning, 1923, ediz. 1952, pag. 149 e passim) è
stata espressa da C. L. Stevenson nel modo seguente: « Il S. emo- tivo è un S.
nel quale la risposta (dal punto di vista dell’ascoltatore) o lo stimolo (dal
punto di vista del parlatore) è un complesso di emozioni» (Ethics and Language,
1944, pag. 59). Il S. emo- tivo così inteso sarebbe distinto dal significato
sim- bolico che consisterebbe nel suo riferimento all’og- getto; e il
significato stesso potrebbe in generale definirsi come la qualità
disposizionale di un segno a produrre l’una o l’altra di queste reazioni, cioè
o un insieme di emozioni o il riferimento all’og- getto (/bid., pag. 53 sgg.).
Prescindendo dal fatto che l’uso del termine emotivo per indicare norme di
leggi, prescrizioni tecniche o comandi (tutte cose che rientrerebbero nella
categoria dei signifi- cati emotivi) può a buon diritto ritenersi barbarico (v.
EMOZIONE), la dottrina in questione sembra suggerita dal fatto che il
significato denotativo viene ristretto al riferimento a cose reali, sicchè
molti segni semplici o composti sembrano non avere denotazione perchè non si
riferiscono a cose. In realtà il riferimento denotativo si rivolge a og- getti
in generale (v. OGGETTI) ed oggetti sono ugualmente le cose reali come quelle
fantastiche, i piani, i progetti, i desideri e le aspirazioni come le qualità
sensibili o le entità percepite. Pertanto un enunciato che esprime un ordine o
un desiderio o un progetto può avere, nella situazione a cui tali cose si
riferiscono, la sua denotazione cioè il suo oggetto o il suo referente. Nè da
un punto di vista logico, che è quello appunto della teoria del signi- ficato,
tali oggetti sono distinguibili dagli altri. 3° La definizione del significato
come del- l'intenzione di chi parla. Il S. in questo senso sa- rebbe ciò che il
parlante intende dire, a prescindere dal riferimento oggettivo della parola o
dell’enun- ciato adoperato. In questo senso si usa dire « In- tendo dire... »
(in inglese: / mean... dal verbo to mean che ha la stessa radice di meaning =
S.) per chiarire o rettificare una propria dichiarazione. È abbastanza ovvio
che ogni descrizione o chiari- mento dell’intenzione del parlante non può
aversi che mediante la determinazione dell’oggetto cui egli si riferisce o
della sua connotazione: cioè mediante l’uso delle dimensioni proprie del
significato. Tali dimensioni vengono pertanto semplicemente pre- supposte dalla
definizione in esame. Talvolta questa viene proposta come un S. aggiunto a
quello tradizionale (cfr. M. BLACK, Problems of Analysis, 1954, pag. 55-56); ma
è anche chiaro che l’inten- zione del parlante non è un’altra specie di S. ma
piuttosto il modo in cui il parlante adopera le di- mensioni logiche del
significato. A questa stessa confusione tra intenzione e S. si connette l’uso
di questo termine in frasi come queste: « Un universo meccanico non avrebbe S.
», «Se tutto si svolgesse a caso, la storia non avrebbe S.+: nelle quali la
parola S. sta ovvia- mente per intenzione o scopo, quindi per valore. 4° La
proposta di un S. « pittorico » o « im- maginifico » accanto agli altri in
quanto «il lin- guaggio può essere usato con l’intenzione primaria di esprimere
o evocare pitture (o immagini) in un modo che differisce dall’uso dei segni e
formula possibilità empiricamente significanti» (v. C. At- DRICH, « Pictorial
Meaning and Picture Thinking », in Readings in Philosophical Analysis, 1949,
pa- gina 175 sgg.). Ma è chiaro che anche questa pro- posta è suggerita dal
presupposto (estraneo a qual- siasi teoria logica del S.) che l’oggetto del
riferi- mento sia una cosa reale o una situazione di fatto e non possa essere
d’altra natura. In realtà i S. « pittorici » hanno connotazione e denotazione
come tutti gli altri. 5° La definizione del S. come un vertore di campo nel
senso che esso sarebbe una disposizione messa in atto dall’oggetto stagliatosi
sullo sfondo di un campo o contesto appropriato. Più precisa- mente esso
sarebbe l’attivazione o messa in atto di una risposta descrittiva, provocata
dall’oggetto (A. P. UsHENKO, 7he Field Theory of Meaning, 1958, pag. 109). Ma
questa è bensì una teoria circa la formazione dei S. (che può essere discussa
in sede di teoria del linguaggio) ma non innova nulla no S. espressivo le
locuzioni che non hanno S. teoretico e tuttavia manifestano uno stato d'animo
del soggetto che li adopera o servono a produrre stati d’animo analoghi nel
sog- getto che le ascolta. Le interiezioni, le esclamazioni, le espressioni
metaforiche hanno un S. di questo genere. Talvolta, e specialmente da parte dei
seguaci dell’empirismo logico (v.), si assimilano le espres- sioni della
metafisica tradizionale a enunciati di questo genere, al fine di negare ad essi
ogni valore cognitivo. Questo però è un uso polemico, che può essere registrato
solamente come tale (v. ARTE; METAFISICA; POESIA). SILENZIO (lat. Silentium;
ingl. Silence; fran- cese Silence; ted. Schweigen). L'atteggiamento mi- stico
di fronte all’ineffabilità dell’essere supremo (cfr., ad es., BONAVENTURA,
/finerarium mentis in Deum, VII, 5). Secondo Jaspers, l’atteggiamento di fronte
all’essere della Trascendenza (Philosophie, III, pag. 233). Secondo
Wittgenstein, l’atteggia- mento di fronte ai problemi della vita: «Di ciò di
cui non si può parlare si deve tacere » (Tractatus logico-philosophicus, T).
SILLOGISMO (gr. ovMmoywapsc; lat. Syllogi- smus; ingl. Syllogism; franc.
Syllogisme; ted. Syl- logismus). La parola che in origine significa calcolo e
da Platone veniva usata per ragionamento in ge- nerale (cfr. Teer., 186 d) fu
adottata da Aristotele per indicare il tipo perfetto del ragionamento de- duttivo,
definito come «un discorso in cui, poste talune cose, alcune altre ne seguono
di necessità + (An. Pr., I, 1, 24b 18; I, 32, 47a 34). Le carat- teristiche
fondamentali del S. aristotelico sono: 1° il suo carattere mediato; 2° la sua
necessità. Il carattere mediato del S. dipende dal fatto che il S. è la
controparte logico-linguistica del concetto metafisico di sostanza. In virtù di
questo, il rap- porto tra due determinazioni di una cosa non si può stabilire
se non sulla base di ciò che la cosa è necessariamente cioè della sua sostanza;
e, per es., se si vuol decidere se l’uomo ha la determinazione di « mortale »
non si può che guardare alla sostanza dell’uomo (a ciò che l’uomo non può non
essere) e ragionare nel modo seguente: « Tutti gli animali sono mortali, Tutti
gli uomini sono animali, Dunque tutti gli uomini sono mortali». Ciò si- gnifica
che l’uomo è mortale perchè animale: l’animalità è la causa o la ragion
d'essere della sua mortalità. In questo senso si dice che la nozione «animale»
fa da rermine medio del S.: il termine medio è ovviamente indispensabile perchè
è quello che rappresenta nel S. la so- stanza, o il riferimento alla sostanza,
che sola rende possibile la conclusione (An. Posr., Il, 11, 94a 20). Il S. ha
dunque tre termini cioè il soggetto e il predicato della conclusione e il
termine medio. Ma è la funzione del termine medio che determina le diverse
figure del sillogismo (v. SILLOGISTICA). Ari- stotele distinse oltre le figure,
varie specie del sillo- gismo. Il S. è per definizione deduzione necessaria:
perciò la sua forma primaria e privilegiata è il S. ne- cessario che Aristotele
chiama pure dimostrativo o scientifico o S. dell’universale (An. Pr., I, 24,
25b 29). Da esso si distingue il S. dialettico, che è fondato su premesse probabili
ed è quindi solo probabile (Ibid., II, 23, 68b 10; An. Posr., II, 8, 93a 15);
esso è detto anche retorico; e di esso è una specie il S. eristico, fondato su
premesse che sembrano probabili ma non lo sono (7op., I, 1, 100b 23). Dei S.
necessari, la prima e migliore specie è quella dei S. ostensivi (v.), che
Aristotele contrappone a quelli che partono da un’ipotesi (An. Pr., I, 23, 40b
23). Questi ultimi non sono quelli che si chiameranno in seguito S. ipotetici
ma quelli la cui premessa maggiore non è la conclusione di un altro S. nè è
evidente per sè, ma è assunta per via d’ipotesi (/bid., I, 44, 5S0a 16). Di
tali S. è una specie quello che conclude mediante la riduzione all’assurdo
(Ibid, 50a 29). Tra i S. ostensivi i più perfetti sono i S. universali della
prima figura ai quali è possibile ricondurre tutte le altre forme del S.
(/bid., I, 7, 29b 1). Infine dal S. deduttivo si distingue il S. indurrivo o
induzione (Ibid., I, 23, 68b 15). Dall’altro lato, non sono specie dei S.
quelle che Aristotele chiama S. geometrico, medico, politico (Top., I, 9, 170 a
32) e il S. pratico (Er. Nic., VI, 12, 1044a 31) che si distinguono tra loro
solo per il contenuto dei princìpi cui fanno appello, non per la forma logica.
Nè, propriamente parlando, sono specie del S. i S. composti come l’epicherema e
il sorite; o contratti come l’enrimema: sui quali tutti vedi le singole voci.
Non è poi af- fatto un S. la divisione, cioè uno dei metodi della dialettica
platonica, che Aristotele chiama «S. de- bole » (An. Pr., I, 31, 46a 33). Gli
Stoici, che misero a base della loro logica, non la teoria della sostanza, ma
quella della perce- zione, considerarono come tipo fondamentale del
ragionamento non il S. ma il ragionamento anapo- dittico, che ha soltanto due
termini e ha per pre- messa maggiore una proposizione condizionale (« Se è
giorno c’è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce»; v. ANAPODITTICO). Gli
aristotelici, a partire da Teofrasto, tradussero negli schemi aristotelici i
ragionamenti anapodittici degli Stoici aggiungendo al S. categorico
aristotelico, come due altre specie di S., quello ipotetico e quello
disgiuntivo (con- fronta PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 375 se- guenti;
i testi fondamentali sono dati da Alessandro, Ad An. Pr., f. 134 a-b). La
dottrina veniva trasmessa alla filosofia occidentale attraverso l’opera di
Boezio che tuttavia si ispirava ad autori posteriori e soprat- tutto a Galeno
(De syllogismo hypothetico, in P. L., 64). La dottrina del S. così completata
veniva trasmessa dalla tradizione senza sostanziali muta- menti, l’attività dei
logici sbizzarrendosi soltanto a trovar nomi per ogni insignificante
modificazione delle strutture tradizionali. Si è già detto che il fondamento
del S. aristotelico i gli animali; ma intendo nello stesso tempo che l’idea
dell’animale è compresa nell’idea dell’uomo. L’animale comprende più individui
dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più forme; l’uno ha più esempi,
l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più estensione, l’altro più intensione.
Perciò si può forse dire con verità che tutta la dottrina sillogistica potrebbe
essere dimostrata mediante quella del contenente e del contenuto, del compren-
dente e del compreso, che è differente da quella del tutto e della parte;
giacchè il tutto eccede sempre la parte, mentre il comprendente e il compreso
sono talvolta eguali, come accade nelle proposizioni reciproche » (Nouv. Ess.,
IV, 17, 8). Ma fu soprat- tutto Hamilton che fece prevalere il punto di vista
estensivo come fondamento del S. assumendone a base quella che egli chiamò «la
legge di identità o non identità proporzionale » per la quale il S. si fonda
sulle tre sole possibili relazioni tra i ter- mini: 1° la relazione di
coinclusione toto-totale cioè di identità o di assoluta convertibilità o reci-
procazione; 2° la relazione di co-esclusione toto- totale cioè di non identità
o di assoluta non conver- tibilità o non reciprocazione; 3° la relazione di
coinclusione incompleta, che implica una relazione di coesclusione incompleta,
che significa l'identità par- ziale o la parziale non identità o una
convertibilità o reciprocazione relativa (Lectures on Logic, ll, 1866, pag. 290
sgg.). Hamilton stesso si preoccupò di sottolineare i precedenti della sua
dottrina, tra i quali però non incluse il principale, che è Leibniz (/bid.,
346-48). La logica posteriore di ispi- SILLOGISTICA razione aristotelica non
seguì, su questo punto, la dottrina di Hamilton ritornando ad una inter-
pretazione intensiva del fondamento del sillogismo. E in realtà l’eredità della
proposta di Hamilton doveva essere raccolta piuttosto dalla logica mate-
matica; la quale però, a partire dalla sua prima manifestazione cioè dalle
Leggi del Pensiero (1854) di G. Boole fu d’accordo con l’empirismo (v. oltre)
nel togliere al S. il suo primato di forma fondamen- tale e tipica del
ragionamento. Diceva Boole: « Il S., la conversione, ecc. non sono gli ultimi
pro- cessi della logica. Essi sono fondati su, e sono risol- vibili in,
ulteriori e più semplici processi che costi- tuiscono gli elementi reali del
metodo in logica. Nè è vero in linea di fatto che ogni inferenza è riducibile
alle forme particolari del S. e della con- versione + (Laws of Thought, cap. I;
Dover Pub- blications, pag. 10). I processi elementari della logica sono
secondo Boole, identici con «i processi fondamentali dell’aritmetica » (/bid.,
pag. 11): un'affermazione la quale servì di base a tutti gli ulteriori sviluppi
della logica matematica. Ma con ciò il S. era definitivamente spodestato dal
suo trono di tipo fondamentale del ragionamento deduttivo: cosa che non era
riuscita del tutto alla critica empiristica. D’allora in poi, il S. ha cessato
di essere un capitolo autonomo delia logica; e la preoccupazione dei logici a
suo riguardo consiste unicamente nel mostrare come esso possa essere risolto e
espresso nelle formule del calcolo che essi preferiscono: una preoccupazione
che i logici affrontano non senza perplessità (cfr., ad. es., W. v. O. QuInE,
Methods of Logic, 1952, $ 14; A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic,
1956, $ 46.22). Come già si è detto, indipendentemente dalla discussione sui
suoi fondamenti, la validità del S. è stata spesso messa in dubbio dal punto di
vista dell’empirismo. Sesto Empirico vedeva nel S. o la ripetizione inutile di
ciò che già si conosce o un circolo vizioso: nel senso che la premessa maggiore
(« Tutti gli uomini sono mortali +) implicherebbe già la verità della
conclusione (« Socrate è mortale +) (/p. Pirr., I, 163-64; II, 196). Stuart
Mill osservava a questo proposito che il circolo vizioso non c’è, perchè quando
si è giunti alla proposizione gene- rale, l’inferenza è finita e non rimane che
« deci- frare i nostri appunti » (Logic, II, 3, 2). Ma questo significa ridurre
il S. a una semplice decifrazione di note già possedute. Già Bacone aveva
osservato che « il S. forza l'assenso, ma non la realtà» (Nov. Org., I, 13). E
fu questa l’idea che Locke fece pre- valere sulla natura del S.: il quale non
scopre nè le idee nè la connessione tra le idee, che solo la mente può
percepire, ma « dimostra soltanto che se l’idea intermedia concorda con quelle
cui è 795 riferita immediatamente da entrambi i lati, allora quelle due idee
lontane (o estreme) certamente concordano ». Sicchè «la connessione immediata
di ciascuna idea con quelle cui viene applicata da entrambi i lati, connessione
dalla quale dipende la forza del ragionamento, è vista altrettanto bene prima
quanto dopo il S. o altrimenti chi fa il S. non potrebbe mai vederla affatto»
(Saggio, IV, 17, 4). Questa critica famosa di Locke ha iniziato quella
decadenza del S. dalla sua supremazia che doveva concludersi col prevalere
della logica mate- matica nella seconda metà dell’800. SILLOGISTICA (ingl.
Syllogistic; franc. Syl- logistique; ted. Syllogistik). È la dottrina del
sillo- gismo (v.). Sviluppata per la prima volta da Aristo- tele negli
Analytica Priora, doveva divenire in breve volgere di decenni la parte centrale
della Logica, e tale rimanere fino all’avvento della Logica mate- matica
contemporanea. La parte più antica è la teoria del sillogismo deduttivo categorico
esposta, appunto, da Aristotele. Questi fissa i quattro modi validi della prima
figura. (Le figure sono caratteriz- zate dalla posizione del termine medio, che
nella prima fa da soggetto nella premessa maggiore e predicato nella minore;
nella seconda è predicato in entrambe le premesse, nella terza è in entrambe
soggetto: onde la necessità, in queste, di convertire una delle premesse. I
modi si dispongono così: prima quelli che concludono con una proposizione
universale affermativa, poi quelli che concludono con una universale negativa,
poi particolare affer- mativa, infine particolare negativa). Indi passa
all’analisi dei modi possibili della seconda e terza figura, dimostrandone la
riducibilità, principalmente mediante la tecnica della conversione (v.), a
corri- spondenti modi della prima. In seguito Teofrasto formulerà i modi della
quarta figura, ma il ricono- scimento e l'esposizione di questa come figura
indipendente pare siano dovuti a Galeno. Tuttavia in seguito parecchi logici,
come Averroè, Zabarella, e, nell’età moderna, Wolff e Kant, si pronuncia- rono
contro di essa come sostanzialmente inutile; e infatti i modi di questa figura
non sono che modi indiretti della prima, con interscambio delle due premesse;
per di più alcuni di essi, e cioè il primo e il quarto, non «concludono
necessariamente » (condizione essenziale, nella dottrina aristotelica, perchè
ci fosse sillogismo). A queste quattro figure i logici moderni aggiunsero i
cinque modi «deboli», ottenuti dalla prima, seconda (e quarta) per subal-
ternazione (cloè sostituzione della conclusione universale con una
particolare). Questa dottrina, già largamente esplorata dai commentatori della
tarda antichità, peripatetici e neoplatonici, compendiata poi da Boezio,
ricevette ad opera dei logici medievali una rielaborazione 796 sistematica che
la rese estremamente formalizzata. Furono infatti i grandi terministi medievali
che ridussero a formule tutti i modi, seguendo questa complicata tecnica:
indicarono con le quattro vocali a, e, i, o i quattro tipi di proposizione
(risp.: univer- sale affermativa {a], universale negativa fe], parti- colare
affermativa fi], particolare negativa [o]; con B, C, D, Fi quattro modi della
prima figura, desi- gnandoli con le parole-formule Barbara, Celarent, Darii, Ferio,
dove le uniche lettere significative sono appunto le iniziali e le tre vocali
(indicanti il tipo di proposizione rispettivamente della premessa maggiore,
della minore e della conclusione). Per i modi delle tre altre figure, le prime
tre vocali hanno il consueto significato; le iniziali indicano a quale modo
della prima figura si riducano; e in più sono significative alcune lettere
minuscole posposte alla vocale e indicative di operazioni da compiersi sulle
proposizioni indicate da quella vocale: s conversione «simpliciter », p
conversione «per accidens +, m metatesi delle premesse, c « reductio ad
impossibile +. Ora, teoricamente, i modi matematicamente pos- sibili in ogni
figura sono 16, che si ottengono com- binando a due a due in tutti i modi possibili
(con ripetizione) le quattro lettere a, e, i, 0 (infatti nel sillogismo quelle
che decidono sono le premesse, e le premesse sono due): 44, ea, ia, 0a; ae, ee,
ie, 0e; ai, ei, ii, oi; ao, eo, io, 00. Ne verrebbero quindi 64 modi; ma di
essi sono validi solo i seguenti 19: logismo ipotetico e disgiuntivo. Il
sillogismo ipotetico con- siste in una premessa (detta maggiore) la quale
stabilisce un’implicazione da un enunciato ad un altro («se A, B +); di una
premessa (detta minore) che afferma (modus ponens) o nega (modus tollens)
rispettivamente l’antecedente o il conseguente del- l’implicazione contenuta
nella maggiore; la conclu- SIMBOLIISMO sione afferma o, rispettivamente, nega
il conseguente o l’antecedente: modus ponens: se A, B modus tollens: se A, B Anon-8
dunque 8 dunque non-4 Analogamente, il sillogismo disgiuntivo consiste di una
premessa (maggiore) in cui sono affermate (modus tollendo ponens) oppure
reciprocamente negate (modus ponendo tollens) due proposizioni; di una premessa
(minore) in cui è negata, 0, rispet- tivamente, affermata, una delle disgiunte
della pre- messa maggiore; la conclusione consiste nell’affer- mare, o,
rispettivamente, negare, l’altra disgiunta: modus tollendo ponens: A o B AoB
non-B non-A dunque 4 dunque 8 modus ponendo tollens: o A o B po AoB A dunque
non-8 dunque non-4 Questi tipi di « sillogismo », malgrado certe for- zate
analogie, rappresentano una struttura affatto diversa da quella del sillogismo
categorico, sì che, se non si tenesse conto dell’etimologia, a mala pena si
potrebbe applicare loro il nome stesso di sillo- gismo. Infatti essi, per
esprimerci nel linguaggio della Logica contemporanea, appartengono al cal- colo
proposizionale semplice e si fondano su impli- cazioni materiali, mentre i modi
del sillogismo categorico appartengono al calcolo delle funzioni proposizionali
e si fondano su implicazioni formali. Ciononostante nella Logica moderna,
soprattutto nell’Ottocento, è stato fatto il tentativo (peraltro più su basi
gnoseologiche ed epistemologiche che non su basi propriamente logiche) di
ridurre il sillogismo categorico a sillogismo ipotetico, inter- pretando il
primo come inferenza ipotetico-deduttiva: «se tutti gli uomini sono mortali, e
se Socrate è uomo, Socrate è mortale». Ma l’esposizione logica completa di
quest’ultima forma di inferenza mostra come essa in realtà non si riduca a
nessuna delle due forme classiche, andando perdute di queste la rigorosa
brevità e la struttura ternaria. Resterebbe da considerare il sillogismo
induttivo. Ma la trattazione di esso non appartiene alla S. vera e propria (v.
INDUZIONE). G. P. SIMBOLISMO (ingl. Symbolism; franc. Sym- bolisme; ted.
Symbolismus). 1. L’uso dei segni cioè il comportamento segnico o sermiosi (v.).
2. L'uso di un particolare sistema di segni (per es., «il S. della
matematica»). 3. L’uso dei simboli nel senso 2 del termine cioè di segni
convenzionali e secondari (segni di segni, come accade nell’arte, nella
religione, ecc.). In questo senso adopera la parola Cassirer quando parla della
« espressione simbolica come della più matura forma dello sviluppo linguistico,
contras- SIMPATIA segnata dalla distanza tra il segno e il suo oggetto » (The
Philosophy of Symbolic Forms, II, pag. 237); questa distanza è difatti propria
del comportamento segnico. SIMBOLO (ingl. Symbol; franc. Symbole; te- desco
Symbol). 1. Lo stesso che segno. In questo significato generico il termine
viene più spesso ado- perato nel linguaggio comune. 2. Una particolare specie
di segno. Secondo Peirce: « Un segno che può essere interpretato in conseguenza
di un abito o di una disposizione naturale » (Coll. Pap., 4.531). Secondo
Dewey, un segno arbitrario o convenzionale (Logic, Intr., IV; trad. ital., pag.
93). Secondo Morris un segno che ne sostituisce un altro nella guida di un
compor- tamento (Signs, Language and Behavior, I, 8). Secondo altri, un segno
tipico, in contrapposto al segno individuale cioè la parola come significato
(v. PAROLA) (M. BLACK, Language and Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181). SIMILE (gr. 8poiog; lat.
Similis; franc. Sem- blable; ingl. Alike, Similar; ted. Ahnlich). Ciò che ha una qualsiasi determinazione in
comune con una © più cose. Aristotele distinse i seguenti significati del
termine: 1° sono S. le cose che hanno la stessa forma per quanto siano
sostanzialmente differenti; e in questo senso sono S. un quadrato più grande e
uno più piccolo e due linee rette ine- guali; 2° sono S. le cose che hanno la
stessa forma ma sono soggette a variazioni quantitative, quando le loro
quantità sono uguali; 3° sono S. le cose che hanno in comune la stessa
affezione, per es., il bianco; 4° infine sono S. le cose le cui affezioni
uguali sono in maggior numero delle affezioni differenti (Mer., X, 3, 1054 b
3). Il primo significato è quello in cui in geometria si dicono S. le figure
(cfr. EUCLIDE, El., VI, def. 1, 3; def. 11, ecc.). Nella tradizione posteriore,
la simiglianza è stata intesa specialmente rispetto alla qualità comune (PIETRO
Ispano, Summ. Log., 3.29) ma talvolta anche alla forma (S. Tommaso, Contra
Gent., I, 29; cfr. S. Th., I, q. 4, a. 3). Più genericamente Wolff diceva che
«sono S. le cose che sono identiche in ciò in cui dovrebbero distinguersi l’una
dall’altra» (Ont., $ 195). Determinazioni siffatte stringono assai poco e
dicono solo che i criteri di simiglianza possono essere indefinitamente
variati; l’importante è che siano, ogni volta, esplicitamente dichiarati. Solo
nella matematica moderna la nozione di simiglianza è stata diversamente
definita mediante la teoria degli insiemi: che si dicono S. quando esiste tra
essi una relazione di termine a termine. Dice, ad es., Russell: «Si dice che
una classe è S. a un’altra quando esiste una relazione di termine a termine in
cui una classe è dominante mentre l’altra è il dominante inverso» (/ntroduction
to 797 Mathematical Philosophy, cap. II; trad. ital., pag. 27). Questa nozione
ha grande importanza per la defi- nizione matematica dell’infinito (v.).
SIMMETRIA (ingl. Symmetry; franc. Symétrie; ted. Symunetrie). Misurabilità,
proporzione 0 armo- nia. Simmetrica si dice una relazione che intercede tra i
due termini nei due sensi: per es. è simmetrica la relazione «fratello » (v.
RELAZIONE). SIMPATIA (gr. ovyré0eu; ingl. Sympathy; franc. Sympathie; ted.
Sympathie). L'azione reci- proca delle cose tra loro o la loro capacità di
influenzarsi a vicenda. Il concetto è antico e sin dall’antichità trovò
applicazione sia nel mondo umano che nel mondo fisico; ma è soprattutto a
proposito del mondo fisico che i filosofi antichi se ne servirono. Gli Stoici
videro nella S. il legame che unisce tra loro le cose e le tiene o le fa conver-
gere nell’ordine del mondo (ARrnIM, Sroicorum fragmenta, II, pag. 264). Plotino
poneva la S. a fondamento della magia: « Da dove derivano, egli diceva, gli
incantesimi? Dalla S. per la quale vi è un accordo naturale tra le cose simili
ed una naturale contrarietà tra le dissimili e per la quale anche c’è un gran
numero di potenze varie che collaborano all'unità di quei grande animale che è
l’universo » (Enn., IV,4, 40). « La S., egli diceva, è come un’unica corda tesa
che quando viene toccata ad un capo trasmette anche all’altro capo il
movimento... E se la vibrazione passa da uno strumento all’altro per S., anche
nell’universo c’è un’armonia unica, che talora è fatta di contrari ma talaltra
è fatta anche di parti simili e congeneri » (/bid., IV, 4, 41). La magia si
inserisce nella S. universale, e con op- portuni accorgimenti se ne avvale per
i propri scopi realizzando così effetti che sembrano straor- dinari e
miracolosi. Questo concetto della S., che presuppone l’animazione di tutte le
cose, è il fonda- mento della magia e viene ammesso ugualmente da tutti i maghi
del Rinascimento (cfr. CAMPANELLA, De sensu rerum, IV, 1; III, 14; AGRIPPA, De
oc- culta philosofia, I, 1; I, 37; CARDANO, De varietate rerum, I, 1-2; G. B.
ELMONT, Opuscula philosophica, I, 6; ecc.) Col declino della magia nel mondo
moderno, il significato di S. fu ristretto a indicare la parteci- pazione
emotiva fra gli individui umani. Hume per primo insistette sull'importanza
della S. per ciò che riguarda la formazione di tutte le emozioni umane: «
Nessuna qualità della natura umana è più importante, sia in se stessa, sia
nelle sue conse- guenze, della propensione che abbiamo a simpa- tizzare con gli
altri, a ricevere per comunicazione le loro inclinazioni e i loro sentimenti
per quanto diversi siano dai nostri o anche contrari... A questo principio
dobbiamo attribuire la grande uniformità che possiamo osservare negli umori e
nei modi di 798 pensare dei membri di una stessa nazione: è molto più probabile
che questa rassomiglianza sorga dalla S. piuttosto che dall’influenza del suolo
e del clima che, per quanto rimangano gli stessi, non riescono a conservare
immutato per un intero secolo il ca- rattere di una nazione » (7reatise of
Human Nature, 1738, II, I, 11). È da notare che Hume riconobbe alla S. il
carattere sul quale giustamente ha poi insistito Scheler, in polemica con
autori più mo- derni e cioè sul fatto che essa non implica alcuna identità di
emozione o fusione emotiva fra le per- sone tra le quali intercorre. Adamo
Smith non fece che seguire l’idea direttiva di Hume ponendo la S. a fondamento
della vita morale e intendendo per essa «la facoltà di partecipare le emozioni
degli altri, quali che siano » (Theory of Moral Sentiments, 1759, I, 1, 3).
Alla S., talora chiamata emparia (v.) si è fatto talora ricorso nel dominio
estetico e bio- logico. Bergson ha riportato alla S. l’istinto e ha visto in
essa la possibilità di cogliere direttamente la natura della vita: « L’istinto
è simpatia. Se questa S. potesse estendere il suo oggetto e riflettere su se
stessa, ci darebbe la chiave delle operazioni vitali, al modo in cui
l’intelligenza sviluppata e raddriz- zata, ci introduce nella materia» (Év.
Créarr., 8® ediz., 1911, pag. 191). Dall’altro lato, Scheler in un'opera famosa
sulla S., l’ha distinta da feno- mine è stato anche applicato alla storia del
pensiero reli- gioso che mostra spesso fenomeni di sovrappo- sizione e fusione
di credenze di provenienza diversa. Anche in questo uso il termine è adoperato
polemi- camente cioè per designare sintesi mal riuscite, perciò non ha
significato preciso. Più arbitrario ancora è il significato in cui viene
adoperato da qualche scrittore francese per indicare una veduta generale e
confusa di una situazione (cfr. RENAN, L’avenir de la science, pag. 301).
SINCRONICO. V. Diacronico. SINDOSSICO (ingl. Syndoxicj franc. Syn- doxique).
Termine adoperato da J. M. Baldwin SINONIMIA per indicare quel complesso di
conoscenze comuni che si formano negli individui in quanto hanno le stesse
esperienze ma che non perciò sono neces- sariamente valide (Thought and Things,
1906, I, pag. 146) (v. SinNoMICO). SINECHISMO (ingl. Synechism; franc. Syné-
chisme). Termine adoperato da Peirce per indicare il principio di continuità,
che egli ritiene operante in tutte le forme della realtà (cfr. Chance Love and
Logic, II, 3; Coll. Pap., 6.169-173). SINECOLOGIA (ted. Sinechologie). La
dottrina della continuità nel tempo e nello spazio che secondo Herbart è una
parte della metafisica, insieme alla metodologia, all’ontologia e alla idolologia
(Kurze Enciclopàdie der Philosophie, 1841, pag. 297 sgg.). SINERGIA (ingl.
Synergy; franc. Synergie; ted. Synergie). Coordinazione di differenti facoltà o
forze oppure azione combinata di differenti fattori. Il termine è corrente nel
linguaggio comune e scientifico ed è adoperato, ad es., sia ad indicare la
cooperazione degli organi in un corpo vivente sia il rafforzarsi a vicenda
dell’azione dei medica- menti. Qualche volta, ma raramente, è stato ado- perato
come sinonimo di simpatia o di coopera- zione intelligente (cfr. Risor,
Psychologie des sen- timents, 1896, pag. 229; FoOUILLÉE, Morale des
idées-forces, 1908, pag. 352). SINERGISMO (ingl. Synergism; francese Sy-
nergisme; ted. Synergismus). La dottrina teologica secondo la quale la salvezza
dell’uomo dipende non dalla sola azione di Dio, ma anche dalla volontà umana
che collabora con essa a produrla. Tale dottrina fu sostenuta da Melantone
contro il mo- nergismo di Lutero che attribuiva la salvezza alla sola azione di
Dio (v. GRAZIA). SINGOLARE (ingl. Singular; franc. Singulier; ted. Einzig,
Singulàr). Un termine o una proposi- zione che denota un unico oggetto; o in
altre pa- role « Una forma (o espressione) che contiene un'unica variabile
libera » (CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, 1956, $ 02; cfr. QUINE,
Methods of Logic, $ 34). SINGOLO (ingl. Singular; franc. Singulier; te- desco
Einzeln). 1. Lo stesso che individuo (v.). 2. L’individuo considerato come
valore meta- fisico, religioso, morale e politico supremo. In questo senso il
S. è il tema preferito di alcune filosofie moderne e contemporanee. Kierkegaard
affermava polemicamente contro Hegel il valore esistenziale del S.: «
L'esistenza corrisponde alla realtà singolare, al S. (ciò che già insegnò
Aristotele): essa resta fuori dal concetto e in ogni modo non coincide con
esso» (Diario, X?, A, 328). Il S. sta più in alto dell’universale, a differenza
di ciò che Hegel credeva. « In un genere animale vale sempre il principio: il
S. è inferiore al genere. Il genere 799 umano ha la caratteristica, appunto
perchè ogni S. è creato a immagine di Dio, che il S. è più alto del genere »
(Ibid, X?, A, 426). Questa esaltazione del S. si accompagna in Kierkegaard con
la svaluta- zione della categoria del «pubblico » in cui il S. svanisce; ma il pubblico
non è la comunità nella quale invece il simbolo viene riconosciuto come tale
(Ibid., X?, A, 390). L'unico (v.) di Stirner e il superuomo (v.) di Nietzsche
sono concezioni ana- loghe a quella che Kierkegaard indicò come singolo. Nello
stesso senso, Jaspers insiste sul carattere eccezionale del S. (Phil.).
SINISTRA HEGELIANA (ingl. Hegelian Left; franc. Sinistre hégélienne; ted.
Hegelsche Linke). Mentre la destra hegeliana (v.) è la scolastica del-
l'hegelismo, la S. hegeliana tende a contrapporre alla dottrina di Hegel quei
tratti o caratteri del- l’uomo che in essa non avevano trovato un ricono-
scimento adeguato. Sul piano religioso questa ten- denza dà luogo ad una
critica radicale dei testi biblici e al tentativo di ridurre a mito l’intera
dot- trina della religione (Davide Federico Strauss, 1808-74). La religione
stessa veniva considerata da Ludovico Feuerbach (1804-72) come «l’auto-
coscienza dell’uomo cioè come la proiezione nella divinità di ciò che l’uomo
vuol essere ». Sul piano storico politico, la S. hegeliana contrappose alla
concezione hegeliana della storia come razionalità assoluta l’interpretazione
materialistica della storia stessa che la considera in funzione dei bisogni
umani (K. Marx, 1818-83; F. EnGELS, 1820-95) (v. MATERIALISMO STORICO).
SINNOMICO (ingl. Synzomic; franc. Syn- nomique). Termine adoperato da G. M.
Baldwin per indicare quel complesso di conoscenze comuni che si formano negli
individui, quando sono giu- dicate «adatte o appropriate per tutti i processi
logici come tali» (Thought and Things, 1906, II, pag. 270). Sindossico invece è
ciò che è comune ma senza carattere di normatività (v. SINDOSSICO). SINOLO (gr.
tò abvodov; lat. Compositum). Con questo termine che significa «tutt'uno »
Aristotele indicò il composto di materia e forma, la sostanza concreta. « La
sostanza è la forma immanente dalla quale, e insieme dalla materia, deriva ciò
che si chiama S. o sostanza: per es., la concavità è la forma dalla quale
insieme con il naso (materia) deriva il naso camuso » (Mer., VII, 11, 1037 a
30). La traduzione del termine è «composto » o « concreto ». SINONIMIA (ingl.
Synonimy; franc. Syno- nymie; ted. Synonimie). La relazione di S. è impor-
tante per i logici in quanto essi se ne avvalgono per definire la nozione di
analiticità (v.). Il concetto della S. come « identità di significato tra due
forme linguistiche » non è sufficiente; ed i logici aggiun- gono abitualmente
qualche altra condizione, per 800 definire la sinonimia. Lewis dice: « Due
espressioni sono sinonime se e solo se: 1° hanno la stessa intensione e questa
intensione non è nè zero nè universale oppure 2° se la loro intensione è zero o
universale ma esse sono analiticamente confron- tabili » (Analysis of Knowledge
and Valuation, 1946, pag. 86). Per espressioni che hanno intensione zero o
universale, Lewis intende espressioni come «essere», «entità», «cosa», «ogni
cosa» (/bid., pag. 87). Carnap, a sua volta, ha osservato: « Se chiediamo
un’esatta traduzione di un’asserzione data, per es., di un’ipotesi scientifica
o di una testi- monianza in corte, da una lingua all’altra, noi abitualmente
richiediamo più che la concordanza nelle intensioni degli enunciati... Anche se
restrin- giamo la nostra attenzione a significati designativi (conoscitivi),
l'equivalenza logica degli enunciati non sarà sufficiente; sarà richiesto
almeno che alcuni dei designatori componenti siano logicamente equivalenti o in
altre parole che le strutture intensio- nali siano simili » La S. sarebbe
perciò espressa da un «isomorfismo intensionale », di cui Carnap dà le regole
(Meaning and Necessity, 1957, $ 14, 15). Le esigenze avanzate da Lewis e Carnap
per la definizione della S. rimangono tuttavia sul piano della intensionalità
delle forme linguistiche. Così fa pure la definizione di Church (Introduction
to Mathematical Logic, $ 01). Quine ha dimostrato, su questo stesso piano, come
sia difficile servirsi della S. per definire l’analiticità, giacchè « dire che
scapolo e uomo non sposato sono cognitivamente sinonimi significa dire nè più
nè meno che l’asser- zione tutti e solo gli scapoli sono uomini non spo- sati è
analitica». La S. si può pertanto definire, secondo Quine, come la
sostituibilità di due termini salva analyticitate, cioè la possibilità di
sostituire l’uno all’altro due termini in una espressione senza che
l’espressione perda il suo carattere analitico (From a Logical Point of View,
1953, II, 3). SINONIMO (ingl. Synonym; franc. Synonyme; ted. Synonym). Secondo
la definizione aristotelica (Cat., 1a 6; 3b 7) si dicono S. cose che hanno in
comune il nome e la definizione dell’essenza, come l’uomo e il bue che si
dicono (e sono) entrambi animali. Nell’uso moderno però si sono chiamati S.
vocaboli (o enunciati) diversi nella forma del- l’espressione ma di uguale
contenuto semantico. Nella Logica contemporanea si dicono « S. + enun- ciati
aventi forma diversa ma il medesimo senso (designanti la medesima
proposizione): tuttavia non riesce sempre facile distinguere tra sinonimia
(semantica) ed equivalenza (sintattica). G. P. SINOSSI (gr. obvoyic; ingl.
Synopsis; franc. Sy- nopsis; ted. Synopsis). Sguardo d’insieme. Platone adopera
il termine per indicare il primo momento del procedimento dialettico, quello
che consiste nel raccogliere un molteplice in un'unica idea (Rep., 537 c;
Fedro, 265 d). Il termine fu anche adoperato da Kant nella prima edizione della
Critica della Ragion Pura nell’espressione «la si- nopsi a priori del
molteplice mediante il senso» (Crit. R. Pura, $ 14, in fine) che sarebbe
l’appren- sione del molteplice sensibile nelle forme dell’in- tuizione (spazio
e tempo), in quanto distinta dalla sintesi dell’immaginazione e da quella
concettuale. SINTASSI (gr.
cvviéeic; lat. Syntaxis; inglese Syntax; franc. Syntaxe; ted. Syntax). 1. Qualsiasi ordinamento, combinazione o
sistemazione di parti. Lo stoico Crisippo definiva « S. del tutto » il destino
che presiede all’ordine del mondo (Stoicorum fragmenta, II, pag. 293). 2. Una
delle dimensioni del procedimento se- gnico (v. SEMIOsI) cioè la combinabilità
dei segni fra loro in base a regole determinabili. In questo senso si può
parlare, ad es., di « S. dei suoni» 0 «dei colori +?, ecc. 3. La scienza che
studia le forme grammaticali o logiche del linguaggio: intendendosi per forme
le loro possibilità di combinazione. Più in parti- colare la S. logica di un
linguaggio è stata definita da Carnap come «la teoria formale delle forme
linguistiche di quel linguaggio, la dichiarazione sistematica delle regole
formali che lo governano insieme con lo sviluppo delle conseguenze che se-
guono da queste regole». Carnap aggiunge che «una teoria, una regola, una
definizione o simili dev’essere chiamata formale quando non fa alcun
riferimento al significato dei simboli (per es., delle parole) o al senso delle
espressioni (per es., degli enunciati) ma unicamente alle specie e all’ordine
dei simboli con i quali le espressioni sono costruite + (Logische Syntax der
Sprache, 1934, $ 1). Carnap ha identificato con la S. l’intera logica o
metodologia delle scienze (/bid., $ 81), in base alla considerazione che « per
determinare se un enunciato è o non è la conseguenza di un altro non è
necessario alcun riferi- mento al significato degli enunciati; e che pertanto
«una logica speciale del significato è superflua; una ‘logica non formale’ è
una contraddizione nei termini. La logica è S.» (2bid., $ 71). Più tardi lo
stesso Carnap ha ammesso la divisione dell’ana- lisi del linguaggio o semiotica
in pragmatica, seman- tica e S. e ha considerato il punto di vista sintattico
come il procedimento che astrae dal fattore seman- tico (Foundations of Logic
and Mathematics,1939, 88). SINTELICO (ingl. Syntelic; franc. Syntélique).
Termine adoperato da G. M. Baldwin per designare gli elementi pratici comuni a
più individui ma non perciò necessariamente validi: elementi che corri- spondono
a ciò che si chiama sindossico nel dominio della conoscenza (Thought and
Things, 1906, III, pag. 79-80). SINTESI a, così la S. toglie i princìpi che
sono a fondamento dell’attività pratica. Il concetto rimase immutato negli
scrittori scolastici posteriori (cfr., ad es., Duns Scoro, Op. Ox., II, d. 39,
q.2, a. 4). La nozione ricorre, ma raramente, in scrittori poste- riori: se ne
avvalse Nicolò da Cusa, assumendola nel significato mistico (De visfone Dei,
ed. Bohnen- stadt, pag. 150 sg.); e nello stesso significato se ne servì
frequentemente B. Gracian: « È il trono della ragione, egli disse, la base
della prudenza perchè in virtù di essa costa poco riuscire. È dono del cielo e
il più desiderato... Consiste in una con- naturale propensione verso tutto ciò
che è più con- forme a ragione accoppiato sempre con quanto v'è di più certo»
(Ordculo manual, 1647, $ 96). SINTESI (gr. oiw0eotc; lat. Synthesis; ingl. Syn-
thesis; franc. Synthèse; ted. Synthese). Questo ter- mine, oltre il significato
comune di unificazione, co- ordinazione o composizione, ha i seguenti
significati specifici: 1° quello di merodo conoscitivo, opposto all’analisi; 2°
quello di attività intellettuale; 3° quelio 51 — ABBAGNANO, Dirionario di
filosofia. 801 di unità dialettica degli opposti; 4° quello di unifi- cazione
dei risultati delle scienze nella filosofia. 1° Nel primo significato cioè come
uno dei metodi fondamentali della conoscenza, in contrap- posto all’analisi, la
sintesi può essere conside- rata come il metodo che va dal semplice al com-
posto cioè dagli elementi alle loro combinazioni negli oggetti di cui si tratta
di spiegare la natura. La contrapposizione dei due metodi fu espressa per la
prima volta da Cartesio (Rép. aux II Objec- tions; v. ANALISI); e Leibniz così
la esprimeva: « Si arriva spesso a belle verità mediante la S., andando dal
semplice al composto; ma quando si tratta di trovare il mezzo di fare ciò che
si propone, la S. ordinariamente non basta... E spetta all’analisi darci il
filo nel labirinto, quando ciò è possibile, perchè ci sono casi in cui la
natura stessa della questione esige che si vada a tentoni e non sempre la
scorciatoia è possibile» (Nouv. Ess., IV, 2, 7). Secondo Kant similmente il
metodo sintetico è quello « progressivo » mentre il metodo analitico è «regressivo»
cioè va da un oggetto alle condizioni che lo rendono possibile (Pro/., $ 5,
nota). Il proce- dimento dalla filosofia è secondo Kant analitico mentre quello
della matematica è sintetico; ma i due termini non hanno qui alcun riferimento
alla classificazione dei giudizi in analitici e sintetici. In generale, come il
procedimento analitico è carat- terizzato dalla presenza di dati (inerenti
all’oggetto o alla situazione da risolvere), che guidano e control- lano il
procedimento stesso, il procedimento sinte- tico si può caratterizzare con
l’assenza di tali dati e con la pretesa, che gli è inerente, di produrre da sè
gli elementi delle sue costruzioni (v. Fio- SOFIA). 2° Nel secondo significato
il termine designa l’unione del soggetto e del predicato nella pro- posizione;
quindi l’atto o l’attività intellettuale che opera tale unione. In questo senso
il termine fu usato da Aristotele, il quale disse che «là dove c'è il vero ed
il falso c’è anche una certa S. di pensieri simile alla S. che c’è nelle cose»
(De An., III, 6, 430 a 27); e che «ciò che opera questa unità è l’intelletto »
(/bid., 430b 5). Ma è stato soprattutto Kant a fare un uso larghissimo del
concetto di S., riducendo ad essa ogni specie di attività intellettuale. Egli
definì la S. in generale come «l’atto di unire diverse rappresentazioni e
comprendere la loro unità in un’unica conoscenza » (Crit. R. Pura, $ 10). E
distinse numerose specie di S. a seconda degli elementi che entrano in essa. In
primo luogo distinse la S. pura nella quale il molteplice è stato dato non
empiricamente ma a priori (come quello dello spazio e del tempo) dalla S.
empirica il cui molteplice è dato empiri- camente. La S. pura è «l’atto
originario della 802 conoscenza, il primo fatto al quale dobbiamo rivolgere la
nostra attenzione se vogliamo renderci conto dell'origine prima della nostra
conoscenza » (Ibid.). La S. pura precede pertanto ogni analisi giacchè si può
analizzare solo ciò che è già dato unito in un atto conoscitivo. La S. pura,
che è possibile a priori, a sua volta può essere distinta in S. figurata
(Synthesis speciosa) e sintesi intel- lettuale (Synthesis intellectualis):
ambedue sono trascendentali perchè costituiscono la possibilità di ogni
conoscenza, ma mentre questa seconda unifica un molteplice puramente pensato,
la S. figurata è una S. del molteplice dell’intuizione sensibile, o meglio è
una S. dell’immaginazione intesa come «facoltà di determinare a priori la
sensibilità » (Ibid, $ 24). Su questa S. trascendentale del- l'immaginazione è
fondato l’io penso o apperce- zione originaria (v.). Ma poichè ogni conoscenza
è sintesi e la conoscenza effettiva, è, secondo Kant l’esperienza, Kant chiama
l’esperienza stessa «la sintesi, secondo concetti, dell’oggetto dei fenomeni in
generale » (Cri. R. Pura, An. dei Princ., cap. II, sez. II. Nella prima
edizione della critica Kant aveva parlato di tre specie di S.: 1° la S.
dell’ap- prensione nell’intuizione; 2° la S. della riproduzione
nell’immaginazione; 3° la S. della ricognizione nel concetto (Crit. R. Pura, 1%
ediz., An. Trasc., Libro I, cap. 2, sez. 2). Ma sia nella prima che nella
seconda edizione Kant riduce alla S. ogni specie o grado di attività
conoscitiva. Questo fu uno degli aspetti più vistosi, e più discussi, della sua
opera. Mentre la nozione di S. cambiava di natura passando nell’idealismo (v.
oltre), essa veniva da altri filosofi ripresa e variamente adattata. Galluppi
invertiva il punto di vista kantiano mettendo l’analisi avanti la sintesi. « La
S. è la facoltà di riunire le percezioni che l’analisi aveva separate.
L'analisi è dunque una condizione essenziale per la S.» (Saggio fil. sulla
critica della conoscenza, 1831, II, $ 146). Egli distingueva inoltre: la S.
ideale oggettiva che con- siste nel riconoscere i rapporti oggettivi che sussi-
stono tra le cose; la S. immaginativa civile che consiste nel riunire in una
rappresentazione com- plessa, che non corrisponde ad alcun oggetto, diverse
rappresentazioni di cui ciascuna ha un 0g- getto; e la S. immaginativa poetica
che è una specie della precedente (/bid., III, $ 147-149). A sua volta Rosmini
chiamava S. primitiva la sua « percezione intellettiva» (Nuovo saggio, $ 46; $
528, ecc.) In generale, il concetto di S. è rimasto in filosofia ad esprimere
l’attività ordinatrice, organizzatrice o sistematrice dell'intelletto. I
neokantiani fecero largo uso di questa nozione. A. Riehl specialmente fece
dell’attività sintetica la funzione fondamentale della coscienza e l’a priori
di tutta la conoscenza (Der philosophische Kriticismus, II, 2, 1887, pag. 68). SINTESI
Altri neokantiani invece, come Cohen, preferirono al concetto di S. quello di
origine (Logik der reinen Erkenntnis, 1902, pag. 36). Wundt introdusse il
concetto nella psicologia e parlò del « principio della S. creativa», secondo
il quale «non solo le parti che entrano a comporre una S. ap- percettiva,
acquistano, accanto al significato che avevano nel loro isolamento, un
significato nuovo dovuto alla loro connessione nella rappre- sentazione totale;
ma anche questa rappresenta- zione è un nuovo contenuto psichico, che è bensì
reso possibile dalle parti componenti ma non con- siste in esse» (Grundriss der
Psychologie, 1896, pag. 394). Dall’altro lato, la filosofia fenomenolo- gica
metteva in luce la funzione della S. nella 4 costituzione delle oggettività di
coscienza ». Husserl ritiene che ogni oggetto di coscienza in generale sia una
« unità sintetica » cioè una S. di coscienza (Ideen, 1, $ 86). Egli distingue
le S. continuative, del tipo di quella che costituisce, ad es., la spazialità,
e le S. articolate che sono i modi particolari in cui atti separati l’uno
dall’altro si connettono in un unico atto sintetico di grado superiore. S.
articolate sono, per es., gli atti di preferenza o le emozioni simpatetiche; e
inoltre le S. colleganti, disgiungenti (cioè miranti a questo o a quello) ed
esplicanti, che determinano le forme della logica e dell’onto- logia formale.
3° La nozione di S. come unità degli op- posti è nata insieme col relativo
concetto della dialettica (v.) ed è stata per la prima volta esposta da Fichte.
Egli dice: « L'atto con il quale nelle cose paragonate si ricerca la nota per
cui esse sono opposte tra loro, si chiama procedimento an- titetico (detto
ordinariamente analitico). ...Il pro- cedimento sintetico invece consiste nel
ricercare negli opposti quella nota per cui essi sono iden- tici »
(Wissenschaftslehre, 1794, $ 3, D, 3). La legge di questa identità è che «
nessuna antitesi è possi- bile senza una S.; poichè l’antitesi consiste preci-
samente nel ricercare negli uguali la nota opposta ma gli uguali non sarebbero
uguali se non fossero prima posti come uguali mediante un atto sin- tetico »
(/bid., $ 3, D, 3). Schelling parlava a sua volta di un « processo dalla tesi
all’antitesi e quindi alla S. +, che è il processo per cui l’io pone l’oggetto,
si contrappone ad esso ed infine lo ricomprende in se stesso (System des
transzendentalen Idealismus, 1800, III, cap. I; trad. ital, pag. 58 sgg.).
Hegel invece preferì al termine S. i termini « identità » o « unità », pur
lamentando che la parola unità in- dicasse, ancor più che «identità », una «
riflessione soggettiva ». L’unità o l'identità che chiude una triade dialettica
è una connessione oggettiva; la quale secondo Hegel, meglio si chiamerebbe «
in- separabilità » se, da questo nome, non restasse SISTEMA fuori la natura
positiva della S. (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, c, nota
2; trad. ital., pag. 85). Nel linguaggio filosofico francese e italiano, della
S. a priori come della stessa attività creativa dello spirito: « La S. a priori
è delle forme tutte dello Spirito perchè lo Spirito, considerato in genere, è
nient'altro che S. a priori; e questa si esplica nell'attività estetica e nella
pra- tica, non meno che in quella logica» (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 141).
Ed ha visto nella S. a priori l'identità di filosofia e storia, asserendo che
essa « portava nel suo grembo la storicità che il suo scopritore [Kant]
ignorava o disconosceva » (Ibid., pag. 369). 4° Infine per S. è stata intesa
l’unificazione dei risultati ultimi delle scienze particolari nel seno della
filosofia prima secondo il concetto positivi- stico della filosofia (v.). Tale
S. fu detta soggettiva da Comte che riteneva si dovesse fare, tenendo pre-
sente i bisogni naturali dell’uomo (S. soggettiva o Sistema universale delle
concezioni proprie dello stato normale dell’umanità, 1856, I). Spencer chiamò
per lo stesso motivo « Sistema di filosofia sintetica + la sua opera
complessiva, il cui primo volume è costituito dai Primi principi (1862).
SINTETICITÀ (ingl. Syntheticity). La vali- dità delle proposizioni che dipende
dai fatti. Questo almeno è il significato che si attribuisce ora comu- nemente
all’aggettivo sintetico quando viene rife- rito a proposizioni o enunciati.
Kant, al quale si deve l’introduzione dei due termini analitico e sintetico, li
usò per distinguere i giudizi esplicativi e i giudizi estensivi. «I primi nulla
aggiungono, per mezzo del predicato, al concetto del soggetto, ma solo dividono
con l’analisi il concetto nei suoi con- cetti parziali, che erano in esso già
pensati sebbene confusamente; i secondi aggiungono invece al con- cetto del
soggetto un predicato che non era con- tenuto in esso e non era da esso
deducibile con 803 l’analisi » (Crif. R. Pura, Intr., $ IV). Ma i giudizi
sintetici, secondo Kant, sono non soltanto quelli che riguardano cose di fatto,
ma anche quelli della matematica e della fisica pura in quanto sono fondati
sulla intuizione a priori dello spazio e del tempo e sulle categorie e perciò
detti « giudizi sintetici a priori». Nella filosofia contemporanea, tuttavia,
la S., come carattere delle espressioni è stata intesa nel senso delle «
proposizioni di fatto » di Hume o delle « verità di fatto » di Leibniz (vedi
EsPERIENZA; FATTO): cioè come proposizioni che si riferiscono a situazioni o
stati di cose e che possono essere vere o false nei confronti di essi. Dice
Carnap: « Un enunciato sintetico è qualche volta vero — cioè quando certi fatti
esistono — e qualche volta falso; quindi esso dice qualche cosa circa quali
fatti esistono. Gli enunciati sinte- tici sono gli autentici enunciati circa la
realtà» (Logische Syntax der Sprache, $ 14). I logici tut- tavia spesso
preferiscono definire negativamente gli enunciati sintetici, come quegli
enunciati che non sono nè analitici nè contraddittori: così fanno, ad es.,
Lewis (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 35) e Reichenbach
(Theory of Proba- bility, 1949, pag. 20). Come le proposizioni anali- tiche (v.
ANALITICITÀ) sono dette «verità neces- sarie » perchè la loro negazione è
impossibile, così le proposizioni sintetiche sono spesso dette con- tingenti
nel senso che non sono nè necessarie nè impossibili (cfr. CarnaP, Meaning and
Neces- sity, $ 39). SINTETISMO (ted. Synrhetismus). Così chiamò n questo senso
nel periodo classico, fu adoperata da Sesto Empirico per indicare l’insieme
delle premesse e della con- clusione o l'insieme delle premesse (/p. Pirr., II,
173). E la parola è rimasta nell’uso filosofico a indicare prevalentemente un
discorso organizzato deduttiva- mente cioè costituente un tutto le cui parti si
la- 804 sciano derivare l’una dall’altra. Leibniz chiamava S. un repertorio di
conoscenze che non si limiti ad elencarle ma ne contenga le ragioni o le prove
e descriveva l’ideale sistematico nel modo seguente: «L’ordine scientifico
perfetto è quello in cui le proposizioni sono situate secondo le loro dimo-
strazioni più semplici e in modo che nascano l’una dall’altra » (Méthode de la
certitude, Op., ed. Erd- mann, pag. 174-75). Wolff a sua volta diceva: « Si
dice S. un insieme di verità connesse tra loro e con i loro princìpi» (Log., $
889). La nozione di S. si modellava così su quella del procedimento matematico.
Kant la subordinò a una condizione ulteriore: l’unità del principio che è a
fondamento del sistema. Egli intese infatti per S. «l’unità di molteplici
conoscenze raccolte sotto un’unica idea »; affermò che il S. è un tutto
organizzato finalistica- mente e pertanto è articolato (arficulatio), non am-
mucchiato (coacervatio); può crescere dall’interno (per intussusceptionem) ma
non dall’esterno (per appositionem) ed è perciò simile ad un corpo ani- male
cui la crescita non aggiunge alcun membro ma, senza alterare la proporzione
dell’insieme, rende ogni membro più forte e più adatto al suo scopo (Crit. R.
Pura, Dottr. del metodo, cap. III). Su questa base, Kant parla della « unità
sistematica della conoscenza, alla quale le idee della ragion pura cercano di
avvicinarsi» (/bid., Dialettica, cap. III, sez. I). L'unità del S. cioè la sua
deriva- bilità da un principio unico è la caratteristica che fa la fortuna
della nozione nella letteratura filo- sofica del Romanticismo. Essa costituisce
l’ideale della dottrina della scienza di Fichte: « Se non ci debbono essere
solo uno o parecchi frammenti di un S. o addirittura parecchi S., ma un S.
unico e perfetto dello spirito umano, allora dev’esserci un principio
fondamentale assolutamente primo e su- premo. E se da esso il nostro sapere si
espande di per sè in tante serie dalle quali ancora procedono altre serie e
così via, tutte queste serie tuttavia debbono stringersi in un solo anello, il
quale non è attaccato a nulla, ma per la sua propria forza mantiene se stesso e
l’intero S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital.,
pa- gina 19). Che il S. sia la forma propria della scienza e che esso supponga
un principio unico ed assoluto diventa un luogo comune nella filosofia
romantica. L’origine di questo luogo comune è l’ideale mate- matico a cui
Leibniz, Wolff e lo stesso Kant si erano ispirati; ma questo ideale viene
rivolto contro la matematica stessa e rivendicato esclusivamente alla
filosofia. «Si ammette generalmente, diceva Schelling, che alla filosofia
convenga una forma sua particolare che si dice sistematica. Presupporre una tal
forma non dedotta, tocca ad altre scienze, che già presuppongono la scienza
della scienza, SISTEMA mantenuta e fatta valere nelle filosofie idealistiche.
Diceva Croce: « Pensare un determinato concetto puro significa pensarlo nella
sua relazione di unità e distinzione con gli altri tutti; sicchè quel che si
pensa non è mai in realtà un concetto singolo, ma il S. dei concetti, il
Concetto » (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 172). L’ideale del S., come di un
organismo deduttivo fondato su un unico principio, è rimasto il patri- monio
della filosofia, che l’ha coltivato anche quando, sull’esempio di Kant, ha
dichiarato ir- raggiungibile, per la conoscenza umana, un simile ideale.
Tuttavia il termine è stato ed è adoperato anche senza connessione con questo
significato, per indicare un qualsiasi organismo deduttivo, anche se non abbia
un unico principio a suo fondamento. Questo è il caso dei S. di cui si parla
oggi nelle matematiche e nella logica. Un S. ipotetico-dedut- tivo, un S.
astratto, un S. assiomatico, ecc., non sono S. perchè abbiano un unico
principio: i loro princìpi anzi, cioè gli assiomi, devono essere re-
ciprocamente indipendenti cioè non deducibili l’uno dall’altro (v. ASSIOMA;
ASSIOMATIZZAZIONE). Sono detti S. unicamente per il loro carattere deduttivo; e
nello stesso senso si parla di S. numerico e tal- volta di «S. di assiomi» per
indicare un semplice insieme non contraddittorio di proposizioni pri- mitive
(cfr. M. R. CoHEN-E. NAGEL, « The
Nature of a Logical or Mathematical System », in Readines in the Philosophy of
Science, 1953, pag. 129 sgg.). L'uso
della parola ha in altri termini perduto il suo significato forte o elogiativo
di discorso deduttivo. 2. Una qualsiasi totalità o tutto organizzato. In questo
senso si dice « S. solare », « S. nervoso », ecc., e si parla anche di
«classificazione sistematica» o più semplicemente di S. in luogo di
classificazione, come fece Linneo, volendo insistere sul carattere ordinato e
completo della sua classificazione (Sy- stema naturae, 1735). SITUAZIONE Da
questo punto di vista, si distingue talora il S. come un insieme continuo di
parti che hanno tra loro relazioni varie dalla strurzura (v.) od orga-
nizzazione che i componenti di esso possono assu- mere a un determinato tempo
(W. BUCKLEY, So- ciology and Modern System Theory,1967,pag.5). 3. Una qualsiasi
teoria, scientifica o filosofica, specie quando se ne voglia sottolineare il
carattere scarsamente empirico. Nel °700 si parlava del «S. del mondo» per
indicare le teorie cosmolo- giche (cfr., ad es., D’ALEMBERT, (Euvres, ed. Con-
dorcet, pag. 165 sgg.). Leibniz chiamava S. le sue teorie sul rapporto tra
l’anima e il corpo o tra le varie sostanze (Sysrème nouveau de la nature et de
la communication des substances, 1695). Baum- garten chiamava S. psicologici le
« opinioni che sembrano adatte a spiegare il rapporto tra l’anima e il corpo»
(Mer., $ 761). E gli Illuministi parla- vano nello stesso senso, ma in modo
peggiorativo, del S. e dello spirito sistematico. Diceva Diderot: « Per spirito
sistematico io designo quello che im- bastisce piani e forma sistemi
dell’universo ai quali pretende in seguito adattare i fenomeni, a diritto o a
forza » (CEuvres, XVI, pag. 291). D’Alembert par- inferenza cioè di
trasformazione delle espressioni composte l’una nell’altra; 4° alcune
proposizioni primitive o assiomi. Dal S. logistico si distingue un linguaggio
for- malizzato perchè per quest’ultimo è data anche una certa interpretazione.
Per passare dal S. logistico al linguaggio formalizzato sono pertanto
necessarie alcune regole semantiche che assegnino un signi- ficato alle formule
del sistema. La differenza fra S. logistico e linguaggio formalizzato si può
anche esprimere dicendo che il primo ha soltanto regole sintattiche, il secondo
ha anche regole semantiche (cfr., su questo, A. CHURCH, « The Need for Abstract
805 Entities in Semantic Analysis», in Proceedings of the American Academy of
Arts and Sciences, 1951, pag. 100 sgg.; Zntroduction to Mathematical Logic,
1956) (v. CALCOLO; FORMALIZZAZIONE). SISTEMATICA (ingl. Systematics; franc. Sy-
stématique; ted. Systematik). La tecnica, cioè la via o il mezzo, per
realizzare il sistema. La nozione deriva dal principio kantiano che il sistema
è l’ideale regolativo della ricerca filosofica, non la sua realtà. «Tuttavia,
dice Kant, il metodo può sempre essere sistematico. Infatti la nostra ragione
(soggettiva- mente) è per se stessa un sistema; ma nel suo uso puro, per
semplici concetti, è soltanto un sistema di ricerca secondo princìpi,
dell’unità cui l’espe- rienza può fornire soltanto la materia » (Crit. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. I, sez. 1). La no- zione è rimasta soprattutto nel
criticismo tedesco. Natorp parlava di «S. filosofica » nel senso di ri- cerca
diretta a dare al sapere filosofico quella unità in cui consiste il sistema
(Philosophische Systematik, $ 1). SISTEMATICO (ingl. Systematic; franc. Sy-
stématique; ted. Systematisch). 1. Che costituisce un sistema o appartiene a un
sistema, in uno dei sensi qualsiasi della parola sistema. In questo senso si
dice «sapere S.» o «errore sistematico ». 2. Che procede verso il sistema ma
non è un sistema: con riferimento a sistematica. In questo senso N. Hartmann
distingueva nella storia della filosofia il pensiero-sistema rivolto alla
costruzione del sistema e il pensiero-problema che si mantiene in un’indagine
aperta (Systemarische Philosophie, 1931, $ 1). Egli inoltre riteneva che « il
tempo delle visioni S. è ormai del tutto passato e la filosofia S. si è
ritrovata sul terreno privo di pretese ma solida dell’indagine problematica »
(Der philosophische Ge- danke und seine Geschichte, III, 4; cfr. Zur Grundle-
gung der Ontologie, 1935, pag. 31). SITUAZIONE (ingl. Situation; franc.
Situation; ted. Situation). Il rapporto dell’uomo col mondo in quanto limita,
condiziona e, insieme, fonda e determina le possibilità umane come tali. Il
termine fu introdotto da Jaspers che così lo illustrava: «La S. esterna, pur
così mutevole e così diversa a seconda degli uomini a cui si rivolge, ha questo
tuttavia di tipico: essa è per tutti a due tagli, incita e ostacola, e
inevitabilmente limita, distrugge, è infida, insicura » (Psychologie der
Weltanschauungen, 1925, cap. III, $ 2; trad. ital., pag. 268). Jaspers parlava
pure di sifuazioni-limite che posseggono in grado eminente i caratteri propri
di ogni S. del- l’uomo nel mondo. Tali sono le S. immutabili, defi- nitive,
incomprensibili, nelle quali l’uomo si trova come di fronte a un muro contro
cui urti senza spe- ranza. Tali sono: l’esistere sempre in una S. deter-
minata; il non poter vivere senza lotta e dolore; 806 il dover prendere su di
sè la colpa; l’essere destinato alla morte (Phil., II, pag. 209). In queste
situazioni Jaspers vedeva la cifra (v.), cioè la rivelazione negativa, della
trascendenza. Heidegger ha notato che il termine ha anche un significato
spaziale ma soprattutto designa la determinazione per la quale l’esistenza,
come essere nel mondo, decide sul pro- prio luogo (Sein und Zeit,$60).
L’esistenza anonima si trova davanti a « S. generali » e si perde nelle op-
portunità più prossime. Il richiamo della coscienza porta l’uomo davanti alla
sua situazione propria e alla esigenza di una decisione autentica (/bid., $
60). In senso analogo è stato detto: «La necessità del rapporto fra la
finitudine dell’ente e la determina- zione costitutiva del mondo e dell’altro
ente è la S. esistenziale dell’ente... Il costituirsi dell’ente nella S. che lo
individua nella sua finitudine è l’accadere dell’ente, la sua storicità
fondamentale» (ABBA- GNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 70). E Sartre ha
detto: « Se il per sè [cioè la coscienza o l’uomo] non è altro che la sua S.,
ne segue che l’essere in S. definisce la realtà umana rendendo conto insieme
del suo esserci e del suo essere al di là. La realtà umana è, in effetti,
l’essere che è sempre al di là del suo esserci. E la S. è la totalità
organizzata del- l’esserci, interpretato e vissuto da e per l’essere al di là
di questo stesso essere» (L’érre er le néant, 1943, pag. 634). In un senso
psicologico e precisamente nel senso della psicologia della forma (v. PsicoLOGIA)
si è servito del termine Dewey, identificando la S. con il campo (Logic, 1939,
I, cap. IV; trad. ital., pag. 111 sgg.). Dewey stesso però ha insistito sul
carattere oggettivo della S. (/bid., cap. IV, $ 1; trad. ital., 159 sgg.). SIT
VERUM. Una delle obbligazioni (v.) della logica terministica medievale. Essa
consiste nel rispondere ad una proposizione come se si sapesse che essa è
falsa; oppure come se si sapesse che essa è vera; oppure come se si dubitasse
di essa (con- fronta OcKHam, Summa Log., III, m, 44). SLANCIO VITALE (franc.
Élan vital). Se- condo Bergson, è la coscienza in quanto penetra nella materia
e l’organizza realizzando in essa il mondo organico. Lo S. vitale passa « da
una gene- razione di germi alla generazione successiva di germi per
l’intermediario degli organismi sviluppati che formano il tratto di unione tra
i germi stessi. Esso si conserva sulle linee evolutive tra le quali si divide
ed è la causa profonda delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono
regolarmente, si ad- dizionano e creano nuove specie » (Év. créatr., 85 ediz.,
1911, pag. 95). La formazione della società, prima chiusa poi aperta, la
religione fabulatrice e la religione dinamica sono, secondo Bergson, gli
ulteriori prodotti dello stesso S. vitale cioè della SIT VERUM coscienza (Deux
sources) (v. DURATA). SOCIALE (ingl. Social; franc. Social; ted. So- zial). 1.
Che appartiene alla società o ha in vista le sue strutture o condizioni. In
questo senso si dice «azione S. », « movimento S. », « questione S. », ecc. 2.
Che concerne la considerazione o lo studio della società. In questo senso si
dice « fisica S. +, *s economia S. », « psicologia S. », ecc. In particolare
l’espressione scienze S. designa il complesso delle discipline sociologiche
giuridiche ed economiche e talvolta anche l’etica e la pedagogia. SOCIALISMO
(ingl. Socialism; franc. So- cialisme; ted. Sozialismus). Il termine che si
diffuse in Inghilterra (in opposizione a individualismo) nei primi decenni
dell’800, ha due significati prin- cipali: 1° Uno più vasto per il quale
designa in generale ogni dottrina che difenda o prospetti una riorganiz-
zazione della società su basi collettivistiche. In tal senso si chiama S.
quello di Platone come quello di Marx, quello di Owen e Proudhon come quello di
Lenin e Stalin. A questo significato fa riferimento la distinzione stabilita da
Marx o Engels tra S. utopistico che presenta la società socialistica come un
ideale, senza preoccuparsi delle vie o dei modi della sua realizzazione e il S.
scientifico che, senza preoccuparsi di presentare un ideale qualsiasi prevede
l'avvento inevitabile della società socia- listica in base alle stesse leggi
che governano lo sviluppo della società capitalistica (cfr., su questa
distinzione, specialmente: EnGELS, Antidihring, 1878, l’introduzione e il cap.
I della III parte). In questo significato il termine è molto vago e indica
qualsiasi aspirazione, ideale, tendenza o dottrina che comunque prospetti un
mutamento in senso collettivistico della società attuale. 2° Nel significato
più ristretto s'intendono per S. gli indirizzi collettivistici che si
distinguono dal comunismo (v.) e si oppongono ad esso in quanto: a) escludono
la necessità di una dittatura del pro- letariato; 5) escludono che tale
dittatura possa essere esercitata, in nome del proletariato, da un partito
politico qualsiasi; c) escludono la diversità radicale, che si riscontra nei
paesi a regime comu- nista tra il tenore di vita della élite dirigente e quello
della maggioranza dei cittadini; d) escludono la subordinazione della vita
culturale alle esigenze del partito cioè alle volontà dei suoi dirigenti; e)
esi- gono il rispetto delle regole del metodo democratico. La distinzione delle
forme storiche che il S. ha assunto interessa la politica più che la filosofia
e pertanto non può trovar posto in questa sede. SOCIALITÀ (ingl. Sociality;
franc. Socialité; ted. Geselligkeit). Lo stesso che società nel senso 1°. G. H.
Mead ha inteso la S. in un senso più vasto, SOCIETÀ attribuendola all’intero
universo. « Il carattere so- ciale dell’universo consiste nella situazione
nella quale il nuovo evento è insieme nel vecchio ordine e nell’ordine nuovo di
cui il suo avvento è l’araldo. La S. è la capacità di essere diverse cose ad un
tempo» (The Philosophy of the Present, 1932, pag. 49). SOCIETÀ (lat. Societas;
ingl. Society; franc. So- ciété; ted. Gesellschaft). Nel senso generale e
fonda- mentale: 1° il campo dei rapporti intersoggettivi cioè dei rapporti
umani di comunicazione, e pertanto anche: 2° la totalità degli individui tra i
quali questi rapporti intercedono; 3° un gruppo di individui tra i quali tali
rapporti intercedono in forma co- munque condizionata o determinata. 1° Il
primo significato è, come si è detto, quello fondamentale ed è stato introdotto
nella cultura occidentale dagli scrittori latini, e special- mente da Cicerone,
che l’hanno desunto dallo stoicismo. Negli scrittori classici della Grecia
l'aspetto statuale e l’aspetto sociale sono fusi e indistinti nel concetto
della polis; il cosmopoli- tismo degli Stoici consente di dissociarli e di
consi- derare pertanto la S. come indipendente dallo stato cioè
dall’organizzazione politica. Appunto espo- «Ciascuno, per quanto dipende da
lui, deve promuovere e mante- nere con i suoi simili uno stato di socievolezza
pacifica, conforme in generale all’indole e alle finalità del genere umano » e
spiegava che per so- cievolezza si dovesse intendere « quella disposizione
dell’uomo verso l’uomo per la quale l’uno si intende vincolato all’altro dalla
benevolenza, dalla pace e dalla carità » (De jure naturae, 1672, II, 3). Una
definizione indiretta della S. si può anche scorgere nei testi che insistono
sulla tendenza naturale dell’uomo alla socialità, per es. in quelli che ricor-
rono frequentemente nelle opere di Kant. « L'uomo ha una inclinazione ad
associarsi perchè nello 807 stato di S. si sente maggiormente uomo, cioè sente
di poter meglio sviluppare le sue disposizioni natu- rali. Ma egli ha anche una
forte tendenza a disso- ciarsi (isolarsi) perchè ha in sè anche la qualità
anti-sociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse per cui si
aspetta resistenza da ogni parte e sa che deve da parte sua tendere a resistere
contro gli altri» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbirgerlicher Absicht, 1784, IV; trad. ital., pag. 127;
Mer. der Sitten, II, $ 47; Crit. del Giud., $ 41). Fichte non faceva che
esprimere lo stesso concetto dicendo: « Chiamo S. la relazione reci- proca
degli esseri ragionevoli » (Die Bestimmung des Gelehrten, 1794, II). Da questo
punto di vista la considerazione della S. può consistere: a) Nella
considerazione dei fini che il genere umano nella sua totalità deve perseguire
e dei mezzi che la ragione addita per il raggiungimento di tali fini. Le
dottrine politiche degli autori greci, per es., di Platone e di Aristotele e le
dottrine giusnatura- listiche sono teorie della S. in questo senso. b) Nella
considerazione delle condizioni che, in linea di fatto, rendono possibili i
rapporti umani. Queste condizioni sono state variamente definite e la loro
definizione può dirsi il primo compito della sociologia (v.). Max Weber le ha
riconosciute nell’azione sociale che accade secondo ordinamenti deliberati e
relativamente costanti (Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie,
1913, V; trad. ital., in // metodo delle scienze storico-sociali, pag. 262
sgg.). Durkheim ha assunto come caratte- ristiche della S. umana le maniere
d’agire che sono imposte dall’esterno e si consolidano nelle isti- tuzioni
(Régles de la méthode sociologique, 1895, cap. I). E l’azione stessa o il
comportamento viene talora assunto come l’elemento oggettivo che defi- nisce il
campo dei rapporti umani (cfr. TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action,
1949; 2* ediz., 1957). Questo secondo modo d’intendere la S., riconosce ad essa
esplicitamente o implicita- mente il carattere di un « campo » e la riduce
perciò a un costrutto concettuale togliendole sia il carat- tere di totalità
reale sia quello di ideale normativo. 2° Il concetto della S. come della
totalità degli individui tra i quali intercedono rapporti inter- soggettivi
cioè come «mondo sociale» è abitual- mente connesso con il concetto della S.
come orga- nismo o « super-organismo ». Già gli antichi avevano assimilato a un
organismo la comunità politica cioè lo Stato. Gli Stoici assimilarono
all’organismo la S. intera cioè la comunità degli esseri razionali (cfr. Marco
AURELIO, Ricordi, VII, 13); e tale assi- milazione continua nell’età moderna.
Comte chiama la società un «organismo collettivo» (Cours de phil. positive, IV,
pag. 442 sgg.). Spencer a sua volta chiama super-organica l’evoluzione che
conduce 808 alla S. e considera la S. stessa come un organismo i cui elementi
sono prima le famiglie poi gli individui singoli. L'organismo sociale si
distingue, secondo Spencer, dall’organismo animale, per il fatto che la
coscienza appartiene solo agli elementi che lo compongono in quanto la S. non
ha organi di senso come l’animale ma vive e sente solo negli individui che la
compongono (The Study of Sociology, 1873). Nello stesso senso si esprimeva
Wundt (System der Philosophie, 28 ediz., 1897, pag. 616 sgg.) L’ipotesi
organicistica rimane sullo sfondo di molte dottrine politiche e sociologiche
moderne. Una variante di questa stessa concezione può essere considerata la
dottrina di Hegel che vede nella «S. civile» una fase imperfetta o preparatoria
dello Stato cioè dell’Idea divina che si realizza in terra: « La sostanza che,
in quanto spirito, si parti- colarizza astrattamente in molte persone (la
famiglia è una sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sè in
libertà indipendente e come esseri particolari, perde il suo carattere etico;
giacchè queste persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro
scopo l’unità assoluta ma la loro propria particolarità e il loro essere per
sè: donde nasce il sistema dell’atomistica ». Questo sistema è appunto la S.
civile come « connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti e dei
loro interessi particolari » 0 come « stato esterno + (Enc., $ 523; Fil. del
Dir., $ 184). In questo senso la S. civile comprende, secondo Hegel, in primo
luogo, il sistema dei bisogni; in secondo luogo, l’amministrazione della
giustizia e in terzo luogo la polizia e la corporazione cioè gli organi che
hanno la cura degli interessi particolari (Fil. del Dir., $ 188). Marx stesso
mantenne immutato questo concetto della S. civile, di cui capovolse il rapporto
con lo stato e che pertanto assunse come principio di spiegazione dello Stato
stesso e in generale di tutto il mondo ideologico: « Sono stato dai miei studi
condotto alla conclusione che sia i rapporti giuridici sia le forme dello stato
non potevano essere compresi nè di per se stessi nè per il cosiddetto sviluppo
generale dello spirito umano, ma che sono radicati nei rapporti materiali
dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato da Hegel con il nome di S.
civile: l’anatomia di questa S. civile dev'essere cercata nell’economia
politica » (Zur Kritik der poli- tischen Okonomie, 1859, Pref.; trad. ital.,
Cantimori, pag. 10). Un concetto analogo di S. è apparso a Bergson come
l’ideale stesso della S. « aperta » cioè della S. mistica. « Una S. mistica che
conglobi l’uma- nità intera e che marci, animata da una volontà co- mune, verso
la creazione incessantemente rinnovel- lata di un’umanità più completa, di
certo non si realizzerà nell’avvenire più di quanto nel passato siano esistite
S. umane funzionanti in maniera or- SOCINIANESIMO ganica a simiglianza delle S.
animali. L’aspirazione pura è un limite ideale come l’obbligazione nuda » (Deux
sources, I; trad. ital., pag. 87). 3° Nel terzo significato di un insieme di
indi- vidui caratterizzato da un atteggiamento comune o istituzionalizzato la
parola è usata correntemente nel linguaggio comune e nelle discipline
sociologiche. In questo significato la parola designa indifferente- mente sia
un gruppo di individui sia l'istituzione che caratterizza il gruppo, come
accade nelle frasi «S. commerciale », « S. capitalistica », «S. dell’an- golo
della strada», ecc. Quest’uso è così ovvio che di regola non viene neppure
definito. Talvolta viene definito in relazione a cultura, come fanno Kluckhohn
e Kelly: « Una ‘S.’ si riferisce ad un gruppo di gente che ha imparato a
operare insieme; una ‘cultura * si riferisce ai modi di vita che distin- guono
questo gruppo di gente » (R. LINTON, The Science of Man in the World Crisis, 72
ediz., 1952, pag. 79). SOCINIANESIMO (ingl. Socinianism; fran- cese
Socinianisme; ted. Socinianismus). La dottrina religiosa di Lelio (1525-62) e
Fausto (1539-1604) Socini di Siena che esercitarono la loro influenza
soprattutto in Polonia e che comprende principal- mente i punti seguenti: 1° la
negazione del dogma trinitario; 2° la negazione del peccato originale e della
predestinazione; 3° la negazione del valore delle opere e della necessità della
mediazione ecclesiastica; 4° l’appello diretto alla Bibbia come unico mezzo di
salvezza; 5° il ricorso alla ragione come unico strumento per l’interpretazione
auten- tica della Bibbia. Oltre che in Polonia il S. si dif- fuse in Olanda e
in Inghilterra; ma la sua influenza è stata grandissima su tutta la cultura
liberale moderna (cfr. D. CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, 1939).
SOCIOCRAZIA, SOCIOLATRIA (ingl. So- ciocracy, Sociolatry; francese Sociocratie,
Socio- latrie; ted. Soziokratie, Soziolatrie). Termini creati da A. Comte per
designare rispettivamente il re- gime politico fondato sulla sociologia, che
Comte concepisce come analogo o corrispondente alla teocrazia medievale fondata
sulla teologia (Poli- tique positive, 1851, I, pag. 403); e il culto della
società che Comte riteneva dovesse prendere il posto delle religioni positive
(Caréchisme positi- viste, VI). SOCIOLOGIA (ingl. Sociology; franc. Socio-
logie; ted. Soziologie). È la scienza della società, intendendosi per società
il campo dei rapporti intersoggettivi. Il termine fu creato da A. Comte nel
1838 per indicare «la scienza di osservazione dei fenomeni sociali » (Cours de
phil. positive, IV, 1838) ed è ora usato per designare ogni tipo o specie di
analisi empirica o di teoria che concerna i SOCIOLOGIA fatti sociali cioè gli
effettivi rapporti intersoggettivi, in contrasto con le «filosofie» o «
metafisiche » delia società, che pretendono di illustrare, indipen- dentemente
dai fatti e una volta per sempre, la natura della società come un tutto.
