Grice ed Alici:la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale reciproca – la scuola di Grottazzolina – filosofia marchese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Grottazzolina). Filosofia marchese. Filosofo italiano. Grottazzolina, Fermo, Marche. Grice:
“If an Italian philosopher tells me he believes in God, I stop calling him
‘philosopher’!” --. Grice: “I like Alici; he has philosophised on some of
the topics *I* did, since it should not surprise anyone, since we are
philosophers (if I’m also a cricketer!) --.Grice: “I will organize some
overlaps in hashtags: compassione. – serious study – il terzo incluso – I
curiazi, i moscheteri -- ”:noi dopo di noi,” ‘we after we’ – the meta-language –
romolo e remo; ossia, il bene condiviso;:romolo e remo; ossia, condividere la
deliberazione; eurialo e isso, ossia, dall’io al noi; colloquenza romana; amore:
l’angelo della gratitudine; eurialo e nisso: amore d legarsi – la reciprocita;
pilade ed oreste -- luigi Alici
Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana. Presidente nazionale dell'azione
cattolica italiana, Allievo di Rigobello, insegnato a Perugia, Roma, e Macera.
Direttore della Scuola di Studi Superiori Leopardi. Studia Agostino. Saggi dedicati
al rapporto tra interiorità e intenzionalità, comunicazione e azione, libertà e
bene, con particolare attenzione alle tematiche dell'identità personale e della
reciprocità a-simmetrica, esaminate anche sotto il profilo della loro rilevanza
morale – anche temi della fragilità e della cura, e il rapporto tra natura,
tecnologia e libertà. Impegnato fin da
giovane nell'azione cattolica, ha ricoperto numerosi incarichi, responsabile
dell'Ufficio studi; direttore della rivista culturale "Dialoghi";
consigliere dell'associazione dall’assemblea nazionale, e presidente del
consiglio. Membro del consiglio dell'Istituto per lo studio dei problemi
sociali e politici Bachelet di Roma; Comitato Scientifico della Collana di
“Filosofia morale” (Vita e Pensiero, Milano); Comitato di direzione della
rivista “Dialoghi” (Roma); Consiglio Scientifico del “Centro di Etica Generale
e Applicata” (Pavia); Comitato scientifico della rivista “Hermeneutica”
(Urbino). Membro del Comitato Scientifico della Fondazione “Lanza” (Padova).
Dirige inoltre la sezione di Filosofia della Collana “Saggi” (La Scuola
Editrice, Brescia) e della Collana “Percorsi di etica” (Aracne Editrice, Roma).
Altri saggi: “Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di
Agostino”(Edizioni Studium, Roma); “Tempo e storia. Il "divenire"
nella filosofia” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il pensiero del Novecento Editrice
Queriniana, Brescia); “Il valore della parola. La teoria degli "Speech
Acts" tra scienza del linguaggio e filosofia dell'azione” (Edizioni Porziuncola,
Assisi PG); “Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi (PG)); “La
dignità degli ultimi giorni” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “Con
le lanterne accese. Il tempo delle scelte difficili, Ave Edizioni, Roma); “L'altro
nell'io. In dialogo con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il terzo
escluso, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “La via della speranza.
Tracce di futuro possibile” (Edizioni
Ave, Roma); “Cielo di plastica. L'eclisse dell'infinito nell'epoca delle
idolatrie” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo), (Premio "CapriSan
Michele); “Amare e legarsi. Il paradosso della reciprocità, Edizioni Meudon,
Portogruaro); “Filosofia morale” (Editrice La Scuola, Brescia); “I cattolici e
il paese. Provocazioni per la politica” (Editrice La Scuola, Brescia); “L'angelo
della gratitudine, Edizioni Ave, Roma); “Cittadini di Galilea. La vita
spirituale dei laici” (Quaderni di Spello”, Edizioni Ave, Roma, (Premio “CapriSan Michele); “Il fragile e il
prezioso. Bio-etica in punta di piedi, Editrice Morcelliana, Brescia); “InfinitaMente.
Lettera a uno studente sull'università, EUM, Macerata,. Edizioni di opere di
Sant'Agostino La città di Dio, Rusconi, Milano; Bompiani, Milano. La dottrina
cristiana, Edizioni Paoline, Milano; Confessioni, Sei, Torino, Manuale sulla
fede, speranza e carità, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma.
“Il potere divinatorio dei demoni, Collana La vera religione, Città Nuova
Editrice, Roma; La natura del bene, Città Nuova Editrice, Roma; Il libro della
pace. «La città di Dio, XIX», Editrice La Scuola, Brescia); “Agostino nella
filosofia del Novecento (con R. Piccolomini e A. Pieretti), 4Città Nuova
Editrice, Roma (comprende: Esistenza e libertà, Interiorità e persona, Verità e
linguaggio, Storia e politica). Azione e persona: le radici della prassi,
V&P, Milano, Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il
Mulino, Bologna, La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino” (Città
Nuova Editrice, Roma, Filosofi per l'Europa. Differenze in dialogo con Totaro,
Eum, Macerata, Agostino. Dizionario enciclopedico, di Allan D. Fitzgerald edizione
italiana curata assieme a Antonio Pieretti, Città Nuova Editrice, Roma); “Forme
del bene condiviso, Il Mulino, Bologna, “La felicità e il dolore. Verso
un'etica della cura” Aracne Editrice, Roma,. Dialogando. Idee, pensieri,
proposte per il nostro tempo, Edizioni Ave, Roma); “Unità e pluralità del vero:
filosofia, religioni, culture, Archivio di filosofia); “Il dolore e la
speranza. Cura della responsabilità, responsabilità della cura, Aracne
Editrice, Roma); “Prossimità difficile. La cura tra compassione e competenza,
Aracne Editrice, Roma); I conflitti religiosi nella scena pubblica. I: Agostino
a confronto con manichei e donatisti, Città Nuova Editrice, Roma); “Noi dopo di
noi. Accogliere, rigenerare, restituire: nella società, nell'educazione, nel lavoro”
(FrancoAngeli, Milano); “I conflitti di valore nello spazio pubblico. Tra
prossimità e distanza, Aracne Editrice, Roma); “I conflitti religiosi nella
scena pubblica. II: Pace nella civitas, Città Nuova Editrice, Roma); “La fede e
il contagio. Nel tempo della pandemia, (con G. De Simone eGrassi), Ave, Roma.
L'umano e le sue potenzialità: tra cura e narrazione (conNicolini), Aracne,
Roma. L’etica nel futuro (con F. Miano), Ortothes, Napoli-Salerno. Pagina di
presentazione nel docenti
dell'Università degli Studi di Macerata, su docenti.unimc. Dialogando. Il blog di Luigi Alici, su luigialici.blogspot.
Predecessore Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Successore
Paola Bignardi. “Love and duty are the cement of society” (Elster). “Love and duty are *not*
the cement of society. The mechanism is *reciprocity*. Seemingly co-operative,
helpful, altruistic behaviour, based on versions of the ‘I’ll-scratch-your-
back-you-scratch-mine’ principle, require no nobility of spirit. Greed and fear
suffice as motivation: greed for the *fruit* of co-operation, and fear of the
consequence of *not* reciprocating the co-operative helpful overture of the
other.” (Binmore).
Chi tra Elster e Binmore ha ragione? Chi che vede nell’amore il “cemento della
società”, o chi che considera invece la reciprocità dei due soggetti, basata su
egoismo e paura, come il meccanismo sufficiente per tenere assieme la società?
Oppure le cose sono più complicate? Grice propone di penetrare all’interno
delle dinamiche della gratuità, della reciprocità e del tipo di razionalità che
sottostanno ad esperienze conversazionale che potremmo chiamare “sociali”, come
sono quelle dell’Economia di Comunione Conversazionale [cf. Bruni e Pelligra].
In particolare ci domandiamo a quali condizioni un soggetto o un’impresa mossi da
una razionalità diversa da quella standard possano sopravvivere e svilupparsi
in un contesto dove esiste una eterogeneità di soggetti interagenti. Inizieremo
evidenziando le caratteristiche base dell’idea di razionalità che muove l’homo
oeconomicus, cioè l’agente considerato “standard” dalla teoria economica
convenzionale. Quindi introdurremo un tipo di agente non standard, mosso da una
razionalità in cui l’azione donativa ha una ricompensa intrinseca. Questo fa in
modo che la reciprocità possa assestarsi come equilibrio stabile. Nella sezione
3 vedremo che, quando agenti eterogenei interagiscono tra di loro, le cose si
complicano e gli esiti non sono più scontati. Per far questo ci serviremo della
forma più elementare di giochi evolutivi; saremo, così, in grado di mostrare i
risultati più interessanti del modello, che espliciteremo nelle conclusioni.
Smerilli Bruni Bellanca, Crivelli, Gori,
Gui, Pelligra Zarri. Perché è così difficile cooperare (per l’economia)? L’idea
di razionalità è dove sono maggiormente concentrate le assunzioni della scienza
economica circa il comportamento umano, che potremmo anche chiamare
antropologia filosofica, o psicologia filosofica. La razionalità economica, non
cerca, principalmente, di descrivere il comportamento “quale è” nella realtà,
ma piuttosto di individuare dei criteri di comportamento ottimo, razionale
appunto, che fanno in modo di poter individuare tra i tanti comportamenti
possibili quelli ottimizzanti – anche se tra analisi descrittiva e normativa
esiste poi uno stretto rapporto. Le caratteristiche base dell’idea standard di
razionalità economica, possono essere sinteticamente enucleate guardando alle
assunzioni, che restano spesso implicite, del “gioco” più famoso utilizzato oggi
in economia: il cosiddetto dilemma del prigioniero. Esso, nell’ambito della
teoria dei giochi1, è usato per mostrare come la ricerca dell’individualistico
tornaconto, in molte situazioni (in particolare in quelle dove non è possibile
stipulare un contratto vincolante per le parti), non solo non porta al bene
comune, ma neanche al bene privato dei singoli individui. La logica che
sottende il gioco è usata per spiegare molti dei dilemmi dovuti all’assenza o
al mal funzionamento dei mercati: dall’inquinamento, alla congestione del
traffico, alle difficoltà della co-operazione. Il gioco rappresenta
l’interazione tra due individui, che chiamiamo Romolo e Remo, identici (hanno
le stesse informazioni e la stessa struttura di preferenze, i due elementi che
fanno la diversità tra gli agenti economici –a cui va aggiunto, nel caso di
imprese, il potere di mercato). Romolo e Remo si trovano a scegliere in una
situazione ‘strategica’ di inter-dipendenza, ciascuno sa di avere di fronte un
soggetto identico a sé, con le stesse preferenze, e *entrambi* conoscono la
struttura del gioco (le ricompense, o pay-off associati agli esiti, che
dipendono dalle proprie azioni o muoti conversazionali e da quelle
dell’altro/i). Quali sono le preferenze? Per restare nel concreto, pensiamo ad
una situazione famigliare: la raccolta differenziata dei rifiuti (ma il
ragionamento, come si capirà immediatamente, è di portata più universale).
L’ordine di preferenze dei nostri due giocatori, e in generale dell’homo
oeconomicus standard che di norma l’economista ha in mente quando descrive il
mondo, sono le seguenti. Al primo posto Romolo ed Remo – o Eurialo e Niso --
mettono: “l’altro fa la raccolta e io no”. A questo esito del gioco associamo
il punteggio massimo, diciamo 4 punti. Al secondo posto “tutti la facciamo, me
compreso” (3 punti). Al terzo “nessuno la fa” (2 punti). Al quarto “solo io
faccio la raccolta differenziata” (1 punti). La tabella e il grafico
sottostanti (che sono due modi diversi di rappresentare questa situazione,
rispettivamente in forma normale ed estesa) rappresentano sinteticamente la
struttura del gioco. La teoria dei giochi è oggi pervasiva nella teoria
economica. Essa è soprattutto un linguaggio che consente di rappresentare in
modo molto efficace interazioni (chiamate “giochi”) di tipo ‘strategico’, cioè
situazioni nelle quali i guadagni, non solo monetari (chiamati pay-off,
ricompense), dipendono dalla scelta dell’ altro soggetto o individuo inter-agente
con lui, e non solo dalla propria (deliberazione condivisa). La teoria dei
giochi ha oggi un campo di applicazione molto vasto, che va dalla collusione
tra imprese all’inquinamento, dalle scelte elettorali al rapporto
paziente-psicologo. Va notato che sebbene, per semplicità e per ragioni di
chiarezza espositiva, abbiamo assegnato pay-off numerici (ipotesi che verrà
eliminata nelle prossime sezioni), in realtà siamo all’interno di un orizzonte
di tipo ordinalistico. Di per sé i valori numerici non possiedono alcun
significato, e quello che conta è l’ordine delle preferenze individuali. Data
una tale struttura di preferenze, si dimostra facilmente che Eurialo e Niso, *se
sono razionali*, sceglieranno entrambi di *non* co-operare (non fare la
raccolta differenziata), ritrovandosi così al terzo livello di preferenza (con
due punti ciascuno: 2 punti per Eurialo, 2 punti per Niso), una situazione
“dominata” dalla co-operazione reciproca (fare tutti la raccolta), in cui
avrebbero ricevuto tre punti ciascuno (3, 3). Eurialo Co-opera Co-opera
3,3 1,4 Non co-opera Non co-opera 4,1 2,2. Nella rappresentazione in forma
estesa, gli esiti del gioco esprimono bene le caratteristiche base dell’idea di
soggetto che l’economia normalmente segue nel costruire i suoi modelli. Il suo
mondo ideale è quello in cui gode dei benefici (ad esempio un mondo non
inquinato) senza sostenerne i costi che preferisce trasferire sull’altro, se
può (separare i rifiuti, depositarli in raccoglitori diversi, ecc. ). Da qui il
dilemma. Si dimostra facilmente che, poiché si trova di fronte uno/a con la
stessa “razionalità” e preferenze, la soluzione del gioco è che entrambi Eurialo
e Niso si ritrovano al terzo livello dell’ordinamento di preferenze, cioè
nessuno fa la raccolta differenziata, quando invece ciascuno avrebbe preferito
che tutti la facessero (che infatti si trova al secondo posto). E la realtà
delle nostra città e del nostro pianeta ci dice quanto questi dilemmi siano
reali e urgenti, e quanto la scelta ‘sociale’ non si discoste poi tanto dal
modello astratto utilizzato dall’economia. Tutto ciò ci dice che la *soluzione*
del gioco, e gli esiti dilemmatici dipendono sostanzialmente da due ipotesi
base circa la razionalità. Primo, l’individualismo: ragionare esclusivamente
nei termini di “cosa è ottimo, o meglio, per me: mittente/recipiente”).
Secondo: lo strumentale (la bontà di una azione si misura sulla base della sua
capacità di essere un *mezzo* condizionale per ottimizzare i pay-off, non per
il suo valore categorico intrinseco. Date queste ipotesi, la non- [Nella
tabella i numeri (i pay-off) esprimono utilità, quindi il più è preferito al
meno. Il primo numero si riferisce a Niso, il secondo ad Eurialo. Nell’appendice
abbandoniamo i numeri e passiamo ad un caso più generale (dove i pay-off è
espresso in lettere, ordinate non in modo cardinale). Va aggiunto che non ogni
inter-azione rappresentabili come dilemma del prigioniero porta a risultati
dilemmatici e sub-ottimale a causa dell’antropologia sottostante. Si pensi, ad
esempio, agli [3 cooperazione (nessuno fa la raccolta) è un *equilibrio*
stabile del gioco (o equilibrio di Nash), dal quale nessuno dei giocatori ha
convenienza a spostarsi uni-lateralmente, a meno che non si sia capaci di
stipulare un *patto* vincolante. Se un patto vincolante non è possibile -- si
pensi alle interazioni quotidiane con numerosi agenti, come nel traffico
stradale -- o troppo costoso, *non* cooperare risulta la ‘strategia’ ottimale
per due ragioni. Prima se Eurialo suppone che Niso è azionale (individualista e
strumentale) allora se co-operassi avvierei Eurialo allo sfruttamento (1
punto).Se invece Eurialo ha buone ragioni per pensare che Niso *non* è razionale
o, come dice Dawkins, “ingenuo”, e che quindi si lasce sfruttare, Eurialo ha
una ragione in più per *non* cooperare. Otterrai infatti 4 punti. Quindi
l’esito dilemmatico è una combinazione di paura alla Hobbes e di opportunism. Se
va male Eurialo cade in piedi e non si lascia sfruttare. Se va bene Eurialo
prende tutto. Una razionalità puo essere con ricompense *non* materiali. In un
mondo fatto di due individui mossi da questa razionalità la co-operazione può
essere raggiunta solo quando siamo capaci di auto-vincolarci a delle regole non
opportunistiche, per un bene individuale maggiore. Io gratto la tua schiena, tu
gratti la mia. Questo principio è, in mille varianti, il tipo di co-operazione
che può emergere tra due soggetti razionali di questa maniere. Grice lo chiama
‘altruismo reciproco’ -- individuando un comportamento pro-sociale in tutte le
specie animali, dove però l’altruismo disinteressato non esiste, ma è solo
maschera di più sottili forme di egoismo (o amore proprio e non benevolenza). In
ogni caso la co-operazione è interamente condizionale e non un imperativo di
tipo kantiano. Eurialo aiuta Niso a condizione che Niso aiuta Eurialo e vice
versa. Viene comunque spontaneo chiedersi se negli esseri umani – o almeno due
filosofi oxoniensi -- ci sia qualcosa di diverso, in termini di socialità,
rispetto alle scimmie o alle formiche. Al di fuori di questi specifici casi nei
quali la co-operazione emerge, un atto che non punti a rendere massimo il
proprio interesse, di breve o di lungo periodo, è considerato *irrazionale* o
ingenuo, poiché si diventa pasto degli altri individui più aggressivi, che
cresceranno e prospereranno a spese degli ingenui. Forse molti degli atti di co-operazione
a cui assistiamo nella vita quotidiana possono trovare la loro spiegazione
sulla base di questo tipo di logica individualistica, strumentale, e condizionale.
Non tutti però. E’ infatti nostra convinzione che la convivenza civile, e le
dinamiche economiche conversazionale, conoscono anche altre forme di co-operazione,
che possono emergere sulla base di un ragionamento mosso da un tipo *diverso*
di razionalità non utilitaria ma assoluta. In quanto segue, cercheremo di
esplorare le implicazioni che scaturiscono dalla seguente domanda. Come cambia
il gioco della vita in comune se complichiamo la visione antropologica sottostante
i modelli economici? L’elemento di diversità (rispetto all’approccio standard)
che qui introduciamo, è la presenza di un valore *intrinseco* categorico
assoluto ingorghi stradali. Questi sono perfettamente rappresentabili come
dilemmi del prigioniero. Ma sarebbe impreciso definire gli automobilisti che
escono per andare a lavoro individualisti e strumentali. Ma abbiamo a che fare
con un problema di mancanza di co-ordinamento in una scelta collettiva, che se
vogliamo rimanda anch’esso a una dimensione ‘sociale’ (come la capacità di
addivenire a patti vincolanti), ma, antropologicamente, è meno coinvolgente di
casi dilemmatici che riguardano l’inquinamento o il rapporto con il fisco.
Questo per dire che la teoria dei giochi è un linguaggio che trascende l’ambito
economico e la sua tipica forma di razionalità; e infatti essa è utilizzata
anche per modelizzare agenti mossi da forme razionalità *non* strumentali (come
in parte fa Grice). (Dal nome del matematico che nei primi anni cinquanta
introdusse questa nozione di equilibrio stabile). Il fatto che nella realtà
concreta riusciamo a non cadere nel dilemma dipende dal fatto che spesso
riusciamo a disegnare patti o contratti vincolanti, con sanzioni. Grice mostra
che anche il richiamo di allarme che certi uccelli emettono per avvisare il
gruppo dell’arrivo di un predatore, a *rischio anche della propria vita*, è il
risultato di un calcolo egoista. L’uccello può più facilmente salvare la sua
vita se tutto lo stormo si sposta e non rimane isolato. -- associato a un
comportamento di gratuità, da cui discende la possibilità di sperimentare una
co-operazione, o reciprocità, non primariamente strumentale e condizionale, ma
assoluta, costitutiva dell’umano, e categorica. Questo agente economico intende
pertanto la reciprocità diversamente da come essa è usata oggi in economia. Rispetta
l’ambiente, paga le tasse o edifica la casa rispettando i vincoli del piano
regolatore (tutte faccende cooperative), ad esempio, perché questi
comportamenti sono per lei dei valori, perché le danno una ricompensa
intrinseca, e non solo strumentale (i vantaggi materiali della cooperazione,
che pure sperimenta). Questo diverso tipo di agente non è quindi puramente
consequenzialista e utilitario come invece è l’agente-individuo. Non valuta
cioè la bontà del muoto conversazionale solo sulla base della conseguenza che
tale muoto produce, ma tiene conto sia di una componente assiologica o
deontologica – non aletica --, legata al valore, sia di una componente
procedurale, più legata ai tipi di relazione all’interno delle quali il suo
muoto si sviluppa. Sa inoltre che il suo muto è pienamente *efficace* se anche
l’altro si comportano allo stesso modo (se reciprocano). Ma non condiziona il suo
comportamento a quello dell’altro (come invece farebbe l’homo
oeconomcus-individuo standard). Al tempo stesso, se l’altro si comportano sulla
base della stessa razionalità assiologica e dello stesso valore intrinseco,
allora egli soddisfa al massimo le sue preferenze, e anche il benessere sociale
aumenta. In base ad una tale struttura di valori, o cultura della reciprocità
gratuita, al primo posto dell’ordine di preferenze questo tipo di agente
economico non mette, diversamente dal tipo standard, “tutti co-operano tranne
me”, ma “tutti, me compreso, cooperiamo”, o doniamo. E questo perché il
comportamento in sé è parte integrante del suo sistema di valori. Al secondo
posto dell’ordine di preferenze pone: l’altro co-opera, io no. Al terzo posto: io
co-opero, l’altro no. Al quarto, nessuno co-opera. Per capire questi valori si
può partire dalla struttura di ricompense (i pay-off, cioè i numeri che
misurano le ricompense) del dilemma del prigioniero. Ma occorre aggiungere, o
sottrarre, ai pay-off materiali una componente intrinseca, sulla base della
teoria classica della felicità o calculo eudaimonico, o beatifico, nella quale
il comportamento buono in sé, o *virtuoso*, ha una ricompensa intrinseca. Così,
se un soggetto ha fatto propria questa cultura della reciprocità gratuita o,
per usare un’espressione più forte ma anche più corretta, della “comunione” (la
communita immune), quando Eurialo co-opera e la controparte, Niso, no (pensiamo
sempre all’esempio ambientale, o, se si vuole, ad un rapporto di amicizia), il suo
pay-off, materialmente uguale a 1 (come nel gioco standard), aumenta a causa
delle ricompensa intrinseca (che poniamo pari ad uno), attestandosi a 2. Se
Eurialo invece *non* coopera ma la controparte, Niso, sì, ecco allora che il
pay-off, pur essendo materialmente pari a 4, diminuisce a 3, perché si
inserisce una *sanzione* intrinseca. 4 – 1 = 3. Si pensi a chi, pur avendo
fatto propria la cultura della reciprocità, in un certo muoto non è coerente
perché non riesce a vincere la tentazione del vantaggio materiale. La sua
soddisfazione è comunque minore a causa della sanzione intrinseca, che potremmo
chiamare anche insoddisfazione o senso di colpa o vizio. Il mondo peggiore
(pay-off = 1) è quello in cui ciascuno è chiuso in se stesso. Qui il pay-off è
1 perché si parte da quello materiale (2) e gli si sottrae il valore intrinseco
(2 – 1 = 1). Il mondo migliore è invece la *reciprocità*, un incontro mutuo di
gratuità: (4), il pay-off materiale della co-operazione (3) più la componente
intrinseca della gratuità. Sui vari usi della categoria di reciprocità nella
teoria economica, cf. Crivelli. Questo ordine di preferenze dipende
dall’ipotesi che la componente intrinseca dei pay-off sia costante e pari ad
uno. Un’analisi più approfondita dovrebbe studiare i casi quando la motivazione
intrinseca è maggiore, minore o uguale alla componente materiale. Non è da
escludere, ad esempio, che all’aumentare di quest’ultimo dovrebbe aumentare la
tentazione di tralasciare gli aspetti intrinseci. Se fare, ad esempio, la
raccolta differenziata diventa estremamente costoso e laborioso, il numero di
quelli, anche bene intenzionati, che la faranno diminuirà. Inoltre, una tale
analisi ammette la possibilità di confronti -- La componente intrinseca
dell’azione è legata alla teoria classica della felicità o calculo
eudemonistico di Bentham. La felicità, essendo il risultato di una vita
virtuosa, è fuori dalla logica strumentale. La virtù è praticata perché ha un
valore intrinseco, non per un calcolo machiavelico strumentale costi/benefici.
La virtù, in particolare quella civica, ha bisogno di reciprocità perché porti
ad una vita sociale pianamente realizzata, ma non può pretenderla, solo
attenderla dalla libertà dell’altro. Ecco perché dagli antichi fino ad oggi
alla felicità è associato un elemento *paradossale*. La feicita ha bisogno di
reciprocità, ma solo la gratuità può suscitarla senza pretenderla. Un “gioco di
reciprocità” (intesa nella maniera appena detta), che rimane sempre del tipo
dilemma del prigioniero, può essere dunque rappresentato come segue: Eurialo Dona
Non-Dona Dona 4,4 2,3 Non-Dona 3,2 1,1 Rappresentiamo anche questo
gioco in forma estesa. Dalla tabella, o dall’albero decisionale, si nota che se
i due giocatori hanno questa stessa struttura di preferenze, l’unico esito
stabile del gioco o equilibrio di Nash, dal quale cioè nessuno è incentivato a
spostarsi, è “dona-dona”. Quindi per interpersonali di utilità, cosa peraltro
non inusuale quando l’utilità attesa si calcola con la funzione di Von Neumann
Morgernstern. Per un’analisi approfondita dei pay-off psicologici cf. Pelligra.
Sul paradosso della felicità cf. Bruni. Il modello che può essere considerato
il capostipite dei giochi del tipo gioco di reciprocità è quello introdotto da
Sen -- questi giocatori-persone donare (o co-operare) è ‘strategia’
strettamente dominante, e l’unico equilibrio stabile del gioco è la reciprocità
o la *comunione*: dona/dona. Cosa ci suggerisce questo gioco, pur nella sua
estrema semplicità? Se sono un soggetto che ha questi valori non ho alternative
a cooperare: gli altri possono rispondere o meno, e quindi il mio
benessere/felicità è incerto (stando al gioco precedente, posso ottenere in
termini materiali 2 o 4 punti): ciononostante per me l’unica possibilità, l’unica
azione razionale, è cooperare, o come abbiamo detto, donare. Così, per fare un
esempio, se sono alle prese con un fornitore difficile, non ho alternative al
donare. Potrò trovare reciprocità o no, ma in ogni caso l’alternativa,
‘non-dona’ – che, nella pratica, significherà ogni volta qualcosa di diverso –
è per me la peggiore (perché è sempre dominata dalla co-operazione) a causa
della ricompensa (sanzione) intrinseca. E’ questo un soggetto che per alcune
scelte non calcola i costi e i benefici. Che senso ha fare la raccolta differenziata
se solo io la faccio. Ma agisce sulla base di un valore, o di una norma etica
interiorizzata. Ciò spiega, tra l’altro, perché in certe società l’ecologia o
il rispetto delle norme civili sono messe in pratica anche in contesti nei
quali sarebbe razionale (nel senso standard) non farlo: iclassico fazzoletto di
carta buttato fuori dal finestrino quando nessuno ci osserva, e quindi nessuna
sanzione può essere applicata. D’altro canto, davanti a queste nostre
considerazioni qualcuno potrebbe obiettare. Ma se ipotizzate che gli individui
traggano soddisfazione dal muoto conversazionale stesso, diventa banale
spiegare l’emergere (dalla perspettiva della psicologia filosofica) della co-operazione.