Indubbiamente, osservazioni utili e decisive, nel campo sociale, sono state
sempre fatte nella storia del pensiero occidentale e hanno trovato posto
specialmente nell’etica e nella politica. Tali osservazioni non costituivano
tuttavia una disciplina autonoma, do- tata di una propria metodologia: hanno
comin- ciato a costituirla solo con Comte. Si possono distinguere due concetti
fondamentali della S., che si sono succeduti nel tempo, cioè: 1° la S.
sintetica (o sistematica) avente come oggetto la totalità dei fenomeni sociali
da indagarsi nel suo complesso cioè nelle sue leggi; 2° la S. analitica avente
per oggetto gruppi o aspetti particolari dei fenomeni sociali e da essi
procedente a generaliz- zazioni opportune. In questa seconda fase la S. si
rompe in una molteplicità di indirizzi di ricerca e fa una certa fatica a
ritrovare la sua unità concettuale. 1° Ad opera di Comte, la S. è nata come
sistema cioè come determinazione della natura della società nel suo complesso,
mediante la determina- zione delle leggi di essa. La S. pretende di organiz-
zarsi, in questa fase, a somiglianza della fisica newtoniana: come scienza che
delinea, mediante leggi rigorose, un ordine necessario, nonchè lo svi- luppo,
non meno necessario, di quest'ordine. Comte pertanto chiamava la S. fisica
sociale e vedeva la prima parte di essa nello studio dell’ordine sociale cioè
nella statica e la sua seconda parte nello studio del progresso sociale, cioè
nella dinamica (Cours de phil. positive, IV, pag. 292). Comte inoltre
attribuiva alla S. la stessa funzione riconosciuta da Bacone in o infatti,
mentre vuol realizzare la S. come una scienza positiva che indaga «la realtà
speri- mentale mediante l’applicazione dei metodi che hanno fatto le loro prove
in fisica, chimica, astro- nomia, biologia e nelle altre scienze +, ripudia,
dal- l’altro lato, ogni costruzione sistematica troppo complessa e non esita a
definire come metafisiche e dogmatiche le dottrine sociologiche di Comte e
Spencer (Zraztato, $ 5, 112). Il carattere essenziale della scienza è, secondo
Pareto, il carattere «lo- gico-sperimentale » che implica due elementi: il ra-
gionamento logico e l’osservazione del fatto. Lo scopo della scienza rimane
tuttavia quello di for- mulare leggi necessarie che delineano nel loro in-
sieme quello che Pareto chiama l’equilibrio sociale e che è da lui paragonato
talora a un sistema mec- canico di punti, talaltra a un organismo vivente
(Cours d’économie politique, 1896, $ 619). Ma dal- l’altro lato egli insiste
anche sul semplice carattere di « uniformità sperimentale » della legge e sul
fatto che ogni fenomeno concreto è dovuto all’interse- cazione di un certo
numero di leggi differenti (Trattato, $ 99); il che vuol dire che ogni spiega-
zione scientifica è solo approssimativa e parziale (Ibid., $ 106). E ancora più
lontano dall’ideale si- stematico della S. è il corpo delle analisi che Pareto
dà nel 7rattato; analisi che hanno per oggetto di preferenza quelle che egli
chiama le «azioni non logiche », di cui vede gli elementi nei residui e nelle
derivazioni (v.). 2° Il passaggio dalla S. sintetica a quella ana- litica può
ritenersi segnato dall'opera di E. Durk- heim che abbandona il presupposto
fondamentale della S. sistematica: il presupposto cioè che la società costituisca
un tutto o un sistema organico. Dice Durkheim: «Ciò che esiste, ciò che solo è
dato all’osservazione, sono le società particolari che nascono, si sviluppano,
muoiono indipenden- temente l’una dall’altra» (Régles de la méthode
sociologique, 1895; 11® ediz., 1950, pag. 20). Pa- rallelamente Durkheim ha
insistito sul carattere esterno dell’oggetto proprio della scienza sociale.«I
fatti sociali, egli ha detto, consistono in modi di agire, pensare e sentire,
esterni all’individuo e dotati di un potere di coercizione per il quale gli si
impongono * (/bid., pag. 5). Considerare i fatti sociali in questo modo
significa considerarli come cose cioè indipendentemente dai pregiudizi sogget-
tivi e dalle volontà individuali (/bid., pag. 11 sgg.). Gli stessi motivi
trovarono sistemazione nell’opera metodologica di Max Weber. Questi ha in primo
luogo il merito di aver distinto la S. dalle altre discipline antropologiche e
in particolare da quelle storiografiche. Egli riconobbe l’oggetto della S.
nelle uniformità dell’atteggiamento umano, in quanto dotate di senso cioè in
quanto accessibili alla com- prensione. Più precisamente, l’atteggiamento è
quel- l'azione umana che: 1° è riferita, secondo l’inten- zione di colui che
agisce, all’atteggiamento degli altri; 2° è determinata nel suo corso anche da
questo riferimento; 3° può essere spiegata da questo rife- rimento (Uber einige
Kategorien der verstehenden Soziologie, 1913; trad. ital, in // metodo delle
scienze storico-sociali). La seconda acqui- sizione importante della S. di Max
Weber è la netta separazione, che egli volle stabilire, tra la ricerca empirica
o logica da un lato e le valuta- zioni pratiche o etiche, politiche o
metafisiche dal- l’altro lato (Der Sinn der Werifreiheit der sozio- logischen
und òkonomischen Wissenschaften, 1917; nella citata raccolta, pag. 311 sgg.).
Per quanto, ovviamente, questa separazione sia più facile ad essere affacciata
come esigenza che realizzata nella ricerca, essa vale tuttora come una regola
che im- pegna l’onestà del ricercatore. In terzo luogo, dal- l’opera di Weber
scaturisce l’esigenza della ricerca empirica particolare, la quale soltanto può
deter- minare le uniformità di atteggiamento che costi- tuiscono l’oggetto
proprio della sociologia. Questi tre punti sono rimasti saldi nell’ulteriore
sviluppo della S. contemporanea. Questa ha accolto con entusiasmo l’invito di
Weber alla ricerca empirica particolare e alla formulazione di tecniche di os-
servazione adeguate. La S. dispone oggi di un complesso imponente di tecniche,
che si possono ordinare in quattro gruppi fondamentali: 1° le tecniche
d’osservazione (osservazione diretta, libera o controllata, osservazione
clinica, osservazione par- tecipante, ecc.); 2° le tecniche dell’intervista,
che vanno dall’intervista libera ai questionari; 3° le tecniche di
sperimentazione e le tecniche sociome- triche: le quali ultime tendono a
descrivere le rela- zioni sociali spontanee (considerate come compo- nenti
elementari di tutti i raggruppamenti) mediante la partecipazione attiva degli
stessi soggetti stu- diati (cfr. Moreno, Who Shall Survive?, 1934); 4° le
recniche statistiche, che la S. condivide con molte discipline sociali (cfr.,
per un quadro di SOCIOLOGIA queste tecniche, il Traité de sociologie, diretto
da G. Gurvitch, 1958, pag. 135 sgg.), Un numero ingente di « ricerche sul campo
+ è stato effettuato con l’uso di queste tecniche nelle direzioni più di-
sparate ed è stato in questo modo accumulato, soprattutto negli ultimi
trent'anni, un materiale di osservazione ingente e complesso. Non in tutti i
paesi tuttavia la ricerca sociologica si è sviluppata nelle stesse direzioni.
In Inghilterra essa si è dedicata soprattutto a illustrare il mondo dei
primitivi, le sue istituzioni e i suoi comporta- menti fondamentali (cfr.
specialmente l’opera di G. FRazER, The Golden Bough, 1911-14, 12 voll., e gli
scritti di B. Malinowski e A. R. Radcliff- Browns). In Francia, oltre a
illustrare la mentalità dei primitivi (cfr. specialmente gli scritti di Lévy-
Bruhl a partire dal Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures,
1910), essa ha conservato il carattere teoretico dedicandosi allo studio di
pro- blemi fondamentali, specialmente ad opera di Gur- vitch (La vocation
actuelle de la sociologie, 1950; Déterminismes sociaux et liberté humaine,
1955). In Italia, dopo aver dato con l’opera di Pareto e di altri minori, un
contributo importante alla S. si- stematica, ha taciuto nel periodo tra le due
guerre per l’influenza negativa della cultura idealistica e solo oggi va
riacquistando forza e capacità, aggior- nandosi rapidamente nei metodi e negli
interessi e procedendo a studiare la società italiana. Ma so- prattutto negli
Stati Uniti la ricerca sociologica ha prodotto una mole imponente di lavoro
nelle più disparate direzioni. Si possono qui soltanto indi- care le direzioni
principali in cui la ricerca socio- logica si è incanalata: a) La S. urbana che
si è sviluppata in Ame- rica soprattutto per l’opera di incoraggiamento di R.
E. Park e che ha dato luogo a opere clas- siche come quelle di R. S. e H. Lynp,
Middletown (1929) e Middletown in Transition (1937) (cfr. pure il classico
studio di PARK, The City, 1925, ora in Human Communities, 1952). b) Lo studio
della stratificazione e della mo- bilità sociale: che si è iniziato in America
all’epoca della crisi (1929) e ha conseguito d'allora in poi risultati
importanti (cfr., per un bilancio, G. GaDpDA Conti, Mobilità e stratificazione
sociale, 1959). c) Lo studio dei gruppi etnici che conta un insieme imponente
di opere tra le quali quella classica di Thomas e Znaniecki, The Polish Peasant
in Europe and America (1918-21). d) Lo studio della famiglia che si è soprat-
tutto fermato sull’analisi della disorganizzazione fa- miliare e del disordine
matrimoniale (cfr., ad es. G. V. Hamilton, La Ricerca sul matrimonio, 1929). e)
L’analisi dell’opinione pubblica e degli strumenti di propaganda che ha ormai
una ricchis- sima letteratura (cfr., ad es., R. K. MERTON, Mass Persuasion,
1947). f) Lo studio del piccolo gruppo che ha dato in America i risultati migliori
(cfr. E. SHi1s, Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di S.», 1953,
n. 7). 2) La S. industriale, col qual termine s’in- tende lo studio dei
rapporti che si sviluppano nei luoghi di lavoro e l’infiuenza reciproca tra
tali rap- porti e l’organizzazione industriale (cfr., per un bilancio, FRANCO
FERRAROTTI, La S. industriale in America e in Europa, 1959). h) La S. della
religione, che è stata fondata da Max Weber (Die protestantische Ethik und der
Geist des Kapitalismus, 1904; Die protestantische Sekten und der Geist des
Kapitalismus, 1906; ecc.) e consiste nell’analisi delle relazioni reciproche
tra i rapporti sociali e i fatti religiosi; ma che non ha trovato negli ultimi
anni sviluppi im- portanti. 1) La S. della conoscenza che abitualmente si
ritiene fondata da Marx il quale per primo ha insistito sulle relazioni
reciproche tra il sapere e le forme sociali e che è stata coltivata
specialmente da Max Scheler (Die Wissensformen und die Gesell- schaft, 1926) e
da Karl Mannheim (Das Problem einer Soziologie des Wissens, 1926). Come già è
stato detto la mole di lavoro effet- tuato in molte di queste branche della
ricerca so- ciologica è ingente; ma a tale mole non corrisponde l’adeguata
utilizzazione concettuale di essa. « Il di- fetto maggiore della S. americana,
ha detto Shils è l'inverso della sua principale particolare virtù: lsua
indifferenza, finora predominante, verso la for- mazione di una teoria generale
è strettamente connessa con la sua avidità di precisione nell’os- servazione
immediata» (Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di S.», 1953, n.
8). Questa condizione non è propria soltanto della S. americana ma si
ripresenta in tutti i paesi nei quali la ricerca sociologica raggiunge un certo
grado di sviluppo. Essa fa nascere talora una no- stalgia per la vecchia forma
sistematica della S. anche in coloro che più hanno insistito sull’impor- tanza
delle tecniche oggettive (cfr. PITIRIM SOROKIN, Fads and Foibles in Modern
Sociology and Related Sciences, 1956). Non mancano tuttavia nella let- teratura
sociologica moderna tentativi importanti e ben riusciti di stabilire la teoria
sistematica del- l'oggetto proprio della S. cioè dell’azione sociale (cfr., ad
es., T. PaRSONS, The Structure of Social Action, 1937; 23 ediz., 1949) o di
consolidare il rapporto tra la teoria sociale e la ricerca sociale (cfr., ad
es., R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure, 1949; 2* ediz., 1957) o
anche quelli di realizzare la S. come una « tipologia quan-titativa e
discontinuista », altamente teoretica, qual è quella di G. Gurvitch (Traité de
sociologie, 1959, pag. 155 sgg.). Pertanto, ciò che si può prevedere, dato lo
stato attuale di questa disciplina, è il mol- tiplicarsi e il rafforzarsi dei
tentativi di concettua- lizzazione teoretica del materiale reso disponibile
dalle ricerche particolari, pur senza un ritorno alla forma sistematica che la
S. aveva assunto nella sua prima fase dogmatica. SOCIOLOGISMO (ingl.
Sociologism; francese Sociologisme; ted. Soziologismus). Termine pole- mico per
designare la tendenza a ridurre i fenomeni morali o religiosi a fatti sociali
(cfr. BOUTROUX, Science et religion, pag. 342). SOCIOMETRIA. V. SocioLogia;
TECNICHE DI RICERCA. SOCRATISMO (ingl. Socratism; franc. So- cratisme; ted.
Sokratismus). La dottrina di Socrate, quale è rimasta fissata nella tradizione
antica e che si può riassumere nei seguenti capisaldi: 1° il valore della
ricerca filosofica per cui una vita senza ricerca non è degna d’esser vissuta;
2° la limitazione della ricerca all’uomo e il disinteresse per ogni indagine
della natura; 3° l’identificazione di scienza e virtù nel senso che la virtù si
può insegnare ed apprendere e che non si può fare il bene senza conoscerlo; 4°
l’importanza attribuita all’insegna- mento, con la pretesa di non insegnare
nulla e di limitarsi a favorire il parto intellettuale degli ascoltatori; 5° il
metodo dell’interrogazione e l’ironia (v.). SOFISMA (ingl. Sophism; franc.
Sophisme; ted. Sophisma). 1. Lo stesso che fallacia (v.). 2. Un ragionamento
cavilloso o che porta a conclusioni paradossali o sgradite. In questo senso il
termine ha un uso assai vasto e possono essere chiamati S. anche i paradossi
(v.) e gli argomenti duplici. SOFISTICA (ingl. Sophistics; franc. Sophi-
stique; ted. Sophistik). 1. Aristotele chiamò S. «la sapienza apparente ma non
reale» (E/. Sof., 1, 165a 21); ed il nome è rimasto per indicare in generale
l’abilità di addurre argomenti cavillosi o speciosi. 2. In senso storico, la S.
è l’indirizzo filosofico proprio dei cosiddetti Sofisti cioè di quei maestri di
retorica o di cultura generale che nella Grecia tra il v ed il rv secolo ebbero
una notevole influenza nel clima intellettuale del tempo. La S. non è una
scuola filosofica ma un indirizzo generico che i Sofisti condivisero per le
esigenze della loro stessa professione. Si possono riassumere nel modo se-
guente i capisaldi di questo indirizzo: 1° la concentrazione dell’interesse
filosofico sul- l’uomo e sui suoi problemi, che i Sofisti condivi- sero con
Socrate2° la riduzione della conoscenza all’opinione e del bene all’utilità col
conseguente riconoscimento della relatività del vero e dei valori morali, che
muterebbero a seconda dei luoghi e dei tempi; 3° l’eristica cioè l’abilità di
confutare o di sostenere contemporaneamente tesi contraddittorie; 4° la
contrapposizione tra la natura e la legge e il riconoscimento che la natura non
conosce che il diritto del più forte. a in un modo d’essere rappresentativo (in
esse objec- tivo) che corrisponde a ciò che la cosa esterna è nella sua
esistenza sostanziale » (/rr Senr., I, d.2, q. 8, E; cfr. Duns Scoro, De An.,
17, 14). Questo significato si mantiene per tutto il Medio Evo. 2. Il
significato di S. come appartenente all’io o al soggetto dell’uomo si trova per
la prima volta in alcuni scrittori tedeschi del sec. xvni (sui quali cfr.
CassireR, Erkenntnisproblem, 1908, libro VII). Già Baumgarten parlava della
«fede considerata soggettivamente » di fronte alla «fede considerata
oggettivamente » che è l’insieme delle credenze (Mer., 1739, $ 993). E qualche
decennio più tardi si discuteva se la bellezza o la verità fossero S. od
oggettive intendendosi per oggettiva « una proprietà degli oggetti » e per S.
«una rappresentazione del rapporto delle cose con noi, cioè una relazione con
colui che le pensa» (J. C. Lossius, Physische Ursachen des Wahren, 1775, pag.
65). La stessa distinzione si trova nel Tetens (Philosophische Versuche, 1776,
I, pag. 344, 560, ecc.). Da quest’uso dell’aggettivo, Kant desumeva il nuovo
significato attribuito al sostantivo soggetto. SOGGETTO (gr. sroxeluevov; lat.
Subjectum, Suppositum; ingl. Subject; franc. Sujet; tedesco Subjekt). Il
termine ha avuto due significati fonda- mentali: 1° ciò di cui si parla o a cui
si attribuiscono qualità o determinazioni o a cui qualità o determi- nazioni
sono inerenti; 2° l’io o lo spirito o la co- scienza come principio
determinante del mondo della conoscenza o dell’azione o almeno come capacità
d’iniziativa in tale mondo. Entrambi questi significati rimangono nell’uso
corrente del termine. Il primo nella terminologia grammaticale e nel concetto
di S. come tema o argomento di discorso. Il secondo nel concetto di S. come
capacità auto- noma di rapporti o di iniziative, capacità che viene
contrapposta all’esser semplice «oggetto » o parte passiva di tali rapporti. 1°
Il primo significato è quello della tradizione filosofica antica. Esso ricorre
in Platone (Prot., 349 b) ed è illustrato da Aristotele come uno dei modi della
sostanza. « Il S., dice Aristotele è ciò di cui si può dire ogni cosa ma che a
sua volta non può essere detto di nulla » (Mer., VII, 3, 1028 b 36). In questo
senso il S. può essere inteso: 4) come la materia di cui una cosa è composta,
per es., il bronzo; 5) come la forma della cosa stessa, per es., il disegno di
una statua; c) come l’unione di materia e forma, per es., la statua (/bid.,
1029 a 1). Questedeterminazioni sono strettamente proprie della metafisica
aristotelica. Ma il senso generale del termine è quello che conta: S. è
l’oggetto reale a cui ineriscono o a cui si riferiscono le determina- zioni
predicabili (la qualità, la quantità, ecc.). Questo è pure il concetto che del
S. ebbero gli Stoici: essi lo considerarono come l'oggetto esterno a cui il
significato viene riferito cioè come la denota- zione del significato (Sesto EMP.,
Adv. Math., VIII, 12; cfr. SigNIFICATO). Nello stesso senso usarono il termine
gli Epicurei (EPICUR., Epistola, I, pag. 12, 24, Uesener). A questa tradizione
si riconnette l’uso grammaticale del termine che cominciò nel n secolo d. C.;
Apuleio già chiamava subjectiva o subdita la parte del discorso che gli antichi
chia- mavano nome e declarativa la parte che gli antichi chiamavano verbo (De
Dogmate Platonis, III, pag. 30, 30; cfr. Marziano CAPELLA, De Nuptiis, IV,
393). Questo significato di « S. » rimane immutato attra- verso una lunga
tradizione. Gli scrittori medievali seguono le determinazioni aristoteliche:
chiamano subjectum o suppositum la sostanza in quanto ad essa ineriscono le
qualità o le altre determinazioni (cfr. S. TomMaso, S. Th., I, q. 29, a. 2;
Duns Scoro, Op. Ox., II, d.3, q.6, n.8; OcKHAM, In Sent., I, d. 2, q. 8, E). Il
significato del termine non cambia quando per S. viene intesa l’anima come
sostanza alla quale ineriscono determinati caratteri o dalla quale emanano
attività determinate. Dice Hobbes: « Il S. della sensazione è lo stesso
senziente, cioè l’animale » (De Corp., 25, 3). Locke chiama il S. in questo
senso substratum o sostegno (Saggio, II, 23, 1-2). E in questo senso si avvale
del termine Hume: «Qui appare Spinoza e mi dice che vi sono solo le
modificazioni e che il S. al quale esse ineriscono è semplice, incomposto e
indivisibile » (Treatise, I, IV, 5, ed. Selby-Bigge, pag. 242). Dall'altro lato
lo stesso significato si mantiene anche nel raziona- lismo tedesco. Leibniz intende
conservare il signi- ficato tradizionale di S. (Nouv. Ess., Il, 23, 2); e
quando parla di disposizioni «che vengono 4a subjecto o dall’anima stessa »
intende disposizioni che vengono dalla sostanza stessa dell'anima (Re- marques
sur le livre de L'origine du Mal, in Op., ed. Erdmann, pag. 645). Wolff a sua
volta definisce il S. come « l’ente in quanto considerato dotato di essenza e
capace di altre cose oltre di essa » (Onr., $ 711). Baumgarten nello stesso
senso dice che S. è l’ente, determinato nella materia da cui è costituito
(Mer., $ 344). Lo stesso Kant fa d’altronde ricorso a questa nozione
tradizionale del soggetto. « Già da tempo, egli dice, è stato osservato che in
tutte le sostanze, il vero e proprio S., ciò che rimane tolti gli accidenti (come
predicati) quindi il vero elemento sostanziale, ci è ignoto» (Prol., $ 46).2°
Il secondo significato del termine come io o coscienza o capacità d’iniziativa
in generale, si è iniziato solo con Kant che certamente ha tenuto presente il
significato che l’opposizione tra sogget- tivo e oggettivo aveva assunto in
taluni scrittori tedeschi a lui contemporanei (v. SOGGETTIVO). Il S. è per Kant
l’io penso, la coscienza o autoco- scienza che determina e condiziona ogni
attività conoscitiva: «In tutti i giudizi io sono sempre il S. determinante di
quella relazione che costituisce il giudizio ». « Per l’io o egli o quello (la
cosa) che pensa, non ci rappresentiamo altro che un S. tra- scendentale dei
pensieri, = x che non è conosciuto se non mediante i pensieri che sono suoi
predicati e di cui, a parte da questi, non possiamo avere il minimo concetto »
(Crif. R. Pura, Dial. trascenden- tale, II, cap. I). In queste parole di Kant
si può cogliere il passaggio dal vecchio al nuovo signifi- cato di soggetto.
L’io è S. in quanto ad esso ineri- scono i pensieri come suoi predicati: questo
è ancora il significato tradizionale del termine. Ma l’io è S. in quanto
determina l’unione del S. e del predicato nei giudizi cioè in quanto è attività
sin- tetica o giudicante, spontaneità conoscitiva, perciò coscienza 0
auto-coscienza o appercezione; e questo è il nuovo significato di soggetto. A
questo secondo significato esclusivamente si appiglia la tradizione
post-kantiana. Secondo Fichte, il S. è l'Io, che è «S. assoluto », non rappresentato
nè rappresentabile », che « non ha nulla in comune con gli esseri della natura»
(Wissenschafislehre). La differenza tra la Sostanza di Spi- noza e l’Io
assoluto, consiste secondo Fichte appunto nel fatto che Spinoza non ha
concepito la sostanza come S. (/bid.; trad. ital., pag. 78 sgg.). Schelling
parla nello stesso senso della identità o unità del S. e dell’oggetto
nell’Autocoscienza assoluta (System des transzendentalen Idealismus, 1800, I,
cap. II; trad. ital., pag. 34). Hegel a sua volta diceva: « Tutto dipende
dall’intendere e dall’esprimere il Vero non solo come Sostanza ma altrettanto
decisamente come Soggetto... La sostanza viva è l’essere il quale è in verità
S. o, ciò che è lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma solo in
quanto la sostanza è il movimento dell’autoporsi o in quanto è la mediazione
del divenire altro da sè con se stessa » (Phanom. des Geistes, Pref. II, 1).
Nello stesso senso Hegel afferma che l’Idea assoluta è unità di S. e oggetto
(ZEnc., $ 214). Ed aggiunge: «L'unità del- l’idea è soggettività, pensiero,
infinità, e perciò da distinguere essenzialmente dall’idea come sostanza; allo
stesso modo che questa soggettività soverchiante, questo pensiero, questa
infinità è da distinguere dalla soggettività unilaterale dal pensiero unila-
terale, dall’infinità unilaterale, alla quale essa, col giudicare e col
definire, si abbassa » (Enc., $ 215). 814 La soggettività come «soggettività
infinita» cioè non intellettuale prevale dunque sull’oggettività in quella «
unità di S. e oggetto » che è l’Idea o l’Asso- luto. Ma Hegel vede anche nel S.
come tale la capacità d’iniziativa o il principio dell'attività in generale.
«Il S. è l’attività della soddisfazione degli impulsi, della razionalità
formale; vale a dire, è l’attività che traduce la soggettività del contenuto,
che sotto tal riguardo è scopo, nell’oggettività in cui il S. si congiunge con
se stesso + (Enc., $ 475). Schopenhauer insisteva, come Fichte, sulla irrap-
empre correlativi l’uno all’altro e per questo inseparabili» riduce la funzione
del S. a quella di «farsi immagine, rappresentazione o conoscenza dell’oggetto
+ esclu- dendo che esso entri comunque a modificare la natura di questo
(Systematische Philosophie, 1931, $ 10). Infine, anche quando non si esclude la
funzione del S., tale funzione non viene riconosciuta come incondizionata o
creativa ma sottoposta a limiti e condizioni, e in ogni caso si nega che il S.
stesso possa valere come una sostanza o una forza auto- noma. Dice Husserl:
«L’ego si costituisce per se stesso nell’unità di una storia. Se si può dire
che nella costituzione dell’ego sono contenute tutte le costi- tuzioni di tutti
gli oggetti che esistono per lui, immanenti e trascendenti, reali e ideali,
bisogna aggiungere che il sistema delle costituzioni, in virtù delle quali tali
oggetti esistono per l’ego non sono possibili che nel quadro di leggi genetiche
» (Cart. Med., 1931, $ 37). Da questo punto di vista il S. è una funzione, non
una sostanza o una forza creatrice. Heidegger ha detto: «Se per l’ente che noi
stessi siamo e che definiamo esserci si sceglie il termine di S., possiamo
dire: la trascendenza implica l’essenza del S., essa è la struttura fonda-
mentale della soggettività. Non è che il S. esista dapprima come S. e poi,
qualora si rivelino come presenti alcuni oggetti, esso li possa anche trascen-
dere. Esser S. significa invece essere esistente nella trascendenza e in quanto
trascendenza +» (Vom Wesen dell’im- maginazione nel sonno. Questa è la
definizione del S. che fu data già da Platone (Tim., 45 e) e da SOLILOQUIO
Aristotele (De Somniis, 1, 459a 15) ed è anche quella della psicologia moderna:
nella quale, na- turalmente, dà luogo ad una serie di problemi che esulano
completamente dal campo della filosofia (cfr., su di essi, E. SERvADIO, 7/ S.,
1955). Freud e gli psicanalisti hanno dato una interpretazione funzionalistica
del S.: hanno cercato di determinare la funzione che il S. esercita nella vita
dell’uomo. Secondo Freud il S. «è un mezzo per sopprimere le eccitazioni
(psichiche) che vengono a turbare il sonno, soppressione che si effettua con
l’aiuto di soddisfazioni allucinatorie » (/ntr. d la psychanalyse, 1932, pag.
151). I desideri che nel S. trovano una realizzazione simbolica sono, il più
delle volte, de- sideri proibiti, inibiti dalla censura e che perciò subiscono
attraverso il S. una elaborazione radicale che è compito dello psicologo
interpretare (/bid., pag. 189, 234). Questa teoria di Freud è stata a lungo
discussa e non pare che si adatti a spiegare tutte le specie di S. o tutti gli
aspetti del S.; essa è la sola tuttavia che si è proposta il problema della
funzionalità del S., cioè del compito cui esso adempie nell'economia della vita
psichica. I filosofi si sono talvolta soffermati sul S. per mostrare
l’incertezza della discriminazione tra il S. e la veglia, avvalendosene come un
elemento di dubbio teoretico. Diceva Platone: « Nulla vieta di credere che i
discorsi che ora facciamo siano tenuti in sogno; e quando in S. crediamo di
raccontare un S., la somiglianza delle sensazioni nel S. e nella veglia è
addirittura meravigliosa » (Teert., 158 c). D'altronde «Il tempo in cui
dormiamo è uguale a quello in cui siamo desti e nell’uno e nell’altro la nostra
anima afferma che solo le opinioni che ha in quel momento presente sono vere;
sicchè per un eguale spazio di tempo noi diciamo che sono vere ora le une ora
le altre e le une e le altre so- steniamo con lo stesso vigore » (/bid., 158
d). Nel sec. XVII e XVIII questo tema fu ripetuto frequen- temente da poeti e
filosofi. Shakespeare diceva: « Noi siamo della stessa sostanza di cui son
fatti i S. e la nostra breve vita è racchiusa in un sonno » (Tempest, atto IV,
scena I). Calderòn de la Barca aveva utilizzato lo stesso tema ne La vita è un
S. (1635): « Sono dunque le glorie così simili ai S. che quelle vere son tenute
per false e quelle finte per certe? C'è così poco dalle une alle altre che si
fa questione di sapere se quel che si vede o si gode sia un S. o verità?» (atto
III, scena X). Cartesio utilizzava lo stesso tema come elemento di dubbio: 4
Ciò che accade neì sogno non sembra così chiaro e così distinto come ciò che
accade nella veglia. Ma pensandoci sopra mi ricordo d'essere stato spesso
ingannato, quando dormivo, da semplici il- lusioni. E fermandomi su questo
pensiero, vedo chiaramente che non ci sono indici concludenti nè contrassegni
abbastanza certi per poter distinguere nettamente la veglia dal sogno al punto
che ne sono stupito e il mio stupore è tale che è quasi capace di persuadermi
che sto dormendo » (Méd., I; cfr. Princ. Phil., I, 4). La dottrina di Leibniz
se- condo la quale la vita della monade, cioè della sostanza spirituale, è «un
S. ben regolato» è un’altra manifestazione dello stesso tema. Dice Leibniz: «
Non è impossibile, metafisicamente par- lando, che ci sia un S. continuo e
duraturo come la vita di un uomo... Ma posto che i fenomeni siano legati non
importa che li si chiamino S. o no poichè l’esperienza mostra che non ci si
inganna nella misura in cui si apprendono i fenomeni, quando essi sono appresi
secondo le verità di ragione » (Nouv. Ess., IV, 2, 14). Diceva Voltaire: « Se
gli organi da soli producono i S. della notte perchè non potrebbero produrre da
soli le idee del giorno? Se l’anima sola, tranquilla nel riposo dei sensi e
operante da sè è l’unica causa, il soggetto unico di tutte le idee che abbiamo
dormendo, perchè tutte queste idee sono quasi sempre irregolari, ir- razionali,
incoerenti? » (Dictionnaire philosophique, 1764, art. Songes). Schopenhauer è
forse l’ultimo a presentare questo tema nella sua forma classica: «La vita e i
S. sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale.
Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il
tempo del riposo allora spesso seguitiamo ancora, fiaccamente senza ordine e
con- nessione, a sfogliare qua e là qualche pagina: spesso è una pagina già
letta, spesso un’altra an- cora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro »
(Die Welt, I, $ 5). SOLECISMO (ingl. Solecism; franc. Solécisme; ted.
Solecismus). In Aristotele (Soph. El., passim) e poi nella Logica di origine
aristotelica designa uno degli scopi della dialettica sofistica, ossia il
tentativo di indurre l’interlocutore ad accettare un enunciato contenente
un'impossibilità grammati- cale, come homines currit. Il termine è rimasto ad
indicare in genere uno sproposito di morfologia o sintassi grammaticale. G. P.
SOLIDARIETÀ (ingl. Solidarity; franc. Soli- darité; ted. Solidaritàt). Termine
di origine giuri- dica che nel linguaggio corrente comune e filosofico significa:
1° connessione reciproca o interdipen- denza: per esempio, «S. dei fenomeni»;
2° assi- stenza reciproca fra i membri di uno stesso gruppo: (per es., S.
familiare, S. umana, ecc.). In questo senso si parla di solidarismo per
indicare la dot- trina morale e giuridica che assume come sua idea fondamentale
la S. (cfr. L. BourGEOIS, La soli darité, 1897). SOLILOQUIO (lat. Soliloguium).
Il colloquio dell’anima con se stessa. Soliloquia S. Agostino intitolò uno dei
suoi primi scritti nel quale di- chiarava di voler conoscere soltanto Dio e
l’anima e null’altro (So/., I, 2). S. Anselmo chiamò Mono- logion il suo
colloquio interiore intorno all’essenza di Dio. SOLIPSISMO (ingl. Solipsism;
franc. Solip- sisme; ted. Solipsismus). La tesi che esisto solo io e che tutti
gli altri enti (uomini e cose) sono sol- tanto mie idee. Il termine più antico
per indicare questa tesi è egoismo (cfr. WoLFF, Psychol. ratio- nalis, $ 38;
BAUMGARTEN, Met., $ 392; GALLUPPI, Saggio filosofico sulla critica della
conoscenza, IV, 3, 24; ecc.) o egoismo metafisico (KANT, Antr., I, $ 2) o
egoismo teorico (SCHOPENHAUER, Die Welt, I, $ 19). Kant adoperò il termine S.
per indicare la totalità delle inclinazioni, che, quando sono soddisfatte,
producono la felicità (Cri. R. Prat., I, libro I, cap. III; trad. ital., pag.
85): e questo termine fu adoperato a indicare l’egoismo metafisico da alcuni
scrittori tedeschi della seconda metà del- 1°800 (cfr. SCHUBERT-SOLDERN,
Grundlagen zu einer Erkenntnistheorie, 1884, pag. 83 sgg.; W. SCHUPPE, Der Solipsismus,
1898; H. DrIescH, Ordnungslehre, 1912, pag. 23 sgg.; ecc.). Come già notava
Wolff, il S. è una specie di idealismo che riduce ad idee non solo le cose ma
anche gli spiriti (Psychol. rat., fra gli elementi del linguaggio stesso e gli
elementi della realtà, e la riduzione di questi ultimi a fatti di esperienza
immediata che perciò sono soltanto miei. Dove tali fatti mancano, manca il
significato (cioè l’og- getto) della parola ed io non la capisco: perciò
Wittgenstein dice che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo. Lo
stesso presupposto conduce Carnap a parlare di S. metodico. Molto giustamente
Carnap parla di S. a proposito della scelta degli elementi fondamentali
(Grundelemente): poichè per tali elementi, che sono quelli in base ai quali si
può ricostruire logicamente il mondo, Carnap sceglie (come Wittgenstein) i
fatti immediati di esperienza o come egli dice «la base psichica propria », il
suo procedimento è solipsistico (Der logische Aufbau der Welt). J. R. Weinberg
già osservava come nel positivismo logico il S. lin- guistico è inevitabile; e
che, poichè occorre supe- rarlo per raggiungere l’oggettività scientifica, «o
si devono alterare alcuni postulati del sistema per eliminare dal positivismo
le idee metafisiche o, se questo metodo fallisce, si dovrà abbandonare l’in-
tero sistema del positivismo logico » (An Exami- nation of Logical Positivism,
cap. VII; trad. ital., pag. 235 sgg.). In realtà il presupposto del positi-
vismo da cui nasce il S. è il riflesso nella teoria del linguaggio della tesi
idealistica: gli elementi del linguaggio sono segni di esperienze immediate,
perchè le esperienze immediate sono la sola realtà (v. ESPERIENZA; LINGUAGGIO).
SOLITUDINE (ingl. Solitude; franc. Solitude; ted. Einsamkeit). L’isolamento dagli
altri o la ricerca di una migliore comunicazione. Nel primo senso la S. è la
situazione del sapiente che, nella sua figura tradizionale, è perfettamente
autarchico e perciò isolato nella sua perfezione (v. SaGGIO). Fuori da questo
ideale, l’isolamento è un fatto patolo- gico: è l'impossibilità della
comunicazione connessa a tutte le forme della pazzia. In senso proprio, tut-
tavia, la S. non è isolamento ma piuttosto la ricerca di forme diverse e
superiori di comunicazione: «Essa non prescinde dai legami offerti dall’am-
biente e dalla vita quotidiana se non in vista di altri legami con uomini del
passato e dell’avvenire, con i quali sia possibile una forma nuova o più
feconda di comunicazione. Il suo prescindere da quei legami è perciò il
tentativo di rendersi liberi da essi per rendersi disponibili per altri
rapporti sociali» (ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, XI, $ 8). SOMATICO
(ingl. Somatic; franc. Somatique; ted. Somatisch). Corporeo (v.
CORPO)SOMATOLOGIA (ingl. Somatology; francese Somatologie; ted. Somatologie).
La {parte dell’an- tropologia che considera gli aspetti fisici dell’uomo (v.
ANTROPOLOGIA). SOMMA LOGICA (ingl. Logical Sum; fran- cese Somme logique; ted.
Logische Summe). È la figura (a + 5) risultante da un’addizione /o- gica (v.).
G.P. SOMMO BENE. V. BENE sommo. SONNO E VEGLIA. V. Sogno. SOPRACOSTRUZIONE. V.
Sopra- STRUTTURA. - suna conoscenza è possibile (noumenorum non datur
scientia)» (Fortschrifte der Metaphysik, 1804, [A 55)). Il S. è pertanto il
dominio delle idee della Ragion pura, con tutto ciò che esse implicano per la
vita morale dell’uomo. Hegel a sua volta adoperò il termine in senso analogo,
ma positivo per indicare 52 — ARBAGNANO, Dizionario di flosofia. 817 ciò che
l’apparenza sensibile è nella sua natura razionale: « Il S. è il sensibile e il
percepito posti come in verità essi sono» perciò come 4 l’univer- sale
semplice, l’universale in cui la molteplicità non sussiste, in cui non c’è
niente da conoscere »: in breve l’universale come lo ha inteso Schelling
(Phinom. des Geistes, I, IV, B; trad. ital., pag. 127 e nota). SOPRASTRUTTURA
(ingl. Superstructure; franc. Superstructure; ted. Uberbau). Termine ado-
perato dai Marxisti per designare l’ordinamento politico e giuridico nonchè le
ideologie politiche religiose, filosofiche, ecc., in quanto dipendono dalla
struttura economica di una data fase della società. Dice Marx: «L'insieme dei
rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia
la base reale sulla quale si eleva una S. giuridica e politica e alla quale
corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e
spirituale della vita» (Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.) (v. MATERIALISMO
STORICO). Il termine è stato anche adoperato da N. Hart- mann per indicare uno
strato o piano dell’essere nel quale si conservino solo alcune delle categorie
del piano inferiore; e si distinguerebbe dalla sopra- formazione (Uberformung)
perchè in questa si conserverebbero fufte le categorie del piano infe- riore.
Ad es., il piano psichico sarebbe, nei con- fronti del piano organico, una S.
perchè in esso è abbandonata la categoria dello spazio che domina ancora
l’essere organico. La differenza tra S. e sopraformazione taglierebbe così la
strada alla concezione meccanica della vita psichica (Aufbau der realen Welt,
1940). Talora, per la traduzione del termine di Hartmann si è usato in italiano
sopracostruzione (cfr. BARONE, Nicolai Hartmann, pag. 342). SOPRAVVIVENZA. V.
IMMORTALITÀ. SORITE (lat. Acervus; ingl. Sorites; franc. Sorite; ted. Sorites).
1. L'argomento di Eubulide contro la molteplicità (v. ACERVO, ARGOMENTO DELL’).
a. Un sillogismo composto o polisillogismo (v.) nel quale la conclusione del
sillogismo precedente si assume come la premessa del sillogismo susse- guente,
finchè si giunga nell’ultima a connettere l’antecedente del primo sillogismo e
la conseguenza dell’ultimo (cfr. ARNAULD, Log., III, I; JunGIUS, Logica
Hamburgensis, III, 28; WOLFF, Log., $ 474; HAMILTON, Lectures on Logic, pag.
366; ecc.). L'espressione soriticus syllogismus fu usata forse per la prima
volta da Mario Vittorino (Iv secolo) (cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, I,
pag. 663). Ma fu diffusa da Lorenzo Valla (Dialecticae dispu- tationes, III,
12)SOSPIRO (ted. Sehnsucht). Aspirazione che si @) ciò che è necessariamente
quello che è; 5) ciò che esiste ne- cessariamente. Entrambe queste
determinazioni si trovano illustrate nella metafisica aristotelica, della quale
il concetto di S. costituisce il cardine. La prima determinazione è quella che
Aristotele de- signa con l’espressione tè tl 7v elvar (quod quid erat esse) e
che si può tradurre come essenza necessaria; l’espressione significa infatti
alla lettera ciò che l’essere era dove l’imperfetto «era » indica la continuità
o stabilità dell’essere stesso, il suo essere già da sempre e per sempre.
L'essenza ne- cessaria è quella che è espressa dalla definizione (v.) ed è
l’oggetto proprio della conoscenza scientifica (v. ScIENZA). A questa prima
determinazione, si connette la seconda, per la quale è S. ciò che neces-
sariamente esiste. Dice Aristotele: « Abbiamo scienza delle cose particolari
solo quando conosciamo l’es- senza necessaria di esse ed accade per tutte le
cose ciò che accade per il bene: se ciò che è per essenza bene non è bene,
allora neppure ciò che per essenza esiste non esiste e ciò che per essenza è
uno non è uno; e così per tutte le altre cose» (Mer., VII, 6, 1031 b 6).
Aristotele adduce questo argomento contro la separazione platonica dell’idea
dalle cose; ma l’argomento ovviamente significa che ogni cosa è quella che è in
virtù dell’essenza necessaria (che è la sua causa intrinseca o estrinseca) e
che pertanto tutto ciò che nelle cose c'è di reale e di conoscibile fa parte
dell’essenza necessaria e necessariamente esiste. La S. costituisce così per
Aristotele la strut- tura necessaria dell’essere nella sua concatena- zione
causale perchè tutte le specie di cause sono determinazioni della S. (v.
CausaLITÀ). In questo senso appunto Aristotele afferma che la forma delle cose
è eterna e non può essere nè prodotta nè distrutta (Mer., VII, 8; VIII, 3); la
forma è infatti l’essenza necessaria delle cose composte. Dall'altro lato
Aristotele non è troppo preoccupato di enume- rare tutti i modi d’essere della
sostanza. Egli co- mincia con il dire che comunemente si parla di S. in quattro
sensi, se non di più, e cioè come essenza necessaria, come universale, come
specie e come soggetto (Mer., VII, 3, 1028 a 32). Ma la S. come universale o
come specie è esclusa dalla critica al platonismo; oppure, il che vale lo
stesso, è chia- mata da Aristotele sostanza seconda nei confronti della S.
prima che è quella autentica (Car., 5, 2a 13). Rimangono perciò solo la S. come
essenza necessaria e la S. come soggetto (v.). In quest’ultimo significato la
S. può essere o la forma o la materia o il loro composto (/bid., 1029 a 2). Nei
suoi due significati legittimi la S. esprime il significato fon- damentale del
concetto dell’essere e pertanto costi- tuisce l'oggetto proprio della
metafisica. « Ciò che da tempo e anche ora e sempre abbiamo cercato, ciò che
sempre sarà un problema per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che
cosa è la S.?» (Met., VII, 1, 1028 b 2). Dall’altro lato la struttura
sostanziale dell’essere è il fondamento del sapere scientifico. L'essenza
necessaria delle cose che non hanno una causa fuori di sè è intuita
direttamente dall’intelletto e costituisce i primi principi che sono a
fondamento della dimostrazione; mentre l’essenza necessaria delle cose che
hanno una causa fuori di sè può essere rivelata, se non dimostrata, dalla
stessa dimostrazione. In ogni caso la necessità della dimostrazione è la stessa
necessità della S. (An. Post., II, 9, 43 b 21; cfr. tutta la discussione
precedente). La storia ulteriore del concetto di S. ripete il carattere che era
già servito ad Aristotele per defi- nirlo, quello della necessità. Tale
carattere viene esplicitamente assunto da Plotino per la definizione del
termine (Enn., VI, 3, 4). Ma su di esso insiste specialmente la scolastica
araba e in particolare Avicenna: « Diciamo che tutto ciò che è ha una S.
(essentia) per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità di esso e il
suo essere (Logica, I). E S. Tommaso che, con le equivalenze linguistiche
stabilite nel De ente et essentia aveva chiuso un lungo periodo di confusioni
terminologiche (v. Es- SENZA), riduce la S. (rettamente interpretando i testi
di Aristotele) alla quiddità (l'essenza necessaria) e al soggetto (S. Th., I,
q. 29, a. 2). Cartesio non faceva che esprimere lo stesso carattere di
necessità affermando che «quando concepiamo la S. conce- piamo solo una cosa
che esiste in tal maniera che non ha bisogno per esistere d’altro che di se
stessa » (Princ. Phil., I, 51). Giustamente Spinoza osser- vava che questa è la
stessa definizione della S. infinita (R. Cartesi Principia Philosophiae,
1663)favore di quella di una semplice coesistenza di fatto delle determinazioni
percepite. Il concetto della S. subisce così, in Locke, una tra- sformazione
analoga a quella che il concetto di causa subirà nelle mani di Hume: si
trasforma da necessità razionale in uniformità fattuale. Da necessità razionale
per la quale le determinaziondi un ente sarebbero tutte razionalmente connesse
l'una con l’altra e derivabili da quella fondamentale costitutiva dell’essernza
dell’ente stesso, la sostanza diventa un insieme di determinazioni che si
trovano insieme in linea di fatto ma di cui non si può di- mostrare la
necessità. Hume esprimeva bene questa nuova idea di S. dicendo che « le
particolari qualità che formano una S. sono comunemente riferite ad un qualcosa
di sconosciuto al quale si suppone che ineriscano o, mettendo da parte questa
finzione, sono considerate strettamente e inseparabilmente connesse da
relazioni di contiguità e causazione ? {Treatise, I, 1, 6; ed. Selby-Bigge,
pag. 16). La con- nessione per contiguità e causazione ha preso il posto della
necessità razionale. Una formulazione ancora più rigorosa dello stesso concetto
è stata data da Mach: «La S. non è che la persistenza del collegamento: una
persistenza che non è mai assoluta o rigorosa (Analyse der Empfindungen, XIV, $
14; trad. ital., pag. 382). Nello stesso senso Dewey ha scritto: «La
condizione, la sola condizione perchè vi possa essere sostanzialità, è che
certe qualificazioni dipendano l’una dall’altra come segni sicuri che,
verificandosi certe interazioni, ne segui- ranno certi risultati » (Logic, cap.
VII; trad. ital., pag. 187). L’idea di S., nel suo significato tradizionale di
necessità, e quella connessa di causa, costituiscono i cardini di qualsiasi
metafisica (v.). Esse sono pertanto accettate di peso da tutte le metafisiche
di stampo tradizionale; mentre gli indirizzi empiri- stici inclinano a vedere
nel concetto di S. il collega- mento che già Hume vi aveva scorto o tendono
addirittura farne a meno opponendo ad essa l’idea di funzione, cioè di
relazione. Già da Mach quest’ul- timo passaggio è stato effettuato in quanto la
« persistenza del collegamento» non è altro che l’uniformità di certe
relazioni. SOSTANZIALE (ingl. Substantial; franc. Sub- stantiel; ted.
Substantiell). 1. Ciò che costituisce una sostanza o appartiene a una sostanza:
cioè che è essenziale o è tale da esistere necessariamente. 2. Ciò che è, in un
senso qualsiasi, importante o decisivo: per es., «un contributo sostanziale +.
SOSTANZIALISMO (ingl. Substantialism) franc. Substantialisme; ted.
Substantialismus). Ter- mine con il quale si è talora designato la dottrina
metafisica della sostanza da parte di coloro che la combattono (Renouvier,
Hamelin, ecc.). SOSTANZIALITÀ (inglese Substantiality; franc. Substantialité;
ted. Substantialitàt). Il modo d’essere della sostanza (nel senso 1). Nella
prima edizione della Critica della Ragion Pura, Kant chiamò « paralogismo della
S.» quello per il quale si attribuisce all’io penso il modo d'essere della
sostanza (Crit. R. Pura, A, 349). Il termine fu poi la ottenuta da A
sostituendo una formula 8 per una particolare variabile in A (cfr. A. CHURCH,
/ntroduction to Mathematical Logic, $ 10; ed inoltre CARNAP, The Logical Syntax
of Language, $ 6; Meaning and Necessity, $ 11; Quine, Methods of Logic, $ 6;
ecc.). SOSTRATO (lat. Substratum; ingl. Substratum; franc. Substrat). Il
termine fu introdotto dalla scolastica del sec. xrv per indicare l’individuo
reale (substratum singulare: Pietro AuREOLO, /n Sent., I, d. 35, q.4, a. 1); e
poi ripreso da Locke per indicare ciò che nella tradizione veniva piuttosto
chiamato subjectum o suppositum cioè il soggetto o la sostanza come soggetto
(Saggio, II, 23, 1). Accettato da Berkeley (Principles of Human Know- ledge, I,
$ 7) e da Leibniz (Nouv. Ess., II, 23, 1) il termine è entrato nell’uso e ha
finito per prevalere sugli altri, non senza pericolo di confusioni (v. Sog-
GETTO). SOTERIOLOGIA (ingl. Soteriology; franc. So- teriologie; ted.
Soteriologie). La dottrina religiosa della salvezza. Sull’affacciarsi
dell’indirizzo religioso soteriologico nel mondo occidentale cfr. l’opera di F.
CUMONT, Les religions orientales dans le pa- ganisme romain, 1906, 2* ediz.
1909. SOTTRAZIONE (ingl. Subrraction; francese Soustraction; ted.
Subtraction)i. La nozione di S. logica fu introdotta da Boole nel modo
seguente: «Se x rappresenta una classe di oggetti, allora 1 — x rappresenta la
classe contraria o supplemen- tare di oggetti cioè la classe includente tutti
gli oggetti che non sono compresi nella classe x» (Laws of Thought, 1854, cap.
III, Prop. III, Dover publ., pag. 48; cfr. pure PEIRCE, Coll. Pap., 3. 5,9, 18,
ecc.). Nella logica posteriore questa nozione è scomparsa. SOVRANITÀ (ingl.
Sovereignty; franc. Sou- veraineté; ted. Souverdnitàt). Il potere preponde-
rante o supremo dello Stato, che fu riconosciuto per la prima volta come
carattere fondamentale dello Stato stesso da Jean Bodin nei Six livres de la
république (1576). La S. consiste, secondo Bodin, negativamente nell’essere
sciolto o dispensato dalle leggi e dagli usi dello Stato e positivamente nel
potere di abolire o creare leggi. Il solo limite della S. è la legge naturale e
divina (Six livres de la répu- blique, 9* ediz., 1576, I, pag. 131-32). Il
termine e il concetto furono accettati da Hegel: « Queste due determinazioni
che gli affari e i poteri particolari dello Stato non sono autonomi e stabili
nè per sè, nè nella volontà particolare degli individui ma hanno la loro ultima
radice nell’unità dello Stato, di qualche parte di se stesso o la sua
sottomissione a un altro sovrano. Violare l’atto per il quale esso esiste
significherebbe annullarsi; e ciò che è niente, non produce niente » (/bid., I,
7). Il principio della S. è pertanto quello di essere il potere più alto in un
dato territorio: il che non vuol dire che essa debba essere un potere assoluto
o arbitrario. Nella dottrina moderna del diritto, la S. è riconosciuta propria
dell'ordinamento giu- ridico (v. STATO) ed è intesa come quel carattere per il
quale « l'ordinamento giuridico statale è un ordinamento al di sopra del quale
non c’è un ordinamento superiore » (H. KELSEN, General Theory of Law and State,
1945; trad. ital., pag. 390). Se- condo Kelsen, se si ammette l’ipotesi della
priorità del diritto internazionale, lo Stato può essere detto sovrano solo in
senso relativo; se si ammette l’ipo- tesi della priorità del diritto statale
può esser detto sovrano nel senso assoluto e originario del termine. La scelta
tra le due ipotesi è arbitraria (/bid., pag. 391). SPAESATO (ted. Unheimlich).
Il « sentirsi S.» è, secondo Heidegger, uno degli aspetti dell’an- goscia (v.).
Sentirsi S. vuol dire «non sentirsi a casa propria» nel mondo e questo è, in
sede on- tologico-esistenziale, il «fenomeno più originario » (Sein und Zeit, $
40). SPAZIO (gr. yx&bpa, 16rog; lat. Spatium; inglese Space; franc. Espace;
ted. Raum). La nozione di S. ha dato origine a tre problemi diversi o meglio a
tre ordini di problemi: 1° quello circa la natura dello S.; 2° quello circa la
realtà dello S.; 3° quello circa la struttura metrica dello spazio. Una
risposta a quest’ultimo problema non è che una geometria e le diverse risposte
ad esso costi- tuiscono le differenti geometrie. Per tali risposte, cfr.
GEOMETRIA. 1° Il primo problema concerne il vero e proprio concetto di S. ed è
il problema circa la natura dell’esteriorità in generale cioè di ciò che rende
possibile il rapporto estrinseco tra gli oggetti. Finstein nella prefazione ad
un libro storico sul concetto di S. (Max JAMMER, Concepts of Space, 1954) ha
distinto due fondamentali teorie dello S., cioè: a) lo S. come la qualità
posizionale degli oggetti materiali nel mondo; 5) lo S. come il con- tenente di
tutti gli oggetti materiali. A questi due concetti si può aggiungere l’altro,
che lo stesso Einstein ha fondato; c) quello dello S. come campo. a) La prima
concezione è quella dello S. come luogo (v.) cioè come posizione di un corpo
tra gli altri corpi. Lo S. è definito in questo senso da Aristotele come «il
limite immobile che abbraccia un corpo » (Fis., IV, 4, 212a 20): una
definizione che Aristotele riconosce identica con il concetto platonico che
identificava lo S. con la materia (Tim., 52b, Sla). In virtù di questo
concetto, non c’è S. là dove non c’è un oggetto materiale; perciò il teorema
principale di questa teoria dello S. è l’inesistenza del vuoto (cfr.
ARISTOTELE, Fis., IV, 8, 214 b 11). È questa la teoria che prevale
nell'antichità e viene accettata per tutto il Medio Evo anche dagli avversari
di Aristotele (cfr. OckHAM, Summulae physicorum, IV, 20; Quodi., I, 4). Essa
veniva difesa nel Rinascimento da Campanella (De sensu rerum, I, 12) e
accettata e riesposta da Cartesio nei termini della sua geometria. Tra il luogo
e lo S., Cartesio poneva una differenza solo nominale in quanto «il luogo segna
più espressamente la situazione che la grandezza o la figura e in quanto al
con- trario pensiamo più a queste quando parliamo dello S.». Ma le due cose sono
identiche: « Se diciamo che una cosa è in un tal luogo intendiamo solamente che
è situata in tal modo rispetto ad altre cose; ma se aggiungiamo che occupa un
tale S. o un tal luogo, intendiamo inoltre che essa è di una tale grandezza e
di una tale figura che può riem- pirlo esattamente» (Princ. Phil., II, 14).
Cartesio conseguentemente negava l’esistenza del vuoto (/bid., II, 16); come la
negava Spinoza che condivideva la stessa concezione dello S. (Ez., I, 15,
scol.). Leibniz a sua volta difendeva questa concezione contro Newton e i
newtoniani. «Se lo S. è una proprietà o un attributo, egli diceva, dev’essere
la proprietà di qualche sostanza. Lo S. vuoto limitato, che i suoi sostenitori
suppongono tra due corpi, di quale sostanza sarebbe la proprietà o l’affe-
zione? » (IV° Lettre à Clarke, 8; Op., ed. Erdmann, pag. 756). Ma la vecchia
concezione trovava in Leibniz una nuova e felice espressione: l’espres- sione
in termini della nozione di ordine, che doveva rimanere classica. « Io ritengo
lo S., diceva Leibniz (polemizzando contro Newton e i newtoniani) come qualcosa
di puramente relativo, allo stesso modo del tempo cioè come un ordinè delle
coesistenze, al modo in cui il tempo è un ordine delle successioni. Giacchè lo
S. contrassegna in termini di possibilità un ordine di cose che esistono nello
stesso tempo, in quanto esistono insieme, senza entrare nei loro modi di
esistere» (///° Lettre à Clarke, 4; Op., ed. Erdmann, pag. 752). La definizione
di Leibniz veniva ripresa da Wolff (Ontol., $ 589), e da Baum- garten (Mer., $
239). Kant stesso nei primi scritti la difende e dichiara di abbandonarla
soltanto nel 1768 nello scritto Su/ primo fondamento della distinzione delle
regioni nello spazio. In questo scritto egli dichiara insufficiente la
concezione dello S. come ordine delle coesistenze: « Le posi- zioni delle parti
dello S. in relazione tra loro, egli dice, presuppongono la regione secondo la
quale esse sono ordinate in tale relazione; e intesa nel modo più astratto la
regione non consiste nella relazione che una cosa ha con un’altra nello S. (il
che propriamente costituisce il concetto di posi- zione) ma nel rapporto del
sistema di queste posi- zioni con lo S. cosmico assoluto ». Tuttavia, la
concezione posizionale dello S. non viene mai completamente abbandonata dal
pensiero filosofico posteriore. Essa sembra presupposta, per quanto può
rilevarsi dal carattere generico e confuso dei concetti adoperati, dalle teorie
idealistiche dello S. (v. oltre). Ed ha trovato una difesa energica e e che
questo S. è infinito (F7., 38-40, Diels). Epicuro ereditò questa concezione
(Lettera a Erodoto; cfr. Dioc. L., X, 67), che veniva difesa da Lu- crezio Caro
(De nat. rer., I, 950 sgg.). La stessa concezione dello S. era condivisa dagli
Stoici, in particolare da Zenone (Diog. L., VII, 140). Obliterata per lungo
tempo dalla concezione ari- stotelica, questa dottrina torna a riaffacciarsi
nel Rinascimento. Telesio afferma che lo S. deve poter essere il ricettacolo di
qualsiasi cosa, in modo tale che sia che le cose gli siano dentro, sia che se
ne allontanino, esso rimanga identico e accolga pron- tamente tutte le cose che
si succedono in esso e sia nello stesso tempo tanto grande quanto lo sono le
cose che vi trovano posto. Lo S. è quindi infinito e incorporeo: l’esistenza del
vuoto è un fatto di esperienza (De rer. nat., I, 25). L'infinità dello S.
veniva nello stesso senso difesa da Giordano Bruno (De l’infinito, universo e
mondi, I). Questa concezione dello S. prevalse nella scienza per opera di
Newton. Diceva Newton: « L’asso- luto S., per sua natura propria, senza
relazione a qualcosa di esterno, rimane sempre simile ed im- mobile. Lo S.
relativo è la dimensione mobile o la misura dello S. assoluto; e i nostri sensi
lo deter- minano mediante la sua posizione rispetto ai corpi ed è spesso
scambiato per lo S. immobile; tale è la dimensione di un sotterraneo, uno S.
aereo ce- leste, determinato dalla sua posizione rispetto alla terra. Lo S.
assoluto e relativo sono identici in figura e grandezza ma non rimangono sempre
nu- mericamente gli stessi. Perchè se la terra, ad es., si muove, uno S. della
nostra aria il quale, relati- vamente, rispetto alla terra, rimane sempre lo
stesso, sarà, ad un dato tempo, parte dello S. assoluto che l’aria attraversa e
ad un altro tempo sarà un’altra parte dello stesso S. » (Philosophiae naturalis
principia mathematica, 1687, I, def. 8, scol.). La polemica di Leibniz contro
questa dottrina non valse a impedirne il successo. Circa un secolo dopo Eulero
diceva: « Supponiamo che tutti i corpi, che si trovano ora nella mia camera,
compresa l’aria, siano annientati dall’onnipotenza divina. Otter- remo allora
uno S. che, pur avendo la stessa lun- ghezza, larghezza e profondità di prima,
non con- tiene più alcun corpo. Ecco dunque, quanto meno, la possibilità di
un’estensione che non è un corpo. Un simile S. senza corpo è chiamato vuoto: un
vuoto è dunque un’estensione senza corpo + (Lettres d une Princesse
d°Allemagne, 69, del 21-x-1760; trad. ital., pag. 228). Si è già visto come la
nozione newtoniana dello S. abbia finito per prevalere (forse per influenza
dello stesso Eulero) nella dot- trina di Kant. Essa prevalse allo stesso modo
in tutta la fisica dell’800 per quanto incontrasse fre- quenti critiche quella
parte di essa che si riferisce allo S. assoluto. Clerk Maxwell affermava che «
tutta la nostra conoscenza, sia del tempo che dello S., è essenzialmente
relativa » (Matter and Motion, Dover publ., pag. 12). Mach parlava della
«mostruo- sità concettuale dello S. assoluto » (Die Mechanik in ihrer Entwicklung,
1883; 78 ediz., 1921, pag. X). Questa teoria dello S. fu tuttavia assunta o
pre- supposta dalla fisica sino ad Einstein. c) La terza concezione
fondamentale dello S. è quella che Einstein ha fatto prevalere nella fisica
contemporanea. A prima vista, e specialmente con- siderando soltanto la
relatività speciale, la dottrina einsteiniana dello S. costituisce un ritorno
alla teoria classica dello S. come posizione o luogo. Dice Einstein a questo
proposito: « Il nostro S. fi- sico, così come lo concepiamo per il tramite
degli oggetti e del loro moto, possiede tre dimensioni e le posizioni vengono
caratterizzate da tre numeri. L’istante in cui si verifica l'evento è il quarto
nu- mero. Ad ogni evento corrispondono quattro nu- meri determinati ed un gruppo
di quattro numeri corrisponde ad un evento determinato. Pertanto il mondo degli
eventi costituisce un continuo quadri- mensionale » (ErsTEIN-INFELD, The
Evolution of Physics, III; trad. ital., pag. 217). In questo con- cetto di S.,
la novità sembra costituita esclusiva- mente dall’aggiunta della coordinata
temporale alle coordinate con cui Cartesio definiva lo S. stesso. sia la
materia (ponderabile o imponderabile) sia lo S.» (M. K. MUNITZ, Space, Time and Creation, 1957, VII, 1;
trad. ital., pa- gina 112-13). Paradossalmente,
perciò, la più ag- giornata concezione dello S. non è che la rinuncia implicita
al concetto di S. e l’avviamento all’uso di altri concetti, meno legati ad
astrazioni tradi- 823zionali e più adatti a descrivere i risultati della
osservazione. 2° Il problema della realtà dello S. ha dato luogo a tre
differenti soluzioni: a) la tesi della realtà fisica o teologica dello S.; 5)
la tesi della soggettività dello S.; c) la tesi che lo S. è indifferente al
problema della realtà o irrealtà. a) La tesi della realtà fisica o teologica
dello S. è propria della filosofia antica. Sia che concepis- sero lo S. come
luogo o posizione, sia che lo conce- pissero come recipiente, gli antichi
credevano alla realtà dello S. e lo ritenevano un elemento o una condizione del
mondo oppure un attributo di Dio. Mentre per Platone, per Aristotele e per gli
Epicurei lo S. è un costituente del mondo, per i Neoplato- nici diventa Dio
stesso. Questa concezione è attri- buita da Sesto Empirico ai Peripatetici: «
Sembra che per i Peripatetici, il primo Dio è il luogo di tutte le cose.
Infatti, secondo Aristotele, il primo Dio è il limite dei cieli.. E dal momento
che il limite dei cieli è il luogo di tutte le cose dentro i cieli, Dio sarà il
luogo di tutte le cose» (Adv. Mathem., II, 33). La filosofia giudaica
alessandrina fa sua questa concezione, che ricorre ancora nei libri della
Kabala. Nel sec. xvi fu accettata da Campanella (De sensu rerum, I, 12); da
Henry More (Enchiridion Metaphysicum, 1, 8) e da Spinoza che concepì
l’estensione come un attributo di Dio ed affermò pertanto che « tutto ciò che
è, è in Dio » (Et., I, 15). Newton stesso parlò dello S. come del sensorium
cioè dell'organo mediante il quale Dio muove le cose (Opticks, III, q. 31;
Dover publ., pag. 403): un concetto che fu a lungo criticato da Leibniz nelle
sue lettere a Clarke e fu accettato nel sec. xvIn da parecchi scrittori
compreso lo stesso Clarke. Come ultima manifestazione di questo punto di vista
si può considerare la dottrina di S. Alexander, secondo la quale lo S. e il
tempo sono la sostanza stessa dell’universo e di Dio e stanno tra loro nello
stesso rapporto in cui il corpo è con lo spirito. Da questo punto di vista, lo
S. infatti sarebbe il « corpo » dell’intera realtà, quindi di Dio stesso che è
al culmine della realtà (Space Time and Deity, 1920). b) La tesi della
soggettività dello S. fu avan- zata per la prima volta da Hobbes che definì lo
S. come « l’immagine della cosa esistente in quanto esistente cioè in quanto
non si considera di essa altro accidente se non il suo apparire al di fuori del
soggetto immaginante » (De Corp.). L’analisi che Locke fece dello S. come di
un’idea complessa di modo ha anch’essa per presupposto la riduzione dello S. a
un’idea (Saggio, II, 13, 2): riduzione che è ancora più radicale in Berkeley,
per la polemica che egli conduce contro il concetto newtoniano dello S.: « La
considerazione filosoficaè una percezione ma una «intuizione a priori» o
«intuizione pura» cioè la condizione di ogni possibile intuizione esterna. Così
inteso esso corrisponde esattamente allo «S. assoluto » di Newton: questo era
inteso dallo stesso Newton come il sensorio di Dio; da Kant è inteso come il
sensorio del soggetto conoscente, cioè la condizione assoluta della possibilità
degli oggetti esterni. Nella filosofia moderna e contemporanea la tesi della
soggettività dello S. assume la forma del carattere . apparente o illusorio
dello S. stesso. Idealismo e spiritualismo insistono su questa tesi. Già Hegel
affermava che « Lo S. è una mera forma, cioè un’astrazione, e cioè quella della
esteriorità immediata » (Enc., $ 254): il che tuttavia non gli impediva di
cercare una dimostrazione razionale della necessità delle tre dimensioni dello
S. (/b., $ 255). L’idealismo di ispirazione hegeliana consi- dera lo S. una
semplice apparenza (cfr. BRADLEY, Appearance and Reality, 1893; GENTILE, Teoria
generale dello spirito, 1916, cap. IX). E lo spiritua- SPAZIO VITALE lismo si
mette sulla stessa via vedendo, con Bergson, per una soluzione po- sitiva di
questo problema, optando i più di essi per la geometria euclidea, il carattere
provvisorio e parziale di queste risposte mostra, meglio di ogni altra cosa,
l'impossibilità di risolvere la questione e avvia perciò all'adozione del punto
di vista che prescinda da essa. Si può allora affermare che sol- tanto motivi
di opportunità scientifica suggeriscono l’uso di un particolare schema
geometrico per la descrizione di un determinato campo di fenomeni. Dice M. K.
Munitz a questo proposito: « Potrà es- sere più conveniente e fecondo usare uno
schema metrico piuttosto che un altro, ma non possiamo dire che sono i fatti a
spingerci a farlo. Il problema è questo: l’adozione di un valore particolare
per la curvatura, preso in congiunzione con il resto della teoria, ci permette
di fare inferenze corrette da dati fatti ad altri fatti? Nella misura in cui
l’esattezza nell’ambito dei fatti osservabili inferiti, è maggiore quando sono
stabiliti mediante una teoria con la sua metrica associata piuttosto che con
altre teorie, in quella misura possiamo dire che ‘la metrica dell’universo è
così e così ”. Quest’ultima espressione tuttavia non è che una maniera
sbrigativa di accen- nare alla superiorità relativa di una data teoria o
modello dell’universo » (Space Time and Creation, VII, $ 4; trad. ital., pag.
133). SPAZIO VITALE. V. Campo. SPECIE (gr. el3oc; lat. Species; ingl. Kind,
Species; franc. Espèce; ted. Art, Species). 1. Un concetto in quanto è parte o
elemento di un altro concetto. In questo senso la parola fu comunemente adoperata
da Platone (cfr. Sof., 235d, Teer., 178 a, ecc.) e da Aristotele (Mer., X, 7,
1057b 7; Car. 2b 7, ecc.). Ed in questo senso la nozione di S. fu illustrata
nell’Isggoge di Porfirio, che ne dà la definizione seguente: « La S. è ciò che
è situato sotto il genere e a cui il genere è attribuito essenzial-
SPECULAZIONE mente ». Porfirio aggiunge: «La S. è l’attributo che si applica
essenzialmente a una pluralità di termini che differiscono specificamente tra
loro + osservando però che quest’ultima definizione si applica solo alla «S.
specialissima » che precede immediatamente l’individuo, per es., al concetto di
uomo (/sag., 4, 10 sgg.). Il concetto di S. è rimasto in questo senso immutato
in tutta la logica tradi- zionale, sino a quando, con l’affermarsi della logica
matematica, è stato sostituito dal concetto di classe (v.). Nel dominio della
biologia, il termine ha avuto, per un certo tempo, un significato
corrispondente a quello ora descritto, intendendosi per S. un tipo biologico
ben definito da caratteristiche ereditarie, in quanto subordinato a un altro
tipo più esteso (genere). Ma nella biologia contemporanea i concetti di genere
e S. hanno perso ogni riferimento ai signi- ficati tradizionali e per S.
s’intende semplicemente una classe d’individui i cui accoppiamenti dànno luogo
a individui fertili; il che non accade per ibridi nati da accoppiamenti tra
individui apparte- nenti a S. diverse (C. PINCHER, Evolution, 1950, pag. 21;
KaLMus, Variation and Heredity, 1957, pag. 29). 2. Lo stesso che idea nel senso
platonico (v. IDEA). 3. Lo stesso che forma nel senso aristotelico (v. FORMA).
4. In relazione con il significato 3 e nel linguag- gio della scolastica
medievale la S. è l’intermediaria della conoscenza: cioè l’oggetto proprio
della sen- ce della similitudine, che farebbe da intermediaria tra l’oggetto e
la potenza conoscitiva umana, domina il periodo classico della scolastica: è
accettata da Bonaventura (/n Sent., II, d. 39, a. 1, q.2) e da Duns Scoto (Op.
Ox., I, d.3, q.7, n. 2, 3, 20). Ma essa venne abbandonata dalla scolastica del
sec. xIv. Durando di Pourcain (In Sent., II, d.3, q. 6, n. 10) e Pietro Aureolo
(In Sent., I, d.9, a. 1) negano senz’altro l’esistenza della S. e affermano che
l’oggetto della conoscenza è la cosa stessa. Questa dottrina è ribadita da
Ockham con molta energia e con l’argomento che se la S. fosse l’oggetto
immediato del conoscere la conoscenza non sarebbe conoscenza dell’oggetto ma
della sua immagine, al modo in cui la statuadi Ercole non condurrebbe alla
conoscenza di Ercole nè permetterebbe di giudicare della sua somiglianza con
lui, se non si conoscesse Ercole stesso (/n .Senz., II, q.14, T). Il punto di
vista che ha permesso a questi scolastici di abbandonare la nozione della S. è
quello della in- tenzionalità (v.) del conoscere, per la quale l’atto del
conoscere è un rapporto con l'oggetto in persona. Tuttavia, la dottrina
cartesiana dell'idea come og- getto immediato della conoscenza si può conside-
rare, sotto un certo rispetto, come la ripresa della nozione scolastica della
S. (v. IDEA). SPECIFICAZIONE (ingl. Specification; fran- cese Spécification;
ted. Spezifikation). Kant ha chia- mato «legge trascendentale di S.» la regola
che «impone all’intelletto di cercare sotto ogni specie che ci viene innanzi un
certo numero di sottospecie e per ogni differenza un certo numero di differenze
minori + (Crit. R. Pura, Appendice alla Dialettica trascendentale). Questa
legge ha il suo corrispon- dente simmetrico in quella della omogeneità (v.)
secondo la quale il molteplice va continuamente riportato sotto generi
superiori; ed entrambe queste leggi poi confluiscono in quella della affinità
(v.) di tutti i concetti che permette il passaggio continuo da un concetto
all’altro (/bid.). Il principio della S. fu chiamato da Hamilton « Legge di
eterogeneità + {v. OMOGENEITÀ). Kant parlò pure di una «legge della S. della
natura » secondo la quale la natura « specifica le sue leggi generali secondo
il principio di una finalità relativa alla nostra facoltà di conoscere. Ma
questa legge appartiene alla sfera del giudizio riflettente cioè non è
costitutiva della natura ma semplicemente prescrive una regola per la sua
interpretazione» (Crit. del Giud., Intr., in se stessa, sicchè la felicità è
una specie di S.+ (Er. Nic., X, 8, 1178 b 28). Questa esaltazione della S. che
costituisce uno dei modi fondamentali d’intendere la funzione della filosofia
(v.) fu ereditata soprattutto dal misticismo neoplatonico. Plotino ridusse alla
S. ogni altra attività e affermò che la stessa generazione delle cose naturali
è S.: s’intende, S. di Dio (Enn., III, 8, 5). Dal misticismo medievale la S.
viene identi- ficata con la contemplazione, che è il grado più alto dell’ascesa
mistica prima dell’estasi (cfr. Ric- CARDO DI SAN VITTORE, De Contemplatione,
I, 3); ma S. Tommaso la identifica con la meditazione che è il grado precedente
(S. 7A., II, 2, q. 180, a. 3, ad 2°). In tutti questi usi tuttavia il
significato di contemplazioe il terzo momento della dialettica, cioè il momento
della sintesi nel quale si ha «l’unità delle determinazioni nella loro
opposizione +. Questa unità significa che « la filosofia non ha da fare con
mere astrazioni o con pensieri formali, ma solamente con pensieri concreti »
cioè con pensieri che sono nello stesso tempo realtà vere e proprie (/bid., $
82). Inoltre è proprio della filosofia speculativa la dimo- strazione della
necessità dei suoi oggetti (Enc., $ 9). SPERANZA Sicchè l’aggettivo speculativo
rimane a indicare per Hegel il punto di vista che considera la realtà come
razionalità, la razionalità come reale, ed entrambe come necessità. L’aggettivo
che Kant adoperava a designare ciò che è al di là dell’espe- rienza possibile,
quindi della conoscenza effettiva, viene adoperato da Hegel per designare la
cono- scenza effettiva che, in quanto tale, è al di là dell’esperienza e delle
separazioni che in essa appaiono. I significati di S. e di speculativo sono
rimasti fissati da questa alternativa. S’intende per S. una conoscenza che non
trova fondamento o giusti- ficazione nell’esperienza o nell’osservazione; e
questo è da un lato motivo per dichiarare illusoria o chimerica una tale
conoscenza, dall’altro (ma sempre più raramente) motivo per ritenerla su-
riore. SPERANZA (ingl. Hope; franc. Espérance; ted. Hoffnung). 1. Una delle
emozioni fondamentali (v. EMOZIONE). 2. Una delle virtù teologali (v. VIRTÙ).
SPERIMENTALE (ingl. Experimental; fran- cese Expérimental; ted. Experimentell).
L'aggettivo ha significati analoghi a quelli del corrispondente sostantivo e
cioè designa: 1° ciò che fa uso dell’espe- rimento cioè dell’osservazione
controllata. In tal senso si dice: « scienze S.+, « medicina S.+ (cfr. il
titolo dell’opera famosa di C. BERNARD, /ntroduction à l’étude de la médecine
expérimentale, 1865), ecc.; 2° ciò che fa uso dell’esperienza e in tal caso
l’ag- gettivo è equivalente ad empirico. SPERIMENTALISMO (inglese Experi-
mentalism; franc. Expérimentalisme; ted. Experi- mentalismus). Altro nome del
pragmatismo o dello strumentalismo. In Italia il termine è stato adottato da A.
Aliotta per designare la dottrina seguente: «Il solo fatto concreto,
verificabile di cui possiamo parlare è l’esperienza più o meno cosciente che un
individuo ha del mondo. Non ha senso discutere di elementi di dati, prima o
fuori di questa sintesi + («Il mio S.», 1929, in // nuovo positivismo e lo S.,
1954). SPIEGAZIONE (ingl. Explanation, Explica- tion; franc. Explication; ted.
Erklarung). In gene- rale, ogni procedimento diretto a determinare il perchè di
un oggetto, a rendere un discorso o una situazione chiara e accessibile
all’intendimento o a eliminare da una situazione difficoltà e conflitti. Il
termine già usato da Cicerone in questo senso (De Fin.; De nat. deorum, III,
24, 62; ecc.) fu ripreso da Cusano nel senso di mani- festazione: « Dio è la
complicazione di tutte le cose perchè tutte le cose sono in lui; ed è
l’esplicazione di tutte le cose in quanto egli è in tutte le cose» (De docta
ignor., II, 3). Sotto la metafora dello SPIEGAZIONE « spianare +, « distendere
» o « rendere esplicito », il termine nasconde tuttavia una molteplicità di si-
gnificati che si possono distinguere tra loro a se- conda delle situazioni cui
fanno riferimento. Si ha allora che: 1° nei confronti di un termine, spiegare
signi- fica determinare il significato del termine, cioè interpretarlo (v.
INTERPRETAZIONE); 2° nei confronti di un enunciato analitico, spiegare
significa sostituire all’enunciato in que- stione un enunciato meno vago o più
esatto o, dove è possibile, proprio di un linguaggio formaliz- zato (CARNAP,
Meaning and Necessity, $ 2); 3° nei confronti di una situazione umana di
conflitto, spiegare significa eliminare le cause o i motivi del conflitto
stesso; 4° ilosofica e scientifica (v. CAUSALITÀ); e cioè: a) il concetto della
causalità come deducibilità; b) il concetto della causalità come uniformità.
Poichè entrambi questi due concetti della causalità pretendono di rendere
possibile una previsione infallibile, per schema di S. causale si può intendere
in generale ogni tecnica che consente la previsione infallibile di un oggetto.
Ma poichè la previsione infallibile è possibile solo quando si tratta di
oggetti necessari, cioè tali che non possono non essere o non possono essere
di- versamente da come sono, la S. causale è in ogni caso la dimostrazione
della necessità del suo og- getto. Da questo punto di vista affermare «x è
stato spiegato » significa affermare «x è stato di- mostrato nella sua
necessità » e perciò «x era in- fallibilmente prevedibile ». Su questa base
comune, si possono distinguere: «@) la tecnica esplicativa causale che fa
appello alla deducibilità; 5) la tec- nica esplicativa causale che fa appello
all’uniformità. a) La tecnica esplicativa che fa appello alla deducibilità è
quella della metafisica classica e in primo luogo di Aristotele. Per quanto
Aristotele abbia distinto quattro specie di cause, egli rico- 827 nosce agli
effetti della S., il primato della causa finale come ragion d’essere o sostanza
o forma del- l’oggetto (De Part. An., I, 1, 639 b, 14; 642 a, 17; cfr.
CausALITÀ). La S. finalistica è, da questo punto di vista, la prima e
fondamentale; e coincide con quella che con termini moderni si chiama S. gene-
tica giacchè questa fa appello alla causa efficiete, che in ultima analisi
coincide con la causa finale. In questo senso, la S. causale si identifica con
la dimostrazione (v.) in quanto è dimostrazione della necessità. E Hegel non
faceva che ripetere su questo punto l’insegnamento di Aristotele quando affer-
mava essere compito della filosofia speculativa «la dimostrazione della
necessità» e vedeva in questa sola l’appagamento del bisogno proprio della ra-
gione. Ma questo concetto della S. non è soltanto proprio della metafisica: è
stato frequentemente riferito alla scienza stessa. E. Meyerson mentre
affermava, contro l’analisi positivistica della scienza, che la scienza non
cerca solo la previsione ma la S. dei fenomeni, riduceva la S. stessa
all’identi- ficazione, perchè solo l’identificazione permette la deduzione del
fenomeno. «Noi dobbiamo, egli dice, in virtù della causa o ragione e con
l’aiuto di una pura operazione di ragionamento, poter concludere al fenomeno. È
ciò che si chiama una deduzione. La causa, allora, può definirsi come il punto
di partenza di una deduzione di cui il fenomeno è il punto di arrivo » (De
l’explication dans les sciences, 1927, pag. 66; cfr. Identité et realité,
1908). D'altronde lo stesso positivismo aveva assegnato la S. al dominio della
deduzione. Dice Stuart Mill: « Si dice che un fatto individuale è spiegato
quando si indica la sua causa cioè la legge o le leggi di causazione di cui la
sua produ- zione è un esempio... E similmente una legge o uniformità di natura
si dice spiegata quando si inon, 1965, pag. 247 sgg.). Questa dottrina della S.
è pole- micamente orientata contro la riduzione della S. a princìpi o elementi
familiari, alla quale invece fanno ricorso i seguaci del secondo tipo di S.
causale (/bid., pag. 257). Questa stessa dottrina è stata estesa da Hempel al
campo della storia (« The Function of General Laws in History +, 1942; ora nel
vol. cit. pag. 231-243): ed Hempel stesso ha insistito sull’esigenza che la S.
causale sia accom- pagnata dalla predizione infallibile del fenomeno spiegato
(/bid., pag. 38). Ma è stato giustamente osservato che la sua intera teoria
della S. può essereadatta alla fisica newtoniana ma è completamente incapace di
dar conto di ciò che si deve intendere per S. nella fisica quantica (N. R.
Hanson, « On the Symmetry between Explanation and Prediction », in The
Philosophical Review, 1959, pag. 349-58). A maggior ragione questo tipo di S.
non può essere ritenuto adeguato nel dominio della storia e in gene- rale delle
scienze che concernono l’uomo (v. oltre). b) Il secondo tipo di S. causale è
quello che ricorre al concetto di causa come uniformità di connessione dei
fenomeni tra loro. È questo il concetto che fu introdotto da Hume e che Comte
pose a base della S. « positiva » dei fenomeni stessi. Comte contrappose al
tentativo metafisico di sco- prire «i modi essenziali di produzione» dei feno-
meni il compito puramente descrittivo della scienza positiva che si limita a
scoprire le /eggi dei feno- meni cioè i loro rapporti costanti (Cours de phil.
po- sitive, 48 ediz., 1887, II, pag. 169, 268, 312, ecc.). Nello stadio
positivo, diceva Comte, «la S. dei fatti, ridotta ai suoi termini reali non è
più che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti
generali di cui il progresso della scienza tende sempre più a diminuire il
numero» (/bid., I, pag. 5). Questo punto di vista ereditava la con-
trapposizione stabilita dagli illuministi, e special- mente da D’Alembert, tra
lo spirito di sistema e la descrizione scientifica della natura. Esso è assai
meno ambizioso dell’altro perchè fa appello non alla deducibilità di un
fenomeno (o della sua descrizione) dalla sua causa (o da un complesso di leggi
generali) ma piuttosto alla uniformità o SPIEGAZIONE costanza del rapporto tra
fenomeni e perciò alla riduzione del fenomeno da spiegare a tali rapporti
costanti. È questo il valore dato, ad es., alla tec- nica esplicativa causale
da P. W. Bridgman: « L’es- senza di una S. causale consiste nel ridurre una
situazione ad elementi a noi talmente familiari che possiamo accettarli come
cosa ovvia e spegnere la nostra curiosità. Ridurre una situazione in ele- menti
significa, dal punto di vista operativo, scoprire correlazioni familiari tra i
fenomeni di cui la situa- zione è composta » (The Logic of Modern Physics,
1927, cap. II; trad. ital., pag. 50). In senso analogo R. B. Braithwaite ha
detto: « Quando si chiede la causa di un evento particolare, ciò che si
richiede è la specificazione dell’evento precedente o simul- taneo, il quale,
in congiunzione con alcuni fattori causali che hanno natura di condizioni
permanenti, è sufficiente a determinare l’accadimento dell’evento da spiegare
in accordo con una legge causale, in uno dei significati consuetudinari di
legge causale + (Scientific Explanation, 1953, pag. 320). Poichè per leggi
causali Braithwaite intende le generalizza- zioni empiriche le quali
asseriscono concomitanze di successione o di simultaneità (/bid., cap. IX), una
S. che sia «conforme a una legge causale » è una S. che fa riferimento ad
un’uniformità empi- ricamente constatata. Questo punto di vista si trova
variamente ripetuto nella filosofia contemporanea anche se non sempre viene
nettamente distinto da quello precedente. B) Le tecniche esplicative causali,
sia quella fondata sulla dati. Un'ipotesi trascendentale in cui, per la S.
delle cose naturali, si adoperasse una semplice idea della ragione, non sarebbe
affatto una S., perchè ciò che non s’intende abbastanza con princìpi empirici
sarebbe spiegato con qualcosa di cui non s'intende addirittura nulla » (Crit.
R. Pura, Dottr. del metodo, cap. I, sez. 3). Ma è soprattutto nel campo della
metodologia sto- rica che questo tipo di S. è stato elaborato, e il primo a
introdurlo in modo esplicito è stato Max Weber. «La considerazione del
significato causale di un fatto storico, egli scriveva, comincerà innanzitutto
con la questione seguente: se escludendolo dal complesso di fattori assunti
come condizionanti oppure mutandolo in un determinato senso, il corso degli
avvenimenti avrebbe potuto, in base alle re- gole generali dell’esperienza,
assumere una dire- zione in qualche modo diversamente configurata, nei punti
decisivi per il nostro interesse». Se si può rispondere di sì a questa domanda,
il fatto in questione sarà da considerare uno dei fattori condizionanti del
processo storico; se si risponde di no, sarà da escludere da tali fattori
(Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906, II;
trad. ital., in // metodo delle scienze storico-sociali, pag. 223). La moderna
metodologia della storia è unanime nell’abbandono degli schemi di S. causale e
nell’accettazione di uno schema condizionale, per quanto esso sia variamente
confi- gurato dai singoli metodologi. Quando K. Popper osserva alla dottrina di
Stuart Mill sulla natura della S. che « Mill e i suoi compagni storicisti non
consi- derano che le tendenze generali dipendono dalle condizioni iniziali e
trattano tali tendenze come se fossero leggi assolute », mentre la spiegazione
deve tener conto, per quanto è possibile delle « condizioni nelle quali esse
persistono » (The Poverty of Histo- ricism, 1944, $ 28) egli cerca di
trasformare lo schema causale in uno schema condizionale. Ma la migliore
formulazione dello schema condizionale, in riferimento all’uso che se ne può
fare nelle di- scipline storiche, può essere forse considerata quella di W.
Dray. «L'esigenza della S., dice Dray è, in alcuni contesti, sufficientemente
soddisfatta se si mostra che ciò che è accaduto era stato possibile e non c'è
bisogno di mostrare inoltre che esso era necessario. Per quanto, spiegare una
cosa, come il professor Toulmin dice, significa spesso ‘ mostrare che essa
poteva essere attesa” [The Place of Reason in Ethics, 1950, pag. 96], il
criterio appropriato per un’importante dominio di casi è più largo di questo;
per spiegare una cosa basta, talvolta, mo- strare che essa non doveva causare
sorpresa » (Laws and Explanation in History, 1957, pag. 157). Dray contrappone
questo schema esplicativo che egli chiama del come-possibilmente (how-possibly)
a quello causale del perchè-necessariamente (why- necessarily) in quanto i due
schemi sono logica- mente diversi e rispondono a due specie diverse di domande
sicchè «nel caso della spiegazione come-possibilmente esigere un insieme di
condizioni sufficienti, sarebbe mutare la questione» (/bid., pag. 169). Questo
punto di vista che è stato ela- borato nei confronti delle discipline storiche
è tuttavia egualmente adatto ad intendere la natura della S. che ricorre ora
nell’ambito delle scienze 829 naturali e specialmente della più avanzata di
esse che è la fisica quantica. Mancando anche in questa, con la condizione
della prevedibilità infallibile, la connessione causale necessitante, l’unico
schema possibile di S. è quella condizionale che si limita a determinare Ja
possibilità dell’explanandum. In tal senso, si può dire che la S. è la
determinazione della possibilità determinata e controllabile dell’og- getto;
dove determinata significa individuata e ri- conoscibile con un metodo o
procedimento ap- propriato e, talvolta, misurabile secondo uno schema di
probabilità; e controllabile significa ripetibile in condizioni adatte
(ABBAGNANO, Possibilità e li- bertà, 1957, VI, $ 4-5; Problemi di sociologia,
1959, VIII, $ 1-5). È da osservare infine che Jo stesso procedimento della S.
logica, quale è stato descritto da Carnap e Reichenbach cade sotto la categoria
della S. condi- zionale. Secondo Carnap, la S. consiste nel sostituire a un
termine originario chiamato explicandum, che è un concetto vago o familiare, un
nuovo concetto esatto, che Carnap chiama explicatum e Reichenbach explicans.
Posto ciò, una S. consiste, secondo Rei- chenbach, nel determinare il significato
del termine e il significato si riduce a una possibilità o logica o fisica o
tecnica, ma in ogni caso ad una possi- bilità (REICHENBACR, « Verifiability
Theory of Mea- ning », in Proceedings of the American Academy of Arts and
Sciences, 1951, pag. 46 sgg.; CARNAP, Meaning and Necessity, $ 2) (v.
PossiBILE; SIGNIFI- CATO; VERIFICAZIONE). SPINOZISMO (ingl. Spinozism; franc.
Spino zisme; ted. Spinozismus). La dottrina di Benedetto Spinoza (1632-77) nei
punti salienti che la tradi- zione storica le ha riconosciuti e che possono
essere riassunti così: 1° l’unicità della sostanza del mondo e la sua
identificazione con Dio, per la quale Spi- noza indica la sostanza stessa con
l'espressione « Deus sive natura »; 2° l’ateismo o come altri dice (con Hegel)
l’acosmismo (v.) secondo il quale Dio è il principio e l’ordine del mondo; 3°
il necessi- tarismo, secondo il quale tutte le cose derivano con assoluta
necessità dalla sostanza divina; 4° il geometrismo cioè l’affermazione del
carattere geo- metrico della necessità cosmica, sulla quale si mo- della il
metodo geometrico della filosofia; 5° la riduzione della libertà umana al
riconoscimento e all’accettazione della necessità dell'ordine cosmico; 6° la
difesa della libertà filosofica e religiosa del- l’uomo fondata sulla riduzione
della fede religiosa all’obbedienza (v. FEDE). SPIRITI ANIMALI O VITALI. V.
PNEUMA. SPIRITISMO (ingl. Spiritism; franc. Spiritisme; ted. Spiritismus). La
credenza in fenomeni mentali o naturali che non si lasciano spiegare nel modo
ordinario o scientifico e siano da attribuirsi all’azione di spiriti, siano
essi anime di defunti o potenze angeliche o demoniache (v. METAPSICHICA).
SPIRITO (ingl. Mind, Spirit; franc. Esprit; ted. Geist). Si possono distinguere
i seguenti si- gpificati: 1° L’anima razionale o l'intelletto (v.)in generale;
questo è il significato prevalente nella filosofia mo- derna e contemporanea e
nel linguaggio comune. 2° Lo pneuma (v.) o soffio animatore, ammesso dalla
fisica stoica e da essa passato a varie dottrine antiche e moderne. Questo è il
significato originario del termine dal quale tutti gli altri sono derivati.
Ancora questo significato rimane nelle espressioni in cui S. sta per «ciò che
vivifica». Kant usò il termine in questo senso nella sua teoria estetica. «S.,
egli disse, nel significato estetico è il principio vivificante del sentimento.
Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è
ciò che conferisce slancio finalistico alla facoltà del sentimento e la pone in
un giuoco che si ali- menta di sè e fortifica le facoltà stesse da cui ri-
sulta » (Crir. del Giud., $ 49; Antr., $ 71 b). In questo senso la parola S. è
rimasta nell’uso corrente in cui viene talora contrapposto alla «lettera», per
indicare ciò che dà vita o, fuor di metafora, il si- gnificato autentico di
qualcosa. In questo senso venne anche adoperata da Montesquieu nel titolo della
sua opera Lo S. delle leggi. 3° Le sostanze incorporee cioè gli angeli, i
demoni e le anime dei defunti. In questo senso Locke adoperava la parola spirit
(riservando mind a S. nel significato 1°) e diceva: « Eccettuando alcune
pochissime idee che otteniamo mediante la riflessione e tutto ciò che possiamo
mettere insieme da esse circa il Padre di tutti gli S., l’eterno e in-
dipendente autore di essi e nostro e di tutte le cose, persino dell’esistenza
di altri S. non abbiamo in- formazione certa se non per via di rivelazione »
(Saggio, IV, 3, 27). E Kant nei Sogni di un visionario chiariti con sogni della
metafisica intendeva Geist nello stesso senso: « Uno S., si dice, è un essere
che ha la ragione. Non è dunque un dono miracoloso vedere S. giacchè chiunque
vede uomini vede esseri che hanno la ragione. Ma, si prosegue, quest’essere che
nell’uomo ha la ragione è soltanto una parte dell’uomo; e questa parte, che lo
vivi- fica, è uno S.» (7rdume eines Geistersehers, I, 1). Come Locke, Kant è
scettico sull’esistenza dello S. in questo senso e in ogni caso ritiene
impossibile dimostrarla. Anche in questo senso la parola S. è rimasta nell’uso
corrente (v. ANGELI; DEMONE; SPIRITISMO). 4° La materia sottile o impalpabile
che è la forza animatrice delle cose. Questo significato, de- rivato da quello
stoico, si trova frequentemente nei maghi del Rinascimento e soprattutto in
Agrippa SPIRITO (De occulta philosophia, I, 14) e in Paracelso (Meteor., pag.
79 sgg.). 5° Infine, e in rapporto più stretto con il si- gnificato 1° il
termine significa talvolta disposi. zione (v.) o atteggiamento (v.): come nelle
celebri espressioni di Pascal «S. di geometria» e «S. di finezza » e in
espressioni correnti come «S. reli- gioso », « S. sportivo», ecc. Di questi
cinque significati il solo che sia stret- tamente collegato alla problematica
della filosofia moderna è il primo. Fu Cartesio a introdurre e a far valere questo
significato. «Io non sono dunque, precisamente parlando, che una cosa che
pensa, cioè uno S., un intelletto o una ragione, che sono termini il cui
significato mi era prima sconosciuto » (Med., II). E nella risposta alle
seconde obiezioni egli precisa, in forma di definizione, il significato del
termine: «La sostanza nella quale risiede im- mediatamente il pensiero è qui
chiamata spirito. Sebbene questo nome sia equivoco perchè lo si attribuisce
anche talvolta al vento e ai liquori sottilissimi, io non ne conosco affatto di
più propri » (II Rép., def. VI). Sebbene la nozione di sostanza faccia in
quest’espressione cartesiana da interme- diaria tra il nuovo e il vecchio
(sostanza incorporea) significato del termine, l’uso che Cartesio fa di essa
stabilisce piuttosto la sua equivalenza col termine coscienza. Sostanza
pensante o coscienza o intelletto o ragione sono quindi i sinonimi di spirito.
Locke, come si è detto, usava nello stesso senso il termine mind (cfr., ad es.,
Saggio, II, 1, 5). Leibniz diceva a sua volta: «La conoscenza delle verità
necessarie ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci fa avere
la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. È
questo che si chiama in noi anima ra- gionevole o S.» (Mon., $ 29). Berkeley a
sua volta adottò il termine e ne stabilì le equivalenze: « Questo essere attivo
e percipiente è quello che io chiamo mind, spirit, soul (anima) o my self (io)»
(Princi- ples of Human Knowledge, I, $ 2). Come anima, intelletto o io intendeva
il termine Hume (7reatise, I, 4, 2, ed. Selby-Bigge, pag. 207). Queste equiva-
lenze vengono mantenute costantemente nell’uso posteriore del termine: sicchè i
problemi al quale esso dà origine sono quelli connessi con le nozioni di anima,
coscienza, intelletto, ragione e io. Sotto queste voci si troverà l’indicazione
dei problemi ai quali la nozione S. ha dato origine nelle sue diverse
specificazioni. Basti qui solo ricordare che alcuni usi paradossali talora
fatti dalla filosofia contemporanea del termine in questione si ripor- tano in
realtà al sigSCIENZE, ‘CLASSIFI- CAZIONE DELLE). Ad una diversa specificazione
della nozione di S. ha dato luogo solo Hegel con le sue nozioni di S. oggettivo
e di S. assoluto. Mentre per S. sogget- tivo, Hegel intende lo S. finito cioè
l’anima o l’in- telletto o la ragione (lo S. nel significato cartesiano del
termine) (Enc., $ 386), per S. oggettivo egli intende le istituzioni
fondamentali del mondo umano cioè il diritto, la moralità e l’eticità e per S.
assoluto intende il mondo dell’arte, della religione e della filosofia. In
queste due concezioni, lo S. ha cessato di essere attività soggettiva per
diventare realtà storica, mondo di valori. Mentre lo S. oggettivo, è il mondo
delle istituzioni giuridiche, sociali e storiche e culmina nell’eticità che
comprende le tre tezza, che è la Ragione assoluta, come fece Croce (Logica,
1920, pag. 26 sgg.). Anche fuori dell’idealismo tuttavia la nozione dello S.
oggettivo, cioè dello S. come mondo di istituzioni storico-sociali o di valori
istituzionaliz- zati o di forme di vita, ha trovato accoglimento ed
illustrazione. La nozione fu infatti accettata da Dilthey che intese per essa
«la connessione strut- turale delle unità viventi, che si continua nelle
comunità » e criticò l’assolutezza e il dogmatismo che la nozione stessa aveva
assunto in Hegel (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 150; cfr. P. Rossi, Lo
storicismo tedesco contemporaneo, 1956, pag. 104- 105). In questo stesso senso
limitato la nozione fu 831 accettata da E. Spranger, che intese come scienza
dello S. la disciplina che si occupa delle formazioni ultrapersonali o
collettive della vita storica (Lebens- formen, 1914, pag. 7). Fu accettata
altresì da N. Hartmann che considerò lo S. oggettivo come una soprastruttura
che si solleva al di sopra della coscienza come questa si solleva al di sopra
del mondo organico. Allo S. oggettivo apparterrebbero tutte le produzioni
spirituali cioè le lettere, le arti, la tecnica, le religioni, i miti, le
scienze, le filo- sofie, ecc. Esso è il vero protagonista della storia, secondo
Hartmann (Das Problem des geistigen Seins, 1931, pag. 262). AI di sopra dello
S. og- gettivo Hartmann situa poi lo S. vivente che sarebbe l’unità dello S.
oggettivo e della coscienza personale (Ibid., pag. 259). N. Hartmann è certo
ancora molto vicino all’ispiultante di una molteplicità di fattori. Dice
Montesquieu: « Molte cose guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi,
le massime del governo, le tradizioni, i costumi, le usanze; donde si forma uno
S. generale che ne è il risultato » (Esprit des lois, 1748, XIX, 4). Altrove
Montesquieu chiama lo S. nazionale « anima universale » (Mélanges iné- dits,
pag. 160); ma egli era in ogni caso ben lungi da fare di questo concetto una
realtà a sè. Questo passo fu fatto da Hegel che concepì lo S. nazionale come il
vero soggetto della storia: «Lo S. della storia è un individuo che è di natura
universale ma che è determinato cioè, in generale, una nazione; e lo S. con cui
abbiamo a che fare è lo S. della nazione. Gli S. delle nazioni si distinguono
secondo l’idea che essi si fanno di se stessi, secondo la su- perficialità o la
profondità con cui hanno compreso e approfondito ciò che è lo S.» (Philosophie
der Geschichte, ed. Lasson, pag. 36; trad. ital., I, pag. 43). Di volta in
volta un determinato S. nazionale as- sume la figura di « S. del mondo »
(Welfgeist) cioè di guida e di soggetto unico della storia. « Il Welt geist è
lo S. del mondo, come si esplica nella co- scienza umana; gli uomini stanno ad
esso come 832 le realtà singole stanno alla totalità che le sostanzia. E questo
S. del mondo è conforme allo S. divino, che è lo S. assoluto. In quanto Dio è
onnipresente, è presso ogni uomo, appare nella coscienza di ognuno; e ciò è lo
S. del mondo» (/bid., pag. 37; trad. ital., pag. 44). La nozione di S. del
mondo è stata varie volte ripetuta e in generale essa si incontra in ogni
concezione provvidenzialistica della storia (v.). SPIRITUALISMO (ingl.
Spiritualism, Persona- lism; franc. Spiritualisme; ted. Spiritualismus). 1. Si
intende con questo termine ogni dottrina che pra- tichi la filosofia come
analisi della coscienza (v.) o che in generale pretenda desumere dalla
coscienza i dati della ricerca filosofica o scientifica. La pa- rola è stata
messa in voga nel secolo scorso da V. Cousin che nella prefazione all’edizione
del 1853 della sua opera Du vrai, du beau et du bien, così scriveva: « La
nostra vera dottrina, la nostra vera bandiera è lo S., questa filosofia solida
quanto generosa, che comincia con Socrate e Platone, che l’Evangelo ha diffuso
nel mondo, che Des- cartes ha messo nelle forme severe del genio mo- derno, che
è stata nel xvm secolo una delle glorie e delle forze della patria, che è
perita con la gran- dezza nazionale nel sec. xvi, e che al principio di questo
secolo Royer Collard è venuto a riabili- tare nell’insegnamento pubblico mentre
Chàateau- briand e Madame de Staél la trasportavano nella letteratura e
nell’arte... Questa filosofia insegna la spiritualità dell'anima, la libertà e
la responsabilità delle azioni umane, le obbligazioni morali, la virtù
disinteressata, la dignità della giustizia, la bellezza della carità; e al di
là dei limiti di questo mondo, essa mostra un Dio, autore e tipo dell’umanità,
che, dopo averla creata evidentemente per uno scopo eccellente, non
l’abbandonerà nello sviluppo misterioso del suo destino. Questa filosofia è
l’al- leata naturale di tutte le buone cause. Essa sostiene il sentimento
religioso, seconda l’arte vera, la poesia degna di questo nome, la grande
letteratura; è l’appoggio del diritto; respinge ugualmente la de- magogia e la
tirannide; ecc. ». Questo programma dello S., magistralmente delineato da
Cousin, è rimasto proprio di tutte le forme, numerosissime, che questo
indirizzo filosofico ha assunto nella filosofia moderna e contemporanea.
L’appoggio alle «buone cause » cioè ai valori morali, politici, sociali e
religiosi della tradizione è rimasta la co- stante preoccupazione dello S. che,
sotto questo rispetto, ha l'andamento e la natura di una sco/a- stica (v.). Ed
il mezzo con cui lo S. ha cercato di realizzare il suo programma è stato ancora
quello additato da Cousin: il ricorso alla coscienza, cioè alla riflessione
interiore o introspezione per il re- perimento dei dati indispensabili alla
speculazione. SPIRITUALISMO Il ricorso alla coscienza collega, come lo stesso
Cousin vedeva, lo S. all’idealismo romantico; mentre lo S. non condivide con
tale idealismo l’identificazione, propria di esso, della coscienza finita
(umana) con la Coscienza infinita (divina). Come difensore della teologia
cristiana tradizionale (la principale delle sue « buone cause +), lo S. non
accoglie questa identificazione, che puzza di pan- teismo o ateismo (v.). La
figura principale dello S. del secolo scorso è Maine de Biran (1766-1824); la
figura principale delio S. del nostro secolo è Enrico Bergson (1859- 1941). Lo
S. è particolarmente congeniale con la filosofia francese la quale ha desunto
da Montaigne e Pascal la pratica del filosofare come interroga- zione della
coscienza. Ma esso trova in tutti i paesi manifestazioni numerose per quanto
non troppo diverse l’una dall’altra. Le grandi figure della filo- sofia
risorgimentale italiana: Galluppi, Rosmini, Gioberti e Mazzini, si sono
ispirate alla tradizione spiritualistica. In Germania l’opera di Hermann Lotze
ha ispirato e guidato la ripresa dello S. e il Microcosmo di questo autore
costituisce, si può dire, la summa dello S. ottocentesco, difeso in modo
intelligente contro lo scientismo positivistico. Nel mondo contemporaneo,
l’opera di Bergson ha rin- novato lo S. venendo incontro, per quanto è pos-
sibile, alle esigenze della scienza e riproponendo le sue tesi fondamentali nei
confronti di problemi specifici, come quello della libertà, dell'anima, della
vita, della moralità, della religione, ecc. In tutte le sue forme tuttavia lo
S. ha in comune alcune tesi fondamentali, che discendono dal suo concetto della
filosofia come analisi della coscienza e che possono essere ricapitolate così:
1° la negazione della realtà del mondo esterno cioè l’idealismo gnoseologico.
Questa negazione può essere più o meno condizionata o indiretta ma in ultima
analisi è inevitabile perchè una realtà esterna alla coscienza sarebbe, per
definizione, inaccessi- bile a questa e contraddirebbe all’impegno meto- dologico
dello spiritualismo. Pertanto, direttamente o indirettamente, questa dottrina
riduce ogni realtà a oggetto immediato di coscienza; 2° la conseguente
riduzione della scienza a conoscenza falsa o imperfetta o preparatoria. Gli
spiritualisti più avveduti, come Lotze e Bergson, hanno appunto ridotto la
scienza a conoscenza preparatoria; 3° il ritrovamento nella coscienza di dati
adatti a costruire il mondo della natura e il mondo della storia nel loro
carattere finalistico o prov- videnziale; 4° il ritrovamento nella coscienza, e
quindi nel mondo della natura e della storia, di dati adatti a risalite a Dio o
a un principio divino in qualche STATO sua specificazione che si accordi con la
tradizione teologica del cristianesimo; 5° la difesa della tradizione e delle
istituzicetto classico della libertà come causa sui: il che risulta anche
chiaro dalla definizione di Wolff, secondo la quale essa è «il principio
intrinseco per deter- minarsi ad agire » (Psychol. empirica, $ 933). Nello
stesso significato, Kant parlò dell’intelletto come della «S. della conoscenza»
in quanto esso è «la facoltà di produrre da sè rappresentazioni » (Critica
della R. Pura, Logica trascendentale, Introd., I). In questo senso S. si oppone
a ricettività (v.) o pas- sività (v.), mentre è sinonimo di artività; che è il
termine oggi più frequentemente adoperato per indi- care un processo o un
mutamento che è causa sui, cioè che non ha la sua causa fuori di sè. Come
libertà ha inteso la S. anche Heidegger che pertanto l’ha identificata con la
trascendenza in cui consiste la libertà finita dell’uomo: « L'essenza del
se-stesso (l’ipseità), cioè l’essenza di quel se stesso che giace già nel fondo
di ogni S., consiste nella trascendenza... Solo perchè la libertà costituisce
la trascendenza essa si può rivelare, nell’esserci che esiste, come modo
particolare della causalità cioè come auto- causalità » (Vom Wesen des Grundes,
1929, III; trad. ital, pag. 65). 53 — ARBAGNANO, Dizionario di filosofia.
STADIO (gr. otàsuoy; lat. Stadium; ingl. Sta- dium; franc. Stade; ted.
Stadium). L'ultimo dei quattro argomenti di Zenone d’Elea contro il mo-
vimento. Esso può essere espresso nel modo se- guente: Due masse uguali, dotate
di velocità uguali dovrebbero percorrere spazi uguali in tempi uguali. Ma se
due masse si muovono incontro dalle estre- mità opposte dello S., ognuna di
esse impiega a percorrere la lunghezza dell’altra la metà del tempo che
impiegherebbero se una di esse fosse ferma: da ciò Zenone traeva la conclusione
che la metà del tempo è uguale al doppio (ARIST., Fis., VI, 9, 239 b 33).
L'argomento torna a dire che, se si ammette la realtà del movimento, si ammette
l’equi- valenza di un tempo metà al tempo doppio. Vedi ACHILLE; DICOTOMIA;
FRECCIA. STATALISMO (franc. Érarisme). In senso proprio la dottrina che
considera lo Stato come unica fonte del diritto. In senso generico, ogni
indirizzo politico che attribuisce allo Stato fun- zioni o poteri preponderanti
in un qualsiasi campo dell’attività umana. STATICA. V. MECCANICISMO, 1, a).
STATISTICA (ingl. Statistics; franc. Statis- tique; ted. Statistik). La
raccolta e l’interpretazione dei dati numerici in un determinato campo; op-
pure in generale la scienza che ha per oggetto i metodi per la raccolta e
l’interpretazione dei dati numerici. Nata sul terreno dell’osservazione dei
fatti sociali, la S. si è ora estesa a numerosi campi d'indagine e in primo
luogo al dominio della fisica, dapprima per la formulazione di teorie speciali
(la teoria cinetica dei gas) poi per la formulazione delle leggi della meccanica
quantica. Il concetto di legge S. cioè della relativa uniformità della fre-
quenza di un certo evento, quando l’evento stesso è considerato su una scala
numerica abbastanza estesa, è stato per la prima volta formulato dal-
l’astronomo e matento comincia col determinare quali sono le parti e le
funzioni dello S. per procedere poi a determinare le parti e le funzioni
dell’individuo (/bid., IV, 434 e). Questo è un modo di esprimere la priorità
dello S.: la struttura dello S. è la stessa di quella dell’uomo, ma è più
evidente. Aristotele, a sua volta, affer- mava: « Lo S. esiste per natura ed è
anteriore al- l’individuo, perchè, se l’individuo di per sè non è
autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui sono le
altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non
ha bisogno di nulla in quanto basta a se stesso, non è membro di uno S., ma è
una belva o un Dio» (Pol., I, 2, 1253 a 18). Queste considerazioni aristote-
liche sono state ripetute molte volte nella storia della filosofia (cfr., ad
es., S. TOMMASO, De Regi- mine Principum, I; DANTE, De Monarchia, I, 3); ma nel
mondo moderno hanno assunto nuova forza solo per opera del Romanticismo che
insi- stette sul carattere superiore e divino dello stato. Già Fichte diceva: «
Nella nostra età, più che in ogni altro tempo precedente, ogni cittadino con
tutte le sue forze, è sottomesso alla finalità dello S., è completamente
penetrato da esso ed è divenuto suo strumento » (Grundziige des gegenwdrtigen
Zeit- alters, 1806, X). Ma nel modo più semplice ed estremo questa concezione
fu formulata da Hegel, che identificò lo S. con Dio: « L’ingresso di Dio nel
mondo è lo S.: il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza
come volontà. Nel- rfetta, l’autosufficienza e la supremazia asso- luta possono
essere nel modo migliore ricapitolati proprio nella tesi di Hegel: lo S. è Dio.
Non sempre tuttavia la tesi organicistica è stata formulata in modo così
rigoroso ed estremo: il primato ricono- sciuto allo S. rispetto agli individui
e l’autosuffi- cienza dello S. non sempre hanno persuaso a con- siderare lo S.
come Dio stesso; ma sempre hanno portato a considerarlo come qualcosa di
divino, che giustificasse la soggezione degli individui ri- spetto ad esso. Il
fine che ogni concezione organi- cistica si è sempre proposto è stato bene
espresso da O. Gierke: « Solamente dal valore superiore del tutto in confronto
con quello delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e,
se necessario, di morire per il tutto. Se il popolo fosse solo la somma dei
suoi membri e lo S. solo un’istituzione per il benessere dei cittadini, nati e
nascituri, allora l’individuo potrebbe, è vero, esser costretto a dare la sua
energia e la sua vita per lo S., ma non avrebbe alcun obbligo morale di farlo»
(Das Wesen der menschlichen Verbànden, 1902, pag. 34 sgg.). 2° Per la
concezione atomistica o contrattua- listica lo S. è opera umana: non ha dignità
o ca- ratteri che non gli siano stati conferiti dagli individui che l’hanno prodotto.
Fu questa la concezione dello S. propria degli Stoici che lo consideravano res
populi. Dice Cicerone: «Lo S. (res publica) è cosa del popolo e il popolo non è
qualsiasi agglo- merato di uomini riunito in un modo qualsiasi, ma i suoi
membri o le sue parti, ma è l’unità di un patto o di una convenzione e vale
solo nei limiti di validità del patto o della convenzione. Talvolta tuttavia
sul tronco stesso del contrattua- lismo si innestano le esigenze proprie
dell’organi- cismo: così accade, per es., in Rousseau quando afferma che «la
volontà generale non può errare ». Rousseau infatti distingue tra la volontà di
tutti e la volontà generale: « Quella guarda soltanto al- l’interesse comune,
questa guarda all’interesse pri- vato ed è la somma delle volontà particolari;
ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono tra loro e
resta per somma delle dif- ferenze la volontà generale » (Contrat social, II,
3). Per quanto giustificata come semplice somma al- gebrica delle volontà
particolari, la «volontà gene- rale» di Rousseau, con la sua infallibilità,
assomiglia molto alla razionalità perfetta dello S. organico. 3° Le precedenti
due concezioni dello S. hanno in comune il riconoscimento di quello che i giu-
risti oggi chiamano l’aspetto sociologico dello S., cioè il riconoscimento
della realtà sociale di esso, considerato, in primo luogo, come una comunità cioè
un gruppo sociale residente su un determinato territorio. Questo riconoscimento
è stato assunto a fondamento di quella descrizione dello S. che giuristi e
filosofi del sec. xx hanno formulato (quale che fosse il loro concetto
filosofico di S.) e che si esprime dicendo che lo S. ha tre elementi o
proprietà caratteristiche: la sovranità o il potere preponderante o supremo; il
suo popolo e il suo territorio. Questi tre aspetti o elementi venivano
illustrati e descritti singolarmente e indipendente- mente l’uno dall’altro
nonchè indipendentemente dal concetto filosofico di S. cui si faceva implici-
tamente o esplicitamente riferimento. La migliore espressione a questo punto di
vista fu data da Jellinek (Allgemeine Staatslehre, 1900), ma esso è stato
ripetuto e illustrato innumerevoli volte (cfr., ad es., W. W. WiLoucHBY, The
Fundamental Concepts of Public Law, 1924). L'aspetto socio- logico dello S. è
invece negato da H. Kelsen; e questa negazione è la caratteristica fondamentale
del suo formalismo. Lo S. è per Kelsen semplice- mente l’ordinamento giuridico
nel suo carattere normativo o coercitivo. « Vi è un solo concetto giuridico
dello S., dice Kelsen: lo S. come ordina- mento giuridico (accentrato). Il
concetto sociologico di un modello effettivo di comportamento orientato verso
l’ordinamento giuridico, non è un concetto dello S. ma presuppone il concetto
dello S., che è il concetto giuridico » (Genera! Theory of Law and State, 1945;
trad. ital., pag. 192). In altri termini lo S. «è una società politicamente
organizzata perchè è una comunità costituita da un ordina- mento coercitivo, e
questo ordinamento coercitivo è il diritto» (/bid., pag. 194). Kelsen non nega
naturalmente che esistano fatti, azioni o compor- tamenti più o meno connessi
con l’ordinamento giuridico statale ma afferma che tali fatti, azioni o
comportamenti sono manifestazioni dello S. solo in quanto sono interpretati
«secondo un ordina- mento normativo, la cui validità deve venire pre- supposta
» (/bid., pag. 193). Questa dottrina si presta a definire in modo semplice ed
elegante gli elementi tradizionalmente riconosciuti propri dello Stato. Il
territorio non è altro che «la sfera terri- toriale di validità
dell’ordinamento giuridico chia- mato S. Il l diritto (v.) lascia aperta la
strada alla considerazione dell’efficacia (e perciò dei limiti) della tecnica
coercitiva in ognuna delle sue fasi o manifestazioni, cioè degli ordinamenti in
cui si concreta. Quando Humboldt parlava dei «limiti dell’azione dello S.» (Die
Grenzen der Wirksamkeit des Staates, 1851) fon- dava tali limiti proprio sulla
impossibilità, in cui lo S. si trova, di raggiungere certi fini col solo mezzo
di cui dispone, cioè con la tecnica coercitiva. Per tale motivo Humboldt poneva
al di là dei limiti dell’azione dello S. la religione, il miglioramento dei
costumi e l’educazione morale: cose che dipen- dono da una disposizione non
controllabile con gli strumenti di cui lo S. dispone. Dall'altro lato lo S.,
come ordinamento giuridie state of affairs. L'espressione tedesca fu introdotta
da Husserl nelle Logische Un- tersuchungen, (1901, II, 1, pag. 472 sgg.) e da
lui definita come il correlato oggettivo del giudizio (cfr. Ideen, I, $ 6). La
nozione fu accettata da Witt- genstein, che intendeva per essa «una
combinazione di oggetti (entità, cose)» (Tractatus, 2). È questa espressione
che viene a volte tradotta con « fatto atomico ». Ma per quanto lo S. di cose
di cui parla Wittgenstein sia un elemento indivisibile del mondo, l’espressione
« fatto atomico » non tra- duce alla lettera quella originale. La critica di
Bergson alla concezione che la psicologia dell’800 dava della vita psichica nel
suo insieme, s’impernia sul concetto di S., consi- derato da Bergson come una
forma o un’istantanea immobile presa sul divenire (cfr. specialmente Évol.
créatr., cap. IV, e l’analisi del « meccanismo cine- matografico del pensiero
»). In realtà la nozione di S. non include per nulla quella di riposo o di im-
mobilità ma piuttosto quella del rapporto di og- getti tra loro nell’insieme di
una situazione. Per Stato di natura v. NATURA, STATO DI. STATUA (ingl. Statue;
franc. Statue; tedesco Statue). L'ipotesi immaginata da Condillac per dimostrare
la derivazione di tutte le attività psi- chiche dalla sensazione. «
Immaginammo, dice Con- dillac, una statua organizzata internamente come noi e
animata da uno spirito privo di ogni specie di idee. Supponemmo pure che
l’esterno tutto di marmo non le permettesse l’uso dei suoi sensi e ci
riservammo la libertà di aprirli, a nostra scelta, alle diverse impressioni di
cui sono ca- paci» (7raité des sensations, 1754, Pref.). STATUS. Condizione o
modo d'essere: spe- cialmente in senso sociologico, come appartenenza a un
determinato strato sociale. STATUTO (ingl. Statute; franc. Statut; tede- sco
Statut). Un insieme di norme che definiscono lo stato, cioè la condizione o il
modo d'essere, di un gruppo sociale. STILE (ingl. Style; franc. Style; ted.
Stil). L'insieme dei caratteri che distinguono dalle altre una determinata
forma espressiva. Alla sua origine, nel *700, la nozione di stile trovò la sua
espressione nel motto francese, /e style c'est l'homme méme e venne considerata
come l’apparizione nella forma espressiva dei caratteri propri del soggetto,
nella sua relazione col materiale adoperato. Hegel ri- tenne troppo ristretta
questa concezione e incluse nello S. anche le determinazioni che derivano alla
forma espressiva dalle condizioni proprie dell’arte di cui si tratta: nel qual
senso si può distinguere, ad es., nella musica lo S. ecclesiastico e lo S.
operistico, e nella pittura lo S. storico e lo S. generico, ecc. (Vorlesungen
iiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 394-95). In questo senso lo S. sarebbe,
non l’uomo, ma la cosa stessa. In ogni caso, tuttavia, lo S. sarebbe una certa
uni- formità di caratteri, riscontrabile in un determi- nato dominio del mondo
espressivo. «Lo S. ci si rivela come un’unità di forme, di accenti e di at-
teggiamenti dominanti in una complessa varietà formale e di cCosì Hamilton
chiamò la parte della logica che studia le parti elementari o costituenti dei
processi del pen- siero. Egli divise la S. in noetica, ennoematica, apofantica
e dottrina del ragionamento (Lectures on Logic, I, pag. 72). STOICISMO (ingl.
Stoicism; franc. Stofcisme; ted. Stoizismus). Una delle grandi scuole filoso-
fiche dell’età ellenistica, cosiddetta dal portico dipinto (Stod poikile) nel
quale fu fondata, intorno al 300 a. C., da Zenone di Cizio. I principali
maestri della scuola furono, oltre Zenone, Cleante di Asso e Crisippo di Soli.
Lo S. condivise con le scuole contemporanee, epicureismo e scetticismo,
l'affer- mazione del primato del problema morale sui pro- blemi teoretici e il
concetto della filosofia come delle cure e delle emozioni della vita comune. Il
suo ideale è pertanto quello della ararassia (v.) o apatia (v.). I capisaldi
dell’insegnamento stoico possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la
divisione della filosofia in tre parti: la logica, la fisica e l’etica (v.
FILOSOFIA); 2° la concezione della logica come dialettica cioè come scienza di
ragionamenti ipotetici, la cui premessa esprime uno stato di fatto immediata-
mente percepito (v. ANAPODITTICO; DIALETTICA); 3° la teoria dei segni che
doveva costituire il modello della logica terministica medievale e l’ante-
cedente della semiotica moderna (v. SEMIOTICA; SIGNIFICATO); 4° il concetto di
una Ragione divina che il mondo e tutte le cose nel mondo secondo un ordine
necessario e perfetto (v. DestINo; Li- BERTÀ; NECESSITARISMO); 5° la dottrina
che, come l’animale è guidato infallibilmente dall’istinto, così l’uomo è
guidato infallibilmente dalla ragione; e che la ragione gli fornisce norme
infallibili d’azione che costitui- scono il diritto naturale (v. DIRITTO;
ISTINTO); 6° la condanna totale di tutte le emozioni e l’esaltazione
dell’apatia come ideale del saggio (v. APATIA; EMOZIONI); 7° il cosmopolitismo
(v.) cioè la dottrina che l’uomo è cittadino non di un paese ma del mondo; 8°
l’esaltazione della figura del sapiente e il suo isolamento dagli altri, con la
distinzione tra pazzi e savi (v. SAPIENTE; SAPIENZA); La dottrina stoica è
stata, accanto a quella ari- stotelica, la filosofia che ha avuto maggiore in-
fluenza nella storia del pensiero occidentale. Molti dei capisaldi enunciati
costituiscono ancora parti integranti di dottrine moderne e contemporanee.
STORIA (gr. iotopla; lat. Historia; ingl. History; franc. Histoire; ted.
Geschichte). Il termine, che in generale significa indagine, informazione o
reso- conto e che già in greco veniva usato a indicare il resoconto o la
narrazione dei fatti umani, pre- senta oggi un’ambiguità fondamentale:
significa, da un lato, la conoscenza di tali fatti o la scienza che disciplina
e dirige questa conoscenza (historia rerum gestarum); dall’altro i fatti stessi
o un in- sieme o la totalità di essi (res gestae). Questa ambiguità ricorre in
tutte le lingue colte moderne (cfr. H. I. MarROU, De la connaissance
historique, 1954, pag. 38-39). Ma poichè in italiano è prevalso l’uso di
indicare con il termine storiografia la cono- scenza storica in generale o la
scienza della S. (non già l’arte di scrivere S.) si può porre sotto questa voce
la trattazione dei significati storica- mente attribuiti alla S. come
conoscenza e com- prendere sotto il termine S. solo i significati che sono
stati dati alla realtà storica come tale. Tali significati sono i seguenti: 1°
la S. come passato; 2° la S. come tradizione; 3° la S. come mondo storico; 4°
la S. come oggetto della storiografia. 1° Che la S. sia interpretata come
passato può essere a buon diritto ritenuta una tautologia; ma il senso in cui
Heidegger ha inteso questa inter- pretazione (Sein und Zeit, $ 73), non appare
pu- ramente tautologico. Quando si dice « Questa cosa appartiene alla S. »
s'intende infatti che appartiene al passato e ad un passato che ha scarsa
efficacia sul presente. Dall’altro lato, quando si dice « Non ci si può
sottrarre alla S.»: s'intende ancora la S. come passato ma come passato che
agisce inevi- tabilmente sul presente. Così pure dire che « Qual- cosa ha S.»
significa affermare che ha un passato ed è frutto di questo passato. In queste
e simili espressioni, il significato del termine rimane estre- mamente
generico: rimanda ad una dimensione del tempo e alle relazioni che possono
stabilirsi tra essa e le altre dimensioni. 2° In secondo luogo, la S. può
essere intesa come tradizione cioè come tramandarsi e conser- varsi, attraverso
il tempo, di credenze e di tec- niche: sia che tale tramandarsi possa ente
reale solo nell’esistenza, il suo esser un fatto si costi- tuisce soltanto e
proprio nel deciso autoproget- tarsi su un pofer essere che è già stato scelto.
Ma allora ciò che è stato autenticamente un fatto, è la possibilità esistentiva
in cui si determinano effet- tivamente destino, destino comune e mondana- mente
storico » (/bid., $ 76). Talvolta però la tra- dizione viene intesa come
conservazione infallibile e progressiva di ogni risultato o conquista umana; e
in tal caso il concetto di essa si identifica con quello della S. come piano
provvidenziale (vedi TRADIZIONE). 3° Il terzo significato di S. è quello
filosofi- camente più rilevante; per esso la S. è il mondo storico: la totalità
dei modi d’essere e delle crea- zioni umane nel mondo oppure la totalità della
« vita spirituale» o delle culture. La S. viene in questo senso a contrapporsi
a «natura», che è la totalità di ciò che è indipendente dall'uomo o non può
essere considerato come sua produzione o creazione; ma rimane imparentata con
la natura stessa per il suo carattere di totalità, di mondo. È nell’ambito di
questo concetto che si possono 838 distinguere le interpretazioni « filosofiche
» della S. cioè quelle che costituiscono la cosiddetta « filosofia della S. ».
Tra tali interpretazioni, le principali pos- sono essere considerate le
seguenti: a) la S. come decadenza; 5) la S. come ciclo; c) la S. come regno del
caso; d) la S. come progresso; e) la S. come ordine provvidenziale. a)
L’interpretazione della S. come decadenza è propria dell’antichità che la
espresse con la dot- trina delle erà (v.) del genere umano. La succes- sione
delle cinque età descritta da Esiodo va dal- l’età dell’oro, nella quale gli
uomini « vivevano come dei» all’erd degli uomini, in cui essi sono soggetti a
ogni sorta di mali, attraverso l’età del- l’argento, del bronzo e degli eroi,
che segnano la graduale decadenza dello stato del genere umano (Op., 109-79).
Platone ridusse a tre le età, enumerando soltanto l’età degli dei, degli eroi e
degli uomini, ma conservando il carattere di successiva decadenza che queste
età presentano nelle condizioni materiali e morali degli uomini stessi (Critia,
109 b, sgg.). Quando questa dottrina delle età viene ripresa nel mondo moderno
(per es., da Vico, da Fichte, ecc.) ha perso il suo significato pessimistico ed
è diven- tato ottimistica: le età sono in un ordine di pro- gresso anzichè di
decadenza. Ma non c’è dubbio che, presso i Greci, questa dottrina costituisca
una interpretazione della S. come decadenza (v. ETÀ). b) La nozione della S.
come ciclo (v.) è le- gata a quella del ciclo del mondo assai diffusa nel-
l’antichità greca. Che la ripetizione del ciclo co- smico includesse la
ripetizione della S. umana nel suo complesso, ci viene testimoniato a proposito
degli Stoici. Secondo costoro, infatti, in ogni nuovo ciclo del mondo, «vi sarà
di nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli
stessi amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti
discussi e ogni città o villaggio e campagna ritornerà ugualmente » (NE-
MESsIO, De Nat. Hom., 38). Una ripresa moderna di questo concetto della S. si
può vedere nell’opera di Spengler. I cicli storici, le culture, non si ripe-
tono, secondo Spengler, identicamente, come rite- nevano gli Stoici; ma si
ripete identicamente la loro forma: il loro nascere crescere e morire. «Ogni
cultura, ogni suo sorgere, ogni progredire e ogni declinare, ognuno dei suoi
gradi e dei suoi periodi interamente necessari ha una durata deter- minata,
sempre uguale, sempre ricorrente con la forma di un simbolo » (Der Untergang
des Abend- landes, 1932, I, pag. 147) (v. CicLo). c) Il concetto della S. come
regno del caso non è frequente nell’interpretazione filosofica della storia.
Sembra tuttavia che Aristotele non sia stato molto lontano da esso quando
contrappose lo sto- rico al poeta e ritenne proprio di quest’ultimo
rappresentare l’universale, cioè «le cose quali po- trebbero accadere secondo
verisimiglianza e neces- sità » mentre ritenne proprio dello storico rappre-
sentare le cose «realmente accadute», cioè «il particolare » e, per es., «che
cosa Achille fece e che cosa gli capitò» (Poetica, 1X, 1451b 2-10). Non bisogna
infatti dimenticare che solo l’universale è, secondo Aristotele, oggetto di
conoscenza scien- tifica e che il particolare come tale cade fuori della
scienza (Met., III, 6, 1003 a 15). Più esplicitamente Schopenhauer diceva: « La
S. del genere umano, la folla degli eventi, il mutare dei tempi, i molteplici
aspetti della vita umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se non
la forma casuale presa dal manifestarsi dell’Idea e non appartiene a questa,
nella quale soltanto è l’adeguata oggettività della volontà, ma solo al
fenomeno che cade nella co- noscenza dell’individuo; ed è tanto estranea, ines-
senziale e indifferente all’Idea quanto sono estranee alle nubi le figure che
rappresentano, al fiume la forma dei suoi gorghi e delle sue spume e al ghiac-
cio le sue figure di alberi e fiori» (Die Welt, I, $ 35). Non si può
considerare invece sotto questa rubrica il concetto della S. che Machiavelli
espresse dicendo che «la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma
che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi»; e paragonando
la fortuna stessa a un fiume che quando si adira travolge tutto ma il cui
impeto non riesce dannoso o riesce meno rovinoso quando l’uomo provvede per
tempo a farvi ripari e argini (Princ., 25). La «fortuna» è, di fatti, per
Machiavelli, l’insieme delle condizioni che limitano, ostacolano o frustrano
l’azione dell’uomo nella S. ma non è la totalità della storia. Agostino Cournot
si servì invece del caso per definire il dominio proprio della S., che egli
contrappose a quello della natura, che è invece il dominio del- l’ordine e
della legge (Essai sur les fondements de la connaissance, 1851). d) Il concetto
della S. come progresso ha come sua caratteristica l’affermazione del carattere
problematico o non inevitabile del progresso stesso; giacchè se il progresso è
necessario la S. è piuttosto un ordine provvidenziale di cui tutti i momenti
sono egualmente perfetti in quanto tutti indispensabili alla perfezione o al
perfezionamento dell’insieme. La S. come progresso problematico è un’idea illu-
ministica; e suppone una misura del progresso stesso cioè una norma o un ideale
cui la S. cerca di avvicinarsi o che essa cerca di realizzare ma che non trova
mai in essa un’adeguazione per- fetta. G. B. Vico ha espresso questo ideale nel
con- cetto di una S. ideale eterna «sopra la quale, egli disse, corrono in
tempo le S. di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati,
decadenze e fini » (Sc. Nuova, De’ princìpi). La S. ideale eterna è l’ordine
universale ed eterno che la S. temporale, o anzi le varie S. temporali dei vari
tempi e nazioni, tendono ad adeguare, senza mai riuscirvi perfetta- mente e
anzi talvolta precipitando nella confusione e nella rovina (/bid., Conchiusione
dell’opera). Vico intendeva la storia ideale eterna come la succes- sione
progressiva di tre età (degli dei, degli eroi e degli uomini) e la permanenza
indefinita nell’ul- tima, che è la conclusione del ciclo. Voltaire con- siderò
invece come norma e misura del progresso storico l’illuminismo: la liberazione
della ragione umana dai pregiudizi e il suo porsi come guida della vita singola
e associata dell’uomo (cfr. spe- cialmente il Essai sur les maurs, 1740;
Philosophie de l’histoire, 1765). Kant seguì lo stesso criterio, sug- gerendolo
tuttavia soltanto come un « filo condut- tore » per orientarsi filosoficamente
nella S. dei po- poli. Egli scrisse: « A misura che le limitazioni all’attività
personale saranno tolte, che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si
produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e fantasie, l’illumi- nismo
come un gran bene che la specie umana può derivare perfino dalle mire ambiziose
di potenza dei suoi dominatori» (/dee zu einer allgemeinen Ge- schichte, 1784,
tesi VIII). Secondo Jaspers, l’unico fine progettabile della S. è l’unità
dell'umanità rag- giungibile non già attraverso la scienza o l’unifor- mità
linguistica o culturale ma soltanto attraverso «l’illimitata comunicazione di
ciò che è diverso storicamente, quale può realizzarsi in un dialogo
incessantemente condotto al livello di una lotta amorevole » (Vom Ursprung und
Ziel der Geschichte, 1949). Altri criteri o norme possono certo essere proposti
o stati proposti come misura del progresso nella S.; ma le caratteristiche di
questa nozione non mutano finchè non si ammetta l’inevitabilità del progresso.
e) Con l’affermazione dell’inevitabilità del progresso, il progresso stesso
diventa inconcepibile (come Hegel vide): giacchè se la S. è necessaria, ogni
momento di essa è tutto ciò che dev'essere e non può essere migliore o peggiore
degli altri. La concezione della necessità della S. è la conce- zione della S.
come piano provvidenziale. La nozione di piano provvidenziale è implicita in
ogni mifle- narismo o chiliasmo (v.): ogni dottrina siffatta in- clude l’idea
di uno sviluppo necessario degli eventi umani, sino al raggiungimento di uno
stato defi- nitivo di perfezione. Questo fu, per es., il concetto che della S.
ebbe Origene: che considerò i mondi succedentisi nel tempo come altrettante
scuole nelle quali si rieducano gli esseri decaduti (De Princ., IH, 6, 3); e
vide nel ciclo complessivo della S. il ritorno a Dio del mondo, che culmina
nell’apoca- tastasi, cioè nella restituzione di tutti gli esseri alla loro
perfezione originaria (In Johann, XX, 7). Ma il primo a formulare chiaramente
il concetto del piano provvidenziale è stato S. Agostino. Questi vide nella S.
la lotta tra la città celeste e la città terrena: lotta destinata a finire con
il trionfo della città celeste. A questo trionfo, secondo S. Agostino, Dio fa
contribuire anche il male e la volontà catdell’intelligenza piena della verità
di- vina (Concordia novi et veteris testamenti, V, 84, 112). Tuttavia il piano
provvidenziale della S., per quanto infallibile e necessario, è, dal punto di
vista religioso, imperscrutabile nei suoi particolari. L’uomo religioso crede
in esso e nella sua perfe- zione; ma sa di non poter comprendere le vie
attraverso le quali si va realizzando. Posto di fronte al male, egli ha fiducia
che il male da ultimo non trionferà, ma come ciò avvenga o possa av- venire, sa
di non poter dire. Quando la dottrina del piano provvidenziale della S. si
trasforma, nel Romanticismo, in dottrina filosofica, il non sapere religioso si
trasforma in certezza razionale. Hegel ha più volte affermato che la differenza
tra religione e filosofia è che la seconda dimostra nella sua de- terminazione
quella relazione tra Dio e il mondo, quel piano provvidenziale, che la prima si
limita solo a riconoscere (Enc., $ 573; Philosophie der Geschichte, ed. Lasson,
I, pag. 55). L'ingresso di questa nozione in filosofia è però in primo luogo
opera di Fichte. Nei Caratteri dell’età contempo- ranea (1806) Fichte affermava
energicamente la necessità della S. e la riduzione di essa a un piano
provvidenziale. « Qualsiasi cosa realmente esiste, egli diceva, esiste per
assoluta necessità: ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste
» (Ibid., IX). E distingueva, nel progressivo incivili- mento della specie
umana, due elementi: un ele- mento a priori che è il piano del mondo o l’ordine
provvidenziale e un elemento a posteriori o tempo- rale od empirico, costituito
dai fatti. La risultante di questa concezione è che: « Nulla è come è perchè
Dio vuole arbitrariamente così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti.
Riconoscere questo, sottomettersi umilmente ed essere beati, nella co- scienza
della nostra identità con la forza divina, è compito di ogni uomo» (/bid., IX;
trad. ital., Cantoni, pag. 67). Con questa distinzione Fichte sembra
riconoscere ai «fatti» della S. una certa autonomia (per quanto fittizia) di
fronte al piano provvidenziale di cui devono entrare a far parte. Ma anche
questa fittizia autonomia dei fatti spa- risce nella dottrina di Hegel. « Dio
prevale, dice Hegel, e la S. del mondo non rappresenta altro che il piano della
prov- mente e gradualmente» e distingueva tre periodi: quello in cui la
provvidenza appare come destino o forza cieca; quello in cui appare come natura
e infine quello in cui appare come provvidenza (System des transzendentalen
Idealismus, sez. IV, Aggiunte, III C; trad. ital., pag. 283 sgg.). Il con-
cetto di rivelazione è stato adoperato frequentemente nel tardo Romanticismo
del sec. xrx e nello spiri- tualismo e idealismo del sec. xx. In queste sue
manifestazioni, ha conservato la connessione con l’idea di progresso che
Schelling gli aveva ricono- sciuta. Tale connessione non gli è tuttavia indi-
spensabile. La rivelazione di Dio nella S. può essere non graduale, ma totale e
completa in ogni punto della S. stessa. Ogni epoca, ogni momento di essa è in
questo caso una rivelazione compiuta di Dio, secondo il detto di Goethe: «
L’attimo è l’eternità » e secondo la frase dello storico Ranke « Ogni epoca è
in immediata relazione con Dio +». In questa forma il concetto romantico della
S. come ordine prov- videnziale è stato accettato anche da alcuni storicisti
tedeschi come E. Troeltsch (Der Historismus und seine Probleme, 1922) e F.
Meinecke (Die Entste- hung des Historismus, 1936; Vom geschichtlichen Sinn und
vom Sinn der Geschichte, 1939), preoc- cupati di salvare l’assolutezza dei
valori e il carat- tere divino del cristianesimo dalla mobilità e rela- tività
della S. (cfr. Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, parte
VI). Dall'altro lato non è indispensabile che il con- cetto della S. come
ordine provvidenziale si fondi sulla credenza in una provvidenza, immanente o
trascendente, di natura divina. « Ordine provviden- ziale » significa «ordine
necessario e perfetto »: e un ordine siffatto è riconosciuto proprio della S.
anche da dottrine che negano il concetto religioso della provvidenza, come il
positivismo sociale e il marxismo. Augusto Comte considerava la S. come lo
sviluppo progressivo dell'Umanità o Grande Essere che è «l’insieme degli esseri
passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezio- nare l’ordine
universale » (Politique positive, 1854, IV, pag. 30). E riconosceva a De
Maistre il me- rito di aver concorso a preparare la vera teoria del progresso
con la sua rivalutazione del Medio Evo: giacchè solo dopo questa nozione con-
sente infatti di parlare della S. come di un oggetto unico e semplice,
valutabile nel suo complesso una volta per tutte. La nozione di mondo storico,
come tutte le nozioni totalitarie e la nozione stessa di mondo (v.), è al di là
delle capacità effettive di indagine e di intelligenza di cui l’uomo dispone.
La S., come oggetto della storiografia non è mai un mondo in questo senso, cioè
la totalità assoluta degli eventi umani. Un periodo storico o un in- sieme di
istituzioni è detto talvolta un mondo (per es., il «mondo antico» o il «mondo
orien- tale », ecc.) soltanto nel senso di una totalità rela- tivamente
omogenea di culture e non in senso asso- luto. La stessa espressione « mondo
storico» se riceve il significato di «oggetto generale delle di- scipline
storiografiche » designa, non una totalità assoluta, ma il campo relativamente
omogeneo in cui vengono ad operare e a incontrarsi le tecniche delle discipline
storiografiche. Quando perciò come «realtà storica » s’intenda semplicemente
l’oggetto della conoscenza storica, si rinunzia ipso facto al concetto di mondo
storico come totalità assoluta e ad ogni giudizio su questa totalità. Si
rinuncia, anche, a considerare rurti i fatti come fatti storici: giacchè
l’affermazione che tutti i fatti sono storici (che ricorre, per es., in CROCE,
La S. come pensiero e come azione, 1938, pag. 19) non è che un altro modo di
esprimere la nozione della S. come totalità assoluta. Dall’altro lato, se la S.
non è il mondo storico, non esiste /a storia. Odi irrepetibile. Il
riconoscimento esplicito di questo carattere è dovuto allo storicismo tedesco.
Già affermato da Dilthey (Gesammelte Schriften, V, pag. 236) esso fu
sottolineato da Windelband (Prà- ludien, II°, pag. 145) e da Rickert (Die
Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1896-1902, pag. 251, 420,
ecc.) come una conseguenza della di- stinzione tra il procedimento
generalizzante delle scienze della natura e il procedimento individuante delle
scienze dello spirito. Questo carattere della S. ha suscitato talora la
diffidenza dei metodologi perchè è apparso come un carattere « metafisico »
(cfr., ad es., C. G. HEMPEL, in Readings in Philo- sophical Analysis, ed. Feigl
e Sellars, 1949, pag. 461; GARDINER, The Nature of Historical Explanatiohe non
è nè individuato nè connesso sufficientemente con altri fatti, nè si-
nificante. STORIA IDEALE ETERNA. V. STORIA. STORIA UNIVERSALE. V. STORIOGRAFIA.
STORICHE, FONTI (ingl. Historical Sources; franc. Sources historiques; ted.
Historische Quellen). Con questa espressione si indica comunemente il materiale
della ricerca storiografica. Le fonti S. sogliono dividersi in avanzi e
tradizioni. Gli avanzi sono: 1° i resti delle opere prodotte dall'uomo (case,
ponti, teatri, utensili, ecc.); 2° i modi di vita delle comunità (usi, costumi,
ordinamenti giuridici, politici, ecc.); 3° le opere letterarie e filosofiche;
4° i documenti in generale. Gli avanzi che furono prodotti con l’intenzione di
tramandare il ricordo di un evento si chiamano monumenti. Tali sono i documenti
che ebbero lo scopo di testimoniare per l’avvenire la conclusione di una
faccenda e tali sono le iscrizioni, le me- daglie, le monete, ecc. Infine le
fonti di tradizione sono quelle me- diante le quali è stata tramandata la
memoria degli eventi passati e possono essere orali o scritte. (cfr. G. G. Droysen,
Grundzilge der Historik, 1882, $ 20-24). STORICISMO (ingl. Historicism; franc. Histo- ricisme; ted. Historismus). Con questo termine
che fu adoperato per la prima volta da Novalis (Werke, III, pag. 173) si
possono intendere tre indirizzi di- versi e cioè: 1° La dottrina che la realtà
è storia (cioè svolgimento razionalità e necessità) e che ogni conoscenza è
conoscenza storica, quale fu espressa da Hegel (cfr. specialmente Geschichte
der Philo- sophie, I, intr.) e da Croce (La storia come pensiero e come azione,
1938, pag. 51). Questa dottrina non è che la tesi fondamentale dell’idealismo
ro- mantico (v.): essa suppone la coincidenza di finito e infinito, del mondo e
di Dio, e considera pertanto la storia come la stessa realizzazione di Dio.
Essa si può chiamare S. assoluto. STORIA IDEALE ETERNA 2° Una variante della
precedente dottrina, che vede nella storia la rivelazione di Dio nel senso di
considerare ogni momento della storia stessa in diretto rapporto con Dio e
permeato dei valori trascendenti da Lui inclusi nella storia. È stato questo il
punto di vista sostenuto da E. Troeltsch e F. Meinecke [cfr. la voce STORIA, 3,
e)]. Si può chiamare questa dottrina S. fideistico perchè la rivelazione di Dio
nella storia avviene per essa sostanzialmente attraverso la fede. 3° La
dottrina che vede nelle unità di cui la storia costituisce la successione
(Epoche o Civiltà) organismi globali i cui elementi, necessariamente connessi,
possono vivere solo nell’insieme; ed af- ferma pertanto la relatività dei
valori (che sono appunto alcuni di tali elementi) all’unità storica cui
appartengono e la morte inevitabile di essi con la morte di questa. È questo il
punto di vista di Spengler e di altri e si può chiamare S. rela- tivistico.
Esiste anche, almeno come termine po- lemico, una nozione volgare di questo S.:
secondo la quale la storia sarebbe un movimento incessante che travolge tutto,
anche la verità e i valori, su- bito dopo l’attimo del loro fiorire. La
dottrina che più si avvicina a questa è quella difesa da G. Sim- mel ; secondo
il quale la vita è un fluire incessante che risolve e concilia ogni cosa entro
di sè: «Il bene e il male che facciamo e che riceviamo, il bello che ci allieta
e il brutto da cui fuggiamo, le serie compiute come quelle rimaste interrotte
nella nostra vita, tutte queste cose, per quanto possano di fatto
reciprocamente contrastare rientrano, come elementi della vita, come scene di
un de- stino, nella connessione dell'esperienza vissuta che si continua senza
posa e senza interruzione: in una vita, cioè, il cui senso, appunto come vita,
sovrasta a tutte le opposizioni che i suoi conte- nuti possono presentare
secondo altri criteri» (Hauptprobleme der Philosophie, 1910, IV; tradu- zione
ital., pag. 201). Lo stesso Simmel però am- metteva qualcosa che è più che vita
(v.) cioè la forma della vita stessa che emerge da essa e in essa ritorna
(Lebensanschauung, 1918, pag. 22-23). 4° L'indirizzo della filosofia tedesca
che, negli ultimi decenni dell’800 e nei primi del nostro secolo, ha dibattuto
il problema critico della storia. L’assurgere delle discipline storiche, nel
corso del sec. xIx, al rango di scienze faceva nascere nei loro confronti un
problema analogo a quello che Kant si era proposto nei confronti delle scienze
naturali: il problema della possibilità della scienza storica, cioè della sua
validità. Questo problema viene dibattuto in Germania a partire dagli scritti
di Dilthey e specialmente dalla Einleitung in die Geisteswquesti indirizzi non
solo da Dilthey, Win- delband e Rickhert ma anche da Simmel, Troeltsch e
Meinecke; ma ebbero il loro contributo più sostanziale da Max Weber che
affrontò soprattutto il problema della spiegazione storica e della cau- salità
della storia. L'eredità di questo indirizzo di studi, che ha iniziato
l’elaborazione della metodo- logia storica, è stata raccolta dai moderni meto-
dologi della storia (sui quali v. STORIOGRAFIA) (cfr., R. Aron, La philosophie
critique de l’histoire, Essais sur une théorie allemande de l’histoire, 2
ediz., 1950; P. Rossi, Lo S. tedesco contemporaneo, 1956). STORICITÀ (ingl.
Historicity; franc. Histo- ricitè; ted. Geschichtlichkeit). 1. Il modo d’essere
del mondo storico o d’una qualsiasi realtà storica. 2. L'esisteme mondo.
L’interpretazione di essa come storia pluralistica corrisponde all’interpretazione
della realtà storica come oggetto definibile o accertabile solo attraverso gli
strumenti di indagine di cui si disponA) La storia universale o come meglio si
di- rebbe cosmica (ted. Weltgeschichte) è la cono- scenza del piano provvidenziale
del mondo storico (cfr. HeGeL, Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pa- gina 52).
Essa ha due caratteristiche fondamentali: 1° È opera del filosofo e non dello
storico e ad essa l’opera dello storico può servire solo come aiuto non
indispensabile. Fichte, che la chiama «storia @ priori», afferma: « Comprendere
con chiara intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno e l’immutabile in
quanto guida la specie umana, è compito del filosofo. Fissare di fatto la sfera
sempre cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura
marcia della specie umana, è compito dello storico, le cui sco- perte sono solo
casualmente ricordate dal filo- sofo + (Grundziige des gegenwdrtigen
Zeitalters, 1806, IX; trad. ital., Cantoni, pag. 67). Ed Hegel, in po- lemica
contro i grandi storici del suo tempo, de- gradati a «filologi» (v. FiLoLogia),
affermava: «Per conoscere il sostanziale, bisogna accedervi da sè con la
ragione... La filosofia, nella certezza che ciò che impera è la ragione, sarà
convinta che l’accaduto troverà il suo luogo nel concetto e non altererà la
verità, come oggi è moda parti- colarmente presso i filologi che, con quel che
si dice acume, introducono nella sl’occhio del concetto, della ragione» e
perciò affidarsi a un modo di procedere rigorosamente aprioristico (Phil. der
Geschichte, 1, pag. 8). Croce parlava di una «anamnesi » dello Spirito
universale che tesse la storia e per il quale le fonti della storia stessa
servono solo come occasioni di ricordo (Teoria e storia della S., pag. 16). Lo
stesso Heidegger condi- vide questa concezione della storia cosmica. Egli av-
verte che « storia cosmica » significa in primo luogo «lo storicizzarsi del
mondo nella sua essenziale unità esistenziale con l’Esserci»; e in secondo
luogo «lo storicizzarsi intramondano degli stru- menti e delle cose» e che in
entrambi i sensi la storia cosmica è indipendente dalla conoscenza sto-
riografica (Sein und Zeit, $ 75) sicchè è la scelta implicita nella storicità
dell’Esserci a determinare la scelta storiografica. B) La S. pluralistica è
caratterizzata in primo luogo dall’abbandono di concetti come « mondo storico +
o « storia universale », e dal riconoscimento della pluralità delle forme della
conoscenza storica e della sua dipendenza dal materiale documen- tario disponibile
e dai princìpi che guidano la scelta storiografica. Da questo punto di vista,
la cono- scenza storica autentica verte sempre su oggetti delimitati o
delimitabili, mai sulla totalità della storia; e non è mai giudizio su tale
totalità sicchè esclude come privi di senso i concetti di progresso, di
decadenza, ecc., intesi in senso assoluto. Per quanto l’antichità greca ci
abbia lasciato esempi eccelto che 1’Umanesimo ha dato alla metodologia storica.
Giacchè mentre il Medio Evo ignorava la prospet- tiva storica, facendo dei
fatti e degli eventi più eterogenei e lontani fatti ed eventi contemporanei,
l’Umanesimo ha cercato di intendere il passato come passato, l’antichità come
antichità, l’altro come altro (cfr. E. Garin, Medioevo e Rina- scimento, 1954,
Il, 5). L'esigenza di «rivivere» il passato, di farlo «ritornare» sarebbe
falsifi- catrice della storia, se fosse presa alla lettera (cfr. H. I. Marrou,
De la connaissance histo- rique, 1954, pag. 43 sgg): come sarebbe falsifica-
trice, se fosse presa alla lettera l'esigenza affacciata da Croce (Teoria e
storia della S. pag. 3 sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938, pag.
5), che ogni storia sia intesa come « storia contempo- ranea +. Un corollario
dell’esigenza della prospet- STORIOGRAFIA tiva storica è il distacco dal
passato, che Nietzsche riteneva proprio della storia crifica (posta accanto
alla storia archeologica che «conserva e venera » e alla storia monumentale che
esalta e incoraggia, Unzeitgemàsse Betrachtungen, 1873, II) distacco che Nietzsche
intendeva come l’abbandono del passato e l’incamminarsi del presente per nuove
vie, e che è certamente uno degli insegnamenti della storio- grafia. Ma c’è poi
un distacco dal presente che è inerente all’atteggiamento storiografico su cui
in- sistette soprattutto l’Illuminismo e che fu espresso da P. Bayle con famose
parole: « Lo storico, egli diceva, deve dimenticare che è di un certo paese,
che è stato allevato in una certa comunità, che deve la sua fortuna a questo o
a quello e che questi e quegli altri sono i suoi parenti o i suoi amici. Uno
storico in quanto tale è, come Mel- chisedec, senza padre, senza madre, senza
genea- logia » (Dictionnaire, art. Usson, rem. F.). L'ideale proposto da Bayle
è difficile, per non dire impos- sibile, da realizzare perchè, come gli storici
oggi riconoscono (cfr. ad es., MARROU, Op. cif., cap. Il) l’intervento attivo
degli interessi e degli orienta- menti dello storico, condiziona sempre, in
qualche misura, i risultati della sua indagine e persino la scoperta dei fatti.
Tuttavia tutta la tecnica dell’in- dagine storiografica tende, non già a
disincarnare o a disumanare lo storico, come voleva Bayle, ma a limitare e
disciplinare l’intervento dei suoi interessi nella ricerca. 2° La conoscenza
storica è individuante perchè individuanti sono gli strumenti di cui si avvale.
L’individualità o l’unicità (irripetibilità) che è frequentemente riconosciuta
ai fatti storici è in realtà il riflesso in tali fatti degli strumenti che li
accertano (v. STORIA). In primo luogo ogni evento storico è individuato dai due
parametri fondamentali, cronologico e geografico. In secondo luogo, il
materiale documentario della S. ha carat- tere individuante. Un documento, una
moneta, un’iscrizione si riferiscono sempre, ognuno, ad un unico fatto; e così
una testimonianza. In terzo luogo, hanno carattere individuante i criteri di
scelta storiografica, perchè tendono a porre in evi- dennel passato di ogni
cosa cambia a misura che la cosa stessa cambia e si sviluppa + (Op. cir., pag.
36). La scelta storiografica investe così in primo luogo i fatti; ma essa
investe anche e contempo- raneamente le ipotesi che sono incorporate nello
stesso accertamento dei fatti. La scelta di un’ipotesi non è necessariamente
suggerita allo storico dalle sue proprie simpatie o dai suoi orientamenti;
qualche volta, come accade nel caso di Tucidide, l’ipotesi che egli prospetta e
che trova verificata dai fatti è contraria a tutti i suoi desideri. Il
pluralismo delle scelte, cioè la possibilità di effettuare scelte storio- grafiche
differenti e di mutare e correggere quelle effettuate, è una delle condizioni
della conoscenza storica. I filosofi hanno tentato talvolta di limitare, in
linea di principio, la pluralità delle scelte; cioè di stabilire un principio
che orienti in ogni caso, unilateralmente, la selezione storiografica. Così ha
fatto Hegel affermando che la storia è « storia dello spirito » e obbligando
così la scelta dello storiografo a fermarsi sulle idee e a dichiarare
storicamente inesistente tutto il resto. Così ha fatto anche il materialismo
storico (v.) affermando che la storia è in primo luogo storia dei « rapporti di
produzione di lavoro » e che tutto il resto è « soprastruttura » cioè non
determina ma segue. Non c’è dubbio che questi tentativi di limitazione della
scelta storiogra- fica, e specialmente quello marxista, hanno polemi- camente
richiamato l’attenzione su fatti che potevano essertà di applicazione nel
dominio storiografico (come anche d’altronde nel dominio della fisica) tende a
prevalere tra i metodologi della storia. Lo scritto citato di W. Dray, è in
questo senso, par- ticolarmente significativo (v. su questo punto la voce
SPIEGAZIONE). La preferenza accordata alla spiegazione condizionale toglie
tutta la sua impor- tanza al contrasto tra spiegazione e comprensione che per
un certo tempo parve esprimere il con- trasto tra le scienze della natura e le
scienze dello spirito. Difatti, sia la spiegazione che la compren- sione
consistono nella determinazione della possi- bilità dell’oggetto (v. COMPRENSIONE).
5° La conoscenza storica è diretta alla deter- minazione di possibilità
retrospettive. Questa è una conseguenza della rinuncia della S. allo schema
causale (che suppone la necessità dell’oggetto sto- rico) e del suo ricorso
allo schema condizionale. Questo schema consiste nella determinazione di
possibilità, o, se si vuole, di probabilità retrospet- tive. Questa
caratteristica fu già riconosciuta propria alla conoscenza storica da Max
Weber: «La con- siderazione del significato causale di un fatto sto- rico, egli
diceva, comincerà anzitutto con la que- stione seguente: se escludendolo dal
complesso dei fattori assunti come condizionanti, oppure mutan- dolo in un
determinato senso, il corso degli av- venimenti avrebbe potuto, in base a
regole generali dell’esperienza, assumere una direzione in qualche modo
diversamente configurata nei punti decisivi per il nostro interesse »
(Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906;
tra- duzione ital, in Z/ metodo delle scienze storico- sociali, pag. 223).
Certamente ogni storico rico- noscerebbe privo di senso il tentativo fatto da
Renouvier nell’Ucronia d’immaginare «lo sviluppo della civiltà europea quale
avrebbe potuto essere e non è stata +. Ma, come dice R. Aron: «Ogni storico,
per spiegare ciò che è stato, si domanda ciò che sarebbe potuto essere. La
teoria si limita a mettere in forma logica questa pratica spontanea dell’uomo
comune + (op. cit., pag. 164; cfr. MARROU, op. cit., pag. 181). Per quanto
spesso gli storici e i metodologi della storia continuino a parlare di « causa
», il senso che danno a questa parola non ha niente a che fare con il
significato tradizionale di essa: pertanto un mutamento terminologico sarebbe
opportuno seguisse al già intervenuto mu- tamento concettuale (Cfr. una
bibliografia selezio- nata sulla metodologia storiografica in Theory und
Practice in Historical Study: a Report of the Com- mittee on Historiography,
1942, e cfr. sugli autori trattati in questa voce: P. Rossi, Storia e
storicismo nella filosofia contemporanea, 1960). STRETTO (ingl. Strict; franc.
Strict; te- desco Streng). L’aggettivo si applica talora al diritto o al dovere
per indicare il suo carattere più rigorosamente obbligatorio. Dice Kant.: « Vi
sono azioni così conformate che la loro massima non può nemmeno essere
concepita senza contrad- dizioni come una legge universale della natura... Ve
ne sono altre in cui non si incontra questa impossibilità interna, ma che sono
tali che è im- possibile volere che la loro massima sia elevata all’universalità
di una legge della natura, perchè una tale volontà si contraddirebbe in se
stessa. Si scorge facilmente che la massima delle prime è contraria al dovere
S. o rigido (rigoroso), mentre la massima delle seconde non è contraria che al
dovere in senso /argo (meritorio) » (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I.
Altrove Kant chiama diritto S. quello che « può anche essere rappresen- tato
come la possibilità di una costrizione generale reciproca in accordo con la
libertà di ognuno secondo leggi universali » (Mer. der Sitten, Introdu- zione
alla dottrina del diritto, $ FE). Queste nota- zioni kantiane sono tra le più
precise in questa materia e tuttavia son ben lontane dall’essere convincenti.
STRUMENTALISMO. V. PRAGMATISMO. STRUMENTO (ingl. Instrument; franc. In-
strument; ted. Werkzeug). La parola è stata estesa da Dewey a significare ogni
mezzo adatto a con- seguire un risultato in qualsiasi campo dell'attività
umana, pratico o teorico. Dice Dewey: « Come termine generale strumentale
significa la relazione mezzi-risultati come categoria fondamentale per la
interpretazione delle forme logiche, mentre opera- tivo esprime le condizioni
grazie alle quali la ma- teria è: 1° resa adatta a servire come mezzo e STRETTO
2° effettivamente funziona come mezzo nel com- piere la trasformazione
obiettiva che è il fine del- l'indagine » (Logic, I, $ 2, nota; trad. ital.,
pag. 47-48). STRUTTURA (ingl. Structure; franc. Structure; ted. Strukture). 1.
Nel senso logico, la pianta o il piano d’una relazione: sicchè si dice che due
rela- zioni hanno la stessa S. quando lo stesso piano vale per entrambe, cioè
quando sono analoghe l’una all’altra come una carta geografica è analoga al
paese che rappresenta. La S. è in questo senso il « numero-relazione » ed è
concetto generalissimo, equivalente a piano, costruzione, costituzione, ecc. (RussELL, Introduction to
Mathematical Philosophy, VI; trad. ital., pag. 74-75; Human Knowledge, IV, 3;
trad. ital., pag. 362 sgg.). La
descrizione formale di Russell si attaglia all’uso corrente del termine: per
es., all’uso che se ne fa nella terminologia di Marx e dei marxisti. In questa
terminologia, S. è la costituzione economica della società in cui en- trano i
rapporti di produzione e i rapporti di lavoro mentre soprastruttura (v.) è la
costituzione giuridica, statale, ideologica della società stessa (Marx, Zur
Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.; Deutsche Ideologie, I). In questo
senso la parola S. è da un lato sino- nimo di forma nel senso in cui questo
termine ricorre nel gestaltismo che infatti viene anche chia- mato
strutturalismo o psicologia strutturale (v. Pst- coLogia); dall’altro è
sinonimo di sistema (nel significato 2) come insieme o totalità di relazioni.
In quest’ultimo senso la parola è passata nella linguistica, nell’estetica e
negli altri campi in cui viene oggi comunemente adoperata. Lo stesso Saus- sure
aveva parlato di sistema: «La lingua è un sistema di cui tutte le parti debbono
essere consi- derate nella loro solidarietà sincronica » (Cours de linguistique
générale, III, $ 3). Quando si parla della struttura come di «un insieme di
elementi qualsiasi, dunque astratti, tra i quali o tra certi loro
sotto-insiemi, si saranno definite relazioni ugualmente astratte » (Granger) o
come «un com- plesso di elementi sottoposto a relazioni determi- nate »
(Mouloud) («La notion de structure» in Revue Inter. de Phil. 1965, pag. 254,
315) o in modi analoghi (Sens er usage du terme Structure dans les sciences
humaines et sociales, a cura di Bastide, 1962, passim; The Structure of
Language, a cura di Fodor e Katz, 1964, pag. 33 e passim), il termine ha
significato generico di sistema e po- trebbe essere opportunamente sostituito
da esso. Lo stesso può dirsi dell’uso fatto del termine nel campo
antropologico, soprattutto da Lévi-Strauss; il quale esplicitamente definisce
la S. come un sistema di elementi tali che una modificazione qual- siasi
dell'uno implica una modificazione di tutti gli altri; e la considera come un
modello concet- STRUTTURALISMO tuale che deve dar conto dei fatti osservati e
per- mettere di prevedere in qual modo l’insieme reagirà nel caso della
modificazione di uno degli elementi (Anthropologie structurale, 1958, XV, 1,
pag. 306 sgg). 2. In un senso ristretto e specifico, la S. non è un qualsiasi
piano o sistema di relazioni, ma un piano gerarchicamente ordinato cioè con un
ordine finalistico intrinseco, destinato a conservare, per quanto possibile, il
piano stesso. In questo senso specifico la parola fu usata da Dilthey che con
essa designò il fondamentale strumento esplicativo del mondo umano e storico.
Egli parlò di una « S. psi- chica » intesa come « l’ordine secondo cui, nella
vita psichica sviluppata, i fatti psichici di qualità diffe- rente sono
reciprocamente legati da un’interna rela- zione che può essere immediatamente
vissuta » (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 3 sgg.; cfr. Critica della ragione
storica, trad. ital., pag. 63). E soprattutto si servì del termine per indicare
le unità elementari del mondo storico cioè gli individui, le epoche, le comunità,
le istituzioni e i sistemi di cultura, in- tendendo per esso in questo senso
una connessione dinamica accentrata in se stessa «cioè che ha in se stessa il
suo fine e i suoi criteri di valutazione » (Der Aufbau der geschichtlichen Welt
in den Geistes- wissenschaften, 1910, VI, 2; trad. ital., in Critica della
ragione storica, VI, 1, 2, pag. 243 sgg.). La connessione dinamica o vitale in
cui Dilthey vide il carattere proprio della S. fu tradotta da Spengler col
concetto di organismo, del quale si servì per descrivere le epoche storiche che
nascono, de- cadono e muoiono (v. Epoca). In questo senso il termine viene
adoperato comunemente in bio- logia. Secondo l'illustrazione che ne ha dato re-
centemente un biologo, la S. sarebbe «la forma rela- tiva alla funzione +, come
la funzione sarebbe la «S. che cambia nel tempo» (A. C. MOULYin due modi: I)
come costi- tuente l’ordine o la sostanza della realtà in esame, quindi
determinante necessariamente tutte le sue determinazioni in modo da renderle
infallibilmente prevedibili (Levi-Strauss, Sapir V. art. seguente). Il) Come un
modello (v.) o un costrutto (v.) ipo- tetico, suscettibile di interpretazioni
diverse, che eserciti condizionamenti non necessitanti e renda possibili solo
previsioni probabili (strutturalisti russi, cibernetici). STRUTTURALISMO
(inglese Structuralism; fr. Structuralisme; ted. Strukturalismus). Con questo
termine si intende ogni metodo o procedimento d’indagine che, in qualsiasi
campo, faccia uso del concetto di Struttura in uno dei sensi chiariti. Il
termine è nato nella psicologia della forma e nella linguistica: nel qual
campo, lo S. è stato difeso dai russi R. Jakobson, N. Trubetzkoy e da nume-
rosi altri. Nel campo dell’antropologia il punto di vista strutturalistico è
stato introdotto da Radcliffe- Brown a partire dalla sua introduzione all’opera
African Systems of Kinship and Marriage (1950) e diffuso nell’antropologia
moderna da Levi-Strauss (Anthropologie structurale, 1958 e spec. cap. XV). Ci
sono anche tentativi di estenderlo a tutto il dominio delle scienze umane.
Nella sua esigenza più generale, lo S. tende non soltanto a interpretare in
termini di sistema un campo specifico di indagine ma a mostrare come i diversi
sistemi specifici, verificati in diversi campi (per es. nell’antropologia,
nell'economia e nella linguistica), si corrispondano o abbiano tra loro
caratteri analoghi. Levi-Strauss ad es. ritiene possibile che una stessa
struttura possa essere riscontrata a tre livelli della società: nel senso che
le regole della parentela e del matri- monio servono ad assicurare la
comunicazione delle donne tra i gruppi come le regole economiche servono ad
assicurare la comunicazione dei beni e dei servizi e le regole linguistiche la
comunicazione dei messaggi (Anthropologie structurale, cap. III, pag. 95). Lo
S. è schierato polemicamente contro tre fronti: lo storicismo, l’idealismo e
l’umanesimo. Contro lo storicismo, che è sostanzialmente una considerazione
/ongitudinale della realtà cioè una interpretazione di essa in termini di
divenire, svi- luppo o progresso, afferma il primato di una con- cezione
rrasversale (cross-tion) cioè di una con- cezione che considera la realtà
stessa come un sistema relativamente costante o uniforme di rela- zioni. Il
sistema non è certo ritenuto dallo S. statico o immobile perché si ammette una
considerazione diacronica oltre che sincronica del sistema stesso; ma si
subordina la considerazione diacronica a quella sincronica, considerando i
mutamenti tempo- rali come trasformazioni nelle relazioni costituenti un
sistema o oscillazioni di queste trasformazioni intorno al limite costituito
dal sistema stesso. Contro l’idealismo, lo S. afferma l’oggettività di ogni
sistema di relazioni che, anche quando è con- cepito come un modello
concettuale cioè una costru- zione scientifica, non è ridotto a un atto o una
funzione soggettiva ma ha come funzione fonda- mentale quella di spiegare il
maggior numero di fatti accertati. Infine, contro l’umanesimo lo S. afferma la
priorità del sistema sull'uomo: delle strutture sociali sulle scelte
individuali, della lingua sul parlante singolo e in generale
dell’organizzazione economica o politica sugli atteggiamenti individuali. Sapir
ha scritto: « Le lingue sono per noi qualcosa di più che sistemi di
comunicazione intellettuale. Esse sono abiti invisibili che si drappeggiano
intorno al nostro spirito e predeterminano la forma di tutte le sue espressioni
simboliche » (Language, 1922, cap. XI, trad. ital, pag. 218). Secondo
Althusser, la strut- tura globale della società determina tutte le sue
manifestazioni al modo in cui la Sostanza di Spi- noza determina tutti i suoi
modi (Lire Le Capital, 1965, IX, trad. ital., pag. 196 sgg.). Questo deter-
minismo è una conseguenza dell’interpretazione realistica del concetto di
struttura mentre è esclusa dall’interpretazione di esso come modello (v.) 0
costrutto ipotetico, suscettibile di interpretazioni diverse. Tuttavia poichè
storicismo, idealismo e uma- nesimo indeterministico sono stati i tratti
caratte- ristici del clima idealistico dalla prima metà del ’900, lo S., nelle
sue varie forme, denuncia il dissolversi di questo clima nella cultura
contemporanea. STURM UND DRANG. Con questa espres- sione, che è il titolo di un
dramma di Massimiliano Klinger del 1776 e significa « tempesta e impeto »,
s'intende un movimento filosofico e letterario che ebbe luogo in Germania nella
seconda metà del sec. XVII e che costituisce l’antecedente immediato del
Romanticismo. Gli atteggiamenti propri di questo movimento sono quelli che, per
l'appunto, possono essere simboleggiati dalle due parole in questione. Si
tratta di atteggiamenti irrazionalistici che tro- vano la loro espressione
filosofica nelle dottrine di Haman, Herder e Jacobi: le quali prendono atto
STURM UND DRANG dei limiti che Kant aveva imposti alla ragione solo per
procedere al di là della ragione stessa e far appello all’esperienza mistica o
alla fede (v. FEDE, FiLosoFia DELLA). Dallo «S. und Drang» si passa al
Romanticismo quando dal concetto kantiano della ragione finita — alla quale si
contrappone la fede o il sentimento, cui si attribuisce il potere cono- scitivo
più alto — si passa al concetto della ragione infinita o capace di raggiungere
l’Infinito, che co- mincia con Fichte: al quale infatti si deve la prima
ispirazione del Romanticismo (v.). SUAREZISMO (ingl. Suarezianism; franc. Sua-
rezisme). La dottrina dello spagnolo Francisco Suarez (1548-1617) che
costituisce la principale ma- nifestazione filosofica della Controriforma
cattolica. Essa è costituita sostanzialmente da un deciso e rigoroso ritorno al
tomismo: le Disputationes me- taphysicae di Suarez sono un manuale sistematico
di metafisica tomistica. Suarez tuttavia fece una concessione importante
all’indirizzo della scola- stica del sec. xrv, ammettendo l’individualità del
reale cioè riconoscendo che una cosa singola è tale di per se stessa e non per
la materia o per la forma o per un qualsiasi altro principio. Si scostò pure
dal tomismo nella dottrina politica esposta nel De Le- gibus (1612), asserendo
che il potere temporale dei prìncipi deriva soltanto dal popolo; e ciò per
privi- legiare di fronte ad esso il potere ecclesiastico, derivante
immediatamente da Dio. SUBALTERNAZIONE (lat. Subalternatio ; in- glese
Subalternation; franc. Subalternation; ted. Su- balternation). Con questo
termine o con quello di opposizione subalterna si indica il rapporto tra la
proposizione universale e la proposizione partico- lare corrispondente della
stessa qualità; per es., tra « ogni uomo è giusto » e « qualche uomo è giusto
è; o tra « nessun uomo è giusto » e « qualche uomo non è giusto ». La
proposizione universale si chiama subalternante e quella particolare
subalternata (PIETRO Ispano, Summ. Log., 1.14); JunGIuUs, Log. Ham- burgensis,
II, 9, 15; B. HERDMANN, Logik, $ 70). Hamilton ha chiamato restrizione la S.