In effetti l’idea è semplice. Ma ci auguriamo non banale, ma bizarra. In
particolare, gli aspetti più interessanti intervengono quando pensiamo che nel
mondo reale, nel mercato in particolare, non sappiamo normalmente con chi
stiamo giocando, se abbiamo cioè di fronte un soggetto del primo tipo o uno del
secondo. E qui entriamo in quello che possiamo chiamare il “paradosso della
reciprocità” o della comunione, che possiamo sviluppare sinteticamente come
segue, mettendo assieme i vari pezzi fin qui costruiti. Una vita buona ha bisogno
di reciprocità genuine. La reciprocità genuina però non viene suscitata se la
logica che ci muove è primariamente strumentale. La risposta dell’altro, la
reciprocità, non possiamo pretenderla, ma solo *attenderla* dalla libertà
dell’altro. Co-operare porta quindi a due esiti diversi (indicati con 2 o 4) in
base alla risposta o non risposta dell’altro. Per comprendere questi risultati,
si consideri che ognuno sa che l’altro ha di fronte due possibili scelte:
donare e non donare, e, date le loro preferenze, qualunque scelta faccia
l’altro per ciascuno è preferibile donare -- considerando anche il pay-off
intrinseco. Se infatti l’altro giocatore (Eurialo) sceglie “donare” i punti di
Niso sono 4 (mentre la mossa “non-dona” avrebbe portato solo 2 punti); e anche
se Eurialo scegliesse “non donare”, Niso preferisce sempre “donare” che gli dà
2 punti invece di 1 (che è il pay-off di “non-dona/non-dona”). Può valere la
pena specificare che qui con “donare” non si intende l’altruismo o la filantropia
-- che possono restare atti individualisti. Donare è sinonimo di ciò che la
cultura greco-romana chiama “amore”, e cioè un atto gratuito ma che ha sempre
di mira la *reciprocità*, il rapporto personale con l’altro (amore-amicizia). Qualcuno
potrebbe obiettare sostenendo che più che di una diversa forma di razionalità
in questo caso siamo in presenza di un soggetto che ha solo preferenze diverse,
ma la cui razionalità resta quella standard strumentale, perché in fondo anche
lui massimizza la propria utilità. Noi preferiamo pensare che una persona che
agisce mossa da motivazioni intrinseche sia più efficacemente rappresentabile
da una forma di razionalità che Grice chiamava “rispetto ai valori” o
assiologica che non dalla classica razionalità strumentale, che si caratterizza
proprio per il suo essere tutta basata sul calcolo utilitario.Qui infatti
nostri soggetti co-operativi fano la scelta non sulla base di un calcolo, ma
per un valore. È ovvio che esiste una circolarità tra motivazioni intrinseche e
il comportamento dell’altro -- su questo cf. Bruni e Pelligra. Per questo la
vita in comune è fragile, come anche i filosofi – da Aristotele in poi - ci
insegnano, perché essa dipende dalla risposta dell’altro – l’amore di Eurialo e
reciprocato dall’amore di Niso e vice versa. Quale evoluzione? Facciamo ora un
passo avanti, e ci domandiamo cosa succede quando soggetti standard e soggetti
non standard (il secondo tipo che abbiamo appena descritto) interagiscono tra
di loro. Sono situazioni che Grice studia. Sono ormai numerosi i modelli con un
agenti altruistico che interage con un agenti auto-interessato. Qui ipotizziamo
quattro casi, che, con diversi gradi di astrazione, possono rappresentare
alcune situazioni reali che vengono a verificarsi quando l’interazione avviene
tra soggetti diversi, perché mossi da culture diverse. Utilizzeremo, allo
scopo, i rudimenti della teoria dei giochi evolutivi, nella sua forma più
elementare, il cui elemento innovativo è l’introduzione della componente
immateriale del pay-off corrispondente alla ricompensa intrinseca. Ipotizzeremo
cioè i nostri giocatori immersi in un ambiente abitato da popolazioni diverse,
dapprima due, e poi tre. La teoria dei giochi evolutivi utilizza lo stesso
linguaggio, e in buona parte la stessa metodologia, della *biologia* evolutiva.
Tra più popolazioni esistenti in un dato ambiente, nel tempo sopravvive quella
che ha la fitness – capacità di adattamento – maggiore. Se due popolazioni
hanno la stessa fitness sopravvivono entrambe. Ma se una ha una fitness minore
delle altre è destinata all’estinzione, non nel senso biologico del termine
(morte di tutti i soggetti di quella specie), ma che quel comportamento non
verrà riprodotto, e saranno imitati i comportamenti vincenti. Il dibattito
sull’applicazione di una tale metodologia agli essere umani e alle loro popolazione
è aperto, e controverso. In quanto segue noi non intendiamo abbracciare la
filosofia, né la metodologia, dei giochi evolutivi. Riteniamo soltanto che il
linguaggio dei giochi evolutivi ci aiuti a mettere in luce dinamiche, che
riteniamo reali, non facilmente individuabili con linguaggi diversi. Il nostro
è quindi un esperimento, che ci piacerebbe, in futuro, portare avanti, mettendo
a quel punto in questione alcuni assiomi che nell’attuale teoria dei giochi
evolutivi ci appaiono troppo semplificati, come il concetto di fitness:
semplificati, ma non inutili, come speriamo di mostrare. Primo caso: Tipi 1 e
Tipi 2, non riconoscibili Come primo caso facciamo le seguenti ipotesi. Esistono
solo due tipi tra loro non riconoscibili. Chiameremo tipi 1 quelli standard, e
tipi 2 quelli non-standard o di reciprocità. Le ricompense intrinseche sono
determinanti per la scelta (che, come visto, fanno sì che per il tipo 2 sia
sempre razionale, perché strettamente dominante, “donare”). Ma per la
sopravvivenza nel tempo di un tipo di agente, la cosiddetta fitness (misurata
-- La versione più semplice di tali modelli si può trovare nel Manuale di
microeconomia di R. Frank. Un testo classico è quello di Axelrod, e un recente
studio, basato su evidenza sperimentale, è quello di Bowles. Un modello vicino
a quello qui presentato è Sacco e Zamagni. Interessanti considerazioni
metodologiche si trovano in Crivelli. Vale la pena specificare che mentre nella
biologia evolutiva l’unità di selezione è il gene, in economia l’unità di
selezione è il comportamento; inoltre, mente in biologia la trasmissione è
ereditaria in economia essa avviene per imitazione. Sono i vari comportamenti
adottati e imitati che rendono un agente più efficiente di un altro. Un
contributo importante a questo riguardo è l’articolo The evolutionary turn in
game theory diSugden -- dal valore medio dei pay-off materiali), contano solo i
pay-off materiali, non i pay- off dovuti alla ricompensa intrinseca. c. I
pay-off materiali sono i seguenti. Coopera – coopera. Non coopera – coopera.
Coopera – non coopera. Non coopera – non coopera. Con a > b> c> d. La
probabilità di incontrare un tipo 1 è p1, mentre quella di incontrare un tipo 2
è p2, dove, per la definizione di probabilità, p2 = 1- p1 In questo primo caso
lo scenario non è roseo per i tipi 2. Si dimostra, infatti, che a sopravvivere
saranno solo i tipi 1, e questo risultato è indipendente dalla percentuale di
tipi 1 e 2 presente nella popolazione. Infatti, anche se i tipi 2 fossero la
quasi totalità (ex. 99%) dell’universo, sarebbero destinati ugualmente
all’estinzione perché sistematicamente sfruttati dagli individui. SE VALGONO LE
IPOTESI PRECEDENTI, SOPRAVVIVONO SOLO I TIPI 1, PER OGNI VALORE DI p1 e p2. Se
supponiamo un intervento ridistributivo dello stato che preleva risorse dai
tipi 1 per sostenere i tipi 2 (es. ciò che avviene normalmente nei sistemi di
stato sociale con le imprese sociali), il gap di fitness si riduce, e in certi
casi potrebbe essere nullo, consentendo così la co-esistenza dei due tipi. Situazione
diversa se ipotizziamo che i due tipi siano, per l’esistenza di un qualche
segnale, riconoscibili, e che il tipo 2 decida di interagire soltanto con i
suoi simili. Aggiungiamo, quindi
l’ipotesi. Rispetto ai giochi delle prime due sessioni, ora ricorriamo
esplicitamente a pay-off ordinali, dove la sola condizione rilevante nella
misurazione dei pay-off è il loro ordine, e cioè che a sia maggiore di b, b di
c e c di d. Indichiamo con Fi la fitness dei tipi 1, e con Fp la fitness dei
tipi 2. F1 = p1c + p2a F1 = p1c + (1-p1)a F2 = p1d + (1-p1)b. La tesi F1>F2
equivale quindi a: p1(b-a) + p1(c-d) > b-a, per p1 = 0 la disuguaglianza
diventa a>b ed è quindi vera per p1 = 1 la disugualglianza diventa c>d ed
è quindi vera osservo che ∀ valore di
p1∈ (0, 1), p1(c-d) >0 p1(b-a) >
b-a, perché b-a è minore di zero, quindi: F1>F2 ∀
valore di p1∈ [0, 1]. È possibile inoltre dimostrare
che, per tutti I giochi di questo tipo, quale che sia la posizione iniziale di
partenza, l’unico equilibrio evolutivamente stabile verso cui si converge nel
tempo è quello che prevede l’estinzione di una delle popolazioni, nel nostro
caso dei tipi 2. 9 e. i tipi sono riconoscibili e l’interazione è
selettiva (il tipo 2 gioca solo con i simili). Se la riconoscibilità è perfetta
(cioè la probabilità di simulazione è nulla), si dimostra facilmente che
sarebbero i tipi 2 a sopra-vivere. Infatti, in questo caso vale il Risultato. SE
IPOTIZZIAMO PERFETTA RICONOSCIBILITÀ DEI TIPI, SI ESTINGUONO I TIPI 1. Questo
secondo risultato ci dice già qualcosa d’importante. La riconoscibilità, anche
quando non perfetta (come nella realtà normalmente avviene), aumenta la fitness
dei tipi 2. Ciò spiega, ad esempio, l’emergere del fenomeno della “rete”, una
realtà tipica dell’economia sociale. Le varie componenti ed espressioni
dell’economia sociale tendono infatti a cercarsi e scegliersi l’un l’altra:
reti di imprese, reti di consumatori che insieme preferiscono le imprese
sociali, reti di imprese (si pensi ai consorzi di co-operative, di veri
livelli), risparmiatori e consumatori (il fenomeno delle banche etiche e della
finanza etica). Nella realtà, però, supposto che un agente 2 voglia evitare di
interagire con i tipi 1 (cosa da non dare per scontata), la perfetta
riconoscibilità o la simulazione nulla sono comunque altamente irrealistiche
(sono troppi i soggetti con i quali un’impresa e anche una persone interagisce:
lavoratori, finanziatori, concorrenti, fornitori, consumatori). E’ quindi
necessario ricorrere ad altre ipotesi per giustificare teoricamente lo sviluppo
delle imprese sociali nel tempo. E’ quanto di cerca di fare negli altri due
casi. Introduciamo ora un *terzo* tipo che si aggiunge ai due precedenti.
Potremmo chiamarlo ‘civile’ o griceiano. Ipotizziamo che: f. il tipo 3 gioca una
strategia “colpo su colpo”, una strategia intermedia (rispetto alle altre due
più “radicali” dei tipi 1 e 2, che, rispettivamente, co-operano mai e sempre),
che lo fa co-operare con chi coopera, e *non* cooperare con chi *non* coopera.
Quest’ultimo co-opera quindi con chi coopera, e *non* co-opera con chi *non* co-opera.
Il tipo civile o griceiano, non attribuendo un valore intrinseco (o
attribuendogliene uno troppo basso) all’azione donativa, *non* ha “cooperare!” o
“cooperiamo!” come ‘strategia’ *dominante*. La strategia dominante e “Siamo
razionali”. Ma se ha di fronte un tipo 2, pur riconoscendolo, non lo sfrutta
preferendo reciprocare. E’ un 21 La correlazione esclusiva tra tipi può
avvenire per almeno due ragioni: o perché l’agente sceglie il tipo preferito
che viene riconosciuto attraverso un segnale (che deve essere affidabile),
oppure perché si trova in un cluster, cioè in un’area nella quale si trovano
soltanto soggettio dello stesso tipo – pensiamo, ad esempio, ad una comunità
locale come il gruppo maschile della sub-faculta di filosofia a Oxford, dove la
probabilità che un agente si trovi ad interagire con uno “like- minded” è
altissima, ed è indirettamente proporzionale al numero di forestieri – non
filosofi non oxoniensi -- presenti in quella comunità. In questa situazione, i
casi interessanti si trovano sui confini, dove la probabilità di interazioni
miste aumenta (pensiamo agli effetti dell’introduzione di pratiche e
comportamenti nuovi da parte del gruppo femminile, di missionari o di emigranti
da Cambridge). Il segnale, inoltre, per essere efficace dovrebbe essere troppo
costoso da imitare da parte dei tipi 1, come l’adesione ad un codice o
procedimento di comportamento o ad una struttura di valori molto forte (come
nelle botteghe del commercio equo e *solidale*, o nelle imprese di Economia di
Comunione). Con riconoscibilità perfetta, la probabilità di incontrare un tipo
simile è 1, mentre la probabilità di incontrare uno diverso è 0. Quindi F1
=(0(a) + 1(c))=c, mentre F2 = (0(d) + 1(b)) = b, quindi: F2 > F1. Rispetto a
quella classica, questa versione di colpo su colpo è modificata, poiché non
inizia sempre con un muoto di cooperazione, e poi il gioco non è ripetuto -- soggetto leale, che per questo chiamiamo
“civile” o griceiano. Si ipotizza quindi l’esistenza di un segnale,
utilizzabile solo dal tipo civile o griceiano, che gli permette di discriminare
perfettamente tra i tre tipi che ha di fronte. Si ipotizza quindi che le altre
due imprese non possono, o non vogliono, utilizzare quel segnale (pensiamo, ad
esempio, a chi pur sapendo di rischiare entrando in un ambiente molto opportunistico,
rifiuti l’idea della nicchia e accetti di scendere in campo, non utilizzando
quindi il segnale di riconoscibilità. Cosa succede in questo caso? Innanzitutto
è possibile vedere come la fitness del terzo tipo è sempre maggiore di quella
del tipo 2. Infatti vale il risultato. SE E SOLO SE VALGONO LE IPOTESI
PRECEDENTI (a. – d., f.) SI HA: F3 > F2 ∀
VALORE DI a, b, c, d, ∀ VALORE DI
p1, p2, p3. Un secondo aspetto che emerge, è che l’evenienza che la fitness dei
tipi 2 possa risultare maggiore di quella degli 1 dipende dalla percentuale di
tipi 3 civili griceiani presente nella popolazione. Più quest’ultima è alta,
maggiore è la fitness dei tipi 2 e minore quella dei tipi 1. Qui per semplicità
supponiamo che gli scarti tra i pay-off siano uguali tr aloro, cio è che sia: (a–b)
= (b–c) = (c–d). Tali scarti possono essere visti, rispettivamente, come
vantaggio dello sfruttamento, premio della cooperazione e costo della coerenza.
Anche nell’esempio numerico precedente tali scarti sono uguali (tutti pari ad
1). Con queste semplificazioni, vale il seguente risultato. SE VALGONO LE IPOTESI
a.–d., f., g., F2>F1 SE E SOLO SE p +p <p. Il risultato ci dice ancora
qualcosa d’importante. La sopra-vivenza dei tipi 2 dipende anche
dall’esistenza, e dal numero, degli agenti del terzo tipo, cioè di soggetti
che, pur *non* attribuendo un valore intrinseco ma derivato dalla razionalita
generale all’azione del co-operare o donare non “sfruttano” il muoto co-operativo
(come fa invece il tipo 1), ma reciprocano. Rispondono alla co-operazione. Per
questo denominare questi tipi “civili”. Questo risultato può essere utilizzato
anche a sostegno del ruolo della cultura civile – la conversazione civile – la
civil conversazione del rinascimento italiano popolarizzato in tutta Europa. La
sopra-vivenza e lo sviluppo di imprese e un soggetto più radicali, come i tipi
2, dipendono anche dalla “cultura civile” presente nell’ambiente dentro il
quale operano. Di qui l’importanza duplice della diffusione della “cultura”,
alla quale le imprese sociali non possono non attribuire grande importanza. Le
imprese dell’EdC, ad esempio, dedicano un terzo dei propri utili alla
formazione alla *cultura del dare*. Da una parte la cultura re-inforza le motivazioni
intrinseche dei tipi 2, e dall’altra contribuisce ad aumentare e rafforzare il
senso civico e la cultura della co-operazione dalla quale, indirettamente,
dipende anche la loro sopra-vivenza e il loro sviluppo. Supponiamo, per
assurdo, che la tesi non sia vera: Dovrà essere: F3 ≤ F2 => p1c + p2b + p3 b ≤ p1d + p2b + p3b = > p1c ≤ p1d,
disuguaglianza che non e’ mai verificata essendo, per ipotesi, c>d. p1d +
p2b + p3b > p1c + p2 a + p3c ⇔ p1 (d − c)
+ p2 (b − a) + p3 (b − c) > 0;<=> p1(c−d) + p2(a−b )< p3(b−c) ⇔
p1+p2 <p3. Altra implicazione del risultato è il prendere coscienza
che affinché i tipi 2 possano svilupparsi, i tipi civili debbono essere
abbastanza numerosi. In particolare, si dimostra che la fitness dei tipi 3 è
maggiore di quella dei tipi 1 se e solo se i tipi 3 sono in numero maggiore dei
tipi 2. Ipotizzando, come nei risultati precedenti, l’uguaglianza tra gli
scarti, abbiamo un altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL LEMMA, F3>F1
SE E SOLO SE P2<P3. Rappresentiamo le due fitness nello spazio delle fitness
e di p2. 0 P2* 1 P2 F1, F3. Da questo emergono due ordini di considerazioni. Il
valore soglia di P2 (P2*) oltre il quale F3 diventa minore di F1 dipende dalle
pendenze delle due rette, rispettivamente a per F1 e b per F3: (a – b) misura
infatti il vantaggio che i tipi 1 hanno rispetto ai 3 per la presenza dei tipi
2 che sfruttano. Quindi minore è questo vantaggio, maggiore è la quota di tipi
2 che i tipi 3 possono tollerare Se a=b le due rette sarebbero parallele. Si nota
che i tipi 3 perdono fitness con l’aumento dei tipi 2, e la differenza di
fitness massima si ottiene in corrispondenza di P2 = 0. E’ il meccanismo che
potremmo chiamare i figli delle rivoluzioni che uccidono i padri, perché li
considerano troppo radicali, come i francescani di seconda generazione che
rimossero Francesco dal governo dell’ordine, perché con il suo radicalismo
impediva – a loro dire – lo sviluppo del francescanesimo più moderato e
minacciava la morte stessa del movimento. Nell’ultimo scenario, ipotizziamo che
la motivazione intrinseca, la componente non materiale dei pay-off, possa avere
un effetto non solo sulla scelta ma anche sulla fitness. Finora non abbiamo
fatto ciò per un senso di realismo. Eurialo puo persuadersi a vivere nella
piena correttezza verso Niso perché attribuisce a tale comportamento un valore
intrinseco. Se però poi non arrivano i risultati economici, se ho -- F3 >F1
<=> p1c +p2b + p3b > p1c + p2a +
p3c <=> p2pb + p3b > p2pa + p3c <=> p2 (b-a) > p3 (c-b)
<=> p2 (a-b) < p3 (b-c) p2 < p3. Il valore soglia P2* è pari a P3,
come sappiamo dal risultato. F1 F3
-- ad esempio costi troppo elevati, la fitness di Eurialo ne risente. Ora però
abbandoniamo questa semplificazione, e ipotizziamo che la fitness sia
influenzata anche dalle motivazioni. Alcuni esperimenti dimostrano come i
comportamenti ispirati da motivazioni intrinseche e da logiche di gratuità,
oltre a non avere buoni sostituti - nel senso che in tali casi altre forme di
incentivi monetari non funzionano - portano anche una maggiore efficienza in
termini di risultati. Perché quindi non ipotizzare una fitness influenzata
anche dalle motivazioni intrinseche? Le fitness del primo e del terzo tipo restano
le stesse (questi due tipi non hanno motivazioni intrinseche), mentre cambia
quella del tipo 2, dove la motivazione intrinseca è rappresentata da un ε > 0,29
che viene aggiunto ai pay-off materiali. Le fitness dei tre tipi diventano
perciò le seguenti: h. F1 =p1(c) + p2 (a) + p3 (c) F2 =p1 (d) + p2 (b) + p3(b) +
ε F3 = p1 (c) + p2 (b )+ p3 (b). Si dimostra che è possibile che la fitness dei
tipi 2 sia maggiore anche di quella dei tipi 3. Vale infatti il: Risultato. SE
VALGONO LE IPOTESI a. – d., f., h.: 1. F 2≥ F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)31E 2. F2 ≥ F1,
SE E SOLO SE ε≥ P1(C–D) + P2(A–B) + P3(C-B). C’è un rapporto diretto tra ε e (c
–d) dove (c – d) misura il costo della coerenza per la fitness dei tipi 2, poiché
è quanto questi perdono per essere coerenti con la loro cultura ottenendo “d” quando
interagiscono con i tipi 1, invece di giocare, come i tipi 3, *non* coopera, ottenendo
così “c”, che è maggiore di “d”. Il valore più piccolo che può assumere ε (cioè
l’effetto materiale delle motivazioni intrinseche) affinché valga la
disuguaglianza F2>F3, è ε* = p1 (c – d). Possiamo quindi osservare che,
maggiore è il costo della coerenza (c – d), maggiore dovrà essere il
valore-soglia ε*. Inoltre, c’è un rapporto diretto anche tra ε* e p1: se i tipi
1 sono, relativamente, molto numerosi, allora ε* dovrà essere più alto (e
viceversa in caso contrario). Pensiamo, per fare un esempio, ad una impresa di
Economia di Comunione che nel campo della legalità si comporta come un tipo 2.
Paga le tasse, rispetta le leggi, per una norma etica alla quale attribuisce un
valore intrinseco, non strumentale. Un tale imprenditore se opera in un mercato
nel quale il costo della coerenza è molto alto o i soggetti opportunistici sono
relativamente molti, per non estinguersi dovrà fare in modo che le proprie
motivazioni etiche si traducano in maggiore fitness in una misura relativamente
maggiore rispetto allo stesso imprenditore operante in un mercato più civile e
dove i soggetti opportunisti sono meno. Come a dire che più un mercato, e una
-- Rustichini e Gneezy -- A rigore potrebbe anche essere minore di 0. -- Ipotizziamo
quindi che solo i tipi 2 e non i 3 “civili” abbiamo motivazioni intrinseche. F2
≥F3 ⇔p1(d) + p2(b) + p3(b) + ε>p1c + p2b
+ p3b⇔ ε ≥ p1(c−d). F ≥ F⇔p(d)
+ p(b) + p(b) + ε≥p(c) + p(a)+p(c)⇔
21123123 ε ≥ p1(c−d)+ p2(a−b)+ p3(c−b) -- società, premia i “furbi” (con
condoni, ecc.) e penalizza i tipi cooperativi (con leggi che non riconoscono
sgravi fiscali per le imprese sociale, ad esempio), più questi ultimi dovranno
far sì che le motivazioni etiche si riflettano in maggiore efficienza,
altrimenti non sopravvivono. Affinché valga invece la seconda disuguaglianza,
F2 ≥ F1, il valore-soglia di ε, che chiameremo “ε ̊”, dovrà essere: ε ̊ = P1(C
– D) + P2(A – B) + P3(C- B). E quale il rapporto tra i tipi 3 e i tipi 1? SE
VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1, F3 > F1, SE E SOLO SE P2 < P3 (b −
c). (a − b) Come interpretare questo? (b – c) è il vantaggio dei tipi 3
rispetto ai tipi 1 (solo i tipi 3 co-operano con i tipi 2 ottenendo “b”),
possiamo quindi chiamarlo il premio della cooperazione, mentre (a – b) è il
vantaggio dei tipi 1 rispetto ai 3, perché è il premio dello sfruttamento che
gli standard ottengono nei confronti dei tipi 2, al quale invece i tipi civili
rinunciano. Dal Risultato 4.2. emerge un’affermazione a prima vista
inquietante: affinché si affermino i tipi 3 (sui tipi 1) sarà necessario che i
tipi 2 non siano troppi; in ogni caso questi ultimi potranno essere tanto più numerosi
quanto più il “premio della cooperazione” sovrasta il “premio dello
sfruttamento”. Se infatti i tipi 2 sono numerosi essi diventano pasto per i
tipi 1, che hanno così un vantaggio relativo sui tipi civili. Il risultato
potrebbe, infine, essere ulteriormente rafforzato se che quando un tipo 2 incontra
un altro tipo 2 ottiene un di più dovuto alla reciprocità (il pay-off
diventerebbe in questo caso a). i. F2=P1 (d)+P2(a)+P3(b)+ε La fitness dei tipi
2 potrebbe così essere maggiore di quella dei tipi 3 e 1 con un ε anche minore
rispetto al valore di altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1
E L’IPOTESI i. 1. F2≥F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)+P2(B–A)
E 2. F2≥F1, SE E SOLO SE ε≥P1(C–D)+P3(C-B). “ε**” e il valore soglia di ε,
affinché valga la disuguaglianza F2≥F3 e, ricordando che la quantità (b – a) è
negativa, possiamo subito notare che ε**≤ ε*. Similmente, ε ̊ ̊ = p1 (c – d) + p3(c –b) è minore di ε ̊. Le
motivazioni intrinseche e il di più della reciprocità si rafforzano a vicenda e
rappresentano una strada molto interessante per esplorazioni. F<F⇔
p(c)+p(a)+p(c)<pc+b+pb⇔p<p(b−c).
1312312323(a−b). F2 ≥F3 ⇔p1(d)+p2(a)+p3(b)+ε≥p1c
+p2b + p3b⇔ ε ≥ p1(c−d)+ p2(b−a). F ≥F⇔p(d)+p(a)+p(b)+ε≥p(c)+p(a)+p(c)⇔
21123123ε ≥ p1(c−d)+ p3(c−b). Riassumiamo
i punti ai quali siamo giunti ragionando, con l’aiuto della teoria dei giochi,
attorno alle prospettive e alle sfide di uno scenario economico nel quale fanno
la loro comparsa soggetti diversi da quello standard. Un primo punto emerso in
diverse parti di questo scritto è che un agire economico improntato alla
gratuità e alla reciprocità, o alla comunione, in un ambiente abitato da agenti
eterogenei non cresce con la politica dell’aumento numerico: escludendo l’ipotesi
di perfetta riconoscibilità dei tipi, l’aumento numerico, di per sé non basta a
far sì che i tipi 2 sopravvivano. Sono invece tre gli aspetti strategicamente
cruciali affinché esperienze rette da una logica come quella delineata possano
svilupparsi. Lavorare sulla cultura media della società (che noi abbiamo
espresso con il “terzo tipo”, quello civile): il messaggio che emerge una volta
che abbiamo esteso la dinamica ai terzi tipi è che i tipi 2 possono
sopravvivere e svilupparsi soltanto all’interno di un’economia civile,
un’economia nella quale sono numerosi gli agenti leali, che pur non attribuendo
un alto valore intrinseco all’azione donativa (e quindi non hanno “donare” come
strategia strettamente dominante in tutti i tipi di gioco), sono comunque
corretti se incontrano un agente co-operativo, non lo sfruttano e co-operano
con esso. Poiché le motivazioni intrinseche dipendono in parte
dall’approvazione sociale, esiste un effetto di complementarietà strategica. Tanto
più tali comportamenti sono diffusi, tanto più saranno premianti36. Infatti,
uno sviluppo interessante del modello potrebbe essere quello di vedere sotto
quali condizioni i tipi 1 possono trasformarsi evolutivamente in tipi civili,
ma in questo scritto non lo abbiamo fatto. Va comunque aggiunto che se è vero
che un impegno culturale che si limita a rafforzare le motivazioni intrinseche
dei soggetti di tipo 2 non può bastare, al tempo stesso, però, questa seconda
direzione ricopre un ruolo fondamentale, per evitare che nel tempo scompaia il
tipo 2 e ci si assesti sul terzo tipo. Un mondo senza soggetti che, *almeno in
certi contesti* -- ceteris paribus --, *donano* *incondizionalmente*, sarebbe
un mondo più povero. La presenza dei due tipi civili e griceiani – Eurialo e
Niso -- ci dice che nel tempo saranno questi ultimi gli unici a sopravvivere, a
meno che le motivazioni intrinseche si riflettano nei pay-off ed il loro
“riflesso” sia relativamente grande. Questo risultato è già di per sé
significativo. Anche se in determinati contesti la motivazione intrinseca non
riesce a migliorare la performance dei tipi 2, la presenza, magari solo
transitoria, dei tipi 2 svolge un importante ruolo civile e culturale: permette
cioè che l’incontro (o equilibrio) si assesti sulla reciprocità e non scivoli
nella mutua diffidenza. Senza l’esistenza dei tipi 2, o, paradossalmente, senza
il loro sacrificio, i tipi civili non avrebbero potuto sperimentare la
reciprocità, perché in un mondo popolato solo da loro e da tipi standard,
l’unica esperienza possibile è la diffidenza reciproca, la *non* cooperazione
(war is war). Ciò serve a gettar luce sul significato culturale e civile che
nella storia hanno esperienze radicali -- Ciò implica la possibilità di
equilibri multipli ordinabili, cioè la stessa popolazione può essere altamente
inefficiente o altamente efficiente a seconda che un numero anche piccolo, al
limite anche un solo soggetto, decida di cooperare. 37 E’ infatti verosimile
che i tipi 3, quelli civili, abbiano nel loro “programma” la possibilità della
cooperazione perché nell’ambiente esiste, o è esistito, il tipo 2: certo si
potrebbe teoricamente ipotizzare che i tipi 3 co-operino tra loro anche in
assenza dei tipi 2. Ma, storicamente, la cultura civile dell’umanità è andata
avanti grazie all’esistenza di esperienze *totalitarie* che hanno creato
categorie nuove che poi hanno contaminato la cultura generale. Pensiamo, ancora
una volta, alla regola d’oro, o, più recentemente, ai movimenti ecologisti -- come
la comunione dei beni totale, certe forme di accademie o monachesimo, e in
generale i primi tempi dei fondatori di nuovi carismi (si pensi, per tutti, ad
un Francesco d’Assisi e alla sua vicenda storica. Simili esperienze non sempre
sono riuscite a sopra-vivere con tutta la loro radicalità, ma senza di quelle
chi è venuto in contatto con loro (nella nostra metafora, i “tipi civili”) non
avrebbero potuto elevare il livello della convivenza Senza coloro che si sono
fatti imprigionare, e hanno dato la vita per i diritti o per la libertà, oggi
l’umanità – il tipo umano personale di Grice -- sarebbe meno libera e meno
diritti sarebbero riconosciuti. Un po’ come avviene con il sale, che si perde
nella massa ma dà quel di più al tutto. La metafora del sale non è però l’unica
presente in quel codice della cultura occidentale che è il Vangelo: vi è anche
quell della città sul monte, una città che illumina la città sotto monte. La
dinamica evolutiva potrà condurre l’economia sociale, e l’economia di
comunione, o sul sentiero sale della terra o in quello città sul monte. Ma, in
entrambi i casi, occorre che la cultura rafforzi le motivazioni intrinseche. E forse
questo il messaggio culturale che il giocco conversazionale griceiano vuole
dare. Araujo, V.“Quale visione dell’uomo e della società?”, in Bruni, L. e V.
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che è amore, Roma: Città Nuova. Luigi Alici. Keywords: reciproco, alici, amore
proprio ed amore altrui, self-love and other-love – il paradosso della
reciprocita – eurialo e niso – noi – condividere la deliberazione – eidolon –
comunita, immunita, genovesi, il canale morale, la fidanza e il capitale
sociale in Genovesi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alici” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Alici.
Grice ed Alighieri: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Firenze -- filosofia
fiorentina – filosofia toscana – filosofia italiana -- Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze,
Toscana. dante. Grice: “Problem with having Alighieri as a philosopher is that
rhyming is not usually considered a priority – that’s why the old Romans like
Lucrezio never had to rhyme – you might say metre is essential to Parmenide and
Lucrezio – and that there is metre in my prose if not in endecasibili!” -- Grice:
“This is important for an Oxonian; since Sir Peter once told me that he made an
effort to understand Italian – ‘or Tuscan implicature,’ to be more precise –
just to be able to digest Inferno compleat with rhyme.’” Grice: “Must say that
my favourite Dante is ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate.”” Grice: “The
Italians, all being Renaissance men, love to catalogue as ‘philosopher’ those
whom the head of the Sub-Faculty of Philosophy at Oxford would NOT: Alighieri,
one of them!” Grice: “But then, a sport of Italian philosophers is to ramble on
“Pinocchio,” too!” -- “The Commedia and philosophy.” Liste di opere.
Refs.: “Philosophical references in Dante’s Commedia.” Se voleme guardare
in LINGUA d'oco e in LINGUA DI si, ec.e
D’oco, ec. Non giudico superfluo il dire alcuna cosa su questa. Massimamente
quelli di LINGUA denominazione ancor chè ne sia stato già parlato d’altri. È
costume de’ nostri antichi, volendo essi denominare il linguaggio d’una nazione,
prendere il suo distintivo dalla particella affermativa del volgare di quella
gente. Per tanto la lingua italiana si dice la lingua del si, la tedesca dell'
io, la gallica dell’oi, la provenzale dell’hoc. Eco sì si vada discorrendo dell'altre
lingue. Varchi nel Tuo Ercolano facendosi interrogare da Castiglione sul
particolare della lingua italiana, con queste parole: Cbi la cbie mase la lingua
del si? Risponde: seguiterebbe una largbissi modi. visione, che ho fa delle lingue
nominandole da quella particella colla quale affermano – come è la lingua d'hoc,
chiamata da volgari lingua d'OCA; perciocchè hoc in quella lingua significa
quanto væí nella greca, e etiam ita mella lasina, e pelle soffre si; perciò A. dice:
Ab Pisa, vitupero delle gesti del bel paese là, dove’l si suona. Ed avanti a
Varchi Benvenuto da Imola su questo medesimo luogo. Quia generaliter omnis gens
italica ut unturisto vulgari sì. Ubi germani dicunt “io”, do aliqui gallici
dicunt “oi”, do aliqui pedemontani dicunt ol vel dic. Leggo foc credendolo
errore del copista nel MS Laurenziano Derivano tutte queste particelle dal
latino. Il “si” nostro deriva dal “sico”, “sic est”, e forse più interamente da “sic est
bec. “Od” al contrario deriva da “hoc”, “est hoc.” L'altra di queste voci è presa
da’ provenzali, cioè l'hoc. E da questa è non solamente illor parlare
denominato “lingua d'oco”, che vale a dire lingua dell'hoc. Ma il paese ancora “Linguadoca”.
E ne'tempi più balli della latina lingua è detto “Occitania”, il qual paese non
è altro che l'antica Gallia Narbonensis. Lo “io” del tedesco derova dal latino
“illudbocest”, ed in più perfetta pronunzia “ja”, dal latino “iam est”. Il
gallico ai, dall “hec illud est”, che bene si ritrova nell'antico “ouill”, che
adesso è diventato “oui”. Ed, in somma, il piemontese ol, dall'istesso “hoc
illud”. Sicché, a proposito del passo d’A., in lingua d’oco, e in lingua di sì,
vuol dire in lingua provenzale, ed in lingua Italiana. Concioffiacbè conciosracofache. Lingua, dal lat. 'lingua',
voce usata in due significazioni. Principal nel significato proprio, per
quell'organo mobilissimo del corpo anide che è posto nella bocca ove si stende
dall'osso joide fin dietro denti incisivi. La lingua è la sede del senso del
gusto, serve alla funzione del succhiare, alla masticazione, alla deglutizione,
alla pronuncia delle parole, ed allo sputare. Varia molto nella grandezza ha la
forma d'una piramide, appianata dall'alto al basso, rotonda su i suoi angoli, e
terminata da certa punta ottusa che guarda ne davanti. Ma, in uso metaforico,
'lingua' vale pure idioma, linguaggio, favella. A. usa 'lingua' nei due suoi
significati principali spesse volte nelle sue opere, nel secondo significato
metaforico specialmente nel Vulg. El. Nella Div. Com., 'lingua' si trova XXX volte
-- XIX nell'Inferno (II, 25; X1,72; IIV, XV, 87; XVII, 75; XVIII, 60,126; XXI,
137; XXII, 90; xxx,133; IITL 72, 89; XXVII, 18; XXVIII, 4, 101; xxx, 122; XXXI,
1; XXIII, 9, 1146; III volte nel Purgatorio (vii, 17; XI, 98; xix,13) e VIII
volte nel Paradiso. 63; X1, 23; XVII, 87; XXIII, 55; XXVI, 124; XXVII,131;
XXXIII,70,708. Sulle dottrine d'A. concernenti la lingua – cioè, in uso
metaforico, il linguaggio umano, conviene rimandare al Vulg. El., specialmente
al libro I di questo saggio. Si notino i seguenti usi. Lingua, riferito a sete;
Inferno xxx, 122. Trarre la lingua, per Spingerla fuori della bocca; atto di
SPREGIO; Inf. xvii, 75.-3. Mostrare ciò che puote una lingua, per condurre un
idioma all'apice della sua perfezione; Purg. VII, 17.-4. Scernere nella lingua,
le parole dette o scritte; Purg. XV, 87.-5. la gloria della lingua, Il pregio
d'un idioma, e la maestria dell'usarlo; Purg. XI, 98.-6. A. chiama la lingua
italiana “lingua di sì”, la provenzale lingua d'oc, la francese lingua
d'oil;Vulg. El. 1, 8, 30 eseg.; cfr. Vit. N. xxv, 24 e seg.-7. Concernente la
lingua primitiva A. esterna in diversi tempi dee opinioni diverse. Secondo Vulgare
Eloquenza I, 6, 29 e seg. la lingua dei primi parenti è parlata da tutti i loro
discendenti sino alla edificazione della torre di Babele, e dagl’brei anche
dopo, onde la lingua primitiva è semplicemente l'ebraica (dalla quale per A.
deriva l’italiano). Invece secondo Par. XXVI, 124 e seg. la lingua primitiva,
parlata da Adamo, è tutta spenta già prima della confusione babilonica. La
lingua adamica non ha dunque che fare nè coll'ebraica, nè con altre lingue,
come la lingua del si o l’italiana. Anche in merito alla maggiore o minor
nobiltà della lingua dei Romani A. muta
opinione. Secondo il Convito. I, 5, 76 e seg. la lingua dei romani è più bella,
più virtuosa e più nobile dell’italianao. Invece, secondo il Volgare Eloquenza
1, 1, il volgare è più nobile del Latino. La seconda opinione è tutta
propria d'A. e segna un progresso nello svolgimento di quello che Grice chiama
‘la semantica d’A.’. La prima è la corretta e l’opinione dominante del tempo,
accettata anche d'A., finchè i suoi studi e l’altri italiani lo indussero a
lasciarla. La tèrra d’Occitania a gardat fin a
aüra un immense patrimòni gropat simplament a sa lenga, una lenga qu’es istaa
la primiera, comà es ressauput, naissuá dal latin, a èsser escrita, una lenga
que vuèlh soventar, a donat vita a la primiera literatura moderna europencha,
quèla qu’a servit de model per totas las autras lengas, qu’aviá trobat dau
l’acomençament sa forma escrita, fòrça unitaria. Es pas aicí lo luòc
adont percorrer l’istòira de nòstra lenga faça als colonialismes qu’an empachat
la creacion d’una lenga e de istitucions politicas unitarias mas la retrobaa
unitarietat culturala de la tèrra occitana en cèstos darrieri ans a fait
creisser un’ideá, beleu un utopiá, quèla de una Nacion, malaürament sença
estat, de una Nacion culturala. Lo mot Occitaniá, ben conoissut fin a la
Rivolucion, a retrobat sa modernitat geografica, istorica, lingüistica. Malaürosament nòstra lenga ilh es
aüra, apres mila ans, entren de se perdre, de se esvantar al solelh. Un procés
qu’a començat a partir dal segle XVI, quand nòstra tèrra occitana a perdut
definitivament son autonomiá. Quèlos que los expecialistas de la lenga noman
gallicismes, an começat penetrar en Occitaniá sobretot a partir de l’ordonança
de Villers-Cotterêts quand lo francés es devengut lenga uficiala de la lei e de
l’administracion francesa. Eissubliaa la cultura dal Meianatge, quèla,
per se comprener, dals trobaires, la lenga occitana es chaüta dins l’umbla condicion
de, e zo dizo abó una paraula francésa, patois, patés. Cèsta paraula la vòl
dire parlar abó las pautas, abó los pès. Dins las Valadas avem perdut la
valor de la paraula patois e l’anobrem tranquilament per dire que parlem a
nòstra mòda, comà la se ditz dins tantas valadas. Mas lo mot patois pòl indicar
qualsevuèlhe parlar natural dal mond, sença donar una precisa indicacion sus la
lenga parlaa. Per aiquò Occitan es l’unica paraula que pòl servir per nomar
nòstra lenga, l’unica que rend justiça a mila ans d’istòira. Pas mens de viatge
sabem pas de adont arriba nòstre vocabolari, quala istòira an nòstras
paraulas. Comà bien sabon, la plus part dal vocabolari es d’origina
latina, comun a quasi totas las lengas romanzas. Un’autra partiá dal vocabolari
ven dal grec e decò aicí zo partagem abó las autras lengas; un’autra encara nos
ven de las lengas alemandas o germanicas, de quèlos puèples qu’an envaít
l’Imperi roman. Resta una fòrta presença de paraulas que beleu nos venon de las
lengas parlaas dins nòstros territòris quand los romans sion arribats en çò
nòstre: de lengas de sobstrat, que normalment partatgem en lengas anarias, al
es a dire d’ancianas lengas mediterranèa comà lo ligure, l’etrusc o de lenga
arias pre-latinas comà lo gallic o la lenga celta. Comà la se pòl
comprener sien drant a un tresaur lexical en partiá ben conoissut, mas adont
los trabalhs lexicologics abondan pas e adont de ensemb lingüistic comà
l’occitan alpec, nomat a son temps vivarò-alpenc, reston mal conoissut. Comà a escrit Geuljan dins son “Dictionnaire
Etymologique de la Langue d’Oc”,
l’occitan est la seule grande langue romane dépourvue d’un dictionnaire etymologique.
Volem pas de segur far concorrença al trabalh qu’es istat entrenat per lo Prof.
Geuljan, mas prepausar de trabalhs sus l’etimologiá de paraulas pas gaire
conoissuás de nòstra Valadas e de l’encemb occitano-alpenc per arribar, dins lo
temps, a la redaccion d’un Diccionari Etimologic de l’Occitan Alpenc. Pas
mens nòstre Diccionari Etimologic sarè bilengas, es a dire li aurè una partiá
entierament en lenga occitana e una traducion italiana. Escriure un Diccionari
sus nòstra lenga adont per chasca paraula la se dona la traduccion dins una
lenga diferenta de la nòstra me sembla una chausa que vai contra la lenga
meseima. Pensatz a un
vocabolari de l’italian o dal francés o de un’autra lenga adont la descripcion
de la paraula siè dins un’autra lenga. Per l’occitan pareis siè la nòrma.
Lo Tresor dóu Felibrige de Mistral, lo vocabolari de Alibert comà tuts los autri
que sion istats realizats dins cèstos ans donan la paraula en occitan, mas tota
la descripcion, e pas mesquè la traducion, dins un’autra lenga, o lo francés o
l’italian. Per far un autre exemple, plus recent, cito un grand trabalh
de lexicografia comà quel de Jusiana Ubaud, adont tota l’introduccion e la
descripcion de l’òbra es en francés. Perquè un’obra sus la lenga occitana deu
èsser ilustraa en se servent d’un’autra lenga? Cèstos diccionaris rintran dins
la categoriá dals vocabolaris “dialectals”; meseime los pauqui vocabolaris fait
aicí dins las Valadas, normalment de l’occitan local a l’italian, rintran dins
aicèsta categoriá. Los catalans non pas, nos mostran, abó sos
Diccionaris, que se pòion justament redigir de diccionaris completament en
lenga sença la sugecion d’un autra lenga, comà totas las autras lengas
nacionalas. Per aiquò, en cèst espaci, en cèsta rubrica, chercharem de
esclarzir l’origina de certenas paraulas, beleu pas gaire conoissuás, de nòstre
vocabolari. Ritrovando io, che alcuno avanti me abbia della VOLGARE
ELOQUENZA niuna cosa trattato, e vedendo questa cotal eloquenza esesere
veramente necessaria a tutti, conciò sia che ad essa non solamente gl’italianai,
ma ancora le femine, et i piccoli fanciulli, in quanto la natura permette, sisforzino
pervenire. Volendo al quanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come
ciechi passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori
essere anteriori. Con l’aiuto che Dio ci manda dal cielo, ci sforzeremo di dar giovamento
al parlare della gente italiana volgare. Nè solamente l'acqua del nostro
ingegno a si fatta bevanda piglie ma remo, ma ancora pigliando, ovvero
compilando le cose migliori da gl’altri, quelle con le nostre mescoleremo,
acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora perciò che
ciascuna dottrina semantica deve non provare, aprire il suo suggetto, acciò si
sappia che co sa sia quella, ne la quale essa dimora,dico, che 'l parlar volgare
chiamo quello del VOLGO, nel quale i fanciulli sono assuefatti da gl’assistenti,
quan do primieramente cominciano a distinguere le voci, o vero, come più brevemente
sipuò dire, il Volgar Parlare affermo essere quello, il quale senza altra
regola, imitando la balia, s'apprende da nostro padre e da nostra madre
(‘lingua matrix’). Ecci ancora un altro
secondo parlare il quale I ROMANI chiamano “letteratura” (greco: grammatica). E
questo secondario hanno parimente i greci e altri, ma non tutti – i
anglo-sassoni mancano delle lettere ma hanno delle rune -- perciò che pochi a
l'abito di esso pervengono. Conciò sia che, se non per spazio di tempo e
assiduità di studio, si ponno prendere le regole, e la dottrina di lui. Di
questi dui parlari adunque l’italiano volgare è più nobile dell’antico romano, si
perchè è il primo ch’è da l'umana generazione italiana usato, si eziandio
perchè in esso tut to'l mondo ragiona, avegna che in diversi vocaboli e diverse
prolazioni sia diviso. Si ancora per essere NATURALE a noi, gl’italiani, essendo quel l'altro – come la lingua del
VIRGILIO – ‘artificiale’. E di questo più nobile è la nostra intenzione di
trattare. Il testo latino dei romani ha: ipsa (locutione) per fruitur. Ossia:
di esso si serve. Nn dico nostro, perchè altro parlar ci sia che quello
dell'uomo. Perciò che fra tutte le cose che sono, solamente all’italiano è dato
il parlare italiano, sendo a lui necessario solo. Certo non a gl’angeli, non a
gli animali inferiori è necessario parlare. Adunque sarebbe stato dato in vano
a costoro -- non avendo bisogno di esso. E la natura certamente abborrisce di
fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente considerare la intenzione
griceiana del parlar nostro, ni un'al trace ne troveremo che il manifestare ad
altri i concetti dell’ANIMA nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima, e ineffabile
sufficienzia d'intelletto da chiarire i loro gloriosi concetti, per la qual
sufficienzia d'intelletto l'uno è totalmente noto all'altro, o per sè, o almeno
per quel fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi,
e in cui avidis simi sispecchiano; pertanto pare, che diniuno SEGNO di parlare
abbiano avuto mestieri. Ma chi oppone a questo, allegando quei spiriti, che
cascarono dal cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima,
che quando noi trattiamo di quelle cose, che sono che l'uomo italiano –
“homo sapiens sapiens” -- solo ha il COMERCIO del parlare. Qeesto, l’italiano, è
il nostro vero, naturale, e primo parlare: Qa bene essere, devemo essi lasciar
da parte, conciò sia che questi perversi non vollero aspettare la divina cura.
Seconda risposta,e meglio è, che questi demoni a manifestare fra sè la loro
perfidia, non hanno bisogno di conoscere, se non qualche cosa di ciascuno,
perchè è, e quanto è 1: il che certamente sanno; perciò che si conobbero l'un
l'altro avanti la ruina loro. A gl’animali inferiori poi non è bisogno
provvedere di parlare. Conciò sia che, per solo istinto di natura, siano
guidati. E poi tutti quelli animali che sono di una medesima specie hanno le
medesime azioni e le medesime passioni. Per le quali loro proprietà possono le
altrui conoscere. Ma a quelli che sono di diverse specie non solamente non è
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi è opposto che il serpente che parla
a la prima femina, e l'asina di Balaam parla, a questo rispondo, che l'angelo
ne l'asina, e il diavolo nel serpente hanno talmente operato, che essi animali
mossero gl’organi loro; e così d'indi la voce risultò distinta, come vero
parlare; non che quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del
serpente altro che fischiare. Il testo ha: non indigent,
nisi ut sciant qui libet de quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe
più proprio il tradurre cosi. Non hanno bisogno di CONOSCERE se non ciascheduno
di ciaschedun altro che è, e quanto è: ossia l'esistenza e il grado. Se
alcuno poi argumentasse da quello, che quel ingenoso romano, OVIDIO, dice nel V
de la Metamorfosi che il pico parla; dico che OVIDIO dice ‘parla’ FIGURATAMENTE,
intendendo altro. Ma se si dice che il pico presente o altro uccello come il papagallo del principe Maurizio ‘parla’,
dico ch'egli è FALSO. Tale atto non è parlare, ma è certa imitazione del suono
de la nostra voce italiana; o vero che si sforzano di imitare noi in quanto
soniamo, ma non in quanto parliamo. Tal che se quello che alcuno espressamente
dice, ancora il pico ridice, questo non è se non rappresentazione, o vero
imitazione del suono di quello, che prima avesse detto. E così appare a l'uomo
italiano solo essere stato dato il parlare l’italiano. Ma per qual cagione esso
gli è necessario, ci sforzeremo brievemente trattare. Che fu necessario a
l'uomo il comercio Ovendosi adunque l'uomo non per istinto di natura,ma per
ragione. Ed essa ragione o circa la separazione, o circa il giudidizio, o circa
la elezione diversificandosi in ciascuno. Tal che quasi ogni uno della sua
propria. La voce del testo “discrezione” sarebbe resa meglio dalla parola “discernimento”
-- del parlare -- specie s'allegra. Giudichiamo che niuno intenda l'altro per
le sue proprie azioni, o passioni, come fanno le bestie; nè anche per speculazione
l'uno può intrar ne l'altro, come l’archangelo Gabriele, sendo per la grossezza,
e opacità del corpo mortale la umana specie da ciò ritenuta. È adunque bisogno che
volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE i suoi concetti ha qualche SEGNO
sensuale e razionale per ciò che dovendo prendere una cosa dalla ragione e ne
la ragione portarla, bisognava essere razionale ma non potendosi alcuna cosa di
una ragione in un'altra portare se non per il mezzo del SENSUALE è bisogno
essere sensuale, perciò che se 'l è solamente razionale, non puo trapassare. Se
solo sensuale, non potrebbe prendere da la ragione, nè ne la ragione de porre.
E questo è SEGNO che il subietto, di che parliamo, è nobile. Perciò che in
quanto è suono, el segno è per natura una cosa sensuale. In quanto che, secondo
la volontà di ciascuno, IL SEGNO significa qualche cosa, il segno è, come dice
Grice, razionale. Ilt esto ha. Hoc equidem SEGNO est, ipsum subjectum nobile, dequo
loquimur. Natura sensuale quidem, in quantum sonus est. Esse; RATIONALE VERO IN
QVANTVM ALIQVID SIGNIFICARE VIDETVR AD PLACITVM. A noi pare più giusto l'interpretare
questo passo cosi. Questo SEGNO -- l'aliquod rationale signum et sensuale, di
cui parla poche righe più sopra) è per l'appunto il nobile soggetto di cui
parliamo. Sensuale, per natura, in quanto è suono fisico – la fissi greca la
natura romana. Razionale, inquantoche, se che uomo (zoon logikon) è
prima dato il parlare, e che disse prima, et in che lingua. l'uomo italiano
solo è dato il parlare l’italiano. Ora istimo che appresso debbiamo
investigare, a che uomo è prima dato il parlare, e che cosa prima dice, e a chi
l’umo parla, e dove e quando, et eziandio in che linguaggio il primo suo
parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima parte del Genesis, ove la
sacratissima scrittura tratta del principio del mondo, si truova la femina,
prima che niun altro, aver parlato, cio è la presontuosissima Eva, la quale al
diavolo, che la ricercava, dice. Dio ci ha commesso, che non mangiamo del
frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo tocchiamo, acciò
che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in scritto si trovi la donna aver
primieramente parlato, non di meno è ragionevol cosa che crediamo, che l'UOMO è
quello che prima parla. Nè cosa inconveniente mi pare secondo la volontà di
ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale interpretazione stala
punteggiatura, e la voce esse del testo, che sarebbe di troppo; ma, per
compenso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di tutto il
Capitolo. Manifesto è per le cose già dette, che a pensare, che così eccellente
azione de la il generazione umana prima da L’UOMO, che da la femina
procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato
primieramente il parlare da Dio, subito che l’ha formato. – cf. La teoria
stoica sull’origine naturale del linguaggio e la prima significazione naturale
-- Che voce poi è quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in
pronto; e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per
modo d'interrogazione, o per modo di risposta.Assurda cosa veramente pare,e da
la ragione aliena, che da l'uomo è nominata cosa alcuna prima che Dio; con ciò
sia che da esso, et in esso è fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazione dell’umana
generazione, ciascuno esordio di parlare comincia da heu; così è ragionevol
cosa, che quello che è davanti, cominciasse da allegrezza, e conciò sia che
niun gaudio sia fuori di Dio, ma tutto in Dio, & esso Dio tutto sia allegrezza,
conseguente cosa è che 'l primo parlante dicesse primieramente Dio. Quindi
nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di
risposta parlato, se risposta è, devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe, che
Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello che avemo detto di
sopra. Al qual dubbio risponderemo, che ben può l'uomo aver risposto a Dio, che
lo interrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELA DEL LAZIO (la
latina), che dicemo. Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non
si pieghino secondo il voler di Dio, da cuièfatta, governata, e conservata
ciascuna cosa? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per
comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di
Dio,di maniera che fa risuonare i tuoni, ful gurare il fuoco, gemere l'acqua, e
sparge le nevi, e slancia la grandine; non si moverà egli per comandamento di
Dio a far risonare al cune parole le quali siano distinte da colui, che maggior
cosa distinse?e perchè no? Laon de et a questa, et ad alcune altre cose credia
mo tale risposta bastare. Dove, et a cui prima l'uomo parla. ta così dalle cose
superiori, come da le inferiori, che il primo uomo drizzasse il suo primo
parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo parlante parla
subito, che è da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo, che
molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia
sentito, e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, PROMETEO, di ogni
perfezione principio et amatore, inspirando il primo uomo con ogni perfezione
compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima
cominciasse a sentire, che 'l fosse sentito. Se alcuno poi dice contra l’obiezioni, iudicando
adunque (non senza ragione trat che non è bisogno che l'uomo parla,
essendo egli solo; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed
anco prima di noi discerne; ora (con quella riverenzia, la quale devemo
usare ogni volta, che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo), dico,che
avegna che Dio sa, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il
concetto del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parla;
acciò che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo
avea do nato, se ne gloriasse. E perciò devemo credere che da Dio proceda, che
ordinato l'atto dei nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare
il loco, nel quale è mandata fuori la prima FAVELLA; perciò che se è animato
l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori. Se dentro, diremo che dentro è il
loco del suo primo parlare. Ra perchè i negozj umani si hanno ad esercitare per
molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non intesi da molti, che
se fussero senza esse. Però fia buono investigare di quel parlare, del quale si
crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente Di che idioma prima
l'uomo parla, e donde è l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si
nutri, e che nè pupillare età vide, nè adulta. In questa cosa, sì come in altre
molte, Pietra mala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei
figliuoli di Adamo. Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione,
che creda, che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi
sotto il sole, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare,
cioè la sua materna locuzione, a tutti gli altri; e conseguentemente credere
essa essere stata quella di Adamo. Ma noi, acui il mondo è patria, sì come
a'pesci il mare, quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'ARNO avanti che avessimo
denti, e che amiamo tanto FIRENZE, che pe averla amata patiamo ingiusto
esiglio, non dimeno le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso
appoggiamo. E benchè se condo il piacer nostro, o vero secondo la quiete de la
nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di FIRENZE; pure rivolgendo
i vo lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente
e particularmente si descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del
mondo, e le abitudini loro tra l'uno e l'altropolo, e'lcircolo equatore, fermamente
comprendo, e credo, molte regioni e città essere più nobili e deliziose che TOSCANA
e FIRENZE, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti
usare più dilette vole, e più utile SERMONE, che gl’italiani. Ritornando
adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare è creata da Dio
insieme con l'anima prima, e dico forma, quanto ai vocaboli delle cose, e
quanto a la construzione de’ vocaboli, e quanto al proferir de le construzioni;
la quale forma veramente ogni parlante lingua userebbe, se per colpa de la
prosunzione umana non è stata dissipata. Di questa forma di parlare parla Adamo,
e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre di Babel, la quale si
interpreta la torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato
i figliuoli di Eber, i quali da lui furono detti ebrei; a cui soli dopo la
confusione rimane, acciò che il nostro Redentore, il quale dove nascere di loro,
usasse, secondo l’umanità, della lingua della grazia, e non di quella de la
confusione degl’ebrei. È adunque l’ebreo idioma quello, che è fabbricato dalle
labbra del primo parlante confuso. ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat
secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratiæ frueretur. E deve
tradursi: il quale dove vanascere di loro secondo l'umanità, usasse della
lingua della grazia – o di GRICE --, e non di quella della confusione. Hi
come gravemente mi vergogno di rin e per. A en ta generazione umana. Ma
perciò che non possia mo lasciar di passare per essa, se ben la faccia diventa
rossa, e l'animo la fugge, non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona
ai peccati, oh da principio, e che mai non finisce, piena di nequizia; non era
stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e
stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la
universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di
te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso, il male, che tu avevi
commesso, gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti? Certo
assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire, Non andrai a
cavallo anzi terza; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo. Ecco,lettore,
che l'uomo, o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e
rivolgendo gli occhi da le sferze, che erano rimase, venne la terza volta a le
botte, per la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo
cuore lo incu rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di superare con
l'arte sua non solamente la na tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e
cominciò ad edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè
confusione, per la quale sperava di ascendere al cielo,avendo intenzione, lo
sciocco,non solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia
senza misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal
figliuolo? Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna, et a
battiture assueta, il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre
zione castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua
concorsa; parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte
impiombavano, parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per
ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano, quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera, diversificandosi in
molte loquele, da essa cessavano, nè mai a quel medesimo comercio convenivano;
et a quelli soli, che in una cosa convenivano una Witte osserva che in luogo di
pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la
volgata nel testo latino, si deve leggere: pars amussibus tegulabant, pars
trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre: parte arrotavano sulle
pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa loquela
attualmente rimase, come a tutti gli architetti una, a tutti i conduttori di
sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di tutti gli
operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera, di tanti varj
linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti
ficio di ciascuno, tanto era più grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia,
a li quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio
loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli
operanti.Ma questi furono una minima parte di quelli quanto al numero; e furono,
sì come io comprendo, del seme di Sem, il quale fu il terzo figliuolo di Noè,
da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione
fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente
confusione di lingue non leggieramente giudichiamo, che allora primieramente gl’uomini
furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le regioni e angoli di
esso. E conciò sia che la sottodivisione del parlare per il mondo, principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffusi, è la propagazione nostra
distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde primieramente le
gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de i fiumi di tutta Europa. Ma
ofussero forestieri questi, cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima
in E u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco; e
parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la
settentrionale, et i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte de
l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto, nac quero diversi volgari, come di sotto
dimostre remo; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, ITALIA e Gallia, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: avegna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi e
altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato; rimanendo questo solo
per segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti
volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo
idioma,cioè da iconfini de gl’ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel
tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e
più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo
idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia; perciò che volendo
affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spa gnuoli, Francesi et
Italiani. Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno
istesso idioma, è in pronto;perciò che molte cose chiamano per i medesimi
vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri
molti.Di questi adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc
tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de’ GENOVESI; quelli
poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino
a quel promontorio d'ITALIA, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la
Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto
di questi; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal
ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha: A b isto incipiens idiomate,
videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quod ab inde
vocatur Europa, nec non ul terius est protractum. Totum autem, quod in Europa
restat ab istis, tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A
cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un
altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa,
e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa
tenne un terzo idioma. glese, e dai monti di Aragona terminati, dal mezzo di
poi sono chiusi da' Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è
bisogno porre a pericolo 1 la Il verbo periclitari del testo latino qui vale
mettere alla prova, cimentare. ragione, che avemo, volendo ricercare di
quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de
la variazione, che intervenne al parlare, che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada, però so lamente
per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte, conciò sia
che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio abbia ad esser causa
ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in
tre parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si, e altri oil. E che
questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente
provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli
eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo
il medesimo parlare si muta, e de la invenzione de la grammatica. A la
quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la
edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte
cose convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor. Gerardo di Berneil, Surisentis fez
les aimes Puer encuser Amor. Il re di Navara, De'finamor
sivientsenebenté. M. Guido Guinizelli, Nè fè amor, prima che gentil core, Nè
cor gentil,prima che amor,natura. Investighiamo adunque, perchè egli in tre
parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè
stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de
la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani, e altramente i Pisani: e
investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel
parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI e Fiorentini;e ancora perchè siano
differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole
tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini; e quel che è più maraviglioso, cerchiamo
perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città dimorano,
come sono i Bolognesi del borgo di san Felice, e i Bolognesi della strada
maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con
una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque, che niuno effetto avanza
la sua ca gione, in quanto effetto, perchè niuna cosa può fare ciò che ella non
è. Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con
l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale
niente altro fu che una oblivione de la loquela prima, et essendo l'uomo
instabilissimo e va riabilissimo animale, la nostra locuzione ne durabile nè
continua può essere; ma come le altre cose che sono nostre (come sono costumi
et abiti), simutano; cosìquesta, secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è
bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare che nel modo che avemo
detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si varii, anzi è
fermamente da tenere; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le
altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri
cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n
tunquecisianomoltolontani1. Il perchè audacemente affermo, che se gli
antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,parlerebbero di diverso parlare di
quello, che ora parlano in Pavia; nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja
maraviglioso, che I qualicisianomolto lontani (magis....quam a coetaneis
perlonginquis). ciparrebbe a vedere un giovane cresciuto,il quale
non avessimo veduto crescere.Perciò che le cose, che a poco a poco si movono,
il moto loro è da noi poco conosciuto;e quanto la va riazione de la cosa
ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è da noi più stabile
esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i discorsi di quegli uomini,che sono
poco da le bestie differenti, pensano che una istessa città abbia sempre il
medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di essa città
non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia divenuta, e sia la
vita de gli uomini di sua natura brevissima. Se adunque il sermone ne la
istessa gente (come è detto) successivamente col tempo si varia, nè può per
alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di coloro, che lontani e
separati dimorano, sia variamente variato; sì come sono ancora variamente
variati i costumi et abiti loro, i quali nè da natura,nè da consorzio umano
sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi
nasciuti. Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale
grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi
tempi e luo ghi. Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non
par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere
variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare, il
quale De la varietà del parlare in Italia da la destra e sinistra parte
de l'Appennino. Ra uscendo in tre parti diviso (come di, per singulare arbitrio
si move,non ci fossero o in tutto tolte, o imperfettamente date le a u torità,
et i fatti de gli antichi, e di coloro da i quali la diversità dei luoghi ci fa
esser divisi. sopra è detto) il nostro parlare nella comparazione di se stesso,
secondo che egli è tri partito, con tanta timidità lo andiamo ponde rando, che
nè questa parte, nè quella, nè quell'altra abbiamo ardimento di preporre, se
non in quello sic, che i grammatici si trovano aver preso per avverbio di
affirmare: la qual cosa pare, che dia qualche più di autorità a gli Italiani, i
quali dicono si.Veramente ciascuna di queste tre parti con largo testimonio si
d i fende. La lingua di oil allega per sè, che, per lo suo più facile e più dilette
vole Volgare, tutto quello che è stato tradotto, o vero ritrovato in prosa
volgare,è suo; cioè la Bibbia,ifatti de i Trojani e dei ROMANI, le bellissime
favole del re Artù, e molte altre istorie e dottrine 1. ma: 0 · Il Fraticelli
avverte, a ragione, che qui bisognava tradurre non: la Bibbia,ifatti de'
Trojani... i libri che contengono i fatti de' Trojani. L'altra poi
argomenta per sè, cioè la lingua di oc; e dice che i volgari eloquenti
scrissero i primi poemi in essa, sì come in lingua più perfetta e più dolce;
come fu Piero di Alver nia et altri molti antiqui dottori.La terza poi, che è
de gli Italiani, afferma per dui privilegj esser superiore; il primo è, che
quelli, che più dolcemente e più sottilmente hanno scritti poe mi, sono stati i
suoi domestici e famigliari, cioè Cino da Pistoja, e lo amico suo; il secondo
è, che pare, che più s'accostino a la grammatica, la quale è comune.E questo, a
coloro, che vogliono con ragione considerare, par g r a vissimo argomento. Ma
noi lasciando da parte il giudicio di questo, e rivolgendo il trattato nostro
al VOLGARE ITALIANO, ci sforzeremo di dire le variazioni ricevute in esso, e
quelle fra sè compareremo. Dicemo adunque laItalia essere primamente in due
parti divisa,cioè ne la de stra e ne la sinistra; e se alcuno dimandasse qual è
la linea che questa diparte,brievemente rispondoessere il giogo del'Appennino; il
quale, come un colmo di fistula, di qua e di là a diver se gronde piove,e
l'acque di qua e di là per lunghi embricia diversi liti distillan, come Lucano
nel secondo descrive; et il destro lato ha il mar Tirreno per grondatoio, il
sinistro v'ha lo Adriatico. Del destro lato poi sono regioni la Puglia,ma non
tutta, Roma, il Ducato 1, + Ducato di Spoleto, Toscana, la Marca di
Genova. Del sinistro so no parte de la Puglia, la Marca d’Ancona, la Romagna,
la Lombardia, la Marca Trivigiana, con Venezia. Il Friuli veramente, e l'Istria
non possono essere se non de la parte sinistra d'Italia; e le isole del mar
Tirreno, cioè Sicilia e Sardigna,non sono se non de la destra, o veramente sono
da essere a la destra parte d'Italia accompagnate.In ciascuno adun que di
questi dui lati d'Italia, et in quelle parti che si accompagnano ad essi, le
lingue de gli uomini sono varie; cioè la lingua de i S i ciliani co iPugliesi,
e quella de i Pugliesi coi ROMANI,e dei ROMANI coi Spoletani,edi que
sticoiToscani,edeiToscani coiGenovesi,e de i Genovesi co i Sardi. E similmente
quella de i Calavresi con gli Anconitani, e di costoro coiRomagnuoli,e dei Romagnuoli
coi Lombardi, edeiLombardi coi Trivigiani e Veneziani, e di questi co i
Friulani, e di essi con gl'Istriani; ne la qual cosa dico, che nessuno de
gl’Italiani dissentirà da noi. Onde L’ITALIA sola appare in X I V Volgari esser
variata: cia scuno dei quali ancora in sè stesso si varia: come in Toscana i
Senesi e gli Aretini, in L o m bardia i Ferraresi e i Piacentini; e parimente
in una istessa città troviamo essere qualche variazione di parlare,come nel
Capitolo di so pra abbiamo detto. Il perchè se vorremo cal culare le prime, le
seconde, e le sottoseconde variazioni del Volgare d'Italia,avverrà che in Si
dimostra, che alcuni in Italia hanno brutto et inornato parlare. Ssendo IL
VOLGARE ITALIANO per molte varietà dissonante, investighiamo la più bella et illustre
loquela d'Italia; et acciò che a la nostra investigazione possiamo avere un
picciolo calle, gettiamo prima fuori de la selva gli a r
boriattraversati,elespine. Sicome adunque i Romani si stimano di dover essere a
tutti preposti, così in questa eradicazione, o vero estirpazione, non
immeritamente a gli altri li preporremo; protestando essi in niuna ragione de
la Volgare Eloquenza esser da toccare. Di cemo adunque il Volgare de'Romani,o
per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i Volgari
Italiani; e non è maraviglia, sendo ne i costumi e ne le deformità de gli abiti
loro sopra tutti puzzolenti. Essi dicono: M e sure, quinte dici 1. Dopo questi
caviamo quelli de la Marca d’Ancona, i quali dicono Chigna mente sciate siate
2; con i quali mandiamo via questo minimo cantone del mondo si verrà,non
solamente a mille variazioni di loquela, m a ancora a molte più. I Sorella mia,
che cosa dici? Qualmente siate state, i Spoletani. E non è da preterire, che in
vitu perio di queste tre genti sono state molte can zoni composte, tra le quali
ne vidi una drit tamente e perfettamente legata, la quale un certo fiorentino,
nominato il Castra, avea com posto; e cominciava, Una ferina va scopai da Cascoli Cita cita sen
gia grande aina Dopo questi i Milanesi, et i Bergamaschi,& i loro vicini
gettiam via; in vituperio de i quali mi ricordo alcuno aver cantato, Ciò fu del
mes d'ochiover. Dopo questi crivelliamo
gli Aquilejensi, e gli I striani, i quali con crudeli accenti dicono Ces fastù;
e con questi mandiam via tutte lem o n tanine e villanesche loquele, le quali
di brut tezza di accenti sono sempre dissonanti da i cittadini, che stanno in
mezzo le città, come i Casentinesi, et i Pratesi. I Sardi ancora, i quali non
sono d'Italia,ma a la Italiaaccom pagnati, gettiam via: perchè questi soli ci p
a jono essere senza proprio Volgare, et imitano la grammatica,come fanno le
simie gli uomini; perchè dicono, Domus nova,e Dominus meus. Una ferina vosco
poi da Cascoli In te l'ora del
vespero, Il Fontanini propone di leggere: Zita zita sen gia a grande aina. Zita
vale gita; e aina val fretta. Ancor che l'aigua per lo foco lassi. Amor, che longamente m'hai menato. Ma questa
fama de la terra di Sicilia, se dirit tamente risguardiamo, appare, che
solamente per opprobrio de'principi Italiani sia rimasa; i quali non con modo
eroico,ma con plebeo seguono la superbia. Ma quelli illustri eroi Federico
Cesare et il ben nato suo figliuolo Manfredi, dimostrando la nobiltà e
drittezza de la sua forma,mentre che la fortuna gli fu fa vorevole,seguirono le
cose umane,e le bestiali sdegnarono. Il perchè coloro,cheeranodialto De lo
Idioma Siciliano e Pugliese. Ei crivellati (per modo di dire) Volgari d'Italia,
facendo comparazione tra quelli che nel crivello sono rimasi, brievemente sce
gliamo il più onorevole di essi. E primiera mente esaminiamo lo ingegno circa
il Siciliano, perciò che pare che il Volgare Siciliano abbia assunto la fama
sopra gli altri; conciò sia che tutti i poemi, che fanno gl'Italiani, si chia
mino Siciliani,e conciò sia che troviamo molti dottori di costà aver gravemente
cantato,come in quelle canzoni, Et, Se questo poi non vogliamo
pigliare, ma quello che esce de la bocca de i principali Si ciliani, come ne le
preallegate canzoni si può vedere, non è in nulla differente da quello,che è
laudabilissimo, come di sotto dimostreremo. |Traduzione letterale di altripices,
chesignifica in gannatori., cuore e di grazie dotati,si sforzavano di ade rirsi
alla maestà di sì gran principi; talchè in quel tempo tutto quello, che gli
eccellenti Italiani componevano, ne la Corte di sì gran re primamente usciva. E
perchè il loro seggio regale era in Sicilia, è avvenuto,che tutto quello che i
nostri precessori composero in Volgare, si chiama Siciliano; il che ritenemo
ancora noi; et i posteri nostri non lo potranno mutare. Racha, Racha.Che suona
ora la tromba de l'ultimo Federico? che ilsonaglio del secondo Carlo? che i
corni di Giovanni e di Azzo m a r chesi potenti?cheletibiedeglialtrimagnati? se
non, Venite, carnefici; Venite, altripici 1; Venite, settatori di avarizia.M a
meglio è tor nare al proposito, che parlare indarno. Or dicemo,che se vogliamo
pigliare il Volgar Siciliano,cioè quello che vien da imediocri pae sani, da la
bocca de i quali è da cavare il giu dizio, appare, che il non sia degno di
essere preposto a gli altri;perciò che 'l non si profe risce senza qualche
tempo, come è in Traggemi d'este focora
se t'este a bolontate. I Pugliesi poi, o vero per la acerbità loro, o vero per
la propinquità dei suoi vicini, che sono Romaneschi e Marchigiani, fanno brutti
barbarismi. E'dicono, Per fino amore
vo'si lietamente. Il perchè a quelli,
che noteranno ciò che si è detto di sopra, dee essere manifesto, che nè il
Siciliano, nè il Pugliese è quel Volgare che in Italia è bellissimo; conciò sia
che abbiamo m o strato, che gli eloquenti nativi di quel paese sieno da esso partiti.
De lo Idioma de i Toscani e dei
Genovesi. per la loro pazzia insensati, pare che a r rogantemente
s'attribuiscano il titolo del Volgare Illustre; et in questo non solamente
la Volzera che chiangesse lo
quatraro.Ma quantunque comunemente ipaesani pugliesi parlino bruttamente,
alcuni però eccellenti tra loro hanno politamente parlato, e posto ne le loro
canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare a chi iloro
scritti con sidera,come è, Madonna, dir vi voglio.E, opinione dei plebei
impazzisce, m a ritruovo molti uomini famosi averla avuta: come fu Guittone
d’Arezzo, il quale non si diede mai al Volgare Cortigiano; Bonagiunta da Lucca,
Gallo pisano, Mino Mocato senese,eBrunetto fioren tino, i detti dei quali, se
si avrà tempo di esaminarli,noncortigiani,ma proprjdeleloro cittadi essere si ritroveranno.
Ma conciò sia che i Toscani siano più de gli altri in questa ebrietà furibondi,
ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a ciascuno de i
Volgari delle città di Toscana.I Fiorentini par. lano, e dicono, Non facciamo altro. I Pisani,
Bene andonno li fanti de Fioranza per Pisa. I Lucchesi, Fo voto a Dio,che ingassara eie lo comuno de
Luca. I Senesi, Vo'tu venire ovelle? Di
Perugia, Orbieto, Viterbo e Città Castel lana, per la vicinità che hanno con
Romani e Spoletani, non intendo dir nulla.Ma come che quasi tutti i Toscani
siano nel loro brutto par Onche rinegata avessi io Siena. Gli Aretini, Manuchiamo introcque. lare ottusi,non
di meno ho veduto alcuni aver conosciuto la eccellenzia del Volgare,cioè Guido,
Lapo et un altro, fiorentini, e Cino Pistojese, il quale al presente
indegnamente posponemo, non indegnamente costretti.Adunque se esami neremo le
loquele toscane, e considereremo, come gli uomini molto onorati si siano da
esse loro proprie partiti, non resta in dubbio che il Volgare, che noi
cerchiamo, sia altro che quello che hanno ipopoli di Toscana. Se alcu no poi
pensasse che quello, che noi affermiamo de i Toscani,non sia da affirmare de
iGenovesi, questo solo costui consideri, che se i Genovesi per dimenticanza
perdessero il z lettera, biso gnerebbe loro, o ver essere totalmente muti, o
ver trovare una nuova locuzione; perciò che il z è la maggior parte del loro
parlare; la qual lettera non si può se non con molta aspe rità proferire. nino, et investighiamo tutta la sinistra parte
d'Italia, cominciando, come far solemo, a levante. Intrando adunque ne la
Romagna, dicemo che in Italia abbiamo ritrovati dui Vol gari, l'uno a l'altro
con certi convenevoli con De loIdioma di Romagna, edialcuni
Transpadani,especialmentedelVeneto. P Assiamo ora le frondute spalle de l'Appen
trarj opposto !, de li quali uno tanto femenile ci pare per la mollizia dei
vocaboli e de la p r o nuncia, che un uomo (ancora che virilmente parli) è
tenuto femina. Questo Volgare hanno tutti i Romagnuoli, e specialmente i
Forlivesi, la città de i quali, avegna che novissima sia, non di meno pare
esser posta nel mezzo di tutta la provincia. Questi affermando dicono Deusci, e
facendo carezze sogliono dire oclo meo,e co rada mea.Bene abbiamo inteso,che
alcuni di costoro ne i poemi loro si sono partiti dal suo proprio
parlare,cioèTomaso et Ugolino Buc ciola faentini.L'altro de idue parlari,che
ave mo detto, è talmente di vocaboli et accenti ir suto et ispido, che per la
sua rozza asperità non solamente disconza una donna che parli, ma ancora fa
dubitare, s'ella è uomo. Questo tale hanno tutti quelli che dicono magara, cioè
Bressani, Veronesi, Vicentini, et anco i P a doani, i quali in tutti i
participj in tus,e de nominativi in tas, fanno brutta sincope, come è merco, e
bonté. Con questi ponemo eziandio i Trivigiani, i quali al modo de i Bressani,
e de i suoi vicini proferiscono lo v consonante per f, removendo l'ultima
sillaba, come è nof per nove, vi f per vivo; il che veramente è barbarissimo, e
riproviamlo. I Veneziani ancora non saranno degni de l'onore de l'investigato
Il testo latino ha: duo. vulgaria, quibusdam convenientiis contrariis
alternata. tra i quali abbiamo veduto uno, che si è sfor zato partire dal
suo materno parlare, e ridursi al volgare cortigiano, e questo fu Brandino
padoano. Laonde tutti quelli del presente Ca pitolo comparendo alla sentenzia, determiniamo,
che nè il Romagnuolo nè ilsuo contrario,come si è detto, nè il Veneziano sia
quello Illustre Volgare che cerchiamo. CA Fa gran discussione del parlare nolognese.
quello che della italica selva ci resta. D i cemo adunque,che forse non hanno
avuta mala opinione coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella
loquela ragionano; conciò sia che da gli Imolesi,Ferraresi eModenesi qualche
cosa al loro proprio parlare aggiungano; chè tutti, sì come avemo mostrato,
pigliano dai loro vicini, come Sordello dimostra de la sua Mantova, che con
Cremona, Bressa e Verona confina. Il qual uomo fu tanto in eloquenzia, che non
solamente ne i poemi, m a in ciascun modo che parlasse, il Volgare de la sua
patria abbandond.Pigliano ancora iprefati cittadini Volgare; e se alcun di
loro, spinto da errore, in questo vaneggiasse, ricordisi se mai disse, Per le plage de Dio tu non verás ; Ra ci
sforzeremo, per espedirci,a cercare la leggerezza e la mollizia da
gl'Imolesi, e da i Ferraresi e Modenesi una certa loquacità, la qual è propria
de i Lombardi. Questa, per la mescolanza de i Longobardi forestieri, crediamo
essere rimasa ne gli uomini di quei paesi; e questa è la ragione, per la quale
non ritro viamo che niuno, nè Ferrarese, nè Modenese, nè Reggiano,sia stato
poeta;perciò che assue fatti a la propria loquacità, non possono per alcun
modo,senza qualche acerbità, al Volgare Cortigiano venire. Il che molto
maggiormente de i Parmigiani è da pensare; i quali dicono inonto per molto. Se
adunque i Bolognesi da l'una e da l'altra parte pigliano, come è detto,
ragionevole cosa ci pare che il loro parlare, per la mescolanza de gli oppositi,
rimanya di laudabile suavità temperato: il che per giudi zio nostro senza
dubbio esser crediamo.Vero è che se quelli, che prepongono il Volgare S e r
mone de iBolognesi,nel compararli essi hanno considerazione solamente a i
Volgari de le città d'Italia, volentieri ci concordiamo con loro. M a se
stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere da preferire, siamo da essi
differenti e discordi; perciò che egli non è quello che noi
chiamiamoCortigiano& Illustre;ches'elfosse quello,ilmassimo Guido
Guinizelli,Guido Ghis liero, Fabrizio, & Onesto,& altripoetinon sariano
mai partiti da esso; perciò che furono dottori illustri, e di piena
intelligenzia ne le cose volgari. Più non attendo il tuo soccorso, Amore. Le quali parole sono in tutto diverse da le
pro prie bolognesi. Ora perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle
città che sono poste ne le estremità d'Italia; e se alcuno pur dubita, non lo
stimiamo degno de la nostra soluzione; però poco ci resta ne la discussione da
dire. Laonde disiando di deporre il crivello, accid che tosto veggiamo quello
che in esso è rimaso, dico che Trento, e Turino,& Alessandria sono città
tanto propinque a i termini d'Italia, che non ponno avere pura loquela; tal che
se così come hanno bruttissimo Volgare,così l'avessono bellissimo, ancora
negherei esso essere vera mente Italiano, per la mescolanza che ha de gli
altri.E però se cerchiamo il Parlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo
non si può in esse città ritrovare. Il massimo Guido, Fabrizio, Madonna, ilfermocore. Lo mio lontano gire. Onesto
e pascoli d'Italia, e non avemo quella
pantera, che cerchiamo, trovato; per potere essa meglio trovare, con più
ragione investi ghiamola; acciò che quella, che in ogni loco si sente, et in
ogni parte appare?, con sollecito studio ne le nostre reti totalmente
inviluppia mo. Ripigliando adunque inostri istrumenti da cacciaredicemo, cheinognigenerazionedi
cose è di bisogno che una ve ne sia,con la quale tutte le cose di quel medesimo
genere si abbiano a comparare e ponderare, e quindi la misura di tutte le altre
pigliare.Come nel numero tutte le cose si hanno a misurare con la unità;e di
consi più e meno, secondo che da essa unità sono più lontane, o più ad essa
propinque. E cosi ne i colori tutti si hanno a misurare col bianco; e diconsi
più e meno visibili, secondo che a lui più vicini, e da lui più distanti si
sono.E sicome diquestichemostrano quan tità e qualità diciamo, parimente di
ciascuno I L'edizione del Corbinelli ha: redolentem ubique, etnec apparentem. Witte
propone di leggere: nec usquam apparentem. De lo eccellente Parlar
Volgare, il quale è comune a tutti gli Italiani. A poi che avemo cercato per
tutti i salti D de i predicamenti e de la sustancia pensiamo potersi dire;
cioè che ogni cosa si può misu rare in quel genere con quella cosa, che è in
esso genere simplicissima. Laonde ne le nostre azioni, in quantunque specie
sidividano,sibi sogna ritrovare questo segno,col quale esse si abbiano a
misurare; perciò che in quello che facciamo come simplicemente uomini, avemo la
virtù,la quale generalmente intendemo?; perciò che secondo essa giudichiamo
l'uomo buono e cattivo;in quello poi che facciamo, come uomini cittadini,avemo
la legge,secondo la quale si dice buono e cattivo cittadino;così in quello, che
come uomini italiani facciamo, avemo le cose simplicissime. Adunque se le
azioni italiane si hanno a misurare e ponde rare con i costumi, e con gli
abiti, e col parlare,quelle de leazioni italiane sono simplicissi me, che non
sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono comuni in tutte 2; tra le quali
ora si 2 Il testo latino ha: inquantum uthominesLatini agimus,quædam habemus
simplicissima signa,idest morum,et habituum, et locutionis, quibus LATINO actiones
ponderantur et mensurantur. Quce quidem nobilissimasuntearum,quæ LATINORVM
sunt,actio num, hæc nulliuscivitatisItaliæ propria sunt,sed in omnibus communia
sunt: inter que nunc potest di scerni Vulgare. Il Fraticelli raddrizzò la
traduzione del Trissino a questo modo: in quello che, come uomini Il testo latino ha: virtutem habemus, ut
genera literillas (actiones) intelligamus.Edevetradursi:ab biamo per intenderle
(leazioni) generalmente,lavirtù. può discernere il Volgare,che di
sopra cerca vamo, essere quello,che in ciascuna città ap pare, e che in niuna
riposa 1. Può ben più in una,che in un'altra apparere,come fa la sim plicissima
de le sustanzie, che è Dio, il quale più appare ne l'uomo che ne le bestie, e
che ne le piante, e più in queste che ne le miniere, et in esse più che ne gli
elementi,e più nel foco, che ne laterra.E lasimplicissima quantità,che è
uno,più appare nel numero dispari che nel italiani facciamo, abbiamo certi
segni semplicissimi, cioè de'costumi, degli abiti e del parlare, coi quali le
azioni italiane si hanno a misurare e ponderare.Adun que quelle delle azioni
italiane sono nobilissime, che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma
sono co muni in tutte: tra le quali ora si può discernere il Volgare. Il
Trissino, in luogo di nobilissime, ha semplicissime;eforselasua
lezioneèlavera.Levoci nobilissima, hæc,propria,communiaedinterquo non possono
riferirsi ad actiones, ma a signa: cosicchè si dovrebbe tradurre segni nobilissimi.
M a il dir segni nobilissimi è, certo, poco conforme al concetto generale del
Capitolo, nel quale l'autore non parla che di semplicis simi segni: e quindi la
traduzione più propria parrebbe dovesse essere la seguente: ora, quelli, che
sono segni semplicissimi delle azioni degli Italiani, quelli non sonpropri di
nessuna città,ma comuni a tutte:trai quali....;epiùbrevemente: iqualisegnidelleazioni
degli Italiani non son propri di nessuna città. 4 Vulgare.... quod in
qualibet civitate apparet, nec cubat in ulla. Il Manzoni, citando questo passo
nella lettera al Bonghi, da noi ristampata, traduce più esatta mente: il
Volgare, che in ogni città dà sentore di sè, e non si annida in nessuna.
pari; et il simplicissimo colore,che è ilbianco, più appare nel citrino
che nel verde. Adunque ritrovato quello che cercavamo, dicemo, che il Volgare
Illustre, Cardinale, Aulico e Corti giano in Italia è quello, il quale è di
tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna, col quale il Volgare di
tutte le città d'Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare. Perchè
questo Parlare si chiami Illustre. Erchè adunque a questo ritrovato Parlare
aggiungendo Illustre,Cardinale, Aulico e Cortigiano, cosi lo chiamiamo, al
presente di remo; per il che più chiaramente faremo parere quello, che esso è.