(Lectures on Logic) (v. QUADRATO DEGLI oP- POSTI). SUB-CONTRARIA, PROPOSIZIONE
(la- tino Propositio sub-contraria; ingl. Sub-contrary Proposition; ted.
Subcontràrsatz). Nella logica tra- dizionale si chiamano così, nel loro
rapporto reci- proco, la proposizione particolare affermativa e quella
particolare negativa: per es., « qualche uomo corre» e «qualche uomo non corre»
(cfr., ad es., Pietro Ispano, Summ. Logicales, 1.13) (v. Qua- DRATO DEGLI
OPPOSTI). SUBCONTRARIETAÀ (lat. Subcontrarietas; in- glese Subcontrary; franc.
Subcontraire; ted. Sub- contràr). Il rapporto di opposizione tra proposizioni
SUBLIME 849 particolari. Ad es., « Socrate corre », « Socrate non corre +
(Pietro Ispano, Sum. Log., 1.27). Talvolta, il rapporto tra possibile e non
necessario (JunGiUS, Logica Hamburgensis, II, 12, 29). SUBCOSCIENTE (ingl.
Subconscious; fran- cese Subconscient; ted. Unterbewusst). Lo stesso che
inconscio. Alcuni psicologi francesi del secolo scorso hanno cercato di
distinguerlo da inconscio conside- randolo come coscienza debole o diminuita
(Ribot, Janet, ecc.). Ma la distinzione è apparsa fallace e il termine stesso è
caduto in disuso (v. INCONSCIO). SUBLIMAZIONE (ingl. Sublimation; franc. Su-
blimation; ted. Sublimierung). Un meccanismo psi- cologico di difesa che
consiste nella trasformazione degli impulsi sessuali in attività psichiche
superiori e specialmente nella produzione artistica. Il mec- canismo fu così
descritto da Freud: « Le eccitazioni eccessive che derivano da sorgenti
differenti della sessualità trovano una derivazione e una utilizza- zione in
altri domini, in modo che le disposizioni che all’inizio erano pericolose
produrranno un aumento apprezzabile nelle attitudini e nelle atti- vità
psichiche » (Trois essais sur la théorie de la sexualité, trad. franc., pag.
177). SUBLIME (gr. tyoc; lat. Sublime; ingl. Sublime; franc. Sublime; ted.
Erhaben). 1. Una forma lin- guistica, letteraria o artistica che esprima
sentimenti o atteggiamenti particolarmente elevati o nobili. In loro, distinzione
che non deve mai dimenticare chi si proponga di suscitare pas- sioni » (Inquiry
into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful, 1756, MII, 27). Il
terrore, il dolore in generale, le situazioni di pericolo sono la causa del S.
(Zbid., IV, 5). Come questa causa possa produrre un godimento (poichè il S. è
un godimento) è problema che Burke risolve al modo stesso in cui l’aveva
risolto Hume, che a sua volta si era ispirato a Fontenelle (Réflexions sur la
poé- tique, $ 36): Il godimento deriva dall’esercizio cioè dal movimento, che
il dolore e il terrore provocano nell'animo, quando sono liberati dal pericolo
reale della distruzione. In questo caso si produce, dice Burke, non un piacere
ma « una specie di dilettoso orrore, di tranquroporzionata alle facoltà
sensibili dell’uomo (S. matematico) o di una potenza terrificante per queste
stesse facoltà (S. dinamico); 2° il sentimento di poter operare il
riconoscimento di quella spropor- zione o di quella minaccia, e perciò di
essere su- periore all’una o all’altra. «La qualità del senti- mento del
sublime, dice Kant, è che esso è, nei confronti di un oggetto, un sentimento di
pena, che è rappresentato insieme come finale; il che è possibile perchè la
nostra propria impotenza rivela la coscienza di una potenza illimitata dello
stesso soggetto e il sentimento può giudicare esteticamente quest’ultima solo
attraverso la prima» (Crit. del Giud., $ 27). Kant pertanto definisce il S.
come «ciò che piace immediatamente per la sua oppo- sizione all’interesse dei
sensi » (/bid., $ 29, Oss. ge- nerale): intendendo con questo che, avvertendo
la sproporzione o il pericolo che il S. rappresenta per la sua natura
sensibile, l’uomo si rende conto che, per via di questo stesso avvertimento,
egli non è schiavo di tale natura ma libero di fronte ad essa. Federico
Schiller non fece che esporre e chiarire le idee kantiane dicendo che «si
chiama S. un oggetto alla cui rappresentazione la nostra natura fisica sente i
propri limiti, nello stesso tempo in cui la nostra natura ragionevole sente la
propria superiorità, la sua indipendenza da ogni limite: un oggetto rispetto al
quale siamo fisica- mente deboli mentre moralmente ci eleviamo sopra di esso
con le idee» (Vom Erhabenen, 1793). Egli distinse il S. superamento delle
espressioni, è la sublimità; la quale perciò non consiste, come Kant ritenne,
nella pura soggettività del sentimento e nel suo potere di elevarsi alle idee
della ragione, ma piuttosto ha il suo fondamento nel significato
rappresentativo, per cui si riferisce ad una Sostanza assoluta » (/bid., pag.
484). Hegel pertanto vide nel S. una forma speciale dell’arte e precisamente
l’arte simbolica. Al dolore o alla situazione in pericolo, che per l’estetica
del *700 costituisce la causa del S., egli sostituì l’inesprimibilità e la
maestà della Sostanza infinita. Schopenhauer si limitò invece a riproporre la
dottrina tradizionale e ritenne che il S. si ha quando «quegli oggetti, le cui
forme significative ci invitano alla contem- plazione pura, hanno un
atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere, quale si palesa nella sua
oggettività — nel corpo umano — e si oppon- gono ad essa o la minacciano con la
loro forza SUBLIMINALE superiore » (Die Welr, I, $ 39). L'ultimo a riesporre il
concetto del S. in questi termini è stato Santayana: « La suggestione del
terrore ci fa ritirare in noi stessi e qui interviene di rimbalzo la coscienza
della sicu- rezza o dell’indifferenza e noi abbiamo quell’emo- zione di
distacco e di liberazione nella quale consiste realmente il S. » (The Sense of
Beauty, 1896, $ 60). SUBLIMINALE (ingl. Subliminal; franc. Su- bliminal; ted.
Subliminal). Lo stesso che inconscio. Il termine fu reso popolare da F. Myers
(Human Personality and its Survival of Bodily Death, 1i finale o terminale...
Il mondo non si ferma quando la persona che ha avuto S. ha raggiunto il fatto
suo nè si ferma egli stesso e la specie di S. che egli ottiene, nonchè il suo
atteggiamento rispetto ad esso, è un fattore di ciò che verrà dopo +» (Human
Nature and Conduct, pag. 254). SUDDIVISIONE. V. Divisione. SUFFICIENTE, RAGION.
V. FONDAMENTO. SUFISMO (ingl. Sufism; franc. Sufisme; ted. Su- fismus). Il
misticismo arabo-persiano (cosiddetto dal pelo di cammello di cui era fatto il
mantello dei SUICIDIO 851 suoi seguaci) che si sviluppò a partire dal sec. vmi
per influsso del cristianesimo e che culminò nel neoplatonismo di Algazali
(sec. x1) (cfr. J. A. AR- BERRY, Sufism, 1950). SUGGESTIONE (ingl. Suggestion;
franc. Sug- gestion; ted. Suggestiodal corpo. Questo è l’argomento addotto
contro il S. da Plotino, il quale dice che «quando si fa violenza al corpo per
distaccarlo dall’anima non è il corpo che lascia partire l’anima, ma la
passione a decidere, cioè la noia, il dolore o la collera » (Enn., I, 9).
Questa è sostanzialmente anche la ragione addotta da Schopenhauer secondo il
quale «il S. lungi dall’essere negazione della volontà è invece un atto di
forte affermazione della volontà stessa » perchè « il suicida vuole la vita ed
è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate» (Die Welt, I, $ 69).
3° Perchè è la trasgressione di un dovere verso se stesso, in quanto, come dice
Kant, «l’uomo è obbligato alla conservazione della propria vita uni- camente
per il fatto che è persona » (Mer. der Sitten, II, parte I, $ 6). 4° Perchè è
un atto di viltà. Fichte a questo proposito osservava che esso può essere
considerato ugualmente come un atto di coraggio. Se difatti al suicida manca il
coraggio di « sopportare una vita divenuta insopportabile », il S. compiuto con
fredda meditazione è l’espressione del dominio della ra- gione sulla natura
cioè sull’impulso all’autocon- servazione. «In confronto con l’uomo virtuoso,
concludeva Fichte, il suicida è un vile; in confronto con il miserabile che si
sottomette alla vergogna e alla schiavitù per prolungare per qualche anno il
sentimento meschino della sua esistenza, è un eroe » (Sittenlehre, 1798, in
Werke, IV, pag. 268). 5° Perchè è ingiusto verso la comunità cui il suicida
appartiene. Questa è la ragione addotta da Aristotele (Et. Nic., V, 11, 1138a
9). A questo argomento Hume obiettava che le obbligazioni del- l’uomo e della
società sono reciproche: sicchè la morte volontaria non scioglie solo quelle
dell’uomo verso la società ma anche quelle della società verso l’uomo (0f
Suicide, in Essays, cit., pag. 413). Dall'altro lato i filosofi hanno ritenuto
lecito o doveroso il S. in base ai seguenti motivi: 1° Perchè può essere un
dovere rinunciarealla vita quando il continuare nella vita renderebbe
impossibile adempiere il proprio dovere. Così pen- savano gli Stoici, dei quali
Cicerone così espone la dottrina: « Chi ha in maggior numero le cose con- formi
a natura ha il dovere di rimanere in vita; chi invece ha o si crede destinato
ad avere in maggior numuna meta e un erede, vuole la morte al- l’ora giusta e
per la sua meta e per il suo erede» (Also sprach Zarathustra, I, Della libera
morte). 3° Perchè può essere la via d'uscita da una situazione insostenibile e
il solo modo per salvare la propria dignità e libertà. Da questo punto di vista
Hume affermava che « Il S. è in accordo con il nostro interesse e con il dovere
verso noi stessi: ciò non può essere messo in dubbio da alcuno il quale
riconosca che l’età, la malattia e la disgrazia possono rendere la vita un peso
insostenibile e renderla peggiore dell’annichilamento » (Of Suicide, in Essays,
cit., pag. 414). Nella filosofia contempo- ranea Jaspers ha addotto lo stesso
argomento in favore del S. (Phil., II, pag. 303 sgg.). E Sartre ha scritto: «Se
sono mobilitato in una guerra, questa guerra è la mia guerra: essa è a mia
immagine ed io la merito. La merito in primo luogo perchè potevo sottrarmici
con il S. o con la diserzione: queste possibilità ultime devono sempre esserci
presenti quando si tratta di affrontare una situa- zione » (L’érre et le néant,
pag. 639). SUI GENERIS. Espressione usata in frasi sco- lastiche come questa: «
Ogni cosa è misurata da qualcosa che è del suo genere»: per es., la lun- ghezza
dalla lunghezza, il numero dal numero, ecc. La frase può essere assunta come
premessa per affermare che, dal momento che Dio è la misura di tutte le
sostanze, egli è nel genere delle sostanze. Ma la dottrina scolastica su questo
punto è, al contrario, che Dio non è in alcun genere per quanto sia principio
del genere delle sostanze e di tutti gli altri generi (cfr. S. TomMAso, S. Th.,
I, q. 3, a. 5; Contra Gent., I, 25). SUMMA. Con questo termine si cominciò ad
indicare nel sec. xIl una breve trattazione sistema- tica di un certo complesso
di conoscenze. Abelardo scriveva nella prefazione alla sua Introduzione alla
teologia: «Ho scritto una summa della sacra eru- dizione, come introduzione
alla divina scrittura » (P. L., 68°, col. 979). Le S. prendevano abitual- mente
il titolo dalla materia trattata (S. de vitiis et virtutibus; S. de articulis
fidei; S. sermonum; S.gram- maticalis; S. logicalis; ecc.). A partire dal 1200
circa, il termine cominciò a essere preferito a quello di Sententiae nel titolo
delle esposizioni sistematiche della teologia. L’opera di Pietro da Capua (com-
posta verso il 1200) porta già nei manoscritti il titolo di Summa. Nelle grandi
opere sistematiche del xm secolo il termine S. è usato quasi esclusiva- mente
(cfr. M. GRABMANN, Geschichte der scho- lastischen Methode, II, pag. 23 sgg.).
SUNNITI (ingl. Sunnites; franc. Sunnite; te- desco Sunniten). La corrente
ortodossa dell’Islam la quale ammette la validità di credenze pratiche non
prescritte dal Corano ma di cui si fa risalire l'origine allo stesso Maometto.
Gli Sciiti sono in- vece i negatori del valore della tradizione. SUPERADDITA,
FORMA. Questa espres- sione venne desunta da Telesio dagli scolastici di
ispirazione scotistica per designare l’anima sopran- naturale, direttamente
infusa nell'uomo da Dio, che Telesio ammise accanto all’anima naturale e mate-
riale, come soggetto della vita religiosa e della aspira- zione dell’uomo verso
ciò che è al di là della natura. A differenza dell’anima naturale, la forma S.
non sa- rebbe soggetta alla corruzione (De rer. nat., V, 3). SUPERANIMA (ingl.
Oversoul). Così R. W. Emerson chiamò Dio, concepito come il principio immanente
nel mondo e nell’uomo (Narure, 1836). SUI GENERIS SUPERARE (ingl. 7o Sublate;
franc. Dépasser; ted. Aufheben). Termine adoperato da Hegel per indicare il
procedimento della dialettica che nello stesso tempo conserva e abolisce
ciascuno dei suoi momenti. «La parola S., diceva Hegel, ha nella lingua un
duplice senso per cui significa da un lato conservare, ritenere e dall’altro
far cessare, metter fine. Il conservare racchiude già in sè il negativo, che
qualcosa sia tolto alla sua imme- diatezza e quindi da un'esistenza aperta agli
in- flussi estranei, al fine di ritenerlo. Così il superato è insieme un
conservato il quale ha perduto sol- tanto la sua immediatezza ma non perciò è
annul- lato » (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, nota; trad.
ital., pag. 105-06). Per quanto Hegel, nello stesso passo avvicini il
significato del termine tedesco al latino fo/lere, l’uso italiano ha sancito
l’equivalenza del termine con superare. Superamento significa di conseguenza un
progresso che ha conservato ciò che c’era di vero nei momenti precedenti e lo
ha portato alla completezza. Come esempio del concetto, si può addurre quello
che Hegel dice del superamento nel dominio della filo- sofia. «Ogni filosofia è
stata necessaria e tale è ancora; nessuna quindi è scomparsa anzi tutte sono
conservate affermativamente nella filosofia come momenti di un tutto: i
princìpi si conser- vano e la filosofia più recente è il risultato di tutti i
princìpi precedenti: in tal senso nessuna filosofia è stata confutata. Ciò che
è stato confutato, non è il principio di una data filosofia ma solo la pretesa
che essa rappresenti la conclusione ultima, asso- luta » (Geschichte der
Philosophie, I, Intr., A, 3, Db). È un termine di cui ha fatto uso ed abuso la
ter- minologia dell’idealismo italiano tra le due guerre. SUPERBIA (gr.
xxuvérng; lat. Superbia; inglese Pride; franc. Orgueil; ted. Hochmuth). Il
vizio corrispondente alla virtù della magnanimità (v.) e che ha come estremo
opposto la pusillanimità, nell’etica di Aristotele. Dice Aristotele: «I superbi
sono stolti perchè s’ingannano su se stessi: intra- prendono imprese onorevoli
credendo d’esserne degni ma fanno così solo risultare la loro insuffi- cienza »
(Er. Nic., IV, 3, 1125 a 27). Questa defi- nizione è rimasta ferma nella
tradizione e molte volte ripetuta. Diceva Spinoza: « La S. è una gioia
originata dal fatto che l’uomo sente di sè più del giusto » (Zbid., III, 26,
Scol.). SUPERCOSCIENZA (franc. Supraconscience). Termine adoperato da Bergson
per indicare una « pura attività creatrice» o una « pura coscienza », quale
egli esclude che sia la vita (Évol. Créarr., 8 ediz., 1911, pag. 267, 283,
ecc.). SUPsenziale » (De divinis nominibus, II, in P. L., 122°, col. 1122); e
Scoto Eriugena il termine su- peressentia (De divis. nat., I, 14). E il termine
ri- corre ancora nella tradizione mistica e teosofica. Maestro Eckhart parla di
Dio come di «una es- senza superessenziale e un nulla S.» (Deutsche Mystiker
des XIV Jahrhunderts, ed. Pfeiffer, II, pag. 318-19). E la stessa qualifica
ricorre in Schelling (Werke, I, X, pag. 260) (v. TEOLOGIA; TRASCEN- DENZA).
SUPERIORE (lat. Superius; ingl. Superior; franc. Supérieur; ted. Hòher). 1. In
senso logico: più esteso, che ha maggiore estensione o denota- zione. In questo
senso si dice « genere S. » o « con- cetto S.» o in generale «termine S.+.
Quest’uso rimonta alla logica terministica del sec. xrv (PIETRO Ispano, Summ.
log., 2.08; 3.02; 12.13; cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 49). 2.
Ciò che appartiene a una fase più progre- dita dell’evoluzione biologica: in
tal senso si dice «le specie S.» o «gli animali superiori ». 3. Ciò che
appartiene alla sfera delle funzioni spirituali o simboliche dell’uomo. In tal
senso si dice « funzioni S.» o «interessi superiori ». 4. Ciò che in un senso
qualsiasi si ritiene abbia un grado più alto di dignità o di valore, ad esempio
«uomo S.» o « forme d’arte superiori ». SUPERORGANICO (ingl. Superorganic;
fran- cese Superorganique; ted. Ùberorganisch). Termine introdotto dal
positivismo per indicare ciò che è al di là della vita organica cioè la vita
psichica o la vita sociale e specialmente quest’ultima. Il ter- mine è usato
frequentemente da Spencer. SUPERSTIZIONE (gr. Sera:daruovia; latino
Superstitio; ingl. Superstition; franc. Superstition; ted. Aberglaube).
L’eccesso o le aberrazioni della religione; oppure la forma di religione che
non si condivide. Nel primo senso, la S. fu definita da Cicerone: « Non solo i
filosofi ma anche i nostri antenati distinsero la S. dalla religione: quelli
che per intere giornate pregavano e immolavano vit- time per ottenere che i
loro figli fossero ‘super- stiti” furono chiamati superstiziosi e tale nome 853
ebbe poi più vasta estensione» (De nat. deor. II, 28, 71-72). Questa definizione
fu sostanzialmente ripetuta da S. Tommaso: « La S. è il vizio opposto per
eccesso alla religione e per il quale si presta un culto divino a chi non si
deve 0 nel modo in- debito » (S. 7A., II, 2, q. 93, a. 1). Nel secondo senso
definiva la S. Hobbes affermando: «Il ti- more di potenze invisibili, se
immaginate dallo spirito o suggerite da racconti pubblicamente am-, è
religione; se suggerite da racconti non pubblicamente ammessi, è S.» (Leviath.,
I, 6). Ovviamente S. è termine polemico: per lo studio obiettivo (antropologico
o sociologico) delle cre- denze non ci sono superstizioni. E quando si parla di
S., lo si fa in riferimento a un determato si- stema di credenze religiose che
si ritiene come l’unico vero. Perciò ogni religione appare come S. ai seguaci
di una religione diversa; e l’unica de- scrizione esatta del termine è quella
data da Hobbes. SUPERUOMO (gr. srepdvipwros; ingl. Su perman; franc. Surhomme;
ted. Ùbermensch). Il termine che ricorre in Luciano (Cataplus, 16) e fu usato
talora per indicare l’uomo-Dio cioè il Cristo (cfr. T. Tasso, Lettere, V, 6)
era adoperato già dall’Ariosto (Or/. Fur., 38, 62) per indicare un’umanità
fuori del comune. Fu introdotto in Germania da Heinrich Miiller (Geistliche
Erbauungs- stunden, 1664-66) e adoperato da molti scrittori del Romanticismo
tedesco, compreso Goethe (Faust, I, Notte). Ma soltanto da Nietzsche il termine
ebbe un significato filosofico e fu reso popolare. Il S. è l’incarnazione della
volontà di potenza: «L’uomo dev'essere superato. Il S. è il senso della
terra... L'uomo è una corda tesa tra la bestia e il S., una corda sull’abisso »
(A/so sprach Zara» thustra, I, 3). Il S. è l’incarnazione dei vil si- gnificato
denotativo dei termini che ricorrono nella proposizione, mentre il significato
in senso stretto è il significato connotativo (v. SigNIFICATO). La S. è in
questo senso definita come una positio pro alio, uno stare per o in luogo di
qualche altra cosa: nel senso che quando si dice, ad es., «l’uomo corre» il
termine «uomo» sta per Socrate, per Platone o per qualche altro (PIETRO IspanO,
Summ. Log., 6.03; OckHam, Summa Log. I, 63; Buri- pANO, Sophismata, 3; ALBERTO
DI SASSONIA, Lo- gica, II, 1). Salvo che in alcuni particolari, la dottrina
della suppositio si presenta pressochè uniforme in tutti i logici del sec. xrv.
Essi distin- guevano tre specie fondamentali di essa: la S. personale, la S.
semplice e la S. materiale. La Spersonale si ha quando il termine sta per
l’oggetto significato qualunque esso sia: o cosa esterna o parola o concetto o
segno scritto o altro. Così nelle frasi «l’uomo è un animale», «il nome è parte
della proposizione », «la specie è un univer- sale » i termini uomo, nome e
specie hanno una S. personale perchè stanno per i rispettivi oggetti. La S.
semplice si ha quando il termine sta in luogo, non dell’oggetto significato ma
del concetto di esso. Così quando si dice « l’uomo è una specie » il ter- mine
uomo non sta per gli uomini ma per il con- cetto « uomo ». Infine la S.
materiale si ha quando un termine sta per la voce o per il segno scritto come
nelle frasi «uomo è un nome» o « sta scritto uomo » in cui l’uomo sta per la
parola o per il segno scritto. Ognuno di questi tipi di S. viene poi dai logici
del x1v secolo diversamente suddiviso e trattato nelle difficoltà e nei problemi
che offre. Per dare un’idea di tali problemi, ecco il modo in cui Ockham
affronta la difficoltà presentata dalla S. del termine «uomo» nella
proposizione «l’uomo è la più alta delle creature». Qui il ter- mine uomo non
può avere una S. semplice perchè non è il concetto uomo ad essere la più alta
delle creature; ma neppure una S. personale perchè so- stituendo a « uomo » un
singolo uomo il giudizio risulta falso. La soluzione è che la proposizione ha
una S. personale ma che dev'essere limitata dicendo che l’uomo è la più alta di
tutte le crea- ture che sono diverse da lui: in questo caso la pro- posizione
diviene vera dei singoli individui umani (Summa Log., I, 66). La dottrina della
S. fu abbandonata quando la logica terministica fu abbandonata in favore della
logica mentalistica sotto l’influenza del cartesia- nesimo. I problemi da essa
trattati vennero eredi- tati dalla teoria del concetto (cfr. E. ARrNnOLD, Zur
Geschichte der Suppositionstheorie, in Sym- posion, II, 1954; E. A. Moopy,
Truth and Conse- quence in Mediaeval Logic). SURRETTIZIO (lat. Surreptitius;
ingl. Sur- reptitious, franc. Subreptice; ted. Erschlichen). Propriamente, nel significato latino del termine, ciò
che si possiede, si acquista o si fa, clandesti- namente o senza averne
diritto. In filosofia, il ter- SURRETTIZIO mine viene specialmente usato per
indicare un presupposto o un'ipotesi di cui si fa uso in un ragionamento senza
esplicitamente assumerlo o dichiararlo. In questo senso, Kant chiamò surre-
zioni delle sensazioni (« Subreptione der Empfin- dungen », Crit. R. Pura, $ 6)
le qualità sensibili che, sulla base delle sensazioni, si attribuiscono agli
oggetti empirici. SUSSISTERE (lat.
Subsistere; ingl. To Subsist; franc. Subsister; ted. Subsistiren). Esistere come sostanza; o esistere indipendentemente
dallo spi- rito o dal soggetto pensante. Nel primo senso il termine (che
nell’ordinario uso latino significa per- sistere o durare) fu introdotto da
Boezio (Phil. Cons., III, 11) e conformemente usato nella tra- dizione
scolastica (Gn_.BERTO DE LA PORRÉ, /n Boethi De Trinitate, P. L. 64°, 1281; S.
ToMMaso, S. Th., I, q. 29, a. 2). Ricorre nello stesso al modo d’essere degli
universali e dai Neorealisti americani a tutte le entità neutre, costituenti il
mondo, che con la loro aggregazione possono formare sia la coscienza sia le
cose (The New Rea- lism, 1912). Questo secondo significato è tuttora abbastanza
diffuso nella filosofia contemporanea. SUSSUNZIONE (lat. Subsumptio; ingl. Sub- sumption;
franc. Subsumption; ted. Subsumption). Propriamente,
l’assunzione della premessa minore del sillogismo; la quale fu detta da
Hamilton hypolemma per riservare il termine /emma (v.) alla premessa maggiore
(Lectures on Logic, I?, pag. 283; cfr. WOLFF, Log., $ 362). Kant parlò della
«S. di un oggetto sotto un concetto » (Cris. R. Pura, Anal. dei Princ., cap.
I); e nello stesso senso Husserl osservava che « la S. di un individuo, in
genere di un questo qui, sotto un'essenza, non è da confondere con la
subordinazione di un’es- senza ad una specie o ad un genere superiori» (Ideen,
I, $ 13). SVILUPPO (ingl. Development; franc. Dévelop- pement; ted.
Entwicklung). Il movimento verso il SYNKATATHESIS meglio. Per quanto questa
nozione abbia il suo precedente nel concetto aristotelico del movi- mento (v.)
come passaggio dalla potenza all’atto o esplicazione di ciò che è implicito
(CICERONE, Top., 9) il suo significato ottimistico è proprio della filosofia
dell’800 ed è strettamente collegato con il concetto di progresso (v.). Il suo
stretto sinonimo è evoluzione (v.); ma quest’ultimo ter- mine è più
frequentemente usato per indicare lo S. biologico o uno S. cosmico che trae le
sue ra- gioni o le sue analogie dallo S. biologico. Senza riferimento a questo
particolare aspetto, il termine fu usato da Hegel che ne fece una delle
categorie fondamentali della sua filosofia e lo illustrò soprat- tutto rispetto
al mondo della storia. Accanto al carattere progressivo dello S., Hegel
sottolineò un altro carattere fondamentale: lo S. pre- suppone ciò di cui è S.,
cioè il fine verso cui muove e il principio o la causa di sè stesso. «Lo
spirito, disse Hegel, che ha come teatro, do- minio e campo della sua
realizzazione, la storia del mondo, non si aggira nel gioco estrinseco del
caso, ma è piuttosto in sè il determinante asso- luto... Ciò che esso vuole è
raggiungere il suo proprio concetto; ma esso stesso se lo oscura, si
inorgoglilla funzione del T. è do- vuta a A. R. Radcliffe-Brown che ha scorto
in esso uno strumento per sottolineare la importanza sociale di eventi, operazioni,
divieti, norme, ecc. Il T. è in questo senso collegato a qualsiasi prescrizione
rituale (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VII). Freud ha
avvi- cinato il T. alla nevrosi ossessiva e ha visto tra le due cose quattro
punti di somiglianza e cioè: 1° la mancanza di motivazione dei divieti; 2° la
loro convalidazione mediante una necessità inte- riore; 3° la spostabilità e la
contagiosità degli oggetti proibiti; 4° la creazione di pratiche cerimo- niali
e comandamenti derivanti dai divieti (Totem e T., 1913, cap. II; trad. ital.,
pag. 37). TABULA RASA (gr. rivat dypaghe). Espres- sione con cu(PLUTARCO,
Plac., IV, 11; cfr. GaLeNO, Hist. Philos., 92; SESTO EMPIRICO, Adv. Math., VII,
228). Lo stesso confronto si trova poi ripetuto frequentemente (FILONE, Leg.
Alleg., I, 32; Boezio, Cons. Phil., V, 4; ecc.). Ma l’espres- sione « tavoletta
non scritta » si trova per la prima volta adoperata dal commentatore di
Aristotele Alessandro di Afrodisia (circa il 200 a. C.); e nel Medio Evo fu
usata da S. Tommaso (De An., a. 8, resp.; S. Th., I, q. 89, a. 1, ad 3°).
L’immagine fu fatta propria da Locke per espri- mere la tesi dell’origine
empirica di tutta la cono- scenza (Saggio, II, 1, 2) ed usata da Leibniz nella
sua critica a questa tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 1, 2). Da allora in poi
l’espressione è rimasta a indicare la tesi empiristica sull’origi25, 14-30) è
quello di « una superio- rità del potere conoscitivo, che non dipende dal-
l'insegnamento ma dalla disposizione naturale del soggetto ». Questa è la
definizione che dà del T. TAUTOLOGIA Kant (Antr., I, $ 54): il quale distingue
anche i T. in ingegno produttivo, sagacia e originalità: quest’ultimo è il
genio. Questa dottrina kantiana è stata spesso ripetuta con poche varianti e si
conserva nella stessa psicologia moderna, la quale tuttavia accentua
l’importanza dei cosiddetti T. specifici. ‘TALMUD. Il termine che significa in
ebraico «insegnamento » designa la raccolta enciclopedica in aramaico della
tradizione giudaica, compilata durante ottocento anni (dal 300 a. C. al 500 d.
C.) in Palestina e in Babilonia. L’opera non è un semplice commentario del
Vecchio Testamento ma il sommario della filosofia, della teologia, della
storia, dell'etica e del folklore giudaico, accumu- lato durante otto secoli.
Il 7. è composto di due parti principali: il Mishnah compilato in Palestina e
il Gemara che è un commentario del primo. Il Gemara compilato in Palestina è
chiamato in- sieme con il Mishnah, T. di Gerusalemme; mentre il Gemara
compilato in Babilonia è chiamato, in- sieme con lo stesso Mishneh, T. di
Babilonia (cfr. H. L. STRACK-P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus
Talmud und Midrasch, Mo- naco, 1922-28). TANATISMO (ingl. Thanatism; ted.
Thana- tismus). Termine creato da E. Haeckel per designare la sua dottrina
della mortalità dell'anima, in op- izione ad atanatismo (v.). TAOISMO (ingl.
Taoism; franc. Taoisme; te- desco Taoismus). La dottrina di Lao-Tse (vissuto in
Cina probabilmente nel vi secolo a. C.) e al quale si attribuisce il Tao Té Ching
cioè il Libro della via e della virtà. Di fronte al carattere razio- nalistico,
mondano e pratico dell’insegnamento di Confucio, sta il carattere mistico,
religioso e con- templativo dell’insegnamento di Lao-Tse; nel quale sono
rintracciabili tracce del panteismo metafisico delle Upanishad. I due punti
principali del T. sono: il monismo panteistico per cui il tao che è la via per
la salvezza è anche il principio unico dell’uni- verso, di cui ogni altra cosa
è manifestazione; l’etica del mon fare cioè l’abbandono all’azione immanente
del principio cosmico e la rinuncia a interferire con esso o a ostacolarlo. La
traduzione italiana del Tao Té Ching è stata fatta da A. Castellani con il
titolo La regola celeste di Lao-Tse (Firenze, 1927) (cfr. A. WALEY, The Way and
Its Power, 1934). TASSONOMIA (ingl. Taxonomy; franc. Taxi- nomie; ted.
Taxinomie). La teoria della classificazione nelle scienze naturali. Termine
coniato e adoperato nel sec. xix. Sono chiamate tassonomiche la bo- tanica e la
storia naturale. TATTO (ingl. Tact; franc. Tact; ted. Tact). I. Uno dei cinque
sensi: che Condillac chiamava «sentimento fondamentale» in quanto esso è « il
sentimento che la statua (v.) ha dell’azione reciproca delle parti del corpo e
specialmente dei movimenti della respirazione » (Traité des sensations, II, 1).
Il T. è anche, secondo Condillac, il senso da cui deriva la nozione del mondo
esterno (/bid., II, 8, 30 sgg.). 2. Sapienza di mondo o esprit de finesse, come
nelle frasi «aver T.» o «procedere con T.»1 o « parlare con T.+, ecc. TAT TWAM
ASI. Una delle norme fondamen- tali della filosofia della Upanishad che
significa alla lettera « questo sei tu» e prescrive a ogni uomo di riconoscersi
identico nel suo principio (o diman) con qualsiasi essere o cosa che gli stia
davanti: essendo il principio universale o Brakman identico in tutti. La
locuzione indiana ricorre specialmente nella Chandogya-Upanishad (VI, 8, 7
sgg.). TAUTOLOGIA (ingl. Tautology; franc. Tauto- logie; ted. Tautologie).
Nella terminologia filosofica tradizionale, T. significava genericamente un di-
scorso (in particolare, una definizione) vizioso in quanto inutile, perchè
ripetente nella conseguenza, o nel predicato o nel definiens, il concetto già
contenuto nel primo membro: «M. de la Palisse un quarto d’ora prima di morire
era ancora in vita ». Solo nell’Algebra della Logica il termine « T. » acquista
un significato tecnico, in quanto si intro- ducono con il nome di /egge di T. i
teoremi (1) ava=a, (2) ana=a[(1) l’affermazione di- sgiuntiva di una medesima proposizione
p con se stessa equivale alla semplice affermazione di p; la somma di una
classe « con se stessa è uguale alla semplice classe «; (2) l’affermazione
congiun- tiva di una medesima proposizione p con se stessa equivale alla
semplice affermazione di p; l’interfe- renza di una classe « con se stessa è
uguale all’in- tera e semplice classe «]. Accanto a questa legge i Principia
Mathematica di Whitehead e Russell introducono un principio di T.: pvp.> p.
ll’af- fermazione disgiuntiva di una medesima proposi- zione p con se stessa
implica materialmente la stessa p: «se p O p, p*). In Wittgenstein (Tractatus
logico-philosophicus, 1922, 4.46) il concetto di T. acquista una notevole
importanza, venendo a de- signare una proposizione molecolare (funzionale) il
cui valore-verità è « vero » qualunque siano i valori- verità delle
proposizioni atomiche (variabili propo- sizionali) che la compongono; per es.,
«pv — p* [« piove o non piove»). Wittgenstein, seguito a malincuore da Russell,
giungerà a stabilire che le matematiche pure (ivi compresa la Logica) constte
di norme morali o giuridiche (la legge delle XII tavole, le T. di Mosè). Bacone
chiamò T. le coordinazioni delle istanze cioè dei particolari aspetti di un fe-
nomeno (Nov. Org., II, 10) e distinse le T. di presenza, le T. di assenza, le
T. dei gradi o com- parative e infine le T. esclusive (/bid., II, 11-13). Da
Kant in poi si parla della « T. delle categorie » (v. CATEGORIA). TAVOLE DI
VERITÀ (ingl. Truth tables; franc. Tables de verité; ted. Wahrheitsmòglichkeiten).
Le T. costruite con il metodo delle matrici (v.) che consente l’enumerazione
completa delle possibilità di verità per un certo numero di proposizioni sem-
plici e così di riconoscere se una proposizione è vera nel dominio del calcolo
delle proposizioni. Tali T. sono costruite con i simb«e» è valida solo nel caso
che entrambe le proposizioni sono vere come quando si dice « Piove e c'è
umido».TAVOLA La disgiunzione si ha quando tra due proposi- zioni si inserisce
la parola «0?, rappresentata dal simbolo V, e può avere nella lingua corrente
due significati: un significato inclusivo (per il quale «0» è in latino ve/)
come quando si dice «Si può an- dare a Roma o per questa o per quella strada »,
per il quale almeno una delle due proposizioni è vera; e un significato
esclusivo (per il quale «0» è in latino ant) come quando si dice proponendo
un’alternativa « Si va a Roma o a Parigi » nel qual caso almeno una delle
proposizioni è vera e al- meno una è falsa. La T. di verità della disgiunzione
in generale è la seguente: p_l 4a | pVqa V V V V F V F V V F F F la quale
fornisce il criterio più generale per la validità di una disgiunzione
qualsiasi. Per la T. di verità del rapporto condizionale, espresso mediante il
connettivo se... allora e dal simbolo >, vedi i termini IMPLICAZIONE e
CONDI- ZIONALE. Sulla base di queste T. se ne possono costituire altre più
complesse, come la seguente che dà i valori di verità delle combinazioni
condizionali pos- sibili tra le proposizioni condizionali e le disgiuntive (cfr.
TARSKy, /ntr. to Logic, $ 3): cioè per la fun- zione (p V g)= (p.r), dove p,
qg, r stanno per proposizioni qualsiasi: |p>q|p.9|(.d=>p>N mg? è una
proposizione falsa; unendo insieme «(p=> g)=> (p= r)» si ottiene
un’implicazione in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso e che, in
base alla T. delle implicazioni, è falsa. L’uso delle T. può essere ed esteso e
complicato quanto si vuole per tutti i teoremi del calcolo delle proposizioni.
Come già dalla T. dell’implicazione materiale, derivano dalle altre T.
conseguenze che TECNICA appaiono paradossali dal punto di vista del lin-
guaggio corrente: tra esse le seguenti: se g è vero, allora g segue da
qualsiasi p; 0, in altri termini, una proposizione vera segue da qualsiasi
altra proposizione; se p è falso, allora p implica un qualsiasi g; o, in altri
termini, una proposizione falsa implica nua qualsiasi altra proposizione; quali
che siano peg, o p implica g o q im- plica p; in altri termini: almeno una di
due pro- posizioni qualsiasi implica l’altra. Queste conclusioni derivano dalle
T. di verità, e soprattutto da quella dell’implicazione, che costi- tuiscono la
semplificazione e generalizzazione degli usi correnti nel linguaggio comune e
nelle discipline scientifiche (al di fuori della matematica) dove le relazioni
puramente logiche tra le proposizioni sono sottoposte ad altre condizioni più
restrittive. Esse tuttavia continuano a dar luogo tra gli stessi logici a
discussioni che alcuni di essi (come Tarsky) ri- tengono oziose. Come si è
detto nell’articolo IMPLICAZIONE, la scuola stoico-megarica, soprattutto per
opera di Filone, ha dato per la prima volta la T. dell’im- plicazione
materiale. Nella logica moderna l’idea della T. è stata ripresa da Boole
(Marhematical Analysis of Logic, 1847), da Frege (Begriffsschrift, 1879) e da
Peirce (1885: cfr. Coll. Pap., 3.370 sgg.) ed è stata diffusa da Wittgenstein
(Tractatus Logico- Philosophicus, 1921, 4.31). TEANDRICO (ingl. Theandric;
franc. Théan- drique). Termine della teologia cristiana: che si riferisce all'unione
della natura umana e della natura divina nella persona del Cristo. TEANTROPISMO
(ingl. Theantrophism; fran- cese Théantropisme; ted. Theantropismus). 1. La
dot- trina dell’unione della natura divina e dell’umana nella persona di
Cristo. 2. Lo stesso che antropomorfismo (v.). TECNICA (ingl. Techric; franc.
Technique; ted. Technik). Il senso generale del termine coincide con quello
generale di arre (v.): comprende ogni insieme di regole adatte a dirigere
efficacemente un’attività qualsiasi. La T. in questo senso non si distingue nè
dall’arte nè dalla scienza nè da qualsiasi procedimento o operazione adatto a
raggiungere un effetto qualsiasi; e il suo campo si estende quanto quello di
tutte le attività umane. Bisogna tuttavia avvertire che a questo senso del
termine, che è assai antico e generale, fa eccezione il signi- ficato ad esso
attribuito da Kant: che parlò di una T. della natura per indicare la causalità
di essa (Crit. del Giud.); ma negò che la filo- sofia e specialmente la
filosofia pratica potesse avere una T. perchè essa non può contare su una
causalità necessaria (Mer. der Sitten, Intr., $ ID. Il 859 presupposto di
questo significato è tuttavia la ridu- zione della T. a procedimento causale,
laddove per T. è stato inteso (ed è meglio intendere) un proce- dimento
qualsiasi, regolato da norme e provvisto di una certa efficacia. In questa
sfera di significato generalissimo rien- trano pertanto i procedimenti più
disparati che pos- sono tuttavia dividersi, grosso modo, in due campi diversi:
4) quello delle T. razionali che sono re- lativamente indipendenti da
particolari sistemi di credenze, perciò possono condurre a modificare tali
sistemi e sono esse stesse autocorreggibili; B) quello delle T. magiche e
religiose che possono essere messe in opera solo sulla base di particolari
sistemi di credenze e perciò non possono riuscire a modificarli e si presentano
esse stesse non cor- reggibili o immodificabili. Queste T. costituiscono uno
dei due elementi fondamentali di ogni religione e possono essere designate con
il nome generico di riti (v.). Le T. razionali possono essere a loro volta di-
stinte in: 1° T. simboliche (conoscitive o estetiche) che sono quelle della
scienza e delle arti belle; 2° T. di comportamento cioè morali, politiche,
economiche, ecc.; 3° T. di produzione. 1° Le T. conoscitive e artistiche
possono essere chiamate T. simboliche perchè consistono essenzial- mente
nell’uso dei segni. Esse si distinguono dai metodi (v.) che sono, strettamente
parlando, indi- cazioni generali sul carattere delle T. da seguire. Le T.
simboliche possono essere T. di spiegazione, T. di previsione, o T. di
comunicazione: ma queste distinzioni non sono mutuamente esclusive. 2° Le T. di
comportamento dell’uomo rispetto all’altro uomo coprono un campo estesissimo
che comprende zone disparate: vanno dalle T. erotiche a quelle della
propaganda, dalle T. economiche a quelle morali, dalle T. giuridiche a quelle
educa- tive, ecc. In questo gruppo possono anche essere comprese le T.
organizzative dirette a cercare le condizioni per realizzare il rendimento
massimo con il minimo sforzo in tutti i domini dell'attività umana. Di queste
T. si occupa la recronica (v.) o prassio- logia (v.). 3° Il terzo gruppo di T.
è quello che concerne il comportamento dell’uomo nei confronti della na- tura e
che è diretto alla produzione dei beni. La T. in questo senso ha sempre
accompagnato la vita dell’uomo su questa terra essendo l’uomo, come già notava
Platone (Pror., 321 c) l’animale che la matura ha lasciato più sprovveduto ed
inerme in tutta la creazione. Un certo grado di sviluppo T. è pertanto
indispensabile alla soprav- vivenza di qualsiasi gruppo umano; e la sopravvi-
venza e il benessere di sempre più larghi gruppi umani sono condizionate dallo
sviluppo dei mezzi 860 tecnici. Tra i filosofi, Francesco Bacone fu il primo a
riconoscere, agli inizi del sec. xvn, questa verità. Bacone concepì l’intera
scienza come operante in vista del benessere dell’uomo e diretta a produrre, in
ultima analisi, ritrovati che rendessero più facile la vita dell’uomo sulla
terra. Quando nella Nuova Atlantide volle dare l’immagine di una città ideale,
non si fermò a vagheggiare forme perfette di vita sociale o politica ma
immaginò un paradiso della T. dove fossero portati a compimento le invenzioni e
i ritrovati di tutto il mondo. Il sansimonismo (v.) e il positivismo (v.)
dell’800 hanno condiviso l’esal- tazione baconiana della tecnica. Solo a
partire dalla fine del secolo scorso e nei primi decenni del nostro secolo, ha
cominciato a delinearsi quello che oggi si chiama il problema della T.: cioè il
problema fatto nascere dalle conseguenze che lo sviluppo della T. del mondo
moderno produce nella vita singola e associata dell’uomo. Il con- trasto tra
l’uomo e la T. è stato prima della se- conda guerra mondiale, il tema preferito
della let- teratura profetizzante. I profeti della decadenza e della morte
della civiltà dell’Occidente (per es., O. SPENGLER, Der Mensch und die Technik,
1931), i difensori della spiritualità pura (per es., D. RoPs, Le monde sans dime,
1932) avevano già additato nella macchina la causa diretta o indiretta della
decadenza spirituale dell’uomo. Il mondo in cui domina la macchina è, secondo
queste diagnosi, un mondo senz'anima, livellatore, mortificante: un mondo nel
quale la quantità ha preso il posto della qualità e in cui il culto dei valori
dello spi- rito è stato sostituito dal culto dei valori stru- mentali e
utilitari. Dopo la fine della seconda guerra mondiale queste accuse sono state
ribadite ed am- pliate. Esse sono presenti in tutta l’opera di Albert Camus
(cfr., ad es., Ni bourreaux ni victimes, 1946). Altri hanno visto il male del
macchinismo nello « sradicamento » che esso produce nell’uomo (S. WEIL,
L’Enracinement, 1948). Altri ancora coin- volgono, nella condanna della T., la
« ragione » che ne sarebbe il principio o accarezzano l’utopia di un ritorno
alla produzione artigianale (M. DE CORTE, Essai sur la fin d’une civilisation,
1949; L. Du- PLESSY, La machine ou l’homme, 1949). Dall’altra parte, a partire
dall'opera di HussERL, La crisi delle scienze europee (1954) la T. e la scienza
su di cui essa si fonda sono state spesso considerate come una degradazione o
un tradimento della Ra- gione autentica perchè asserviscono la ragione a scopi
utilitari mentre il suo vero compito è la conoscenza disinteressata
dell’essere, cioè la contem- plazione. Questo concetto rimane la base di tutte
le critiche che sono rivolte alla società contemporanea in quanto fondata sulla
T. e ritenuta dominata dalla tecnocrazia: per esse quindi vedi quest’ultima
voce. TECNICA Ma esiste oggi una vasta letteratura che, pur senza muovere da
una pregiudiziale metafisica, ideologica o teologica contro la T., ne mette in
luce gli aspetti negativi, che possono riassumersi nei punti seguenti: 1° Lo
sfruttamento intensivo delle risorse na- turali al di là del limite del loro
spontaneo ripristino e quindi il rapido e progressivo impoverimento di tali
risorse. 2° L'inquinamento dell’acqua e dell’aria, do- vuto agli scarichi
industriali, al moltiplicarsi dei mezzi meccanici di trasporto e all’addensarsi
della popolazione. 3° La distruzione del paesaggio naturale e dei monumenti
storici e artistici, dovuta al moltiplicarsi degli impianti industriali e
all’estensione indiscri- minata dei centri abitati. 4° L’assoggettamento del
lavoro umano alle esigenze dell'automazione, che tende a fare del- l’uomo un
accessorio della macchina. 5° L’incapacità della T. di venire incontro ai
bisogni estetici, affettivi e morali dell'uomo; quindi la sua tendenza a
favorire o determinare l’isola- mento degli individui e la loro
incomunicabilità reciproca. Nei confronti dei primi tre fattori negativi si può
ricorrere a una controtecnica che è essa stessa una T. (o un insieme di T.)
diretta a controbilanciare o a correggere gli effetti devastatori della T.:
con- trotecnica che è già fornita di mezzi potenti e che può diminuire, se non
controbilanciare, gli effetti di quella devastazione. Gli aspetti 4° e 5°
concer- nono invece il piano umano, morale e politico e vengono solitamente
ritenuti come costituenti il fenomeno dell’alienazione (v.). La T., sia nelle
sue forme primitive sia in quelle raffinate e complesse che ha assunto nella
società contemporanea, è uno strumento indispensabile per la sopravvivenza
dell’uomo. Il suo processo di sviluppo appare irreversibile perchè solo ad esso
rimane affidata la possibilità della sopravvivenza del numero sempre crescente
degli esseri umani e il loro accesso a un più alto tenore di vita. Anche la
differenza tra la T. e la scienza, sulla quale talvolta si continua ad
insistere, sembra ridursi o sfumare dal punto di vista dei compiti che si at-
tribuiscono oggi alla scienza (v.). L’unico rimedio ai reali pericoli della T.
sembra oggi, non la ri- nuncia alla T. stessa, ma il suo rafforzamento e il suo
sviluppo in tutti i campi: cioè da un lato la ricerca di nuovi strumenti che,
oltre al con- trollo della natura, ne assicurino la salvaguardia; e dall’altro
la ricerca di nuove T. di comporta- mento interumano che possano controllare e
cor- reggere gli effetti maligni delle T. produttive sul- l’uomo. E la sola
speranza ragionevole che questo TEISMO possa accadere è fondata sul fatto che
la stessa T. produttiva esige, in sempre maggior misura, da parte, dell’uomo,
quelle capacità di iniziativa, di immaginazione creativa e di solidarietà
interumana che il sistema tecnologico sembra minacciare. TECNICISMO (ingl.
Technicism; ted. Techni- zismus). 1. Lo stesso che tecnica. Kant adopera il
termine per indicare la tecnica della natura cioè il meccanismo (Crit. del Giud.,
$ 78). 2. L'uso di parole o frasi appartenenti a un linguaggio tecnico o una
parola o frase apparte- nente a tale linguaggio. TECNOCRAZIA (ingl.
Technocracy; francese Technocratie; ted. Technokratie). L'uso della tecnica
come strumento di potere da parte di dirigenti economici, capi militari, uomini
politici, per la di- fesa dei loro interessi, ritenuti concordanti o uni-
ficati e il controllo della società intera. Questo è almeno il concetto di T.
che si trova esposto negli scrittori più qualificati (per es., C. W. MILLS, The
Power Elite, 1956); e che consente di definire la T. come «la filosofia
autocratica delle tecniche » (G. Simonpon, Du mode d’existence des objets
techniques, 1958). Contro la T. si appuntano perciò le critiche più radicali
rivolte alla società contem- poranea. Ad essa viene addossata non solo la re-
sponsabilità di tutti i mali della tecnica (per i quali vedi TECNICA) e di non
volere o poter far nulla per eliminarli, ma anche quella di eliminare o
bloccare la libertà di scelta dell’uomo in tutti i campi della sua attività
(dal lavoro al divertimento) con una determinazione dall’interno che gli
impedisce di esercitare la sua ragione critica e reprime il suo istinto vitale
e la libera ricerca della sua felicità: «L’apparato produttivo, ha scritto
Marcuse, tende a diventare totalitario nella misura in cui deter- mina non solo
le occupazioni, le abilità e gli at- teggiamenti socialmente necessari, ma
anche i bi- sogni e le aspirazioni individuali... La tecnologia serve a
istituire nuove, più effettive e più piace- voli forme di controllo e di
coesione sociale » (One Dimensiona! Man, 1964, pag. xv). Da questo punto di
vista la T. (detta anche « The Establishment » o «Il sistema » per antonomasia)
eserciterebbe un de- terminismo necessitante su tutte le attività umane e
impedirebbe e bloccherebbe ogni forma di critica sociale, ogni possibilità di
trasformazione. Dall'altro lato però si ammette (come fa lo stesso Marcuse,
Ibid., pag. 238) che «una razionalità post-tecnolo- gica » possa trasformare la
tecnica stessa in stru- mento di pacificazione e organo dell’arte della vita e
in tal caso la funzione della ragione, il cui uso strumentale ha dato origine
alla T., convergerebbe con la funzione dell’arte. Dall’altro lato, si mette in
dubbio il carattere monolitico e necessitante della tecnocrazia. Gal- 861
braith parla di una tecnostruttura per indicare la formazione pluralistica e
composita dei gruppi che dirigono la società industriale e ammette la possi-
bilità di minimizzare la subordinazione delle cre- denze ai bisogni del sistema
industriale e di scorgere in quest’ultimo solo « una parte e relativamente una
parte in diminuzione, della vita +, che può essere subordinata ai fini estetici
che costituiscono la di- mensione della vita stessa e rendono possibile la
libertà dell’individuo (7fe New Industrial State, 1967, pag. 399). Una
connotazione « non peggio- rativa » della T. è anche talora presentata correla-
tivamente al concetto più composito che si ha oggi di classe sociale (cfr., ad
es., A. TOURAINE, La société pos-industrielle, 1969, cap. I). TECNOLOGIA (ingl.
Technology; franc. Tech- nologie; ted. Technologie). 1. Lo studio dei proce-
dimenti tecnici di un determinato ramo della pro- duzione industriale o di più
rami. 2. Lo stesso che tecnica. 3. Lo stesso che tecnocrazia. TECTOLOGIA.
Termine creato dal filosofo russo A. Bogdanov per indicare una «scienza
organizzatrice universale» cioè una scienza che insegni a costruire il mondo a
partire dagli ele- menti neutri dati nell’esperienza (Tekrologija, 1922).
Questa disciplina che si occupa anche, in partico- lare, dell’organizzazione di
tutte le attività utili dell’uomo allo scopo di determinare le condizioni del
loro massimo rendimento è stata poi chiamata, in quest’aspetto, prassiologia
(v.) da Kotarbinsky. Essa si integra con la teoria dell’organizzazione e
dell’amministrazione, con l’economia politica e con la cibernetica (cfr. CauDE,
MoLES e altri, Métho- dologie vers une science de l'action, Paris, 1964).
TEISMO (ingl. Theism; franc. Théisme; tedesco Theismus). Il termine adoperato
fin dal sec. xvn per indicare genericamente la credenza in Dio, in opposizione
ad ateismo (così lo adopera ancora VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, a.
Théiste) fu definito da Kant nel suo significato specifico, in opposizione a
deismo (v.). Dice Kant: « Chi am- mette soltanto una teologia trascendentale è
detto deista; chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette
che noi possiamo cono- scere con la semplice ragione un Essere originario di cui
abbiamo un concetto solo trascendentale, come di un Essere che ha ogni realtà
ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma che la ragione è in
grado di poter determinare di più l'oggetto secondo l’analogia con la natura
cioè di poterlo determinare come un Essere che per in- telletto e libertà
contenga in sè il principio origi- nario di tutte le altre cose. Quello
rappresenta questo Essere solo come una causa del mondo (rimanendo indeciso se
si tratti di una causa che 862 agisca per la necessità della sua natura o per
la libertà); questo lo rappresenta come un creatore del mondo » (Crit. R. Pura,
Dial. Trasc. III, sez. 7). In altri termini, il deista può essere anche
panteista e credere nella necessità del rapporto tra Dio e il mondo, per quanto
possa anche non esserlo; il teista si contrappone al panteista. Inoltre proce-
dendo al di là di ciò che la pura ragione lo con- sente di credere, il teista
afferma di Dio qualità o caratteri che sono testimoniati non dalla ragione ma
dalla rivelazione; e in questo senso, come Kant dice più oltre, nello stesso
passo, egli crede in un « Dio vivente» (cfr. anche Crit. del Giud., $ 72).
Queste notazioni kantiane hanno fissato il signi- ficato del termine nell’uso
contemporaneo, per il quale T. si contrappone non solo ad ateismo ma anche a
deismo e a panteismo ed ammette che Dio sia persona per quanto in un senso più
alto di quello che solitamente è attribuito all’uomo. Il T. è in questo senso
un aspetto essenziale dello spiritualismo (o personalismo) contemporaneo,
specialmente nella sua reazione all’idealismo ro- mantico, che è sempre
tendenzialmente panteistico. Il T. è stato pertanto esplicitamente difeso sia
dallo spiritualismo che costituì la reazione allo hege- lismo classico (Fichte
junior, Lotze, ecc.) o al positivismo (Renouvier, Boutroux, ecc.) sia dallo
spiritualismo che ha costituito la reazione al neo- idealismo romantico che è
fiorito nei primi decenni del secolo in Inghilterra, America e Italia e dal
quale lo stesso spiritualismo deriva molti dei suoi temi. Cfr. per il T. anglosassone
W. E. HocKina, Meaning of God in Human Experience, 1912; A. SerH
PRINGLE-PATTISON, The Idea of God in the Light of Recent Philosophy, 1917;
CLEMENT C. J. WEBB, God and Personality, 1920; ecc. Per il T. italiano: le opere
di Carlini, Guzzo, Sciacca, ecc. TELEGNOSI (ingl. Telegnosis). Lo stesso che chiaroveggenza: la facoltà
di conoscere avveni- menti lontani senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza
normali (v. TELEPATIA). TELEGRAMMA, ARGOMENTO DEL (ingl. Telegram Argument;
ted. Telegrammbeispiel). Argomento o esempio addotto da F. A. Lange per
illustrare la tesi materialistica della dipendenza delle reazioni psichiche
dagli stimoli fisici e della possibilità di ridurre a meccanismo fisiologico
ciò che comunemente si chiama anima o coscienza. Il T. che annuncia a un
commerciante il fallimento di un suo corrispondente determina tutta una serie
di reazioni che sono descrivibili fisiologica- mente al modo in cui è
descrivibile fisicamente cioè in termini di ondulazioni luminose lo stimolo che
le ha provocate (Geschichte des Materialismus, II, III, 2 e nota 39; trad.
ital., II, pag. 385 sgg. e 661 sgg.). Talvolta l’argomento è stato invertito
TELEGNOSI e utilizzato per mostrare la relativa indipendenza delle reazioni nei
confronti degli stimoli. Il T. «Vostro figlio è morto » differisce solo per una
lettera dal T. « Nostro figlio è morto » ma produce una reazione enormemente
diversa, e non corri- spondente alla differenza fisica tra gli stimoli, in
coloro che lo ricevono (cfr. C. D. Broad, The Mind and its Place in Nature,
1925, pag. 118 sgg.). TELEOCLISI (ted. Teleoklise). Tendenza al- l’attività
finalistica, ritenuta propria degli organi- smi viventi. Termine raro.
TELEOFOBIA (ted. Teleophobie). Avversione per il finalismo. TELEOLOGIA (ingl.
Teleology; franc. Téléo- logie; ted. Teleologie). Il termine è stato creato da
Cristiano Wolff per indicare «quella parte della filosofia naturale che spiega
i fini delle cose » (Phi- losophia rationalis sive logica, 1728, Disc. Prael.,
$ 85). Lo stesso che Finalismo (v.). TELEONOMIA (ingl. Teleonomy; franc. Téléo-
nomie). Termine usato dai biologi moderni per in- dicare l’adattamento
funzionale degli esseri viventi e dei loro artefatti alla conservazione e alla
molti- plicazione della specie. È stata chiamata informa- zione teleonomica la
quantità d’informazione che dev'essere trasmessa affinchè le strutture vitali
siano realizzate e conservate (cfr., ad es., J. MonoD, Le hasard et la
nécessité, 1970, pag. 26 sgg.). TELEOSI (ted. Teleosis). Perfezione. È la
trascrizione fonetica della parola greca. TELEPATIA (ingl. Telepathy; franc.
Télé- pathie; ted. Telepathie). Una forma di telegnosi e precisamente quella
che consiste nel conoscere gli stati di spirito di persone lontane o ciò che ad
esse accade, senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza normali. Il termine fu
proposto dalla Society for Psychical Researches di Londra nel 1882 ed è stato
comunemente accettato. Talvolta, come suo sino- nimo, si adopera Telestesia
(cfr. D. J. WEST, Psy- chical Research Today, 1954, cap. VI). TEMA (lat. Thema;
ingl. Theme; franc. Thème; ted. Thema). Argomento o oggetto di indagine di
discorso o di studio. Nella terminologia filosofica contemporanea si adoperano
anche i termini tema- tizzare, tematizzazione per indicare la scelta o la
formazione dei T., che è una fase importante, e spesso decisiva, della ricerca.
In particolare Hei- degger ha inteso per tematizzazione il manifestarsi degli
enti intramondani, per il quale essi diventano oggetti (Sein und Zeit, 69 b).
TEMPERAMENTO (gr. xpàois; lat. Tempera- mentum; ingl. Temper; franc.
Tempérament; tedesco Temperament). La disposizione dell'uomo ad agire in un
modo o nell’altro a seconda della partico- lare mescolanza degli umori che ne
compongono il corpo. Il fondatore della dottrina del T. è il padre TEMPO della
medicina, Ippocrate (v secolo a. C.) e la dot- trina stessa si è tramandata ed
è rimasta come dot- trina medica. Ippocrate ammetteva quattro umori
fondamentali: il sangue, il flemma (la linfa, i sieri, il muco nasale e
intestinale, la saliva), la bile gialla e l’atrabile o bile nera (considerata
come la secre- zione del pancreas), corrispondenti ai quattro ele- menti del
macrocosmo. A seconda della preva- lenza di uno di questi umori sugli altri si
hanno i quattro T. fondamentali: il sanguigno, il flemma- tico, il bilioso e il
malinconico o atrabiliare. (De nat. hom., 4). Accenni a questa dottrina o a
dot- trine analoghe si trovano in Platone (Conv., 188 a; Tim., 86 B), in
Aristotele (Problem., 30, 1), in Se- neca (De ira, II, 18, sgg.), in Lucrezio
(De nat. rer., III, 288 sgg.), in Plutarco (Quaesr. nat., 26) ed in altri,
senza connessione con i presupposti filosofici da cui questi autori partono,
come di- mostra la loro concorde accettazione della dottrina stessa. Anche nel
Medio Evo la dottrina dei T. fu tramandata attraverso la medicina, specialmente
la medicina araba (Avicenna e Averroè) sino ai medici e ai maghi del
Rinascimento. Paracelso sostituì agli umori ippocratei i suoi tre elementi
(solfo, sale e mercurio) per la classificazione dei temperamenti. Tuttavia la
nozione di T. non ha subìto alcuna modificazione sino a Kant che,
riassumendola, distingueva l’aspetto fisiologico e l’aspetto psicologico del T.
stesso. « Fisiologica- mente considerato, egli diceva, il T. è costituito dalla
costituzione fisica (la struttura forte o debole) e dalla complessione (dal
fluido che nel corpo è messo regolarmente in moto dalla forza vitale: nel che
si comprende il calore o il freddo che si produce nell’elaborazione di tali
umori). Psicologi- camente considerato, cioè come T. dell'anima (del potere
affettivo e appetitivo) questa espressione, derivata dalla proprietà del
sangue, si riferisce all’analogia del gioco dei sentimenti e dei desideri con
le cause fisiche e motrici (di cui la principale è il sangue)» (Antr., II, 2).
Kant riprendeva poi la vecchia classificazione ippocratea dei T.; la quale ha
trovato spesso fortuna anche nella psi- cologia moderna (per es., cfr. WuNDT,
Physiologische Psychologie, II4, pag. 519 sgg.). Ma nella psicologia stessa la
parola, fin dalla fine del secolo scorso, è caduta in disuso ed è stata
sostituita da caraf- tere (v.): il quale in una delle sue accezioni si- gnifica
appunto la struttura organica originaria che condiziona le disposizioni
naturali dell’indi- viduo. L'uso della parola carattere segna pure il trapasso
della nozione dal dominio della medicina a quello della psicologia e della
filosofia. TEMPERANZA (gr. cwppootvn; lat. Tempe- rantia; ingl. Temperance;
franc. Tempérance; te- desco Besonnenheit). Una delle virtù etiche di Ari- 863
stotele e precisamente quella che consiste nel giusto uso dei piaceri corporei.
Aristotele notava che la T. non concerne tutti i piaceri corporei (non con-
cerne, ad es., quelli che derivano dalla vista o dall’udito) ma solo quelli che
derivano dal man- giare, dal bere e dal sesso (Er. Nic., III, 9-12). Platone
aveva definito in modo diverso la T., intendendo per essa «l’amicizia e
l’accordo delle parti dell'anima che si ha quando la parte che comanda e quelle
che ubbidiscono convengano nell'opinione che spetti al principio razionale di
governare e così non gli si ribellano +: questa è secondo Platone la T. sia per
l’individuo che per lo Stato (Rep., IV, 442 b). Gli Stoici a loro volta
definirono la T. come «la scienza delle cose da desiderare e di quelle da fuggire»
(STOBEO, Ecl., II, 6, 102). Sulla T. aveva insistito anche l’etica di
Democrito: «La fortuna ci procura la tavola sontuosa, la T. quella a cui nulla
manca» (Fr., 210, Diels). TEMPO (gr. ypévos; lat. Tempus; ingl. Time; franc.
Temps; ted. Zeit). Si possono distinguere tre concezioni fondamentali: 1° il T.
come ordine misurabile del movimento; 2° il T. come movi- mento intuito; 3° il
T. come struttura delle pos- sibilità. Alla prima concezione si connettono,
nel- l’antichità, il concetto ciclico del mondo e della vita dell'uomo
(metempsicosi) e, nell’epoca mo- derna, il concetto scientifico del tempo. Alla
se- conda concezione si connette il concetto di co- scienza, con la quale il T.
viene identificato. La terza concezione, nata dalla filosofia esistenziali-
stica, presenta alcune innovazioni concettuali nel- l’analisi del concetto di
tempo. 1° La più antica e diffusa concezione del T. è quella che lo considera
come l’ordine misura- bile del movimento. Già i Pitagorici definendo il T. come
«la sfera che abbraccia tutto + cioè la sfera celeste, lo collegarono col cielo
che con il suo movimento ordinato ne consente la misura perfetta (ARISroTELE,
Fis., IV, 10, 218a 33). Platone definendo il T. come «l’immagine mo- bile
dell’eternità» (7im., 37d) intende dire che esso riproduce nel movimento, sotto
la forma del periodo dei pianeti, del ciclo costante delle sta- gioni o delle
generazioni viventi e di ogni specie di mutamento, quella immutabilità che è
propria dell’essere eterno. La definizione di Aristotele «il T. è il numero del
movimento secondo il prima ed il dopo » (Fis., IV, 11; 219 b 1) è l’espressione
più perfetta di questa concezione che identifica il T. con l’ordine misurabile
del movimento. Non diverso è il significato della definizione degli Stoici, secondo
la quale il T. è « l'intervallo del movimento cosmico» (Diog. L., VII, 141).
L'intervallo non è infatti che il ritmo, 864 cioè l’ordine, del movimento
cosmico. E neppure molto diverso è, forse, il significato della defini- zione
di Epicuro: «Il T. è una proprietà cioè un accompagnamento del movimento »
(STOBEO, Ecl., I, 8, 252). Nel Medio Evo, questa concezione del T. fu condivisa
sia da realisti (ALBERTO Magno, S. Th., I, q. 21, a. 1; S. Tommaso, S. 7A., I,
q. 10, a. 1) che da nominalisti (OckHam, /n Sent., II, q. 12) che ripetettero
concordemente la definizione aristotelica. Telesio, che indugiava a criticare
questa definizione, riduceva a sua volta il T. alla durata e all’intervallo del
movimento (De rer. nat., I, 29). Hobbes definiva il T. «l’immagine (phan-
tasma) del movimento in quanto immaginiamo nel movimento il prima e il dopo
cioè la succes- sione» e riteneva questa definizione in accordo con quella
aristotelica (De Corp., 7, 3). Cartesio ripeteva semplicemente quest’ultima,
definendo il T. come « numero del movimento » (Princ. Phil., I, 57). E Locke
criticava la connessione del T. con il movimento, stabilita dalla definizione
ari- stotelica, solo per affermare che il T. è connesso a qualsiasi specie di
ordine costante e ripetibile: «Qualsiasi apparizione periodica e costante o
mutamento di idee, che accadesse entro spazi di durata apparentemente
equidistanti, e fosse co- stante ed universalmente osservabile, avrebbe po-
tuto servire a distinguere tra loro intervalli del T. egualmente bene che
quelle di cui si è fatto uso in realtà » (Saggio, II, 14, 19). Berkeley
sostituiva, per definire il T., l’ordine delle idee all’ordine del movimento; o
per meglio dire l’ordine del movi- mento interno all’uomo all’ordine del
movimento esterno. «Se io tento, egli diceva, di costruire una semplice idea
del T., astraendo dalla succes- sione delle idee nel mio spirito, che fluisce
uni- formemente ed è partecipata da tutti gli esseri, sono perduto e impigliato
in difficoltà inesplica- bili » (Principles of Human Knowledge, I, 98). Questa
concezione del T. fu da Newton posta a fondamento della meccanica: egli
distingueva il T. assoluto e il T. relativo ma ad entrambi ricono- sceva ordine
e uniformità. « Il T. assoluto vero e matematico, egli diceva, in realtà e per
natura sua, senza relazione a qualcosa di esterno, fluisce uni- formemente
(aequabiliter) e si chiama anche du- rata. Il T. relativo apparente e comune è
una mi- sura sensibile ed esterna della durata mediante il movimento »
(Naruralis philosophiae principia, I, def. VIII). L’uniforme fluire della
durata assoluta fa riscontro, in queste definizioni di Newton, alla uniformità
del movimento che viene assunto come misura del tempo. Leibniz illustrava lo
stesso con- cetto nel modo seguente: « Conoscendo le regole dei movimenti non
uniformi, si può sempre rap- portarli ai movimenti uniformi intelligibili e
pre- TEMPO vedere con questo mezzo ciò che accadrà a diffe- renti movimenti
congiunti insieme. In questo senso il T. è la misura del movimento, cioè il movimento
uniforme è la misura del movimento non uni- forme » (Nouv. Ess., II, 14, 16). E
pertanto definiva il T. come « un ordine delle successioni » (Troisième lettre
à Clarke, $ 4): una definizione che veniva accettata da Wolff (Ontol., $ 572) e
da Baumgarten (Met., $ 239). Era questa la concezione cui Kant faceva
implicitamente riferimento quando nell’Este- tica trascendentale affermava
l’idealità trascenden- tale, insieme con la realtà empirica, del T. (v. oltre).
Ma il contributo principale di Kant all’interpreta- zione del concetto di T.
non è contenuto nell’Este- tica trascendentale ma nell’Analitica dei princìpi e
precisamente nella trattazione della seconda ana- logia o «principio della
serie temporale secondo la legge della causalità ». Qui Kant opera la ridu-
zione dell’ordine di successione all’ordine causale. Egli dice che una cosa
«può acquistare il suo determinato posto nel T. solo a condizione che nello
stato precedente si presupponga un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre,
cioè secondo una regola ». La serie temporale non si può invertire perchè «
quando lo stato precedente è posto, l’av- venimento deve immancabilmente e
necessariamente seguire »; sicchè «è legge necessaria della nostra sensibilità
e quindi condizione formale di tutte le percezioni che il T. precedente
determini necessa- riamente il seguente ». Questo appunto distingue la
percezione reale del T. dalla immaginazione, che potrebbe e può invertire
l’ordine degli eventi; e che fa della successione temporale « il criterio em- pirico
unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa » (Crir. R. Pura, An.
dei Princ., cap. II, sez. III, 3). Questa riduzione del T. all’ordine causale
che Kant difendeva relativamente alla con- cezione del T. dominante nella sua
epoca, cioè derivata dalla fisica newtoniana, è stata ripresentata ai nostri
giorni nei confronti della fisica einstei- niana. Affermando la relatività
della misura tem- porale, Einstein non ha in realtà innovato in alcun modo il
concetto tradizionale del T. come ordine di successione: ha solo negato che
l’ordine di succes- sione fosse unico ed assoluto (cfr. Uber die spezielle und
die allgemeine Relarivitàtstheorie, 1921, $ 8-9). Ora nei confronti della
fisica di Einstein, H. Rei- chenbach ha riproposto la tesi kantiana dell’iden-
tità del T. con la causalità. «Il T. è l’ordine delle catene causali: questo è
il principale risultato delle scoperte di Einstein », egli ha detto (A/berr
Einstein: Philosopher-Scientist, ed. by P. A. Schilpp, 1949, pag. 289 sgg.). «
L'ordine del T., l'ordine del prima e del dopo, è riducibile all’ordine
causale... L'in- versione dell’ordine temporale per certi eventi, che è un
risultato che deriva dalla relatività della si- TEMPO multaneità, è solo una
conseguenza di questo fatto fondamentale. Dal momento che la velocità della
trasmissione è limitata, esistono eventi tali che nessuno di essi può essere la
causa o l’effetto del- l’altro. Per eventi siffatti, l’ordine del T. non è
definito e ognuno di essi può essere detto posteriore o anteriore all’altro »
(/bid., 1949, pag. 289 sgg.). Gli stessi concetti Reichenbach ha illustrato nel
suo libro postumo 7he Direction of Time (1956): nel quale identifica l'ordine
del T. con la causalità e la direzione del T. con l’entropia crescente (cfr.
spe- cialmente $ 6, 16). La riduzione del T. alla causalità può essere
considerata come la più importante (ma non perciò la più salda) proposizione
filosofica avanzata nel- l'ambito della concezione del T. come ordine. Assai
minore importanza ha invece la discussione, cui i filosofi hanno spesso
inclinato, sulla soggetti- vità od oggettività del T. in questo senso. Fu Ari-
stotele a iniziare queste discussioni giungendo alla conclusione che se da un
lato il T. come misura non può esistere senza l’anima perchè solo l’anima può
misurare, dall’altro il movimento cui la misura si rivolge non dipende
dall’anima (Fis., IV, 14, 223 a 20-29). Nel sec. xrv Ockham, riprendendo queste
considerazioni, affermava che non vi sa- rebbe T. se l’anima non potesse nè
misurare nè numerare (/n Sent., II, q. 12). Perfino Hobbes chiamava il T.
un’immagine (v. definizione prima citata). Meno significativa è la riduzione
del T., operata da Locke e Berkeley all’ordine delle idee: perchè le idee, per
questi filosofi, sono i soli oggetti di cui si possa parlare. Quanto al «
soggettivismo » della concezione kantiana per cui il tempo è «in- tuizione pura
» cioè condizione di qualsiasi perce- zione sensibile, esso è frutto soltanto
di un ma- linteso: giacchè il T. può dirsi soggettivo solo rispetto alle cose
in sè che sono al di là della con- siderazione dell'uomo ma è oggettivo e reale
ri- spetto alle cose naturali, per cui il T. ha «realtà empirica » indubitabile
(Crit. R. Pura, $ 6, 7). L’oggettivismo della concezione kantiana è poi di-
mostrato dalla riduzione del T. all’ordine causale: una tesi a cui i
neo-empiristi hanno acceduto senza conoscere la sua derivazione kantiana. 2° La
seconda concezione fondamentale del T. è quella che lo considera come
intuizione del mo- vimento o «divenire intuito ». Quest’ultima defini- zione è
di Hegel: il quale aggiunge che «il T. è il principio medesimo dell'Io = Io,
della pura auto- coscienza; ma è quel principio o il semplice con- cetto ancora
nella sua completa esteriorità ed astrazione » (Enc., $ 258). Hegel pertanto
non iden- tifica il T. con la coscienza ma con qualche aspetto parziale o
astratto della coscienza stessa. Senza questa limitazione, Schelling aveva
detto « il T. non 35 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. è se non il senso
interno che diviene oggetto per sè» (System des transzendentalen Idealismus,
sez. III, Seconda epoca, D; trad. ital., pag. 141). E di regola la concezione
del T. come intuizione del divenire porta con sè la riduzione del T. stesso
alla coscienza. Così accade già nella dottrina di Plotino. Secondo Plotino, il
T. non esiste fuori dell'anima: esso «è la vita dell’anima e consiste nel
movimento per il quale l’anima passa da uno stato a un altro della sua vita »
(Enn., III, 7, 11): sicchè anche l’universo si può dire che è nel T. solo in
quanto è nell'anima, cioè nell’anima del mondo (/bid., III, 7, 3). A S.
Agostino si deve la migliore espressione e la diffusione di questa dottrina
nella filosofia occi- dentale. Il T. è identificato da Agostino con la vita
stessa dell'anima che si estende verso il passato o l’avvenire (exfensio o
distensio animi). Dice S. Agostino: «In che modo si diminuisce e con- suma il
futuro che ancora non c’è? E in che modo cresce il passato che più non è, se
non perchè nell’anima ci sono tutte e tre le cose, presente passato e futuro?
L’anima infatti attende e fa attenzione e ricorda, sicchè ciò che essa attende,
attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda. Nessuno nega che il
futuro non ancora c’è; ma c’è già nell'anima l’attesa del futuro. Nessuno nega
che il passato non è più, ma c’è ancora nell’anima la memoria del passato. E
nessuno nega che il presente manca di durata perchè subito cade nel passato; ma
dura tuttavia l’attenzione attraverso la quale ciò che sarà s si allontana
verso il passato » (Conf., XI, 28, 1). Il teorema fondamentale di questa
concezione del T. è stato enunciato dallo stesso S. Agostino: « Non ci sono,
propriamente parlando tre T., il passato, il presente e il futuro ma soltanto
tre presenti: il presente del passato, il presente del presente e il presente
del futuro» (Ibid., XI, 20, 1). Nella filosofia moderna, Bergson ha
ripresentato questa concezione contrapponendola al concetto scientifico del
tempo. Secondo Bergson, il T. della scienza è un T. spazializzato e che perciò
non ha alcuno dei caratteri che la coscienza riconosce propri del tempo. Esso
viene infatti rappresen- tato come una linea ma «la linea è immobile, mentre il
T. è mobilità. La linea è già fatta, mentre il T. è ciò che si fa, anzi è ciò
per cui ogni cosa si fa» (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 9). Fin
dalla sua prima opera, l’Essai sur /es données immédiates de la conscience,
Bergson aveva insistito sull’esigenza di considerare il T. vissuto, cioè la
durata della coscienza, come una corrente fluida nella quale è impossibile
perfino distinguere stati perchè ogni momento di essa trapassa nel- l’altro con
una continuità ininterrotta come accade per i colori dell'iride. Questo è poi
sempre rimasto il concetto cardine della sua filosofia. Il T. come durata ha,
secondo Bergson due caratteri fonda- mentali: 1° quello della novità assoluta
ad ogni istante, per cui è un continuo processo di creazione; 2° quello della
conservazione infallibile e integrale di tutto il passato per cui fa boule de
neige e si ingrossa continuamente a misura che avanza verso il futuro. Non
molto diversa da questa è la con- cezione che Husserl ha del « T.
fenomenologico ». Egli dice: « Ogni effettiva esperienza vissuta è ne-
cessariamente qualcosa che dura; e con questa durata si inserisce in un
infinito continuo di durate, in un continuo pieno. Essa ha necessariamente un
orizzonte temporale attualmente infinito da ogni parte. Il che significa che
appartiene a un'infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola espe-
rienza vissuta, come può cominciare così può finire e chiudere la sua durata,
come fa, per es., l’espe- rienza di una gioia. Ma la corrente delle esperienze
non può nè cominciare nè finire » (/deen, I, $ 81). Il che significa che, come
la durata bergsoniana, la corrente dell’esperienza conserva tutto ed è una
specie di eterno presente. 3° La terza concezione del T. è quella che riduce il
tempo alla struttura della possibilità. Questa è la concezione illustrata da
Heidegger nell’opera Essere e 7. (1927), che già nel titolo annuncia l’identità
dei due termini. La prima ca- ratteristica di questa concezione è il primato
rico- nosciuto all’avvenire nell’interpretazione del tempo. Le due precedenti
concezioni si fondano sul pri- mato del presente. Il T. come ordine del movimento
è una totalità tutta presente perchè ogni ordine suppone la simultaneità delle
sue parti, dal cui reciproco adattamento l'ordine nasce. La conce- zione del T.
come divenire intuito non fa che interpretare l'intero T. in funzione del
presente, perchè l’intuizione del divenire è sempre un ora, un istante
presente. Heidegger ha interpretato in- vece il T. in termini di possibilità o
di progettazione: il T. è originariamente l’ad-venire (Zu-kunft): più
precisamente, quando il T. è autentico (cioè origi- nario e proprio
dell’esistenza) esso è «l’avvenire dell’ente a se stesso nel mantenimento della
possi- bilità caratteristica come tale». « Avvenire, dice Heidegger, non
significa un ora che non è ancora divenuto attuale e che lo diverrà, ma
l’infutura- mento per cui l’Esserci perviene a se stesso, in base al suo più
proprio poter-essere. L’anticipazione rende l’Esserci autenticamente avveniente
sicchè l’anticipazione stessa è possibile soltanto perchè l’Esserci è, in
generale, già sempre pervenuto a se stesso » (Sein und Zeit, $ 65). Il passato
come un essere-stato è condizionato dall’avvenire perchè, come sono autentiche
possibilità quelle che sono già state, così sono già state le possibilità cui
l’uomo TEMPO può autenticamente ritornare e che può ancora far sue (/bid., $
65). Sia il T. autentico che è quello per cui l’Esserci progetta la propria
possibilità pri- vilegiata (quello che è già stato, sicchè le sue scelte sono
scelte del già scelto cioè dell’impossibilità di scegliere) sia il T. inautentico
che è quello della esistenza banale, in cui il T. diventa una successione
infinita di istanti, sono entrambi il sopravvenire all’Esserci (cioè all'uomo)
di ciò che la possibilità progettata gli prospetta; e perciò è un presentarsi,
dal futuro, di ciò che è già stato nel passato (/bid., $ 80, 81). L’analisi del
T. di Heidegger contiene indubbiamente un impegno metafisico assai gra- voso
che è quello per il quale il T. è concepito come una specie di circolo per cui
ciò che si pro- spetta nell’avvenire è ciò che è già stato; e a sua volta ciò
che è già stato è ciò che si prospetta nel- l’avvenire. Heidegger parla in
questo senso di T. finito cioè di T. autentico; giacchè il T. inau- tentico
(che Heidegger chiama anche databilità o T. pubblico) è il misconoscimento
parziale della natura del T. e la concezione di esso come linea aperta e
successione infinita di istanti (Sein und Zeit., $ 79-81). Tuttavia l’analisi
di Heidegger con- tiene alcuni elementi di interesse filosofico notevole perchè
costituiscono una innovazione importante nell’analisi del concetto di tempo.