Primamente adunque d i m o striamo quello che intendiamo di fare, quando vi
aggiungiamo Illustre, e perchè Illustre il dimandiamo.Per questonoiildicemo
Illustre, che illuminante et illuminato risplende. Et a questo modo nominiamo
gli uomini illustri, o vero perchè illuminati di potenzia sogliono con
giustizia e carità gli altri illuminare, o vero perchè eccellentemente
ammaestrati, eccellen temente ammaestrano, come fe'Seneca e Numa Pompilio; et il
Volgare di cui parliamo, il quale innalzato di magisterio e di potenzia,
innalza i suoi di onore e di gloria. E ch'el sia da magisterio innalzato, si vede,
essendo egli O n senza ragione esso Volgare Illustre o r
niamodisecondagiunta, cioèche Cardinale il chiamiamo, perciò che si come tutto
l'uscio seguita il cardine, talchè dove il cardine si volta, ancor esso (o
entro, o fuori che 'l si pie Perchè questo Parlare si chiami Cardinale,
di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante per plesseconstruzioni,ditante
difettivepronunzie, di tanti contadineschi accenti, cosi egregio, così
districato, così perfetto e così civile ri dotto, come Cino da Pistoja e
l'amico suo ne le loro canzoni dimostrano. Che 'l sia poi esaltato di potenzia,
appare: e qual cosa è di maggior potenzia che quella, che può i cuori de gli u
o mini voltare, in modo che faccia colui che non vole, volere;e colui che vole,
non volere, come ha fatto questo, e fa? Che egli poscia innalzi di onore chi lo
possiede, è in pronto: non sogliono i domestici suoi vincere di fama
ire,imarchesi,iconti,etuttiglialtrigrandi? certo questo non ha bisogno di
pruova.Quanto egli faccia poi i suoi famigliari gloriosi, noi stessi l'abbiamo
conosciuto, i quali per la dol cezza di questa gloria ponemo dopo le spalle il
nostro esilio. Adunque meritamente dovemo esso chiamare Illustre. NA Aulico, e
Cortigiano. Il testo latino ha: Est etiam merito curiale dicen dum, quia
curialitas nil aliud est, etc. Il Fraticelli os serva in questo proposito
quanto segue: La Curia è il foro, illuogo o vesitrattanogliaffaripubblici;ma
es ghi)si volge; cosi tutta la moltitudine de i Volgari de le città si
volge e rivolge, si move e cessa,secondo che fa questo.Il quale veramente
appare esser padre di famiglia; non cava egli ogni giorno gli spinosi
arboscelli della italica selva? non pianta egli ogni giorno semente o inserisce
piante? che fanno altro gli agricoli di lei se non che lievano, e pongono, come
si è detto? Il perchè merita certamente essere di tanto vocabolo ornato. Perchè
poi ilnominiamo Aulico, questa è la cagione: perciò che se noi Italiani
avessimo Aula,questi sarebbe palatino. Se la Aula poi è comune casa di tutto il
regno, e sacra gubernatrice di tutte le parti di esso; convenevole cosa è che
ciò che si truova esser tale,che sia comune a tutti,e proprio di niuno; in essa
conversi et abiti; nè alcuna altra abi tazione è degna di tanto
abitatore.Questo ve ramente ci pare esser quel Volgare, del quale noi parliamo;
e quinci avviene, che quelli che conversano in tutte le Corti regali, parlano
sempre con Volgare Illustre. E quinci ancora è intervenuto che il nostro
Volgare, come fore stiero va peregrinando, et albergando ne gli umili asili,
non avendo noi Aula.Meritamente ancora sidee chiamare Cortigiano,perciò che la
cortigiania niente altro è,che una pesatura de le cose che si hanno
a fare; e conciò sia che la statera di questa pesatura solamente ne le ec
cellentissime Corti esser soglia, quinci avviene, che tutto quello, che ne le
azioni nostre è ben pesato, si chiama cortigiano. Laonde essendo questo ne la
eccellentissima Corte d'Italia p e sato,merita esser detto Cortigiano.Ma a dire
che 'l sia ne la eccellentissima Corte d'Italia pesato, pare fabuloso, essendo
noi privi di Corte; a la qual cosa facilmente si risponde. Perciò che avegna
che la Corte (secondo che ụnica si piglia, come quella del re di Alema gna) in
Italia non sia,le membra sue però non cimancano;ecome lemembra diquelladaun
principe si uniscono,cosi le membra di questa dal grazioso lume de la ragione
sono unite; e però sarebbe falso a dire, noi Italiani mancar di Corte
quantunque manchiamo di principe; perciò che avemo Corte, avegna che la sia cor
poralmente dispersa, sendo dal Trissino tradotto la Corte, viene a prodursi
confusione, perchè Corte è sinonimo di Aula o Reggia, Per l'esattezza del
significato converrà rendere la voce curialitas per curialità: e cosi in
appresso per cui curiale le voci curia e curialis., e Che i Volgari
Italici in uno si riducono, Uesto Volgare adunque,che essere Illustre, Q
Cardinale,Aulico e Cortigiano avemo dimo strato,dicemo esser quello,che si
chiama Vol gare Italiano; perciò che sì come si può tro vare un Volgare che è
proprio di Cremona, così se ne può trovar uno che è proprio di Lombardia, et un
altro che è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia; e come tutti questi si
ponno trovare, così parimente si può trovare quello, che è di tutta Italia. E
sì come quello si chiama cremonese e quell'altro lombardo,e quell'altro di
mezza Italia, così questo che è di tutta Italia si chiama Volgare Italiano.Que
sto veramente hanno usato gl’illustri dottori che in Italia hanno fatto poemi
in Lingua Vol gare; cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i
Romagnuoli,iLombardi,e quelli delaMarca Trevigiana e de la Marca d’Ancona. E
conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel principio dell'opera
promesso) sia d'insegnare la dottrina de la Eloquenzia Volgare; però da esso
Volgare Italiano,come da eccellentissimo, cominciando, tratteremo nei seguenti
libri, chi e quello si chiama Italiano. siano quelli, che pensiamo
degni di usare esso, e perchè, e a che modo, e dove, e quando, et a chi sia
esso da dirizzare. Le quali cose chia rite che siano, avremo cura di chiarire i
Vol gari inferiori, di parte in parte scendendo sino a quello che è d'una
famiglia sola. e quali no. del nostro ingegno,e ritornando al calamo de
la utile opera,sopra ogni cosa confessiamo, che 'l sta bene ad usarsi il
Volgare Italiano Illustre così ne la prosa, come nel verso. M a perciò che
quelli che scrivono in prosa,pigliano esso Volgare Illustre specialmente da i
trovatori; e però quello che è stato trovato, rimane un fermo esempio a le
prose,ma non al contrario; per ciò che alcune cose pajono dare principalità
Corbinelli e, dietro lui, tutti gli altri hanno poli citantes, che non ha senso
ol'hamoltooscuro;ma forse si deve leggere sollicitantes. Quali sono
quelli che denno usare il Volgare Illustre, P. Romettendo 1 un'altra volta la
diligenzia La voce inventum qui significa poetato. al verso;
adunque secondo che esso è metrico, versifichiamolo 1, trattandolo con
quell'ordine, che nel fine del primo Libro avemo promesso. Cerchiamo adunque
primamente, se tutti quelli che fanno versi volgari, lo denno usare, o no. Vero
è, che cosi superficialmente appare di sì; perciò che ciascuno che fa versi,dee
ornare i suoi versi in quanto 'l può. Laonde non sendo niuno di sì grande
ornamento, com'è il Volgare Illustre, pare che ciascun versificatore lo debbia
usare. Oltre di questo, se quello, che in suo genere è ottimo, si mescola con
lo inferiore, pare che non solamente non gli tolga nulla, ma che lo faccia
migliore.E però se alcun versificatore, ancora che faccia rozza mente versi,lo
mescolerà con la sua rozzezza, non solamente a lei farà bene, ma appare che
così le sia bisogno di fare; perciò che molto è più bisogno di ajuto a quelli
che ponno poco, che a quelli che ponno assai;e così appare che a tutti i
versificatori sia licito di usarlo. M a questo è falsissimo; perciò che ancora
gli eccellentissimi poeti non se ne denno sempre vestire,come per le cose di
sotto trattate si po trà comprendere.Adunque questo Illustre Volgare ricerca
uomini simili a sé,sì come ancora fanno gli altri nostri costumi et abiti: la m
a gnificenzia grande ricerca uomini potenti, la · Il testo latino ha ipsum
carminemus, che non vale versifichiamolo, ma pettiniamolo, rimondiamolo. porpora
uomini nobili; così ancor questo vuole uomini di ingegno e di scienze
eccellenti; e gli altri dispregia, come per le cose, che poi si diranno, sarà
manifesto.Tutto quello adunque, che a noi si conviene, o per il genere, o per
la sua specie, o per lo individuo ci si convie ne; come è sentire, ridere,
armeggiare; m a questo a noi non si conviene per il genere; perchè sarebbe
convenevole anco a le bestie; ne per la specie; perchè a tutti gli uomini saria
convenevole: di che non c'è alcun dubbio; chè niun dice,che'lsiconvenga
aimontanari.Ma gli ottimi concetti non possono essere, se non dove è
scienzia,& ingegno; adunque la ottima loquela non si conviene a chi tratti
di cose grossolane; conviene sì per l'individuo; m a nulla a l'individuo
conviene se non per le pro prie dignità; come è mercantare, armeggiare,
reggere.E però, selecoseconvenienti risguar dano le dignità, cioè i degni; et alcuni
possono essere degni, altri più degni, et altri degnissi mi;è manifesto,che le
cose buone a i degni,le migliori a i più degni, le ottime a i degnissimi si
convengono. E conciò sia che la loquela non altrimenti sia necessario
istromento a i nostri concetti, di quello che si sia il cavallo al sol dato; e
convenendosi gli ottimi cavalli a gli ottimi soldati, a gli ottimi concetti
(come è detto) la ottima loquela si converrà. Ma gli ottimi concetti non ponno
essere,se non dove è scien zia,& ingegno;adunque laottimaloquelanon si
convien se non a quelli, che hanno scienzia, et ingegno; e così non à tutti i
versificatori si convien ottima loquela, e consequentemente nè l'ottimo Volgare;
conciò sia che molti senza scienzia,e senza ingegno facciano versi.E però, se a
tutti non conviene, tutti non denno usa re esso; perciò che niuno dee far
quello, che non si gli conviene.E dove dice,che ogni uno dee ornare i suoi
versi quanto può, affermiamo esser vero; m a nè il bove efippito !, nè il porco
balteato chiameremo ornato,anzi fatto brutto, e di loro ci rideremo; perciò che
l'ornamento non è altro, che uno aggiungere qualche con venevole cosa a la cosa
che si orna. A quello ove si dice, che la cosa superiore con la infe riore
mescolata adduce perfezione, dico esser vero,quando laseparazionenonrimane;come
è, se l'oro fonderemo insieme con l'argento; ma se la separazione rimane,la
cosa inferiore si fa più vile; come è mescolare belle donne con brutte. Laonde
conciò sia che la senten zia de i versificatori sempre rimanga separata mente
mescolata con le parole, se la non sarà ottima, ad ottimo Volgare accompagnata,
non migliore,ma peggiore apparerà,a guisa di una brutta donna, che sia di seta
o d'oro vestita. Ephipiatum vale insellato, e balteatum vale cin turato. In
qual materia stia bene usare Apoichè avemo dimostrato, che non tutti il
Volgare Illustre. D tissimi denno usare il Volgare Illustre, conse i
versificatori, m a solamente gli eccellen quente cosa è dimostrare poi, se
tutte le m a terie sono da essere trattate in esso, o no; e se non sono tutte,
veder separatamente quali sono degne di esso. Circa la qual cosa prima è da
trovare quello che noi intendiamo,quando dicemo degna essere quella cosa, che
ha di gnità, si come è nobile quello che ha nobiltà; e così conosciuto lo
abituante, si conosce lo abituato, in quanto abituato di questo; però
conosciuta la dignità, conosceremo ancora il degno. È adunque la dignità un
effetto, o vero termino de i meriti;perciò che quando uno ha meritato bene,
dicemo essere pervenuto a la dignità del bene; e quando ha meritato male, a
quella del male; cioè quello che ha ben c o m battuto, è pervenuto a la dignità
de la vittoria, e quello che ha ben governato, a quella del regno; e così il
bugiardo a la dignità de la vergogna, et il ladrone a quella de la morte. Ma
conciò sia che in quelli, che meritano bene, si facciano comparazioni, e cosi
ne gli altri, perchè alcuni meritano bene,altri meglio, altri
ottimamente, et alcuni meritano male, altri peggio,altripessimamente;e
conciò ancora sia, che tali comparazioni non si facciano, se non avendo
rispetto al termine de imeriti, il qual termine (come è detto) si dimanda
dignità, manifesta cosa è,che parimente le dignità hanno comparazione tra sè,secondoilpiù&
ilmeno; cioè che alcune sono grandi, altre maggiori, altre grandissime; e
consequentemente alcuna cosa è degna, altra più degna, altra degnis sima; e
conciò sia che la comparazione de le dignità non si faccia circa il medesimo
objetto, ma circa diversi, perchè dicemo più degno quello che è degno di una
cosa più grande, e degnissimo quello che è degno d'una altra cosa grandissima;
perciò che niuno può essere di una stessa cosa più degno; manifesto è che le
cose ottime (secondo che porta il dovere) sono de le ottime degne.Laonde
essendo questo Volgare (che dicemo Illustre) ottimo sopra tutti gli altri
volgari,consequente cosa è,che solamente le ottime materie siano degne di
essere trat tateinesso;ma qualisisianopoiquellema terie,che chiamiamo
degnissime,è buono al presente investigarle. Per chiarezza de le quali cose è
da sapere, che si come ne l'uomo sono tre anime, cioè la vegetabile, la animale
e la razionale, cosi esso per tre sentieri cammina; perciò che secondo che ha
l'anima vegetabile, cerca,quello che è utile, in che partecipa con le piante;
secondo che ha l'animale, cerca, quello, che è dilettevole, in che
partecipa con le bestie; e secondo che ha la razionale, cer ca l'onesto, in che
è solo, o vero a la natura angelica s'accompagna; tal che tutto quel che
facciamo, par che si faccia per queste tre cose. E perchè in ciascuna di esse
tre sono alcune cose, che sono più grandi, et altre grandissi me; per la qual
ragione quelle cose, che sono grandissime, sono da essere grandissimamente
trattate, e consequentemente col grandissimo Volgare; ma è da disputare quali
si siano que ste cose grandissime. E primamente in quello, che è utile; nel
quale, se accortamente consi deriamo la intenzione di tutti quelli, che cer
cano la utilità, niuna altra troveremo, che la salute. Secondariamente in
quello, che è dilet tevole; nel quale dicemo quello essere massi mamente
dilettevole, che per il preciosissimo objetto de l'appetito diletta; e questi
sono i piaceridiVenere.Nel terzo,cheèl'onesto, niun dubita essere la virtù. Il
perchè appare queste tre cose,cioè la salute,ipiaceridi Ve nere, e la virtù
essere quelle tre grandissime materie, che si denno grandissimamente trat tare,
cioè quelle cose, che a queste grandissime sono; come è la gagliardezza de
l'armi, l'ar denzia de l'amore, e la regola de la volontà. Circa le quali tre
cose sole (se ben risguar diamo) troveremo gli uomini illustri aver vol
garmente cantato; cioè Beltramo di Bornio le armi; Arnaldo Danielo lo amore;
Gerardo de Bornello la rettitudine; Cino da Pistoia lo a m o re; lo amico
suo la rettitudine. Beltramo adunque dice,
Non puesc mudar q'un chantar non esparja. Arnaldo,
Laura amara fa 'ls broils blancutz clarzir. Gerardo, Non trovo poi, che
niun Italiano abbia fin qui cantato de l'armi. Vedute adunque queste cose (che
avemo detto), sarà manifesto quello, che sia nel Volgare Altissimo da cantare. In
qual modo di rime si debba usare Raci sforzeremo sollicitamente d'investi 0
gareilmodo,colqualedebbiamo stringere quelle materie, che sono degne di tanto
Volgare.Volendo adunque dare ilmodo, col quale Per solatz revelhar Que
s'es trop endormitz. Degno son io,che mora. Doglia mi reca nelo cuore ardire.
il Volgare Altissimo. Cino, Lo amico suo, queste degne materie si
debbiano legare; primo dicemo doversi a la memoria ridurre,che quelli, che
hanno scritto Poemi volgari,hanno essi per molti modi mandati fuori; cioè
alcuni per Canzoni, altri per Ballate, altri per Sonetti, altri per alcuni
altri illegittimi et irregolari modi, Come di sotto simostrerà. Di questi modi
adun que il modo de le Canzoni essere eccellentissi m o giudichiamo; là onde se
lo eccellentissimo è delo eccellentissimo degno, come di sopra è provato,le
materie che sono degne de lo eccel lentissimo Volgare, sono parimente degne de
lo eccellentissimo modo,e consequentemente sono da trattare ne le Canzoni;e che
'l modo de le Canzoni poi sia tale, come si è detto, si può per molte ragioni
investigare. E prima,essendo Canzone tutto quello che si scrive in versi, et essendo
a le Canzoni sole tal vocabolo attri buito, certo non senza antiqua prerogativa
è processo. Appresso, quello che per sè stesso adempie tutto quello per che
egli è fatto, pare esser più nobile, che quello che ha bisogno di cose che
sieno fuori di sè; m a le Canzoni fanno per sè stesse tutto quello che denno;
il che le Ballate non fanno, perciò che hanno bisogno di
sonatori,aliqualisonofatte;adunque séguita, che le Canzoni siano da essere
stimate più n o bili de le Ballate, e consequentemente il modo loro essere
sopra gli altri nobilissimo, conciò sia che niun dubiti, che il modo de le
Ballate non sia più nobile di quello de i Sonetti. A ppresso pare, che quelle
cose siano più nobili, che arrecano più onore a quelli che le hanno fatte; e le
Canzoni arrecano più onore a quelli che le hanno fatte, che non fanno le
Ballate; adunque sono di esse più nobili, e consequen temente il modo loro è
nobilissimo. Oltre di questo, le cose che sono nobilissime, molto ca ramente si
conservano; m a tra le cose cantate, le Canzoni sono molto caramente conservate,
come appare a coloro che vedeno ilibri; adun que le Canzoni sono nobilissime, e
consequen temente ilmodo loro è nobilissimo.Appresso, ne le cose artificiali
quello è nobilissimo che comprende tutta l'arte; essendo adunque le cose,che si
cantano, artificiali, e ne le Canzoni sole comprendendosi tutta l'arte, le
Canzoni sono nobilissime,ecosìilmodo loroènobi lissimo sopra gli altri.Che
tutta l'arte poi sia ne le Canzoni compresa, in questo simanifesta, che tutto
quello che si truova de l'arte, è in esse,ma non si converte 1. Questo segno
adun que di ciò che dicemo, è nel cospetto di ogni uno pronto; perciò che tutto
quello che da la cima de le teste de gli illustri poeti è disceso a le loro
labbra,solamente ne le Canzoni si ri truova. E però al proposito è manifesto,
che quelle cose che sono degne di Altissimo Volgare, si denno trattare ne le
Canzoni. Sed non convertitur. Più chiaro di non si converte sarebbe però non e
converso,ovvero non al contrario. De la varietà de lo stile secondo la qualità
de la poesia. L'adpotiavimus del LATINO nonvaleavemo approvato, ma abbiamo dato
a bere. Fraticelli propone che si tra duca per traslato: abbiamo dato un
saggio. A poi che avemo districando approvato 1 co, e che materie siano
degne di esso, e parimente il modo, il quale facemo degno di tanto onore, che
solo a lo Altissimo Volgare si con venga; prima che noi andiamo ad altro, di
chiariamo il modo delle ca nzoni, le quali pajono da molti più tosto per caso
che per arte usur parsi. E manifestiamo il magisterio di quel l'arte, il quale
fin qui è stato casualmente preso, lasciando da parte il modo deleBallate e de
i Sonetti; per ciò che esso intendemo dilu cidare nel quarto Libro di
quest'opera nostra, quando del Volgare Mediocre tratteremo. R i veggendo
adunque le cose che avemo detto, ci ricordiamo avere spesse volte quelli, che
fanno versi volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio ragionevolmente
avemo avuto ardimento di dire; per ciò che sono certamente poeti, se
drittamente la poesia consideriamo; la quale non è altro che una finzione
rettorica, e po sta in musica.Non di meno sono differenti da i, grandi poeti, cioè
da i regulati; per ciò che quelli 1 hanno usato sermone et arte regulata, e
questi (come si è detto) hanno ogni cosa a caso; il perchè avviene, che quanto
più stret tamente imitiamo quelli 2,tanto più drittamente componiamo; e però
noi, che volemo porre ne le opere nostre qualche dottrina, ci bisogna le loro
poetiche dottrine imitare. Adunque s o pra ogni cosa dicemo, che ciascuno
debbia pi gliare il peso de la materia eguale a le proprie spalle, a ciò che la
virtù di esse dal troppo peso gravata, non lo sforzi a cadere nel fango. Questo
è quello, che il maestro nostro ORAZIO comanda,quando nel principio dela sua
Poe tica dice, Voi, che scrivete versi,
abbiate cura Di tor subjetto al valor vostro eguale. Dapoinelecose,che
cioccorrono + Il testo latino ha isti:quindi non quelli,ma questi; e per
conseguenza nella riga seguente non questi, ma quelli. Sarebbe più chiaro dire
i primi in luogo di quelli. devemo usare divisione, considerando da
cantarsi con modo tragico,o comico, o ele giaco. Per la Tragedia prendemo lo
stile s u periore,per la Commedia lo inferiore, per l'E dei miseri. Se le cose
che ci oc legia quello cantate col correno, pare che siano da essere modo
tragico, allora è da pigliare il Volgare Illustre, e conseguentemente da legare
la Can a dire, se sono 1 Il testo latino ha: tensis fidibus adsumat
secure plectrum; che deve essere tradotto: tese le corde, a s suma francamente
ilplettro. zone; m a se sono da cantarsi con cómico, si piglia alcuna
volta ilVolgare Mediocre, ed al cuna volta l'Umile; la divisione de i quali nel
quarto di quest'opera ci riserviamo a mostra re. Se poi con elegiaco, bisogna
che solamente pigliamo l'Umile.M a lasciamo gli altri da parte, et ora (come è
il dovere) trattiamo de lo stile tragico. Appare certamente, che noi usiamo lo
stile tragico, quando e la gravità de le sen tenzie, e la superbia de i versi,
e la elevazione de le construzioni,e la eccellenzia de ivocaboli si concordano
insieme. M a perchè (se ben ci ricordiamo) già è provato, che le cose somme
sono degne de le somme, e questo stile che chiamiamo tragico, par e essere il
sommo dei stili; però quelle cose che avemo già distinte doversi sommamente
cantare, sono da essere in questo solo stile cantate; cioè la salute, lo amore
e la virtù, e quelle altre cose, che per cagion di esse sono ne la mente nostra
conce pute, pur che per niun accidente non siano fatte vili. Guardişi adunque
ciascuno, e di scerna quello che dicemo; e quando vuole que ste tre cose
puramente cantare, o vero quelle che ad esse tre dirittamente e puramente se
gueno, prima bevendo nel fonte di Elicona, ponga sicuramente a l'accordata lira
il sommo plettro 1,e costumatamente cominci.Ma a fare questa
Canzone e questa divisione come si dee, qui è la difficultà, qui è la fatica;
per ciò che mai senza acume d'ingegno, nè senza assiduità d'arte, nè senza
abito di scienze non si potrà fare. E questi sono quelli che 'l Poeta nel VI de
la Eneide chiama diletti da Dio, e da la ar dente virtù alzati al cielo, e
figliuoli de gli Dei, avegna che figuratamente parli. E pero si confessa la
sciocchezza di coloro, i quali senza arte,e senza scienzia,confidandosi
solamente del loro ingegno, si pongono a cantar som mamente le cose
somme.Adunque cessino que sti tali da tanta loro presunzione; e se per la loro
naturale desidia sono oche, non vogliano l'aquila,che altamente vola, imitare sentenzie
a bastanza, o almeno tutto quello che a l'opera nostra si richiede; il perchè
ci affretteremo di andare a la superbia dei versi. Circa i quali è da sapere,
che i nostri pre cessori hanno ne le loro Canzoni usato varie sorti di versi,
il che fanno parimente imoder ni; m a in fin qui niuno verso ritroviamo, che
abbia oltre la undecima sillaba trapassato, nè sotto la terza disceso. Et avegna
che i Poeti, De la composizione deiversi e de la loro varietà sillabica. Noi
pare di aver detto de la gravità de le A Italiani abbiano usate
tutte le sorti di versi, che sono da tre sillabe fino a undici, non di meno il
verso di cinque sillabe, e quello di sette, e quello di undeci sono in uso più
fre quente; e dopo loro si usa il trisillabo più de gli altri; de gli quali
tutti quello di undeci sillabe pare essere il superiore sì di occupa zione di
tempo, come di capacità di sentenzie, di construzioni e di vocaboli; la
bellezza de le quali cose tutte si moltiplica in esso, come manifestamente
appare, per ciò che ovunque sono moltiplicate le cose che pesano, si molti
plica parimente il peso.E questo pare che tutti i dottori abbiano conosciuto,
avendo le loro illustri Canzoni principiate da esso; come Bornello, Ara auzirez
encabalitz cantars. Il qual verso avegna che paja di dieci silla be,è
però,secondo la verità de la cosa, di undeci; per ciò che le due ultime
consonanti non sono de la sillaba precedente.Et avegna che non abbiano propria
vocale, non perdono però la virtù dela sillaba; & ilsegnoè,che ivi la rima
si fornisce con una vocale; il che essere non può se non per virtù de l'altra
che ivi si sottintende. Il re di Navara, De finamor sivient sen e bonté. Ove se
si considera l'accento e la sua cagione, apparirà essere endecasillabo. Amor,che
longiamente m'hai menato. Per finamore vo silietamente. Amor, che muovi tua
virtù dal cielo. Al cor gentil ripara sempre amore. 11 Giudice di Colonna da
Messina, Guido Guinicelli, Rinaldo d'Aquino, Non spero che giammai per mia
salute. Et avegna che questo verso endecasillalo (co me sièdetto) siasopratuttiperildoverece
leberrimo, non di meno se'l piglierà una cer ta compagnia de lo eptasillabo,
pur che esso però tenga il principato, più chiaramente e più altamente parerà
insuperbirsi, ma questo si rimanga più oltra a dilucidarsi. Così diciamo che
l’eptasillabo segue a presso quello che è massimo ne la celebrità. Dopo questo
quello che chiamiamo pentasillabo,e poi il trisillabo ordiniamo.Ma quel di nove
sillabe, per essere il trisillabo triplicato, o vero mai non fu in onore, o
vero per il fastidio è uscito di uso. Quelli poi di sillabe pari, per la sua
rozzezza non usiamo se non rare volte; per ciò che ri tengono la natura de i
loro numeri,i quali s e m Cino da Pistoja, Lo amico suo: Erchè circa il
Volgare Illustre la nostra nobilissimo; però avendo scelte le cose che sono
degne di cantarsi in esso, le quali sono quelle tre nobilissime che di sopra
avemo pro vate; et avendo ad esse eletto il modo de le Canzoni, si come
superiore a tutti gli altri modi, et a ciò che esso modo di Canzoni pos siamo
più perfettamente insegnare, avendo già alcune cose preparate, cioèlostile,&
iversi; ora de la construzione diremo. È adunque da sapere, che noi chiamiamo
construzione una regulata composizione di parole, come è, Ari stotile diè opera
a la filosofia nel tempo di Alessandro. Qui sono diece parole poste regu latamente
insieme, e fanno una construzione. pre soggiaceno a i numeri caffi, sì
come fa la materia a la forma. E cosi raccogliendo le cose dette, appare lo
endecasillabo essere su perbissimo verso; e questo è quello che noi cercavamo.
Ora ci resta di investigare de le construzioni elevate e de i vocaboli alti, e
fi nalmente, preparate le legne e le funi, inse gneremo a che modo il predetto
fascio, cioè la Canzone, si debba legare. De le construzioni, che si denno
usare ne le Canzoni. P si M a circa questa prima è da considerare,
che de le construzioni altra è congrua, et altra è incongrua.E
perchè(seilprincipiodelano stra divisione bene ciricordiamo)noi cerchiamo
solamente le cose supreme, la incongrua in questa nostra investigazione non ha
loco; per ciò che ella tiene il grado inferiore de la bontà. Avergogninsi
adunque, avergogninsi gli idioti di avere da qui innanzi tanta audacia, che v a
dano ale Canzoni;de iquali non altrimenti so lemo riderci, di quello che si
farebbe d'un cieco, il quale distingues sei colori. È adun que la construzione
congrua quella che cerchia mo.Ma ci accade un'altra divisione 2 di non minore
difficultà, avanti che parliamo di quella construzione,che cerchiamo,cioè di
quella che è pienissima di urbanità; e questa divisione e, che molti sono i
gradi de le construzioni, cioè lo insipido, il quale è de le persone grosse,
come è, Piero ama molto madonna Berta. Ecci il semplicemente saporito, il quale
è de i scolari rigidi, o vero de i maestri, come è, Di
tuttiimiserim'incresce;ma homaggiorpietà di coloro, i quali in esiglio
affliggendosi, r i vedeno solamente in sogno le patrie loro. Ecci ancora il
saporito e venusto, il quale è di alcuni, che così di sopra via pigliano la
Rettorica, come è, La lodevole discrezione del Meglio, forse, ragionasse o
giudicasse di colori. 2 Meglio distinzione (discretio). Nuls hom non pot
complir adreitamen. Amerigo di Peculiano, Si com’l'arbres,que per
sobrecarcar. Præparata qui ha il senso
di preveniente. Si per mon Sobretot no fos. Il re di Navara, T a m m'abelis l'amoros pensamens. Arnaldo Daniello, marchese da Este,e la sua
preparata 1 magni ficenzia fa esso a tutti essere diletto. Ecci a p presso il
saporito e venusto, ed ancora eccelso, il quale è dei dettati illustri, come
è,Avendo Totila mandato fuori del tuo seno grandissima parte de i fiori, o
Fiorenza, tardo in Sicilia, e indarno se n'andd. Questo grado di constru zione
chiamiamo eccellentissimo, e questo è quello che noi cerchiamo, investigando
(come si è detto ) le cose supreme. E di questo sola mente le illustri Canzoni
si trovano conteste, come: Gerardo,
Dreit amor qu'en mon cor repaire. Folchetto di Marsiglia, Sols sui qui sai lo sobrafan, que m sorts. Amerigo
de Belimi, Tegno di folle impresa a lo ver dire. Avegna ch'io non aggia più per tempo. Amor,
che ne la mente mi ragiona. N o n ti maravigliare, lettore, che io abbia tanti
autori a la memoria ridotti; per ciò che non possemo giudicare quella
construzione, che noi chiamiamo suprema, se non per simili esempj. E forse
utilissima cosa sarebbe per abituar quella, aver veduto i regulati poeti, cioè
Virgilio, la Metamorfosi di OVIDIO, STAZIO e LUCANO, e quelli ancora che hanno
usato al tissime prose; come è Tullio, Livio, PLINIO, Frontino, Paolo Orosio, e
molti altri, i quali la nostra amica solitudine ci invita a vedere. Cessino
adunque i seguaci de la ignoranzia, che estolleno Guittone d'Arezzo, et alcuni
al tri, i quali sogliono alcune volte 1 ne i vocaboli e ne le construzioni
essere simili a la plebe. Nunquam invocabulisatqueconstructionedesuetos
plebescere. Non dunque alcune volte,ma sempre. CAVALCANTI, Poi che di doglia cor convien, ch'io porti.
> Guido Guinizelli, Cino da Pistoja, Lo amico suo, 1 dere
ricerca, che siano dichiarati quelli vocaboli grandi, che sono degni di stare
sotto l'altissimo stile. Cominciando adunque, affir miamo non essere piccola
difficultà de lo intel letto a fare la divisione dei vocaboli; per cið che
vedemo, che se ne possono di molte m a niere trovare.De i vocaboli adunque
alcuni sono puerili, altri feminili, et altri virili, e di questi alcuni
silvestri,& alcuni cittadineschi chiamia m o 1,& alcuni pettinati, e
lubrici; alcuni irsuti e rabuffati conosciamo; tra i quali i pettinati e
gl’irsuti sono quelli che chiamiamo grandi; i lubrici poi e i rabuffati sono
quelli la cui riso nel metro volgare. A successiva provincia del nostro
proce. Quali vocaboli si debbano porre e quali no 1Corbinelli ha: et horum
quædam silvestria,quæ dam urbania:eteorum,quo urbana vocamus,quo dam
pesaethirsuta,quædam lubricaetreburrasenti mus. La traduzione del Trissino va raddrizzatacosi:edi
questi alcuni silvestri,e alcuni cittadineschi;e di quelli che chiamiamo
cittadineschi, alcuni pettinati e irsuti, alcuni lubricierabbuffati. Altrihanno
invece:quædam pexaet lubrica, quædam hirsutaetreburra:cioèal cunipettinati e
lubrici (ossia scorrenti),alcuni irsuti e rabbuffati., nanzia è superflua; per
ciò che si come ne le grandi opere alcune sono opere di magnanimità, altre di
fumo, ne le quali avvenga che così di sopra via paja un certo ascendere,a chi
però con buona ragione esse considera, non ascendere, m a più tosto ruina per
alti precipizj essere g i u dicherà; con ciò sia che la limitata linea de la
virtù si trapassi. Guarda adunque, lettore, quanto per scegliere le egregie
parole ti sia bisogno di crivellare; per ciò che se tu consi deri il Volgare
Illustre, il quale i Poeti Vol gari, che noi vogliamo ammaestrare, denno (come
di sopra si è detto) tragicamente usare, averai cura, che solamente i
nobilissimi vocaboli nel tuo crivello rimangano. Nel numero dei quali ne i
puerili per la loro simplicità, com'è mamma e babbo,mate epate,per niun modo
potrai collocare; nè anco i feminili, per la loro mollezza, come è dolciada e
placevole; nè i contadineschi per la loro austerità, come è gregia e gli altri;
nè i cittadineschi, che siano lubrici e rabuffati, come è femine e corpo, vi si
denno porre. Solamente adunque i citta dineschi pettinati et irsuti vedrai che
ti resti no, i quali sono nobilissimi, e sono membra del Volgare Illustre. E
noi chiamiamo pettinati quelli vocaboli, che sono trisillabi, o vero v i
cinissimi al trisillabo, e che sono senza aspi razione, senza accento acuto, o
vero circum flesso, senza z nè a duplici, senza gemina zione di due liquide, e
senza posizione, in cui Qucecampsarenon possumus, cioèchenonsipos sono
scansare. la muta sia immediatamente posposta, e che fanno colui che parla
quasi con certa soavità rimanere, come è amore, donna, disio, virtute, donare,
letizia, salute, securitate, difesa. Ir sute poi dicemno tutte quelle parole,
che oltra queste sono o necessarie al parlare illustre, ornative di esso. E
necessarie chiamiamo quel le che non possiamo cambiare 1; come sono al cune
monosillabe, cioè si, vo, me, te, se, A, E, I, O, U; e le interjezioni, et altremolte.