Tali elementi sono i seguenti: 1° il mutamento dell’orizzonte modale, per
l’interpretazione del T., dalla necessità alla possi- bilità: il T. viene
ricondotto non già ad una strut- tura necessaria, come l’ordine causale, ma
alla struttura stessa della possibilità. Questo punto può essere utilizzato per
esprimere adeguatamente la trasformazione che la nozione di T. ha subito per
opera della relatività di Einstein. Se difatti due eventi, contemporanei per un
certo sistema di rife- rimento, possono non esserlo per un altro, il T. non è
un ordine necessario ma la possibilità di più ordini; 2° il primato del futuro
nell’interpretazione del T. non costituisce soltanto un'alternativa di- versa
ed opposta al primato del presente, su cui si fondano le altre due
interpretazioni principali, ma offre anche la possibilità di non appiattire sul
presente le altre determinazioni del T. e di in- tenderle nella loro natura
specifica: il futuro come futuro (e non già come «presente del futuro ?) e il
passato come passato; 3° il rapporto tra passato e futuro, che Hei- degger ha
irrigidito in un circolo può essere age- volmente sciolto con l’introduzione
della stessa nozione di possibile. Il passato può essere infatti inteso come
punto di partenza o fondamento delle possibilità a venire e l’avvenire come
possibilità di conservazione o di mutamento del passato, in TEODICEA limiti di
volta in volta (e con approssimazione) determinabili; 4° l’introduzione di
nuovi concetti interpreta- tivi espressi da termini come progetto o progetta-
zione, anticipazione, attesa, ecc., che si sono dimostrati particolarmente
utili nell’analisi filoso- fiche e sono difatti entrati nell’uso filosofico
corrente. TEMPORALE (ingl. Temporal; franc. Tem- porel; ted. Zeitlich). 1. Ciò
che appartiene al tempo o concerne il tempo o accade nel tempo. Ad es.,
l’ordine T., uno schema T., ecc. 2. Ciò che è mondano, cioè appartiene
all’ordine del tempo, in contrapposto a ciò che è spirituale ed appartiene all’ordine
dell’eternità. La contrappo- sizione di T. e spirituale è uno dei temi
dominanti del cristianesimo paolino (cfr., ad es., Ad Cor. II IV, 18; Ad Hebr.,
XI, 25; ecc.) TEMPORANEO (ingl. 7. emporary; franc. Tem- poraire; ted.
Einstweilig). Di scarsa durata, prov- visorio. TENDENZA (ingl. Tendency; franc.
Tendance; ted. Trieb). Si intende per T. ogni spinta all’azione, abituale e
costante; nel che la T. si distingue dal- l'impulso (v.) che è una spinta
all’azione improv- visa e temporanea. Kant limitava il significato del termine
all’appetito abituale di natura sensibile (Antr., $ 73). Schiller ammetteva
nell’uomo tre T. fondamentali di cui la prima, di natura sen- sibile, lo spinge
al mutamento; la seconda o 7. alla forma lo spinge all’immutabilità e infine la
terza 0 7. al gioco lo spinge a conciliare le due prime (Briefe liber die
aesthetische Erziehung, 12-13). A questa distinzione Fichte ne contrap- pose
un’altra: cioè quella tra la 7. alla cono- scenza, che fa dell’uomo un «essere
rappresen- tante »; la T. pratica che mira alla modificazione e formazione
delle cose; e la T. estetica che mira a una rappresentazione determinata solo
in vista della rappresentazione stessa e non della cosa o della conoscenza di
essa (Werke, VIII, pag. 278-79). Più recentemente Jaspers ha distinto tre
ordini di T.: 1° quelle sensibili con correlato somatico (la fame, la sete, il
sesso, ecc.); 2° quelle vitali ma senza localizzazione somatica (la T.
all’esaltazione di sè o alla sottomissione, all’emigrazione, alla so- cievolezza,
ecc.); 3° le T. spirituali cioè quelle dirette alla realizzazione di valori
(Allgemeine Psy- chopathologie). TENSIONE (gr. révoc; ingl. Tension; fran- cese
Tension; ted. Spannung). 1. La connessione tra due opposti che sono legati
soltanto dalla loro opposizione. Questo concetto costituiva, secondo gli
antichi (cfr. FiLone, Rer. Div. Her., 43), la grande scoperta di Eraclito. «
Gli uomini non sanno, aveva detto Eraclito, come ciò che è discorde è in
accordo con sè: armonie di T. opposte, come 867 quelle dell’arco e della lira »
(Fr., 51, Diels). Anche gli Stoici parlarono in questo senso della T. che tiene
insieme l’universo (ARNIM, Stoic. Fragm., II, 134). Mentre la dialettica (v.) è
l’unità degli op- posti come loro sintesi 0 conciliazione, la T. è il legame
tra gli opposti come tali, senza concilia- zione o sintesi. Le situazioni di T.
sono perciò quelle che non lasciano prevedere la conciliazione; in tal senso la
parola è usata anche nel linguaggio comune, come quando si parla della « T.
interna- zionale ». Nello stesso senso si parla di « T. psichica + per indicare
uno stato latente di conflitto. 2. Gli Stoici (e precisamente Cleante; cfr.
ARNIM, Stoic. Fragm., I, 128) introdussero la nozione di T. come forza tendente
a un risultato: nel qual senso la nozione è un sinonimo di tendenza o di
sforzo, e specialmente di sforzo prolungato o noso. TEOCRASIA (gr. 0eoxpacta;
ingl. Theocrasy; franc. Théocrasie; ted. Theocrasie). L'unione o mescolanza
dell’anima con Dio, nel misticismo (cfr. GiamBLICO, De vita pythagorica, 33,
240). TEOCRAZIA (ingl. Theocracy; franc. Théo- cratie; ted. Theokratie). 1. Il
regime politico in cui il governo è esercitato dalla casta sacerdotale. In
questo senso furono T. lo Stato ebraico, lo Stato maomettano e il calvinismo in
Ginevra. 2. La dottrina della supremazia del potere eccle- siastico, dal quale
il potere civile trarrebbe il suo diritto e la sua investitura. T. in questo
senso fu il curialismo medievale. 3. Più in generale, qualsiasi dottrina la
quale ri- tenga che ogni autorità derivi da Dio (v. AUTORITÀ). TEODICEA (ingl.
Theodicy; franc. Théodicée; ted. Theodizee). Termine creato da Leibniz come
titolo di una sua opera (Saggio di T. sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo
e l'origine del male, 1710) per indicare la dimostrazione della giustizia
divina mediante la soluzione dei due problemi fon- damentali; quello del male e
quello della libertà umana. Sul primo problema, la T. di Leibniz risponde più
specialmente alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697): considerazioni
che in realtà poi non facevano che amplificare quanto avevano già detto gli
Epicurei in polemica con gli Stoici: «Dio o non vuol togliere i mali e non può,
0 può e non vuole, o non vuole nè può o vuole e può. Se vuole e non può, è
impo- tente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è invidioso, il
che del pari è contrario a Dio. Se non vuole nè può è invidioso e impotente
perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo con- viene a Dio, da che cosa
deriva l’esistenza dei mali e perchè non li toglie?» (Fr., 374, Usener). La
soluzione di Leibniz è quella tradizionale: il male non è una realtà e pertanto
la sua respon- 868 sabilità non risale a Dio (v. MALE). Circa il pro- blema
della libertà Leibniz discute soprattutto le varie forme che il determinismo
teologico aveva assunto nella letteratura protestante contemporanea, per
rivendicare all'uomo la libertà nel senso tradi- zionale di autodeterminazione
(v. LIBERTÀ). Dio inclina senza necessitare e la libertà dell’uomo non consiste
nell’indeterminazione assoluta, cioè nell’ar- bitrio di indifferenza, ma
nell’assenza di necessità e di costrizione (v. LmertÀ). Da Leibniz in poi la T.
è considerata come una parte fondamentale della teologia razionale (v.
TEOLOGIA). TEOFANIA (lat. Theophania; ingl. Theophany; franc. Théophanie; ted.
Theophanie). Il termine che significa « visione di Dio» venne usato da Scoto
Eriugena (sec. 1x) per indicare il mondo come ma- nifestazione di Dio. T. è,
secondo Eriugena, il processo che da Dio discende all'uomo con la creazione per
ritornare attraverso l’uomo a Dio con l’amore. T. è anche ogni opera della
creazione in quanto manifesta l'essenza divina, che perciò diventa visibile in
essa e attraverso di essa (De divis. nat., I, 10; V, 23). TEOGNOSI (ted.
Theognosis). La conoscenza scientifica di Dio (cfr. C. F. Krause, Vorlesungen
liber das System der Philosophie, 1828, pag. 27). Termine molto raro. TEOGONIA
(gr. Broyovla; ingl. Theogony; fran- cese Théogonie; ted. Theogonie). La
generazione degli dèi e del mondo: la cosmologia mitica (cfr. PLATONE, Leggi,
X, 886 c) (v. COSMOLOGIA). TEOLOGIA (gr. Geodoyla; lat. Theologia; in- glese
Theology; franc. Théologie; ted. Theologie). In generale, ogni trattazione o
discorso o predica che abbia per oggetto Dio o le cose divine. In questo senso
generalissimo la parola fu intesa dal grande erudito romano Marco Terenzio
Varrone (sec. 1 a. C.), del quale S. Agostino ci ha conser- vato la distinzione
di tre T.: la T. mitica o favo- losa; la T. naturale o fisica; la T. civile. La
T. mitica o favolosa è quella di cui si servono i poeti e che ammette molte
finzioni contrarie alla dignità e alla natura della divinità. La T. naturale è
quella dei filosofi, che ha per oggetto «ciò che gli dèi sono, il luogo in cui
risiedono, il loro genere, la loro essenza, il tempo in cui sono nati o la loro
perennità; e se essi prendono il loro principio dal fuoco, come crede Eraclito,
o dai numeri come dice Pitagora o dagli atomi come dice Epicuro +. Infine la T.
civile «è quella che nelle città i cit- tadini, e soprattutto i sacerdoti,
devono conoscere e praticare e che insegna quali divinità si debbano onorare
pubblicamente e quali cerimonie e quali sacrifici sia opportuno fare»
(AGOSTINO, De Civ. Dei, VI, 5). In questo senso varroniano, Vico considerava la
sua «scienza nuova» come «una TEOFANIA T. civile ragionata della provvedenza »
in quanto essa trae origine dalla «sapienza volgare dei le- gislatori che
fondarono le nazioni con contem- plare Dio per l’attributo di provvedente +
(Sc. N., II, Corollari d’intorno agli aspetti principali di questa scienza). In
senso più specificamente sto- rico-filosofico si possono distinguere: 1° la T.
metafisica; 2° la T. naturale; 3° la T. rivelata; 4° la T. negativa. 1°
Aristotele chiamò T. la sua « scienza prima » cioè la metafisica: che egli
intendeva, nello stesso tempo, come scienza dell’essere in quanto essere cioè
della sostanza e come scienza della sostanza eterna, immobile e separata, cioè
di Dio (Mer., VI, 1, 1026a 10). Questo concetto della T. come metafisica è rimasto
per lunghi secoli. Lo stoico Cleante includeva la T. tra le parti della
filosofia (Diogc. L., VII, 41). Per Plotino, la T. era la sola scienza degna
del nome (Enn., V, 9, 7). E da questo punto di vista spesso i neoplatonici
chia- marono teologi tutti i filosofi, anche i fisici o i materialisti, in
quanto si occupavano, come dice Proclo, dei « princìpi primissimi delle cose in
quanto per sè sussistenti » (P/ar. 7heol., I, 3.) Questo è anche il significato
che Varrone attribuiva all’espres- sione « T. naturale ». Quest'uso continuò
nella filo- sofia cristiana: nè nella patristica nè nella prima età della
scolastica si potrebbe rintracciare una delimitazione precisa tra T. e
filosofia. Lo stesso S. Tommaso, in una prima fase del suo insegna- mento, accettò
l’identità di T. e di metafisica come appare dal prologo del suo commento alla
Mera- fisica di Aristotele. Qui egli dice che poichè la metafisica considera in
primo luogo le sostanze se- parate o divine, in secondo luogo l’ente in quanto
tale e in terzo luogo le cause o i princìpi primi, essa «si dice scienza divina
o T. in quanto consi- dera le sostanze separate; metafisica in quanto con-
sidera l’ente;... e prima filosofia in quanto considera le cause prime delle
cose» (/n Mer., Proemium). Nel sec. xvi si cominciò a distinguere la « filo-
sofia prima », che si chiamò anche ontologia (v.), dalla T.; e si cominciò a
distinguere anche la T. come scienza naturale dalla T. fondata sulla rivela-
zione. Queste distinzioni si trovano chiaramente sta- bilite nel De Augumentis
Scientiarum (1623) di F. Ba- cone: che chiamò 7. naturale la conoscenza che si
può ottenere di Dio «mediante il lume della natura e la contemplazione delle
cose create » (De Augm. Scient., III, 2) e chiamò 7. ispirata o sacra quella
che si fonda su princìpi direttamente ispirati da Dio (/bid., II, 1). 2° Il
secondo concetto della T. è pertanto quello di 7. naturale che si distingue dal
prece- dente soltanto per il fatto di comprendere una parte e non il tutto
della metafisica; e precisamente TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA quella parte che ha
per oggetto le cose divine. L'espressione baconiana « T. naturale» fu ripresa e
diffusa da Wolff: questi la definiva come «la scienza di ciò che è possibile
per opera di Dio + perciò come una parte della filosofia, la quale è in
generale la scienza delle cose possibili (Log., Disc. Prael., 57). Baumgarten
insisteva sul carattere razionale della T. così intesa: «La T. naturale è la
scienza di Dio in quanto si può conoscere senza la fede » (Mer., $ 800); e la riteneva
come fonda- mento della filosofia pratica, della T. e della T. rivelata (Zbid.,
$ 601). Fu questo il concetto di T. che, insieme con il suo contenuto, subì la
cri- tica di Kant nella Critica della Ragion Pura. Kant tuttavia si preoccupò
pure di distinguere le varie specie della T.; e partendo dalla distinzione base
tra T. razionale e T. rivelata, distinse, nella T. ra- zionale, la T.
trascendentale la quale « concepisce il suo oggetto semplicemente con la ragion
pura, mediante meri concetti trascendentali (ens origi- narium, realissimum,
ens entium)+ e la T. naturale che si avvale di «concetti che ricava dalla
natura ». A sua volta la T. trascendentale può essere cosmo- teologia se deduce
l’esistenza di Dio dall’esperienza in generale; od ontofeologia se deduce la
sua esi- stenza con semplici concetti senza ricorrere al- l’esperienza. Infine
la T. naturale può essere o T. fisica, se risale agli attributi di Dio movendo
dall'ordine e dalla costituzione del mondo; o T. morale, se considera Dio come
il principio del- l’ordine e della perfezione morale (Crit. R. Pura,
Dialettica, cap. III, sez. VII). Alcune di queste distinzioni sono rimaste e
ancora vengono adope- rate nel campo della T. ecclesiastica. 3° La 7. rivelata
o sacra è quella che desume i suoi princìpi dalla rivelazione. La prima
esplicita formulazione di questo concetto è, probabilmente, quella tomistica:
S. Tommaso afferma che «la sacra dottrina è scienza giacchè procede da prin-
cìpi noti attraverso il lume di una scienza supe- riore, che è la scienza di
Dio e dei beati» (S. 7H., I, q. 1, a. 2). La «scienza di Dio e dei beati»
coincide poi con «gli articoli di fede » o «Ia rive- lazione divina +» (/bid.,
a. 7-8). Era questa la T. che Duns Scoto considerava come scienza puramente
pratica, di fronte alla metafisica, che egli conside- rava come la scienza
teoretica per eccellenza: la T. infatti non avrebbe altro scopo se non quello
di persuadere l’uomo ad agire per la propria salvezza (Op. Ox., Prol., q. 4, n.
42); e le stesse verità apparentemente teoretiche avrebbero solo va- lore
pratico come, per es., la proposizione « Dio è trino » che includerebbe
semplicemente la cono- scenza del retto amore che l’uomo deve a Dio (Ibid.,
Prol., q. 4, n. 31). La negazione del valore conoscitivo della T. persiste, sul
finire della scola- 869 stica, anche quando non si riconosce alla totalità di
essa il carattere pratico. Ockham, considerava la T., non come una scienza, ma
come un sem- plice insieme di conoscenze diverse, teoretiche e pratiche,
poggianti esclusivamente sull’autorità e aventi lo scopo di avviare l’uomo alla
salvezza (In Sent., Prol., q. 12, E-I). Questo concetto non è molto diverso da
quello che Spinoza doveva esporre più tardi nel Trattato teologico-politico
(cfr. specialmente cap. 15). 4° Il concetto della 7. negariva è sorto e si è
tramandato nell’ambito del misticismo. La di- stinzione tra T. positiva o
affermativa, la quale procede da Dio verso il finito mediante la deter-
minazione degli attributi o nomi di Dio; e la T. negativa che procede dal finito
a Dio e lo consi- dera al di sopra di tutti i predicati o nomi coi quali si può
designarlo, si trova nei trattati dello Pseudo Dionigi l’Areopagita (De mysf.
theol., 1; De div. nom., I, 4; 4, 2; 13, 1; De eccl. hyerar., 2, 3); ma la sua
fonte è negli scritti neoplatonici che pon- gono Dio al di sopra di tutte le
determinazioni finite e dello stesso essere (v. TRASCENDENZA). Essa viene
ripetuta da Scoto Eriugena (De divis. nat., JI, 30), ripresa dal misticismo
speculativo tedesco del sec. x1v (cfr. ECKEHART, in PFEIFFER, Deutsche Mystiker
des 14 Jahrhunderts, II, pag. 318-19); e nel Rinascimento da Nicolò da Cusa (De
docta ignor., I, 24; 26) e da Bovillo (De nihilo, 11, 1, 4). Si può considerare
come una manifestazione di questa T., rivissuta attraverso l’esperienza di
Kier- kegaard, la cosiddetta « T. della crisi » di K. Barth: soltanto che una
tale T. non consiste nel negare di Dio gli attributi finiti ma nel considerare
il rapporto tra l’uomo e Dio come la negazione di tutte le possibilita umane (crisi)
e la loro ridu- zione a mere impossibilità, sicchè solo da questa negazione
nasca una possibilità di salvezza, di origine, non più umana, ma divina
(Ròomerbrief). TEOLOGICHE, VIRTÙ (lat. Virtutes theo- logicae; ingl.
Theological Virtues; franc. Vertus théologiques; ted. Theologische Tugenden).
Così furono chiamate nel Medio Evo la fede, la speranza e la carità in quanto
virtù dipendenti da doni divini e dirette al raggiungimento di una beatitudine
cui l’uomo non può giungere con le sole forze della sua natura. Per questo
carattere soprannaturale le virtù T. si distinguono da quelle etiche (v.) e
diano- etiche (v.) (cfr. S. Tommaso, S. 7h., II, 1, q. 62, a. 1). Per le
singole virtù, confronta le relative voci. TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA. Così Croce
ha chiamato la filosofia che si occupa di problemi mal posti e come tali
irresolubili, sia poi che li dibatta come «massimi» o «eterni», pro- 870 blemi,
sia che li risolva con sistemi « immaginari » sia infine che assuma di fronte
ad essi un atteg- amento agnostico (Sulla filosofia T. e le sue sopravvivenze,
in Saggi Filosofici, 1920, V, pag. 297). ‘TEOMANZIA (ingl. Theomancy; ted.
Theo- mantie). La divinazione ispirata dalla divinità (vedi NTUSIASMO).
‘TEOMONISMO (ted. Theomonismus). La dot- trina secondo la quale Dio è l’unica
realtà: lo stesso che acosmismo (v.) o panteismo (v.). TEONOMIA (ingl.
Theonomy; franc. Théo- nomie; ted. Theonomie). Governo o legislazione di Dio.
Il termine viene talora opposto ad auto- nomia. TEOPANTISMO (ingl. Theopantism;
fran- cese Théopantisme; ted. Theopantismus). La dot- trina che Dio è la sola
realtà: lo stesso che pan- teismo (v.). ‘TEOPNEUSTIA (ingl. Theopneusty;
francese Théopneustie; ted. Theopneustie). L'ispirazione di- vina attraverso la
quale viene comunicata la ve- rità rivelata. ‘TEOREMA (gr. 8éwpnua; lat.
Theorem; fran- cese Théorème; ted. Theorem). Una qualsiasi pro- posizione
dimostrabile. Il termine entrò fin dall'an- tichità nel linguaggio matematico
(cfr. ARISTOTELE, Mer., XIV, 2, 1090a 14); ma ha conservato e conserva, anche
fuori del linguaggio matematico il suo significato di proposizione non
primitiva ma derivata o derivabile da altre proposizioni. TEORETICO (gr.
0ewpnrix6c; lat. Specula- tivus; ingl. Theoretical; franc. Théorétique; tedesco
Theoretisch). L'aggettivo corrisponde a specula- zione (v.) ed ha perciò come
questo sostantivo due significati fondamentali: 1° ciò che è puramente
conoscitivo e si oppone a pratico; 2° ciò che non è riducibile all’esperienza e
si oppone a empirico. Nel primo esempio si parla di «scienze T.»; nel secondo,
di « concetti T.3. TEORIA (gr. 0ewpia; lat. Theoria; ingl. Theory; franc.
Théorie; ted. Theorie). Il termine ha i se- guenti significati principali: 1°
Speculazione o vita contemplativa. Questo è il significato che il termine ebbe
in Grecia. Ari- stotele identificava in questo senso la T. con la beatitudine
(Er. Nic., X, 8, 1178 b 25). In questo senso, T. si oppone a pratica e in
generale ad ogni attività non disinteressata cioè che non abbia come fine la
contemplazione; 2° Una condizione ipotetica ideale nella quale abbiano pieno
adempimento norme o regole che, nella realtà, vengono solo imperfettamente o
par- zialmente seguite. Questo significato si dà alla pa- rola T. quando si
dice: «In T. dovrebbe essere così, ma in pratica è tutt’altra cosa », Kant
esami- nava il problema del rapporto tra T. e pratica in TEOMANZIA questo senso
in uno scritto del 1793 (Uber den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig
sein, taugt aber nicht fiir die Praxis): nel quale si dànno le seguenti
definizioni della T. e della pratica: «Si chiama T. un complesso di regole
anche pra- tiche quando siano pensate come principi generali e si faccia
astrazione da una quantità di condizioni che hanno tuttavia influenza
necessaria sulla loro applicazione. Inversamente, si chiama pratica, non
qualsiasi atto, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in rapporto a
princìpi di condotta rappresentati universalmente» (Op. cit., in principio). 3°
La cosiddetta «scienza pura » cioè la parte della scienza che non considera le
applicazioni della scienza stessa alla tecnica produttiva. Oppure quelle
scienze o parti di scienze che consistono nel- l’elaborazione concettuale o
matematica dei risul- tati, per es., la «fisica teorica ». 4° Un'ipotesi o un
concetto scientifico. Que- st’ultimo significato va specialmente considerato
sotto questa voce perchè il problema della T. scientifica costituisce uno dei
capitoli più impor- tanti della metodologia delle scienze. I risultati
principali delle ricerche in questo campo possono essere ricapitolati nel modo
seguente: a) La T. scientifica è un’ipotesi o almeno con- tiene una o più
ipotesi come sue parti integranti. La scienza moderna ha abbandonato la
ripugnanza della scienza del sec. xv e xxx contro le ipotesi, ripugnanza che fu
così bene espressa da Newton e da altri (v. IPOTESI). Questo è accaduto perchè
l’ipo- tesi ha cessato di essere una congettura circa le cause ultime o
nascoste dei fenomeni. Kant aveva già condannato le «ipotesi trascendentali»
che fanno appello ad una semplice idea della ragione e si era pronunciato in
favore delle ipotesi empi- riche il cui carattere è «Ja sufficienza per
determi- nare a priori le conseguenze che sono già date » (Crir. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. I, sez. 3). Claude Bernard nel 1865 affermava,
insieme, l’in- dispensabilità delle teorie e il loro carattere ipo- tetico nel
senso stretto del termine. « Lo sperimen- tatore, egli diceva, pone la sua idea
[o ipotesi sperimentale] come una questione, come un’inter- pretazione anticipata
della natura, più o meno probabile, da cui deduce logicamente conseguenze che
confronta ad ogni istante con la realtà per mezzo dell’esperienza »
(Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, I, 2). E vedeva la fecon-
dità delle ipotesi per la scoperta di fatti nuovi: «Le ipotesi hanno per
oggetto non solo di farci fare esperienze nuove, ma ci fanno anche scoprire
fatti nuovi che non avremmo percepito senza di esse » (Zbid., III, 1, 2). Ai
principi del nostro secolo il carattere dell’ipotesi scientifica (che è quello
stesso dell’ipotesi in generale) di non poter essere TEORIA 871 direttamente
provata dai fatti veniva chiaramente riconosciuto da E. Mach: « Chiamiamo
ipotesi una spiegazione provvisoria che ha lo scopo di far comprendere più facilmente
i fatti ma che sfugge ancora alla prova dei fatti» (£rkenntniss und Irrtum,
1905, cap. XIV; trad. franc., pag. 240). E Duhem così elencava le condizioni
cui un’ipo- tesi dovrebbe rispondere per essere scelta a fondamento di una T.
fisica: 1° l’ipotesi non dev’essere una proposizione contraddittoria; 2° non
dev'essere contraddittoria con le altre ipotesi della stessa scienza; 3° le
ipotesi devono essere tali che dal loro insieme la deduzione matematica possa
tirare conseguenze che rappresentino, con approssi- mazione sufficiente,
l'insieme delle leggi sperimentali (La théorie physique, II, 7, 1, pag. 363).
Poincaré insisteva a sua volta sulla necessità delle ipotesi per qualsiasi
procedura sperimentale e sulla ne- cessità di non moltiplicare le ipotesi stesse.
Que- st’ultima avvertenza non è che il vecchio principio dell'economia (v.) o
rasoio di Ockham, sempre valido nel campo delle formulazioni concettuali (La
science et l'hypothèse, 1902, cap. IX). b) Una T. scientifica non è un’aggiunta
interpretativa al corpo della scienza ma è lo sche- letro di questo corpo. In
altri termini la T. con- diziona sia l’osservazione dei fenomeni sia l’uso
stesso degli strumenti di osservazione. Su questo punto è rimasto classico il
libro di Duhem La teoria fisica (1906; cfr. specialmente il cap. IV della
seconda parte). È questo un punto che è stato talora sfruttato allo scopo di
mostrare il carattere relativo o imperfetto della conoscenza scientifica. Così
ha fatto, per es., E. Le Roy (Science et philosophie, 1899-1900). Ma in realtà
esso in- valida, non già la scienza, ma la tesi della separa- zione netta tra
osservazione e T. e quella della verità assoluta della scienza. c) Una T.
scientifica contiene, oltre la sua parte ipotetica, un apparato che consente la
sua verificazione o conferma. Duhem distingueva in una T. fisica quattro
operazioni fondamentali e cioè: 1° la definizione e la misura delle grandezze
fisiche; 2° la scelta delle ipotesi; 3° lo sviluppo matematico della T.; 4° il
confronto della T. con l'esperienza (La théorie physique, I, 2, $ 1). Ov-
viamente le prime tre di queste operazioni costi- tuiscono la costruzione e lo
sviluppo dell’ipotesi, mentre la quarta è diversa e costituisce la fase della
conferma. Analogamente, Norman R. Camp- bell ha distinto in ogni T. fisica due
gruppi di pro- posizioni: « uno consistente di asserzioni circa qual- che
collezione di idee che sono caratteristiche della T.; l’altro consistente nelle
relazioni tra queste idee e altre idee di natura diversa ». Il primo gruppo di
idee è l’ipotesi, il secondo è il dizionario. Lo scopo del dizionario è di
rendere possibile la veri- fica indiretta dell’ipotesi. Dice Campbell: « De-
v'essere possibile determinare, indipendentemente dalla conoscenza della T., se
certe proposizioni che contengono le idee del dizionario sono vere o false. Il
dizionario riferisce alcune di queste proposizioni, la cui verità o falsità è
conosciuta, a certe proposizioni che comprendono le idee ipotetiche affermando
che, se il primo insieme di proposizioni è vero, allora anche il secondo è vero
e viceversa; questa relazione può essere espressa dall’asserzione che il primo
insieme implica il secondo + (Physics: the Elements, 1920, pag. 122).
Analogamente ancora G. Bergmann ha detto che una T. scientifica consiste di: 1°
assiomi; 2° teo- remi; 3° prove di questi teoremi e 4° definizioni (Philosophy
of Science, 1957, pag. 35); nella quale elencazione le « prove dei teoremi»
costituiscono l’apparato di verificazione della teoria. Due osser- vazioni sono
molto importanti a questo proposito. La prima è che le modalità e il grado
della prova o conferma, che una T. deve possedere per essere dichiarata o
creduta «T. scientifica », non sono definibili con un criterio unitario.
Ovviamente, la verità di una T. psicologica o di una T. economica richiede
apparati di prova completamente diversi da quello di una T. fisica, perchè le
tecniche di verifica sono completamente diverse. Anche i gradi di conferma
richiesti sono diversi e spesso, fuori del campo della fisica, si chiamano « T.»
semplici congetture che non includono il minimo apparato di prova. La seconda
osservazione è che ogni ap- parato di prova esige la limitazione delle ipotesi
contenute nella T.: giacchè, dove queste ipotesi si possono moltiplicare ad
arbitrio, la T. può es- sere mantenuta anche contro qualsiasi smentita empirica
e la sua conferma diventa indifferente (come fu, ad es., nel caso della T.
degli epicicli nella cosmologia tolemaica). Ma anche con questa limitazione è
spesso difficile decidere sino a che punto l’acquisizione di qualche dato
sperimentale si concili con la T. o metta in crisi l’insieme della T. stessa.
d) Una T. non è necessariamente una spie- gazione del dominio di fatti cui si
riferisce, ma uno strumento di classificazione e di previsione. Già Duhem
osservava: « Una T. vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una
spiegazione conforme alla realtà; è piuttosto una T. che rap- presenta in modo
soddisfacente un insieme di leggi sperimentali » (La rhéorie physique, I, 2,
1). La verità di una T. consiste nella sua validità; e la sua validità dipende
dalla sua capacità di adem- piere alle funzioni cui è chiamata. Le funzioni di
una T. scientifica possono essere specificate come segue: 1° una T. deve
costituire uno schema 872 di unificazione sistematica per contenuti diversi. Il
grado di comprensività di una T. è uno dei fonda- mentali elementi di giudizio
della sua validità; 2° una T. d ve offrire un complesso di mezzi di
rappresentazione concettuale e simbolica dei dati di osservazione. Sotto questo
aspetto, il criterio cui deve soddisfare è quello dell’economia dei mezzi
concettuali cioè della sua semplicità logica; 3° una T. deve costituire un
insieme di regole di inferenza che consentano la previsione dei dati di fatto.
Questo è ritenuto oggi uno dei compiti fondamentali di una T. scientifica; e la
capacità di previsione di una T. è il criterio fondamentale per valutarlo (cfr.
S. TOULMIN, The Philosophy of Science, 1953, pag. 42; M. K. MUNITZ, Space Time
and Creation, 1957, IV, 1). TEOSI. V. DEIFICAZIONE. ‘TEOSOFIA (gr. Brocogla;
ingl. Theosophy; fran- cese Théosophie; ted. Theosophie). Il termine veniva già
usato dai Neoplatonici per indicare la cono- scenza delle cose divine dovuta a
una diretta ispi- razione da Dio (PORFIRIO, De Absr., IV, 17; GIAM- BLICO, De
Myst., VII, 1; ProcLOo, Theol. Plat., V, 35). Fu ripreso nello stesso senso da
Jacob Bòhme (Sex Puncta Theosophica, 1620; Quae- stiones Theosophicae, 1623) e
da altri mistici della Riforma. Kant osservava che la limitazione della ragione
«impedisce che la teologia si elevi alla T., a concetti trascendentali in cui
la ragione si smar- risce » (Crit. del Giud., $ 89). E Schelling parlava del
teosofismo di Jacobi, intendendo per teosofi i filosofi che si ritengono
direttamente ispirati da Dio (Miinchener Vorlesungen in Werke, X, pag. 165). In
seguito il termine è stato ripreso nel 1875 dai fondatori della Società
teosofica tra i quali vi era Elena Petrowna Blavatsky, autrice di due opere
/side svelata (1877) e Dottrina segreta (1888) che esponevano la nuova T.: un
mi- scuglio di occultismo e di credenze orientali, che si assumeva avesse a suo
fondamento una diretta ispirazione di Dio. Le vicende e le dottrine di questa
società cadono fuori della filosofia. Basti qui accennare allo scisma provocato
da Rudolf Steiner e che portò quest’ultimo alla formulazione dell’antroposofia
(v.). ‘TERMINE (gr. 6poc; lat. Terminus; inglese Term; franc. Terme; ted.
Terminus). I significati principali sono i seguenti: 1° un segno linguistico o
un insieme di segni. Questo è il significato che più da vicino interessa la
filosofia (v. oltre); 2° qualsiasi oggetto o cosa cui un discorso si riferisca.
In tal senso è sinonimo appunto di oggetto (v.) o di cosa (v.); 3° i confini di
un'estensione, per es., il T. di una linea o di una superficie; TEOSI 4° il
punto d’arrivo di un’attività o il risul- tato di un’operazione. In questo
senso, ad es., il T. della volontà è l’azione o dell’intelletto la conoscenza;
5° il punto di partenza o il punto d’arrivo di un movimento. E in tal senso si
parla di terminus a quo e di terminus ad quem (v.). Nel primo significato, che
interessa la logica, si possono distinguere i seguenti significati subordinati:
a) gli elementi che entrano a comporre le premesse del sillogismo categorico
cioè il soggetto e il predicato; b) tutti i componenti semplici che entrano
nelle proposizioni. In questo senso sono T. non solo il soggetto e il predicato
ma anche i verbi, le pre- posizioni, le congiunzioni cioè i componenti sin-
categorematici (v.). Non sono T. invece le propo- sizioni perchè non sono
semplici; c) tutti i componenti delle proposizioni sia semplici che complessi.
In questo senso generalis- simo sono T. non solo il soggetto, il predicato, il
verbo e i componenti sincategorematici, ma anche le proposizioni in quanto
possono entrare a far parte di altre proposizioni, come quando si dice «
Socrate è uomo, è una proposizione ». Il significato a) è quello definito da
Aristotele (An. Pr., I, 1, 24b 16) e che è rimasto a lungo anche nella logica
medievale (cfr. PIETRO IsPANO, Summ. Log., 4.01). Gli altri significati sono
stati ammessi dalla logica terministica del sec. x1v e si possono leggere in
Ockham (Summa Logicae, I, 2). Data questa diversità del significato della
parola, le divisioni del concetto sono state numerose e diverse. Quella che i
logici terministi considerano come fondamentale è la divisione tra T. scritto,
T. parlato, e T. pensato, corrispondenti alle tre specie di proposizioni
distinte da Boezio. Essi di- stinsero inoltre i T. categorematici e
sincategore- matici (v.); concreti e astratti (v.); connotativi e assoluti (v.
CONNOTAZIONE); univoci ed equivoci (v.) (cfr., su queste divisioni, OCKHAM,
Summa Logicae, I, 3 sgg.). Nella logica moderna la parola è assunta nel
significato più esteso, cioè nel senso c) (cfr. CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, n. 4). Nella matematica, è assunta in un analogo
significato, intendendosi per T. qualsiasi componente, semplice o complesso, di
una espressione. TERMINISMO (ingl. Terminism; franc. Ter- minisme; ted.
Terminismus). Sin dai princìpi del sec. xv, si indicarono con il nome di
terministi (terministae) o nominalisti (nominales) i sostenitori della tesi
nominalistica nella disputa sugli univer- sali (v. NOMINALISMO; UNIVERSALE) che
erano, nel contempo, cultori della nuova /ogica, considerata come lo studio
delle proprietà dei termini. Gio- TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL vanni Gerson
(morto il 1429) già parla della di- sputa tra formalisti e terministi (De
Concepribus, in Opera, 1706, IV, pag. 806). E in un manoscritto dello stesso
secolo della Biblioteca Colbert (stampato in parte da S. BaLuzi, Miscellanea,
IV, pag. 531 f) è detto: «Sono detti nominalisti i dottori che non mol-
tiplicano le cose significate dai termini a seconda della moltiplicazione dei
termini; realisti invece quelli che affermano che le cose si moltiplicano
secondo la molteplicità dei termini... Inoltre sono detti nominalisti coloro
che usano studio e dili- genza per conoscere tutte le proprietà dei termini
dalle quali dipende la verità o la falsità delle pro- posizioni; le quali
proprietà sono la supposizione, la nominazione, l’estensione, la restrizione,
la di- stribuzione e gli esponibili: e che conoscono inoltre le antinomie
(obligationes) e i veri fondamenti degli argomenti dialettici » (riportato in
PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 187). Lo studio, di cui qui si parla,
delle proprietà dei termini, muo- veva dall’indirizzo generale di questi
filosofi e logici per il quale la conoscenza e la scienza non hanno per oggetto
altro che termini. Diceva a questo proposito Ockham: « Qualsiasi scienza, sia
razio- nale sia reale, è scienza solo di proposizioni e di proposizioni in
quanto sono conosciute, in quanto solo le proposizioni sono conosciute. Tutti i
ter- mini di queste proposizioni sono soltanto concetti e non già sostanze
esterne» (/n Senr., I, d. 2, + 4, M, N) (v. Logica; NOMINALISMO; UNIVERSALE).
TERMINOLOGIA (ingl. Terminology; fran- cese Terminologie; ted. Terminologie).
Un qualsiasi linguaggio artificiale: ad es., «la T. matematica », «la T.
hegeliana », ecc. TERMINUS A QUO, AD QUEM. Espres- sioni usate a proposito del
movimento: 7. a quo si chiama il luogo dal quale un mobile si sforza di
allontanarsi. 7. ad quem si chiama il luogo al quale il mobile si sforza di avvicinarsi
(HOBBES, De Corp., 8, $ 10; WOLFF, Cosmol., $ 161). TERRORISMO (ingl.
Terrorism; franc. Ter- rorisme; ted. Terrorismus). Il termine appartiene al
dominio della filosofia solo nel significato, at- tribuitogli da Kant, di T.
morale: che sarebbe l’interpretazione della storia come decadenza o regresso
(Der Streit der Fakultàten, 1798, 1I, 3). TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL (in-
glese Principle of Excluded Middle; franc. Principe du milieu ou tiers
exclu; ted. Grundsatz vom aus- geschlossenen Dritten). Fu Baumgarten il primo a dare il nome a questo
principio e a considerarlo come autonomo nei rispetti del principio di con-
traddizione (Mer., 1739, $ 10) per quanto Wolff parlasse della « esclusione del
medio tra i contrad- dittori» come di un corollario del principio di
contraddizione (Onf., $ 53). 873 Le vicende di questo principio sono
strettamente collegate con quelle del principio di contraddizione dal quale,
sino a Baumgarten, non fu distinto. Tuttavia Aristotele lo formulò con tutta
chiarezza dicendo: « Tra gli opposti contraddittori non c’è un mezzo. Questa
infatti è la contraddizione: l’op- posizione, all’una o all’altra parte della
quale è presente l’altra parte, sicchè non ha un mezzo» (Met., X, 7, 1057a 33).
Nè questa formulazione è isolata perchè (come risulta anche dal passo citato)
l’esclusione del T. è da Aristotele ritenuta inelimi- nabile dalla
contraddizione (cfr. C. A. ViANO, La logica di Aristotele, 1955, pag. 35 sgg.).
La logica medievale ignorò totalmente il principio, che co- minciò ad essere
distinto dal principio di contrad- dizione solamente da Leibniz. Questi osservò
che il principio di contraddizione contiene due enun- ciati veri: « L’uno che
il vero e il falso non sono compatibili nella stessa proposizione o che una
proposizione non può essere vera e falsa ad un tempo; l’altro, che l’opposto o
la negazione del vero e del falso non sono compatibili o che non c’è un mezzo
tra il vero e il falso o che non è pos- sibile che una proposizione non sia nè
vera nè falsa » (Nouv. Ess., IV, 2, 1). A partire dalla metà del sec. xv, ad
opera di Wolff e Baumgarten, il principio del T. escluso faceva il suo
ingresso, insieme con quelli di identità e di contraddizione, tra le «leggi
fondamentali del pensiero ». Ma il principio del T. escluso non ha avuto la
fortuna degli altri princìpi: è stato talora revocato in dubbio. Secondo una
testimonianza di Cicerone lo revocava in dubbio Epicuro per togliere valore
alla dialettica (Acad., IV, 30, 97). E mentre Hegel ripeteva contro di esso le
solite critiche che indiriz- zava a tutti i principi logici tradizionali (Enc.,
$ 119), Kant cercava di stabilire una eccezione ad esso, nella discussione
delle antinomie cosmologiche. Egli distinse l’opposizione analitica, che è
quella della contraddizione e che esclude il medio, dall'oppo- sizione
dialettica la quale invece ammette il medio. Se le due proposizioni: «Il mondo
rispetto alla grandezza è infinito», «Il mondo rispetto alla grandezza è
finito» vengono considerate in oppo- sizione analitica, il mondo non può essere
che o finito o infinito. Ma esse possono essere considerate in opposizione
analitica solo se si ammette che il mondo sia una « cosa in sè » cioè solo se
si ammette come valida l’idea del mondo. Kant dichiara di negare questa
validità: pertanto le due proposizioni si trovano ad essere in opposizione
dialettica e si può affermare che il mondo «non esiste nè come un tutto in sè
infinito nè come un tutto in sè fi- nito » (Crit. R. Pura, Dial. trasc., cap.
II, sez. VII. Questo equivale a dichiarare che il principio del T. escluso non
è valido nel caso dell’opposizione 874 TERZO dialettica e a introdurre un nuovo
valore logico, accanto al vero e al falso, cioè l’indeterminato. La logica
contemporanea non si è lasciata sfug- gire la possibilità di costruire una
logica che esclu- desse il principio del T. escluso. Dapprima Lu- kasiewicz nel
1920 poi Lukasiewicz e Tarski nel 1930 hanno costruito una logica a tre valori,
corrispon- denti al vero, al falso e al possibile, simbolizzati dalle cifre 1,
0, 1/2. In questa logica il principio del T. escluso non trova posto, nel senso
che non è esprimibile con i simboli della logica stessa e non costituisce un
suo teorema (Untersuchungen liber den Aussagenkalkiil, in Comptes rendus des
Séances de la Société des Sciences et des Lettres de Varsovie, 1930, pag.
30-50, 51-77). Gli stessi autori hanno dato le regole per costruire un sistema
a un numero finito n di valori di verità (Philoso- phische Bemerkungen zu
mehrwertigen Systemen des Aussagenkalkiils, negli stessi Comptes Rendus, 1930,
classe III, pag. 51-77). Questo e i precedenti scritti citati sono ora raccolti
in Polish Logic 1920-39, Oxford, 1967, pag. 15-65). Un tipo di logica poli-
valente era stato anche costruito da E. L. Post (Introduction to a General
Theory of Elementary Pro- positions, in American Journal of Mathematics, 1921,
43, 163). A. Heyting ha costruito a sua volta una logica intuizionistica
formalizzata a tre valori, vero, falso e indeterminato, che si applica alla
teoria intuizionistica della matematica di Brower e che implica la rinuncia
alla dimostrazione per assurdo (Die formalen Regeln der intuitionistischen
Logik, in Sitzungesber. Preuss. Akad. Wiss. [Phys.-Math. Klasse], 1930, pag.
42-56). La logica a tre valori costituisce perciò una al- ternativa ai sistemi
tradizionali di logica. Scriveva C. I. Lewis: «Il principio del T. escluso non
è scritto nei cieli: riflette piuttosto la nostra ostina- zione ad aderire al
più semplice di tutti i modi della divisione e il nostro interesse predominante
per gli oggetti concreti, in opposizione ai concetti astratti. Le ragioni per
le quali scegliamo un sistema di logica non sono tratte dalla logica stessa
come non sono tratte dai princìpi matematici le ragioni per scegliere le
coordinate cartesiane piuttosto che quelle polari o le coordinate di Gauss +
(A/terna- tive Systems of Logic, in The Monist, 1932, pag. 505). H. Reichenbach
ha a sua volta mostrato l’utilità della logica a tre valori per la meccanica
quanti- stica, data la sua natura probabilistica (Philosophic Foundations of
Quantum Mechanics, $ 30) (cfr., sulla questione, anche L. RouGIER, Traité de la
con- naissance, 1955, II, cap. VII. TERZO UOMO (gr. «piroc &vipwroc).
Aristo- tele accenna più volte a un argomento così chiamato contro la dottrina
platonica delle idee, argomento che dà per noto e che non espone (Mer., I, 9,
UOMO 990 b 17; VII, 13, 1039a 2; El. Sof., 178b 36). Secondo Alessandro di
Afrodisia (In Met., I, 9) l’argomento consisterebbe nel dire che, poichè un
uomo particolare è simile all’uomo ideale, ci deve essere un terzo uomo di cui
entrambi partecipano. Ma questo è l’argomento addotto contro la dottrina delle
idee dallo stesso Platone, che tuttavia non menziona l’esempio dell’uomo
(Parm., 132 a). Ales- sandro tuttavia menziona anche altre forme del-
l’argomento del T. uomo: 1° una è quella usata dai Sofisti: quando diciamo
«l’uomo passeggia» non intendiamo nè l’idea dell’uomo (che è immobile) nè un
uomo particolare: dobbiamo allora intendere un uomo di una terza specie; 2°
Fania, uno scolaro di Aristotele, nel suo libro contro Diodoro Crono attribuiva
al sofista Polisseno il seguente argomento. Se l’uomo esiste per partecipazione
all’idea del- l’uomo, ci deve essere qualche uomo che avrà il suo essere in
rapporto all’idea: ma questo non sarà nè l'idea stessa nè l’uomo particolare.
Infine lo stesso Alessandro nota come l’argomento del T. uomo esposto nella
prima forma può essere ripetuto all’infinito perchè il rapporto tra il T. uomo
da un lato e l’idea e l’uomo particolare dall’altro possono dar luogo al quarto
e quinto uomo e via di seguito. Poichè Platone fa esporre l’argomento da Par-
menide contro quella interpretazione della dottrina delle idee che scpara
nettamente le idee stesse dalle cose, è probabile che l’argomento fosse
corrente nella stessa scuola platonica; la sua origine sembra però megarica o
sofistica (cfr. la nota di W. D. Ross a Met., I, 9, nella edizione della
Metafisica aristo- telica da lui curata; nonchè del Drès al Parmenide, nella
Coll. des Univ. de France, VIII, pag. 21). TESI (gr. 6éow; ingl. Thesis; franc.
Thèse; te- desco These). Il termine deriva dai testi logici aristotelici, nei
quali ricorre con due significati prin- cipali e cioè: 1° per designare ciò che
all’inizio di una di- scussione l’interlocutore pone come propria assun- zione
(Top., II, 1, 109a 9); 2° per designare una proposizione assunta come principio
proprio (An. Post.). Questi due significati si sono conservati nella tradizione
filosofica. Il primo ricorre già in Pla- tone (Rep., I, 335a); e, secondo una tradizione
riferita da Diogene Laerzio, si attribuiva a Protagora l’aver per primo
mostrato come si appoggi una T. con argomenti (Drog. L., IX, 53). Nella
termino- logia dei logici medievali e dei matematici è pre- valso questo
significato: la T. designa una propo- sizione che ci si accinge a dimostrare.
Con Kant il termine ha acquistato un nuovo valore filosofico: nelle antinomie
della Ragion pura T. è l'enunciato affermativo dell’entinomia (v.). TETICO
Nella dialettica post-kantiana, il momento della T. è l’elemento positivo o di
posizione, quindi iniziale, di un processo o sviluppo dialettico (v. DIALET-
TICA, 4°). G. P. TESTABILITÀ o ATTESTABILITÀ (in- glese Testability; franc.
Testabilité; ted. Testabi- litàt). La possibilità di un enunciato di essere
messo a prova e quindi d’essere confermato o verificato oppure sconfermato o
falsificato. Il ter- mine è frequentemente usato da logici e metodo- logi
contemporanei. L’attestabilità comprende ogni possibilità di conferma, di
verifica, di accertamento e di controllo, in quanto ognuna di tale possibilità
può mettere capo sia alla prova (v.) sia alla di- sprova dell’enunciato in
questione. Carnap ha tuttavia ristretto il significato del termine a quello di
verifica empirica incompleta, giacchè ha inteso per esso « una procedura la
quale conduce alla conferma, almeno in un certo grado, dell’enunciato o della
sua negazione ». Si ha la T., se si possiede effettivamente una procedura del
genere. Si ha invece la semplice confermabilità se pur non possedendosi quella procedura,
si cono- scono le condizioni nelle quali l’enunciato sarebbe confermato. Un
enunciato può essere così confer- mabile senza essere attestabile: come accade
quando si sa che una certa osservazione lo confermerebbe, ma non si è in grado
di effettuare l’osservazione stessa (Testability and Meaning, 1936, in Readines
in the Philosophy of Science, 1953, pag. 47). Camap ha pure distinto ciò che è
direttamente e ciò che è indirettamente attestabile. Qualcosa è direttamente
attestabile se «sono concepibili circostanze nelle quali noi consideriamo
fiduciosamente l’enunciato così fortemente confermato o disconfermato sulla
base di una o poche osservazioni, che lo accet- tiamo o lo rigettiamo
senz'altro; come, per es., ‘c’è una chiave sul mio tavolo ’ ». L’attestazione
indiretta di un enunciato consiste invece « nell’at- testare direttamente altri
enunciati i quali stanno in una relazione logica specifica con l’enunciato in
questione ». Questi altri enunciati possono essere chiamati enunciati-prova
(rest sentences) (Truth and Confirmation, 1936, in Readings in Philosophical
Analysis, 1949, pag. 124). TESTIMONIANZA (ingl. Witnessing, Testi- mony; franc.
Témoignage; ted. Zeugniss). Il ricorso all’esperienza altrui o alle altrui
asserzioni come metodo di prova per le proposizioni che esprimono fatti. Già
Aristotele aveva notato che la T. può riferirsi «0 a questioni di fatto o a
questioni di caratteri personali » che sono anche questioni di fatto (Ret., I,
15, 1376 a 23). Il valore della testi- monianza in questo senso si trova
riconosciuto nella Logica di Portoreale (1662). « Per giudicare della verità di
un avvenimento e determinarmi a 875 crederlo o non crederlo, non bisogna
considerarlo in se stesso, come si farebbe con una proposizione di geometria,
ma bisogna considerare tutte le cir- costanze che lo accompagnano, sia interne
che esterne. Chiamo interne le circostanze che ap- partengono al fatto stesso,
ed esterne quelle che concernono le persone per la cui T. siamo portati a
crederlo » (ARNAULD, Log., IV, 13). Locke a sua volta introduceva la T. come
uno dei due fonda- menti del giudizio di probabilità (l’altro essendo «la
conformità di una cosa con la nostra conoscenza, osservazione od esperienza »).
Nella T. degli altri sono, secondo Locke, da considerare: « 1° il numero dei
testimoni; 2° la loro integrità; 3° la loro capa- cità; 4° l'intento
dell’autore, se la T. è tratta da un libro; 5° la coerenza tra le parti e le
circostanze della relazione; 6° le T. contrarie » (Saggio, IV, 15, 4). Leibniz
ammetteva il valore della T. solo subor- dinatamente al carattere di
verisimiglianza del- l’evento testimoniato, come argomento « non arti- ficiale»
che si differenzia da quelli «artificiali» che sono dedotti dalle cose con il
ragionamento. Tuttavia osservava che la stessa T. può fornire un fatto che
tende a formare un argomento arti- ficiale (Nouv. Ess., IV, 15, 4). Hamilton
così rias- sumeva la dottrina della T.: « L'oggetto della T. è detto il farro
(factum); e la sua validità costituisce ciò che si chiama la credibilità
storica (credibilitas historica). Per valutare questa credibilità si richiede
di considerare: 1° l'attendibilità soggettiva della T. (fides testium); 2° la
probabilità oggettiva del fatto. La prima è fondata in parte sulla sincerità e
in parte sulla competenza del testimone. La seconda dipende dalla possibilità
assoluta e relativa del fatto stesso. La T. è o immediata o mediata. È
immediata quando il fatto riportato è l’oggetto di un’esperienza personale; è
mediata quando il fatto è l'oggetto di un’esperienza altrui» (Lectures on
Logic, 2* ediz., II, pag. 175-76). TEST-SENTENCE. V. TESTABILITÀ. TETICA (ted.
Therik). Secondo Kant, « ogni insieme di dottrine dogmatiche », in opposizione
ad Antitetica (v.) (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. 2, sez. 2).
TETICO (ingl. Thetic; franc. Thétique; tedesco Thetisch). Che afferma o pone.
Fichte chiamò giudizio T. «un giudizio nel quale qualcosa sa- rebbe posta non
già come uguale o contraria di un’altra, ma solo come uguale a se stessa ».
Questo giudizio si distinguerebbe dal giudizio antitetico e dal giudizio
sintetico e precisamente si oppor- rebbe al giudizio antitetico. Il supremo
giudizio T. sarebbe «Io sono» nel quale, dice Fichte « dell’io non si afferma
nulla ma il posto del predicato è lasciato vuoto per la possibile
determinazione dell’io all’infinito ». Questo giudizio sarebbe « l’as- 876
soluta posizione dell'io » (Wissenschaftslehre, 1794, 1,$3,D7. L'aggettivo è
stato poi spesso adoperato in senso analogo a quello stabilito da Fichte.
Husserl ha chiamato T. «gli atti che pongono l’essere » cioè che hanno il
carattere della credenza (/deen, I, $ 103), TETRAKTYS (gr. terpaxtic). Secondo
i Pitago- rici, la somma dei primi quattro numeri, cioè il numero 10, in quanto
rappresentabile con un trian- golo che ha il quattro per lato. (Carm. Aur.,
48). La figura costituisce una disposizione geometrica che esprime un numero o
un numero espresso da una disposizione geometrica. Essa aveva un carat- tere
sacro e i Pitagorici usavano giurare per essa. TEURGIA (gr. deovpyla; lat.
Theurgia; inglese Theurgy; franc. Théurgie; ted. Theurgie). Il potere magico o
purificatorio delle tecniche religiose cioè dei riti. Già ammessa da Porfirio
(cfr. AGOSTINO, De Civ. Dei, X, 9), essa fu posta da Giamblico al di sopra
dell’unione spirituale con Dio cioè dell’estasi. Il proprio della T, è, secondo
Giamblico, il valore autonomo che i riti posseggono, indipen- dentemente da
coloro che li adoperano: cioè la loro capacità di muovere o persuadere le
potenze divine (De Myst. Aegyp., II, 11). S. Agostino si fermò a criticare
lungamente la T. che pareva a lui si rivolgesse indifferentemente sia ai demoni
cattivi sia agli angeli (De Civ. Dei, X, 10 sgg.). Kant considerò la T. come «
quella illusione fan- tastica che consiste nel credere di avere il senso di
altri esseri soprasensibili e di poter influire su di essi» e ritenne che essa,
come la teosofia, è resa impossibile dal riconoscimento della limita- zione
della ragione (Crit. del Giud., $ 89). TICHISMO. V. CasuaLisMo. TIMOCRAZIA (gr.
tiuoxparta; ingl. Timocracy; franc. Timocratie; ted. Timokratie). 1. La forma
di governo fondata sul desiderio degli onori che, secondo Platone, è una
corruzione dell’aristocrazia (Rep., VII, 545 b). 2. La forma di governo fondata
sul censo, se- condo Aristotele (E. Nic., VIII, 10, 1160a 36). TIMOLOGIA.
AxioLogia. TIPICA (ingl. Typics; franc. Typique; tedesco Typik). Kant ha
chiamato «T. del giudizio pra- tico» ciò che nella Critica della Ragion Pratica
corrisponde allo schematismo (v.) trascendentale della Critica della Ragion
Pura. Il tipo della legge morale è la stessa legge morale in quanto « può
essere manifestata in concreto nell’oggetto dei sensi » cioè in quanto è
liberamente realizzata nel mondo sensibile (Crir. R. Prat., I, libro I, cap.
II). TIPICO (ingl. Typical; franc. Typique; ted. Ty- pisch). In generale, ciò
che corrisponde ad un tipo cioè ad un modello o a una rappresentazione gene-
rale o schematica o ciò che esprime o realizza i TETRAKTYS caratteri del tipo.
Così, ad es., la « bellezza T.» che Ruskin esaltava è una bellezza idealizzata
secondo un certo modello. La « rappresentazione T.+» è una rappresentazione
generalizzata e co- mune a una classe di cose. I « caratteri T. + sono quelli
che contrassegnano il tipo; mentre una «esperienza T.» è un’esperienza che può
far da modello a molte altre esperienze o ne riassume i caratteri comuni. Il
termine, come si vede, non ha un significato rigoroso ma implica costantemente
il riferimento a ciò che è comune e generale e che, appunto come tale, è ritenuto
fondamentale. TIPO (gr. ròrog;
ingl. Type; franc. Type; te- desco Typus). Nel senso di modello, forma o schema o insieme
collegato di caratteristiche che può essere ripetuto da un numero indefinito di
esemplari, la parola è usata già da Platone (Rep., 379 a, 380, 396 e, ecc.) e
da Aristotele (Er. Nic., II, 2, 1104 a 1; Ibid., II, 7, 1107b 14; ecc.). Galeno
la usò per indicare le forme della malattia (Op., ed. Kihn, VII, 463). E la
parola è rimasta con lo stesso signi- ficato in molti usi correnti del linguaggio
comune, scientifico e filosofico. In particolare la biologia e la psicologia
fanno un uso amplissimo del termine e lo considerano fondamentale. Dice, ad
es., Kret- schmer: « Ciò che noi chiamiamo, matematicamente, punti focali di
correlazioni statistiche, chiamiamo anche, in prosa più descrittiva, T.
costituzionali... Un T. vero può essere riconosciuto dal fatto che esso conduce
a sempre maggiori connessioni di importanza biologica. Dove vi sono molte e
sem- pre nuove correlazioni con i fattori biologici fon- damentali... abbiamo a
che fare con punti focali della più grande importanza » (Korperbau und Cha-
rakter, 1948). Nella psicologia analogamente il T. è definito come «un gruppo
di tratti correlativi + allo stesso modo in cui un tratto è definito come un
gruppo di atti comportamentistici o di tendenze di azioni correlative (H. J.
EySENCK, The Structure of Human Personality, 1953, pag. 13 sgg.). Il
significato della parola non cambia nella cosid- detta « teoria dei T. logici »
di Russell e Whitehead, nella quale designa appunto le forme o i modelli dei
concetti (v. ANTINOMIA). Peirce ha inteso per T. una parola o un segno che non
è una cosa singola o un singolo evento ma una « forma defi- nitamente
significante » che per essere usata deve prender corpo in un gettone (Token)
che dev'essere il segno di un T. e perciò dell'oggetto che il T. significa. Un
T. è, per es., l’articolo «il» nella lingua italiana che non può essere visto o
ascol- tato perchè non è un singolo evento, ma deter- mina i singoli eventi
cioè i gettoni o gli esempi di esso nel discorso scritto o parlato (Coll. Pap.,
4.537) (v. GETTONE; PAROLA; SEGNO). TOLLERANZA TIPOLOGIA (ingl. Typology;
franc. Typologie; ted. Typologie). Lo studio dei tipi, in una qualsiasi
disciplina o scienza; ad es., T. biologica, T. raz- ziale, T. psicologica,
ecc.TIRANNIDE(gr. tupawilc; lat. Tyrannis; ingl. Tyranny; franc. Tyrannie; ted.
Tyrannie). La forma di governo nella quale l’arbitrio di una o più persone
tiene il posto del diritto. Il concetto di T. fu elaborato dai Greci, insieme
con quello di libera costituzione. La definizione del tiranno è già contenuta
nei versi di Euripide: « Non c’è peggior nemico che un tiranno in una città,
sotto il quale scompaiono tutte le leggi comuni e uno solo comanda, tenendo in
sua mano la legge» (Suppi., II, 429-32). Secondo Platone la T. è lo sbocco
dell'eccessiva libertà in cui cadono talora le democrazie. « Il popolo fuggendo
il fumo, come si suol dire, della servitù sotto un governo di uo- mini liberi
si trova, con la T., caduto nel fuoco della servitù sotto il dispotismo di
servi e in cambio di quell’eccessiva e inopportuna libertà, è costretto a
vestire la tunica dello schiavo e a soggiacere alla più triste ed amara delle
servitù, quella d’essere servo dei servi » (Rep., VIII, 569 b-c). A sua volta
Aristotele dice che la T. raccoglie in- sieme i mali della democrazia e della
oligarchia. Dalla oligarchia prende il suo fine che è la ricchezza (che è
l’unica condizione a cui si può mantenere la guardia e la vita di lusso) nonchè
la sfiducia nel popolo cui toglie le armi e il danneg- giamento della
popolazione allontanata dalla città e dispersa nelle campagne. Dalla democrazia
prende la lotta contro i maggiorenti, la loro rovina provo- cata occultamente o
manifestamente e il loro esilio (Pol., V. 1, 1311 a 8 sgg.). Nel Medio Evo,
mentre S. Tommaso ritiene che « dalla monarchia se si tra- sforma in T. segue
minor male che da un governo di più ottimati quando si corrompe» (De regimine
prin- cipum, I, 5); e condanna il tirannicidio, affidando alla pazienza dei
sudditi la sopportazione della T. o a un potere superiore il potere di
eliminarla (/bid., I, 6), Giovanni di Salisbury fa una esplicita difesa del
tiran- nicidio perchè considera il tiranno come un ribelle contro la legge
dalla quale i re, come tutti i citta- dini, sono vincolati (Policraticus, IV,
7). Queste idee furono poi spesso ripetute dai monarcomachi e giusnaturalisti
del sec. xvi e xvil. Diceva Bodin: «La più notevole differenza tra il re e il
tiranno è che il re si conforma alle leggi di natura, il ti- ranno le calpesta;
l’uno coltiva la pietà, la giustizia e la fede, l’altro non ha Dio nè fede nè
legge» (De la République, 1576, II, 4, 246). A sua volta Locke affermava: «
Dove la legge finisce, comincia la T., quando la legge sia trasgredita a danno
di altri, e chiunque nell’autorità ecceda il potere con- feritogli dalla legge
e fa uso della forza per com- 877 piere nei riguardi dei sudditi ciò che la
legge non permette, cessa, in ciò, di essere magistrato e, in quanto delibera
senza autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi
che con la forza viola il diritto altrui » (Two 7reatises of Governementr, II,
$ 202). Hobbes aveva affermato al contrario che «coloro che sono contrari ad
una monarchia la chiamano tirannia + (Leviarà., II, 19, 2). Il concetto della
T. ha accompagnato la forma- zione del liberalismo politico perchè è servita
come pietra di paragone o come simbolo di tutto ciò che il liberalismo
condannava. Come tale, essa ha pure costituito uno dei temi della retorica
rivolu- zionaria e liberale dal sec. xvi in poi. Oggi si fa un uso assai meno
frequente del termine, non già perchè i regimi tirannici siano spariti o sia
sparito il pericolo che essi si instaurino anche là dove vige un certo grado di
libertà, ma solo perchè il ter- mine sembra appartenere ad un tipo di retorica
caduto in disuso. Assolutismo o totalitarismo sono i termini che hanno
sostituito tirannide. Ma il concetto non è mutato; e queste stesse parole
significano ancora: un regime in cui l’arbitrio indi- viduale tiene il posto
della legge; una servitù im- posta da servi: un governo che non si può mutare
nè correggere se non con la violenza. TITANISMO. V. RoManTICISMO. TOLLERANZA
(ingl. Toleration; franc. To- lérance; ted. Toleranz). 1. La norma o il
principio della libertà religiosa. Si è ritenuta talora poco adatto a designare
questo principio un termine che significa « sopportazione »; ma in realtà la
parola è stata l'emblema di quella libertà sin dalle prime lotte che essa è
costata e attraverso le quali si è venuta affermando in forme che sono ancor
oggi deboli o incomplete. Nessun altro termine potrebbe perciò sostituirla. Fin
da queste lotte, la T. fu in- tesa come la coesistenza pacifica tra varie
confes- sioni religiose ed oggi s’intende, in senso ancora più generale, come
la coesistenza pacifica di tutti gli atteggiamenti possibili in materia
religiosa. Il criterio per riscontrare se tale esigenza si trova realizzata
nelle situazioni storiche o politiche par- ticolari è uno solo: la sua
realizzazione significa infatti che nessuna violenza o inquisizione giu- ridica
o poliziesca o diminuzione o perdita di diritti o discriminazione qualsiasi,
colpisca il cit- tadino a causa delle sue convinzioni, positive o negative, in
materia religiosa. Il principio della T. o almeno un suo corollario immediato,
la possibilità di salvarsi anche senza la fede cristiana, compare in qualche
filosofo del sec. xIv specialmente in Ockham. Dice Ockham: « Non è impossibile
che Dio ordini che colui che vive secondo i dettami della retta ragione e non
878 creda se non a ciò che la sua ragione naturale conclude che sia da
credersi, sia degno di vita eterna. E se Dio così dispone, potrebbe anche
salvarsi chi altra guida non ebbe nella vita che la retta ragione + (/n Senr.,
III, q. 8, ©). D'altronde la T. religiosa è già implicita nel concetto che
Ockham aveva della Chiesa infallibile come della comunità dei fedeli vissuti
dai tempi dei profeti fino ad oggi (Dialogus inter magistrum et discipulum, I,
IV, in GoLpasT, Monarchia, II, pag. 402); e del papato come di un principato
ministrativus che non può togliere a nessuno i diritti e le libertà che Dio ha
dato a tutti gli uomini e che il cristianesimo è venuto a rivendicare (De
Imperatorum et Pontifi- cum Potestate, IV, ed. Scholz, II, pag. 458). La famosa
novella di Boccaccio dei tre anelli (Deca- merone, 28) illustra ugualmente la
possibilità di salvezza data egualmente a Maomettani, Ebrei e Cristiani.
Tuttavia, il principio della T. cominciò ad affacciarsi come elemento
indispensabile della vita civile dell’occidente soltanto dopo la Riforma, nelle
lotte che contrapposero l’una all’altra le varie parti della cristianità.
Probabilmente fu espli- citamente affermato per la prima volta da quel gruppo
di riformati italiani che respinsero il dogma della Trinità cioè dai Sociniani,
che furono co- stretti da Calvino a fuggire in Transilvania e in Polonia dove
propagarono la loro dottrina. Nel 1565 Giacomo Aconcio nel suo Straragemata Sa-
tanae vedeva nell’intolleranza religiosa un tranello di Satana e affermava che
è essenziale alla fede solo ciò che incoraggia la speranza e la carità. Nel
1580 Michele di Montaigne difendeva in un suo saggio, per motivi di natura
politica, la libertà di coscienza (Ess., II, 19). Verso il 1593 Jean Bodin nel
Colloquium heptaplomeres, sosteneva la necessità della pace religiosa
ottenibile con un ritorno alla religione naturale che eliminerebbe le
controversie dogmatiche. A sua volta Grozio riteneva fonda- mentali le credenze
della religione naturale e non obbliganti quelle della religione positiva che
sono spesso ambigue. Secondo Grozio, credere nel cri- stianesimo è possibile
solo con l’aiuto misterioso di Dio; e per conseguenza volerlo imporre con le
armi è contrario alla ragione (De jure belli ac pacis, 1625, II, 20, 48-49). Il
poeta Milton scriveva nel 1644 il suo discorso per la libertà di stampa
intitolato Areopagitica. Tutte queste difese del prin- cipio della T. adducono
in favore di esso argo- menti politici e religiosi, più che filosofici o
concet- tuali; più spesso anzi gli argomenti addotti sono specificamente
religiosi e hanno quindi valore sol- tanto per chi condivida le credenze
religiose cui esse fanno appello. Il primo a impiantare la difesa della T. su
argo- menti obiettivi è stato Spinoza che ha addotto in TOLLERANZA favore di
esso l’argomento principe e, cioè che la violenza e l'imposizione non possono
promuovere la fede e che pertanto le leggi che si propongono questo scopo sono
inutili (Tractatus rheologico-politicus, 1670, cap. 20). Ma da questo punto di
vista è e rimane classica l’Epistola sulla T. (1689). In questo scritto Locke
fa vedere come, esaminando indipen- dentemente l’uno dall’altro il concetto
dello Stato e quello della Chiesa, il principio della T. risulti come il punto
d’incontro dei loro compiti e dei loro interessi rispettivi. Lo Stato è infatti
« una società di uomini stabilita unicamente per conser- vare e promuovere i
beni civili »: intendendosi per beni civili la vita, la libertà, l’integrità e
il benessere corporeo, il possesso dei beni esterni, ecc. Tra i suoi compiti
pertanto non rientra la cura delle anime e della loro salvezza eterna perchè di
fronte a questo compito il magistrato civile, da un lato è incompetente come
qualsiasi altro cittadino, dal- l’altro non ha alcun strumento efficace:
giacchè l’unico suo strumento è la costrizione e nessuno può essere costretto a
salvarsi. Dall’altro lato, la Chiesa è « una libera società di uomini, congiun-
tisi spontaneamente per servire Dio in pubblico a quel modo che giudicano a Lui
più accetto, per conseguire la salute delle loro anime +. Come so- cietà libera
e volontaria essa non può vincolare nessuno con la forza; e le sanzioni che
sono di sua competenza sono le esortazioni, gli ammoni- menti e i consigli che,
soli, possono promuovere la persuasione e la fede. Il principio della T. ga-
rantisce ugualmente l’interesse religioso della Chiesa e l’interesse politico
dello Stato, i diritti dei citta- dini e le esigenze dello sviluppo culturale e
scien- tifico. Tuttavia, neppure nell’Epistola di Locke il prin- cipio della T.
ha un’espressione completa perchè Locke riteneva che « coloro che negano
l’esistenza di Dio, non devono essere tollerati in alcun modo +. Soltanto il
trionfo dell’Illuminismo nel sec. xvui e del pensiero politico liberale nel
sec. xix, hanno portato a riconoscere il principio di T. nella sua forma
completa, che è quella esposta sopra. Poco o nulla però la posteriore
letteratura ha aggiunto alle giustificazioni date a questo principio dallo
stesso Locke; e neppure, a questo proposito, si distingue il Trattato sulla T.
(1763) di Voltaire che è giustamente famoso per l’influenza storica che
esercitò. Il principio della T. è entrato a far parte della coscienza civile
dei popoli di tutto il mondo. Tut- tavia, la sua realizzazione nelle
istituzioni che reg- gono la vita di molti popoli è incompleta e soggetta a
sempre nuovi pericoli. Le discussioni che talora suscita sono prevalentemente
ispirate dal desiderio di mantenere o di riconquistare, a qualche parti-
TOTALITÀ colare confessione religiosa, un privilegio di fatto che si cerca alla
meglio di conciliare con l’ossequio formale reso al principio (cfr.
specialmente: F. Rur- FINI, La libertà religiosa, 1901; LuIcI LUZZATTI, La
libertà di coscienza e di scienza, 1909; J. B. Bury, A History of Freedom of
Thought, 1913; nuova ediz., 1952; W. K. JorDaN, The Development of Religious
Toleration in England, 1932 sgg. 2. Nel linguaggio comune, e talora in quello
filosofico, la T. è intesa anche in un senso più vasto, come comprensiva di
ogni forma di libertà, morale, politica e sociale. Così intesa è identificata
con il pluralismo dei valori, dei gruppi e degli inte- ressi nella società
contemporanea; e talvolta si scorge in questo pluralismo un mezzo per mantenere
il controllo dei gruppi sociali esistenti sull’intera so- cietà e quindi un
ostacolo alla realizzazione di una forma nuova di società. Per « T. pura» si
intende talora quella estesa alle politiche, alle condizioni e ai modi di
comportamento che non dovrebbero essere tollerati, perchè impediscono, se non
di- struggono, le probabilità di creare un’esistenza senza paura e sofferenza;
e Marcuse ha affermato che, se la T. indiscriminata è giustificata nei
dibattiti innocui e nelle discussioni accademiche ed è indi- spensabile nella
religione e nella scienza, non può essere ammessa quando sono in giuoco la
pace, la libertà e la felicità dell’esistenza, perchè in questo caso
equivarrebbe alla repressione di ogni fattore innovatore nella realtà sociale
(A Critigue of Pure Tolerance, di WoLFF, MOORE jr. e MARCUSE, 1965). Tuttavia,
in questo significato più generico, la pa- rola T. non si distingue da libertà
e i suoi pro- blemi sono senz'altro quelli dei limiti e delle con- dizioni
della libertà politica. TOLLERANZA, PRINCIPIO DI. V. Con- TRADDIZIONE,
PRINCIPIO DI; CCONVENZIONALISMO. TOMISMO (ingl. Thomism; franc. Thomisme; ted.
Thomismus). I capisaldi della filosofia di S. Tommaso, che sono stati ritenuti
e difesi dagli indirizzi medievali e moderni che si ispirano a lui. Tali
capisaldi possono essere ricapitolati così: 1° La dottrina dei rapporti tra
ragione e fede consistente nell’affidare alla ragione il compito di dimostrare
i preamboli della fede (v. PREAMBULA), di chiarire e difendere i dogmi
indimostrabili e di procedere in modo relativamente autonomo (cioè salvo il
rispetto delle verità di fede che non possono essere contraddette) nel dominio
della metafisica e della fisica; 2° La dottrina della analogicità dell’essere
(vedi ANALOGIA) che consiste nel ritenere che il termine essere riferito alla
creatura ha un significato non identico ma solo simile o corrispondente
all'essere di Dio. Questo principio, che S. Tommaso derivava da Avicenna, serve
a stabilire la distinzione tra 879 teologia e metafisica e la dipendenza della
metafi- sica dalla teologia; 3° La dottrina del carattere astrattivo della
conoscenza, la quale consiste in ogni caso nel- l’astrarre dall’oggetto o la
specie sensibile o la specie intellegibile (che corrisponde all’essenza della
cosa); 4° La dottrina che l’individuazione dipende dalla materia segnata (v.
INDIVIDUAZIONE); 5° L’illustrazione rimasta classica dei due dogmi cristiani
della Trinità e dell’Incarnazione (v. INCAR- NAZIONE; RELAZIONE; TRINITÀ).
Questi capisaldi distinguono nettamente il T. dallo scotismo (v.) con cui esso
si divise il campo nei secoli x1v e seguenti; e costituiscono anche i punti di
maggior interesse della ripresa del T. nella neo- scolastica contemporanea.
Alla formazione storica del T. aveva contribuito oltre l’opera di Alberto
Magno, maestro di S. Tommaso, l'opera di Avi- cenna e quella di Mosè Maimonide.
TOPICA (gr. roruà
téxm; lat. Topica; ingl. To- pics; franc. Topique; ted. Topik). La teoria dei luoghi logici e
l’arte di inventarli (v. LuoGHI). Kant ha chiamato 7. trascendentale la
dottrina dei luoghi trascendentali cioè dei posti che si as- segnano ai
concetti nella sensibilità o nell’intelletto puro. Questa T. dovrebbe evitare
l’anfibolia dei concetti di riflessione cioè l’uso malsicuro di questi concetti
(Crir. R. Pura, Analitica trasc., Nota al- l’anfibolia). Droysen ha parlato
anche di una 7. storiografica che sarebbe la raccolta delle esposizioni di ciò
che è stato storicamente indagato (Grundzijge der Historik, 1882, $ 18).
TOPOLOGIA (ingl. Topology; franc. Topo- logie; ted. Topologie). Con questo nome
o con quello di analysis situs s'intende, da un secolo a questa parte, lo
studio delle proprietà delle figure geome- triche che rimangono invarianti
anche quando le figure stesse sono sottoposte a trasformazioni così radicali da
perdere le loro proprietà metriche e proiettive. La T. ha il suo precursore in
Eulero (1707-83); ma la sua prima formulazione si trova nell’opera di A. F.
Moebius (1790-1868) (cfr. spe- cialmente O. VEBLEN, Analysis situs, 2>
ediz., 1931, e le voci GRUPPO; TRASFORMAZIONE). Alcuni concetti della T.
trovano applicazioni in altre discipline. In particolare nella psicologia della
forma è stato utilizzato il concetto topologico di regione (con le sue varie
determinazioni) che si presta a esprimere lo spazio vitale di un orga- nismo
(Kurt LEWIN, Principles of Topological Psy- chology, 1936, specialmente cap. XI
sgg.) (vedi CAMPO; PSICOLOGIA). TOTALITÀ (gr. rè 820y; lat. Universitas; in-
glese Torality; franc. Totalité; ted. Allheit, Tota- 880 litàt). Un tutto
completo nelle sue parti e perfetto nel suo ordine. Questo fu il concetto che
Aristo- tele dette della T. in quanto distinta dal tutto le cui parti possono
mutare la loro disposizione senza modificare l’insieme (Mer., V, 26, 1024a 1).
In questo senso il mondo (cosmo) è una T., ma non così l’universo (v. MonDO).
La nozione di T. ha conservato anche nelle lingue moderne la caratteristica
della completezza e della perfetta disposizione delle parti. Secondo Kant, la
«T. delle condizioni» corrisponde, nella sintesi dell’intuizione,
all’universalità del predicato nella premessa maggiore del sillogismo. La
nozione di una T. delle condizioni è l’idea della Ragion pura. L'idea è perciò,
secondo Kant, la nozione di una perfezione, sebbene non di una perfezione reale
(Crit. R. Pura, Dialettica, libro I, sez. I-II) (v. TUTTO). TOTALITARISMO
(ingl. Totalitarianism; franc. Totalitarisme; ted. Etatismus). La dottrina o la
prassi dello Stato totalitario cioè dello Stato che pretende identificarsi con
l’intera vita dei suoi cittadini. Il termine è stato coniato per indicare la
dottrina del fascismo italiano e del nazismo te- desco. È talora anche usato a
indicare ogni dot- trina assolutistica, in qualsiasi campo si riferisca. La
parola viene usata in questo senso da G. H. SABINE, A History of Political
Theory, 1951, cap. 35; trad. ital., pag. 708 sgg.). Spesso per estensione
s’intende per T. Sl forma di assolutismo dottrinale o politico. TOTEMISMO
(ingl. Totemism; franc. Toté- misme; ted. Totemismus). La credenza nel rotem o
l’organizzazione sociale fondata su questa credenza. Il termine totem è stato
desunto dal linguaggio degli Indiani d'America e poi esteso a indicare il
fenomeno (che si ripresenta in tutti i popoli pri- mitivi) per il quale una
cosa (naturale o artificiale) diventa l'emblema del gruppo sociale e la
garanzia della sua solidarietà. Su questo carattere del torem ha insistito
soprattutto Durkheim, che ha visto in esso l’espressione dell’unità del gruppo
sociale nella sua interezza e perciò nelle relazioni che i c/ans, in cui esso
si divide, hanno l’uno con l’altro (Les formes élementaires de la vie
religieuse, 1912). Ac- canto a questo carattere del T., A. R. Radcliffe- Brown
ha messo in luce il suo carattere ancora più universale, consistente nel fatto
che il T. co- stituirebbe « una rappresentazione dell’universo come un ordine
morale e sociale » e pertanto la regola- zione del rapporto tra l’uomo e la
natura, oltre che quella del rapporto tra l’uomo e l’uomo come tale, sarebbe un
elemento universale della cultura umana (Structure and Function in Primitive
Society, 1952, cap. VI). A un fenomeno linguistico formale sembra invece
ridurre il T. Levi-Strauss: «Il co- siddetto T. è solo un’espressione
particolare, per mezzo di una speciale nomenclatura formata di nomi
TOTALITARISMO di animali e di piante (o come noi diremmo, in un certo codice)
la quale è il suo solo carattere distintivo, delle correlazioni e opposizioni
che pos- sono essere formalizzate in altri modi: per es., come accade in certe
tribù del Nord e Sud America, da opposizioni del tipo cielo-terra, guerra-pace,
in su-in giù, rosso-bianco, ecc.» (Le rotémisme ajourd’hui, 1962, pag. 127).
Dall'altro lato Freud aveva presentato una interpretazione psicanalitica del
T.: « Se l’animale rotem è il padre, allora i due principali precetti del T.,
quello di non uccidere il totem e quello di non usufruire sessualmente di
alcuna donna dello stesso fofem, coincidono in so- stanza con i due crimini di
Edipo che uccise suo padre e prese in moglie sua madre, e con i desi- deri
primitivi del bambino, desideri la cui rimo- zione insufficiente o il cui
risveglio costituiscono forse il nocciolo di tutte le psiconevrosi » (Totem e
tabù, 1913, IV, 3; trad. ital., pag. 146). Per una con- cezione analoga a
questa di Freud cfr. J. G. FRAZER, Totemism and Exogamy, 1910. TOTO-PARZIALE,
TOTO-TOTALE (in- glese Toto-partial, Toto-total). Espressioni adoperate da W.
Hamilton per indicare rispettivamente la pro- posizione in cui il soggetto è
preso universalmente e il predicato particolarmente (es.: gli uomini sono
animali) e la proposizione in cui sia il soggetto che il predicato sono presi
universalmente (es.: gli ani- mali sono mortali) (Lecrures on Logic, II, pag.
287). TRADIZIONALISMO (ingl. Traditionalism; franc. Traditionalisme; ted.
Traditionalismus). 1. La difesa esplicita della tradizione, che, nell’ambito
dello spirito romantico, trovò in Francia i suoi protagonisti in: Madame de
Staél (1766-1817), che nella sua opera De l’Allemagne (1813) vide nella storia
umana una progressiva rivelazione religiosa; Renato di Chateaubriand
(1769-1848) che nel Génie du Christianisme (1802) vide nel cattolicesimo il
depositario dell’intera tradizione delle umanità; e in Luigi de Bonald
(1754-1840), Giuseppe de Maistre (1753-1821) e Roberto Lamennais (1782-1854)
che si fecero paladini nei loro scritti delle due istitu- zioni fondamentali,
in cui la tradizione si incarna e contro cui l’Illuminismo aveva polemizzato e
la Rivoluzione combattuto: la Chiesa e lo Stato. Per- tanto questi scrittori
furono anche detti feocratici o ultramontanisti (v. TEOCRAZIA). 2. In senso più
generale e filosofico, per T. si può intendere il ritorno alla tradizione che
fu un aspetto importante del Romanticismo nella prima metà del sec. xIx e che
ha tra i suoi protagonisti, oltre che i grandi romantici come Fichte Schelling
ed Hegel, Maine de Biran (1766-1824), Antonio Rosmini Serbati (1797-1855),
Vincenzo Gioberti (1801-52) e lo stesso Giuseppe Mazzini (1805-72), oltre altri
scrittori minori sia dell’800 italiano sia TRADIZIONE 881 di altre nazioni: per
es., l’inglese Giacomo Mar- tineau (1805-1900). L’idea comune di tutti questi
pensatori è che sia il pensiero individuale sia la tra- dizione dell’umanità si
fondano su una diretta rive- lazione di Dio, che è compito dell’uomo sviluppare
con la riflessione individuale e con l’azione col- lettiva. L’idea dell’essere
di Rosmini è la migliore espressione concettuale di questa nozione di rive-
lazione progressiva. Applicato alla storia, tale con- cetto non è altro che
quello del provvidenzialismo (v.). TRADIZIONE (gr. rapàdoor; ingl. Tradition;
franc. Tradition; ted. Ùberlieferung). L'eredità cul- turale cioè la
trasmissione da una generazione al- l’altra di credenze o di tecniche. Nel
dominio della filosofia l’appello alla T. implica il ricono- scimento della
verità della T. stessa. La T. diventa, da questo punto di vista una garanzia di
verità e talvolta l’unica garanzia possibile. In tal senso essa era intesa
dallo stesso Aristotele che più volte, nel corso della sua indagine, fa appello
alla T. e la assume come garanzia di verità: «I nostri antenati delle più
remote età hanno trasmesso alla loro posterità tradizioni in forma mitica che i
corpi celesti sono divinità e che il divino abbraccia l’intera natura. Altre T.
sono state aggiunte in forma mitica per la persuasione dei più e allo scopo di
rafforzare le leggi e di promuovere l’uti- lità pubblica; esse dicono che gli
dèi hanno forma di uomini o di altri animali e danno su di essi altri dettagli simili.