Ornative poi dicemo tutte quelle di molte sillabe, le quali mescolate con le
pettinate fanno una bella armonia nella struttura, quantunque abbiano asperità
di aspirazioni, di accento, e di duplici, e di liquide, e di lunghezza, come è:
terra, onore, SPERANZA, gravitate, alleviato, impossibilitate,
benavventuratissimo, avventuratissimamente, disavventuratissimamente, sovramagnificentissimamente,
il quale vocabolo è endecasillabo. Potrebbesi ancora trovare un vocabolo, o
vero parola, di più sillabe, m a perchè egli passerebbe la capacità di tutti i
nostri versi, però a la presente ragione non pare opportuno; come è onorificabilitudinitate,
il quale in volgare per dodeci sillabe si compie; et in grammatica per tredeci,
in dui obliqui però. In che modo poi le pettinate siano da es sere ne i versi
con queste irsute armonizate, lascieremo ad insegnarsi di sotto.E
questo che si è detto de l'altezza dei vocaboli, ad ogni gentil discrezione 1
sarà bastante. Ra preparate le legne e le funi, è tempo da legare il fascio; ma
perchè la cogni zione di ciascuna opera dee precedere a la ope razione,laquale
ècome segno avanti iltrarre de la sagitta,ovvero del dardo; però prima,e
principalmente veggiamo qual sia questo fascio, che volemo legare. Questo
fascio adunque bene ci ricordiamo tutte le cose trattate) è la Canzone; eperòveggiamochecosasia
Canzone, e che cosa intendemo quando dicemo Canzone. La Canzone dunque,secondo
la vera significa zione del suo nome, è essa azione o vero pas sione del
cantare; sì come la lezione è la pas sione o vero azione del leggere; m a
dichiariamo quello che si è detto, cioè, se questa si chiama Canzone, in quanto
ella sia azione o in quanto passione del cantare. Circa la qual cosa è da
considerare, che la Canzone si può prendere in dui modi, l'uno de li quali modi
è, secondo "Ingenuce discretioni,cioè ad ogni non viziato di scernimento.,
Che cosa è Canzone, e che in più maniere può variarsi. o tuono, o
nota, o melodia. E niuno trombetta, o organista, o citaredo chia m a il canto
suo Canzone, se non in quanto sia accompagnato aqualche Canzone;ma quelli che
compongono parole armonizate, chiamano le opere sue Canzoni.Et ancora che tali
pa role siano scritte in carte e senza niuno che le proferisca, si chiamano
Canzoni; e però non pare che la Canzone sia altro, che una c o m che ella è fabbricata dal suo autore; e così è
azione; e secondo questo modo Virgilio nel primo de l'Eneida dice, lo canto l'arme e l'uomo. L'altro modo è,
secondo il quale ella da poi che è fabbricata si proferisce, o da lo autore, o
da chi che sia,o con suono,osenza,ecosì è passione. E perchè allora da altri è
fatta, et ora in altri fa, e così allora azione, et ora passione essere si
vede.Ma conciò sia che essa è prima fatta,e poi faccia;pero più tosto,anzi al
tutto par che si debbia nominare da quello che ella è fatta, e da quello che
ella è azione di alcuno,che da quello che ella faccia in altri. Et il segno di
questo è, che noi non dicemo mai, questa Canzone è di Pietro perchè esso la
proferisca, m a perchè esso l'abbia fatta. O l tre di questo è da vedere, se si
dice Canzone la fabbricazione de le parole armonizate, o vero essa modulazione,
o canto; a che dicemo, che mai il canto non si chiama Canzone, ma 0
suono, piuta azione di colui, che detta parole a r m o nizate, et atte al
canto. Laonde così le Canzo ni, che ora trattiamo, come le Ballate e Sonetti, e
tutte le parole a qualunque modo armoni zate, o volgarmente, o regulatamente,
dicemo essere Canzoni; m a perciò che solamente trat tiamo le cose volgari,però
lasciando le regulate da parte,dicemo,che dei poemi volgari uno ce n'èsupremo, il
quale persopraeccellenziachia miamo Canzone;
Donne, che avete intelletto di amore. E così è manifesto che cosa sia
Canzone,e se condo che generalmente si prende, e secondo che per
sopraeccellenzia la chiamiamo. Et a s sai ancora pare manifesto che cosa noi
inten demo,quandodicemoCanzone;e consequente Meglio forse, quiealtrove, un
collegamento (conjugatio), che la Canzone sia una cosa suprema, nel terzo
Capitolo di questo Libro è provato;ma conciò sia che questo,che è dif finito,
paja generale a molti, però risumendo detto vocabolo generale,che già è
diffinito,di stinguiamo per certe differenzie quello che so lamente cerchiamo.Dicemo
adunque che la Canzone,la quale noi cerchiamo,in quanto che per
sopraeccellenzia è detta Canzone, è una con giugazione 1 tragica di Stanzie
equali senza risponsorio, che tendono ad una sentenzia, come noi dimostriamo
quando dicemmo 2 2Iltestolatinoha:utnosostendimus,cum diximus.
mente qual sia quel fascio,che vogliamo legare. Noi poi dicemo, che ella
è una tragica congiu gazione; perciò che quando tal congiugazione si fa
comicamente, allora la chiamiamo per diminuzione cantilena, de la quale nel
quarto Libro di questo avemo in animo di trattare. Stanzie,e non sapendosi che cosa sia Stan zia,
segue di necessità, che non si sappia a n cora che cosa sia Canzone; perciò che
de la cognizione de le cose, che diffiniscono, resul ta ancora la cognizione de
la cosa diffinita, e però consequentemente è da trattare de la Stanzia, accio
che investighiamo, che cosa essa si sia, e quello che per essa volemo
intendere. Ora circa questo è da sapere, che tale voca bolo è stato per
rispetto de l'arte sola ritro vato; cioè perchè quello si dica Stanzia, nel
quale tutta l'arte de la Canzone è contenuta, e questa è la Stanzia capace,
overo il recettacolo di tutta l'arte; perciò che sì come la Canzone è il grembo
di tutta la sentenzia,così la Stan zia riceve in grembo tutta l'arte; nè è
lecito di arrogere alcuna cosa di arte a le Stanzie s e quenti; m a solamente
si vestono de l'arte de la. Quali siano le principali parti de la Canzone, e
che la Stanzia n'è la parte principalissima. Ssendo la Canzone una
congiugazione di prima: il perchè è manifesto, che essa Stanzia (de
la qual parliamo ) sarà un termine, o vero una compagine di tutte quelle cose,
che la Canzone riceve da l'arte;le quali dichiarite, il descrivere che
cerchiamo,sarà manifesto.Tutta l'arte adunque de la Canzone pare, che circa tre
cose consista, de le quali la prima è circa la divisione del canto, l'altra
circa la abitu dine1deleparti, laterzacircailnumero dei versi e de le sillabe;
de le rime poi non face mo menzione alcuna;perciò che non sono de la propria
arte de la Canzone.È lecito certamente in cadauna Stanzia innovare le rime, e
quelle medesime a suo piacere replicare; il che, se la rima fosse di propria
arte de la Canzone, le cito non sarebbe.E se pur accade qualche cosa de le rime
servare, l'arte di questo ivi si con tiene,quando diremo de la abitudine de le
parti. Il perchè così possiamo raccogliere da le cose predette, e diffinire,
dicendo, la Stanzia è una compagine 2 diversi e di sillabe, sotto un certo
canto, e sotto una certa abitudine limitata. 2 Il testo latino ha: limitatam
compaginem. La voce abitudine, qui e altrove, significa propor zione,
disposizione. S ne la Canzone. Che sia il canto de la Stanzia, e che la Stanzia
si varia in parecchi modi Apendo poi che l'animale razionale è uomo, e che
sensibile è l'anim a, et il corpo è animale; e non sapendo che cosa si sia
quest'a nima, nè questo corpo,non possemo avere per
fettacognizionedel'uomo;perciòchelaperfetta cognizione di ciascuna cosa termina
ne gli ul timi elementi, sì come il maestro di coloro che sanno, nel principio
de la sua Fisica affer ma.Adunque pera vere la cognizione dela Canzone, che
desideriamo, consideriamo al presente sotto brevità quelle cose,che diffiniscano
il dif finiente di lei; e prima del canto,da poi de la abitudine,e poscia de i
versi e de le sillabe in vestighiamo.Dicemo adunque,che ogni Stanzia è
armonizata a ricever una certa oda, o vero canto; ma pajono esser fatte in modo
diverso, che alcune sotto una oda continua fino a l’ul timo procedeno, cioè
senza replicazione di al cuna modulazione, e senza divisione;e dicemo divisione
quella cosa, che fa voltare di un'oda in un'altra;la quale quando parliamo col VULGO,
chiamiamo Volta.E questeStanziediun'oda sola Daniello usò quasi in
tutte le sue Canzoni; e noi avemo esso seguitato quando dicemo, · Il testo ha
syrma, che è quanto dire strascico.
Al poco giorno,& al gran cerchio d'ombra. Alcune Stanzie sono poi,
che patiscono divi sione. E questa divisione non può essere nel modo che la
chiamiamo, se non si fa replica zione di una oda o davanti la divisione, o da
poi, o da tutte due le parti, cioè davanti e da poi. E se la repetizion de
l'oda si fa avanti la divisione, dicemo, che la Stanzia ha piedi; la quale ne
dee aver dui; avegna che qualche volta se ne facciano tre, ma molto di rado.Se
poi essa repetizion di oda si fa dopo la divi sione, dicemo la Stanzia aver
versi. M a se la repetizione non si fa avanti la divisione,di cemo la Stanzia
aver fronte; e se essa non si fa da poi,la dicemo aver sirima?,o vero coda.
Guarda adunque, lettore, quanta licenzia sia data a li poeti che fanno Canzoni;
e considera per che cagione la usanza si abbia assunto si largo arbitrio; e se
la ragione ti guiderà per dritto calle, vederai, per la sola dignità de
l'autorità essergli stato questo,che dicemo con cesso.Di qui adunque può essere
assai mani festo a che modo l'arte de le Canzoni consista circa la divisione
del canto; è però andiamo a la abitudine de le parti.e de la distinzione
de'versi che sono da porsi nel componimento. tudine,sia grandissima parte di
quello,che è de l'arte; perciò che essa circa la divisione del canto, e circa
il contesto dei versi, e circa la relazione de le rime consiste; il perchè a p
pare, che sia da essere diligentissimamente trat tata.Dicemo adunque,che la
fronte coi Versi 1, et i piedi con la sirima, o vero coda, e pari mente i piedi
co i Versi possono diversamente ne la Stanzia ritrovarsi; perciò che alcuna fia
ta la fronte eccede i Versi, o vero può ecce dere di sillabe e di numero di
versi; e dico può, perciò che mai tale abitudine non avemo veduta. Alcune fiate
la fronte può avanzare i Versi nel numero de i versi, et essere da essi Versi
nel numero de le sillabe avanzata; come 1 Trissino traduce con la stessa voce
verso tanto il carmen che da Dante fu usato nel significato proprio e comune di
verso, quanto il versus che fu invece usato da lui per indicare una data parte
della stanza,che consta d'un certo numero di versi. Per togliere ogni equivoco
noi stamperemo in corsivo e con l'iniziale maiuscola la parola Verso quando
corrisponde al latino versus. De la abitudine de la Stanzia, del numero de
ipiedi e de le sillabe, noi pare, che questa che chiamiamo abi, se la fronte
fosse di cinque versi, e ciascuno dei Versi fosse di due versi, et i versi de
la fronte fosseno di sette sillabe,e quelli de i Versi fosseno di undeci
sillabe. Alcuna altra volta i Versi avanzano la fronte di numero di versi e di
sillabe come in quella che noi dicemmo, Ove la fronte di quattro versi fu di
tre ende casillabi e di uno eptasillabo contesta:la quale non si può dividere
in piedi; conciò sia che i piedi vogliano essere fra sè equali di numero di
versi, e di numero di sillabe,come vogliono essere frà sè ancora i Versi. M a
siccome dice mo, che i Versi avanzano di numero di versi e di sillabe la fronte,
così si può dire, che la fronte in tutte due queste cose può avanzare i Versi;
come quando ciascuno de i Versi fosse di due versi eptasillabi, e la fronte
fosse di cinque versi; cioè di due endecasillabi e di tre eptasillabi contesta.
Alcune volte poi i piedi avanzano la sirima di versi e di sillabe, come in
quella che dicemmo, Et alcuna volta i piedi sono in tutto da la si rima
avanzati; come in quella che dicemmo,
Donna pietosa, e di novella etate. E si come dicemmo, che la fronte può
vincere di versi, et essere vinta di sillabe, et al con Traggemi de la
mente amor la stiva. Amor, che movi tua virtù dal cielo.trario; così dicemo la
sirima. I piedi ancora ponno di numero avanzare i Versi, et essere da essi
avanzati; perciò che ne la Stanzia pos sono essere tre piedi e dui Versi, e dui
piedi e tre Versi; nè questo numero è limitato, che non si possano più piedi e
più Versi tessere insieme. E siccome avemo detto ne le altre cose de lo
avanzare de i versi e de le sillabe, così dei piedi e dei Versi dicemo, i quali
nel medesimo modo possono vincere, & essere vinti. Nè è da lasciare da
parte, che noi pigliamo i piedi al contrario di quello che fanno i Poeti
regulati; perciò che essi fanno il verso de i piedi, e noi dicemo farsi i piedi
di versi, come assai chiaramente appare. Nè è da lasciare da parte, che di
nuovo non affermiamo, che i piedi di necessità pigliano l'uno da l'altro la
abitudine et equalità di versi e di sillabe, perciò che altramente non si
potrebbe fare repetizione di canto. E questo medesimo affermiamo doversi servare
nei Versi. De la qualità de i versi, che ne la Stanzia si pongono, e del numero
de le sillabe ne i versi. Cci ancora (come di sopra si è detto) una certa
abitudine, la quale quando tessemo iversi devemo considerare;ma acciò che
di E, quella con ragione trattiamo,repetiamo quello che di sopra avemo
detto de i versi; cioè che ne l'uso nostro par che abbia prerogativa di essere
frequentato lo endecasillabo, lo eptasil labo, et il pentasillabo; e questi
sopra gli altri doversi seguitare affermiamo. Di questi adun que,quando volemo
far poemi tragici, lo endecasillabo, per una certa eccellenzia che ha nel
contessere, merita privilegio di vincere; e però alcune Stanzie sono che di
soli endecasillabi sono conteste, come quella di Guido da Fiorenza, Donna mi
prega, perch'io voglio dire. Donne, che avete
intelletto di amore. Questo ancora li Spagnuoli hanno usato, e dico li
Spagnuoli che hanno fatto poemi nel volgare Oc. Amerigo de Belmi, Nuls h o m non pot complir adreitamen. Altre Stanzie sono, ne le quali uno solo epta
sillabo sitesse;e questo non può essere,se non ove è fronte, o ver sirima,
perciò che (co me sièdetto)neipiedieneiVersisiri cerca equalità di versi e di
sillabe. Il perchè ancora appare, c h e il numero disparo dei versi non può
essere se non fronte o coda; ben chè in esse a suo piacere si può usare paro, o
disparo numero deiversi.E così come al Et ancora noi dicemo:cuna Stanzia
è di uno solo eptasillabo formata, così appare,che con dui,tre,o quattro si
possa formare; pur che nel tragico vinca lo endecasillabo,e da esso
endecasillabo si co minci.Benchè avemo ritrovatialcuni,chenel tragico hanno da
lo eptasillabo cominciato, cioè Guido de iGhislieri,e Fabrizio Bolognesi, Et
alcuni altri.Ma se al senso di queste Can zoni vorremo sottilmente intrare,
apparerà tale tragedia non procedere senza qualche ombra di elegia. Del
pentasillabo poi non concedemo a questo modo; perciò che in un dettato grande
basta in tutta la Stanzia inserirvi un pentasil labo, ovver dui al più ne
i piedi; e dico ne i piedi, per la necessità !, con la quale i piedi et i versi
si cantano; ma b e n non pare che nel tragico si deggia prendere il trisillabo,
che per sè stia;e dico,che per sè stia;perciò che per una certa repercussione
di rime pare, che frequen Propter necessitatem,qua pedibusque versibusque
cantatur; per la necessità che nei piedi e nei Versi si deve cantare.
(Fraticelli.) E, E, 1 Di fermo
sofferire, Donna,lofermocuore, Lo mio
lontano gire. temente si usi; come si può vedere in quella Canzone di Guido
fiorentino, Donna mi prega, perch'io
voglio dire, Poscia che amor del tutto m 'ha lasciato. Nè ivi è per sè in tutto
ilverso,ma è parte de lo endecasillabo, che solamente a la rima del precedente
verso a guisa di Eco risponde. E quinci tu puoi assai sufficientemente
conoscere, o lettore,come tu dei disponere, o vero abituare la Stanzia; perciò
che la abitudine pare che sia da considerare circa i versi. E questo ancora
principalmente è da curare circa la disposizione de i versi: che se uno
eptasillabo si inserisce nel primo piede,che quel medesimo loco,che ivi piglia
per suo, dee ancora pigliare ne l'altro; verbigrazia, se 'l piè di tre versi ha
il primo et ultimo verso endecasillabo,e quel di mezzo, cioè il secondo,
eptasillabo, così il secondo piè dee avere gli estremi endecasillabi, et il
mezzo eptasillabo; perciò che altrimenti stando, non si potrebbe fare la
geminazione del canto,per usodelqualesi fannoi piedi,come sièdetto;e
consequentemente non potrebbono essere piedi. E quello che io dico de i piedi,
dico parimente de i Versi; perciò che in niuna cosa vedemo i piedi essere
differenti da i Versi,se non nel sito; perciò che ipiedi avanti ladivisione
della Stan zia,ma i Versi dopo essa divisione si pongono., Et in quella che noi
dicemmo: De la relazione de le rime, e con qual ordine ne la Stanzia si denno
porre. T dealcuna cosa al presente non trattando però de la essenzia loro;
perciò che il proprio trat tato di esse riserbiamo, quando de i mediocri poemi
diremo.Ma nel principio di questo Ca pitolo ci pare di chiarire alcune cose di
esse; de le quali una è, che sono alcune Stanzie, ne le quali non si guarda a
niuna abitudine di rime, e tali Stanzie ha usato frequentissima mente
Daniello,come ivi, Si m fos amors de joi
donar tan larga? E noi dicemo, L'altra
cosa è che alcune Stanzie hanno tutti i versi di una medesima rima, ne le quali
è superfluo cercare abitudine alcuna; e così resta che circa le rime mescolate
solamente debbia mo insistere;in che e da sapere,che quasi Et ancora sì
come si dee fare ne i piedi di tre versi, così dico doversi fare in tutti gli
altri piedi. E quello che si è detto di uno endeca sillabo, dicemo parimente di
dui e di più, e del pentasillabo, e di ciascun altro verso. Alpocogiorno, &
algrancerchiod'ombra. Il testo LATINO ha: qui suas multaset bonas cantiones
nobis ore tenus intimavit. Fraticelli traduce: ci canto a voce, ossia ci canto
improvvisando. tutti i Poeti si hanno in cið grandissima licen zia
tolta;conciò sia che quinci la dolcezza de l'armonia massimamente risulta.Sono
adun que alcuni, i quali in una istessa Stanzia non accordano tutte le
desinenzie de i versi; m a alcune di esse ne le altre Stanzie repetiscono, o veramente
accordano; come fu Gottoman tuano, il quale fin qui ci ha molte sue buone
Canzoni intimato Costui sempre tesseva ne la Stanzia un verso scompagnato, il
quale essò nomina chiave. E come diuno, così è lecito di dui e forse di più.
Alcuni altri poi sono, e quasi tutti i trovatori di Canzoni, che ne la Stanzia
mai non lasciano alcun verso scompa gnato, al quale la consonanzia di una o di
più rime non risponda. Alcuni poscia fanno le rime de i versi, che sono avanti
la divisione, diverse da quelle dei' versi, che sono dopo essa; et altri non lo
fanno; ma le desinenzie de la pri ma parte de la Stanzia ancor ne la seconda in
seriscono. Non di meno questo spessissime volte si fa, che con l'ultimo verso
de la prima parte, il primo de la seconda parte ne le desinenzie s'accorda; il
che non pare essere altro, che una certa bella concatenazione di essa stanzia.
La abitudine poi de le rime,che sono ne la fronte e ne la sirima,è sì ampla,
che 'l pare che ogni atta licenzia sia da concedere a ciascuno, m a non di
meno le desinenzie de gli ultimi versi sono bellissime, se in rime accordate si
chiudeno; il che però è da schifare ne i piedi, ne i quali ritroviamo essersi
una certa abitudine servata; la quale dividendo dicemo, che il primo piè di
versi pari, o dispari, si fa; e l'uno e l'altro può essere di desinenzie
accompagnate,o scom pagnate; il che nel pie diversi pari non è dubbio; m a se
alcuno dubitasse in quello di dispari, ricordisi di ciò che avemo detto nel
Capitolo di sopra del trisillabo,quando essendo parte de lo endecasillabo, come
Eco risponde. E se la desinenzia de la rima in un de i piedi è sola, bisogna al
tutto accompagnarla ne l'al tro; ma se in un piede ciascuna dele rime è
accompagnata, si può ne l'altro o quelle ripe tere, o farne di nuove,o tutte,o
parte, secondo che a l'uom piace,pur che in tutto si servi l'ordine del
precedente: verbigrazia, se nel primo piè di tre versi le ultime desinenzie
s'accordano con le prime, così bisogna accor darvisi quelle del secondo; e se
quella di mezzo nelprimo piè è accompagnata, oscompagnata; così parimente sia
quella di mezzo nel secondo piè; e questo è da fare parimente in tutte le altre
sorti di piedi. Ne i Versi ancora quasi sempre è a serbare questa legge; e
quasi s e m pre dico, perciò che per la prenominata con catenazione,e per la
predetta geminazione de le ultime desinenzie,ale volte accade il detto or
8 Il testo latino ha: cum in isto libro nil ulterius de r i t h i morum
doctrina tangere intendamus. E si dovrebbe tradurre: che in questo libro non
vogliamo parlar pivo della dottrina delle rime. Nel Corbinelli questo ultimo
capitolo è diviso in due. Il decimoterzo finisce con le parole: tanta
sufficiant. (a bastanza è.); e il decimoquarto comincia con le parole: di ne
mutarsi. Oltre di questo ci pare conve nevol cosa aggiungere a questo capitolo
quelle cose che ne le rime si denno schifare, conciò sia che in questo libro
non vogliamo altro che quello che si dice della dottrina de le rime toccare
Adunque sono III cose, che circa la posizione di rime non si denno frequentare
da chi compone illustri poemi. L’una è la troppa repetizione di una rima, salvo
che qualche cosa nuova ed intentata de l'arte ciò non si assuma, come il giorno
de la nascente milizia, il quale si sdegna lasciare passare la sua giornata
senza alcuna prerogativa. Questo pare che noi abbiamo fatto ivi. Amor, tu vedi
ben, che questa donna. La seconda è la inutile equivocazione la qual sempre
pare che toglia qualche cosa a la sentenza. La terza è l'asperità dele rime,
salvo che le non siano con le molli mescolate, per ciò che per la mescolanza delle
rime aspere e delle molli la tragedia riceve splendore. E questo dell’arte,
quanto a l'abitudine si ricerca, a bastanza è. Avendo quello che è de l'arte [Il
testo latino ha: discretionem facere che qui vale trattare partitamente della
Canzone assai sufficientemente trattato, ora tratteremo del terzo, cioè del
numero di versi e delle sillabe. E prima alcune cose ci bisognano vedere
secondo tutta la stanza, e altre sono da dividere, le quali poi secondo le
parti loro vederemo. A noi adunque prima s’appartiene fare separazione di
quelle cose, che ci occorrono da cantare. Perciò che alcune stanze amano la
lunghezza e altre no. Con ciò sia che tutte le cose che cantiamo, o circa il
destro o circa il sinistro si canta, cioè che alcuna volta accade suadendo,
alcuna volta dissuadendo cantare, e alcuna volta allegrandosi, alcuna volta con
ironia, alcuna volta in laude e altra in vituperio dire. E però le parole, che
sono circa le cose sinistre, vadano sempre con fretta verso la fine, le altre
poi con longhezza condecente vadano passo passo verso l'estremo Ex quo quo sunt
artis. Avendo quello che è de l'arte. Ed ha il titolo seguente: De numero car
minum et syllabarum in Stantia. Del numero dei versi e delle
sillabe nella stanza.). Grice: “Alighieri’s theory of language is a simple one
– hardly as sophisticated as that of the Stoics. We communicate the passions of
our souls – And he concludes that it’s the Toscani who communicate best, even
if ‘tosco’ means ‘rough’ in Toscano!” -- Alighieri. Keywords: lingua
del si, la divina implicitura, lasciate ogne [sic] speranza voi ch’entrate,
inferno – section on ‘divina commedia’ in philosophical dictionaries. ‘inferno’
catabasis, -- la catabasis d’Enea di Virgilio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alighieri” –
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice ed Aliotta: all’isola:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’esperienza – la
scuola di Palermo -- filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Palermo, Sicilia. Grice: “I like Aliotta; he has
philosophised on most things I’m interested in: ‘la guerra eterna’ is a bit of
a hyperbole if you go by a principle of helpfulness, but that’s Aliotta! – He
has focused on Lucrezio, which is fine – But he has also studied ‘colloquenza
romana’ systematically – and more into the Italian rather than Roman idiom, he
has explored Galileo (not the father, thouh: “Some like Galileo Galiei, but
Vincenzo Galilei is MY man); he is also like me a ‘philosophical psychologist,’
along the lines of Stout and Wundt, that is – he as given proper due to the
idea of ‘esperienza’ – unlike Oakeshott, who abuses of the notion! – and
indeed, others see his attachment to ‘esperienza’ as an ‘ism’ (lo
sperimentalismo). He has also discussed
the semiotics of Vico, and the idea of life-form, following Witters (‘cricket
come forme di vita’). And he has explored one intriguing idea, that the
so-called ‘meaning’ of life (‘il significato del mondo,’ actually) is that of
‘sacrificio’ which is very fine with me – but then it would, since I like
‘Another country’ – the ‘sacrifice’ Dei Lincei, nonché dell'Accademia
Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti. Fonda la rivista di
filosofia “Logos”. Allievo di TOCCO (si veda) e SARLO (si veda), è influenzato
molto dalla concezione della conoscenza scientifica del secondo, che si riface
alle teorie di Brentano. Si interessa in
particolar modo alla psicologia e l’epistemologia. Tra i suoi allievi vi sono ABBAGBABI (su
veda), Carcano, Carbonara, Lazzarini, Martano, Marzi, Petruzzellis, Sciacca, e Stefanini,
anche se la sua indole non dogmatica e aperta a diverse culture e suggestioni
non da luogo alla formazione di una vera e propria scuola riferibile al suo
nome, ma incoraggia i suoi allievi a indirizzarsi su percorsi culturali
autonomi, emancipandosi dall'egemonia esercitata dall’idealismo di Croce e di
Gentile. Al suo magistero può essere
associato anche la figura di Musatti, che si indirizza allo studio della
psicologia dopo aver assistito alle lezioni sull'argomento tenute d’A. a Padova,
divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. A lui è intitolato il dipartimento di filosofia
di Napoli. Nella sua prima fase, prettamente psicologica, A, afferma che un
fatto psichico non puo essere quantificata come avviene con un fatto naturale fisico
esistente e misurabile, in quanto un fatti psichico e un elemento costitutivi
della coscienza. La psicologia, perciò, essendo una scienza empirica che studia
un fatto psichico interno al soggetto, si serve del metodo dell'INTROSPEZIONE
-- riferendosi a una formulazione matematica al solo scopo simbolico (cf.