Ma se consideriamo solo il punto essenziale, separatamente dal resto, che le
prime sostanze sono tradizionalmente credute di- vinità, possiamo riconoscere
che questo è stato divinamente detto e che, per quanto le arti e le filosofie
possono avere spesso esplorato e perfezio- nato e di nuovo perduto, questi miti
e altri sono stati conservati sino ad oggi come antiche reliquie. È solo in
questo modo che noi possiamo rendere chiare le opinioni dei nostri antenati e
predeces- sori » (Mer.). La sua stessa filosofia appare così ad Aristotele come
la liberazione della T. dai suoi elementi mitici, perciò come una sco- perta
della T. autentica e nello stesso tempo come fondata sulla garanzia che questa
stessa T. le offre. È questo il punto di vista che divenne pre- valente
nell’ultimo periodo della filosofia greca e specialmente nell’indirizzo
neoplatonico. Plotino di- ceva: « Bisogna credere senza dubbio che la verità è
stata scoperta da antichi e beati filosofi; a noi conviene di esaminare quali
sono coloro che l’hanno incontrata e come possiamo noi stessi arrivare a
comprenderla » (Enn., III, 7, 1). Fu questa l’idea dominante nel cui ambito fu
possibile fabbricare, in appoggio di una T. presunta, documenti fittizi quando
quelli autentici mancavano; e le opere di falsa attribuzione, le più famose
delle quali furono 56 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. quelle di Ermete
Trismegisto, obbediscono appunto all’esigenza di rinviare nel passato la
dottrina in cui si crede e di procurarle, sia pure in modo truffaldino, il
prestigio e la garanzia della tradizione. Da allora in poi, il concetto della
T. non è mu- tato, e ha conservato l’apparenza o la promessa di questa
garanzia. Il grande ritorno dell’idea di T. è il Romanticismo. J. G. Herder
nella sua Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1783- 1791)
aveva esaltato la T. come « la sacra catena che lega gli uomini al passato e
che conserva e tra- smette tutto ciò che è stato fatto da coloro che l’hanno
preceduto ». Hegel ha esplicitamente esal- tata la T. e ha insistito sul suo
carattere provvi- denziale. «La T., egli ha detto, non è una statua immobile ma
vive e rampolla come un fiume im- petuoso che tanto più s’ingrossa quanto più
si allontana dalla sua origine... Ciò che ogni genera- zione ha fatto nel campo
della scienza, della pro- duzione spirituale è un’eredità cui ha contribuito
con i suoi risparmi tutto il mondo anteriore, è un santuario alle cui pareti
gli uomini d’ogni stirpe, grati e felici, hanno appeso ciò che li ha aiutati
nella vita, ciò che essi hanno attinto alle profondità della natura e dello
spirito. E questo ereditare è ad un tempo un ricevere e un far fruttare
l’eredità » (Geschichte der Philosophie, edi- tore Glockner, I, pag. 29). In
questo senso, ovvia- mente, la T. non è che un altro nome per designare il
piano provvidenziale della storia (v. STORIA). Fu questo il punto di vista
prevalente in tutto il Romanticismo; e di esso il cosiddetto rradiziona- lismo
(v.) non è che una manifestazione particolare. L’antitesi di questa valutazione
della T. è una concezione la quale: 1° neghi che tutti i risultati o i prodotti
migliori dell’attività umana siano in- fallibilmente conservati e incrementati
nel corso dello sviluppo storico; 2° neghi che ciò che da tale sviluppo è
conservato sia, per ciò stesso, ga- rantito nella sua verità o nel suo valore.
Una con- cezione di questo genere è quella che fu propria dell’Illuminismo (che
perciò è spesso definito anti- storicistico da chi condivide il punto di vista
della storia come ordine provvidenziale o T.). L’Illumi- nismo si iscrisse in
falso contro la T., assumendo che quel che essa tramanda è, il più delle volte,
errore, pregiudizio o superstizione e appellandosi contro la stessa T. al
giudizio della ragione cri- tica (v. ILLUMINISMO). Le discussioni filosofiche
sul significato e l’im- portanza della T. sono in realtà, come si vede,
discussioni sulla storia (v.). Nel campo della socio- logia invece l’analisi
della T. è l’analisi di un de- terminato atteggiamento o meglio di un tipo e
specie di atteggiamenti e precisamente di quello che consiste nell’acquisizione
inconsapevole (cioè 882 non deliberata) di credenze e di tecniche. L’atteg-
giamento tradizionalistico è quello per cui l’indi- viduo considera i modi
d'essere e di comportarsi che ha ricevuto o va ricevendo dall’ambiente sociale
come suoi propri modi d’essere, senza rendersi conto che sono quelli del gruppo
sociale. Manca nella T. la distinzione tra presente e il passato, tra sè e gli
altri: il che fa di essa una forma di comunicazione primitiva ed impropria
(ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, XI, 3). All’atteggia- mento
tradizionalistico si oppone da questo punto di vista l'atteggiamento critico
per il quale l’indi- viduo ha una certa libertà di giudizio (che tuttavia non è
mai assoluta o infallibile) nei confronti di quelle stesse credenze e tecniche
che ha assorbito dalla tradizione. L'atteggiamento critico ha con- dizioni
antitetiche a quelle della T.: l’alterità tra il presente e il passato e tra sè
e gli altri. TRADUCIANISMO (ingl. Traducianism; te- desco Traducianismus). La
dottrina che l’anima dei figli derivi dall'anima dei padri come un ramo
(tradux) deriva dall’albero. Questa dottrina si tro- vava già presso gli Stoici
(TEMISTIO, De An., II, 5; GacenO, Op., IV, 699), fu accettata da Tertulliano
(De An., 22) e da altri scrittori della patristica e difesa più tardi dai
teologi protestanti che vedevano in essa la possibilità di spiegare la
trasmissione del to originale. Leibniz stesso inclinava verso di essa (7héod.,
I, $ 86). La stessa dottrina è stata talora indicata con il nome di
generazionismo. La dottrina opposta, che ogni anima sia creata ex novo, si
chiama crea- zionismo (v.). TRAGICO (ingl. Tragic; franc. Tragique; te- desco
7ragisch). Il concetto del T. viene talora discusso dai filosofi non solo in
rapporto con quella particolare forma d’arte che è la tragedia, ma anche in
rapporto alla vita umana in generale o alla scena del mondo. Il punto di
partenza impli- cito o esplicito di tali discussioni è quasi sempre la definizione
aristotelica della tragedia secondo la quale essa è «imitazione di vicende che
suscitano pietà e terrore e che mettono capo alla purificazione di tali
emozioni » (Poer., 6, 1449 b 23). Le situa- zioni che suscitano « pietà e
terrore » sono quelle in cui la vita o la felicità di persone incolpevoli è
posta in pericolo o in cui i conflitti non sono ri- solti o sono risolti in
modo da determinare « pietà e terrore » negli spettatori. Nella tragedia greca,
ha detto W. Jaeger, «la felicità, come ogni possesso, non può restare a lungo
presso chi lo detiene e la perpetua sua instabilità è insita nella sua natura
stessa. Il convincimento di Solone che esista un ordinamento divino del mondo
aveva trovato ap- punto in questa nozione, pur tanto dolorosa per l’uomo, il
suo appoggio più saldo. Anche Eschilo TRADUCIANISMO è inconcepibile senza tale
convincimento, che può dirsi piuttosto una nozione che non una credenza »
(Paideia, II, cap. 1; trad. ital., I, pag. 449). Ora le interpretazioni che nel
pensiero moderno sono state date della natura del T. sono tre: 1° T. è il
conflitto continuamente risolto e superato nell’or- dine perfetto del tutto; 2°
T. è il conflitto irrisolto e irrisolvibile; 3° T. è il conflitto che può
essere risolto ma la cui soluzione non è definitiva nè per- fettamente giusta o
soddisfacente. 1° La prima concezione del T. è quella di Hegel. Hegel afferma
che il conflitto, in cui il T. consiste, pur costituendo la sostanza e la vera
realtà, non si conserva come tale ma trova la sua giusti- ficazione solo in
quanto viene superato come con- traddizione. « Intanto lo scopo e il carattere
T. è legittimo, dice Hegel, in quanto è necessaria la soluzione del conflitto
in cui esso consiste. Attra- verso tale soluzione, l’eterna giustizia si
afferma sugli scopi e sugli individui particolari, in modo che la sostanza
morale e la sua unità si ristabili- scono col tramonto delle individualità che
distur- bano il suo riposo» (Vorlesungen iiber die Aes- thetik, ed. Glockner,
III, pag. 530). La soluzione T. pertanto ristabilisce l’armonia e ciò che essa
di- strugge è soltanto la « particolarità unilaterale » che non ha potuto
giungere ad accordarsi con l’ar- monia stessa (/bid., ed. Glockner, II, pag.
530). Ovviamente, da questo punto di vista, che è quello proprio di ogni
ottimismo o provvidenzialismo di stampo romantico, la tragedia è la semplice
appa- renza di una sostanziale commedia: tutto finisce bene, e ciò che viene
perduto è la « particolarità unilaterale » che non ha il minimo valore. 2° La
seconda interpretazione del T. è quella di Schopenhauer, secondo il quale il T.
è conflitto irresolubile. La tragedia, dice Schopenhauer «è la rappresentazione
della vita nel suo aspetto terri- ficante. Il dolore senza nome, l’affanno
dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il
fatale precipizio dei giusti e degli inno- centi ci vengono presentati da essa;
sicchè essa costituisce un segno significante della natura propria del mondo e
dell’essere» (Die Welr, I, $ 51). Ma l’inevitabilità e quindi la certezza d’un
fato maligno o di una ingiustizia immanente tolgono, come l’ine- vitabilità e
la certezza della giustizia e dell'armonia, il carattere tragico. Di fronte ad
essi infatti l’unico atteggiamento possibile è quello della rassegnazione o
della disperazione: atteggiamenti, che come quelli a loro opposti, escludono il
conflitto costitutivo del tragico. 3° La terza concezione è quella che fu
presen- tata da Schiller nello scritto Uber naive und sentimen- talische
Dichtung (1795-96). In questo scritto il T. viene presentato come una
manifestazione della TRANSFINITO poesia sentimentale (v. INGENUITÀ) e
precisamente di quella poesia che rappresenta il conflitto tra il reale e
l’ideale. La poesia sentimentale si divide in satira ed elegia: la satira è
quella in cui il poeta prende a suo oggetto il reale, considerandolo
insufficiente rispetto all’ideale. Quando l’insufficienza del reale è
rappresentata mediante il conflitto tra il reale stesso e le nostre esigenze
morali si ha, secondo Schiller, la satira seria, cioè il T. (Werke, ed. Kar-
peles, XII, pag. 150). A concetti analoghi si ispi- rava il cosiddetto «
pantragismo +» del poeta Hebbel (cfr. Werke, X, pag. 43). Assai più
paradossalmente Nietzsche vedeva nel T. da un lato il carattere terrifi- cante
dell’esistenza, dall’altro la possibilità di accet- tare e trasfigurare tale
carattere o attraverso l’arte o attraverso la volontà di potenza. La prima
soluzione è quella che Nietzsche attribuisce ai Greci nella Nascita della
tragedia (1872). L'uomo greco, che era in grado di scorgere chiaramente
l’orribile e l’assurdo dell’esistenza, riuscì a trasfigurarla me- diante lo
spirito dionisiaco, domando e assogget- tando l’orribile che così diventa il
sublime cioè l'oggetto della tragedia e liberando dal disgusto dell'assurdo,
che così diventa il comico, cioè l’og- getto della commedia (Die Geburt der
Tragòdie, $ 7). Più tardi Nietzsche scorse la via d’uscita da ciò che c’è di
terrificante nella vita nell’accettazione della vita stessa dovuta alla volontà
di potenza e considerò pertanto il T. come l’accettazione dio- nisiaca di ciò
che è terrificante e incerto. «La profondità dell’artista T., egli scrisse
allora, con- siste in questo che il suo istinto estetico considera le
conseguenze lontane e non si arresta con vista corta alle cose prossime; che
egli afferma l'economia in grande, l’economia che giustifica ciò che è ter-
ribile, maligno e problematico e che non si contenta solamente di giustificarlo
» (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 374). Questa concezione del T., per quanto di
solito imperfettamente espressa o mescolata, nella sua espressione, con le
altre due, si può riconoscere dal fatto che essa fa posto nella sua
caratterizza- zione alla problematicità della situazione T., cioè al carattere
per cui essa si può decidere in un modo o nell’altro senza che la sua decisione
sia definitiva o perfetta. In questo senso il carattere del T. è stato colto da
Michele de Unamuno nel Sentimento T. della vita (1913) che lo esprime col quien
sabe? di Don Chisciotte. Nello stesso senso si sono espressi Scheler (Vom
Umsturz der Werte, 1953), Jaspers ( Uber das Tragische, 1952) e Cantoni
(Tragico e senso co- mune, 1964). P. Romanell ha detto che a differenza
dell’epica, in cui il conflitto è tra il bene e il male, nel T. il conflitto è
tra beni diversi cioè tra valori eterogenei tra i quali la scelta è dolorosa ed
im- plica sempre sacrificio (Making of the Mexican Mind, 1952, pag. 22). Questo
carattere del T. è bene realiz- 883 zato nella tragedia greca. La tragedia di Sofocle
si fonda sul convincimento che esiste un ordinamento divino del mondo il quale
fa sì che talvolta l'in- nocente debba pagare il fio di una colpa commessa da
altri. Il fatto che la decisione del conflitto non possa essere netta, che
anche nella sua soluzione qualcosa vada perduto e che questo qualcosa non è,
come diceva Hegel, una « particolarità unilate- rale », costituisce il fascino
e la verità della tragedia. TRANQUILLITÀ. V. ATARASSIA. TRANSAZIONE (ingl.
Transaction; francese Transaction; ted. Transaction). Termine introdotto in
filosofia da Dewey e Bentley per indicare una relazione che non presuppone,
come entità a sè, i termini relativi. Dice Dewey: «Il termine indica
negativamente che nè il senso comune nè la scienza devono essere considerati come
entità, come al- cunchè di collocato a parte, completo e circo- scritto...
Positivamente indica che debbono essere contrassegnati dalle caratteristiche e
dalle proprietà che si riscontrano in qualsiasi cosa riconosciuta come T.: per
es., un affare o T. commerciale. Questa T. fa di un partecipante un compratore
e dell’altro un venditore: non esistono compratori e venditori che in T. e a
causa di T. in cui siano impegnati » (Knowing and the Known, 1949, pa- gina
270). Il termine T. era stato adoperato in Italia da Romagnosi: secondo il
quale, dal « com- mercio fra l’interno e l’esterno » dell’uomo nasce «una T.
sullo stesso fondo dell’io pensante, la quale pone in armonia le leggi del
mondo interiore con quello esteriore per formare un solo mondo e una sola vita
» (Che cos'è la mente sana? [1827], ed. 1936, pag. 100, 138. TRANSCREAZIONE
(ingl. Transcreation; franc. Transcréation). Termine adoperato da Leibniz per
indicare l’operazione particolare con cui Dio dà la ragione all’anima sensibile
o animale. Leibniz preferisce questa ipotesi a quella che ritiene che l’anima
animale si sollevi alla ragione con mezzi puramente naturali (7héod., I, $ 91).
TRANSEUNTE (ingl. Transeunt; franc. Tran- seunt; ted. Transeunt). 1. Lo stesso
che transi- tivo (v.). 2. Mutevole, passeggero. TRANSFERT. V. PSICANALISI.
TRANSFINITO (ingl. 7ransfinite; francese Transfini; ted. Transfinit).
Espressione usata da G. Cantor per indicare i numeri che sono al di là dei
numeri finiti. Per es., se è T. il numero ordinale della classe che comprende
tutti i numeri ordinali finiti, nel loro ordine naturale (0, 1, 2,...), questo
nu- mero è denotato da un omega minuscolo (G. CANTOR, Contributions to the
Founding of the Theory of Transfinite Numbers, trad. ingl., 1915) (v. INFI-
NITO). Conseguentemente per «induzione transfi- 884 nita » s’intende
l’estensione dell’induzione mate- matica (v.) a una classe di numeri ordinali
arbitrari in modo simile a quello nel quale la stessa induzione è applicata a
una classe ben ordinata di numeri omega. TRANSITIVITÀ (ingl. Transitivity;
francese Transitivité; ted. Transitivitàt). Il carattere di una relazione che,
se intercede tra x e y e tra ye z, intercede pure tra x e z. Tale carattere è
proprio delle relazioni di identità o di eguaglianza come pure delle relazioni
minore, precede, a sinistra di, ecc. (cfr. B. RussELL, Introduction to Mathe- matical
Philosophy, cap. IV; trad. ital., pag. 44). Nel calcolo proposizionale, le leggi di 7. della
implicazione materiale e dell’equivalenza materiale sono le seguenti: « Se p
implica g e q implica r, allora p implica r (cioè: [p> gl[g>7r]>[p>
7)) Se p è equivalente a g e g è equivalente a 7, allora p è equivalente a r
(cioè: [p=gllg=-A=p=?#) (cfr. A. CHURCH,
/ntroduction to Mathematical Logic, I, $ 48, ecc.). TRANSNATURALE (franc. Transnaturel). Termine proposto da M. Blondel per
indicare la situazione dell’uomo che è posto tra la natura e la sopranatura; ed
è destinato, durante la vita mortale, a prepararsi per la vita eterna (Mistoire
et dogme, 1904, pag. 68). RANSOBBIETTIVO (ted. Transobjektiv). Termine
adoperato da N. Hartmann per indicare ciò che della realtà rimane al di là dei
limiti del conosciuto quindi al di là dell’oggetto di cono- scenza (Methapysik
der Erkenntnis, 2* ediz., 1925, pag. 50). TRANSOGGETTIVO (ingl.
Transsubjective; ted. Transsubjektiv). Lo stesso che Trascendente (v.).
TRANSPATIA (ingl. Transpathy). Termine adoperato da scrittori inglesi per
indicare il con- tagio emotivo o la fusione emotiva in quanto è diversa dalla
simpatia (v.). TRANSRAZIONALISMO (ingl. Transratio- nalism; franc.
Transrationalisme; ted. Transrationa- lismus). Termine adoperato da A. Cournot
per indicare la disposizione naturale dell’uomo a cre- dere nel soprannaturale
o nel misterioso o in ge- nerale a ciò che al di là della ragione
(Matérialisme, vitalisme, rationalisme, 1875, pag. 385). TRANSUSTANZIAZIONE
(lat. Transustan- tiatio; ingl. Transubstantiation; franc. Transsubstan-
tiation). L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nel
ritenere che la sostanza del pane o del vino si trasforma nella sostanza del
corpo o del sangue di Cristo e che pertanto gli accidenti di essa rimangano
senza soggetto. È l’interpretazione di quel sacramento che fu data da S.
Tommaso (S. Th., III, q. 77, a. 1) e fu accettata dal Concilio di Trento.
L’interpretazione alternativa, accettata TRANSITIVITÀ dalla chiese riformate, è
quella della consustanzia- zione (V.). TRASCENDENTALE (lat. Transcendentalis;
ingl. Transcendental; franc. Transcendental; te- desco Transzendental). Con
questo termine o con quello di trascendente, si cominciarono a chiamare, a
partire dalla fine del sec. x1m, le proprietà che tutte le cose hanno in
comune, e che perciò ecce- dono o trascendono la diversità dei generi in cui le
cose si distribuiscono. Il nome si trova già ado- perato da Francesco Mayrone
(morto nel 1325, Formalitates, ediz. 1479, f. 22, r. A); e alla dif- fusione di
esso contribuì certamente Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes, I, 1). Ma i
trascendentali o trascendenti erano stati già definiti da S. Tom- maso come
quelle proprietà « che si aggiungono al- l'ente in quanto esprimono un modo di
esso che non viene espresso dal nome dell’ente »; e lo stesso S. Tommaso ne
enumerava sei: ens, res, unum, aliquid, bonum, verum (De Ver., q. 1, a. 1); una
lista che riuscì la più diffusa e accreditata fra tutte. Questo concetto del
T., con qualche mutamento occasionale nella lista dei termini, fu ripetuto
spesse volte in seguito (CAMPANELLA, Dialectica, I, 4; Bruno, De /a causa, IV;
F. BACONE, De Augm. Scient., III, I; Jungius, Logica Hamburgensis, I, 1, 45;
Spinoza, £Et., II, 40, scol. I; BERKELEY, Principles of Human Knowledge, $ 118; WoLFF, Ont., $ 495,
503; BAUMGARTEN, Met., $ 72, 89; HAMILTON, Lectures on Logic, I, pag. 198). A questa tradizione si connette l’uso kantiano del
termine. Dice Kant: «Questi presunti predicati T. delle cose non sono che
esigenze logiche e criteri di ogni conoscenza delle cose in generale, e
riposano sulle categorie della quantità cioè dell’unità, della pluralità e
della totalità; solo che queste categorie, che si sarebbero dovute assumere nel
significato materiale come ap- partenenti alla possibilità delle cose stesse,
gli an- tichi le adoperavano in realtà solo in un valore formale, come
costituenti l’esigenza logica nei con- fronti di ogni conoscenza; e tuttavia di
questi criteri del pensiero facevano inavvertitamente pro- prietà delle cose in
se stesse» (Cri. R. Pura, Analitica, $ 12). In altri termini, Kant ritiene che
il vecchio concetto del T. pecchi per due lati: 1° perchè fa del T. un semplice
concetto logico- formale; 2° perchè considera questo concetto for- male come
proprietà delle cose in se stesse. Al- l'opposto il concetto kantiano del T.
consiste: 1° nel considerare il T. stesso come condizione della possibilità della
cosa cioè come concetto @ priori o categoria; 2° nel considerare la cosa, di
cui il T. è la condizione, non come «cosa in sè» ma come fenomeno. Con tutto
ciò il T. non si iden- tifica, per Kant, con le condizioni a priori della
conoscenza umana e dei suoi oggetti (che sono i TRASCENDENTE fenomeni); ma è
piuttosto da lui inteso come la conoscenza (o la scienza, se c’è una scienza)
di tali condizioni @ priori. Dice Kant infatti: «Chiamo T. ogni conoscenza che
si occupa, non degli oggetti ma del nostro modo di cono- scere gli oggetti, in
quanto è possibile a priori» (Ibid., Intr., VII). E precisa: « Bisogna chiamare
T. non ogni conoscenza a priori ma solo quella per cui sappiamo che e come
certe rappresenta- zioni (intuizioni o concetti) sono applicate o sono
possibili esclusivamente a priori. È cioè T. la co- noscenza della possibilità
della conoscenza o del- l’uso di essa a priori» (Ibid, Logica, Intr., II; cfr.
Prol., $ 13, osserv. III). Da questo punto di vista, T. non è «ciò che è al di
là di ogni espe- rienza» ma piuttosto «ciò che antecede l’espe- rienza (a
priori) pur non essendo destinato ad altro che a rendere possibile la semplice
conoscenza empirica + (Prol., Appendice, nota [A 204]). Tuttavia bisogna
osservare che Kant non si attenne rigoro- samente a questo significato del
termine e che spesso chiamò T. ciò che è indipendente dall’espe- rienza o da
princìpi empirici (cfr., ad es., Critica R. Pura, L’ideale della ragion pura,
sez. 5, Sco- perta e illustrazione dell’apparenza dialettica). Co- munque, in
base al significato che Kant esplicita- mente accetta, si possono chiamare T.
soltanto le conoscenze che hanno per oggetto elementi a priori, non questi
stessi elementi. Sicchè sono T. l’estetica, la logica e le loro parti ma non
già le intui- zioni pure o le categorie o le idee. Ma anche quest’uso non è
rigoroso perchè Kant chiama T. le idee e chiama unità T. l’io penso (Ibid., $
16). Il termine fu ripreso da Fichte per designare la dottrina della scienza in
quanto fa vedere che tutti gli elementi del conoscere rientrano nell’Io cioè
nella coscienza: «Questa scienza non è rrascen- dente, ma resta 7. nelle sue
più intime profondità. Essa spiega certo ogni coscienza con qualcosa che esiste
indipendentemente da ogni coscienza; ma anche in questa spiegazione non
dimentica di con- formarsi alle sue proprie leggi; ed appena vi ri- flette
sopra, quel termine indipendente diventa di nuovo un prodotto della propria
facoltà di pen- sare, quindi qualcosa di dipendente dall’Io in quanto deve
esistere per l’Io, nel concetto dell’Io » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 5, II;
trad. ital., pa- gina 231). Nello stesso senso il termine veniva in- teso da
Schelling per il quale, nel sapere T., « l’atto del sapere giunge ad assorbire
l’oggetto come tale » sicchè esso è «un sapere del sapere in quanto è puramente
soggettivo » (System des transzendentalen Idealismus). Lo stesso senso idea-
listico il termine assume per Schopenhauer: secondo il quale è T. « una
conoscenza che determina e sta- bilisce prima di ogni esperienza tutto ciò che
è pos- 885 sibile nell’esperienza » (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom
zureichenden Grunde, $ 20). Come risultato di queste determinazioni, il con-
cetto del T. si è venuto fissando nella filosofia con- temporanea come ciò che
appartiene al soggetto o alla coscienza in quanto è condizione dell’oggetto e
cioè della realtà stessa. Si è qualificato pertanto come T. ogni attività o
elemento della coscienza da cui dipenda l’affermazione o la posizione della
realtà oggettiva. Pertanto espressioni come « punto di vista T.» o «conoscenza
T.» equivalgono alla espressione di Schelling « idealismo T. » cioè di dot-
trina la quale mostra come nella coscienza sogget- tiva ci siano le condizioni
di ogni realtà. Questo concetto di T. è rimasto sia nelle scuole di più stretta
ispirazione kantiana sia nelle scuole ideali- stiche. Gentile chiamava «Io T.»
l’io assoluto o uni- versale, che crea pensando ogni realtà (Teoria gene- rale
dello spirito, 1920, I, $ 5). Un senso idealistico il termine conserva anche nell’uso
che ne fa Husserl, che chiama T. l’esperienza fenomenologica o la riflessione
che vi mette capo. « Nella riflessione fenomenologica T., noi lasciamo il
terreno empi- rico, praticando l’epoché universale quanto alla esistenza o alla
non esistenza del mondo. Si può dire che l’esperienza così modificata,
l’esperienza T. con- siste in questo: noi esaminiamo il cogito trascenden-
talmente ridotto e lo descriviamo senza effettuare in più la posizione di
esistenza naturale implicita nella percezione spontanea » (Carr. Med., $ 15).
Al- l’opposto, per Heidegger T. ha senso oggettivo perchè designa « ogni
manifestazione dell’essere nel suo essere trascendente» (Sein und Zeit, $ 7C).
TRASCENDENTALISMO (ingl. Transcen- dentalism; franc. Transcendentalisme; ted.
Transzen- dentalismus). La teoria dell’idealismo trascendentale cioè
dell’idealismo romantico. Il nome è stato in- trodotto nei paesi anglosassoni e
specialmente in America, da Emerson (cfr. O. B. FROTHINGHAM, Transcendentalism
in New England, 1876; nuova edizione 1959). TRASCENDENTE (lat. 7ranscendens;
inglese Transcendent; franc. Transcendant; ted. Transzen- dent). Il termine ha due significati fondamentali,
corrispondentemente ai due significati di rascen- denza (v.) e cioè: 1° ciò che
è al di là di un certo limite, assunto come misura o come punto di ri-
ferimento; 2° l’operazione dell’oltrepassamento. 1° Nel primo significato, la
parola assume va- lori diversissimi, a seconda di ciò che si assume come limite
o misura. Le proprietà trascendentali (v.) erano dette tali perchè T. rispetto
ai generi, dai quali esse erano considerate indipendenti. Si parla di «
perfezione T.» cioè di una perfezione che su- pera ogni grado praticamente
ottenibile. Più fre- quentemente, il termine viene adoperato in filosofia 886 per
indicare ciò che oltrepassa i limiti di una qualche facoltà umana o di tutte le
facoltà e dell’uomo stesso. Così Boezio diceva che « La ragione trascende l’im-
maginazione perchè afferra la specie universale che inerisce nelle cose
singolari » (Phil. Cons., V, 4). S. Tommaso diceva che la teologia « trascende
tutte le altre scienze sia speculative che pratiche »; giacchè è più certa di
esse ed inoltre si occupa di cose «che per la loro altezza trascendono la
ragione » (S. 7Th., I, q. 1, a. 5). Cusano, a proposito della identità del
minimo assoluto e del massimo asso- luto in Dio, dice che «ciò trascende ogni
nostro intelletto, che non può combinare razionalmente le cose che sono
contraddittorie nel loro principio » (De Docta Ignor., I, 4). Più precisamente
a partire da Kant, si intende per T. una nozione che eccede i limiti dell’espe-
rienza possibile. Sono pertanto T., secondo Kant, le idee della Ragion pura.
Dice Kant: « Diremo immanenti i princìpi la cui applicazione si tiene in tutto
e per tutto nei limiti dell’esperienza possi- bile; T. invece quelli che devono
sorpassare tali limiti» (Crift. R. Pura, Dialettica, Intr., I; con- fronta
Prol., $ 40). Diverso dai princìpi T. è l’uso trascendentale dei princìpi
immanenti: uso che si avvale di princìpi conoscitivi legittimi ma senza tener
troppo conto dei limiti dell’esperienza (/bid., Dialettica, Intr., I; cfr.
Prol., $ 40). 2° Nei precedenti significati, la parola T. è assunta a
significare ciò che è al di là di un certo limite. Nella filosofia contemporanea
essa viene spesso adoperata a significare un’attività o un’ope- razione in
corrispondenza col significato 2° di trascendenza. T. in questo senso è,
secondo Husserl, la percezione delle cose, in opposizione alla perce- zione che
la coscienza ha di se stessa (che è perce- zione immanente) (/deen, I, $ 46).
Hartmann chiama nello stesso senso atto T. la conoscenza (Systema- tische
Philosophie, $ 11). E Heidegger definisce come T. «ciò che attua
l’oltrepassamento, ciò che si mantiene nell’oltrepassare » (Vom Wesen des
Grundes, II; trad. ital., pag. 29) (v. TRASCEN- DENZA). ‘TRASCENDENTISMO.
Termine che non trova riscontro in altre lingue e che è usato talora a
designare ogni dottrina che ammetta la trascen- denza dell’essere divino.
TRASCENDENZA (ingl. 7ranscendence; franc. Transcendance; ted. Transzendenz). Il
ter- mine è stato usato in due significati diversi, cioè per indicare: 1° lo
stato o la condizione del prin- cipio divino o dell’essere che è al di là di
ogni cosa, di ogni esperienza umana (in quanto espe- rienza di cose) o
dell'essere stesso; 2° l'atto di stabilire un rapporto che escluda
l’unificazione o l ’identificazione dei termini. TRASCENDENTISMO 1° Nel primo
senso, il termine si connette alla concezione neoplatonica della divinità.
Platone aveva già detto che il Bene, come principio supremo di tutto ciò che è,
paragonabile come tale al sole che fa vivere e rende visibili tutte le cose, è
d/ di là della sostanza (èntveva tic obdolac, Rep., VI, 509 b). Sulle orme di
Platone, Plotino ripete che l’Uno è « al di là della sostanza » (Enn., VI, 8,
19); ma aggiunge pure che esso è «al di là dell'essere » (eréxewa Évroc, /bid.,
V, 5, 6); e che è «al di là della mente» (tréxewva voù, /bid., III, 8, 9); in
modo che è trascendente (òrepfeByxdc) rispetto a tutte le cose pur producendole
e tenendole in es- sere lui stesso (/bid., V, 5, 12). Proclo dice: «AI di là di
tutti i corpi, c'è la sostanza dell’anima, al di là di tutte le anime, la
natura intelligibile, al di là di tutte le sostanze intelligibili, c'è l’Uno »
(Ist. Teol., 20). Scoto Eriugena ed altri usarono il termine superessente (v.)
per indicare la T. asso- luta per cui Dio è al di sopra di tutte le determina-
zioni concepibili, perfino dell’essere o della so- stanza. Non sempre tuttavia
la T. è spinta fino a questo punto cioè sino a situare Dio al di là del-
l’essere e a farne in qualche modo un «nulla». La scolastica classica,
riconoscendo la analogi- cità dell’essere, non pone Dio al di là dell’essere
stesso: questa forma di T. è invece propria della teologia negativa o mistica
(v. TEOLOGIA, 4). Fuori della teologia, questa specie di T. è stata rico-
nosciuta da Jaspers, che ha contrapposto la T. all’esistenza: la T. è ciò che è
al di là di ogni pos- sibilità dell’esistenza, è l'essere che non si risolve
mai nel possibile e con cui pertanto l’uomo non può avere altro rapporto se non
appunto quello che consiste nell’impossibilità di raggiungerlo. In tal senso,
la T. si rivela sotto forma di cifra (v.) nelle situazioni-limite (v.) e non
può essere con- trassegnata neppure come « divinità » senza cadere nella
superstizione. L'unica certezza che si può acquisire nei riguardi della T. è
che « l’essere è e che è così» (Phil., III, pag. 134). Nel contempo la T.
veniva riconosciuta, dagli indirizzi realistici della filosofia contemporanea
alle cose o agli oggetti di conoscenza in generale o all’essere di tali
oggetti. Husserl negava in questo senso che una cosa potesse essere data come
im- manente in qualsiasi percezione o coscienza e de- finiva l’essere della cosa
come essere trascendente, che è più o meno adombrato dalle apparizioni della
cosa stessa alla coscienza (/deen, I, $ 41). N. Hart- mann insisteva a sua
volta sulla T. dell’essere rispetto alla conoscenza, in quanto l’essere stesso
rimane sempre al di là dell’oggetto conoscitivo immanente (Metaphysik der
Erkenntniss, 23 ediz., 1925, pag. 50). Nello stesso senso la T. veniva
combattuta dalle varie forme dell’immanentismo (v.). TRASMUTAZIONE DEI VALORI
2° Nel secondo significato, la T. è l’atto con cui si stabilisce un rapporto
senza che questo rap- porto significhi unità o identità dei suoi termini bensì
garantendo, con il rapporto stesso, l’alterità di essi. Anche questo concetto
ha un'origine reli- giosa e neoplatonica. Plotino diceva che la con- templazione
è « per colui che è andato al di là di tutto + (tà brrepfdvii rdvra, Enz., VI,
9, 11). In un passo famoso S. Agostino diceva: «Se troverai mutevole la tua
natura, trascendi anche te stesso +; e aggiungeva: « Ricordati che nel
trascendere te stesso, trascendi un'anima razionale e che pertanto devi mirare
al punto da cui dipende ogni luce di ragione » (De vera relig., 39). Questo
senso attivo di T. è stato pressochè obliterato nella filosofia tradizionale ed
è stato ripreso solo dalla filosofia contemporanea. Con riferimento alla T.
dell’essere o della cosa rispetto alla coscienza che l’apprende o all’atto di
cono- scenza che ne fa oggetto, trascendente è stato chiamata, in senso attivo
la coscienza stessa o l'atto di conoscenza. Così Husserl parla della percezione
trascendente, che è quella che ha per oggetto la cosa e rispetto alla quale la
cosa stessa è trascendente, come diversa dalla percezione imma- nente che ha
per oggetto le stesse esperienze co- scienti le quali sono immanenti alla
percezione stessa (/deen, I, $ 42, 46). N. Hartmann ha messo il concetto della
T. a fondamento del suo realismo. «La conoscenza, egli ha detto, non è un
semplice atto di coscienza, come il rappresentare o il pen- sare ma un atto
trascendente. Un atto simile s°at- tacca al soggetto soltanto con una sua
parte, con l’altra ne sporge fuori; con quest’ultima s’at- tacca all’esistente
che, mediante esso, diviene og- getto. La conoscenza è relazione tra un
soggetto e un oggetto esistente. In questa relazione, l’atto trascende la
coscienza» (Systematische Philoso- phie, $ 11). Nello stesso senso egli chiama
tra- scendente la relazione conoscitiva (/bid. $ 10). Ma la più importante
utilizzazione del concetto in questo senso è stata fatta da Heidegger che ha
definito come trascendente il rapporto tra l’uomo (Dasein, Esserci) e il mondo.
« L’Esserci che trascende (ecco un’espressione già di per sè tautologica) non
oltrepassa nè un ostacolo ante- posto al soggetto in modo tale da costringerlo
a restare dapprima in sè stesso (immanenza) nè un fosso che lo separerebbe
dall’oggetto. Da parte loro gli oggetti (gli enti che gli sono presenti) non
sono ciò verso cui l’oltrepassamento si attua. Ciò che viene oltrepassato è
proprio e unicamentel’ente stesso, cioè qualsiasi ente che possa essere svelato
o svelarsi all’Esserci e quindi anche pro- prio quell’ente che l’Esserci è, in
quanto, esistendo, è se stesso» (Vom Wesen des Grundes, 1929, II). L’atto di T.
è in altri termini quello per cui l’uomo, come ente nel mondo, si distingue
dagli altri enti od oggetti e si riconosce come 4se stesso ». Hei- degger
perciò considera la T. come il significato dell’essere nel mondo. «Colui che
oltrepassa e quindi va oltre, deve come tale sentirsi situato nell’ente.
L’Esserci, in quanto si sente tale, è in- cluso nell’ente in modo che,
ricompreso in esso, viene da esso accordato a se stesso. La T. è un progetto
del mondo tale che colui che progetta è dominato dall’ente che trascende ed è
già in ac- cordo con esso. Con questo essere incluso del- l’Esserci, connesso
con la T., l’Esserci ha preso base nell’ente, ha ottenuto il suo fondamento »
(Ibid., III). È caratteristica di Heidegger questo far ricadere e appiattire la
T. sugli oggetti tra- scesi, il progetto sulle sue condizioni di partenza, il
possibile sull’effettuale, il futuro sul passato. Heidegger chiama deiezione o
effettività (v.) questa ricaduta o appiattimento. E così fa Sartre, che esprime
lo stesso concetto di T. affermando che la coscienza (il per-sé), trascendendo
verso l'essere (l’in-sè), non fa che annullarsi per rivelare e af- fermare,
attraverso di sè, l’essere stesso (L’étre et le néant, II, cap. III; spec. pag.
268-69). Per una interpretazione della T. che sfugga all’appiatti- mento o alla
nullificazione (cfr. ABBAGNANO, Strut- tura dell’esistenza, 1939, $ 18; Ip.,
Introduzione al- l’esistenzialismo, I, 6; ecc.). TRASFORMAZIONE (ingl.
Transformation; franc. Transformation; ted. Umformung, Transforma- tion). Dewey
ha visto nella T. la categoria fonda- mentale del ragionamento matematico. « La
T. dei contenuti concettuali, egli ha detto, secondo regole metodiche che
soddisfino determinate condizioni lo- giche, è implicita tanto nella condotta
del ragiona- mento che nella formazione dei concetti che ne fanno parte ». Il
principio logico della T. può essere espresso dicendo che: 1° il contenuto del
ragiona- mento consiste di possibilità; 2° che in quanto possibilità, esso
richiede la formulazione in sim- boli (Logic, XX, 1; trad. ital., pag. 516).
Regole di T. si chiamano abitualmente le regole di infe- renza dei sistemi
logistici o dei linguaggi forma- lizzati (v. SISTEMA LOGISTICO). ‘TRASFORMISMO
(ingl. Transformism; fran- cese Transformisme; ted. Transformismus). Con questo
termine si indica l’evoluzionismo biologico cioè la dottrina che ammette la
trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra (v. EVOLUZIONE).
TRASMIGRAZIONE. V. METEMPSICOSI. TRASMUTAZIONE DEI VALORI (fran- cese
Transmutation des valeurs; ted. Umwertung aller Werte). La frase famosa con cui
Nietzsche ha riassunto il compito della sua filosofia. « In- versione di tutti
i valori, egli ha scritto, ecco la mia formula per un atto di supremo
riconoscimento di sè di tutta l’umanità, atto che in me è diventato carne e
genio. Il mio destino esige che io sia il primo uomo onesto, che io mi senta in
opposi- zione con le menzogne di vari millenni » (Ecce Homo, $ 4). L’inversione
dei valori consiste nel porre al posto della tavola tradizionale dei valori,
fondati sulla rinuncia alla vita, i nuovi valori che derivano dall’accettazione
entusiastica (dionisiaca) della vita, anche nei suoi aspetti più crudeli (Ge-
nealogie der Moral, I, $ 10; Die froeliche Wissen- schaft, $ 344; ecc.) (v.
VALORE). RASPARENZA (ted. Durchsichtigkeit). Così Heidegger ha chiamato
l’intuizione che l’Esserci ha di se stesso: « Esistendo, l’Esserci vede se
stesso solo in quanto è divenuto originariamente traspa- rente nel suo essere
nel mondo e nel suo essere con gli altri, quali momenti costitutivi della sua
esistenza » (Sein und Zeit, $ 31). TRASPOSIZIONE (ingl. Transposition; fran-
cese Transposition; tedesco Transposition). Così è detto un teorema del calcolo
proposizionale per il quale da «se p, allora g* si può inferire « non q, dunque
non p». TRIADICO (ingl. Triadic; franc. Triadique; ted. Triadisch). La divisione
T. ha goduto spesso di un certo privilegio in filosofia. A prescindere dalla
perfezione che gli antichi Pitagorici riconob- bero al numero tre, Plotino
aveva riconosciuto tre fasi dell'emanazione e quindi tre ipostasi della di-
vinità, l’Uno, il Logos e l’Anima (Enn., II, 9, 1). Ma fu soprattutto Proclo a
privilegiare il proce- dimento T., scorgendo in ogni qualsiasi processo (o
emanazione) tre fasi: quella in cui ciò che pro- cede rimane simile a se
stesso; quella in cui si differenzia da se stesso e infine quella in cui
ritorna a se stesso (/st. theol., 31). Su queste tre fasi del- l'emanazione
Hegel modellò le tre fasi della sua dialettica che consistono rispettivamente:
1° nel- l’identità di un concetto con se stesso; 2° nel con- traddirsi o
nell’alienarsi del concetto rispetto a se stesso; 3° nella conciliazione e
nell’unità delle due prime fasi (cfr. Enc., $ 79-82). Hegel interpretò secondo
questa divisione T. sia il mondo della logica, sia il mondo della natura sia
quello dello spirito (Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, II, pag. 340 sgg.).
Per quanto Hegel facesse risalire a Kant il merito di questa triadicità di ogni
processo razionale quindi anche dell’intera realtà (/bid., pag. 344), la
giustificazione che Kant dà del fatto che le sue « divisioni nella filosofia
pura riescono quasi sempre T.» è completamente diversa ed è desunta dalla
logica. Dice Kant infatti: «Se una divisione dev'essere fatta a priori, o sarà
analitica secondo il principio di contraddizione e allora sarà sempre in due
parti (guodlibet ens est qut A aut non A); o sarà sintetica e in tal caso dovrà
essere derivata da concetti a priori... e conterrà: 1° la condizione; 2° un
condizionato; 3° il concetto che nasce dall’unione della condizione con il con-
dizionato, riuscendo così necessariamente una tri- cotomia » (Crit. del Giud.,
Intr., Nota finale). TRIADISMO o TRIALISMO (ingl. Tria- dism; franc. Triadisme;
ted. Trialismus). La dot- trina, di origine stoica, che considera l’uomo for-
mato da tre princìpi, l’anima, il corpo e lo pneuma o spirito: dottrina che si
trova ripetuta nelle let- tere di S. Paolo (v. PNEUMA). TRIBUNALE (ingl.
Tribunal; franc. Tribunal; ted. Gerichtshof). Il termine è stato usato da Kant
per definire il compito della filosofia critica: « La critica della Ragion
pura, egli disse, si può consi- derare come il vero T. per tutte le
controversie di questa, perchè essa non si immischia nelle con- troversie che
si riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e
per giu- dicare i diritti della ragione in generale secondo i princìpi della
sua prima istituzione» (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. 2).
'TRICOTOMIA (ingl. Trichotomy; franc. Tri- chotomie; ted. Trichotomie).
Divisione in tre parti, elementi o classi. Il termine viene quasi esclusi-
vamente adoperato per la dottrina della triplice composizione dell’anima, che
si chiama anche tria- dismo o trialismo. La dottrina logica della T. fu
elaborata nel sec. XVII, con l’avvertenza che occorre ridurre la T. alla
dicotomia ogni volta che due membri della dicotomia abbiano una nozione in
comune. Si può dire che il triangolo è o rettangolo o obliquangolo e, si può
poi dividere di nuovo il triangolo obli- quangolo in ottusangolo e acutangolo
(cfr. JunaIUS, Logica Hamburgensis, 1638, IV, 7, 13). ‘TRILEMMA (ingl.
Trilemma; franc. Trilemme; ted. Trilemma). È stato indicato con questo nome dai
logici dell’800 uno schema d’inferenza che ha come premessa maggiore una
tricotomia, invece della dicotomia del dilemma (v.): «Ogni cosa è o PoQ0M; S
nonè nè M nè Q; dunque S è P». Nello stesso senso si parla di tetralemma o di
po- lilemma, ma si tratta di schemi di inferenza che trovano scarsissima
applicazione. TRINITÀ (ingl. Trinity; franc. Trinité; te- desco
Dreifaltigkeit). Uno dei dogmi fondamentali del cristianesimo, che afferma
l’unità della so- stanza divina nella T. delle persone. La formula del dogma fu
fissata dal Concilio di Nicea nel 325; e nella sua formulazione ebbe gran parte
l’opera del vescovo Atanasio e la polemica contro la dottrina di Ario che
tendeva ad accentuare la subordinazione del Figlio rispetto al Padre e pra-
ticamente ignorava la terza persona della Trinità. TUTTO L'illustrazione
classica di questo dogma [come di quello dell’incarnazione (v.)] fu data da S.
Tommaso mediante il concetto della relazione. La relazione da un lato
costituisce le persone divine nella loro distinzione; dall’altro si identifica
con la stessa unica essenza divina. Le persone divine, infatti, sono costituite
dalle loro relazioni di origine: il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione
con il Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto con
il Padre; lo Spirito dal- l’amore cioè dal rapporto reciproco di Padre e
Figlio. Ora queste relazioni in Dio non sono ac- cidentali (nulla c’è di
accidentale in Dio) ma reali; sussistono rea/mente nella sostanza divina. Pro-
prio la sostanza divina dunque, nella sua unità, implicando le relazioni,
implica la diversità delle persone (S. 7h., I, q. 27-32 e spec. q. 29, a. 4).
Questa interpretazione basta, secondo S. Tommaso a mostrare che « ciò che la
fede rivela non è impos- sibile ». Dal punto di vista logico essa implica una
dottrina sulla natura delle relazioni che è stori- camente importante (v.
RELAZIONE). Tuttavia nell’ultima età della scolastica il dogma della T. o fu
dichiarato una « verità pratica », come fece Duns Scoto (Op. Ox., Prol. q. 4,
n. 31), o veniva dichiarata al di là di ogni possibilità di in- tendimento,
come fece Ockham (/n Sent., I, d. 30, q. 1B). Il dogma della T. è stato
accettato anche dalle chiese protestanti. Fa eccezione la tendenza rap-
presentata dal socinianesimo (v.) che riprese le dottrine di tipo ariano che
circolavano nei primi secoli del cristianesimo. Tali dottrine sono state
riprese dai cosiddetti unitari che costituirono un movimento religioso diffuso
soprattutto in Inghil- terra e in America a partire dalla seconda metà del sec.
xVII (v. UNITARISMO). TRINITARISMO (ingl. 7rinitarianism; fran- cese 7rinité).
La dottrina ufficiale della Chiesa cristiana sulla natura di Dio come un'unica
so- stanza in tre persone uguali e distinte (v. TRI- NITÀ). TRITEISMO (ingl.
Tritheism; franc. Trithéi- sme; ted. Tritheismus). Con questo termine si suole
indicare l'eresia trinitaria che consiste nel- l'ammettere tre sostanze divine
relativamente indi- pendenti l’una dall'altra. Quest’eresia fu sostenuta nel
sec. v da Giovanni Filopono; e nel sec. x1 da Roscellino il quale, secondo una
testimonianza di S. Anselmo, affermava che « Le tre persone della trinità sono
tre realtà come tre angeli e tre anime, sebbene siano identiche assolutamente
per volontà e potenza» (De fide trinitatis, 3). Al T. inclinava anche Gilberto
de la Porrée che chiamava deità l’unica essenza divina, dalla quale
parteciperebbero le tre persone diverse; e probabilmente sulle sue 889 orme
inclinava al T. Gioacchino Da Fiore (sec. x11). La dottrina è stata
costantemente condannata dalla Chiesa. TRIVIO. V. CULTURA, 1]. TROPI (gr.
tpéro; lat. Tropes; franc. Tropes; ted. Tropen). Così si chiamarono e tuttora
si chia- mano i modi o le vie indicate dagli scettici per arrivare alla
sospensione dell’assenso. Tali T. con- sistono nell’enunciazione delle
situazioni dalle quali risultano contrasti di opinioni o addirittura
contraddizioni. Enesidemo di Cnosso ne enumerava dieci, che sono i seguenti: 1°
la differenza fra gli animali, che stabilisce una differenza fra le loro
rappresentazioni; 2° la differenza fra gli vomini, per lo stesso motivo; 3° la
differenza fra le sen- sazioni; 4° la differenza fra le circostanze, che
influiscono anch'esse sulla diversità delle opinioni; 5° la differenza delle
posizioni e degli intervalli; 6° la differenza delle mescolanze; 7° la
differenza fra gli oggetti semplici e gli oggetti composti; 8° la differenza
fra le relazioni, giacchè le opinioni cam-biano a seconda delle relazioni in
cui le cose en- trano col soggetto giudicante; 9° la differenza fra la
frequenza o la rarità degli incontri tra il soggetto giudicante e le cose; 10°
la differenza dell’educazione, dei costumi, delle leggi, ecc. (/p. Pirr., I,
36-163). A sua volta Agrippa aggiungeva altri cinque tropi, come obiezioni
contro la raggiungibilità della verità: 1° la discordanza delle opinioni; 2° il
processo all'infinito nel quale si cade quando si vuole addurre una prova,
giacchè questa prova ha bisogno di un’altra prova e questa di un’altra e così
via; 3° la relazione tra il soggetto e l'oggetto che fa variare l’apparenza
dell’oggetto stesso; 4° l’ipotesi cioè il ricorso ad una assunzione priva di
dimostrazione quindi insostenibile; 5° il diallele o circolo vizioso quando si
assume come principio di prova proprio ciò che si deve provare (SESTO EMPIRICO,
/p. Pirr., I, 164-69). Infine Sesto Empirico enuncia altri due tropi, che sono
argomenti i quali tendono a dimostrare che non si può comprendere una cosa nè
in base a se stessa nè in base a un'altra cosa (/p. Pirr., I, 178-79). TRUISMO
(ingl. Truism; franc. Truisme). Una verità evidente ma ovvia quindi poco
importante o poco utile. Il termine e la nozione sono propri della lingua inglese.
TUTTI. V. Ogni. TUTTO (gr. rò nav; lat. Torum; ingl. Whole; franc. Tout; ted.
AIN). Un qualsiasi insieme di parti: cioè un insieme di parti in quanto è
indipen- dente dall’ordine o dalla disposizione delle parti stesse. In questo,
il T. si può distinguere dalla totalità che implica un ordine delle parti che
non può essere modificato senza modificare la totalità stessa (v. MonDO;
TOTALITÀ; UNIVERSO). 890 Sulla base delle determinazioni aristoteliche (Mer.,
V, |[26, 1023 b 25), la logica medievale distingueva: 1° il T. universale o
essenziale, che è quello ie cui parti costituiscono la sostanza di esso: ad
es., «corpo vivente +; 2° il T. integrale che è quello le cui parti sono
quantità: quantità simili come in «acqua»? o quantità dissimili come in «albero
+; 3° il T. nella quantità, che è l’universale preso universalmente come «ogni
uomo» o «nessun uomo»; 4° il T. nel modo che è l’universale preso senza
determina- zione, come «l’uomo +; 5° il T. nel luogo che è una determinazione
comprendente avverbialmente il luogo come « dovunque » o «in nessun luogo +; 6°
il T. nel tempo che è un’espressione che com- prende avverbialmente la totalità
del tempo come «sempre» e « mai» (Pietro Ispano, Summ. Logi- cales, 5, 14-23).
Nizolio riduceva a due queste specie, con l’argomento che due soltanto si tro-
vano in natura e cioè il T. continuo che è una sin- TUZIORISMO gola cosa e il
T. discreto che è un complesso di cose singole (De veris principiis, I, 10); al
che Leibniz aggiungeva il T. disgiuntivo, per es., « l’ani- male è o uomo o
bruto » (Nota al passo citato di Nizolio). Altre distinzioni si trovano
registrate da Hamilton: il T. per sè in cui le parti sono connesse
necessariamente come il corpo e l’anima sono connesse nell’uomo e il T. per
accidens in cui le parti sono connesse contingentemente. Il T. per sè può
essere a sua volta: un T. /ogico come un uni- versale, un T. metafisico o
reale; un T. fisico o sostanziale; un T. matematico, quantitativo o in- tegrale
e un T. collettivo o di aggregazione (Lectures on Logic, 2> ediz., I, pag.
202 sgg.). Nella logica moderna T. è un operatore e pre- cisamente il
quantificatore universale simboleggiato con la notazione «(x)» (v. OPERATORE).
Per la differenza tra 7. e ogni, v. quest’ultimo termine. TUZIORISMO. V. ProBABILISMO.
ÙU U. Nella logica tradizionale, simbolo della propo- sizione modale che
consiste nella negazione del modo e nella negazione della proposizione: ad es.,
«non è possibile che non p» (cfr. ARNAULD, Log., II, 8) (v. PURPUREA). UBI. Con
questo avverbio latino (dove) Duns Scoto indicò la determinazione qualitativa
che il corpo in movimento acquista a ogni istante del suo movimento. L’U. non è
il luogo (v.) perchè il luogo di un corpo non è un attributo di esso ma risiede
nei corpi che lo attorniano; è piuttosto simile al calore che è acquisito dal
corpo che si riscalda (Quod!., q.11, a. 1). La nozione fu criti- cata da Pietro
Aureolo (/n Senr., I, d. 17, a. 4) da Ockham (/n Sent., II, q. 9 c) e da
Gregorio da Rimini (Zn Sent., II, d. 6, qg. 1, a. 2) che invece ridussero il
movimento al corpo che si muove. Essa è ricordata ancora, con disprezzo, da
Locke (Saggio, II, 23, 21). UBICAZIONE. V. Luoco. UBIQUITÀ (lat. Ubiquitas;
ingl. Ubiquity; franc. Ubiquité; ted. Allgegenwart). Quel modo d'essere nello
spazio che gli Scolastici del sec. x1v chiamavano definitivo (definitivus) e
che consiste nell’esser tutto in tutto lo spazio e tutto in qual- siasi parte
dello spazio. Questo modo d’essere veniva distinto da quello detto
circoscrittivo (cir- cumscriptivus) che consiste nell’essere tutto in tutto lo
spazio (occupato) e parte in ciascuna parte di esso (v., per questa
distinzione, OCKHAM, /n Sent., IV, q.4; Quodl., VII, q. 19; De Corp. Christi,
6). Il concetto dell’esistenza spaziale definitiva ser- viva ad intendere la
presenza del corpo di Cristo nel pane e l’onnipresenza di Dio nel mondo. Per
quest’ultima, Leibniz (che ricorda i due primi modi che chiama wubietés) parla
di una ubieré reple- tiva (Nouv. Ess., II, 23, 21). UCRONIA (franc. Uchkronie).
È il titolo di un romanzo di Carlo Renouvier (Uchronie, l’utopie dans
l’histoire, 1876) nel quale l’autore si propone di ricostruire «la storia
apocrifa dello sviluppo della civiltà europea, quale avrebbe potuto essere e
non è stata ». Lo scopo del romanzo è di mostrare l’assenza della necessità
nella storia (v. STORIA). UGUAGLIANZA. V. EGUAGLIANZA. ULTIMO (gr. cò toyaroy;
ingl. Ultimate; franc. Ultime; ted. Letzt). Uno dei due estremi di una serie,
precisamente quello cui la serie mette capo. Poichè la stessa serie può essere
considerata come facente capo per certi scopi (o da un certo punto di vista) ad
un certo estremo e per altri scopi (o per altro punto di vista) all’altro
estremo, la parola U. è spesso ambivalente e le stesse cose sono dichiarate U.
e prime. Così accade frequente- mente nella terminologia aristotelica: in cui è
detto U. il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti (is.,
VIII, 2, 244 b 4); ma è detto anche U. la specie che è più vicina all’individuo
(Mer., III, 3, 998b 15). Aristotele chiama inoltre U. un soggetto come l’acqua
o come l’aria (/bid., V, 6, 1016a 23); ma chiama anche U. sostrato la sostanza
(/bid., V, 8, 1017 b 24); e considera il principio di contraddizione come «
un’opinione U. » (/bid., IV, 3, 1005 b 33). Chiama pure U. il fine (/bid., V,
16, 1021 b 25). Tutti questi usi, o usi assai simili a questi, sono rimasti
nella tradizione filosofica. Nel Medio Evo si chiamò «fine U.» la beatitudine,
in quanto è il fine al di là del quale non si può procedere (con- fronta S.
Tommaso, S. 7h., II, 1, q.1, a. 4). Oggi si parla di « problemi U. » o di
«ragioni U.» nello stesso senso in cui si potrebbe parlare di problemi primi o
massimi e di ragioni prime: il che dimostra ancora una volta che il termine
appartiene piuttosto 892 alla retorica del discorso filosofico e ha scarso
valore concettuale (v. ESTREMO). ULTRAMONDANISMO. V. TRADIZIONA- LISMO, 1.
UMANESIMO (ingl. Humanism; franc. Huma- nisme; ted. Humanismus). Il termine è
usato per indicare due cose diverse e cioè: I) il movimento letterario e
filosofico che ebbe le sue origini in Italia nella seconda metà del sec. x1v e
dall’Italia si dif- fuse negli altri paesi d'Europa, costituendo l'origine
della cultura moderna; II) un qualsiasi movimento filosofico che assuma a suo
fondamento la natura umana o i limiti e gli interessi dell’uomo. I Nel suo
primo significato, che è quello storico, l’U. è un aspetto fondamentale del
Rina- scimento (v.): precisamente l’aspetto per il quale il Rinascimento è il
riconoscimento del valore dell’uomo nella sua interezza e il tentativo di in-
tenderlo nel suo mondo, che è quello della natura e della storia. In questo
senso l’U. si fa iniziare con l’opera di Francesco Petrarca (1304-74). I
principali umanisti italiani sono: Coluccio Sa- lutati (1331-1406), Leonardo
Bruni (1374-1444), Lorenzo Valla (1407-57), Giannozzo Manetti (1396- 1459),
Leonbattista Alberti (1404-72), Mario Ni- zolio (1498-1576). Fra gli umanisti
francesi: Carlo Bovillo (1470 o 75-1553), Pietro Ramus (1515-72), Michele di
Montaigne (1533-92), Pietro Charron (1541-1603), Francesco Sanchez (1562-1632),
Giusto Lipsio (1547-1606). Tra gli umanisti spagnoli va ricordato Ludovico
Vives (1492-1540) e tra quelli tedeschi Rodolfo Agricola (1442-85). I capisaldi
fondamentali dell’U. possono essere esposti così: 1° Il riconoscimento della
roralità dell’uomo come essere formato di anima e di corpo e destinato a vivere
nel mondo e a dominarlo. Il curriculum medievale degli studi era fatto per un
angelo o un’anima disincarnata. L'U. rivendica per l’uomo il valore del piacere
(Raimondi, Filelfo, Valla); afferma l’importanza dello studio delle leggi,
della medicina e dell’etica contro la metafisica (Salutati, Bruni, Valla); nega
la superiorità della vita con- templativa su quella attiva (Valla). Si ferma
lungamente a esaltare la dignità e la libertà del- l’uomo, a riconoscere il suo
posto centrale della natura e il suo destino di dominatore della na- tura
stessa (Manetti, Pico della Mirandola, Ficino). 2° Il riconoscimento della
storicità dell’uomo cioè dei legami dell’uomo con il suo passato, legami che da
un lato servono a connetterlo con tale passato dall’altro a distinguerlo e a
contrapporlo ad esso. Da questo punto di vista, è parte fondamentale dell’U.
l'esigenza filologica: che non è solo il bi- sogno di scoprire i testi antichi
e di ripristinarli nella forma autentica, studiando e collazionando i codici,
ma è anche il bisogno di rintracciare in ULTRAMONDANISMO essi l’autentico
significato di poesia o di verità filosofica o religiosa che contengono. L’ammira-
zione e lo studio dell’antichità non erano mai venuti meno nel Medio Evo; ciò
che costituisce il proprio dell’U. è l’esigenza di scoprire il volto autentico
dell’antichità, liberandola dalle incro- stazioni che la tradizione medievale
vi aveva accu- mulato. 3° Il riconoscimento del valore umano delle lettere
classiche. Questo è l’aspetto da cui l’U. prende il suo nome. Già al tempo di
Cicerone e Varrone la parola humanitas significava l’educazione dell’uomo come
tale che i Greci chiamavano paideia; e si riconoscevano nelle «buone arti» le
discipline che formano l’uomo perchè sono proprie solo di lui e lo
differenziano dagli altri animali (AuLo GetLio, Nocf. atf., XIII, 17). Le buone
arti, quelle che ancora oggi si chiamano le discipline umanistiche, non avevano
tuttavia per PU. valore di fine ma di mezzo per la + forma- zione di una
coscienza davvero umana, aperta in ogni direzione, attraverso la consapevolezza
storico-critica della tradizione culturale » (GARIN, L’educazione umanistica in
Italia, pag. 7) (vedi CULTURA). 4° Il riconoscimento della naturalità del-
l’uomo cioè del fatto che l’uomo è un essere natu- rale per il quale la
conoscenza della natura non è una distrazione imperdonabile o un peccato ma un
elemento indispensabile di vita e di successo. Il rifiorire dell’aristotelismo,
della magia e delle spe- culazioni naturalistiche (ad opera di Telesio, Bruno e
Campanella) costituisce il preludio della scienza moderna. II) Il secondo
significato della parola non sempre ha strette connessioni con il primo. Si può
dire che per esso l’U. è ogni filosofia che faccia dell’uomo, secondo il
vecchio detto di Pro- tagora, «la misura delle cose». Proprio in questo senso,
e in riferimento al detto di Protagora, F. C. S. Schiller chiamò U. il suo
pragmatismo (Studies in Humanism, 1902). Nello stesso senso, ma per respingerlo
ha inteso l’U. Heidegger che ha visto in esso quell’indirizzo della filosofia
che fa dell’uomo la misura dell’essere e subordina l’essere all'uomo invece di
subordinare, come dovrebbe, l’uomo all’essere e di vedere nell’uomo soltanto «
il pastore dell’essere » (Ho/zwege, 1950, pag. 101-02). Riferendosi ad un senso
analogo, Sartre ha accet- tato la qualifica di U. per il suo esistenzialismo
(L’existentialisme est un humanisme, 1949). Più in generale si può intendere
per U. qual- siasi indirizzo filosofico che tenga conto delle pos- sibilità e
quindi dei limiti dell’uomo e che proceda su questa base a un ridimensionamento
dei pro- blemi filosofici. UMILTÀ UMANITÀ (lat. Humanitas; ingl. Humanity; franc.
Humanité; ted. Humanitàt, Menschheit). Il termine ha i seguenti significati
principali: 1° La forma compiuta o l’ideale o lo spirito dell’uomo. In tal
senso gli antichi adoperavano la parola humanitas, corrispondente al greco pai-
deia, dalla quale è venuto il nome e il concetto stesso di umanesimo (v.). In
un senso analogo Humboldt considerava come fine della storia «la realizzazione
dell’idea dell’U.» (Schriften, IV, pa- gina 55). 2° La sostanza o l'essenza
dell’uomo, nel significato aristotelico rimasto proprio della meta- fisica
classica. In tal senso S. Tommaso diceva: « U. significa i princìpi essenziali
della specie, tanto formali quanto materiali, a prescindere dai prin- cìpi
individuali. L’U. è infatti ciò per cui un uomo è tale; e un uomo è tale non
perchè ha i princìpi individuali ma perchè ha i princìpi essenziali della
specie » (Contra Gent., IV, 81). 3° Il genere umano cioè la specie umana come
entità biologica. In tal senso si parla, ad es., della storia o delle vicende
dell’U. su questa terra o del- l’evoluzione biologica dell’umanità. 4° La
sintesi ipostatizzata della storia o della tradizione dell’uomo, secondo il
concetto di Comte che intende per essa « l’insieme degli esseri passati, futuri
e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale »
(Politique positive, IV, pag. 30). In tal senso I’U. costituisce, secondo
Comte, un Grande Essere, cioè una specie di divinità che non è altro che lo
stesso mondo storico ipo- statizzato. Comte volle istituire il culto di questo
grande essere (v. ESSERE, GRANDE). 5° La natura ragionevole dell’uomo, in
quanto dotata di dignità e quindi in quanto deve valere come fine a se stessa.
Questo è il significato che la parola assume nella seconda formula dell’impera-
tivo categorico di Kant: « Agisci in modo da trattare l’U. (Menschheit), tanto
nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre anche come fine, mai
solo come mezzo » (Grundlegung der Me- taphysik der Sitten, ID. L’U. nella
persona degli uomini è l’oggetto proprio del rispetto (v.) che, secondo Kant, è
l’unico sentimento morale (Met. der Sitten, II, $ 11). 6° La disposizione alla
comprensione degli altri o alla simpatia verso di essi. In questo senso, il
termine è stato ottimamente definito da Kant: « U. (Humanitàt) significa da un
lato il sentimento universale della simpatia, dall'altro la facoltà di poter
comunicare intimamente e universalmente: due proprietà che insieme
costituiscono la socia- bilità propria dell’U. (Menschheit) per cui essa si
differenzia dall’isolamento animale » (Crif. del Giud., $ 60; cfr. Antr., $
88). 893 UMANITARISMO (ingl. Humanitarianism; franc. Humanitarisme; ted.
Humanitàt). V. FiLAN- TROPIA. UMILTÀ (gr. tarewoppootvn; lat. Humilitas; ingl.
Humility; franc. Humilité; ted. Demut). L'at- teggiamento di volontaria
abbiezione, tipico della religiosità medievale alla quale viene suggerito dalla
credenza nella natura miserabile e peccaminosa dell’uomo. In questo senso l’U.
viene illustrata ed esaltata da Bernardo di Chiaravalle: « L'U. è la virtù per
la quale l’uomo, con verissimo ricono- scimento di sè, tiene a vile se stesso »
(De gradibus humilitatis et superbiae, in P. L., 182°, col. 942). In questo
senso l’U. era sconosciuta al mondo antico. Lo stesso S. Paolo, che adoperò per
primo la parola, intese per essa l’assenza dello spirito di competizione e di
vanagloria (Philipp., ID e ne vide il modello in Cristo che si è abbassato, con
l'incarnazione, sino all'uomo (Ibid, II, 3-11). Allo stesso modo Sant'Agostino
parla dell’U. pre- valentemente a proposito della via humilitatis che è
l’incarnazione del Verbo per la redenzione degli uomini: e in tal senso
contrappone l’U. cristiana alla superbia dei Platonici che sapevano tante cose,
ma ignoravano l'incarnazione (Conf., VII, 9). S. Tommaso considerava l’U. come
quella parte della virtù «che tempera e frena l’animo affinchè non tenda senza
misura verso le cose più alte» e vedeva in esse il completamento della
magnanimità che «conferma l'animo contro la disperazione e lo spinge a
perseguire le cose grandi secondo la retta ragione» (S. 7h., II, 2, q. 161, a.
1). Ma è ovvio che in questo senso l’U. non è che la ma- gnanimità stessa nel
significato aristotelico (v. Ma- GNANIMITÀ) e non ha nulla a che fare con l’U.
nel senso di S. Bernardo. I filosofi hanno spesso polemizzato contro l’U. nel
significato medievale o hanno cercato di ricon- durla a un significato
compatibile con l’etica clas- sica. Spinoza negava che l’U. fosse una virtù e
la riteneva una emozione passiva in quanto essa nasce dal fatto che «l’uomo
contempla la propria impotenza ». Mentre, se pensa a tale impotenza nei
confronti di un essere più perfetto questo pen- siero favorisce la sua potenza
d’azione ed è perciò non U. ma virtù (Er., IV, 53). Kant distingue l’U. morale
che è «il sentimento della piccolezza del nostro valore in confronto con la
legge » dall’U. spuria che è «la pretesa di acquistare, mediante ia rinuncia a
un qualsiasi valore morale di sè, un valore morale nascosto ». La pretesa di
superare gli altri abbassando se stessi è un’ambizione opposta al dovere verso
gli altri; e servirsi di questo mezzo per ottenere il favore di altri (Dio o
uomo che sia) è ipocrisia e adulazione (Mer. der Sitten, II, $ 11). Hegel a sua
volta affermava che 1°U. » è la coscienza 894 di Dio e della sua essenza come
amore » (Philoso- phische Propàdeutik, $ 207; cfr. Philosophie der Reli- gion,
ed. Glockner, II, pag. 553). Mentre, dall’altro lato, la protesta di Nietzsche
che vede nell’U. sem- plicemente un aspetto della « morale degli schiavi » è ovviamente
diretta contro il tipico concetto me- dievale dell’U. (cfr. Werke, VII, pag.
348 sgg.). UMORE (ingl. Mood; franc. Humeur; tedesco Stimmung). Uno stato
emotivo che non ha oggetto, o il cui oggetto è indeterminabile, e che si
distingue perciò dall'emozione vera e propria. Questa distin- zione è stata
proposta da W. Cerf (« U. ed emozioni nell’arte», in Rivista di Filosofia,
1954, pag. 363 sgg.) ed appare opportuna per individuare nella vasta gamma
degli stati emotivi quelli che vanno sotto il nome di umore. L’U. non ha
oggetto intenzionale nel senso che non esiste un U. di..., come esiste una
paura di..., o una gioia di..., ecc. Esso ha una causa o una ragione ma non si
riferisce a un parti- colare oggetto e non costituisce l’avvertimento del
valore biologico di una situazione. In tal senso, Cerf ha affermato che
nell’arte non ci sono emozioni ma soltanto umori. Sul significato esistenziale
degli U. aveva richia- mato l’attenzione Heidegger: « Che gli U. possano mutare
o dileguare significa solo che l’Esserci è già sempre in uno stato emotivo ».
L’U. fondamen- tale è la noia, «il peso dell’essere». Ma in ogni caso l’U. è
ciò che rende manifesto « come uno è e diviene » (Sein und Zeit, $ 29). UNICO
(lat. Unicus; ingl. Unique; francese Unique; ted. Einzig). 1. Ciò che non è la
specie di un genere, intendendosi per genere una deter- minazione che possa
essere partecipata da più specie. In questo senso Dio solo è U. (cfr. S. Tom-
Maso, S. Th., I, q. 3, a. $). 2. Ciò che è solo nella sua specie, cioè il solo in-
dividuo appartenente a una specie determinata. In questo senso, nella
metafisica tradizionale possono dirsi U. gli angeli dei quali è impossibile che
ve ne siano due della stessa specie in quanto sono privi della materia che
distingue gli appartenenti di una stessa specie (cfr. S. Th., I, q. 50, a. 4).
In questo senso Stirner intendeva l’unicità: «Io, l’U., sono l’uomo. La
questione ‘che cosa è l’uomo?’ si trasforma nella questione ‘chi è l’uomo?’.
Nel che cosa si cercava il concetto; nel chi la questione risolta perchè la
risposta è data da quello stesso che interroga » (Der Einzige und sein
Eigentum, 1845; trad. ital., pag. 270). Il che cosa è il chi, la specie è
l’individuo (vedi ANARCHISMO). 3. Ciò che non è sostituibile nel suo valore o
nella sua funzione. In tal senso si dice U. una persona o un’opera d’arte; e si
dice U., in mate- matica, il valore di una funzione. UMORE 4. Ciò che non si
ripete o non si ripete identica- mente. In tal senso si dice U. l’evento
storico come tale (v. STORIA). 5. Ciò che può essere effettuato in un solo
modo; e in tal senso diciamo U. un’operazione, per es., la scomposizione di un
numero in fattori primi. UNIFICAZIONE DELLE SCIENZE. Vedi ENCICLOPEDIA.
UNIFORME (gr. spoedic; lat. Uniformis; in- glese Uniform; franc. Uniforme; ted.
Einformig). I. Ciò che appartiene alla stessa specie o alla stessa essenza o
sostanza. In questo senso il termine ve- niva adoperato da Aristotele (Mer., V,
2, 1013b 31; I, 9, 991 b 23; VII, 7, 1032a 24; ecc.) e inteso da S. Tommaso (/n
Sent., II, d. 48, q. 1, a. 1). In tal senso si chiamano U. gli oggetti che
hanno lo stesso genere o la stessa specie o in ge- nerale la stessa natura. 2.
Ciò che rimane costante o immutabile o al- meno relativamente costante e
immutabile. In tal senso si parla della uniformità delle leggi di natura (v.
INDUZIONE). 3. Ciò che presenta analogie o somiglianze par- ziali, messe in
luce dall’astrazione prescissiva, ed è suscettibile di previsione. In questo
senso si parla dell’uniformità della natura o dell’uniformità della storia o
del mondo umano e sociale. Peirce ha così illustrato l’uniformità in questo
senso: « Se scegliamo molti oggetti col principio che essi deb- bano
appartenere ad una certa classe e troviamo che hanno tutti un carattere comune,
si troverà assai spesso che l’intera classe avrà lo stesso ca- rattere. O se
scegliamo molti caratteri di una cosa a caso e poi troviamo una cosa che ha
tutti questi caratteri, generalmente troviamo che la seconda cosa è assai
simile alla prima » (Coll. Pap., 7.131). Come osserva lo stesso Peirce,
uniformità in questo senso si potrebbe trovare anche in un mondo in cui tutto
si verificasse a caso (/bid., 7.136). E sono queste le uniformità di cui si
avvalgono le disci- pline scientifiche sia quelle naturali sia quelle so- ciali;
come si avvale di esse il senso comune. Il dizionario di un linguaggio
qualsiasi non è che la espressione di uniformità di questa sorta. La ri-
petibilità è il carattere fondamentale dell’uniformità in questo senso. 4. Ciò
che è conforme a un ordine, cioè a una regola o una legge qualsiasi. In tal
senso si dicono U. i fenomeni naturali che obbediscono a leggi. Ma in realtà
questa specie di uniformità non è che la precedente perchè una legge
scientifica non è che un’uniformità nel senso 3. Questo fu un punto messo in
luce da J. Stuart Mill (System of Logic, III, IV, 1) (v. REGOLARITÀ). UNIONE
(ingl. Union; franc. Union; ted. Ver- bindung). Qualsiasi forma di relazione
che consenta UNITÀ di considerare (a qualsiasi titolo) l'insieme dei ter- mini
come un tutto. Questa è la definizione che della parola dette Leibniz (De arte
combinatoria, 1666, Op., ed. Erdmann, pag. 8). Un tutto non è necessariamente
un’unità o una totalità (vedi TUTTO) e può avere gradi diversissimi di coesione
tra le sue parti. Sicchè anche i gradi dell’U. pos- sono essere diversissimi.
Kant divise ogni U. in composizione (compositio) e in connessione (nexus). La
prima è una sintesi mon necessaria cioè tale che non connette necessariamente i
suoi termini. Kant ritiene che sia propria delle matematiche e la divide in
aggregazione, che riguarda le quantità estensive e coalizione che riguarda le
quantità in- tensive. La connessione invece è una sintesi ne- cessaria, per
es., quella dell’accidente con la so- stanza e dell’effetto con la causa. Essa
può sussistere anche fra termini eterogenei e può essere o fisica, che è la
connessione dei fenomeni tra di loro, o metafisica che è l’U. dei fenomeni
nella facoltà conoscitiva a priori (Crit. R. Pura, Analitica, libro II, cap. 2,
sez. 3, nota [B 202)). Questa diversità di significato si riscontra nel- l’uso
corrente del termine come in quello filosofico e teologico. La teologia parla
di una «U. ipo- statica » cioè sostanziale o necessaria tra la natura umana e
la natura divina nella persona del Cristo (v. INCARNAZIONE); ma parla anche
dell’U. mistica dell'anima con Dio, che non è nè sostanziale nè necessaria. La
filosofia parla dell’U. tra materia e forma e di sostanza e accidente, che sono
necessarie; e parla pure dell’U. dell’anima e del corpo che non è necessaria
(cfr. LEIBNIZ, Op., ed. Erdmann, pag. 127). Nel linguaggio comune sono passati
al- cuni di questi usi; e in più si parla, ad es., di «U. carnale »; o di U.
nel senso di concordia o di solidarietà; o di associazione per la difesa di
interessi comuni (U. operaia, ecc.). UNITÀ (gr. uovéc; lat. Unitas; ingl.
Unity; franc. Unité; ted. Einheit). 1. In senso proprio, ciò che è
mecessariamente uno, cioè indivisibile o nel senso che è privo di parti o nel
senso che le sue parti sono inseparabili dalla totalità e insepa- rabili l’una
dall’altra. Questo fu il concetto elabo- rato da Aristotele, che distinse ciò
che è uno dî per sè o essenzialmente da ciò che è uno per acci- dente (Met., V,
6, 1015 b 16); definì l’U. (uovéc) come qualcosa di indivisibile o
assolutamente o quantitativamente (/bid., 1016 b 24) e distinse quattro specie
fondamentali di U.: 4) l’U. di una totalità continua qual'è, per es., un
organismo; b) l’U. di una forma o sostanza; c) l’U. numerica; d) l’U.
definitoria cioè l’U. di cose che hanno la stessa definizione (/bid., X, 1,
1052a 15-1052b 15; cfr. V, 6, 1016a 1-1016a 35). Queste deter- minazioni
aristoteliche non sono perfettamente coe- 895 renti perchè, mentre definiscono
l’U. come indi- visibilità, includono tra le forme dell’U. la continuità, che
Aristotele stesso definisce come la divisibilità in parti a loro volta
divisibili (v. ConTINUO). Il loro significato è tuttavia abbastanza chiaro.
L’U., cioè l’uno per sè, è da un lato l’identità della forma o sostanza con se
stessa, dall’altro l’identità degli og- getti che hanno la stessa definizione
(identità degli indiscernibili), dall'altro ancora è l’elemento o il principio
del numero. Per ciò che riguarda il numero, questo concetto dell’U. è durato a
lungo (v. NuMERO). Ma delle altre due forme di U. distinte da Aristotele, è so-
prattutto l’U. formale o sostanziale quella che è stata di regola assunta come
concetto o ideale dell’U. nella tradizione filosofica. I neoplatonici
illustrarono ed esaltarono l’U. come condizione necessaria di ogni essere,
trascurando la distinzione aristotelica tra l’U. che è necessaria e l’uno che
non lo è. L’U. è sempre necessaria secondo Plotino: «Separati dall'uno, gli
esseri non ci sono più. L'esercito, il coro, il gregge non esisterebbero se non
fossero un esercito, un coro, un gregge. La casa e la nave non sono se non
hanno unità; giacchè la casa è una casa e la nave è una nave e se per- dessero
l’unità non sarebbero nè casa nè nave. Le grandezze continue neanch’esse ci
sarebbero se non avessero l’unità. Si divida una grandezza: perdendo l’U., il
suo essere si trasforma. Lo stesso accade per i corpi delle piante e degli
animali che, se per- dono l’U. e si dividono in molte parti, perdono l'essere
che possedevano e non sono più quel che erano; si mutano in altri esseri che,
in quanto sono, sono ciascuno un essere» (Enn., VI, 9, 1). Queste
considerazioni sono rimaste decisive per la storia ulteriore del concetto di
unità. Ripetute da Proclo (/nst. Theol.) e da Dionigi l’Areo- pagita (De div.
nom., XIII, C-D) passarono nella filosofia medievale (cfr. S. Tommaso, S. Th.,
1, q. 11, a. 1); e furono riprese da Nicolò da Cusa (De doct. ignor., I, 5) che
identificò l’assoluta U. col massimo assoluto ed entrambe le cose con Dio ed
ispirò le corrispondenti speculazioni di Bruno sull’argomento. Nell’U. consiste
la sostanza delle cose (De /a causa, principio et uno, V, in Op., ed. Guzzo e
Amerio, pag. 409). Locke presenta la prima istanza polemica contro il concetto
dell’U. sostanziale. Egli sostiene che «l’U. di sostanza» non serve a fare
intendere le varie specie di identità, per es., l’identità della so- stanza
dell’uomo, della persona, ecc., e che tali identità devono essere chiarite o
spiegate indipen- dentemente l’una dall’altra (Saggio, II, 27, 8). Ma Leibniz
già ritornava alla difesa dell’identità so- stanziale «l’unica vera e reale U.»
(Nouv. Ess., II, 27, 4). E Wolff ridefiniva nel senso tradizionale 896 l’U.,
intendendo per essa « l’inseparabilità di quelle cose mediante le quali un ente
è determinato» (Ont., $ 328); la determinazione dell’ente essendo nient'altro,
secondo Wolff, che la ragione o la forma dell’ente (/bid., $ 116). Il ruolo
determinante che Kant affida alla sintesi (v.) in tutti i gradi e le forme
della conoscenza e in generale dell'attività umana ubbidisce allo stesso favore
accordato alla nozione di unità. Questa è in generale per Kant sinonimo di
sintesi o di connessione necessaria. Il suo carattere proprio è, in altri
termini, l’insepa- rabilità di ciò che viene unificato o sintetizzato. A fondamento
di tutti i gradi o le forme di U., che costituiscono le forme e i gradi del
conoscere, Kant pone «l'U. oggettiva della percezione» la quale si manifesta
con l’uso della copula é in senso oggettivo. Questa copula designa secondo Kant
«I’U. necessaria » del soggetto con il predicato e la relazione di questa U.
necessaria con l’apper- cezione originaria. Questo non vuol dire che le
rappresentazioni legate insieme della copula sono « necessariamente subordinate
l’una all’altra +; ma vuol dire che esse sono « subordinate l’una all’altra
mediante l’U. necessaria dell’appercezione» (Cri- tica R. Pura, $ 19). Come si
vede, l’uso kantiano del concetto di U. è, rigorosamente, quello tradi-
zionale: Kant trasferisce all'io penso o « U. neces- saria dell’appercezione »
il fondamento dell’U. ne- cessaria degli oggetti; ma la nozione stessa « U.
necessaria » è quella aristotelica. Nè da questa no- zione si distacca il
concetto che ebbe Hegel dell’U.: di cui lamentava che essa potesse intendersi
come « riflessione soggettiva » e riteneva invece che do- vesse intendersi nel
senso di « inseparazione e in- separabilità ». Ma questo è appunto il concetto
aristotelico dell’U. (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, n.
2). L’uso del termine che Hegel fece lungo tutta la sua opera per indicare il
terzo momento della dialettica, quello dell’U. o identità degli opposti, è
perfettamente conforme a questo concetto. Nell’uso filosofico corrente, il
termine non sempre conserva il suo significato proprio di indivisibilità o
inseparabilità cioè di connessione necessaria. Tut- tavia questo significato è
presente quando si parla dell'U. di Dio o del mondo o della natura o della
storia; e perfino quando si parla di U. ideali o normative, come « l’U.
dell’umanità » o «l’U. della famiglia », ecc. 2. In correlazione con il
significato precedente, i filosofi hanno talora chiamato U. gli elementi
costitutivi o i princìpi generali dell’essere. Sap- piamo che i Pitagorici
ritenevano in questo senso che «I°U. è il principio di tutte le cose » (Dioc.
L., VIII, 25; StoBEO, Ec/., I, 2, 58). Nello stesso senso il neoplatonismo
parlava di Monadi o di Enadi UNITARISMO (ProcLo, /nst. Theol., 64) e Leibniz
chiamò Mo- nadi (v.) le sostanze spirituali che egli considerò come elementi
del mondo. Il termine, in questi usi, conserva il significato di sostanza
indivisibile. 3. In senso generico ed improprio lo stesso che uno (v.).
UNITARISMO (ingl. Unitarianism; franc. Uni- tarisme; ted. Unitarismus,
Unitismus). 1. L'indirizzo religioso che insiste sull’unità di Dio, in
opposizione alla formula trinitaria del cristianesimo. Per quanto si riconnetta
a vecchie eresie religiose, 1’U. moderno ha trovato la sua prima forma nel
socinianesimo (v.) e in seguito ha costituito l’indirizzo religioso più tollerante
e liberale del mondo moderno. Questo indirizzo si è quasi esclusivamente
sviluppato in Inghilterra e in America. In Inghilterra fu costi- tuita nel 1825
l'Associazione Unitarista dalla quale deriva il nome che l’indirizzo ha
assunto, anche fuori dell’associazione stessa o in numerose altre associazioni
in Inghilterra e in America. Confronta W. E. CHANNING, Works, 1886; Unitarian Christ- ianity and
Other Essays, ed. I. H. Bartlett, 1957; A. A. BowMAan, The Absurdity of
Christianity and Other Essays, ed. C. W.
Hendel, 1958. 2. Specialmente in tedesco il termine equivale a panteîsmo (v.).
Dice Fichte: « Se si dovesse doman- dare il carattere della dottrina della
scienza ri- spetto all’unitismo (?v xal màv) e al dualismo, la risposta è: essa
è unitismo nel suo aspetto ideale giacchè sa che a fondamento di tutto il
sapere sta l’eterno Uno che è al di là di ogni sapere; ed è dualismo
nell’aspetto reale, in quanto pone il sa- pere come reale» (Wissenschaftslehre,
1801, $ 32, in Werke, II, pag. 89). UNIVERSALE (gr. xa06Xo0u; lat. Universalis; ingl.
Universal; franc. Universel; ted. Allgemein). Il termine ha avuto due significati principali: 1°
uno oggettivo, per il quale esso indica una deter- minazione qualsiasi che può
appartenere o può essere attribuita a più cose; 2° l’altro soggettivo, per il
quale indica la possibilità di un giudizio (sia che concerna il vero e il
falso, sia che con- cerna il bello o il brutto, il bene e il male, ecc.) di
valore per tutti gli esseri ragionevoli. 1° Il primo significato è quello
classico, per il quale Aristotele dice che Socrate è stato lo sco- pritore
dell’universale (Mer., XIII, 4, 1078 b 28). In questo senso, l’U. può essere
considerato nel duplice aspetto ontologico e logico. Ontologica- mente l’U. è
la forma o l’idea o l’essenza che può essere partecipata da più cose e che dà
alle cose stesse la loro natura o i loro caratteri comuni. L’U. ontologico è la
forma o specie di Platone (cfr., ad es., Parm., 132 a) o la forma o la sostanza
di Aristotele: il quale pertanto affermava che la scienza c’è solo dell’U. (De
an., II, 5, 417 b 23). UNIVERSALE Logicamente l’U. è secondo Aristotele « ciò
che può essere per sua natura predicato di più cose? (De Int., 7, 17a 39): una
definizione la quale è stata pressochè universalmente accettata nella storia
della filosofia. Fu all’U. in questo senso che i logici me- dievali riconobbero
il carattere di segno (v.) e la funzione della supposizione (v.). Era questo
l’U. che M. Nizolio interpretava come un tutto collettivo o multitudo rerum
singularium, sicchè la proposizione «l’uomo è animale» avrebbe significato
«tutti gli uomini sono animali » (De veris principiis, I, 6); al che Leibniz
opponeva che esso è invece un tutto distributivo, sicchè quella proposizione
significa che questo o quell’uomo, quale che sia, è animale (Op., ed. Erdmann,
pag. 70). Leibniz riproduceva così sostanzialmente su questo punto la dottrina
nominalistica della EDO dell'U. (OcKHAM, Summa Log., I, 70). È chiaro che I’U.
in questo senso non è che un altro nome per indicare il con- cetto, il segno o
il significato: sicchè i problemi ad esso connessi devono essere considerati
sotto queste voci. Dall'altro lato, lo status ontologico dell’U. dava luogo
alla cosiddetta disputa sugli U. che ha occu- pato buona parte della filosofia
medievale e in qualche modo ha continuato e continua nella filo- sofia moderna
(v. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI). Come si è detto, l’U. nel significato
ontologico è la forma o la sostanza delle cose: un concetto che non è soltanto
aristotelico e medievale. Anche Locke osservava che il fondamento della
universa- lità delle proposizioni può essere soltanto la so- stanza, con la
connessione necessaria, che essa im- plica, tra le sue determinazioni, e che
dove manca la conoscenza della sostanza l’universalità non è rigorosa (Saggio,
IV, 6, 7). Analogamente Kant osservava che l’universalità empirica non è mai
rigorosa o vera e che l’universalità autentica bi- sogna che sia fondata sulle
forme 4 priori della conoscenza: cioè su quelle forme che entrano a costituire
le cose stesse come fenomeni (Crir. R. Pura, Intr., II). Hegel a sua volta
insisteva sul- l’unità dell’U. e del particolare, che è l’U. con- creto o Idea
o Concetto reale. AW’U. astratto, che è contrapposto al particolare e
all’individuo, egli pertanto contrapponeva l’U. concreto che è l’es- senza o la
natura positiva del particolare (Wissen- schaft der Logik, II, libro III, sez.
I, cap. I, A; trad. ital., III, pag. 42 sgg.). E scorgeva il compito della
filosofia per l’appunto nella conoscenza dell’U. concreto: « Compito della
filosofia è di dimostrare, contro l’intelletto, che il vero, l’Idea non
consiste in vuote generalità ma in un U. che in se stesso è il particolare, il
determinato » (Geschichte der Philo- sophie, ed. Glockner, I, pag. 58). Nello stesso
senso, Croce scriveva: « Se il concetto è U. trascendente 87 — ABBAGNANO,
Dizionario di filosofia. 897 rispetto alla singola rappresentazione, presa
nella sua astratta singolarità, è d’altra parte immanente in tutte le
rappresentazioni e perciò anche nella singola » e pertanto identificava il
concetto stesso con la ragione o Idea (Logica, 1920, pag. 28). La «concretezza
dell’U.» di cui parlano gli scrittori idealisti non è che lo sfarus ontologico
che all’U. era stato riconosciuto dalla metafisica tradizionale. AIl’U.
ontologico si ricollegano pure alcuni altri usi del termine universale. Così,
la «storia U.» è la storia che ha per oggetto la forma o l'ordine complessivo
del mondo umano (v. StoRIA). La «gravitazione U. + è una forza o un principio
che regge la totalità del mondo e così via. In usi simili del termine il suo
significato oggettivo è unito con la sua portata ontologica. 2° Nel secondo
significato, U. è ciò che è o dev'essere valido per tutti. Il concetto dell’U.
in questo senso è nato dal dominio dell’analisi dei sentimenti e specialmente
dei sentimenti estetici (v. Gusto). Già Hume si era proposto di cercare una
regola del gusto, cioè una regola « mediante la quale possano venire accordati
i vari sentimenti degli uomini» (Essays, I, pag. 268 sgg.). Ma è stato Kant
colui che, oltre ad adoperare questo tipo di universalità nel dominio
dell'estetica, l’ha esteso al dominio morale e lo ha chiarito nei suoi
caratteri specifici, definendolo come validità co- mune o universalità
soggettiva. Per ciò che ri- guarda la sfera estetica, Kant vedeva nel giudizio
di gusto semplicemente «la necessità oggettiva dell'accordo del sentimento di
ognuno con il nostro stesso sentimento + e in tal senso definiva il bello come
« un piacere necessario » cioè un pia- cere che tutti devono provare allo
stesso modo (Crit. del Giud., $ 22). Nel dominio dell'etica, Kant affermava che
una legge pratica è tale solo se «è valida per la volontà di ogni essere razio-
nale » (Crit. R. Prat., $ 1); e faceva dell’univer- salità soggettiva, cioè
della possibilità di una massima di valere come legge per tutti gli esseri
razionali, il criterio per giudicare se una massima è o non è una legge morale
(Grundlegung der Mera- physik der Sitten, II). Ma egli si soffermava anche ad
illustrare la differenza fra questa universalità sog- gettiva e l’universalità
oggettiva. Diceva: «Ogni giudizio oggettivamente U. è anche sempre sog-
gettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto ciò che è compreso
in un dato concetto, vale anche per ognuno che si rappresenti un og- getto
secondo quel concetto». Tuttavia, non è sempre vero l’inverso, cioè non ogni
giudizio che ha universalità soggettiva o validità comune è anche
oggettivamente U.; e questo è il caso del- l’universalità estetica che possiede
l’universalità soggettiva ma non quella oggettiva (Crir. de/ Giud., 898 $ 8).
Da Kant in poi l’universalità soggettiva è di- ventata un luogo comune della
filosofia; come è di- ventato un luogo comune la nozione di validità (v.).
Forse più esattamente questa specie di U. viene oggi indicato con il termine di
intersoggettivo (v.). Il riferimento all’intersoggettività costituisce il si-
gnificato del termine in molte espressioni correnti come « lingua U.» o
«educazione U.» o « consenso U.», «amore U.», ecc. In altre espressioni, il
termine può avere sia il significato soggettivo sia il signifi- cato oggettivo
logico: per es., «genio U.» che si può intendere come il genio che tutti
debbono riconoscere o riconoscono come tale; o come il genio che è tale nei confronti
di qualsiasi ramo dello scibile. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI (inglese Controversy
about Universals; franc. Querelle des universaux; ted. Universalienstreit).
S’intende con questo termine la disputa sullo status ontologico degli U.
(generi e specie) che s’iniziò nella Scola- stica del sec. xI, rimanendo
caratteristica di tutta la filosofia medievale, e continuando poi, con forme
appena mutate, nella filosofia moderna. La disputa fu impostata secondo un
passo della /sa- goge (Introduzione) di Porfirio alle Categorie di Aristotele e
i relativi commenti di Boezio. Il passo di Porfirio è il seguente: « Intorno ai
generi e alle specie non dirò qui se essi sussistano oppure siano posti
soltanto nell’intelletto, nè, nel caso che sus- sistano, se siano corporei o
incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed
esprimenti i loro caratteri comuni » (Zsag., 1). Delle alternative indicate da
Porfirio in questo passo, una sola non trova riscontro nella storia della di-
sputa: quella secondo la quale gli U. sarebbero realtà corporee. In compenso,
un'alternativa che Porfirio non aveva previsto si è verificata storica- mente,
almeno a quanto dicono: cioè che l’U. non esiste neppure nell’intelletto e sia
soltanto un nome, un flatus vocis. È questa la soluzione at- tribuita a
Roscellino da S. Anselmo (De fide Trini- tatis, 2) e da Giovanni di Salisbury
(Metal., II, 13; Policrat., VII, 12). Le soluzioni che nella Scolastica e dopo
la Scolastica sono state date di questi problemi sono molte numerose; e spesso
si di- stinguono l’una dall’altra solo per un capello. Realismo (v.) e
nominalismo (v.) sono le soluzioni fondamentali; ma già Ockham enumerava nella
con- futazione sistematica che volle dare del realismo, sei forme fondamentali
di esso (/n Sent., I, d. 2, q. 4-8; Quodl., V, q. 10-14; Summa Log., I, 15-17;
cfr. ABBAGNANO, G. di Ockham, II, $ 8-11). Ma la cosa fondamentale per
intendere sia l’origine storica della disputa sia la portata per- manente che
essa può avere, è che le sue due soluzioni fondamentali, realismo e
nominalismo, UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI corrispondono ai due indirizzi
fondamentali della logica antica e medievale, quello platonico-ari- stotelico e
quello stoico. Questi due indirizzi cor- rispondono a quelle che nello stesso Medio
Evo furono chiamate la logica antica e la logica moderna e più tardi formalismo
e terminismo (v. TERMINI- smo). Il primo di questi indirizzi insisteva sulle
dottrine logiche tradizionali, il secondo sulla dot- trina della supposizione
(v.) e sui ragionamenti antinomici. La trattazioni logiche medievali giu-
stappongono i due tronchi dottrinari; ma l’incon- ciliabilità e l’antagonismo
di questi si manifesta appunto sulla disputa degli U. che pertanto de- nunzia
la presenza attiva, nella Scolastica, di una tradizione logica
anti-aristotelica, che è appunto quella stoica, attinta attraverso le opere di
Boezio e di Cicerone. Realismo e nominalismo costituiscono pertanto le due
soluzioni tipiche e storicamente originarie del problema. Per il realismo cioè
per la tradizione logica platonico-aristotelica, l’U. è, oltre che con- ceptus
mentis, l’essenza necessaria o la sostanza delle cose. Per il nominalismo, cioè
per la tradi- zione stoicizzante, l’U. è un segno delle cose stesse. Il
realismo e il nominalismo medievale costi- tuiscono pertanto le due alternative
che la dot- trina del concetto ha sempre incontrato nella sua storia (v.
CONCETTO). Più specificamente, per quel che riguarda il realismo, si possono
distinguere tre forme fonda- mentali di esso che potremo chiamare rispetti-
vamente quella platonizzante, quella aristotelica e quella semi-aristotelica.
La forma platonizzante del realismo è attribuita da Abelardo al suo maestro
Guglielmo di Champeaux (sec. x1): l’U. sarebbe la sostanza e gli individui costituirebbero
acci- denti di questa sostanza (ABELARDO, (Euvres, ed. Cousin, pag. 513). La
soluzione aristotelica è quella che si trova più comunemente difesa nella
Scolastica ed è espressa da S. Tommaso dicendo che 1’U. è in re come forma o
sostanza delle cose, post rem come concetto nell’intelletto e anse rem nella
mente divina come Idea o modello delle cose create (/m Senr., II, d. 3, q. 2,
a. 2). Questi tre U. non fanno che uno cioè si identificano con l’essenza,
sostanza o forma della cosa, che esiste ab aeterno nell’intelletto divino e che
l'intelletto umano astrae dalla cosa stessa (S. 7h.). Infine, soluzione
semi-aristotelica può chia- marsi quella di Duns Scoto, secondo il quale il
vero e proprio U. esiste solo nell’intelletto, ma esiste nelle cose una natura
comune distinta non numericamente ma solo formalmente dall’indivi- dualità
delle cose (Op. Ox., II, d. 3, q. 6, n. 15). Il carattere proprio di questa
soluzione sta nel principio della distinzione formale (v. DISTINZIONE) UNIVOCO
ED EQUIVOCO che è una delle caratteristiche della filosofia di Duns Scoto.
Dall’altro lato il nominalismo presenta una mag- giore uniformità. Se si
prescinde dall’accennata tesi di Roscellino (della quale per altro non esistono
documenti convincenti) il nominalismo, da Abe- lardo a Ockham, ha sostenuto
sempre le stesse tesi fondamentali, la riduzione dell’U. alla fun- zione logica
della predicabilità, dividendosi solo sulla realtà psichica attribuita o meno
all'U. stesso. Ockham si dimostra indifferente nei confronti di quest’ultimo
problema: nega, ovviamente, che l'U. sia una species (v.), ma ritiene
indifferente che lo si identifichi con l'atto dell'intelletto o che addi-
rittura si neghi che abbia una realtà qualsiasi nel- l'anima (/n Sent., I, d.
2, q. 8, E). Il suo carattere fondamentale è la sua funzione di segno, cioè la
supposizione (v.). Questi rimasero i capisaldi della logica terministica dopo
di Ockham; e una nozione analoga dell’U. è quella che compare nella dottrina
del concetto che veniva difesa nell'empirismo in- glese a partire dal sec. xvIr
e cioè da Locke, Ber- keley e Hume (v. CONCETTO, 2). UNIVERSALISMO (ingl.
Universalism; fran- cese Universalisme; ted. Universalismus). x. In senso
teologico la dottrina che Dio vuol salvare tutti gli uomini e che pertanto non
esiste una qualsiasi pre- destinazione alla dannazione. È la dottrina soste-
nuta fra gli altri da Leibniz che parla in questo senso del contrasto tra «
universalisti » e « partico- laristi » (7héod., I, $ 80). 2. In senso etico,
ogni dottrina anti-individuali- stica cioè ogni dottrina che afferma la
subordina- zione dell’individuo a una comunità qualsiasi (stato, popolo,
nazione, umanità, ecc.). UNIVERSALIZZAZIONE. V. GENERALIZ- ZAZIONE. UNIVERSO
(gr. tè rav; lat. Universum; in- glese Universe; franc. Univers; ted.
Universum). 1. Un qualsiasi tutto: per es., « U. del discorso » o «U. delle
stelle fisse» o «U. visibile ». 2. Il tutto della natura fisica, a prescindere
dal suo ordine. Questo è il significato che al termine dettero Aristotele
(Mer., V, 26, 1024a 1) e gli Stoici (StoBEO, Ecl., I, 21, pag. 442 sgg.). 3. Lo
stesso che mondo. Questo uso prevale presso i moderni (v. MonDo; TOTALITÀ;
TUTTO). UNIVERSO DEL
DISCORSO (ingl. Uni verse of Discourse; franc. Univers du discours). L'espressione fu introdotta da De Morgan (Forma!
Logic, 1847, pag. 37) e diffusa da Boole (Laws of Thought, 1854, III, $ 4) per
indicare in generale « l’estensione del campo dentro il quale si trovano tutti
gli oggetti del nostro discorso ». Più precisamente, in seguito, si designò con
questo termine, nell’algebra della logica, una classe 899 non vuota dalla
quale, e solo dalla quale, siano tratti tutti gli elementi con i quali siano
costituite tutte le classi su cui si opera il calcolo. Va da sè che in tal modo
l’U. del discorso è la somma lo- gica di tutte le classi che si possono formare
con tali elementi. Viene indicato con il simbolo « V» oppure «1».
Nell’interpretazione proposizionale esso sarà costituito dalla disgiunzione
(somma logica) di tutte le proposizioni sulle quali opera il calcolo, oppure
dalla congiunzione (prodotto lo- gico) di tutte le proposizioni vere. Nella
Logica delle relazioni, l’U. del discorso è, ancora, formato da tutti gli
elementi che possono entrare nelle relazioni considerate: in tal caso deve contenere
almeno due elementi se si pren- dono in considerazione solo relazioni diadiche,
almeno tre se si prendono in considerazione anche relazioni triadiche... almeno
n se si prendono in considerazione relazioni n-adiche. La relazione-U. è la
relazione «a v 5» che vige tra tutte le coppie possibili di elementi
dell’universo. Nella Logica odierna questo concetto ha per- duto di importanza:
qualora venga usato, lo è nel senso sopra definito. In pratica però si usa
spesso l’espressione « U. del discorso » per desi- gnare l’insieme di elementi
(termini e proposi- zioni) che costituiscono il campo di una data di- sciplina.
G. P. UNIVOCO ED EQUIVOCO (gr. suvevupoc, sudvupog; lat. Univocus, Aequivocus;
ingl. Univocal, Equivocal; franc. Univoque, Équivoque; ted. Ein- deutig,
Aequivok). Questi due termini hanno avuto definizioni diverse a seconda che
sono stati riferiti all'oggetto o al concetto (o nome). 1. Aristotele li riferì
all'oggetto e intese per uni- voci (o sinonimi) gli oggetti che hanno in comune
sia il nome sia la definizione del nome: così, ad es., sia l’uomo che il bue si
dicono animali. Chiamò invece equivoci (od omonimi) gli oggetti che hanno in
co- mune il nome mentre le definizioni richiamate dal nome sono diverse: in
questo senso si chiama animale sia l’uomo sia un disegno (Car., I, 1a 1-11).
Queste definizioni ricorrono frequentemente nella scola- stica (per es., Pietro
Ispano, Summ. Log., 3.01) e si mantengono anche in logici più recenti (ad es.,
Jungius, Logica Hamburgensis, 1, 2, 4-9). 2. La logica terministica ritenne
«improprio» il riferimento dei due termini agli oggetti e ritenne che essi si
dovessero riferire propriamente soltanto ai segni e cioè ai concetti o nomi. Da
questo punto di vista, le definizioni di Ockham sono le seguenti. «U. è o la
voce o il segno convenzionale che corri- sponde a un solo concetto o, più
strettamente, è ciò che si può predicare di per sè di più cose o è il pronome
dimostrativo di una cosa. Eguivoco dall’altro lato è il nome che, significando
più cose, 900 non è subordinato a un unico concetto ma è unico segno di più
concetti o intenzioni dell’anima. L’U. può derivare o dal caso, come accade
quando il nome Socrate viene imposto a più uomini, o da una deliberazione
quando si impone un certo nome a certe cose e lo si subordina a un solo
concetto e poi per la similitudine di questo concetto con altri si estende ad
altri il nome stesso» (Summa Log., I, 13). Le definizioni terministiche dei due
termini sono quelle che si danno anche oggi dei termini stessi. Le discussioni
medievali sulla natura dell’univocità avevano nel Medio Evo un’immediata
risonanza teologica, per la disputa tra i sostenitori dell’uni- vocità e quelli
dell’analogicità dell’essere (v. ANA- LOGIA). UNO (gr. ele; lat. Unus; ingl.
One; franc. Un; ted. Ein). 1. L'elemento di un insieme o di una classe
qualsiasi: come quando si dice «l’uomo è un ani- male ». A questo proposito, si
dice che una relazione è molti ad U. se per ogni x del suo campo vi è un solo y
che abbia la relazione stessa ad x. Si dice che essa è U. a molti se per ogni y
dominante inverso del suo campo vi è un unico x che abbia la relazione stessa
ad y. Si dice infine che la relazione è U. a U. se essa e il suo inverso sono
uno a molti e molti a uno. In questo caso si parla anche di una corri- spondenza
di U. a U. (A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 556, 564). 2. Ciò
che è unico, come quando si dice « Dio è U.» (v. UNICO). 3. L’unità nel senso
proprio del termine (vedi UNITÀ). 4. Il numero U. cioè il primo termine nella
serie naturale dei numeri o in generale il primo termine di una serie
qualsiasi. 5. L’U. ipostatico o teologico cioè Dio o il Bene come primo termine
del processo dell’ema- nazione e ultimo termine del processo del ritorno. In
questo senso già Eraclito diceva «da tutte le cose l’U. e dall’U. tutte le
cose» (Fr., 10 Diels; cfr. EMPEDOCLE, Fr., 17, 1). Ma furono soprattutto i
Neoplatonici a adoperare il termine per designare la divinità o il bene in
quanto è trascendente rispetto all’essere e all’intelligenza e quindi al di là
d’ogni molteplicità. « Bisogna, diceva Plotino, che prima di tutte le cose ci
sia qualcosa di semplice e di di- verso da tutte quelle che vengono dopo di
essa; essa è in se stessa, non si mescola con quelle che la seguono ma può
essere in qualche modo presente alle altre: ed è veramente 1°U. non qualcosa
che sia una, ma semplicemente l’U.» (Enn., V, 4, 1). L’unità del primo
principio deve intendersi così rigorosa- mente che il nome stesso di « U. »
appare a Plotino improprio. « Questo nome U. non contiene forse altro che
l’esclusione del molteplice. I Pitagorici UNO lo designavano simbolicamente
come Apollo per indicare tra loro la negazione dei molti... Si può adoperare
questa parola per cominciare la ricerca con una parola che designi la massima
semplicità; ma infine bisogna negare questo stesso attributo che non merita più
degli altri di designare quella natura che non può essere attinta dall’udito nè
compresa da colui che la nomina ma soltanto da colui che la contempla» (2bid.,
V, 5, 6). Queste speculazioni sull'U. sono state frequentemente riprese dalla
teologia negativa e dal panteismo. Esse sono di solito accompagnate, in Plotino
e negli altri, dall’esaltazione della funzione dell’unità in tutto il dominio
del conoscere e dell’essere (v. UNITÀ). Così accadde nelle speculazioni plato-
niche del Rinascimento. Così accadde anche nel Romanticismo, dal quale
l’U.-Tutto, fu assunto come il principio del mondo coincidente con il mondo
stesso: come appare in modo più esplicito nella filosofia della natura di
Schelling (Werke, I, III, pag. 276). Hegel a sua volta, che vedeva la
concretezza nell’unità (v.), scorgeva nell’U. l’astra- zione o l’immediatezza e
insisteva sulla relazione dell’U. stesso con i molti che illustrava fantasti-
camente con le nozioni, arbitrariamente manipolate, dell’attrazione e della
repulsione (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. III, B; trad. ital.,
pag. 181 seguenti). Il concetto di U. in questo senso viene spesso utilizzato
sia dalle dottrine teistiche sia dalle dottrine panteistiche. Tra coloro che ne
hanno fatto un uso più esteso e rigoroso, si deve ricordare Piero Martinetti
(La libertà, 1928, pag. 490; Ragione e fede, 1942, pag. 402), per quanto nella
speculazione di Martinetti si senta l’effetto della separazione radicale tra
Dio come U. assoluto e realtà empi- rica e molteplice, su cui aveva insistito
Africano Spir (Denken und Wirklichkeit, 1873). UOMO (gr. &vpwros; lat.
Homo; ingl. Man; franc. Homme; ted. Mensch). Le definizioni dell’U. possono
essere raggruppate sotto i titoli seguenti: 1° definizioni che si avvalgono del
raffronto tra ’U. e Dio; 2° definizioni che esprimono una carat- teristica o
una capacità propria dell’U.; 3° defini- zioni che esprimono, come propria
dell’U., la sua capacità di autoprogettarsi. 1° Le definizioni del primo gruppo
sono di natura religiosa o teologica, ma possono anche trovarsi in dottrine che
di religioso e teologico non hanno nulla. Ogni definizione del genere si rifà
al detto della Genesi «E Dio disse: facciamo l’U. a immagine e somiglianza
nostra» (Gen., I, 26). Questo detto ha servito spesso di punto di partenza per
le speculazioni sull’anima e special» mente sulle partizioni dell’anima (v.
ANIMA): in realtà esso è un’esplicita definizione dell’U. e come tale fu
assunto dai teologi della Riforma. D'altronde UOMO 901 già Aristotele, parlando
della vita contemplativa, aveva parlato di un «elemento divino» dell’U. che di
quanto eccelle, nel composto che costituisce I°U., di tanto rende l’U. virtuoso
e beato (Et. Nic.). Ma questo tipo di definizione dell’U. si è, nella
tradizione filosofica, costantemente ispirato alla Bibbia. Sull’U. come
immagine di Dio insistettero Calvino (/nstitutio, I, 15, 8) e Zuiglio (Deutsche
Schriften, I, 56); e lo stesso concetto attraverso le ricche amplificazioni di
Jacob Boehme (cfr., per es., Aurora oder die Morgenròthe im Aufgange, VI, 1)
passò nella filosofia romantica tedesca. Spinoza diceva che «l’essenza dell’U.
è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio » (Er., II, 10,
Corol.). Nelle lezioni sulla De- stinazione del dotto nel 1794 Fichte additava
come compito dell’U. quello di adeguarsi all’unità e all’immutabilità dell'Io
assoluto, secondo la mas- sima «agisci in modo da poter considerare la mas-
sima della tua volontà come legge eterna per te» (Uber die Bestimmung des
Gelehrten, 1794, 1); ma l’Io assoluto è il principio o la sostanza del- l’U., e
la sua unità e immutabilità non è che l’unità e l’immutabilità di Dio: sicchè
il miglior modo di esprimere la dottrina di Fichte in proposito è che l’U., nel
suo principio ideale, è Dio e deve sforzarsi di diventar tale. Analogamente,
per Hegel l’U. è essenzialmente Spirito e lo Spirito è Dio. «L’U., dice Hegel,
per quanto considerato per se stesso finito, è anche immagine di Dio e sorgente
dell’infinità in se stesso: giacchè è scopo a se stesso, ed ha in se stesso il
valore infinito e la destinazione all’eternità » (Philosophie der Geschichte,
editore Glockner, pag. 427). Il cristianesimo è definito da Hegel appunto come
la posizione della « unità dell’U. e di Dio +» (/bid., pag. 416). In queste de-
finizioni dell’U. il rapporto dell’U. con Dio è assunto in modo positivo. Ma lo
stesso rapporto può essere assunto in modo negativo o invertito, rimanendo
sostanzialmente lo stesso. Feuerbach, ad es., ritiene che I’U. si riveli e si
definisca a se stesso nel suo concetto di Dio. « L’essere assoluto, il Dio
dell’U., è l’essere stesso dell’U. », egli dice (Wesen des Christentum, $ 1).
Ciò che l’U. pensa di Dio, è la definizione dell’U.: 4 Pensi tu l’infinito?
Ebbene tu pensi e affermi l’infinità della potenza del pensiero. Senti tu l’in-
finito? Tu senti e affermi l’infinità della potenza del sentimento » (/bid.).
Le tesi dell’esistenza o del- l'inesistenza di Dio non influisce su queste
defi- nizioni dell’U., che rimangono ancorate al raffronto tra l’U. e Dio. Così
Nietzsche, dopo aver fatto proclamare da Zaratustra che «Dio è morto», gli fa
annunziare il Super U., come ciò che è al di là dell’U. stesso. «La grandezza
dell’U. sta in questo, che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che può farlo
amare è il fatto che egli è un pas- saggio e un tramonto» (Also sprach
Zarathustra, Prol., $ 4). In un senso analogo a quello di Feuer- bach e
Nietzsche, ma con in più il concetto dello scacco cui l’U. è destinato, Sartre
ha detto: « Se l’U. possiede una comprensione preontologica dell'essere di Dio,
non sono nè i grandi spettacoli della natura, nè la potenza della società che
gliela hanno conferita: ma Dio, valore e scopo supremo della trascendenza,
rappresenta il limite permanente a partire dal quale I’U. si fa annunciare ciò
che egli è. Essere U., è tendere a Dio; o, se si preferisce, l’U. è
fondamentalmente desiderio d’essere Dio » (L’étre et le néant, pag. 653-54). 2°
Le definizioni che esprimono una caratte- ristica o una capacità ritenuta
propria dell’U. sono numerose e di esse la prima e più famosa è quella secondo
la quale I’U. è « animale ragione- vole ». Questa definizione esprime bene il
punto di vista dell’Illuminismo greco e lo spirito della filosofia platonica e
aristotelica. Ma essa non si trova esplicitamente in Platone, il quale avrebbe
detto soltanto che l’U. è animale «capace di scienza » (Def., 415a): una
determinazione che Aristotele ripete considerandola come il proprio dell’U.
(7op., V, 4, 133a 20). Ma nella politica Aristotele afferma che «l’U. è l’unico
animale che abbia la ragione » e che la ragione serve a in- dicargli l’utile e
il dannoso, perciò anche il giusto e l’ingiusto (Po/., I, 2, 1253a 9; cfr. VII,
13, 1332 b, 5). Accettata dagli Stoici, (SEsTo EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 26;
StoBgo, Ecl., II, 132) questa de- finizione è rimasta classica e ad essa si
rifanno abitualmente gli scrittori medievali (cfr., ad es., S. TomMaso, S. 7h.,
II, 1, q.71, a. 2; II, 2, q.34, a. 5). È questa la sola definizione entrata
nella comune cultura; ed anche i filosofi si rifanno ad essa per variarla
opportunamente in conformità del senso specifico che essi dànno alla parola ra-
gione. Ad es., la definizione di Rosmini «I’U. è un soggetto animale dotato
dell’intuizione dell’es- sere ideale indeterminato» (Antropologia, $ 23)
esprime la stessa cosa della definizione tradizionale perchè, secondo Rosmini,
la « percezione dell’essere ideale indeterminato » è la ragione (Nuovo Saggio,
$ 396). La definizione di De Bonald, che fu per un certo tempo famosa, « l’U. è
un’intelligenza servita da organi » (Cuvres, 1864, I, pag. 41; III, pag. 149)
non è altro anch’essa che una parafrasi della de- finizione tradizionale in
quanto in essa il « servizio degli organi» è l’equivalente della « animalità ».
E l’ancora più famosa definizione di Pascal « L’U. non è che un giunco, il più
debole della natura, ma è un giunco pensante» (Pensées, 347) può anch’essa
essere considerata come una variante della definizione tradizionale: una variante
nella 902 quale la connotazione della fragilità naturale dell’U. ha preso il
posto della «animalità». Dall’altro lato Cartesio aveva fatto a meno della
animalità e aveva ridotto l’U. al pensiero, come coscienza immediata: «Io non
sono, precisamente parlando, che una cosa che pensa cioè uno spirito, un
intelletto o una ragione » (Med., II). Ma l’ani- malità, nella definizione
tradizionale, serviva da un lato a spiegare l’ovvia limitazione dell’attività
pen- sante dell’U., dall’altro a riconoscere nell’U. un essere terrestre o
mondano, che ha bisogno di organi. Nel senso cartesiano Husserl ha detto: «Se
l’U. è un essere razionale (animal rationale) lo è solo nella misura in cui
tutta la sua umanità è un'umanità razionale, nella misura in cui è la- tentemente
orientato verso la ragione oppure aper- tamente orientato verso l’entelechia
che si è rivelata a se stessa e guida ormai coscientemente, per una necessità
essenziale, il divenire umano » (Die Xrisis der europdischen Wissenschaften und
die transzen- dentale Phanomenologie, 1954, $ 6). L’ultima e più aggiornata
versione della vecchia definizione è quella dell’U. come animale simbolico cioè
come animale che parla (CASSIRER, Essay on Man, cap. II; trad. ital., pag. 49).
Questa caratteristica era in verità presente allo stesso termine greco che si-
gnifica ragione: logos infatti è il discorso razionale o la ragione che si fa
discorso. Nella filosofia con- temporanea, la definizione serve ad esprimere il
potere condizionante del linguaggio cioè del com- portamento segnico, in tutte
le attività dell'uomo. Questo potere difficilmente potrebbe essere esage- rato;
e la definizione in esame è a giusto titolo tra le più diffuse e accettate
nella filosofia contem- poranea. Essa tuttavia non può essere intesa a prescindere
da quella caratteristica della autopro- gettabilità che il terzo gruppo di
definizioni rico- nosce all’uomo. Una seconda e più specifica determinazione,
che è stata spesso assunta come definizione dell’U., è la natura politica cioè
socievole dell’U. stesso. Già menzionata da Platone (Def., 415a) questa
determinazione è strettamente legata, da Aristotele, con la natura razionale
dell’uomo. « Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha
bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città ma è o una
belva o un Dio» (Pol. I, 2, 1253 a 27). Ovviamente, per Aristotele, razio-
nalità e politicità dell’U. sono strettamente con- nesse; e tali rimangono per
tutti coloro che in se- guito faranno capo a questa definizione. Hobbes che combatteva
questa definizione la intendeva come se essa significasse: « L’U. è adatto sin
dalla nascita a vivere socialmente » e affermava che in questo senso essa è
falsa, perchè l’U. diventa adatto ad associarsi solo per educazione (De Cive,
I, 2, UOMO e nota). Ma il significato più ovvio della definizione in esame è
che l’U. non può fare a meno di vivere in società e in questo senso neppure
Hobbes dubita della fondamentale esattezza di essa. Questa defi- nizione,
tuttavia, non è stata proposta per deter- minare la natura dell’U. nella sua
totalità. Con la pretesa di esprimere la totalità dell’U., si presenta invece
la definizione di Bergson: « Se potessimo spogliarci del nostro orgoglio, se
per definire la nostra specie ci attenessimo strettamente a quelle che la
storia e la preistoria ci presentano come la caratteristica costante dell’U. e
dell’intel- ligenza, non diremmo forse Momo sapiens ma Homo faber. In
definitiva, l'intelligenza, considerata in ciò che sembra il suo compito
originale, è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in partico- lare
utensili per fare utensili, e di variarne indefi- nitamente la fabbricazione »
(Évol. Créatr., 83 ediz., 1911, pag. 151). In realtà però lo stesso Bergson am-
mette, attorno all'intelligenza, un « alone d’istinto » e ritiene possibile il
ritorno dell’intelligenza al- l’istinto mediante l’intuizione: il che dovrebbe
voler dire che l’U. non è soltanto homo faber. 3° Il terzo gruppo di
definizioni comprende quelle che interpretano l’uomo come possibilità di auto-progettazione.
Quasi tutte le definizioni del secondo gruppo, pur facendo leva su un’unica
determinazione dell’U., ritenuta come propria o fondamentale, la considerano,
esplicitamente o im- plicitamente, come una possibilità, cioè una capacità o
disposizione. Leibniz, difendendo la definizione dell’U. come animale
ragionevole, osservava che il fatto che gli idioti mancano di ragione non è
un'obiezione contro di essa: basta che essi, sia pure con la sola loro figura
fisica, ne mostrino un indice (Nouv. Ess., III, 6, 22). Ma in realtà già in
Aristotele è abbastanza chiaro che la ragione è una possibilità o capacità di
giudizio, non una determinazione necessitante; e che solo a questo titolo
costituisce la definizione dell’uomo. Forse, il carattere indeterminato dell’U.
veniva adombrato nel detto di Democrito: «I'U. è quello che tutti sappiamo »
(Fr., 165, Diels). Ma esso è chiaramente espresso nelle speculazioni dei
neoplatonici del- l’antichità e del Rinascimento sulla « natura media » o
«centrale» dell’uomo. Già Plotino affermava a questo proposito: «Il posto
dell’U. è nel mezzo tra gli Dei e le bestie ed egli inclina talvolta verso gli
uni talvolta verso le altre; certi uomini sono simili agli dèi, altri alle
bestie e i più tengono il mezzo » (Enn., III, 2, 8). Questo pensiero veniva
illustrato nel sec. ix da Scoto Eriugena: « Non immeritamente, egli diceva,
l’U. è stato chiamato l’officina di tutte le creature: difatti tutte le
creature si cont.ngono in lui. Egli intende come l’angelo, ragiona come l’U.,
sente come l’animale irragio- UOVO nevole, vive come il germe, consiste di
anima e corpo e non è privo di nessuna cosa creata » (De divis. nat., III, 37).
Questi pensieri venivano ripetuti nel Rinascimento da Nicolò Cusano (De visione
dei, 6; Excitationes, Vi De ludo globi, II) e da Marsilio Ficino (Theol. Plat.,
III, 2) che entrambi li trasferiscono all'anima dell’U.j Ficino chiama l'anima
copula del mondo. Ma soprattutto si trovano espressi in modo classico
nell’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola: « Non ti ho dato, o
Adamo, fa dire Pico a Dio, nè un posto determi- nato, nè un aspetto proprio, nè
alcuna prerogativa tua, perchè quel posto, quell’aspetto, quelle prero- gative
che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e
conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me
prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo
arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perchè di
là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto nè celeste nè
terreno, nè mortale nè immortale, perchè, di te stesso quasi libero e sovrano
artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu
potrai degenerare nelle cose inferiori; tu potrai, secondo il tuo volere,
rigenerarti nelle cose superiori che sono divine » (De hom. dign., f.131r).
Certamente, l’illimitata capacità di autoprogettazione dell’U. non è stata mai
più esaltata con tanta eloquenza e con tanto fiducioso ottimismo come in questa
pagina di Pico. Tuttavia, il concetto illuministico dell’U. come ragione
progettante, limitata e impedita, bensì, ma efficace può ritenersi una
filiazione del concetto rinascimentale dell'uomo. Diceva Kant: «La ra- gione in
una creatura è il potere di estendere, oltre gli istinti naturali, le regole e
i fini dell’uso di tutte le sue attività; essa non conosce limiti ai suoi
disegni. Però la ragione non agisce istintivamente, ma procede per tentativi,
con l'esercizio e impa- rando, per elevarsi a poco a poco e passare da un grado
di conoscenza ad un altro» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in
weltbilrgerlicher Absicht, 1784, tesi II. Kant ritiene pertanto che soltanto
attraverso la storia della specie umana sulla terra l'uomo realizzi la sua natura:
che è la libertà di autoprogettarsi con la sua ragione e specialmente di
progettare per sè una società civile fondata total- mente sul diritto. Queste
idee esprimevano bene il punto di vista dell'illuminismo, al quale Kant stesso
le riferiva. Ancora più chiaramente, Kant descriveva così il carattere della
specie umana: « Per potere attribuire all'U. il suo posto nel sistema della
natura vivente e così caratterizzarlo, non rimane altro che dire che egli ha
quel carattere che egli stesso si fa in quanto sa perfezionarsi secondo i fini
da se stesso derivati: onde, come animale fornito della capacità di ragionare
(animal rationabile), può farsi da sè ani- male ragionevole (animal rationale)
» (Antr., II, e). L’esistenzialismo e lo strumentalismo americano hanno, nella
filosofia contemporanea, ereditato questo concetto dell’uomo. Da un lato, essi
sotto- lineano che I’U. è ciò che egli stesso può o vuole farsi; che perciò
egli è costantemente problema a se stesso e soluzione di questo problema; che
con- tinuamente egli progetta il suo modo d'essere o di vivere e che questo
progetto entra a costituire in qualche grado e misura il suo modo d’essere o di
vivere effettivo. Dall'altro lato, entrambe le correnti riconoscono le
limitazioni di questa pro- gettabilità: limitazioni che agiscono specialmente
nel fatto che ogni progetto trova già, in qualche misura, come dari (cioè come
relativamente immo- dificabili) gli elementi di cui si avvale; che tutto ciò
che esso può progettare nel futuro è già stato in qualche modo o forma nel
passato; e che per- tanto il passato condiziona entro certi limiti (ri-
conosciuti più o meno estesi) il futuro dell’uomo. Questo è il senso in cui
Heidegger ha detto che il progetto è il modo d’essere fondamentale dell’U.
(Sein und Zeit, $ 31); e in cui Sartre ha parlato di un progetto fondamentale
del mondo (L’érre er le néant, pag. 540). Nello stesso senso, John Dewey ha
parlato della mutabilità della natura umana e dei suoi stessi cosiddetti
istinti o impulsi fonda- mentali (Human Nature and Conduct, pag. 95 sgg.; 106
sgg.). Heidegger ha insistito pure sulla limi- tazione della progettabilità in
quanto ogni pro- getto ricadrebbe e si appiattirebbe su ciò che è già stato e
in ciò consisterebbe l’effertività (o fat- tualità) dell’U. (v. PROGETTO).
Sartre ha insistito sulla libertà assoluta della progettabilità e ha con-
siderato puramente arbitraria o gratuita la scelta di un progetto qualsiasi
(L’érre er le néant, pag. 721). Dall’altro lato, Dewey ha ripreso il concetto
illu- ministico della razionalità (che è nello stesso tempo condizionamento e
libertà) dei progetti umani; e sugli stessi caratteri dell’auto-progettazione
ha in- sistito l’esistenzialismo positivo (cfr. ABBAGNANO, Possibilità e
libertà, 1956, I, 7; II, 3; ecc.). D'al- tronde questa concezione sembra oggi
condivisa dagli stessi biologi. Dice, per es., G. G. Simpson: «L’U. può
scegliere di sviluppare le sue capacità come più alto animale e tentare di
sollevarsi an- cora di più; o può scegliere altrimenti. La scelta è sua responsabilità,
e sua soltanto. Non c’è un automatismo che lo porterà in alto senza scelta o
sforzo e non c'è una tendenza unilaterale nella giusta direzione. L'evoluzione
non ha alcuno scopo; D’U. deve dare lo scopo a se stesso + (The Meaning of
Evolution, 6 ediz., 1952, pag. 310). UOVO (gr. ®6y; ingl. Egg; franc. (Euf;
ted. Ei). Il primo principio del mondo, secondo la teogonia orfica (Orphicorum
fragmenta, 53, 54 Ke). La con- siderazione del mondo come un gigantesco ani-
male è alla base di questo mito, che ha parecchi precedenti orientali. Su di
questi e sul mito stesso cfr. A. OLIVIERI, Civiltà greca nell’Italia
meridionale, 1931, pag. 3-32. URDOXA o URGLAUBE. Husserl ha chia- mato con
questo termine (che significa credenza originaria) la certezza propria della
credenza cioè il riferimento certo della credenza a un oggetto esistente
(/deen, I, $ 104) (v. CREDENZA). URPHAENOMENON. Termine adoperato da Goethe,
che così ne illustrava il concetto: « Nell’esperienza per lo più cogliamo
soltanto casi che, con una certa attenzione, possono essere con- dotti sotto
rubriche empiriche generali. Queste a loro volta si subordinano a rubriche
scientifiche che rimandano oltre, sicchè veniamo a conoscere meglio alcune
condizioni indispensabili di ciò che appare. Di qui in poi tutto si sistema
gradualmente sotto regole e leggi superiori, che si manifestano, non
all’intelletto mediante parole e ipotesi, ma all’intuizione attraverso
fenomeni. Sono questi i fenomeni che chiamiamo originari; perchè niente
nell’apparenza è al di sopra di loro ed essi ci per- mettono, come prima siamo
saliti, di discendere gradualmente sino al caso più comune dell’espe- rienza
quotidiana » (Farbenlehre, 1808, $ 175). USIOLOGIA (ingl. Usiology; franc.
Usiologie; ted. Usiologie). Dottrina delle essenze. Termine raro. USO (ingl.
Use; franc. Usage; ted. Gebrauch). L’atto o il modo di adoperare mezzi,
strumenti o utensili. Il termine è usato in filosofia soprattutto a proposito
di strumenti o mezzi intellettuali, o della ragione stessa. Kant parlò di un U.
/ogico della ragione che è quello mediante il quale si effettuano inferenze
mediate cioè sillogistiche; e di un U. puro che è quello mediante la quale la
ra- gione si fa essa stessa « una speciale fonte di con- cetti e di giudizi».
Quest'ultimo è I’U. dialettico della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dialettica,
Intr., II, B-C). Kant distinse pure l’U. teoretico e l’U. pratico della ragione
stessa (Crit. R. Pura, Pref. alla 2* ediz.). Ed infine distinse l’U. empirico
dei concetti, che significa il loro riferimento a og- getti dell'esperienza
possibile, dall’U. trascendentale che invece significa il loro riferimento a
oggetti che sono al di là di tale esperienza (v. TRASCENDEN- TALE). Della
nozione di U. si è servito Wittgenstein per definire il significato dei termini
linguistici: « Per una estesa classe di casi — sebbene non per tutti — nei
quali adoperiamo la parola ‘ signifi cato * essa può essere definita così: il
significato di una parola è il suo U. nel linguaggio » (Philo- URDOXA O
URGLAUBE sophical Investigations, $ 43) (v. LINGUAGGIO; Sr- GNIFICATO). I
logici contemporanei distinguono l’U. di una parola dalla sua menzione. Nella
frase «l’uomo è un animale razionale » la parola «uomo» è usata ma non
menzionata. Invece nella frase «la tradu- zione italiana della parola inglese
man ha quattro lettere» la parola uomo è menzionata ma non usata. Infine nella
frase «la parola uomo ha quattro lettere », la parola uomo è nello stesso tempo
usata e menzionata. Quest'ultimo U. è quello che gli Scolastici chiamavano della
supposizione mate- riale (v. SuPPOSIZIONE) e che Carnap ha chiamato U.
autononimo (CARNAP, Logical Syntax of Lan- guage, $ 64; QuINE, Methods of
Logic, $ 7; CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 80). UTENSILE (ingl.
Tool; franc. Ustensile; te- desco Zuhandene). Un mezzo potenziale, che di-
venta attuale quando si congiunge all’occhio, al braccio, alla mano, in qualche
operazione speci- fica. Questa è la definizione data da Dewey (Human Nature and
Conduct, pag. 25). U. è stato spesso considerato il modo d’essere proprio della
cosa (v.) come tale. È questa una dottrina che è stata avan- zata da Heidegger
(Sein und Zeit, $ 15) ed accet- tata da Ortega y Gasset, che ha considerato
come U. anche l’intelligenza, la scienza e la cultura (Schema delle crisi,
1933, pag. 43); e da Sartre, che ha detto: «Il rapporto originale delle cose
tra loro è il rapporto d’utensilità... la cosa non è dapprima cosa per essere
in seguito U., nè dapprima U. per svelarsi di seguito come cosa: è cosa-U.» (L’étre et le néant, pag. 250).
UTILE (ingl. Useful; franc. Utile; ted. Niitz-
lich). 1. Ciò che è mezzo o strumento per un fine qualsiasi. In questo senso
definivano l'utilità Al- berto Magno (S. 7h., I, g. 8, a. 3), Geulincx (Ethica,
III, 6) e Baumgarten (Mer., $ 336). L’uti- lità è in questo senso un carattere
delle cose. 2. Più specificamente, a partire da Hobbes, è stato chiamato U. ciò
che giova alla conserva- zione dell’uomo o in generale appaga i suoi bi- sogni
o soddisfa i suoi interessi. Hobbes affermava a questo proposito che ciascun
uomo è, per di- ritto naturale, arbitro circa ciò che gli è U. e che «la misura
del diritto è l’utilità » (De Cive, 1642, I, 9-10). Sulle tracce di Hobbes,
Spinoza identi- ficava il comportamento razionale dell’uomo con la ricerca dell’U.:
«La ragione, non richiedendo nulla contro la natura, richiede di per sè,
innanzi tutto che ognuno ami se stesso e ricerchi il proprio U. che veramente
sia tale ». Tra le molte cose U. e desiderabili le più importanti sono quelle
che convengono alla natura umana c perciò la più importante di tutte è la
conservazione dell’uomo nella propria persona e nell'altrui. « Gli uomini che
sono governati dalla ragione, ossia gli uomini che cercano il proprio U.
secondo la guida della ra- gione, non desiderano per sè nulla che non desi-
derino anche per gli altri uomini giusti, fidati e onesti » (Er., IV, 18,
schol.). L’utilità in questo senso divenne da un lato fondamento di quella
dottrina morale che è l’uzilitarismo (v.) dall'altro il concetto fondamentale
dell’economia politica (v.). Nel primo indirizzo, già Hume si domandava 4
perchè l’utilità piace» e vedeva la risposta a questa domanda nella naturale
simpatia dell’uomo verso l’altr'uomo (/ng. Conc. Morals, V). La coinci- denza
dell’utilità individuale con quella sociale era così già postulata e divenne
uno dei temi dell’uti- litarismo. Bentham definiva l’utilità come « quella
proprietà di un oggetto per la quale esso tende a produrre beneficio,
vantaggio, piacere, bene o feli- cità (Introduction to the Principles of
Morals, 1789, I, 1). Nel campo dell’economia politica, per U. fu inteso
abitualmente «tutto ciò che appaga un bi- sogno +; e l'avvertenza che non
sempre ciò che appaga un bisogno dal punto di vista economico (cioè viene
desiderato come tale) lo appaga dal punto di vista biologico, consigliò Pareto
a intro- durre la nozione di ofelimità (v.) che è l’U. nel contesto economico
(Traité d’économie politique). UTILITÀ MARGINALE. V. EcoNnoMIA Po- LITICA.
UTILITARISMO (ingl. Utilitarianism; francese Utilitarisme; ted. Utilitarismus).
Per quanto la dot- trina che identifica il bene con l’utile si possa far
risalire ad Epicuro (v. ETIcA) l’U., come dottrina storicamente determinata è
un indirizzo del pen- siero etico, politico ed economico inglese dei se- coli
xvin e xrx. Stuart Mill affermò di essere stato il primo ad usare la parola
utilitarista (utilitarian) e d’averla desunta da un’espressione usata da Galt
negli Annals of Paris (1812): ed a lui infatti è do- vuta la fortuna del nome.
Esso però era stato usato occasionalmente da Bentham, e per la prima volta nel
1781. I capisaldi dell’U. possono essere riassunti nel modo seguente: 1° L’U. è
in primo luogo il tentativo di tra- sformare l’etica in una scienza positiva
della con- dotta umana, scienza che Bentham voleva rendere «esatta come la
matematica » (/ntroduction to the Principles of Morals, in Works, I, pag. v).
Questo tratto fa dell’U. un aspetto fondamentale del mo- vimento positivistico;
e dall’altro lato assicura al- Il°U. stesso un posto importante nella storia
del- l’etica (v. ETICA). 2° Conseguentemente, 1’U. sostituisce alla con-
siderazione del fine, desunto dalla natura metafi- sica dell'uomo, la
considerazione dei moventi che, in linea di fatto, determinano l’uomo ad agire.
In ciò esso si riconnette alla tradizione edonistica che scorge nel piacere
l’unico movente cui l’uomo o in generale l’essere vivente, obbedisca (v. Epo-
NISMO). Sotto quest’aspetto, come sotto quello pre- cedente, l’U. veniva
soprattutto illustrato da Ge- remia Bentham (1748-1832). 3° Il riconoscimento
del carattere superindi- viduale o intersoggettivo del piacere come mo- vente,
onde il fine di ogni attività umana diventa «la massima felicità divisa nel
maggior numero possibile di persone »: una formula che enunciata per la prima
volta da Cesare Beccaria (Dei diritti e delle pene, 1764, $ 3) fu accettata da
Bentham e da tutti gli utilitaristi inglesi. L'accettazione di questa formula
suppone la coincidenza dell’utilità privata con l’utilità pubblica: una
coincidenza che fu ammessa da tutto l’indirizzo del liberalismo moderno (v.
LiserALISMO). Prevalentemente a giu- stificare tale coincidenza fu diretta
l’opera di Gia- como Mill e di Stuart Mill. Giacomo Mill l’affi- dava alla
legge dell’associazione psicologica: la felicità altrui viene desiderata perchè
è stretta- mente associata con la propria (Analysis of the Phenomena of the
Human Mind, ediz. 1869, II, pag. 351 sgg.). Stuart Mill affidava questa stessa
connessione al sentimento dell’unità umana, che Comte aveva messo in luce con
la sua religione dell’umanità (Urilitarianism, 2* ediz., 1871, pag. 61).4° La
stretta associazione dell’U. con le dot- trine della nascente scienza
economica. Due dei fondatori di questa scienza, Tommaso Roberto Malthus
(1766-1834) e Davide Ricardo (1772-1823) furono utilitaristi e condivisero
dell’U. lo spirito positivo e riformatore. 5° Lo spirito riformatore, nel campo
politico e sociale, degli utilitaristi che si preoccuparono di far servire la
loro dottrina morale come fon- damento di riforme che avrebbero dovuto, nei
vari campi, aumentare il benessere e la felicità degli uomini. Sotto questo
aspetto l’U. fu anche detto radicalismo. Cfr. S. LesLie, The English
Utilitarians, 3 voll., 1900; E. ALBEE, A History of English Utilitarianism.
UTOPIA (lat. Utopia; ingl. Utopia; francese Utopie; ted. Utopie). Tommaso Moro
intitolava così una specie di romanzo filosofico (De optimo reipublicae statu
deque nova insula Utopia, 1516) nel quale narrava le condizioni di vita in
un'isola sconosciuta detta appunto U.: condizioni di vita che sarebbero state
caratterizzate dall’abolizione della proprietà privata e dell’intolleranza
religiosa. In seguito il termine è stato esteso a designare non solo ogni
tentativo analogo, anteriore o po- steriore che fosse, come la Repubblica di
Platone o la Cirtà del sole di Campanella, ma' anche in generale ogni ideale
politico, sociale o religioso di difficile o impossibile realizzazione. Come
genere letterario, l’U. cade fuori della considerazione filosofica: basti qui
osservare che essa è stata ed è tutt'ora, in questa forma, molto diffusa e che
una delle sue incarnazioni sono i romanzi di fantascienza. Problema filosofico
è la valutazione dell’U., sia questa espressa in forma romanzesca sia espressa
in forma di mito o di ideologia, ecc.; e su questa valutazione i filosofi non
sono d’accordo. Comte affidava all’U. il com- pito di migliorare le istituzioni
politiche e di svi- luppare le idee scientifiche (Politique positive, I, pag.
285). Marx ed Engels, al contrario, condan- navano come « utopistiche » le
forme che il socia- lismo aveva assunto per opera di Saint Simon, Fourier e
Proudhon, contrapponendo ad esse il socialismo « scientifico » che prevede la
trasforma- zione immancabile del sistema capitalistico in si- stema comunista ma
esclude qualsiasi previsione sulla forma che assumerà la società futura e qual-
siasi programma per essa (v. SociaLIsMo). Sorel nello stesso senso
contrapponeva all’U. « opera di teorici che, dopo aver osservato e discusso i
fatti, cercano di stabilire un modello al quale si possano paragonare le
società esistenti per misurare il bene e il male che racchiudono» il mito che
invece è l’espressione di un gruppo sociale che si prepara alla rivoluzione
(Réflexions sur la violence, 4* edi- zione, pag. 46). Mannheim ha invece
considerato l’U. come destinata a realizzarsi, in contrapposto all'ideologia
(v.) che non riuscirebbe mai a realiz- zarsi. L'U. sarebbe in questo senso alla
base di ogni rinnovamento sociale (/deologie und Utopie, 1929, II, 1; cfr. R.
K. MERTON, Social! Theory and Social Structure, 1957, 3* ediz., cap. XIII). In
generale si può dire che Il’U. rappresenta una correzione o un’integrazione
ideale di una situazione politica o sociale o religiosa esistente. Questa
correzione può rimanere, come spesso è accaduto ed accade, allo stato di
semplice aspira- zione o sogno generico, risolvendosi in una specie di evasione
dalla realtà vissuta. Ma può anche accadere che l’U. diventi una forza di
trasforma- zione della realtà in atto e assuma abbastanza corpo e consistenza
per trasformarsi in autentica volontà innovatrice e trovare i mezzi
dell’innova- zione. Di regola la parola viene intesa più in rife- rimento alla
prima possibilità che alla seconda. E al primo significato si riattacca la
cosiddetta « teoria critica della società » svolta da Horkheimer, Adorno e
Marcuse (e specialmente da quest’ultimo) che si è concentrata soprattutto sulla
critica disso- lutrice della società contemporanea. «La teoria critica della
società, ha scritto Marcuse, non pos- siede concetti che possano gettare un
ponte tra il presente e il futuro, non offre promesse e non mostra successi,
rimane negativa» (One Dimen- sional Man, 1964, pag. 257). Ed ancora: « Se oggi
abba- stanza determinato, sicchè vi sono casi nei quali sembra impossibile
decidere se essa è applicabile o meno. Così la parola lontano è V. perchè ci
sono casi nei quali è impossibile decidere se si può par- lare di lontananza o
meno; mentre non è V. l’espres- sione « distante trenta chilometri ». Peirce ha
dato del termine la definizione seguente: « Una propo- sizione è V. quando sono
possibili stati di cose, riguardo ai quali chi parla, anche contemplandoli,
sarebbe intrinsecamente incerto se siano affermati o negati dalla proposizione.
Con intrinsecamente incerto intendiamo parlare di ciò che è dubbio, non per
l’ignoranza di chi interpreta, ma per l’in- determinazione del linguaggio di
chi parla» (in BALDWIN, Dictionary of Philosophy, Il, pag. 748). La vaghezza
non va identificata nè con l’ambiguità nè con la generalità. B. Russell ha
tuttavia insistito sulla difficoltà di distinguere ciò che è V. da ciò che è
generale, inclinando per una interpretazione soggettiva dell’incertezza
inerente a ciò che è V. (Analysis of Mind, 1921, pag. 184). Max Black ha dato
un'analisi esauriente della nozione di V. suscitando una feconda discussione in
proposito {Vagueness in Language and Philosophy, 1952, cap.II; nella traduzione
italiana del libro Vagueness è reso con /ndeterminatezza). VAISESIKA. Uno
dei-principali sistemi filo- sofici dell’India antica, la cui fondazione è
attri- buita a un bramano detto Kanada, che sostenne una specie di atomismo,
considerando la materia formata di elementi indivisibili e caratterizzata da
sei determinazioni fondamentali: la sostanza, la qualità, il movimento, la
generalità, la particolarità e l’inerenza. Il sistema ammette pure l’esistenza
delle anime, dimostrata per inferenza dall’impos- sibilità di attribuire al
corpo eventi come la cono- scenza, il piacere, l’amore, ecc.; e l’esistenza di
Dio considerato come la causa e il regolatore del Karman (cfr. G. Tucci, Storia
della filosofia indiana, 1957, pag. 112 sgg.). VALENZA (ingl. Valency; franc.
Valence; ted. Wertheit). Il corrispondente oggettivo o noe- matico del valore,
secondo Husserl. Dice Husserl: «Da un lato parliamo della semplice cosa che è
valevole, ha il carattere di valore, ha la V.; dall’altro parliamo degli stessi
valori concreti o della ogget- tività di valore» (/deen, I, $ 95). Peirce aveva
stabilito un’analogia tra le proprietà delle proposizioni e la V. chimica
(Coll. Pap., 3. 470-71). VALIDITÀ (ingl. Validity; franc. Validité; ted.
Giltigkeit). 1. L’universalità soggettiva (v. UNI- VERSALITÀ, 2): nel qual
senso è valido ciò che è (o dev'essere) riconosciuto da tutti vero, buono, bello,
ecc. 2. La conformità a regole di procedura sta-bilite o riconosciute. In tal
senso si dice valida un’inferenza, se conforme alle regole della logica, o una
legge se è conforme alle regole costituzionali; o una sentenza se è conforme
alle leggi, o un ordine se è dato dalla persona cui spetta darlo e nelle forme
stabilite dalle regole. La V. in questo senso dev'essere tenuta distinta dai
valori di verità, di giustizia, ecc. Difatti un’inferenza valida, cioè effet-
tuata in conformità delle regole logiche non è un’in- iaggio è valido per
effettuare un certo percorso; o una certa organizzazione è valida per certe
funzioni, ecc. 4. Più particolarmente e limitatamente al do- minio della
logica, Carnap ha proposto di chia- mare valido l’enunciato (o la classe degli
enunciati) che è la conseguenza di una classe nulla di enunciati; e
contro-valido l’enunciato di cui ogni enunciato può essere conseguenza. I due
termini in questo senso stanno rispettivamente per analitico e con- tradditorio
(The Logical Syntax of Language, $ 48). Analogamente Quine ha proposto di
chiamare valido uno schema logico che rimane vero quale che sia
l’interpretazione che si da ai suoi simboli. Per es., lo schema p > pè uno
schema valido; mentre lo schema p. 7 è coerente ma non è valido perchè è vero
solo quando p è interpretato come vero e qg come falso (Methods of Logic, $ 6).
V. in questo senso non significa altro che analiticità o verità logica. VALORE
(gr. &Ela; lat. Aestimabile; inglese Value; franc. Valeur; ted. Wert). In
generale, ciò che dev'essere oggetto di preferenza o di scelta. Fin
dall’antichità la parola fu usata a indicare l’utilità o il prezzo dei beni
materiali e la dignità o il merito delle persone; ma quest’uso non ha alcun
signi- ficato filosofico perchè non ha dato origine a pro- blemi filosofici.
L'uso filosofico del termine comincia soltanto quando il suo significato viene
generaliz- zato per indicare qualsiasi oggetto di preferenza o o di scelta; e
ciò accadde per la prima volta con gli Stoici i quali introdussero il termine
nel dominio dell’etica e chiamarono V. gli oggetti delle scelte morali. Ciò
accadde perchè essi intendevano il bene in senso soggettivo (v. BENE, 2) e
potettero così considerare i beni e i loro rapporti gerarchici come oggetti di
preferenza o di scelta. Per V., in generale, essi intesero «ogni contributo a
una vita conforme a ragione » (Dro. L., VII, 105); 0, come dice Cicerone, « ciò
che è conforme alla natura o ciò che è degno di scelta (selectione dignum)» (De
Fin., III, 6, 20). Per ciò che è conforme a VALORE natura, intendevano ciò che
dev’essere scelto in tutti i casi cioè la virtù; per ciò che è degno di scelta,
intendevano i beni da preferirsi come l’ingegno, l’arte, il progresso, fra le
cose spirituali; la ricchezza, la fama, la salute, la forza, la bellezza fra le
cose corporee; la ricchezza, la fama, la nobiltà fra le cose esterne (Diog. L.,
VII, 105-06). La divisione tra V. obbligatori e V. preferenziali sarà più tardi
espressa come quella tra V. intrinseci o finali e valori estrinseci o strumentali.
La ripresa della nozione nel mondo moderno si ha soltanto con la ripresa della
nozione soggettiva del bene: il che accade con Hobbes. «Il V. di un uomo, egli
dice, è, come quello di tutte le altre cose, il suo prezzo, ciò che potrebbe
esser pagato per l’uso della sua facoltà: quindi non è assoluto, ma dipende dal
bisogno e dal giudizio di un altro. Un abile condottiero di soldati è di gran
prezzo in tempo di guerra presente o imminente, ma non in pace» (Leviath., I, $
10). Tuttavia la nozione di V. soppiantò la nozione di bene nelle discussioni
morali solo nel sec. xrx; ed anche in questa occa- sione ciò avvenne per una
estensione del signi- ficato economico del termine, che intanto era stato
assunto a fondamento della scienza economica (v. EcoNOMIA POLITICA). Kant aveva
identificato il bene con il V. in generale: «Ognuno, egli diceva, chiama bene
ciò che apprezza ed approva cioè ciò in cui c’è un V. oggettivo» e aggiungeva
che il bene in questo senso è tale per tutti gli esseri ragionevoli (Crit. del
Giud., $ 5). Egli tuttavia limitava la parola V. a designare il bene obiettivo,
escludendone il piacevole e il bello. L'estensione del termine a indicare non
solo il bene ma anche il vero ed il bello fu dovuta ai kantiani e in primo
luogo all'indi- rizzo psicologistico del kantismo. Polemizzando contro lo
stesso Kant, Beneke affermava che la moralità non può determinare una legge
universale della condotta, ma può e deve determinare l'ordine dei V. che devono
essere preferiti nelle scelte in- dividuali; i V. stessi poi sono determinati
dal sentimento (Grundlinien der Sittenlehre, 1837, I, pag. 231 sgg.);
Grundlinien des Naturrechtes). Questo orientamento dell’etica verso i V., in
filosofi che si ispiravano a Kant, è dovuto indubbiamente all’indirizzo psicologistico,
che ha come suo corollario la nozione soggetti- vistica del bene. Ma fu
soprattutto Windelband a parlare, nei saggi che furono poi raccolti in Preludi
(1884), di un « V. di verità » e di un «V. di bellezza » oltre che di un « V.
di bene ». Alla diffu- sione del concetto e del termine di V. contribuì
potentemente Nietzsche con le sue opere fondamen- tali Jenseits von Gut und
Bòse (1886) e Zur Genea- logie der Moral (1887). Approssimativamente da questi
anni, il concetto di V. diventa uno dei concetti fondamentali della filosofia e
le discussioni intorno ad esso esauriscono quasi totalmente il campo dei
problemi morali. Ed a partire dalla stessa data tende a riprodursi, nel campo
della teoria dei V., una divisione analoga a quella che aveva caratterizzata la
teoria del bene: la divisione tra un concetto metafisico o assolu- tistico e un
concetto empiristico o soggettivistico del V. stesso. Il primo attribuisce al
V. uno status metafisico, che è completamente indipendente dai rapporti del V.
con l’uomo. Il secondo considera il modo d’essere del V. in stretto rapporto
con l’uomo o con le attività o il mondo umano. La prima concezione è animata
dall’intento di sottrarre il V., o meglio determinati valori e i modi di vita
che su di essi si fondano, al dubbio, alla critica e alla negazione: un intento
che appare puerile, se si pensa che il V. più saldamente ancorato nelle
coscienze degli uomini e che suscita le maggiori passioni è anche il V. più
mutevole e relativo, tale che talvolta i filosofi pudicamente si rifiutano di
considerarlo autentico: il V.-denaro. 1° La prima concezione deve, da un lato,
insi- stere sulla connessione del V.con l’uomo e dall’altro, sull’indipendenza
del V. stesso. La prima determi- nazione è difatti costitutiva del V. e segna la
sua caratteristica differenziale nei confronti del bene tradizionalmente
inteso. La seconda determinazione mira a garantire al V. la sua assolutezza. Il
concetto kantiano dell’a priori sembrava possedere entrambe queste
determinazioni: perciò da Windelband e Rickert il concetto di V. fu elaborato
in relazione con quello di a priori. Per Windelband, il V. è il dover essere di
una norma che può anche non avere realizzazione in linea di fatto, ma che è la
sola che può dare verità, bontà e bellezza alle cose giudicabili (Pràludien, 4*
ediz., 1911, II, pa- gina 69 sgg.). I V. in questo senso non sono cose o
super-cose, non hanno realtà o essere, ma il loro modo d'essere è il dover
essere (sollen). Rickert ripete questo punto di vista e ribadisce che l’essere dei
V. non consiste nella loro realtà ma nel loro dover essere. Tuttavia i V. si
trasfor- mano, nella trattazione di Rickert, in realtà tra- scendenti. Rickert
distingue sei domini del V.: la logica, l'estetica, la mistica (che è il
dominio della santità impersonale), l'etica, l’erotica (che è il dominio della
felicità), e la filosofia religiosa. A ciascuno di questi domini corrisponde un
bene (scienza, arte, uno-tutto, comunità libera, comunità d’amore, mondo
divino), una relazione al soggetto (giudizio, intuizione, adorazione, azione
autonoma, unificazione, devozione) e infine una determinata intuizione del
mondo (intellettualismo, estetismo, misticismo, moralismo, eudemonismo, teismo
© politeismo) (System der Philosophie 1921). La 909 mediazione tra la realtà e
i V. è poi chiarita da Rickert con il concetto del senso (Sinn): il senso è il
riferimento della realtà, o di una parte della realtà, al mondo dei V. e
attraverso di esso i V. si calano nella storia e sono realizzati dall’uomo
(System der Philosophie, I, pag. 319 sgg.). Teorie dei V. molto simili a questa
venivano elaborate dal tedesco ame- ricano Ugo Miinsterberg in una Philosophie
der Werte, del 1908, dall’americano W. M. Urban (Va- luations: its Nature and
Laws, 1919; The Intelle- gible World, 1920), dall’italiano Guido della Valle
(Teoria generale e formale del V., 1916) e da numerosi altri scrittori. Tutte
queste dottrine si lasciano sfug- gire il problema che è alla radice della loro
im- postazione o presentano di esso soluzioni illusorie. Da un lato, infatti,
riconoscono che il V. è in qualche modo presente all'uomo o alle attività umane
o al mondo umano di cui costituisce la norma o il dover essere; dall’altro,
esigono che esso sia indipendente da ogni riconoscimento o vicenda umana e che
possegga uno status indifferente ri- spetto al mondo umano. Al V. si tendono ad
attri- buire, in queste teorie, i caratteri dell'essere perfetto: l’unità,
l’universalità, l'eternità, di fronte alla mol- teplicità, particolarità e
mutevolezza delle mani- festazioni empiriche di cui dovrebbero costituire la
regola. Ma dall’altro lato, come regole di tali mani- festazioni, essi debbono
avere con esse un rapporto essenziale, senza il quale non potrebbero servire nè
a giudicarle nè a dirigerle. Il concetto kantiano dell’a priori trascendentale
non si era rivelato efficace come modello per una soluzione di questo problema.
Un altro tipo di soluzione fu cercato affidando l’intuizione del V. a una
esperienza sui generis, di natura sentimentale. Il sentimento è, secondo Scheler,
«una forma di esperienza i cui oggetti sono completamente inac- cessibili
all’intelletto, che è cieco nei loro riguardi come l’orecchio e l’udito nei
riguardi dei colori »; questa forma di esperienza ci presenta autentici oggetti
disposti in un ordine eterno gerarchico, che sono i V. (Der Formalismus in der
Ethik, 3* ediz., 1927, pag. 262). In altri termini, il V. è l’oggetto
intenzionale del sentimento come la realtà è l’oggetto intenzionale del
conoscere; e questo oggetto è appreso nel suo rapporto gerarchico con gli altri
oggetti della stessa specie. L'’intuizione sentimentale del V. è anche un atto
di scelta prefe- renziale: scelta preferenziale che segue la gerarchia
oggettiva dei valori, costituita da quattro gruppi fondamentali: V. del
gradevole e dello sgradevole, corrispondenti alla funzione del godere e del
sof- frire; V. vitali, corrispondenti ai modi del sentimento vitale (salute,
malattia, ecc.), V. spirituali cioè estetici e conoscitivi; e V. religiosi.
Questa soluzione di Scheler faceva tuttavia ri- sorgere, nel dominio
dell’intuizione fondamentale, quella stessa antinomia che caratterizzava
l’inter- pretazione neocriticista o trascendentale del valore. E questa
antinomia veniva addirittura assunta come caratterizzazione del V. nella dottrina
di Nicolai Hartmann. Hartmann da un lato afferma che i V. sono tali solo
rispetto all’essere del soggetto e riconosce pertanto la relazionalità (non
relatività) di essi (Erhik, 3° ediz., 1949, pag. 141). Dall’altro afferma che i
V. hanno un «essere in sè» indi- pendente dalle opinioni del soggetto e
costituiscono autentici oggetti che, sebbene non siano reali come gli oggetti
delle scienze naturali, hanno un modo d’essere altrettanto immutabile ad
assoluto (/bid., pag. 153). Con terminologia diversa perchè di natura teologica
ma analoga, gli stessi due aspetti anti- nomici del V. sono stati espressi da
R. Le Senne dicendo che il V. è un Dio-con-noi: come Dio è unico e
trascendente, come con-noi è in rapporto con l’uomo e capace di guidarlo
(Obstacle et valeur, 1934, pag. 220 sgg.). 2° La fortuna del termine V. nel
mondo mo- derno è dovuta in buona parte all’opera di Nietzsche e allo scandalo
che egli suscitò con la pretesa di invertire i valori tradizionali. Nietzsche
dichiarava di puntare le sue speranze « verso spiriti forti e abbastanza
indipendenti da dare impulso a giudizi di V. opposti, da riformare e invertire
i valori eterni: verso precursori o uomini dell'avvenire che nel presente
formino il nodo che costringerà la volontà dei millenni ad aprire nuovi
sentieri, ecc.» (Jenseits von Gut und Bòse, $ 203). L’inversione dei V.
tradizionali, ironizzati come « V. eterni », fu ritenuta da Nietzsche il
compito della sua filosofia (Ecce Homo, $ 4). E questa inversione consisteva
sostan- zialmente nel sostituire ai V. della morale cristiana fondata sul
risentimento (v.) quindi sulla rinuncia e sull’ascetismo, i V. vitali che
nascono dall’affer- mazione della vita cioè dalla sua accettazione dio- nisiaca
(Genealogie der Moral, I, $ 10). Questa concezione di Nietzsche è stata
considerata come un relativismo dei V. e come tale è stata il ter- mine
polemico di riferimento di tutte le dottrine assolutistiche. In realtà vi sono
scarse tracce, in Nietzsche, di una relatività dei V.: il suo intento è
piuttosto quello di ripristinare la tavola autentica dei V., che è quella dei
V. vitali, al posto dei V. fittizi che la morale del risentimento ha fatto
propri. La tesi autentica di Nietzsche è quella dello stretto rapporto
dell'essere del V. con l’uomo sicchè non c'è V. che non sia una possibilità o
un modo d’essere dell’uomo stesso. È questa la tesi caratteristica
dell’interpretazione che abbiamo detto empiristica o soggettivistica del
valore. Meinong fu il primo a ripresentare esplicitamente questa tesi riducendo
il V. di un oggetto alla sua « forza di motivazione » «Uber Werthaltung und
Wert» in Archiv fiîr syste- matische Philosophie, 1895, pag. 341). Ehrenfels
osservando che in base a questa definizione posse- derebbero V. solo gli
oggetti esistenti, definiva il V. come semplice «desiderabilità» (System der
Werttheorie, I, 1897, pag. 53). Questa definizione di Ehrenfels è importante
giacchè introduce per la prima volta esplicitamente, nella nozione di valore,
la connotazione della possibilità. V. non è la cosa desiderata, ma l’oggetto
desiderabile: non è cosa nel senso che non è necessariamente un oggetto reale,
non è desiderato perchè semplicemente può esserlo. Non diverso significato ha
la definizione del V. che alcuni anni più tardi dava R. B. Perry, dicendo che «
ogni oggetto, qualunque sia, acquista V. quando è investito da un interesse
qualsiasi » (General Theory of Value, 1926, 2% ediz., 1950, pag. 116):
l’interesse infatti, a differenza del desi- derio, è soltanto una possibilità.
Proprio sul dominio di questa concezione del V. nasceva il relativismo dei
valori e nasceva nel seno dello storicismo cioè della considerazione del rap-
porto tra i V. e la storia. Per la prima volta, il re- lativismo dei V. è stato
difeso da Dilthey. « La storia, diceva Dilthey, è essa medesima la forza
produttiva delle determinazioni di V., degli ideali, degli scopi in base ai
quali si determina il signi- ficato di uomini e di avvenimenti» (Gesammelte
Schriften, VII, pag. 290). I V. e le norme pertanto nascono e muoiono nella
storia e non sussistono al di fuori o al di sopra del corso di essa (/bid.,
pag. 290). Ancora più esplicitamente il relativismo dei V. nei confronti della
storia fu affermato da Simmel. Partendo dal riconoscimento della rela- tività
del V. economico, Simmel giunse al ricono- scimento della relatività di ogni
V.: il V. non è mai un’entità oggettiva ma la sua oggettività deriva soltanto
dalla correlazione tra soggetto e oggetto. Non sussistono pertanto V. assoluti;
e sono V. solo quelli che in condizioni determinate gli uomini riconoscono come
tali. La sfera dei V. si distingue da quella della realtà, non in base a un
proprio staerus ontologico, ma per una qualifica- zione categoriale, che può
investire qualsiasi og- getto (Philosophie des Geldes, 1900, I, $ 1). Lo storicismo
tedesco tuttavia non fu unanime nel riconoscere questa relatività; la considerò
sempre come un pericolo ma talvolta volle evitarla. Fu Troeltsch il primo a
formulare chiaramente l’an- titesi tra relatività storica e assolutezza dei V.
e nello stesso tempo a cercare di recuperare questa assolutezza nell’ambito
stesso dello storicismo. La soluzione che egli dette all’antitesi è la
coincidenza tra i due termini antinomici: ogni punto della storia è in rapporto
diretto con la sfera dei V. assoluti VARIAZIONI CONCOMITANTI, METODO DELLE e
contiene in sè tali V., senza relativizzarli alla propria mutevolezza (Der
Historismus und seine Probleme, 1922, Gesammelte Schriften, III, pag. 211).
Allo stesso modo Meinecke affermava che della storia è costitutiva la relazione
con l'Assoluto ma che questa relazione va dall’infinito al finito e non
viceversa: sicchè mentre la storia trova il suo fon- damento nei V. che
realizza, il modo d’essere di questi V. è irreducibile alla relatività storica
e conserva la sua validità incondizionata (Die Enr- stehung des Historismus,
1936, II, pag. 645). della storia stessa. Max Weber, pur insistendo sulla
pluralità dei V. e delle sfere di V. vedeva nella storia, non un’incessante
creazione dei V. ognuno relativo a un fuggevole momento di essa, nè un rapporto
fuggevole con V. assoluti, ma una lotta tra V. diversi offerti alla scelta del-
l’uomo (Gesammelte Politische Schriften, pag. 63; cfr. Pietro Rossi, Lo
Stforicismo tedesco contem- poraneo, pag. 367 sgg.). Lo stesso riconoscimento
delle molteplicità dei V. e dell’importanza della scelta, che continuamente
tale molteplicità esige da parte dell’uomo, si trova in Dewey che, appunto per
questo, ha definito la filosofia come « critica dei V. »: «La confusione che
tutte le teorie del V. hanno fatto, dice Dewey, tra una determinata posizione
nel rapporto causale o successivo e il V. vero e proprio, è un’indiretta
testimonianza del fatto che ogni valutazione intelligente è anche critica, cioè
giudizio, della cosa che ha V. immediato. Ogni teoria del V. è necessariamente
un ingresso nel campo della critica» (Experience and Nature, 1926, pag. 397).
Ma la critica dei V. in questo senso non è altro che la disciplina intelligente
delle scelte umane. Tale disciplina implica in primo luogo la considerazione
del rapporto che c’è tra mezzi e fini, sicchè non si può giudicare sui fini se
non giudicando nello stesso tempo sui mezzi che ser- vono a conseguirli (Theory
of Valuation, 1939, pag. 53). Dall’altro lato difficilmente la critica dei V.
potrebbe essere efficacemente istituita senza tener conto di un altro aspetto
dei V. sul quale ha specialmente insistito R. Frondizi: la connes- sione tra V.
e situazione. « L’organizzazione eco- nomica e giuridica, ha detto Frondizi, i
costumi, la tradizione, le credenze religiose e molte altre forme di vita che
trascendono l’etica, contribui scono a configurare determinati valori che
invece sono affermati come esistenti in un modo estraneo alla vita dell’uomo.
Sebbene il V. non possa de- rivarsi esclusivamente da elementi di fatto, non
può neppure prescindere da ogni connessione con la realtà. Una simile
separazione condanna chi la ese- guisce a mantenersi sul piano disincarnato
delle essenze » (Qué son los valores?, 1958, pag. 127). Gli studi
contemporanei, impiantati su questo pre- supposto negativo, hanno messo in luce
i punti seguenti: 1° Il V. non è semplicemente la preferenza o l’oggetto della
preferenza stessa ma è piuttosto il preferibile, il desiderabile, l’oggetto di
un’antici- pazione o di un’attesa normativa (confronta DEWEY, The Field of
Value, in Value: a Cooperative In- quiry, ed. Ray Lepley, 1949, pag. 68; CLYDE KLUCKONN e altri, in
Toward a General Theory of Action, ed. Parsons
e Schils, 1951, pag. 422). 2° Dall'altro lato esso non è un mero ideale da cui
le preferenze o le scelte effettive possano completamente o quasi completamente
prescindere, ma è piuttosto la guida o la norma (non sempre seguita) delle
scelte stesse e in ogni caso il loro criterio di giudizio (cfr. C. MoRrRIs,
Varieties of Human Value, 1956, cap. I). 3° Conseguentemente la migliore
definizione di esso è quella che lo considera come una possi- bilità di scelta
cioè come una disciplina intelligente delle scelte, che può condurre ad
eliminarne al- cune o a dichiararle irrazionali o dannose, e può condurre (e
conduce) a privilegiarne altre, pre- scrivendone la ripetizione ogni volta che
certe condizioni si verifichino. In altri termini, una teoria del V., come
critica dei V., tende a deter- minare le autentiche possibilità di scelta cioè
quelle scelte che, potendosi sempre ripresentare come possibili nelle stesse
circostanze, costitui- scono la pretesa del V. alla universalità e alla per-
manenza. VANITÀ (ingl. Vanity; franc. Vanité; tedesco Eitelkeit). 1. Nullità.
In questo senso la parola è adoperata frequentemente dalla Bibbia (cfr. Ec-
clesiaste, I, 2: «V. delle V., disse l’Ecclesiaste; V. delle V. e tutto è V.»).
2. Ambizione meschina, vanagloria, egocentri- smo (v.). VARIABILE. V. COsTAnTE.
VARIAZIONI CONCOMITANTI, ME- TODO DELLE (ingl. Method of Concomi- 912 tant
Variations; franc. Méthode des variations con- comitantes; ted. Methode der einander begleitenden Veranderungen).