Grice, “Personal Identity”). La particolare concezione della conoscenza
dell'autore, intesa né come esistente in sé, né come iscritta nel processo
dialettico del pensiero, lo allontana sia dalle posizioni positiviste che da
quelle idealiste. Nella sua filosofia
emerge una visione contraria all'idealismo. Né Hegel, nemmeno Fichte, né tanto
meno Schelling col loro proposito di racchiudere tutta la realtà nel pensiero,
sebbene con sfumature diverse, soddisfano A., che invece paragona il pensiero a
un processo VIVENTE, costruito da tanti centri individuali tesi verso una
armonia, continuatrice dei fenomeni dell'universo. A. si sofferma sulla co-ordinazione
o co-operazione delle conoscenze, sulle intese fra al meno due persone, sulla
sintesi della scienza e soprattutto sulla ricerca filosofica a cui assegna il
compito particolare di supervisione dei campi di conoscenza con il fine di
limitarne i dissidi e di ampliare, il più possibile, il punto di vista delle
scienze particolari. A. afferma che l'unico metodo che consente la ricerca
della verità sia l'esperimento. La verità stessa non è assoluta e unica ma
prevede vari livelli, i superiori dei quali sfruttano e inglobano quelli
inferiori. La ricerca filosofica possiede, secondo l'autore, un formidabile
strumento di indagine e di verifica che si chiama "storia". In alcuni saggi ("Il sacrificio come significato del
mondo”) A. sembra avvicinarsi a un modello di pensiero a metà strada tra il
pragmatismo e lo spiritualismo, nel quale mette in rilievo l'esperienza morale
e il sacrificio – l’eroe di J. O. Urmson -- considerato come l'esempio di re-alizzazione
più elevato, sia per l'individuo sia per la collettività – la diada eroica
d’Eurialo e Niso. L'affermarsi dello sperimentalismo produce in A. una serrata
critica all'astratto intellettualismo nonché apre la strada alla ricezione di
studi avanzati sulla cosiddetta 'filosofia scientifica', in un panorama di
reazione idealistica contro la scienza e di graduale affermazione in Italia di
scienze come la sociologia (Rinzivillo, A.. L'idea scientifica dello
sperimentalismo in Una epistemologia senza storia, Roma, Nuova Cultura. Altri
saggi: “Platone”, “Aristotele”; “LUCREZIO”; “Epitteto”. La reazione idealistica
contro la scienza; La guerra eterna e il dramma dell'esistenza; L'estetica di
Kant e degl’idealisti romantici; Il sacrificio come significato del mondo; Il
relativismo dell'idealismo e la teoria di Einstein”; “Evoluzionismo e
spiritualismo”; “Il problema del divino e il nuovo pluralismo”; “Le origini
dell'irrazionalismo”; “Filosofi tedeschi”; “Critica dell'esistenzialismo”; “L'estetica
di CROCE e la crisi dell'idealismo”; “Il nuovo positivismo e lo
sperimentalismo”; “Relatività” (Sansoni Editore). Belardinelli, in Dizionario
Biografico degl’Italiani, accademia delle scienze Abbagnano, Dizionario di
filosofia, Torino, Pomba, Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Pomba, Sciacca, Lo sperimentalismo di A., Napoli,
Abbagnano A., in "Rivista di Filosofia", Dentone, Il problema morale
e religioso in A., Napoli, Mecacci, A., in Cimino, Dazzi, La psicologia: i protagonisti e i
filosofici (Milano, LED); Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, Roma, Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. A., su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. A. consultabili nell'Archivio di Storia della
Psicologia, su archivio di storia psicologia roma Filosofia Filosofo Accademici
italiani Professore Palermo Napoli Accademici dei Lincei Professori Università
degli Studi di Napoli Federico II Membri dell'Accademia delle Scienze di Torino.
LIMENTANI MASNOVO LEVI MARESCA VOLPE LAMANNA LA FILOSOFIA IN ITALIA, PERRELLA, NAPOLI,Città
di Castello, Società Anonima, Vinci. Il saggio, che è l'estratto di Logos, non
vuol essere una visione sintetica della filosofia italiana da un punto di vista
unico, ma solo una guida analitica allo studio di essa con informazioni
bibliografiche. Chi vuole orientarsi nel LABIRINTO DELLA FILOSOFIA ITALIANA può
trovare nel volume del Sommario di Storia della Filosofia ( Napoli, Perrella) IL
FILO D’ARIANNA che lo guida attraverso il cammino della filosofia italiana, che
dal positivismo con una progressiva eliminazione d’ogni realtà trascendente
giunge all'assoluta immanenza dell’idealismo attuale per ritornare poi
insoddisfatto a una nuova affermazione della trascendenza. L’idealismo assoluto
ormai declina verso il tramonto. Una nuova forma di realismo albeggia
all'orizzonte. La crisi della guerra conduce molti spiriti verso
l'irrazionalismo scettico-mistico, quando non li persuade a rifugiarsi nella
tradizione cattolica. Noi siamo fermamente convinti che è sterile ogni
tentativo di ritorno al passato, perchè è negazione della storia. Crediamo che
la speculazione, se vuol essere feconda, deve procedere sulla via tracciata
dallo sviluppo della filosofia moderna. Un realismo che pretendes ritornare
all’immobilità delle essenze platoniche, che togliesse alla coscienza ogni
efficacia reale nella costruzione del mondo della realtà e della verità,
facendone solo una luce che rischiara ciò che è fatto ab aeterno; un realismo
insomma del tipo di quello che è l’ultima moda tedesca, toglie alla vita ogni
significato, facendoci perdere le migliori conquiste della filosofia moderna.
Ci auguriamo che IL GENIO ITALIANO rimane immune da quella brutta moda e si
mantiene sulla linea gloriosa del suo rinascimento, che è affermazione
dell’attività dell'uomo nel mondo concreto della sua esperienza. Contro il dogmatismo
platonico, le sottigliezze scolastiche, le nebbie mistiche, le negazioni
scettiche, contro tutti gl’arbitrii della fantasia e della ragione a priori non
vi è che un solo metodo sicuro, cioè l’esperimento storico delle nostre umane
verità. Napoli, A. Prego di perdonare qualche omissione. Una sopratutto debbo
segnalarne: quella del nome di RENDA (si veda) che per la finezza dei suoi
studii di psico- dissociazione psicologica, Torino; Le passioni, Torino; L
oblio, Torino, è tra i migliori positivisti. Nella seconda fase del suo
pensiero Renda si è accostato all’idealismo assoluto e alla filosofia
dell’azione di Blondel col suo libro La validità della religione, Città di
Castello. Dice LIMENTANI (si veda) nel
Positivismo italiano, che le difficoltà che s’incontrano in una rassegna del ‘positivismo’
italiano dipendono, in primo luogo, dall’incerto significato del nome stesso,
onde puo essere ugualmente designate come POSITIVA, filosofia -- della quale
sembra più interessante mettere in luce le caratteristiche differenziali che
non i tratti comuni. I positivisti non si definiscono come tali per la concorde
adesione a una rigida dottrina, o per la collaborazione consapevole alla
costruzione di un sistema ben determinato: si tratta piuttosto di un indirizzo
metodico, di una forma mentale che impronta di sè non solamente la ricerca
filosofica propriamente detta, ma l’intiero mondo della cultura. Il positivismo
ripone e ricerca la verità nel fatto, intende la conoscenza come relativa, la
esperienza come unica fonte del sapere e ultimo criterio della certezza,
ritiene che la cognizione filosofica non sia diversa per natura dalla
scientifica, e anche non possa se non prepararla e integrarla, assume di fronte
ai problemi della metafisica un atteggiamento agnostico o semplicemente
negativo, concepisce la natura come universale meccanismo, escludendone la teleologia
e, pure affermando la irreducibile diversità della materia dallo spirito, non
crede che da ciò rimanga spezzata la unità e interrotta la continuità del
reale, interpetra il mondo dei valori come prodotto della evoluzione
psicologica, e dei valori stessi domanda la spiegazione e la giustificazione
alle leggi della psicologia. Ma l’accordo che può anche essere parziale sopra
questi principii non esclude la possibilità di svolgimenti molteplici e
autonomi, perchè i principii stessi valgon piuttosto a dirigere nella selezione
e nella discussione dei problemi, che non ad anteciparne in concreto la
soluzione: onde, chi voglia essere cronista esatto del vasto e vario movimento,
si trova di necessità a ravvicinare pensatori che si sono reciprocamente ignorati
e che proverebbero senza dubbio grande maraviglia di trovarsi messi insieme:
particolarmente in Italia il positivismo è affermazione perenne della libertà
filosofica, sì che sembra vano ogni tentativo di esprimerlo con una formula, e
si manifesta la necessità di determinarne la fisionomia, considerando in modo
distinto la operosità de’ suoi seguaci. E tale necessità risulta ancora dal
fatto che nella maggior parte dei positivisti italiani, sopra il gusto delle
costruzioni sistematiche, ha prevalso la tendenza a esplorare determinati campi
della indagine: e però limitarsi a registrare le concezioni generali del mondo
e della vita, trascurando i contributi recati da più modesti studiosi alle
scienze filosofiche speciali, equivarrebbe a dare del movimento una idea
affatto inadeguata. Inoltre, appunto perchè in alcune almeno tra le
fondamentali assunzioni del positivismo possono, senza chiaro intendimento del
loro più profondo significato, consentire anche quegli scienziati che sono
affatto estranei agl’interessi speculativi, avvenne che si decorasse del nome
di positivismo anche la loro afilosofia, che fu qualche volta, per dirla con
Bruno, la loro filasofia, cioè una metafisica grossolana, ingenua sino alla
inconsapevolezza, e di gran lunga peggiore di quella metafisica contro la quale
il positivismo era sceso in campo: positivismo non può infatti essere ignoranza
della tradizione metafisica e incapacità d’intenderne le ragioni, bensì
dev’esspre revisione critica dei postulati assunti e dei metodi tenuti dalla metafisica
stessa. Eppure in un quadro sommario che aspiri a riuscire completo, anche
queste manifestazioni di pensiero più povere di critica hanno il loro
significato e debbono trovare il loro posto. D’altra parte, in Italia, in
questi ultimi anni, le fortune della filosofia idealistica, soprattutto nella
sua forma attualistica, indussero i dissenzienti a costituire una fronte unica
contro una dottrina che romanticamente presentava la filosofia, piuttosto come
opera di fantasia e prodotto di subbiettiva ispirazione, che non come
sistemazione di conoscenze vere: e il comune, se pur tutt’altro che uguale,
atteggiamento di opposizione e di reazione, ebbe come conseguenza che
tendessero a obliterarsi i caratteri differenziali del positivismo da altri
indirizzi. A far la rassegna dei filosofi che pròfessano oggi di essere
positivisti, si sarebbe indotti a conchitidere che i « quadri non sono stati mai poveri come adesso: eppure
mai come in questo momento è apparsa chiara la influenza del positivismo sopra
la educazione mentale e la posizione dottrinale di quei pensatori che non si
sono ralliés alla filosofia di moda. 2.Il periodo storico che qui si considera,
coincide con il cinquantennio dell’attività filosofica di R. Ardigò; questi,
nato nel 1828 a Casteldidone, pubblicò nel 1870 « La psicologia come scienza
positiva , segnandovi le linee fondamentali della sua dottrina, già
preannunziata l’anno precedente, quand’egli era ancora prete, nella
commemorazione di P. Pomponazzi e morì a Mantova nel 1920, avendo atteso fin
quasi all’ultimo giorno, all’opera sua di scrittore. Ma alla costruzione del
sistema ardighiano erano precorse in Italia altre manifestazioni di pensiero
positivistico. Il sorgere e vigoreggiare della filosofia del fatto si lega in
Italia come all’estero, a ragioni complesse, fra le quali prevalgono i mara-
vigliosi progressi della scienza, nell’ordine cosi delle invenzioni come delle
scoperte, il fervore degli studi storici, la reazione contro le intemperanze
del pensiero metafisico, il disgusto dei sistemi dogmatici. Le origini prossime
del movimento positivista sono da ricercare nella scuola di G. D. Romagnosi,
dalla quale uscirono Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo. Ma il Ferrari,
rappresentante di un fenomenismo estremo che reca le tracce d’influenze
discordi e tende a sboccar nello scetticismo, non orientò il suo pensiero verso
il positivismo così decisamente come il Cattaneo: questi è comunemente
riconosciuto come l’iniziatore del movimento e il più ef. ficace banditore
della dottrina, nel ventennio 1850-70. Nel Cattaneo, patriotta insigne,
cittadino intemerato, scrittore magnifico, mente poliedrica, si manifesta
l’interesse per la glottologia, la storia e la politica, la demografia, la
economia e la organizzazione tecnica della industria e dell’agricoltura:
ne’suoi scritti filosofici, non ammette conoscenza che non sia di fatti, e
attribuisce alla filosofia una funzione sintetica rispetto alle altre scienze:
raccogliendo la eredità del Vico, pone come fondamentale il pro-^ bleina
deH’incivilimento: la civiltà è opera dell’uomo; ma l’Uomo dei metafisici è una
finzione mentale, che non può adeguarsi alla varietà e alla concretezza del
mondo umano; la psicologia individuale deve integrarsi nella psicologia
sociale, o psicologia delle menti associate; mente non si dà, nè funziona e si
forma se non in un giuoco di azioni e reazioni, che, poiché i conviventi
operano uno sopra l’altro e ogni generazione scomparsa sopra le successive. è a
un tempo il fondamento della unità sociale e della continuità storica. La
dottrina del Cattaneo s'intona al positivismo del Comte e all’umanismo del
Feuerbach, sebbene si sia costituita in perfetta indipendenza dall'uno e
dall’altro, e contiene germi che dovranno maturare nella filosofia dell’Ardigò
(« Opere edite e inedite di C. C.). Maestro acclamato e autorevolissimo nelle
scienze storiche, Villari, che aveva mostrato, nel « Saggio sull’origine e sul
progresso della Filosofia della Storia, di risentir la influenza di Comte e
Mill, illustrò e favori («La Filosofia positiva e il metodo storico», 1865)
l’indirizzo storico già prevalente nelle scienze morali, sostenendo che queste
non avrebbero potuto fiorire come le scienze naturali, se non ne avessero fatto
proprio il metodo, positivo o sperimentale. La influenza esercitata dalla
divulgazione della dottrina darwiniana, che apriva nuovi orizzonti agli studi
biologici ed ebbe fra noi il suo apostolo più fervido in Giovanni Canestrini (
« Antropologia » * 1888 « La teoria dell’evoluzione esposta ne’ suoi fondamenti
’ » 1887 « La teoria di Darwin » 1887 ), è manifesta negli scritti di Tommasi,
medico insigne che promosse il progresso delle scienze biologiche dallo stato
metafisico allo stato positivo, e ammoniva i discepoli a porsi dinanzi ai
problemi della natura, con l’animo sgombro da ogni apriorismo dottrinale e
metodico. Il suo naturalismo è concezione della filosofia come organamento del
sapere scientifico, è realismo rigoroso, che tende a identificarsi con il
materialismo, e non meno rigoroso empirismo: è evoluzionismo che esclude da sè
ogni teleologia («Il naturalismo moderno» 1866 «Il rinnovamento della medicina
in Italia» 1888). Positivista fu pure Cantani, collega del Tommasi e suo
successore nella clinica di Napoli. 3. Il positivismo italiano non è tutto
nella dottrina delI’Ardigò e della sua scuola: ma l’Ardigò ne è, per concorde
giudizio, la figura più rappresentativa. Di lui gli undici volumi delle Opere
Filosofiche rispecchiano il genio speculativo e l’animo candido e generoso, la
fede inconcussa nel Vero e il culto operoso dell’ideale etico, celebrato nella
esemplare austerità della vita. Il positivismo del Comte era stato giudicato
impari, se pur non affatto insensibile, alla esi genza gnoseologica: nè questa
era sodisfatta, in modo positivo, dalITnconoscibiie spenceriano, che
rappresenta ancora una entità ontologica, onde si mantiene l’antitesi di
sostanza e di fenomeno, e il fenomeno è un relativo che postula un Assoluto e
trova alla soglia di questo il proprio limite: il sistema dell'A. si forma
fuori da ogni diretta influenza di queste dottrine, per la rivoluzione che lo
studio delle scienze naturali opera nella sua mente, resa, da lunga
consuetudine, familiare con i classici della teologia e della metafisica: il
distacco dalle vecchie credenze non è definitivo, fin ch’egli non ha trovato la
soluzione del problema gnoseologico, e non ha inteso come si possa spiegare la
origine delle idee, senza ricorrere alla trascendente facoltà dell’intelletto.
La posizione centrale assegnata alla teoria della conoscenza è la caratteristica
più significativa del sistema dell’A. « Non è senza significato che il
positivismo assuma in Italia, quasi al suo apparire coll’A., fisonomia spiccata
di naturalismo sistematico affrontando subito il problema dell’infinito cosmico
e traducendone la visione in una concezione organica dell’universo, e che in
questa, come unicamente esteriore ed obiettiva non si acqueti, ma la integri
subito colla ricostruzione sintetica dell’uiiità della coscienza, e invece che
tener separata la questione gnoseologica dalla cosmologica trasfonda l’una
nell’altra creando un nuovo concetto si della natura, sì dell’esperienza, tale
che l’uria dall’altra non si separano se non per distinzione sopravveniente;
questo non è il positivismo di Comte, nè quello di Spencer, è il positivismo di
un popolo ove è indigeno il naturalismo del Rinascimento» (Tarozzi). Il fatto è
divino, i principii sono umani: ma il fatto primo e assolutamente certo, per la
consapevolezza immediata che ne abbiamo, è il fatto di coscienza, la sensazione:
la esperienza che sta a fondamento di ogni verità e che non si può tentar di
trascendere senza trascorrere dal reale nel chimerico, è esperienza
psicologica. Il monismo dell’A. che elimina ogni residuo di trascendenza,
esclude come fantastica così la contrapposizione dell’oggetto al soggetto, come
l’annichilazione dell’oggetto nel soggetto; e sfugge al pregiudizio del
realismo ingenuo senza incorrere nei sofismi del soggettivismo radicale. La
contrapposizione è fra termini di pensiero, fra gruppi di sensazioni: la
sensazione afferma se stessa assolutamente, il conoscere non si deve che alla
sua virtualità; ma la sensazione, e l’attività psichica in generale, ponendosi,
si sdoppia in due mondi, per il doppio sguardo (diblemma psicologico) onde si
compie da un lato la sintesi delle sensazioni interne (Autosintesi, Me),
dall’altro, la sintesi delle sensazioni esterne (F.terosintesi, Non-Me): le
sensazioni non sono per se stesse nè interne nè esterne, ma il differenziamento
si opera, per la specificazione degli organi di senso e per il contrastare di
attività stabili e costanti, ad altre accidentali e intermittenti. La
sensazione, in quanto tale, è solo quello che è essa stessa in se medesima; ma
la reciproca integrazione delle sensazioni pertinenti a sensi diversi (le quali
son tutte fra loro incommensurabili o reciprocamente trascendenti), converte la
sensazione in percezione, aggiunge alla osservazione l’esperimento («Il fatto
psicologico della percezione» 188?). Ed è un imperativo logico la sensazione,
non soltanto in se stessa, in quanto conoscenza assoluta o posizione di se
medesima, ma anche come percezione, o conoscenza relativa e posizione della
propria causa: si definisce cosi la oggettività del sapere, mentre si evita
l’errore di risolvere il soggetto nell’oggetto. La conoscenza è relativa, ma
non perchè abbia il suo termine antitetico in un Assoluto che trascenda la
esperienza e figuri come possibile oggetto di una Mente sovrumana, bensì per
quel rapporto d’irreducibilità che il pensiero stesso pone fra i propri termini
sensibili, e che, come tale, è noto («L’Inconoscibile di H. Spencer e il
positivismo» 1883). La materia non farà mai conoscere lo spirito, nè lo spirito
la materia: ma la trascendenza così intesa, in senso affatto diverso dal
tradizionale, non esclude la fondamentale unità, che è l ’indistinto
sottostante ai distinti (Me e Non-Me) che vi si costituiscono, collegandosi in
un organismo logico unico. «L’unità dell’indistinto sottostante alla
molteplicità dei distinti, e la continuità del processo della duplice
distinzione ('spaziale e temporale) caratterizzano la concezione naturalistica
del cosmo » (Marchesini). È una formazione naturale la psiche, e la legge della
distinzione, che ne spiega l’essere e ne domina lo sviluppo, è legge di tutte le
formazioni nelle quali si specifica la realtà: la preminenza e la priorità del
problema gnoseologico rispetto a tutti gli altri problemi filosofici si
esprimono nel fatto che appunto dallo studio del fenomeno cogitativo
induttivamente si ricava il concetto della natura come indistinto, matrice
onnigena inesauribile, infinita virtualità di successivi che si realizza nella
infinità dei coesistenti. Il processo dall’indistinto al distinto è governato
dalla legge del ritmo, la quale spiega come ogni formazione naturale debba
sempre essere un ordine, malgrado le accidentalità proprie di ogni ordine dato,
che è sempre l’effettuazione di uno tra infiniti altri possibili. Per la
universale ritmicità si ha infatti nella natura non il caso, ma la cosa e il
fatto, il tipo e la legge, l’impero, dunque, della causalità; ma causalità non
è forma a priori dello spirito, nè semplice successione che generi per
abitudine l’attesa del riprodursi del passato; l’idea di causa è una formazione
naturale endogenetica per l’esperienza subita dal mondo esterno, onde
avvertendo costante- mente una determinata successione, siamo costretti ad
ammettere che il fatto precedente ha in sè una condizione e ragione di causare:
ogni fatto, dunque, emerge in modo necessario dall’indistinto che lo determina.
Ma, d’altra parte, la necessità non esclude il caso, perchè l’ordine si attua
in seno all’universo che è infinito: onde il fatto può a un tempo dirsi, per la
sua intrinseca necessità, equazione del determinato, e, per la imprevedibilità
della sua determinazione necessaria, equazione dell’infinito: poiché
l’indistinto non è un sistema chiuso, il distinguersi di uno o dell’altro
ordine è casuale. Il determinismo non elimina dunque la casualità, nè
semplicemente l’ammette come espressione della nostra ignoranza: ma la
riconduce alla varietà infinita che è un positivo aspetto della realtà, non
meno che la causalità: il caso è l’effetto prodotto per necessità naturale da
una causa imprevedibile, assolutamente parlando, e quindi non assegnabile, o non
fissata nella stessa natura, a motivo dell’infinità del suo principio, non solo
nei momenti del tempo, che è senza limiti, ma anche negli elementi costitutivi,
eccedenti ogni confine di spazio (« La formazione naturale nel fatto del
sistema solare » 1877; la trilogia: « Il Vero» 1891 «La Ragione» 1894 «L’Unità
della Coscienza» 1898). E’ una formazione naturale anche la filosofia, che non
soltanto ha funzione coordinatrice e sintetica rispetto alle scienze, ma è la
matrice perennemente feconda del sapere scientifico e dei problemi che alla
scienza appartiene di risolvere. Come l’indistinto si specifica, per un
processo di ascendenza dinamica, nei sistemi ritmici, corrispondenti a gradi
sempre più alti di autonomia, cosi la filosofia si viene differenziando nelle
discipline speciali che in essa si unificano e di essa risentono l’azione
propulsiva (« Lo studio della Storia della filosofia » « Il compito della
filosofia e la sua perennità » 1884). Sopra i contributi recati dall’A. alle
distinte scienze filosofiche non posso intrattenermi qui: basti ricordare come
il suo realismo psicofisico e il prevalente interesse gnoseoiogico lo abbiano
portato alla costruzione di un sistema di psicologia, dove la unità della
coscienza figura come idea direttrice, e la critica del vecchio associazionismo
prepara la teoria della confluenza mentale come inoltre sovra basi
fisiopsicologiche si eriga una concezione della vita morale, nella quale la
impulsività della sensazione è assunta a spiegare la imperatività della
idealità sociale antiegoistica (« La Morale dei positivisti » 1879) come,
ancora, la morale s’integri in una sociologia che è piuttosto una filosofia del
diritto, o lo studio della formazione naturale della Giustizia, intesa come
forza specifica della società («Sociologia» 1886) come infine le dottrine
fondamentali si coordinino e sbocchino in ima pedagogia, che pone l’esercizio a
fondamento cosi della educazione intellettuale come della educazione morale (La
Scienza dell’educazione). L’A., dal 1881
prof, di storia della fil. a Padova, fu un caposcuola, e fra i suoi discepoli
vogliono essere ricordati in primo luogo il Marchesini, il Dandolo, il Tarozzi,
il Ranzoli, il Troilo. Giovanni Marchesini (n. 1868), prof, di ped. a Padova,
fondatore e direttore della « Rivista di Filosofia, pedagogia e scienze affini»
(1899-1908), illustrò la figura del Maestro e ne propagò la dottrina,
elevandosi dalla esposizione acuta e fedele alla originale ricostruzione e
rielaborazione (« La vita e il pensiero di R. A. » 1907 «R. A. L’uomo e
l’umanista). Il M. ha definito il positivismo dell’Ardigò come naturalismo
umanistico e questa denominazione designa la duplice direzione nella quale egli
stesso ha svolto la propria attività di scrittore, integrando felicemente il
sistema, che rivela così nella varietà e la novità degli sviluppi la propria
feconda vitalità. Il naturalismo del M. si fonda sopratutto sul principio
dell’unità come sintesi universale: egli concepisce la unità come continuità
dinamica dei fatti fisico, biologico, psichico, postulando il « fatto minimo »,
come idea-limite, in armonia con lo stesso concetto della continuità nella
eterogeneità, e spiegando con la impossibilità di depotenziarci la presunta
inintelligibilità del trapasso, alla quale si devono le due estreme concezioni,
idealistica e materialistica. La conoscenza, in quanto è determinata dal reale,
in ordine al principio della continuità stessa ha un valore assoluto ed
obbiettivo, non già puramente simbolico (« La crisi del positivismo e il
problema filosofico» 1893 «Il simbolismo nella conoscenza e nella morale»
1901). Umanistico è detto dal Marchesini il naturalismo dell’Ardigò,
principalmente perchè riesce alla celebrazione della persona umana e dà
fondamento razionale e positivo all’idealismo etico e alla dottrina
dell’autonomia; negli ultimi libri del M., e non soltanto in quelli che hanno
più diretta attinenza con la pedagogia (« L’educazione morale» 1914 «I probi,
fond. dell’ed. » 1923 «Disegno stor. delle dottr. ped. 7 » 1922), si manifesta
più che mai spiccata la sua eminente vocazione di educatore. Anche per il M. la
continuità non esclude, ma comprova l’autonomia del soggetto umano, come
formazione naturale e pedagogica superiore, sulla quale si fonda il diritto a
un orgoglio umano razionale come vera e propria virtù etica (« Il dominio dello
spirito, ossia il problema della personalità eildiritto all’orgoglio » 1902).
Sulla stessa autonomia si fonda il principio della tolleranza come rispetto
della personalità nella sua costituzione specifica (« L’intolleranza e i suoi
presupposti). L’ideale è relativo alla personalità, ma pensato come assoluto
acquista da ciò uha particolare potenza utilizzabile pedagogicamente («Le
finzioni dell’anima » 1905). In esso, e nelle sue singole specie, si
reintegrano le inclinazioni umane fondamentali, all’infuori d’ogni trascendenza
metafisica, ch’è puramente simbolica («La dottrina positiva delle idealità »
1914). Nella teoria del M. si ravvisa ante- cipata in alcuni de’ suoi elementi
più caratteristici e significativi la filosofia del « come se », che ha avuto
in questi ultimi anni singolare fortuna e grande diffusione. Giovanni Dandolo
(1861-1908), prof, di fil. teor. a Messina, concepì il problema gnoseologico
come problema psicologico, e lo fece oggetto d’indagine accurata e penetrante,
rivelando rare attitudini all’analisi e alla rappresentazione della vita
mentale. Tra fatti psichici e fatti fisiologici corre un rapporto unitario di
correlazione: il fatto psichico non è il riverbero di un evento fisiologico, ma
ha la sua specie caratteristica nella coscienza, che è autonoma, è un distinto
che si pone assolutamente e del quale è artificioso e vano ricercare il perchè.
I limiti dell’esperienza edelconoscerecoincidono; e continuo è il processo dal
senso all’intelletto, se pur non sia possibile risolvere senza residuo la
conoscenza nella sensazione; ciò che è necessità di origine si conserva come
necessità di sviluppo: la pura sensazione, unità indistinta, s’integra nella
percezione, come l’appetito s’integra mercè la conoscenza nel desiderio, e
mercè la ragione nella volontà. Contro il realismo ingenuo e l’idealismo
dogmatico il D. afferma la relatività reciproca di soggetto e oggetto; il
conoscere in generale, mentre si pone come fatto di coscienza, accenna alla
necessità di un eterogeneo, d’un termine correlativo esteriore, distinto e in
pari tempo inseparabile dal pensiero. Questo incontra nella esperienza un
limite alla propria libertà: nella oggettività della percezione ha fondamento
la oggettività della causa, della legge, della scienza. Contro la dottrina
della scienza sostenuta dal Mach, il D., mentre riconosce la incommensurabilità
della spiegazione scientifica con i fenomeni naturali, sostiene che fra questi
e quella intercede un vincolo, che è un adattamento speciale della intelligenza
alle cose: il vero è adattamento conquistato dal pensiero sulla realtà naturale
(« Le integrazioni psichiche e la percezione esterna» 1898 « Le integrazioni
psichiche e la volontà» 1900 «La causa e la legge nell’interpretazione
dell’universo» 1901 «Intorno al valore della scienza» 1907 «Studi di psicologia
gnoseologica» 1905-7, oltre a numerosi altri saggi, soprattutto di psic. e di
st. della psic.). Giuseppe Tarozzi (n. 1866), prof, di fii. a Bologna, occupa
in Italia, rispetto alla tradizione storica del positivismo sistematico, una
posizione spiccatamente personale: è stato, e si è professato sempre, discepolo
delI’Ardigò: e del positivismo infatti accetta il metodo e alcuni fondamentali
postulati: la filosofia è anche ricerca, perennemente promossa dai risultati
della scienza e dallo sviluppo dei pensiero comune; scienza e filosofia si
differenziano non per il metodo bensì per l’oggetto, e insieme tendono a un
fine comune cioè alla obbiettività, la quale può essere raggiunta dallo spirito
umano solo entro l'ambito della categoria quantitativa, onde ha grande valore
filosofico lo sforzo di esprimere il qualitativo in termini quantitativi; la
esperienza non è di atti ma di fatti; non è concreto se non ciò che è
sicuramente determinabile nel tempo e nello spazio. Ma la originalità del T. si
è rivelata anzitutto nelle critiche alle quali egli sottopose il determinismo,
ravvisando in questo un residuo metafisico e un elemento estraneo allo spirito
del positivismo. il suo indeterminismo, diverso da quelli del Boutroux, del
Bergson, del Mach, congiunge le due concezioni del divenire e della spontaneità
del fatto singolo, senza lasciarsi sedurre dal Xóyo; àgy ò? del finalismo («
Della necessità nel fatto naturale e umano » 1896-7). Con l’indeterminismo si
collega il realismo gnoseologico, li principio che « la realtà è il fatto della
esperienza » consente una soluzione esauriente della questione relativa alla
determinazione qualitativa e quantitativa della realtà; ma non basta a dar
fondamento alla persuasione della esistenza della realtà: la conoscenza è
contingente, e però presuppone il reale come altro da se stessa, e implica
l’idea della esistenza come incondizionalità dell’essere rispetto alla
conoscenza; da ciò s’inferisce un reale, di cui tutte le determinazioni
appartengono alla esperienza, tranne una, cioè la esistenza, che le si sottrae.