Così J. Stuart Mill chiamò uno dei metodi induttivi già illustrati da Herschel
(A Discourse on the Study of Natural Philosophy, $ 145) e che si esprime con la
seguente regola: « Qualunque fenomeno che varii in qualsiasi ma- niera ogni
volta che un altro fenomeno varia in qualche particolare maniera, è una causa o
un effetto di questo fenomeno o è connesso con esso mediante qualche fatto di
causazione » (Logic, III, VIII, $ 6). Le altre regole dell’induzione sono il
metodo della concordanza, il metodo della diffe- renza e il metodo dei residui,
sui quali vedi le rispettive voci. VEDANTA (ingl. Vedanta; franc. Vedénta; ted.
Vedéînta). Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, che è stato
codificato nei Brahma- sutra o Vedantasutra attribuiti a Badarayana (forse m
secolo d. C.). Il principio del sistema è il Brahman o Atmann, riconosciuto
come unica realtà: il mondo è considerato come apparenza ingannevole, maya.
Nell’ambito di questo sistema, Sankara supponeva che l’io individuale è
identico con il Brahman o Atmann, mentre Ramanuja elaborava un sistema teistico
distinguendo dal Brahman sia il mondo creato sia le anime indi- viduali (Das
GuPTA, A History of Indian Philo- sophy, 1932-55, III; G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, pag. 136 sgg.). VEDUTA. V. INTUIZIONE. VEICOLO SEGNICO
(ingl. Sign Vehicle). Uno dei quattro componenti del procedimento segnico
(assieme al designato, all'interpretante e all’interprete) secondo Morris; e
precisamente l’og- getto o cosa che funziona da segno (Founda- tions of the
Theory of Signs, 1938, $ 2) (vedi SEGNO). VELLEITÀ (ingl. Velleity; franc.
Velléité; te- desco Velleitàt). Sforzo impotente o mal riuscito. Il termine
ricorre in Locke che indica con esso «la gradazione più bassa del desiderio,
quella che è più vicina a non esistere affatto» (Saggio, II, 20, 6). Con senso
analogo, il termine ricorre in Leibniz che intende per esso «una specie assai
imperfetta di volontà condizionale» cioè di una volontà che si impegnerebbe, se
potesse, ma non può (Théod., III, 404). Questa notazione è assai più vicina al
significato moderno del termine. Ed è d’altronde il significato più antico. S.
Tommaso intendeva per V. una volontà antecedente, che può essere o rimanere
sospesa, come la volontà del giudice che vorrebbe che il reco vivesse, in
quanto è uomo, ma che tuttavia desidera che sia impiccato (S. TA., I, q. 19, a.
6, ad. 1°). VENDETTA. V. TAGLIONE. VEDANTA VERACITÀ (ingl. Truthfulness; franc.
Véra- cité; ted. Wahrhaftigkeit). 1. Carattere di un di- scorso che esprime la
convinzione di chi lo pro- nuncia e che pertanto non può essere fonte di
inganni in chi ascolta. Locke chiamava la V. in questo senso «verità morale» e
la distingueva dalla verità « metafisica » che è la conformità delle idee alle
cose (Saggio, IV, 5, 11). Ma Leibniz adoperava a questo proposito la parola V.
(Nour. Ess., IV, 5, 11). 2. Talvolta si intende per V. la sincerità, che è una
qualità, non del discorso, ma della persona che tiene abitualmente discorsi
veraci. In questo senso Cartesio aveva parlato della « V. divina », affermando
che Dio non può ingannarci nel senso che non può essere causa di errori (Medit.).
VERBALISMO (ingl. Verbalism; franc. Ver- balisme). 1. Un’espressione verbale di
scarso o impreciso significato; o la tendenza a valersi di tali espressioni. 2.
Un’espressione verbale. VERBO. V. Logos. VERBO (gr. &îua; lat. Verbum;
ingl. Verb; franc. Verbe; ted. Zeitwort). Come parte del di- scorso, il V. fu
definito da Aristotele come «il nome che ha nel suo significato, una determina-
zione temporale, le cui parti non significano nulla separatamente e che è il
segno delle cose che sono predicate di un’altra cosa» (De Int., 3, 16b 6).
Questa definizione fu conservata dalla logica me- dievale (cfr. Pietro Ispano,
Summ. Log., 1.05). Nella linguistica moderna, la distinzione tra nome e verbo è
diventata assai meno importante giacchè, per quanto comune a molti linguaggi,
essa manca in certi altri (BLOOMFIELD, Language, 1933, pa- gina 20). VERIDICO
(ingl. Veridical; franc. Véridique; ted. Wahrhaftig). 1. Lo stesso che verace o
vero (v. VERACITÀ). 2. Ciò che contiene una parte o un accenno di verità. Per
es., «sogno V.», « allucinazione V.», ecc. VERIFICA, VERIFICABILITÀ. V. VERIFI-
CAZIONE. VERIFICAZIONE (ingl. Verification; francese Vérification; ted.
Verifikation). 1. In generale, ogni procedimento che consenta di stabilire la
verità o la falsità di un enunciato qualsiasi. Poichè i gradi e gli strumenti
della V. possono essere innumerevoli, il termine ha una portata generalis- sima
e indica la messa in opera di qualsiasi pro- cedimento di attestazione o di
prova (v.). Il ter- mine può anche essere usato per indicare il controllo di
una situazione qualsiasi in base a regole o a strumenti adatti; e in tal senso
si parla di verificare i conti o i gradi di un angolo o l’autenticità di certi
documenti, ecc.: procedure che in italiano si VERITÀchiamano più semplicemente
verifiche (termine che no va riscontro nelle altre lingue). In questo senso
generale, il termine viene adoperato anche senza riferimento all’esperienza o
ai fatti; e si può parlare di V. di un’espressione matematica o di un enunciato
analitico della logica come della V. di un enunciato fattuale o di un'ipotesi
scien- tifica. Dall'altro lato, la nozione di V. viene talora estesa nel senso
di includere in essa non solo il procedimento che consente di stabilire la
verità o falsità di un enunciato, ma anche quello che con- sente di stabilire
la verità, la falsità o l’indeter- minazione dell’enunciato stesso: cioè in
riferimento a una logica a tre valori piuttosto che a due (con- fronta
REICHENBACH, «The Principle of Anomaly in Quantum Mechanics», 1948, in Readings
in the Phil. of Science, 1953, pag. 519-20). 2. In senso ristretto e specifico,
la V. concerne gli enunciati fattuali ed è un procedimento che fa appello
all’esperienza o ai fatti. Proprio in questo senso la V. è stata assunta
dall’empirismo logico (v.) come criterio del significato delle propo- sizioni:
criterio che il Circolo di Vienna (v.) inter- pretava nella forma più rigorosa,
dichiarando privi di senso tutti gli enunciati che non si pre- stassero ad
un’assoluta verifica empirica. Questo punto di vista veniva espresso con tutto
rigore da Carnap nella sua opera Der /ogische Aufbau der Welt (1928). La
possibilità di una verifica assoluta fu però negata, nell’ambito dello stesso
Circolo di Vienna da K. Popper (Logik der For- schung, 1935) e in seguito da
Lewis (« Experience and Meaning» in Philosophical Review, 1934) e da Nagel (in
Journal of Philosophy, 1934). Sicchè Carnap stesso modificava il suo punto di
vista e in un saggio del 1936 (« Testability and Meaning », ora in Readings in
the Phil. of Science, 1953, pa- gine 47-92) parlava, invece che di V., di
conferma (confirmation) degli enunciati. Dove una V. com- pleta non è possibile
(e non è possibile quasi mai nel dominio della scienza) il principio della
verifi- cabilità esprime l’esigenza di una conferma gra- dualmente crescente
(Ibid, pag. 49). Da questo punto di vista l’accettazione o il rifiuto di un
enun- ciato fattuale contiene sempre una componente convenzionale, che consiste
nella pratica decisione che si deve prendere per considerare il grado di
conferma di un enunciato come sufficiente per l'accettazione dell’enunciato
stesso. Questo punto di vista è oggi estesamente accettato. 3. Per ciò che
concerne la procedura della V. fattuale, poco è stato finora detto dai
filosofi. Reichenbach ha diviso questo procedimento in due fasi che sono: 1°
l’introduzione di una classe fondamentale O di enunciati osservazionali cioè di
significati primitivi o diretti, che non sono sotto 58 — ABHAGNANO, Dizionario
di filosofia.indagine durante il corso dell’analisi; 2° un insieme di relazioni
derivative (o regole di trasformazione) D che consentono di connettere alcuni
termini con le basi O. Dopo aver definito, per un’indagine specifica, sia la
base O che le relazioni derivative D, il termine « verificato » può essere
definito come «l’esser derivato dalla base O in termini delle relazioni D+. A
questa descrizione Reichenbach aggiunge una determinazione importante: la con-
dizione del significato non è la V. attuale ma la V. possibile (senza la quale
gli enunciati storici per es., non avrebbero significato); perciò la no- zione
di verifica suppone quella di possibilità e Reichenbach distingue a questo
proposito la pos- sibilità /ogica, la possibilità fisica e la possibilità
tecnica e distingue corrispondentemente tre specie di significati «
Verifiability Theory of Meaning», in Proceedings of the American Academy of
Arts and Sciences, 1951, pag. 46 sgg.). La teoria della V. si lega così
strettamente alla nozione della pos- sibilità (v.). VERISIMILE (gr. elx6c; lat.
Verisimilis; inglese Likely; franc. Vraisemblable; ted. Wahrschein- lich). 1. Ciò che è simile al vero, senza avere la pre- tesa
di essere vero (nel senso, ad es., di rappresen- tare un fatto o un insieme di
fatti). Pertanto un racconto, ad es., un romanzo o una tragedia, può essere V.
senza essere minimamente probabile, senza che ci sia alcuna probabilità che i
fatti che narra si siano verificati o si verifichino. In tal senso, il concetto
del V. è stato adoperato costantemente nel dominio dell’estetica da Aristotele
in poi. « Nar- rare cose effettivamente accadute, diceva Aristotele, non è
compito del poeta ma piuttosto quello di rappresentare ciò che potrebbe
accadere cioè le cose possibili secondo verisimiglianza o necessità + (Poer.,
9, 1451 a 36). In questo senso il V. è il carattere di enunciati, teorie o
espressioni che non contraddi- cono alle regole della possibilità logica o a
quelle delle possibilità tecniche o umane. Una vicenda umana immaginata è V. se
essa viene giudicata conforme al comune comportamento degli uomini o trova
spiegazioni o appigli in tale comportamento. 2. Lo stesso che persuasivo (v.) o
probabile (v.). Popper ha tuttavia distinto la verisimiglianza (Ve-
risimilitude) dalla probabilità, perchè mentre que- st’ultima rappresenta l’idea
di un avvicinamento alla certezza logica o alla verità tautologica attra- verso
una diminuzione graduale del contenuto in- formativo, la verisimiglianza
rappresenta l’idea del- l’avvicinamento alla verità comprensiva e così combina
verità e contenuto, mentre la probabilità combina verità e mancanza di
contenuto (Con- jectures and Refutations, 1965, pag. 237). VERITÀ (gr.
&xH0ew; lat. Veritas; ingl. Truth; franc. Vérité; ted. Wahrheit). La
validità o l’effi- cacia dei procedimenti conoscitivi. Per V. s'intende infatti
in generale la qualità per cui una procedura conoscitiva qualsiasi risulta
efficace o ha successo. Questa caratterizzazione si può applicare ugualmente
sia alle concezioni che vedono nella conoscenza un processo mentale sia a
quelle che vedono in essa un processo linguistico o segnico. Essa ha pure il
vantaggio di prescindere dalla distinzione tra defi- nizione della V. e
criterio della verità. Questa di- stinzione non viene effettuata sempre, e
neppure è frequente; quando viene effettuata, non è altro che l’assunzione di
due definizioni della V. stessa. Per es., nell’ambito della teoria della
corrispon- denza, quando si distingue da essa il criterio della V., lo si
definisce come evidenza ricorrendo al con- cetto di V. come rivelazione. E la
dottrina della V. come conformità a una regola, presentata da Kant come
criterio formale, accanto al concetto della V. come corrispondenza, diventa poi
una definizione della V. stessa. Si possono distinguere cinque concetti
fondamen- tali della V.: 1° la V. come corrispondenza; 2° la V. come
rivelazione; 3° la V. come conformità a una regola; 4° la V. come coerenza; 5°
la V. come utilità. Queste concezioni hanno avuto un’impor- tanza assai diversa
nella storia della filosofia: le prime due, e specialmente la prima, sono
incom- parabilmente le più diffuse. Esse non sono nep- pure alternative tra
loro: cioè accade che più d’una di esse si ritrova nello stesso filosofo, per
quanto adoperata a diverso proposito. Sono tut- tavia disparate e irriducibili
l’una all’altra, perciò vanno tenute distinte. 1° Il concetto della V. come
corrispondenza è il più antico e diffuso. Presupposto da molte delle scuole
presocratiche, veniva per la prima volta esplicitamente formulato da Platone
con la defini- zione del discorso vero che dà nel Cratilo: « Vero è il discorso
che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non sono» (Crar., 385
b; cfr. Sof., 262 e; Fil., 37c). A sua volta Aristotele diceva: « Negare quello
che è e affermare quello che non è, è il falso, mentre affermare quello che è e
negare quello che non è, è il vero 1 (Mer., IV, 7, 1011 b 26 sgg.; cfr. V, 29,
1024b 25). Aristotele enunciava anche i due teoremi fondamentali di questa
concezione della verità. Il primo è che la V. è nel pensiero o nel linguaggio,
non nell’essere o nella cosa (Mer., VI, 4, 1027 b 25). Il secondo è che la
misura della V. è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso: sicchè una
cosa non è bianca perchè si asserisce con V. che è tale; ma si asserisce con V.
che è tale, perchè essa è bianca (Mer., IX, 10, 1051 b 5). Nelle precedenti
dottrine la definizione della V. e il criterio di V. coincidono. In altre
dottrine, pur mantenendosi immutata la definizione di V., il criterio di V.
viene ritenuto diverso; così accade nello stoicismo e nell’epicureismo. Stoici
ed Epi- curei continuano ad ammettere che la V. è la cor- rispondenza della
conoscenza alla cosa (SESTO Emp., Adv. Math., VIII, 38; IH, 9) ma ritengono che
il criterio della V. sia diverso, perchè gli Stoici lo vedono nella
rappresentazione caralettica (v.) che è la manifestazione dell’oggetto all'uomo
e gli Epicurei lo vedono nella sensazione, che è, per loro, il manifestarsi
stesso della cosa (Diog. L., X, 31). In tali casi, la distinzione tra la V. e
il cri- terio equivale al riconoscimento di due concetti, rite- nuti
compatibili (o non incompatibili) della verità. La coesistenza di due concetti
di V. d’altronde è tutt'altro che rara. Spesso la teoria della corri- spondenza
si accompagna con quella della V. come manifestazione o rivelazione. S.
Agostino da un lato definisce il vero come « ciò che è così, come appare »
(Solil., II, 5); dall’altro considera come V. «ciò che rivela quel che è, o che
manifesta se stesso » e in tal senso identifica la V. con il Verbum o Logos che
è la prima immediata e perfetta mani- festazione dell’Essere, cioè di Dio (De
Vera Rel., 36). A sua volta S. Tommaso, riprendendo una definizione data da
Isacco Ben Salomon nel se- colo rx, definisce la V. come « l’adeguazione del»
l'intelletto e della cosa» (S. 7h., I, g. 16, a. 2; Contra Gent., I, 59; De
Ver., q. 1, a. 1). Ma mentre conserva rispetto all’uomo il teorema aristotelico
che le cose, e non l’intelletto, sono la misura della V., inverte questo
teorema rispetto a Dio. « L’in- telletto divino, egli dice, è misurante, non
misu- rato; la cosa naturale è misurante e misurata; ma il nostro intelletto è
misurato, non misurante, rispetto alle cose naturali e misurante solo rispetto
a quelle artificiali» (De Ver., q.1, a. 2). Esiste quindi anche una V. delle
cose che è ciò per cui le cose somigliano al loro principio che è Dio; e in
questo senso Dio stesso è la prima e somma V. (S. 7h., I, q. 16, a. 5). Questi
concetti ricorrono frequentemente nella filosofia medievale. Il con- cetto
della V. come corrispondenza viene ampia- mente utilizzato. Pietro Ispano
(Summ. Log., 3.34) Herveus Natalis (Quod!., III, 1), Antonio Andrea (Super
artem veterem, ed. 1508, f. 45r A) conser- vano la dottrina della V. come
conformità dell’in- telletto alla cosa pur polemizzando sul modo d°’es- sere
della cosa o più precisamente degli oggetti cui l’intelletto deve conformarsi.
In generale, nella Scolastica della seconda metà del *200 e in quella del ’300,
si specifica che la « cosa » cui l’intelletto deve conformarsi è la « res
intellecta » cioè la cosa come è appresa dall’intelletto, non esterna all’in-
telletto stesso (cfr. anche DURANDO DI SAINT- POURGAIN, /n Sent., I, d. 19, q.
5). Il concetto del- l’adeguazione o della conformità tuttavia perde, a partire
dal sec. xIv, la sua portata metafisica e teologica per assumere un significato
strettamente logico o, come oggi si direbbe, semantico. L’iden- tificazione
polemica, difesa da Ockham, di « V.» e « proposizione vera » equivale appunto
alla nega- zione del valore metafisico della parola V. (Summa Log., I, 43;
Quodl., V, q. 24). I platonici di Cam- bridge mantengono, per ovvi motivi, il
carattere metafisico e teologico della nozione della corrispon- denza, parlando
di una conformità della cosa con se stessa o con la propria essenza contenuta
nel- l'intelletto divino (cfr. HERBERT DI CHERBURY, De veritate, 1656, pag. 4
sgg.); ma Hobbes insiste sul punto di vista nominalistico della V. come
semplice attributo delle proposizioni (De Corp., 3, $ 7) e così fa Locke
(Saggio, II, 32, 3-19); e perfino Leibniz che rigetta la nozione metafisica
della V. quale «attributo dell’essere » e si limita a vedere nella V. «la
corrispondenza delle proposizioni, che sono nello spirito, con le cose di cui
si tratta » (Nouv. Ess., IV, 5, 11). Wolff metteva insieme il concetto della V.
come «concordanza del nostro giudizio con l'oggetto, cioè con la cosa rappre-
sentata » (Log., $ 505), che egli chiamava defini- zione nominale della V., e
la nozione logica della V. come « determinabilità del predicato mediante la
nozione del soggetto» che egli chiamava de- finizione reale (Ibid, $ 513).
Baumgarten ritor- nava alla nozione di V. metafisica come « ordine del
molteplice nell’unità» (Mer., $ 89); mentre Kant dichiarava di presupporre
semplicemente la « definizione nominale della V.» come « accordo della
conoscenza con il suo oggetto » e si poneva il problema di trovare un crirerio
per la V. stessa. Escluso che fosse possibile un criterio generale cioè valido
per tutte le conoscenze, egli si fermava sul criterio formale della V. che è la
conformità della conoscenza a proprie regole (Crir. R. Pura, Lo- gica, Intr.,
III; v. oltre). Questo concetto della V. come corrispondenza non è mai venuto
meno neppure nella filosofia più recente dalla quale è talvolta assunto come
semplice presupposto, tal- volta esplicitamente difeso. Ciò è accaduto spe-
cialmente nelle correnti realistiche (cfr., per es., BoLzano,
Wissenschaftslehre, I, $ 25; A. MEINONG, Ùber Annahmen, pag. 125 sgg.). Appunto
nello spirito del realismo, N. Hartmann ha difeso la concezione della V. come
«coincidenza con un oggetto che deve venire inteso come tale» (Syste- matische
Philosophie, $ 9). L’intero mondo della conoscenza è inteso da Hartmann come
«la rifles- sione dell'essere su se stesso» (Meraphysik der Erkenntnis, 1921,
cap. 27, b). La dottrina della corrispondenza è quella cui ricorrono anche i
logici contemporanei, che cer- 5b* — ADBAGNANO, Dizwnario di filosofia. cano di
formularla in modo da renderla indipen- dente da qualsiasi ipotesi metafisica.
Da questo punto di vista la migliore formulazione è stata data alla teoria da
Alfred Tarski, che si è esplici- tamente rifatto, oltre che alla definizione
aristote- lica sopra riportata, anche a definizioni analoghe o dipendenti da
essa, come quella secondo la quale «un enunciato è vero se designa uno stato di
cose esistente» (B. RusseLL, An /nquiry into Meaning and Truth, 1940, pag. 362
sgg.). Tarski è partito da un’equivalenza di questo genere: « L’enunciato “la
neve è bianca” è vero se, e solo se, la neve è bianca» per generalizzarla nella
formula « X è vero se, e solo se p ». Utilizzando la nozione seman- tica di
soddisfazione intesa come la relazione tra oggetti arbitrari e certe
espressioni chiamate « fun- zioni enunciative» del tipo «x è bianco» «x è più
grande di y», ecc., Tarski ha dato la seguente definizione della V.: « Un
enunciato è vero se è soddisfatto da tutti gli oggetti e falso altrimenti ».
Tarski ha sottolineato il fatto che la nozione se- mantica della V. (come egli
l’ha chiamata e come abitualmente si chiama) non implica nulla circa le
condizioni sotto la quale un enunciato come «la neve è bianca » può essere
asserito. Indica solo che, ogni qualvolta che asseriamo o rigettiamo questo
enunciato, dobbiamo essere pronti ad asserire o rigettare l’enunciato
correlativo « L'enunciato ‘la neve è bianca” è vero ». In tal modo egli ritiene
che la concezione semantica della V. possa con- ciliarsi con qualsiasi
atteggiamento epistemologico essendo neutro riguardo a qualsiasi concezione
realistica o idealistica, empiristica o metafisica della conoscenza (« The
Semantic Conception of Truth », 1944, in Readings in Philosophical Analisys,
1949, pag. 52-84; la concezione di Tarski fu esposta per la prima volta in uno
scritto polacco del 1933 tradotto in tedesco negli Srudia Philosophica del
1935, pag. 261-405). Carnap accettava questa con- cezione della verità ma
insistendo sulla sua diffe- renza fondamentale dai concetti di credenza,
verifica- zione, conferma ecc. (Introduction to Semantics $ 7). M. Black
metteva in luce l’insignificanza filosofica di essa (Language and Philosophy,
IV, $ 8). 2° La seconda concezione fondamentale della V. è quella che la
considera come rivelazione o manifestazione. Essa ha due forme fondamentali,
una empiristica, l’altra metafisica o teologica. La forma empiristica consiste
nell’ammettere che la V. è ciò che immediatamente si rivela all’uomo, ed è
perciò sensazione, intuizione o fenomeno. La forma metafisica o teologica è
quella secondo la quale la V. si rivela in modi di conoscere eccezio- nali o
privilegiati, attraverso i quali si rende evi- dente l’essenza delle cose o il
loro essere o il loro stesso principio (cioè Dio). La caratteristica fon-
damentale di questa concezione è il rilievo dato all’evidenza, assunta insieme
come definizione e criterio della verità. Ma l'evidenza, ovviamente, non è che
rivelazione o manifestazione. Nel senso empiristico, la V. veniva intesa come
rivelazione dai Cirenaici, che vedevano nelle sen- sazioni l’evidenza stessa
delle cose (SESTO EMP., Adv. Math., VII, 199-200), dagli Epicurei che con-
sideravano la sensazione come il criterio della V. (Droga. L., X, 31-32) e
dagli Stoici che lo vedevano nella rappresentazione caralettica (v.) (Dioa. L.,
VII, 54). La nozione della conoscenza intuitiva è in Ockham la nozione di una
manifestazione im- mediata delle cose, nei loro caratteri e nelle loro
relazioni, all’uomo (/n Sent., Prol., q. 1, Z). Nello stesso spirito, Telesio
diceva che le cose « retta- mente osservate, manifestano da sè la grandezza che
ognuna ha, nonchè la loro capacità, le loro forze, la loro natura» e vedeva
nella sensazione una tale immediata rivelazione delle cose stesse (De rer.
nat., I, Proem.). In generale tutte le dot- trine che affidano alla sensibilità
la conoscenza delle cose tendono a scorgere nella sensibilità stessa la
rivelazione della loro natura e identificano con tale rivelazione o la verità
stessa o il criterio della verità. Dall’altro lato, dalla stessa
interpretazione me- tafisica o teologica della V. come corrispondenza, nasce il
concetto di V. come manifestazione del- l'essere o del principio supremo.
Plotino diceva: «La V. vera non è in accordo con un’altra cosa ma in accordo
con se stessa: essa non enuncia nulla fuori di sè, ma enuncia ciò che essa stessa
è » (Enn., V, 5, 2). In questo senso la V. è ipostatiz- zata: non è il
carattere formale di certi procedi- menti conoscitivi ma un principio
metafisico o teologico che ha la stessa sostanzialità e la stessa dignità del
principio che si manifesta in essa, cioè di Dio. Questo concetto è il tema di
numerose speculazioni nella filosofia patristica e scolastica. S. Agostino
afferma che ci deve essere una natura che è così vicina all’Unità suprema da
riprodurla in tutto e da essere uno con essa; e che questa na- tura è la V. o
Verbo di Dio (De Vera Rel., 36). E che la V. sia, in primo luogo, lo stesso
intelletto o Verbo di Dio è dottrina comune nella Scolastica (AnseLMO, De
Veritate, 14; S. ToMMAasOo, De Veri- tate, q. l, a. 4). Più tardi lo stesso
concetto di V. come rivelazione condusse a riconoscere, sulla base del criterio
del- l'evidenza, l’esistenza di V. eterne. Cartesio vide nel cogito (v.)
l’evidenza originaria, quella per la quale si rivela al soggetto pensante la
sua stessa esistenza; e ritenne che dovesse essere considerato come vero tutto
ciò che si manifesta in modo evi- dente. Nell'ambito di ciò che si manifesta in
tal modo, Cartesio pose le V. eterne, stabilite e garan tite dall’immutabilità
di un decreto di Dio (Méd., IV; Princ. Phil., I, 49). Le V. eterne, sono,
secondo Cartesio, garantite e rivelate direttamente da Dio, perciò sono eterne
(Réponses, VI, 4). E tali le con- sidera anche Malebranche per quanto, a
differenza di Cartesio, ritiene che esse siano, non già poste ma semplicemente
riconosciute e fatte valere da Dio (Recherche de la verité, X éclaircissement).
Ma il concetto della V. come rivelazione fu soprat- tutto caro al Romanticismo
che, in suo aspetto essenziale, si potrebbe designare come filosofia della
rivelazione (v. RoManTticISMO). Hegel di- ceva: « L’Idea è la V.: perchè la V.
è il rispondere dell’oggettività al concetto. Non nel senso che le cose esterne
rispondano alle mie rappresentazioni: queste sono in tal caso solo
rappresentazioni esatte che io ho come individuo. Ma nel senso che tutto il
reale, in quanto è vero, è l’Idea; e ha la sua V. solo per mezzo dell’Idea e
nelle forme dell’Idea » (Enc.). In altri termini, l’Idea è «l’oggettività del
concetto » cioè la razionalità del reale, ma in quanto si manifesta alla
coscienza nella sua necessità, cioè come sapere o scienza (System der
Philosophie, ed. Glockner, I, pa- gina 423; Wissenschaft der Logik, ed.
Glockner, II, pag. 275): e il sapere e la scienza sono l'auto- manifestazione
dell’Idea cioè la sua autentica e completa rivelazione. A metà strada tra la
forma empiristica e la forma teologica di questa concezione della V., sta
quella che essa ha ricevuto per opera della feno- menologia e
dell’esistenzialismo. La fenomenologia è, nel suo stesso concetto, il metodo
per rendere possibile alle essenze di manifestarsi o rilevarsi come tali.
L’epoché (v.) fenomenologica, mettendo in parentesi l’atteggiamento
naturalistico, che con- siste nell’affermare la realtà delle cose nel mondo,
tende a rendere possibile alle cose stesse di mani- festare la loro essenza. Da
questo punto di vista la V. è la stessa evidenza con cui gli oggetti fenome-
nologici si presentano, quando l’epoché è stata ef- fettuata (/deen, I, $ 136).
V. ed evidenza, secondo Husserl, appartengono pertanto non solo agli og- getti
teoretici ma a tutti gli oggetti della conside- razione fenomenologica, siano
anche valori, sen- timenti, ecc. (/bid., $ 139). A sua volta Heidegger ha
insistito sul carattere di rivelazione o di sco- primento della V.,
appellandosi anche all’etimologia della parola greca. Perciò da un lato egli ha
insi- stito sulla stretta connessione del modo d'essere della V. col modo
d'essere dell’uomo cioè con l’esserci: in quanto solo all'uomo la V. può ri-
velarsi e si rivela (Sein und Zeit, $ 44). Dall’altro ha insistito sulla tesi
che il /uogo della V. non è il giudizio e che la V. non è una rivelazione
dicarattere predicativo, ma consiste nell’essere sco- perto dell’essere delle
cose o di queste cose stesse e nell'essere scoprente dell’uomo (/bid., $ 44b;
cfr. Vom Wesen des Grundes, I, trad. ital., pag. 20). Heidegger ha tuttavia
insistito anche sul fatto che ogni scoprimento dell’essere, in quanto
scoprimento parziale, è anche un coprimento di esso; un tema che ricorre
soprattutto nei suoi scritti del secondo periodo. « L'essere si sottrae, mentre
si rivela, all’ente. In tal modo, l’essere, illuminando l’ente, lo svia nello
stesso tempo verso l’errore » (Holzwege, pag. 310). 3° La terza concezione
della V. è quella che la considera come la conformità con una regola o con un
concetto. Questa nozione fu per la prima volta enunciata da Platone. «
Prendendo a fonda- mento, egli diceva, il concetto che io giudico il più saldo,
tutto ciò che mi sembra in accordo con esso lo pongo come vero, sia che si
tratti di cause sia che si tratti di altre cose esistenti; quello che non mi
sembra in accordo con esso, lo pongo come non vero» (Fed., 100a).
Sporadicamente, questa concezione ritorna nella storia della filo- sofia. S.
Agostino affermava che «c’è, sopra la nostra mente, una legge che si chiama V.»
e che noi possiamo giudicare tutte le cose in conformità di questa legge, che
tuttavia sfugge a qualsiasi giudizio (De Vera Rel., 30-31). Nella letteratura
che si ispira a S. Agostino questo tema ritorna frequentemente; ma la più
importante espressione di questo concetto della V. è dovuta a Kant. Kant
veramente si avvale della nozione, non per la de- finizione della V. (giacchè,
come si è detto, di- chiara di presupporre la definizione nominale della V. che
è quella della corrispondenza) ma come criterio della V. stessa. Il criterio
può concernere, secondo Kant, solo la forma della V., cioè del pensiero in
generale; e consiste nella conformità con «le leggi generali necessarie
dell’intelletto ». «Ciò che contraddice queste leggi, afferma Kant, è falso
perchè l'intelletto in tal caso contrasta con le sue stesse leggi, perciò con
se stesso ». Tuttavia questo criterio formale non basta a stabilire la verità
materiale, od oggettiva, della conoscenza; chè anzi il tentativo di trasformare
questo canone di valutazione formale in organo di conoscenza effettiva non è
che l’uso dialettico, cioè illusorio, della ragione (Crit. R. Pura, Logica,
Intr., m; Logik, Intr., vm). Questo criterio fu raccolto e accentuato dai
neo-kantiani soprattutto da quelli della scuola del Baden. Windelband riteneva
che l’oggetto della conoscenza, ciò che misura e de- termina la V. della
conoscenza stessa, non è una realtà esterna (che come tale sarebbe irraggiungi-
bile e inconoscibile) ma la regola intrinseca della conoscenza stessa
(Prdludien, 1884, 4* ediz., 1911, passim). Rickert identificava l’oggerto della
cono- 917 scenza con la norma a cui la conoscenza deve adeguarsi per essere
vera (Der Gegenstand der Erkenntnis, 1892). In questi neo-kantiani la confor- mità
alla regola, che Kant aveva posto semplice- mente come criterio formale della
V., diventa l’unica definizione della V. stessa. 4° La nozione della V. come
coerenza compare nel movimento idealistico inglese della seconda metà del sec.
xIx e viene condivisa da tutti gli apparte- nenti a questo movimento in
Inghilterra e in Ame- rica. Essa venne espressa per la prima volta nella Logica
o morfologia della conoscenza (1888) di B. Bosanquet; ma la sua diffusione fu
dovuta al- l’opera di F. H. Bradley, Apparenza e realtà (1893). La critica del
Bradley al mondo dell’esperienza umana partiva dal principio che ciò che è con-
tradditorio, non può essere reale; e conduceva pertanto Bradley ad ammettere
che la V. o realtà è coerenza perfetta. La coerenza però, attribuita alla
realtà ultima cioè alla Coscienza infinita o assoluta, non è semplice assenza
di contraddizione; è abolizione di ogni molteplicità relativa e forma di
armonia che non si lascia intendere nei termini del pensiero umano (Appearance
and Reality, 2 ed., 1902, pag. 143 sgg.). I gradi di verità raggiungi- bili dal
pensiero umano si possono giudicare © graduare, secondo Bradley, in base al
grado di coerenza che essi posseggono, per quanto tale coerenza sia sempre
approssimativa e imperfetta (Ibid., pag. 362). Questi concetti ritornano in una
numerosa serie di pensatori dello stesso indirizzo (v. IpraLIsMo) senza che la
nozione della coerenza ne venga modificata o chiarita (v. (COERENZA). I
precedenti di questa dottrina si trovano più che in Hegel (al quale tuttavia
gli idealisti inglesi più frequentemente si riferivano) in Spinoza. Essa in-
fatti non è che la trascrizione di quella che Spinoza chiamava « il terzo
genere di conoscenza + o « amore intellettuale di Dio »: cioè della conoscenza
dell’or- dine totale e necessario delle cose, che Spinoza identificava con Dio
stesso (Er., V, 25). 5° La definizione della V. come utilità è propria di
alcune forme della filosofia dell’azione e special- mente del pragmatismo. Ma
il primo a formularla è stato Nietzsche: « Vero, non significa in generale se
non ciò che è adatto alla conservazione dell’uma- nità. Ciò che mi fa perire
quando ci credo non è vero per me, è una relazione arbitraria e illegittima del
mio essere con le cose esterne» (Wille zur Macht, ed. Kréner, $ 78, 507). Fu il
pragmatismo a diffon- dere questa nozione, che fu difesa in primo luogo da W.
James. Questi tuttavia identificò utilità e V. solo nei limiti delle credenze
non verificabili empiricamente o non dimostrabili, quali erano, secondo lui, le
credenze morali e religiose (The Will to Believe, 1897). L'equazione tra
utilità e V. fu estesa a tutta la sfera della conoscenza da F. C. S. Schiller
(Humanism, 1903 e scritti seguenti). Da questo punto di vista una proposizione,
a qual- siasi campo appartenga, è vera solo per la sua effettiva utilità cioè
perchè è utile a estendere la conoscenza stessa o a estendere mediante la cono-
scenza il dominio dell’uomo sulla natura o alla solidarietà e all’ordine del
mondo umano. Un criterio simile veniva presentato da H. Vaihinger nella sua
Filosofia del come se (Philosophie des Als Ob, 1911) e popolarizzato da M. De
Unamuno nella sua Vita di Don Chisciotte e Sancio (1905) (v. PRAG- MATISMO).
Forse si può scorgere una forma diversa di questa stessa concezione nella tesi
di Dewey della strumentalità di ogni procedura conoscitiva, e della conoscenza
nel suo insieme, ai fini del perfe- zionamento della vita umana nel mondo. Non
si trova tuttavia in Dewey la definizione della V. come utilità ma soltanto
l’affermazione del carattere stru- mentale quindi valido, ma non vero, delle
propo- sizioni (Logic, XV; trad. ital., pag. 382-83) (vedi VALIDITÀ). VERITÀ
DOPPIA. V. DOPPIA VERITÀ. VERO (gr. dandé; lat. Verum; ingl. True; franc. Vrai;
ted. Wahr). Gli Stoici distinguevano il V. dalla verità perchè il V. è un
enunciato quindi è incorporeo, mentre la verità, come scienza che contiene
tutti i V., è un modo d'essere della parte egemonica dell’uomo e quindi
corporea. Inoltre il V. è semplice mentre la verità consta di molti V. e la
verità appartiene alla scienza quindi al sa- piente mentre il V. può essere
anche dello stolto (Sesto EMPIRICO, /p. Pirr., II, 81-83; Adv. Dogm., I,
38-42). Nella scolastica il V. fu inteso come uno dei #ra- scendentali (v.)
cioè dei caratteri che appartengono alle cose come tali, indipendentemente dai
loro generi e per esso fu intesa l’intelligibilità della cosa (S. Tommaso, S.
7h., q. 16, a. 3, ad. 3°). VERUM IPSUM FACTUM. Formula di cui si servl G. B.
Vico per esprimere il principio che l’uomo può conoscere solo ciò che egli
stesso ha fatto, perchè la conoscenza di una cosa è la cono- scenza della sua
genesi (De antiquissima italorum sapientia, 1710, $ 1). Ma questo concetto era
de- sunto da Hobbes che lo aveva esposto nel De Ho- mine (1658). Hobbes stesso
aveva ridotto il dominio della conoscenza umana da unlato alle matematiche, i
cui oggetti sono interamente prodotti dall’uomo, dall’altro alla politica e
all’etica che anch'esse trat- tano di oggetti (leggi, convenzioni, princìpi)
creati dall'uomo (De Hom. 10). Analogamente Vico dap- prima restrinse il
dominio della conoscenza umana alle matematiche (nel De Antiquissima) poi lo
estese al mondo della storia, nella Scienza Nuova (1725). Un precedente di
questa dottrina si può trovare VERITÀ DOPPIA nel De Possest (1460) di Cusano,
dove si dice che l’uomo può conoscere gli enti matematici « nozio- nali »
perchè procedono dalla sua ragione e hanno in essa il loro principio, mentre
solo Dio può conoscere gli enti reali che hanno in lui la sua causa (Philosophisch-Theologische
Schriften, ed. Ga- briel, II, pag. 318-20). VETTORE (ingl. Vector; franc.
Vecteur; te- desco Vector). In matematica, una grandezza deter- minata in
quantità, direzione e senso. Esso viene abitualmente rappresentato con una
freccia. White- head ha utilizzato il termine per indicare il rife- rimento
all’esterno dell’esperienza sensibile (Pro- cess and Reality, 1929, pag. 249).
VIOLENZA (gr. Bla; lat. Violentia; ingl. Vio- lence; franc. Violence; ted.
Gewaltsamkeit). 1. Azione contraria all’ordine o alla disposizione della na-
tura. In tal senso Aristotele distingueva il movi- mento secondo natura e il
movimento per V.: il primo è quello che porta gli elementi al loro luogo
naturale; il secondo è quello che li allontana (De Cael., I, 8, 276, a 22) (v.
FISICA). 2. Azione contraria all’ordine morale giuridico o politico. In tal
senso si dice «commettere» o « subire V.». L’esaltazione della V. in questo
senso è stata talora fatta per motivi politici. Così Sorel ha contrapposto la
V. diretta a creare una società nuova alla forza che è propria della società e
dello stato borghese. « Il socialismo deve alla V. gli alti valori morali con i
quali porge la salvezza al mondo moderno » (Réflexions sur la violence; 1906,
tra- duzione ital, pag. 133). VIRTÙ (gr. dpeth; lat. Virtus; ingl. Virtue;
franc. Vertu; ted. Tugend). Il termine designa una qualsiasi capacità o
eccellenza, a qualsiasi cosa o essere appartenga. I suoi significati speci-
fici possono essere ridotti a tre: 1° capacità o po- tenza in generale; 2°
capacità o potenza propria dell’uomo; 3° capacità o potenza propria dell’uomo,
di natura morale. 1° Nel primo senso che è quello della defini- zione generale,
la V. indica una capacità o po- tenza qualsiasi, per es., di una pianta o di un
animale o di una pietra. Machiavelli parla della «V.» dell’arte della guerra
(Principe, 14); e Berkeley delle « V. dell’acqua di catrame» (sottotitolo della
Siris, 1744). 2° Nel secondo senso, la V. è una capacità o potenza propria
dell’uomo. Così, ad es., si chiama virtuoso chi possiede un’abilità qualsiasi,
per es., nel canto o nel suonare uno strumento o nell’uso del grimaldello. A
questo senso della V. ha voluto ri- tornare Nietzsche. «Io riconosco la V. in
questo, egli ha detto: 1° che essa non si impone; 2° che essa non suppone
dappertutto la V. ma precisamente un’altra cosa; 3° che essa non soffre per
l’assenza della V. ma considera questa assenza come un rapporto di distanza
grazie al quale c’è qualcosa di venerabile nella V.; 4° che essa non fa propa-
ganda; 5° che essa non permette a nessuno di fare il giudice perchè è sempre
una V. di per se stessa; 6° che essa fa precisamente tutto ciò che è proibito
(la V. come io la comprendo è il vero veritum in tutta la legislatura del
gregge); 7° che essa è V. nel senso del Rinascimento, V. libera dalla mora-
lità » (Wille zur Macht). 3° Nel terzo senso, il termine designa una ca- pacità
dell'uomo nel dominio morale. Deve trat- tarsi di una capacità uniforme o
continuativa, come già notava Hegel (Fil. del Dir., $ 150 ag- giunta) giacchè
un atto morale non fa virtù. Questa condizione tuttavia non è sempre rispettata
e Locke, per es., parla di V. e di vizio nel senso di atti mo- rali isolati
(Saggio). Le definizioni della V. in questo senso rientrano nelle seguenti rubriche:
a) la capacità di adempiere a un compito o ad una funzione; b) l’abito o la
disposizione razionale; c) la capacità del calcolo utilitario; 4) un sentimento
o tendenza spontanea; e) lo sforzo. a) La V. come capacità di attendere a un
compito determinato è il concetto platonico della virtù. Come la funzione di un
organo, per es., degli occhi è quella di vedere e la possibilità di vedere è la
V. propria degli occhi, così l’anima ha le sue proprie funzioni e la sua
capacità di adempiere ad esse è la V. propria dell’anima (Rep., I, 353). La
diversità delle V. è perciò secondo Platone determinata dalla diversità delle
funzioni cui l'anima deve adempiere o cui deve adempiere l’uomo nello Stato. Le
quattro V. fondamentali o cardinali (v.) sono per l’appunto determinate dalle
funzioni fondamentali dell’anima e della comunità. b) La concezione della V.
come abito (v.) o disposizione razionale costante è quella propria di
Aristotele e degli Stoici ed è la più diffusa nell’etica classica. Secondo
Aristotele, la V. è l’abito che rende l’uomo buono e gli consente di far bene
il suo compito proprio (Ef. Nic., II, 6, 1106 a 22); ed è un abito razionale
(/bid., II, 2, 1103 b 32) nonchè, come tutti gli abiti, uniforme o costante.
Gli Stoici, a loro volta definivano la V. come « una disposizione dell’anima
coerente e concorde, che rende degni di lode coloro in cui si trova ed è di per
se stessa lodevole anche indipendentemente dalla sua utilità » (Cic., Tusc.,
IV, 15, 34; STOBEO, Ecl., II, 7, 60). Queste definizioni sono state ri- petute
innumerevoli volte nella filosofia antica e medievale ed anche nel pensiero
moderno. Esse si trovano, ad es., in Abelardo (Theol. Christ., II), Alberto
Magno (S. 7A., II, q. 102, a. 3), S. Tom- maso (S. 7A., II, 1, q. 55), Leibniz
(il quale distingue le V. come abitudini dalle corrispondenti azioni, 919 Nouv.
Ess., II, 28, 7), e Cristiano Wolff. (Phil Practica, I, $ 321). c) Il terzo
concetto della V., è quello che la considera come la capacità del calcolo
utilitario. Fu Epicuro il primo ad esporre questa nozione, considerando come V.
suprema, dalla quale tutte le altre derivano, la saggezza che giudica sui pia-
ceri che occorre scegliere e su quelli che sono da fug- gire e distrugge le
opinioni che sono la causa delle perturbazioni dell'anima (Dio. L.). Nel
Rinascimento, questa concezione veniva difesa da Telesio che vedeva nella V. la
facoltà di stabilire la misura giusta delle passioni e delle azioni affinchè
non venga da esse alcun danno all’uomo (De rer. nar., IX, 5). E più tardi una
concezione analoga veniva ripresa da Hume (/ng. Conc. Morals, I), e in generale
dall’utilitarismo inglese e special- mente da Bentham che definiva la V. come
«l’at- titudine a produrre la felicità» (Deontology, X). Per quanto questo
concetto della V. sia solitamente proprio dell’empirismo, Spinoza lo condivise:
« Agire assolutamente secondo V., egli scrisse, non è altro per noi che agire,
vivere, conservare il proprio essere (tre cose che significano lo stesso)
secondo la guida della ragione, sul fondamento della ricerca dell’utile» (Er.,
IV, 24). d) Il concetto della V. come sentimento o tendenza, cioè come
spontaneità, fu proprio degli analisti inglesi del *700 a cominciare da Shafte-
sbury. «In una creatura sensibile, egli dice, ciò che non è fatto attraverso un’affezione,
non produce né bene né male nella natura di quella creatura; la quale può
essere detta buona solo quando il bene o il male del sistema con il quale essa
è in relazione è l’oggetto immediato di qualche emo- zione o affezione che la
muove» (Characteristics of Men, Treatise IV, Book I, part. 2, sect. D. Su
questa base Hutchinson postulò un senso morale a fondamento della V. (System of
Moral Philosophy, I, 4): e Adamo Smith definì questo senso morale come simpatia
(Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1). Ma fu soprattutto l’illuminismo
francese a diffondere questo concetto della V., Rousseau parlava della pietà
come di una «V. naturale » che è «una disposizione con- veniente a esseri così
deboli e soggetti a tanti mali come gli uomini» e che precede ogni riflessione
(De l’inégalité parmi les hommes, I); e Voltaire riteneva nello stesso senso
che la V. non è altro che «il far bene al prossimo » (Dictionnaire philo-
sophique, art. Vertu). L'etica del positivismo si riattacca a questa concezione
facendo della V. la manifestazione dell’istinto altruistico (COMTE, Caré-
chisme positiviste, pag. 48; SPENCER, Data of Ethics, $ 46). Nella filosofia
contemporanea una conce- zione analoga si può scorgere nella dottrina di
Bergson della cosiddetta «morale aperta» che è la manifestazione dello slancio
vitale (Deux sources de la morale, 1932, cap. I). e) Infine la dottrina della
V. come sforzo è stata enunciata da Rousseau e fatta propria da Kant. Diceva
Rousseau: « Non c’è felicità senza coraggio nè V. senza lotta: la parola V.
deriva dalla parola forza; la forza è la base di ogni virtù. La V. appartiene
soltanto agli esseri deboli di natura, ma forti di volontà: per questo appunto
rendiamo onore all’uomo giusto e per questo, pur attribuendo a Dio la bontà,
non lo diciamo vir- tuoso, perchè le sue buone opere sono da Lui com- piute
senza sforzo alcuno» (Émile, V). In questo spirito Kant ha definito la V. come
« l’intenzione morale in lotta» che non avrebbe senso nel caso in cui all’uomo
fosse accessibile la santità cioè la coincidenza perfetta della volontà come
legge (Crir. R. Prat., I, libro I, cap. III). Come Cicerone (vedi Coraggio) e
Rousseau, egli ha connesso stretta- mente la nozione di V. con quella di
coraggio: «La qualità speciale e il proposito elevato con cui si resiste a un
forte ma ingiusto avversario si chiama coraggio (fortitudo) e quando si tratta
dell'avversario che l’intenzione trova in noi, si chiama V. (virtus, fortitudo
moralis). Dunque la parte della dottrina generale dei doveri che sotto- mette a
leggi, non la libertà esterna, ma la libertà interna è una dortrina della V.»
(Met. der Sitten, II, Intr., I). In polemica con Kant, Schiller cercò di
ricondurre la dottrina kantiana a quella della V. come spontaneità o
sentimento. « Non ho un buon concetto dell’uomo, scrisse Schiller, che si può
così poco fidare della voce dell’istinto che ogni volta deve farlo tacere
davanti alla legge della morale, e piuttosto rispetto e stimo colui che si
abbandona con una certa sicurezza all’istinto sognatori della sensazione » che
sono quelli che credono di avere la visione di spiriti disincarnati, e i
«sognatori della ragione » cioè i metafisici che anch'essi vi- vono in un mondo
di sogni o di visioni private. VISIONE (ingl. Vision; franc. Vision; tedesco
Anschauung, Traàumerei). 1. Nel senso propriamente filosofico, lo stesso che
intuizione (v.). 2. L’operazione propria del senso della vista. 3.
Allucinazioni, sogni, immagini credute reali di fantasmi o di spiriti
disincarnati. VITA (gr. oh, Bloc; lat. Vita; ingl. Life; francese Vie; ted.
Leben). La caratteristica di certi fenomeni di prodursi o regolarsi da sè; o la
totalità di tali fenomeni. Questa caratterizzazione si da qui soltanto come
quella sulla quale più ampio è l’ac- cordo tra filosofi e tra scienziati, e a
titolo pura- mente descrittivo, senza che il riconoscimento di una
caratteristica propria dei fenomeni della V. implichi il riconoscimento di un
principio o di una causa a sè di tali fenomeni. Vedremo anzi come a certi
livelli della V. la distinzione stessa tra ciò che è V. e ciò che non lo è
diventa oltre modo difficile o perde di senso. La disputa tra vitalismo e
antivitalismo non concerne il problema della ca- ratterizzazione della V.:
concerne invece quello circa l'origine e lo sviluppo della V. stessa; e su tale
problema, v. VITALISMO. Fin dall’antichità i fenomeni della V. sono stati
caratterizzati in base alla loro capacità di auto- produzione: cioè in base
alla spontaneità per cui gli esseri viventi si muovono, si nutriscono, cre-
scono, si riproducono e muoiono, in modo al- meno apparentemente e
relativamente indipendente dalle cose esterne. Platone identificava l’anima e
la V. (Fed., 105c) perchè riteneva propria del- l’anima la capacità di «
muoversi da sè» (Fedro, 245 c). Aristotele intendeva per V. «la nutrizione, la
crescita e la distruzione che si originano da sè stessi » (De An., II, 1, 412 a
13); e per conseguenza riteneva la V. propria degli esseri animali in quanto
«hanno in se stessi una potenza o un principio tale per cui subiscono aumento o
diminuzione nelle VITA direzioni opposte» (/bid., II, 413 a 27). In base allo
stesso concetto della V., Plotino affermava che «ogni V. è pensiero» e che il
pensiero « vive per se stesso » (Enn., III, 8, 8). E S. Tommaso aîffer- mava
che V. significa «la sostanza a cui conviene per sua natura muover se stessa o
condurre se stessa, in qualsiasi modo, all’operazione » (S. 7h.); e che
pertanto l’anima è il principio della V. (/bid., I, q. 75, a. 1). Quando con
Cartesio e Hobbes si affacciò la concezione meccanica della V. e si cominciò a
paragonare l’uomo, e in generale l’organismo vi- vente, a una macchina ben
congegnata, il concetto della V. non mutò, giacchè l'ipotesi meccanistica era
suggerita ai filosofi proprio dalla credenza che « gli automi possono muoversi
da sè » (DESCARTES, Traité de l’homme, pag. 1; HoBBEs, Leviarh., I, Intr.). Ciò
che veniva negato in questo caso era l'identità tra anima e V.: si riteneva
cioè possibile che la stessa materia corporea, in certe forme di
organizzazione, fosse in grado di muoversi o di svilupparsi da sè. La disputa
tra vitalismo e mecca- nicismo (v. VITALISMO) verte proprio su questo: il
meccanicismo afferma che la V. è dovuta a una certa organizzazione
fisico-chimica della materia corporea; il vitalismo ritiene che questa
organizzazione non basta e che la V. dipende da un principio di natura
spirituale, che è, ad es., l’archeus (v.) di Helmont, la natura plastica (v.)
di Cudworth, il dominante (v.) di Reinke, l’ente- lechia (v.) di Driesch, lo
slancio vitale (v.) di Bergson. Leibniz obiettava sia al meccanicismo sia al
vitalismo che essi contraddicono al « grande prin- cipio della fisica » secondo
il quale « un corpo non si muove se non spinto da un corpo vicino e in
movimento »; e riteneva che la sola teoria della V. d’accordo con quel
principio fosse quella del- l'armonia prestabilita, secondo la quale la V.
stessa consiste nella concordanza dell’azione delle sostanze, prestabilita da
Dio (Sur le principe de vie, 1705, in Op., ed. Erdmann, pag. 429 sgg.). Il con-
cetto della V. come auto-regolazione sembra essere semplicemente presupposto da
quella disputa, come dall’osservazione di Leibniz. E lo presuppone Kant quando
afferma che «la ag. 250); o in altri termini con «l’intero che si sviluppa, che
risolve il suo sviluppo e che si mantiene sem- plice in questo movimento»
(Phdnom. des Geistes, I, IV, 1). Dall’altro lato Claude Bernard scriveva: «Le
macchine viventi sono create e costruite in modo che, perfezionandosi, esse
divengano sempre più libere nell'ambiente cosmico generale... La mac- china
vivente conserva il suo movimento perchè il meccanismo interno dell’organismo
ripara, me- diante azioni e forze sempre rinascenti, le perdite provocate
dall’esercizio delle funzioni. Le macchine create dall’intelligenza dell’uomo,
per quanto infi- nitamente più grossolane, non sono costruite al- trimenti»
(Zntr. à l’étude de la médecine expéri- mentale, II, I, 8). Infine, occorre
appena notare che lo slancio vitale in cui Bergson ha riconosciuto la sorgente
della V. non è altro che coscienza, e coscienza creatrice, cioè che trae da se
stessa tutto ciò che produce. « Lo slancio di V. di cui parliamo, dice Bergson,
consiste in una esigenza di creazione. Non può creare assolutamente, perchè
incontra da- vanti a sè la materia cioè il movimento che è l’in- verso del suo.
Ma esso s’impadronisce di questa materia, che è la necessità stessa, e tende a
intro- durvi la più grande somma possibile di indetermi- nazione e di libertà»
(Évol. créatr., 8® edizione, 1911, pag. 273). Lo stesso significato pare che
abbia l’espressione di Whitehead che la vita è « autofrui- zione individuale e
assoluta» (Nature and Life, 1934, II. D'altronde sembra che la scienza stessa
ricorra a una caratterizzazione non diversa dei fenomeni vitali, per quanto eviti
di ipostatizzare in entità o principi tale caratterizzazione. I fenomeni che la
scienza considera come propri della V. cioè il me- tabolismo, la plasticità, la
reattività, la riproduzione, sono appunto uelli in cui il carattere di autore-
golazione è evidente. Quando J. B. S. Haldane ha detto che « qualsiasi modello
autoperpetuantesi di reazioni chimiche » può chiamarsi vivente (« The Origin of
Life » in Rationalist Annual, 1928, pag. 148- 153), non fa che esprimere con
altre parole il vecchio concetto dell’autoregolazione. Al quale fanno ap- pello
anche, sia pure in modo indiretto o con espressioni diverse (come quelle di «
totalità », « ci- clicità », « autonomia », « selettività », ecc.) anche gli
scienziati di più schietta ispirazione materialistica. Ma nonostante la quasi
unanimità che esso rac- coglie, difficilmente il concetto di autoregolazione
può essere considerato in tutti i casi come una caratterizzazione esclusiva dei
fenomeni vitali. Da 922 un lato infatti, a certi estremi della scala biologica
(ad es., per i virus) non è possibile, in base ad esso, decidere se si tratta
di corpi viventi o non viventi. Non è mancato chi, a questo proposito, ha rite-
nuto addirittura privo di senso l’uso della parola V. in riferimento ai sistemi
posti nella zona limite tra la V. e la materia inorganica (N. W. PIRIE, The
Meaninglessness of the Terms «Life» and « Living» in J. NEEDHAM, e D. R. GREEN,
Per- spectives in Biochemistry, 1937, pag. 21 sgg.). Dal- l’altro lato la
releonomia (v.) ritenuta propria degli organismi viventi e interpretata come
attività orien- tata, coerente e costruttiva, non impedisce alla bio- logia
moderna fondata soprattutto sulla genetica e sulla biochimica, di considerare
gli esseri viventi come macchine chimiche, dotate di unità funzionale e che si
costruiscono da sè. Tali macchine esigono l’intervento di un sistema
cibernetico che governi e controlli l’attività chimica nei punti strategici; e
per quanto si sia ben lontani oggi dall’aver chia- rito la struttura dei
sistemi costituenti gli organismi superiori, l’indirizzo della scienza moderna
nelle ricerche biologiche rimane quello segnato dalla ci- bernetica e dalla
biochimica (cfr., ad es., MonNoD, Le hasard et la nécessité, 1970, cap. Il).
VITA, FILOSOFIE DELLA (ingl. Philo- sophies of Life; franc. Philosophies de la
vie; tede- sco Lebensphilosophien). Con questa espressione, che è stata usata
specialmente in Germania, vengono designate quelle filosofie che hanno in
comune la caratteristica di considerare la filosofia come V., piuttosto che
riflessione sulla vita. È un’espressione polemica che consente di accomunare
filosofie di- sparate come quelle di Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler,
James, Bergson, ecc.; e polemicamente questa espressione fu adoperata nel
titolo di un libro di RICKERT, La filosofia della vita (Die Phi- losophie des
Lebens, 1920). VITALISMO (ingl. Vitalism; franc. Vitalisme; ted. Vitalismus).
Termine ottocentesco per indicare ogni dottrina che consideri i fenomeni vitali
come irreducibili ai fenomeni fisico-chimici. Questa irre- ducibilità può
significare varie cose perchè vari sono i problemi le cui soluzioni dividono i
parti- giani e gli avversari del V.: 1° In primo luogo esso significa che i
fenomeni vitali non possono essere interamente spiggari con cause meccaniche;
2° in secondo luogo, significa che un organismo vivente non potrà mai essere
prodotto artificial- mente dall'uomo in un laboratorio di biochimica; 3° in
terzo luogo, significa che la vita sulla terra, o in generale nell’universo,
non ha avuto un’ori- gine naturale o storica, dovuta all’organizzarsi o
all’evolversi della sostanza dell’universo, ma è frutto di un disegno
provvidenziale o di una crea- zione divina. VITA, FILOSOFIE DELLA 1° Dal primo
punto di vista si possono chia- mare vitaliste tutte le concezioni classiche
che, iden- tificando la vita con l’anima, la sottraggono ad ogni influenza
delle forze materiali. Ma in senso più preciso, V. è la dottrina difesa dai
filosofi e scienziati tra la metà del sec. xvm e la metà del sec. x1x, che
pone, a fondamento dei fenomeni vitali una forza vitale indipendente dai
meccanismi fisico-chimici. La caratteristica propria del V. è quelia di
dichiarare inutile la stessa indagine scien- tifica dei fenomeni vitali in
quanto essa non riu- scirebbe mai a cogliere la forza che costituisce l’essenza
della vita. Il V. in questa forma fu reso impossibile dalle scoperte della
biochimica che, a cominciare dal 1828 (data in cui fu effettuata la
fabbricazione sintetica dell’urea) dimostrò la pos- sibilità di produrre nei laboratori
le sostanze or- ganiche. Il neo-vitalismo, prendendo atto di questa
possibilità, riconosce l’utilità dell'indagine fisico- chimica dei fenomeni
vitali, ma continua ad am- mettere l’irreducibilità di questi fenomeni alle
forze fisico-chimiche riconoscendo che ad essi presiede un elemento specifico
variamente denominato [il dominante (v.) di Reinke, l’entelechia (v.) di
Driesch, lo slancio vitale (v.) di Bergson]. La difficoltà principale di
quest’aspetto del V. è l’inopportunità di ammettere una causa sconosciuta e
inaccessibile, che è poco più di un nome e che per di più fa apparire
insignificante o fuori posto l’osservazione sciedella vita stessa. L’in-
teresse della scienza, è, da questo punto di vista, quello di un beninteso
materialismo metodologico, il quale ammette: 1° che i fenomeni vitali hanno
caratteri propri, diversi da quelli fisico-chimici e tuttavia non tali da
stabilire un abisso tra l’uno e l’altro ordine di fenomeni e da rendere impos-
sibile ogni passaggio dall’uno all’altro; 2° che si possa e si debba condurre
avanti l’analisi scienti- fica dei fenomeni vitali come l’unica adatta a dar
ragione di tali fenomeni. Questo è il punto di VIZIO vista assunto da un
numeroso gruppo di biologi contemporanei (cfr., su di essi: G. G. Simpson, The
Meaning of Evolution, cap. X). 3° Circa il problema dell’origine della vita
sulla terra o in generale dell’universo, la vecchia credenza nella generazione
spontanea ammetteva senz’altro, come un fatto non miracoloso ma nor- male,
l’originarsi della vita dalla materia inorganica. Questa vecchia credenza già
confutata dalle espe- rienze di Francesco Redi (1668) e di Lazzaro Spal-
lanzani (1765) fu definitavamente eliminata dalla scienza per opera di Pasteur
(1862). Dall'altro lato, l'ipotesi dalla panspermia (v.) che ammette l’emi-
grazione di semi vitali nell’universo, mentre non è una risposta al problema
dell'origine della vita, appare in contrasto con le condizioni che si sup-
pongono esistere negli spazi intrastellari e soprat- tutto con l’azione battericida
dei raggi ultravioletti. In questa situazione, non esistono che due solu- zioni
alternative. La prima è quella secondo la che li contrappose ai valori
rinunciatari della morale tradizionale (vedi TRASMUTAZIONE). VITA, TERZA
(franc. Troisième vie). Così Maine de Biran chiamò la vita religiosa o mistica
dell’uomo in quanto distinta dalla vita semplice- mente umana che è la libertà
dagli affetti e dalle passioni e dalla vita animale caratterizzata dalle
sensazioni e dagli istinti (Nouveaux essais d’An- thropologie, 1823-24, in
(Euvres, ed. Naville, III, pagina 519). La terza V. è quella che nel /V Evan-
gelo è detta la « V. secondo lo spirito ». VITTORIOSO, ARGOMENTO (gr. è xupi-
ebwy A6yoc). Un argomento famoso con cui Dio- doro Crono, uno dei seguaci della
scuola socratica di Megara (iv-v secolo a. C.) mostrava l’identità del
possibile e del necessario. L'argomento era formulato così: « Da ciò che è
possibile, non può seguire qualcosa di impossibile. Ora è impossibile che ciò
che è passato sia altro da ciò che è stato. Ma se, in un momento anteriore,
fosse stato pos- sibile qualcosa di diverso da ciò che è stato, dal possibile
sarebbe venuto fuori l'impossibile: dunque, ciò che è diverso da ciò che è
stato non era pos- sibile ad alcun momento. Ed è per conseguenza impossibile
che possa accadere qualcosa che non accada realmente» (EPITTETO, Diss., II, 19,
1; confronta CICERONE, De fato, 6 sgg.). Limitando la possibilità a ciò che è
realmente accaduto, Diodoro affermava la necessità di tutto ciò che accade:
cioè l’impossibilità che ciò che accade possa ac- cadere diversamente da come
accade (v. NECES- saRIO; PossisiLe). Nella filosofia contemporanea l’argomento
è fatto proprio da N. Hartmann, con esplicito riferimento a Diodoro Crono
(Méglichkeit und Wirklichkeit). VIVACITÀ (ingl. Vivacity). La caratteristica
fondamentale che distingue le impressioni dalle idee, secondo Hume: impressioni
e idee si somi- gliano ma le prime hanno dalla loro parte mag- giore « forza e
V.» sicchè inclinano alla credenza (Treatise, I, I, 1; I, III, 7). VIZIO (vitium;
ingl. Vice; francese Vice; ted. Laster). Il contrario della virtù, nei vari
significati di questo termine. In riferimento al concetto aristotelico-stoico
della virtù come abito razionale della condotta, il vizio è un abito o una
disposizione irrazionale. Precisamente sono vizi, in questo caso, gl’estremi
opposti di cui la virtù è la medietà: per es., l'astinenza e l’intemperanza nei
confronti della moderazione, la codardia e la temerarietà nei confronti del
coraggio, ecc. In questo senso ‘vizio’ non si applica che alle virtù etiche. In
riferimento alle virtù dia-noetiche o intellettive, ‘vizio’ significa
semplicemente la mancanza di esse: mancanza che, secondo il LIZIO, è vergognosa
solo come mancata partecipazione alle cose eccellenti di cui partecipano tutti
gl’altri o quasi tutti o almeno quelli che sono simili a noi, cioè della nostra
città, famiglia o classe sociale (Rer.). Pertanto il senso più generale di ‘vizio’
è la mancanza o il difetto di qualche caratteristica che un oggetto può
pertanto anche essere un vicolo cieco (blind- alley vocarion). VOLGARE (vulgaris;
ingl. Vulgar; francese Vulgaire; ted. Gemein). In senso NON peggiorativo –
Grice, “vulgar connectives” --, ‘volgare’ è usata da Tertulliano che mette in
valore la testimonianza contenuta nelle espressioni che IL POPOLO (‘the lay’) adopera:
le quali: dice Tertulliano, sono ‘volgari’ ‘perchè comuni, comuni perchè
naturali, naturali perchè divine, De testimonio animæ. Vico dice che le
tradizioni V. devono avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si
conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi, Sc. Nuova). VOLONTA
(gr. Botamow; voluntas; inglese Will; franc. volonté; ted. Wille). Il termine ‘volontà’
è stato usato in due significati fondamentali.Come il principio razionale
dell’azione. Come il principio dell’azione in generale. Entrambi questi
significati sono propri tuttavia della filosofia tradizionale, perchè sono
collegati con la nozione di facoltà o poteri originari dell'anima che si
combinerebbero assieme per produrre le manifestazioni dell’uomo (v. FACOLTÀ).
Ma la filosofia non interpreta ora in questo modo la condotta dell’uomo. Le
nozioni di COMPORTAMENTO (v.) e di forma (v.) nonchè l’indirizzo
funzionalistico della psicologia (v.) non consentono di parlare di princìpi
dell'attività umana e pertanto la classificazione intelletto-V. o quella
intelletto-sentimento-V. PERDONO il loro significato letterale. Talvolta il
termine ‘volonta’ vieoè facoltà d’agire secondo la rappresentazione di regole
(Grundlegung der Metaphysik der Sitten – CITED BY H. P. GRICE – volvntas).
Fichte non intende una cosa molto diversa affermando che la volonta è la
facoltà di compiere il passaggio dall’indeterminatezza alla determinatezza con
coscienza, una facoltà che la ragione teoretica costringe a pensare che esiste
(Sifrenlehre). In senso analogo, Hegel afferma che la volonta è universale nel
senso in cui universale significa razionalità (Fil. del Dir.). La distinzione
di CROCE (si veda) tra la forma economica utilitaria e la forma etica o morale
dell’attività pratica corrisponde alla distinzione tradizionale tra mero
DESIDERIO e volontà propriamente detta. La forma economica – il desiderio -- è,
secondo CROCE (si veda), volizione del particolare cioè dell’UTILE (futile), la
forma morale volizione dell'universale; cioè, appetizione RAZIONALE (Filosofia
della PRATICA). Alla nozione di V. come appetito razionale si può anche
ricondurre la tendenza della psicologia moderna a distinguere la V. stessa
dagli impulsi e a considerarla come condizionata da una mani- polazione di
simboli. Dice, ad es., G. Murphy: «La V. è il nome con cui si indica un
complesso processo intimo che influenza il nostro comporta- mento in modo da
renderci meno facilmente preda della pura forza bruta degli impulsi.
Discorriamo con noi stessi, introduciamo modi diversi di espri- mere la nostra
situazione, ci immaginiamo le conse- guenze dei vari tipi di risposta e
cerchiamo di valu- tare quanto ognuno di essi ci piacerà » (Introduction to
Psychology, 1950, cap. IX, trad. ital., pag. 163). Ciò che la psicologia
moderna chiama «elaborazione di simboli » è quello stesso che nella
terminologia tradizionale si chiamava « processo razionale ». Infine la stessa
nozione di V. è implicita nelle espressioni V. pura, V. buona, V. generale, V.
di credere. La V. pura è, secondo Kant, la V. determinata, non da particolari
motivi empirici, ma soltanto da princìpi a priori cioè da leggi razionali
(Grund/egung der Metaphysik der Sitten, pref.). La V. buona, anche secondo
Kant, è la V. di agire esclusivamente in conformità del dovere e è in tal senso
esaltata da Kant come ciò di cui nulla c’è di meglio al mondo o anche fuori del
mondo (Ibidem I). La V. generale è concepita dagli ro lato la V. è stata talora
identi- ficata con il principio dell’azione in generale cioè con l’appetizione.
Il primo ad esporre questo con- cetto generalizzato della V. è S. Agostino, il
quale affermò che «la volontà è in tutti gli atti degli uomini, anzi tutti gli
atti nient’altro sono che volontà » (De Civ. Dei, XIV, 6). S. Anselmo ripeteva
questa nozione (De Libero Arbitrio, 14, 19) che nell’età moderna veniva
accettata da Cartesio. Cartesio, come S. Agostino, chiamò 925 V. tutte le
azioni dell'anima, in opposizione con le passioni: « Quelle che io chiamo
azioni sono tutte le nostre V. perchè noi sperimentiamo che esse vengono
direttamente dal nostro animo e sembrano dipendere solo da esso, mentre le af-
fezioni sono tutte le percezioni o conoscenze chLocke definiva la V. come « il
potere di cominciare o non cominciare, continuare o interrompere certe azioni
del nostro spirito o certi moti del nostro corpo, semplicemente con un pensiero
o la prefe- renza dello spirito stesso » (Saggio, II, 21, 5). E Hume dichiarava:
« Per V. non intendo altro se non l’impressione interna, che sentiamo o di cui
siamo consci, quando consapevolmente diamo origine a un nuovo movimento del
nostro corpo o a una nuova percezione del nostro spirito » (Treatise, II, III,
1). Hume negava pure ogni influenza della ragione sulla V. così intesa,
riducendo le cosid- dette volizioni razionali alle emozioni tranquille connesse
o con istinti originari della natura umana come la benevolenza e il
risentimento, l’amore della vita, l). Secondo queste interpretazioni in- fatti
sarebbero atti volontari quelli in cui l’impulso determinante è costituito da
un atteggiamento di riguardo o di esaltazione dell’Io di fronte a se stesso.
Infine nel senso più generale la V. è intesa nelle espressioni V. di vivere e
V. di potenza. La V. di vivere che, secondo Schopenhauer è il noumeno del
mondo, non ha nulla di razionale: «è un cieco, irresistibile impeto, che noi
già ve- diamo apparire nella natura inorganica e vege- tale, come anche nella
parte vegetativa della nostra propria vita ». Pertanto « ciò che la V. sempre
vuole è la vita, appunto perchè questa non è che il mani- festarsi della V.
stessa nella rappresentazione: ed è semplice pleonasmo dire V. di vivere invece
di V.» (Die Welt, I, $ 54). Analogamente la V. di potenza è, secondo Nietz-
sche, un impulso fondamentale che non ha nulla di razionale: « La vita, in
quanto caso particolare, aspira al massimo possibile sentimento di potenza.
Essa è essenzialmente l’aspirazione a un soprappiù di potenza. Aspirare non è
altro che aspirare alla potenza. Questa V. rimane ciò che v'è di più in- timo e
di più profondo: la meccanica è una sem- plice semiotica delle conseguenze
(Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 296). VOLONTARIO (ingl. Voluntary; franc. Vo-
lontaire; ted. Freiwillig). 1. Che appartiene alla volontà o concerne la
volontà. 2. Lo stesso che libero (v. LIBERTÀ). VOLONTARISMO (ingl. Voluntarism;
fran- cese Volontarisme; ted. Voluntarismus). Il termine, che fu usato per la
prima volta da Ténnies nel 1883 e diffuso da Wundt (cfr. EUCKEN, Geistige
Stròomungen der Gegenwart, pag. 33), è stato adoperato a indicare due indirizzi
dottrinali diffe- renti: 1° quello che afferma il primato della volontà
sull’intelletto; 2° quello che vede nella volontà la sostanza del mondo. 1° Il
primo indirizzo è gnoseologico ed etico. Il termine è stato in questo senso
applicato a ca- ratterizzare alcune correnti della filosofia medie- vale.
Enrico di Gand (morto nel 1293) affermò la superiorità della volontà
sull’intelletto perchè VOLONTARIO l’abito, l’attività e l’oggetto della volontà
sono superiori a quelli dell’intelletto. Infatti l’abito della volontà è
l’amore, quello dell’intelletto è la sapienza; e l’amore è superiore alla
sapienza. L’attività del volere s’identifica con l’oggetto di esso che è il
fine, mentre l’attività dell’intellietto rimane sempre distinta e separata dal
suo oggetto. Infine, l’oggetto del volere è il bene che è il fine assoluto,
mentre l’oggetto dell’intelletto è il vero, che è uno dei beni, quindi
subordinato al fine ultimo (Quodi., I, q. 14). Duns Scoto affermò a sua volta
il primato della volontà ma su un altro fondamento: in quanto cioè non la bontà
dell’og- getto causa necessariamente l’assenso della volontà, ma la volontà
sceglie liberamente il bene e libe- ramente lotta per il bene maggiore (Op.
Ox., I, d. 1, q. 4, n. 16). A questa dottrina si collega l’al- tra secondo la
quale il bene e il male consistono nel comando divino. « Dio non può volere
qualcosa che non sia giusto perchè da numerosi psicologi nei primi decenni del
sec. xx. 2° Il V. metafisico è quello iniziato da Scho- penhauer, che ha visto
nella volontà la sostanza o il noumeno del mondo. mentre ha considerato il
mondo naturale come la manifestazione o rive- lazione della volontà. Come
apparenza o feno- meno, il mondo è rappresentazione; come so- stanza o noumeno,
il mondo è volontà. La volontà è l’essenza del corpo umano, nel quale è colta
di- rettamente e in se stessa, come di ogni altro corpo e si identifica con
qualsiasi forza del mondo (Die Welt, I, $ 19). Come tale la volontà deter- mina
lo stesso mondo della rappresentazione che viene definito da Schopenhauer come
« ogget- tività della volontà » e asservisce a sè questo mondo facendolo
apparire nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità che sono le
forme del fe- nomeno (/bid., $ 23). Queste idee hanno trovato spesso
accoglimento parziale nei filosofi della fine del secolo scorso: basti qui
ricordare i Nuovi VUOTO saggi d’antropologia (1823-24) di Maine de Biran e la
Filosofia dell'inconscio di Eduard von Hart- mann (1869). VOLUTTÀA. V. PIACERE.
VORTICE (gr. 8îvoc; lat. Vortex; ingl. Vortex; franc. Vortex; ted. Wirbel). Un
concetto fondamen- tale della fisica antica. Anassagora considerava il V. come
il mezzo di cui si avvale l’intelletto divino per ordinare il mondo (CLEMENTE,
Strom., II, 14). Democrito lo considerava come «la causa della generazione di
tutte le cose » e lo identificava con la necessità (Dioc. L., IX, 45). Epicuro
ri- 927 prendeva lo stesso concetto (/bid., X, 90) che nell'età moderna veniva
ancora utilizzato da Car- tesio (Phil. Princ., II, 33). VUOTO (gr. xevéy; lat.
Vacuum; ingl. Vacuum; franc. Vide; ted. Leere). L’esistenza del V. è uno dei
teoremi fondamentali della concezione dello spazio come il contenente degli oggetti
(v. SPAZIO). Leibniz parlò di un « V. di forme » (vacuum forma- rum) che ci
sarebbe se non ci fossero sostanze capaci di tutti i gradi di percezione cioè
sia infe- riori, sia superiori agli uomini (Op., ed. Erdmann, pag. 431). W
WELTANSCHAUUNG. V. INTUIZIONE DEL MONDO. X X. r. Come simbolo dell’incognita,
la lettera viene talora adoperata in filosofia. L’adoperò Kant nella prima
edizione della Critica della Ragion Pura e nell’Opus Postumum: «L'oggett(ted.
Yle sensuelle). Husserl ha indicato con questo termine i contenuti sensi- bili
(colori, suoni o anche piaceri, dolori, impulsi, ecc.) che, in sè privi di
riferimento intenzionale, acquistano tale riferimento nell’esperienza vissuta;
sicchè essi sono distinti dalla loro forma intenio- nale e nello stesso tempo
uniti con essa (/deen, I, $ 85) (v. ILETICO). YOGA. Uno dei principali sistemi
filosofici in- diani, che consiste essenzialmente in una tecnica
dell’ascetismo. Il testo fondamentale di questo sistema sono i Yogasutra di
Patanyali: opera pro- babilmente composta tra il v e il vi secolo d. C., forse
su frammenti o documenti più antichi. Lo Y. le cui dottrine coincidono
sostanzialmente con quelle del sistema Samkhya, ma con un’accentua- zione
teistica, consiste essenzialmente nella descri- zione di esercizi graduali per
ottenere la perfetta liberazione dell'anima. I gradi fondamentali sono otto: 1°
restrizione morale; 2° cultura dell’anima con lo studio dei testi sacri; 3°
positure convenienti alla meditazione; 4° controllo del respiro; 5° con- trollo
dei sensi; 6° concentrazione; 7° attenzione continuata; 8° raccoglimento
assoluto (samadhi) nel quale scompare la dualità tra chi contempla e l'og-
getto contemplato. Dallo Y. si distingue lo Hatha- yoga © Y. violento che
suggerisce gli esercizi in- tesi ad allentare il vincolo tra l’anima e il corpo
(cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, pa- gina 98 sgg.). Z ZELOTIPIA
(lat. Zelotypia). È, secondo Baum- garten, l’amore che vuole che l’amore
dell’amato sia proporzionato al proprio (Mer., $ 905). ZEN. La corrente
buddistica, fondata da Bo- dhidharma in Cina nel 527 d. C., introdotta in
Giappone da Ei-Sai nel 1191 e qui sviluppatasi con caratteri propri. Il suo
insegnamento fondamentale è l’eliminazione del contrasto, proprio del bud-
dismo, tra il mondo dell’apparenza (samsara) e il nirvana; e il suo compito è
quello d’insegnare a scorgere (e realizzare) il nirvana nelle più semplici e
modeste manifestazioni della vita quotidiana. Così un maestro dello Z. enumera
i dieci passi succes- sivi che costituiscono il lavoro dell’intera vita di un
seguace dello Z.: 1° un seguace dello Z. deve credere che vi è un insegnamento
(lo Z.) trasmesso fuori della dot- trina buddistica generale; 2° deve avere una
conoscenza definita di que- sto insegnamento; 3° deve capire perchè sia
l’essere senziente sia l’essere non senziente può predicare il dharma (cioè la
legge del mondo); 4° dev’essere capace di vedere la sostanza come se
contemplasse qualcosa di vivido e di chiaro proprio nella palma della sua mano;
il suo passo deve essere sempre deciso e fermo; 5° deve avere « l’occhio del
dharma +; 6° deve camminare sul « sentiero degli uccelli » e sulla «strada
dell’al di là » (o «strada del mira- colo 1); 7° deve saper adempiere sia a un
ruolo posi- tivo sia un ruolo negativo nel dramma dello Z.; 8° deve distruggere
tutti gli insegnamenti eretici e ingannevoli e additare quelli giusti; 9° deve
acquistare grande forza e flessibilità; 10° deve entrare nell’azione e
praticare dif- ferenti modi di vita. Lo Z. ha suscitato negli ultimi anni
interesse notevole nei paesi occidentali e specialmente in America dove è stato
talora anche considerato in rapporto con vari aspetti della cultura occidentale
(confronta la bibliografia contenuta nella traduzione italiana di A. W. WATTS,
The Spirit of Z.. Per i dieci gradi dell’iniziazione dello Z., con- fronta
CÒang CHEN-CHI, The Practice of Z., 1959, pag. 33). ZERO (ingl. Zero; franc.
Zéro; ted. Null). Lo Z. è stato introdotto come numero solo nella ma- tematica
moderna. Peano l'ha incluso tra le no- zioni primitive del suo sistema logico
(v. ARIT- METICA). Russell ha definito lo Z. come «la classe il cui solo membro
è la classe nulla » (Introduction to Mathematical Philosophy, III; trad. ital.,
pa- gina 35). In senso metaforico, talvolta, si dice punto Z. per indicare il
punto di incontro o di equilibrio di possibilità diverse. Dice Kierkegaard: «
Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione
di conservare la mia esi- stenza al punto Z., tra il freddo e il caldo, tra la
saggezza e la stupidaggine, tra qualche cosa e il nulla, come un semplice
forse» (Werke, IV, pa- gina 246). ZETETICO (gr. tnonawx66; ingl. Zeteric; fran-
cese Zététique; ted. Zetetisch). Investigativo o in- quisitivo. Il termine fu
dapprima applicato da Tra- sillo a designare un gruppo di dialoghi platonici
(Diog. L., III, 49; cfr. ARISTOTELE, Pol., 1256a 12). In seguito fu assunto
come la denominazione dell’atteggiamento scettico: « L'indirizzo scettico si
chiama Z. dall’azione del cercare e dell’indagare; sospensivo per la
disposizione d’animo che con- serva dopo l’indagine rispetto all’oggetto
indagato; e dubitativo per il suo dubitare e investigare intorno a ogni cosa»
(Sesro EMP., /p. Pirr., I, 7). 930 Zetetica è stata talora chiamata quella forma
dell'analisi matematica che mira alla determina- zione delle grandezze
incognite. ZOOLATRIA (ingl. Zoolatry; franc. Zoolatrie; ted. Zoolatrie). Il
culto prestato agli animali in quanto creduti manifestazioni o incarnazioni
della divinità. La Z. fu propria di molte religioni an- tiche: di quella
egiziana, di quella frigia e di quella siriaca (cfr. F. CuMONT, Les religions
orien- tales dans le paganisme romain, 1906 passim) (vedi TOTEM). ZOROASTRISMO
(ingl. Zoroastrianism; fran- cese Zoroastrisme; ted. Zoroastrismus). La
religione persiana, conosciuta anche come mazdaismo o par- sismo, stabilita da
Zaratustra (vi secolo a. C.) e che ha il suo principale documento nello Zenda-
vesta. L'insegnamento principale di questa reli- gione è il dualismo tra due principi
opposti detti rispettivamente Ormuz (Ahura Mazdah) e Ariman ZOOLATRIA (Angra
Manyu) per cui essa si presenta in primo luogo come una soluzione del problema
del male (v. MALE, 1, bd). ZUINGLISMO (ingl. Zwinglianism; franc. Zwin-
glianisme; ted. Zwinglianismus). La dottrina del ri-formatore Zuinglio che
condivise con l’umanesimo l’idea di una sapienza religiosa originaria dalla
quale deriverebbero sia i testi delle Sacre Scritture sia quelli dei filosofi
pa- gani. Zuinglio ritenne perciò che la rivelazione è universale e che Dio è
la forza che regge il mondo e si rivela in tutte le cose. Caratteristiche della
dottrina di Zuinglio sono anche la dottrina della predestinazione (v.) e l’in-
terpretazione dei sacramenti, compresa l’Eucarestia, «come pure cerimonie
simboliche. Su questo punto cadde il dissenso tra Lutero e Zuinglio.
Diversamente da Lutero, Zuinglio negava anche il valore assoluto dell’autorità
politica. Nicola Abbagnano. Abbagnano. Keywords: filosofia latina, filosofia
romana, filosofia italiana, impiegare, implicare, dizionario filosofico. Luigi Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
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