Il reale così inteso sfugge a quella determinazione del finito che è propria
della conoscenza razionale: e però è l’infinita varietà, che come tale non può
essere se non II dinamica: infinito dev’essere dunque il principio dinamico
dell’in- finitamente vario in ciascun essere che l’esperienza ci presenta come
determinato e finito. La contingenza della conoscenza, da un lato, giustifica
la distinzione della conoscenza pura dalla conoscenza empirica e quindi il
riconoscimento di leggi proprie del pensiero, dal¬ l’altro, ha in tale
distinzione e nella esistenza di queste leggi la propria riprova. Nella
conoscenza pura, intesa come conoscenza deH’autonomia dello spirito, consiste
il fondamento gnoseologico e logico, dell’idealismo etico. Caratteri
dell’idealismo etico sono la coscienza della libertà dello spirito, la
responsabilità, l’impero effet¬ tivo dell’ideale. La libertà dello spirito,
come rivelazione dell’in¬ finito nella coscienza, e capacità che ha l’uomo di
creare il regno della sua umanità morale, non esclude ma implica la
obbligazione, l’impero dell’universale: l’antitesi che sussiste fra necessario
e infi¬ nito, in quanto quello pone un limite che questo esclude, vien meno,
infatti, nella necessità morale, e in essa soltanto, perchè in essa l’infinito
si limita non negandosi, ma rivelandosi. La responsabilità, in quanto è
correlativa alla obbligazione, è responsabilità non soltanto del male, ma anche
del bene, in quanto è indipendente dalla obbliga¬ zione, trascende i limiti
dell’attività del soggetto, onde questi tende ad assumere sopra di sè il carico
del male della umanità intiera. Effettivo è l’impero dell’ideale, perchè esso
come autonomia dello spirito, è, per natura sua, un fine: ma non può essere
fine a se stesso, bensì presup¬ pone un reale ateleologico che si offre come
oggetto e materia al teleo- logismo in cui esso ideale si esplica; presuppone
dunque, nell’ordine degli oggetti, la natura indifferente, nell’ordine dei
valori, l’utile, il regno dell’interesse egoistico, in cui l’uomo a questa
natura indif¬ ferente obbedisce. Moralità è spiritualità, e spiritualità è
successiva trascendenza di fini gli uni rispetto agli altri. Con il sentimento dell’infinito
ha affinità profonda il sentimento estetico: l’estetica non determina una
distinta regione dello spirito, ma si afferma sovrana, come espressione
sintetica della humanitas. La pedagogia idealistica che risolve la educazione
nell’autoeduca¬ zione, ripugna al senso comune: la educazione dev’essere
spiritua¬ listica, perchè promuovere negli educandi il loro valore propria¬
mente umano, significa avviarli a pensare come vera vita la loro vita
interiore. Nonostante le ragioni profonde di dissenso, la dottrina del T.
appartiene alla storia del positivismo italiano: il suo spirito fervido, aperto
a interessi molteplici, non si ferma appagato sulle posizioni raggiunte, bensì
è portato a rispondere con sintesi sempre più alte e più vaste e logicamente
meglio coerenti, all’esigenze poste dalla fede generosa e sincera nei valori
umani; ma egli non ha mai dubitato che quella rivendicazione morale
dell’energia dello spirito, che è nello spirito suo il bisogno fondamentale
(Gentile), non sia appunto il programma che il positivismo propone a se stesso
e ha virtù di realizzare (Del T„ che finora non ha divulgato in modo
sistematico tutte le idee qui accennate, vedi: « La coltura intellettuale
contemporanea » 1897 « Ricerche intorno ai fond. della certezza raz. » 1899
«Menti e caratteri » «La virtù contemporanea» 1900 « Idee di una scienza del
bene » 1901 « Il contenuto mor. della libertà del n. tempo» 1911 «L’educazione
e la scuola» 1918-21 «Note di estetica sul Par. di Dante» 1922). Anche Erminio
Troilo (n. 1874), prof, di fil. a Padova, operoso cultore della st. della fil.
(« La dottrina della conoscenza nei mod. precursori di Kant» 1904» B. Telesio »
1910 « La fil. di G. Bruno » «Figure e studii di st. della fil.), manifesta,
nella esposizione delle sue vedute teoretiche, il travaglio perenne di uno
spirito che si cerca: tutta la sua feconda attività di scrittore è infusa di
pathos profondo. Egli riferisce a un’antitetica che si rivela fondamentale
nell’attività dello spirito, il perenne avvicendarsi dei due indirizzi,
positivistico e idealistico: e tende a uscirne con una dottrina, che superando
la unilateralità delle contrastanti vedute, integri il positivismo con una sua
propria costruzione teoretica (« Idee e ideali del Pos. » 1909 «Il Pos. e i
diritti dello spirito» 1912). Il suo atteggiamento di calda simpatia per il
sistema dell’Ardigò non gli vieta di criticarne il concetto dell’Indistinto
psicofisico, nel quale ravvisa una pericolosa concessione al dualismo; d’altra
parte, il fenomenismo puro riesce a una finale identificazione con il
soggettivismo idealistico: a questi indirizzi egli oppone lo schietto Monismo
ontologico, la necessità dell’Essere come Dato primo assoluto, assolutamente
autonomo. Monismo ontologico, ma, d’altra parte, dualismo gnoseologico: nell'Essere,
includente in sè quella forma della Realtà ch’è lo Spirito, la legge è l’Unità:
nel Conoscere, il quale altro non è che funzione, la legge è la Dualità: cosi
organicamente si compongono Immanenza e Trascendenza, spoglie di ogni residuo
metafisico. Ogni filosofia, come espressione integrale teoretica e pratica
dello spirito, è filosofia morale, pedagogia dello spirito umano: Philosophia
sire Vita : la filosofia che non deve limitarsi a interpetrare il mondo e deve
mutarlo, trapassa in storia (« Filosofia, vita, modernità » 1906 « La
conflagrazione » 1918). Il positivismo del Trailo si determina come Realismo
Assoluto : e un Realismo assoluto è anche la dottrina di Cesare Ranzoli (n.
1876), prof, di SI. teor. a Genova. L’oggetto della conoscenza non è nè una
ima- gine dell’oggetto esterno, nè una creazione del soggetto, bensi lo stesso
oggetto che conosce se stesso, e, conoscendosi, .si pone come identico a sè e
come diverso da sè, come conoscente e conosciuto, come spirito e come natura («
L’idealismo e la fil. » 1920). Porsi come natura significa rappresentarsi e «
distendersi » in quei rapporti spaziali e temporali che risultando dalla mutua
irreducibilità degli elementi della conoscenza, e quindi del reale, si possono
definire come la visione panoramica che il reale ha di se stesso («Teoria del
tempo e dello spazio» 1923). Lo spirito costituisce il ritmo supremo
dell’esistenza, ossia il limite di quel processo d’individuazione che
rappresenta la legge fondamentale della realtà : legge che non ha nulla in sè
di finalistico, ma esprime al contrario la fusione del caso con la causalità («
Il caso nel pensiero e nella vita» 1913). Queste idee sono espresse dal R. in
una prosa ch’è sovente un modello di stile filosofico: anche di lui può dirsi,
come del Dandolo, che la natura sobria dell'ingegno si riflette nella
composizione nitida e organica delle dottrine, ma non vieta di avvivarne
efficacemente la espressione con imagini colorite e vaghe. Ranzoli, in un
pregevole saggio sopra « La fortuna di E. Spencer in Italia» (1904), ha
dimostrato che il positivismo nostro mosse i suoi primi passi sotto la sola
guida del Comte e del Littré, ma se n’è staccato ben presto, attratto dalle
ampie formule della filosofia spenceriana, che meglio si accordavano con la natura
del nostro ingegno e delle nostre tradizioni filosofiche, rappresentate non
soltanto dal naturalismo del Rinascimento, ma anche da quel filone solitario di
filosofia sperimentale che si continua ininterrotto attraverso il Sette e
l’Ottocento: il positivismo dello Spencer, meglio di quello del Comte, aiutò
l’ingegno italiano a ritrovare se stesso: l’Italia di platonica che era,
divenne spenceriana, passando per lo hegelismo: fra questo e il positivismo è
l’abisso, ma la scuola hegeliana, dalla quale uscirono alcuni fra i primi
positivisti (Marselli, Villari, Angiulli) annovera anche pensatori (basti
ricordare il Fiorentino) che, rimanendo sul terreno dello hegelismo,
riconobbero, nei limiti della filosofia della natura, il valore del principio
della evoluzione. E il positivismo italiano fu, per molta parte,
evoluzionistico: il fascino esercitato sopra le menti dalla idea di evoluzione
trae il sacerdote giobertiano Gaetano Trezza (1827-92), bene a ciò preparato
dagli studi storici filosofici religiosi, a convertirsi a una intuizione
naturalistica, della quale egli fu il poeta piuttosto che il filosofo: le sue
idee si organizzarono («La critica moderna» 1874) intorno ai due concetti,
della relatività di tutti i fenomeni, onde natura e storia gli appaiono come
una serie di trasformazioni perenni e. della immanenza delle leggi cosmiche che
sottrae la natura e la storia all’intervento e all’arbitrio delle volontà
trascendenti (Melli). La sintesi spenceriana trovò largo consenso fra gli
scienziati: minor favore incontrò la dottrina dell’Inconoscibile, combattuta,
per opposte ragioni, da hegeliani e da neo-criticisti, da spiritualisti e da
positivisti; ma è manifesta la influenza dello Spencer sopra quel movimento di
pensiero che ebbe per organo la « Rivista di filosofia scientifica, fondata e
diretta da Enrico Morselli (n. 1852), prof, di psichiatria a Genova. L’opera di
lui è soprattutto notevole per lo sforzo assiduo di richiamare i filosofi alla
scienza e gli scienziati alla filosofia, combattendo la metafisica an-
tiintellettualistica, e reagendo contro io spirito antifilosofico, manifestato
o anche ostentato da molti scienziati puri. Il M. rappresentò autorevolmente
una filosofia monistica ed evoluzionistica, consapevole della propria funzione
sintetica e non ignara delle proprie intime difficoltà, ma da ciò indotta non a
cedervi bensì a superarle - e una psicologia che si rende conto dei limiti, ma
anche del valore del metodo introspettivo («La fil. mon. in Italia» 1887 « Id.
id.» 1904 « L’evoluz. monistico nella conosc. e nella realtà» 1889 «Il
darwinismo e l’evoluzionismo» 1891 «La psic. scient. o pos. e la reaz.
neo-ideal. » 1906 ecc.). Classiche sono le ricerche biopsicoso- ciologiche del
M. sul suicidio (1879). Anche a dire del M. («C. L. e la fil. scient.» 1906),
Cesare Lombroso (1836-1910), prof, di antrop. crim. a Torino, non fu un
filosofo: la sua Weltanschauung è schiettamente materialistica, la sua
psicologia è puro somatisino; ma se si pensa quanta luce è derivata dalle
indagini ch’egli compì o promosse, alla conoscenza delle manifestazioni
psicologiche anormali o supernormali; se si considera quante idee, accolte,
quand'egli le mise in circolazione, come scandalose o ridicole, sono diventate,
quasi insensibilmente, elementi vitali della comune cultura e hanno agito sopra
la costituzione deila nostra coscienza morale: se infine si pensa alla
influenza che la sua antropologia criminale, ispirata a un rigoroso
determinismo bio sociologico, ha esercitato in tutto il mondo sopra la
legislazione penale è debito di giustizia ricordare l’attinenza dell’opera di
lui e de’ suoi discepoli, con il movimento della filosofia scientifica («L’uomo
delinquente» 1878 « L’anthrop. crim.» 1891 «L’uomo di genio» 1888 «Nuovi studi
sul genio» 1901-2). Alla negazione del libero arbitrio e alla fondazione .di
una dottrina della imputabilità penale non costituita sopra la responsabilità
morale, diede opera, con altri, Enrico Ferri (n. 1856), fondando quella scuola
del diritto penale, o piuttosto della criminologia, che fu detta positiva, e
che propugnò lo studio e la considerazione non del delitto, ma del delinquente.
Il Lombroso diffuse in Italia (1869) « La circolazione della vita » di Jacopo
Moleschott (1822-93): questo libro, nel quale il fisiologo olandese, prof, a
Torino, sostenne le proprie vedute materialistiche, ebbe parte notevole nella
ispirazione della dottrina lombrosiana. Al materialismo aderirono o per lo meno
inclinarono molti fra i cultori delle scienze biologiche : e un tale indirizzo
è manifesto nelle ricerche psico-fisiologiche del tedesco J. Maurizio Schiff
(1823-96), prof, di fisiologia a Firenze («Sulla misura della sensaz. e del
movimento» 1869 «La fisica nella filosofia» 1875), del suo discepolo, il russo
Alessandro Herzen (18391906: « Fisiol. e psicol. » 1878 « La condizione fisica
della coscienza » « Della nat. dell’attività psich. » «Il moto psich. e la
coscienza » 1879) che nell’« Ana¬ lisi fisiologica del libero arbitrio umano »
(2 a . ed., 1870) illustrò il doppio determinismo, organico e sociologico, delle
azioni umane; e dell’antropologo Giuseppe Sergi (n. 1841), già prof, a Roma («
Elem. di psic. » 1879 «L’origine dei fenomeni psichici» 1885), studioso anche
di problemi pedagogici (« Per l’educazione del carattere » 1884 «Educazione e
istruzione» 1892). Le vedute del Sergi furono impugnate dall’antropologo Ettore
Regalia (1842-1914), sostenitore della tesi che il dolore è l’antecedente
costante e immediato di ogni azione (saggi vari, cinque raccolti nel voi. «
Dolore e azione » 1916). Un altro antropologo, Tito Vignoli (1827-1915),
coltivò la psicologia comparata (animale e etnografica) e genetica (« Peregri¬
nazioni psicologiche » 1895). L’esclusivismo psicologico nella spiegazione
delle malattie men¬ tali e le ragioni filosofiche che sono poste a suo fondamento
fu¬ rono combattuti dal grande clinico Augusto Murri (n. 1841; «Noso¬ logia e
psicologia» 1924). 6. Non si staccò dall’indirizzo materialistico Gabriele
Buccola, il quale a Reggio Emilia dpve sotto la direzione di Augusto Tamburini,
e più recentemente di Giuseppe Guiceiardi, ebbero grande impulso la
psicopatologia e la freniatria avviò ricerche psico¬ metriche che ebbero larga
eco anche all’estero («La legge del tempo nei fenomeni del pensiero » 1883). Ma
scarso è il contributo diret¬ tamente recato dai filosofi positivisti alla
psicologia con ricerche sperimentali, alle quali attesero prevalentemente
seguaci di altri indirizzi o studiosi estranei alla milizia filosofica. Allo
studio spe¬ rimentale delle emozioni contribuì poderosamente Angelo Mosso,
prof, di fisiologia a Torino (1846-1910: «La paura» 1884 «La fa¬ tica» 1891),
studioso anche di problemi educativi, il quale aderì alla teoria Lange-James: a
lui e alla sua scuoia (particolarmente al lombrosiano Mariano Luigi Patrizi,
prof, di fisiologia a Modena) è dovuto il primo impulso alle ricerche di
psicologia applicata ai problemi sociali e del lavoro (psicotecnica). Il nome
del Patrizi è legato anche a tentativi d’interpretazione delle opere d’arte con
il sussidio della psicologia positiva («Saggio psico antropol. su 0. Leopardi»
1895 «Il Caravaggio e la nuova crit. d’arte » 1921) . Zaccaria Treves, scolaro
del Mosso, contribuì alle stesse ricerche (per es. con studi sopra le relazioni
fra emozioni e lavoro musco¬ lare) e particolarmente coltivò le applicazioni
della psicologia alla pedagogia e alia tecnica scolastica, portando
modificazioni alla scala metrica del Binet. Al problema della valutazione della
intelligenza, e inoltre agli studi di psicologia e pedagogia dei deficienti
(«Edu¬ cazione dei deficienti»1915)si dedicò Sante De Sanctis, prof, di psicol.
a Roma (n. 1862), autore anche di apprezzate ricerche sopra i sogni (1899).
Benemerito della pedagogia correttiva è Q. C. Fer¬ rari, direttore dal 1905
della Rivista di Psicologia. Angelo Brofferio (1846-94), prof, di st. della
fil. a Milano («La filosofia delle Upanishadas », postumo), esercitò la propria
attività nella sistemazione della psicologia e, sopra saldo fondamento psi¬
cologico, della gnoseologia positivistica : si propose il problema della
classificazione delle specie della cognizione, come propedeutico rispetto al
problema dell’origine, razionale o sperimentale, della cognizione, e ridusse le
intuizioni, per le quali la esperienza è resa possibile, alla intuizione
fondamentale del numero (unità e molte¬ plicità), la quale s’integra in quelle
della quantità (intensità) e della qualità; ma di quella intuizione egli
illustrò la natura sperimentale: (I) Scarso è il contributo recato dai
positivisti, alla estetica : oltre all’antro¬ pologo Mantegazza, professore a
Firenze (« Epicuro » 1891-2), autore anche di molto fortunati studi sulle
emozioni, si può appena ricordare Mario Pilo («Estetica» 1894 «Psicologia
musicale» 1904) e Adelchi Baratono («Sociol. estetica» 1899): quest’ultimo,
autore anche di lodati «Fondamenti di psicologia sperimentale» (1906) ha
coltivato poi di preferenza la pedagogia, con indirizzo criticistico. il
preteso a priori non è se non la esperienza accumulata della razza. Il
positivismo affermando, in contrasto con il materialismo degli scienziati, la
relatività della cognizione e precludendosi la via alla ricerca della realtà
assoluta, lascia la possibilità di fondare sovra prove morali la credenza nella
esistenza di Dio e di appagare la invincibile aspirazione alla immortalità. Il
B. ravvisò poi nelle esperienze spiritiche la verificazione sperimentale di
quelle ipotesi che aveva da prima accolte per volontà di credere («Le specie
dell’esperienza » 1884 « Man. di psic. » 1889 « Per lo spiritismo » 1891).
Anche Ettore Galli, lib. doc. a Padova, pone a fondamento della filosofia la
psicologia, analitica e genetica: origine del conoscere è il sentire, che è
fatto biologico. Le leggi della ragione sono le leggi dell’apprendere; e si
apprende quando un fatto di sentire - secondo una legge dinamica universale -
si fonde, in ciò che ha di comune, con virtualità di sensazioni anteriori: tale
processo si ripete in tutte le operazioni del pensiero. La realtà è tutta
relativa al conoscere, e quindi al sentire: dal sentire nascono così l’io come
il non-io. E il sentire è anche base della morale. La vita, la quale per
conservarsi e integrarsi suggerisce agli uomini la collaborazione e la
divisione del lavoro, ha nel dovere un mezzo che poi agli effetti pratici vien
postulato come fine delle azioni. E al dovere s’informa anche la educazione, in
quanto è mossa dall’esigenze della vita («Nel regno del conoscere e del
ragionare» «Alle radici della morale» «Nel dominio dell’io» 1919 «Alle soglie
della metafisica» 1922). 7. Dell’attività esplicata dall’Ardigò, dal
Marchesini, dal Tarozzi come pedagogisti, già si è fatto cenno. L’indirizzo
positivistico ebbe, in generale, grande influenza sopra la scienza della
educazione: e si onora anzitutto del nome di Aristide Gabelli (1830-91), che
professò un positivismo agnostico, combattendo le degenerazioni
materialistiche; ma più che ai problemi speculativi, volse la mente ai problemi
della pratica: propugnò l’applicazione del metodo sperimentale alle scienze
morali, e delineò un’etica utilitaria, fondata sopra l’amor di sè, distinto
daH’amor proprio (« L’uomo e le scienze morali » 1869). Esplicò la sua missione
socratica (Credaro) con la diagnosi severa condotta da un punto di vista
rigidamente conservatore dei mali morali del popolo italiano e con la
indicazione del rimedio, che doveva consistere in una educazione diretta a
formare le teste, a bandire l’artifizio, il verbalismo, la retorica, ad
assumere come elementi integranti del carattere idee chiare verificate al
paragone della esperienza: il miglioramento morale è indissolubilmente legato
al progresso intellettuale: non sussiste contraddizione tra il fine umanistico
e l’indirizzo realistico della educazione («Il metodo d’insegnamento nelle
scuole elementari d'Italia » 1880 « Riordinamento dell’istruzione elementare.
Relazione, Istruzioni e programmi» 1888 «L’istruzione in Italia» 1891). Andrea
Angiulli (1837-90), prof, di ped. a Napoli, reagisce contro l’imperante
hegelismo con un sistema, ispirato alla fede nel valore teoretico e sociale
della scienza positiva, .che è legata con la filosofia da un vincolo
d’interdipendenza: ripudia l’Inconoscibile e ammette la possibilità, per la
virtualità dell’astrazione, di una metafisica critica e scientifica,
evoluzionistica e relativistica. La dottrina della evoluzione cosmica informa
di sè anche la morale scientifica progressiva (migliorismo), la quale s’integra
con la cosmologia in una religione nuova: l’A., determinista, ammette
negl’individui anche il determinismo dell’ideale. Ma l’ideale non si realizza se
non nella e per la educazione, intesa non come sempiice adattamento alle
condizioni esistenti, ma come preparazione a nuove conquiste. Tutti i problemi
sociali s’incontrano nel problema pedagogico, che dev’essere risolto
teoricamente con la costituzione della pedagogia sopra fondamento scientifico e
filosofico, praticamente con l’attuazione sua negli ordini della scuola e della
vita. Liberale in politica, l’A. rivendica allo Stato il diritto, che è dovere,
d’impartire la educazione nazionale e la istruzione obbligatoria e laica.
L’incremento della cultura femminile deve render possibile che si armonizzino,
nella scienza, la educazione domestica e la pubblica. La istruzione scientifica
deve in tutti i suoi gradi essere animata da spirito filosofico («La Filosofia
e la ricerca positiva » 1868 «La Ped., lo Stato e la Famiglia» 1876 «La Fil. e
la Scuola» 1888). Siciliani, prof, di ped. a Bologna, aspirò a una sistemazione
del positivismo italiano, sulla traccia di Galileo e del Vico e in armonia con
l’evoluzionismo («Sul Rinnovamento della Fil. pos. in Italia» 1871). La sua
pedagogia ha a fondamento la storia della educazione e ne ricava i due
principii della dignità intrinseca della «santa» personalità umana, e
dell’autodidattica (« La Scienza nell’Educ. » 1879 «Rivoluzione e Ped. moderna»
1882). Fornelli, prof, di ped. a Napoli, contribuì a diffondere in Italia la
dottrina herbartiana (« Studi herbartiani » 1913), la quale tuttavia dovette la
sua maggiore fortuna fra noi all’opera di Luigi Credaro (« La Ped. di G. F.
Herbart » 1900): ebbe vivo il senso della importanza del problema pedagogico
nello Stato liberale e propugnò la laicità della scuola che deve trovare nella
scienza il proprio centro. La misura dell’esigenze che si pongono sopra il
fanciullo dev’essere ricavata dalla considerazione non della sua costituzione
psicologica, ma della finalità civile della educazione. La volontà è
determinata, ma tra i fattori che la determinano è compresa anche la
individualità: e in ciò la responsabilità trova il proprio fondamento. Fu
sostenitore, nella istruzione secondaria, di un temperato classicismo
(«Educazione moderna» 1884 «L’Insegnamento pubblico ai tempi nostri» 1881
«L'adattamento nell’educazione» 1891). Saverio Francesco De Dominicis, già
prof, dì ped. a Pavia, si è ispirato ai principii dell’evoluzionismo e del
darwinismo («La dottrina dell’evoluzione» 1878-81); ha determinato, in base
alla esperienza naturalistica e storica, i fattori, le leggi, i fini della
educazione, il fondamento e i limiti della sua efficacia, acutamente
analizzando la vita interna della scuola (« Scienza comparata della Educ. »
1907-13), e ha esercitato grande influenza («Linee di Ped. elem. » 1896) sopra
la formazione dei maestri. Giovanni Antonio Colozza (n. 1857), prof, di ped. a
Palermo, concepisce non diversamente dal suo maestro Angiulli la scienza della
educazione nel sistema della filosofia scientifica ed evoluzionistica («Saggio
di Ped. comparata» 1885 «La Ped. nei suoi rapporti con la Psic. e le Se. Soc. »
1903): ma ha temprato il forte e indipendente ingegno nell’analisi psicologica,
nella ricerca del fondamento psicologico della pedagogia, nello studio di
problemi educativi e didattici, nella revisione di concetti comunemente accolti
senza discernimento critico: dal ripensamento originale della dottrina del
Rousseau ha tratto conforto alla fede nella virtù del metodo attivo; ha
risposto negativamente al quesito se esista la educazione dei sensi («Il giuoco
nella psic. e nella ped.» 1895 «Del potere d’inibizione» 1898 «La meditazione»
1903 «Questioni di Ped.» 1911 «Il metodo attivo nell 'Emilio. Ripensando l
’Emilio » 1912 «La matematica nell’opera educativa» 1915). Guido Della Valle
(n. 1884), prof, di ped. a Napoli, studiò la formazione dell’autocoscienza, nel
riguardo della forma e del contenuto (« La Psicogenesi della coscienza »,
1905): ma prevale nell’opera sua il gusto delle vaste costruzioni. La vita
umana dà materia alla indagine sperimentale del lavoro mentale (che è sempre un
mezzo), e alla indagine speculativa del Valore (che è sempre un fine,): donde
due dottrine pure (Psicoenergetica, Axiologia) e due dottrine applicate
(Psicotecnica, Teleologia). Il D. V. può dirsi positivista, quando ricava « Le
Leggi del lavoro mentale » per induzione da esperienze, anche originali, e
ravvisa nella pedagogia sperimentale un capitolo della psicotecnica (come la
ped. fil. è un capitolo della teleologia). Ma la sua axiologia realistica lo
allontana dal positivismo. I Valori (esistenziali, logici, estetici, morali,
economici) sono rivelati ma non contenuti dalla coscienza: sono il prodotto di
una sintesi a priori ; possono esser creduti, ma non dimostrati; sono assoluti,
trascendenti, cioè indipendenti da ogni singola mente e validi potenzialmente,
anche se non intuiti empiricamente da alcuno. Si unificano oggettivamente nella
Realtà assoluta trascendente (Dio), soggettivamente nella coscienza generica
assoluta. L’educazione consiste nella creazione e acquisizione delle varie
classi di valore (« Teoria Gen. e Formale del Valore, come fondamento di una
ped. fil.: Voi. I. Le premesse dell’Axiol. pura» 1916,). Maria Montessori ha
coltivato l’« Antropologia pedagogica », ma il suo nome è soprattutto legato
alle Case dei bambini, che hanno avuto ampia diffusione anche all’estero e
nelle quali il principio di spontaneità è portato alle sue estreme applicazioni
(«Il met. della ped. scient. applicato all’educ. inf. nelle Case dei bambini»
1910 « L’autoeduc. nelle se. elem. » 1916 «Manuale di ped. scient. » 1920).
Giacomo Tauro (n. 1873), lib. doc. a Roma, autore di un lodato profilo del
Pestalozzi, ha propugnato il metodo positivo ed evoluzionistico nella ped.,
scient. e filosofica, della quale ha delineato un piano sistematico (« Introd.
alla ped. gen. * 1906): ha studiato « Il probi, delia coltura nelle sue
attinenze con la scienza e con la scuola» (1911), ha affrontato questioni di
ped. applicata, relative alla educaz. intellettuale (« L’unità mentale e la
concentraz. della istruz. » 1907) e alla formazione del maestro (« La preparaz.
degl’insegnanti elem. e lo studio della ped. » 1920), ha, infine, assunto il
silenzio a oggetto di analisi psicologiche e di ricerche storiche accurate,
fermandosi a considerare il silenzio interiore come mezzo e processo
dell’autoeducazione («Il Silenzio e l’Educazione dello Spirito» 1922). Per
Raffaele Resta (n. 1876), lib. doc. a Roma, realtà propria del vivere umanno è
non l’errare a caso in balia delle contingenze (attualità,ed eterogenesi dei
fini), ma la conformità dei risultati complessivi a un piano di svolgimenti
progressivi (persistenza, e omo- genesi dei fini). Occorre perciò (ed è
tendenza dell’uomo) una forma o norma di vita, per la progressiva riduzione
dell’ordine naturale e attuale dello sviluppo umano, secondo l’ordine ideale o
finale della vita. Una tale forma o legge delle realizzazioni umane è la
educazione: e questa è, da un lato, inerente al vivere umano, ma si rivela
anche, dall’altro lato, specifica cioè distinta e originale, in quanto si
definisce come legge di maestria, cioè come il farsi maestro e far da maestro,
mediante una progressiva azione di corrispondenza delle potenzialità ed
inclinazioni del soggetto (ordine attuale) alle finalità della vita (ordine
finale). La educazione è dunque attività di sforzi perfettivi possibili (legge
di convenienza progressiva) che si trasformano in abilità o autonomia (legge di
maestria) del soggetto nei fini della vita: suo modello dev’essere la
personalità più saldamente autarchica (l’autonomia) nella migliore
realizzazione dell’ordine ideale (Peunomia) « L’anima del fanciullo e la ped. »
1908 «I probi, fond. della ped. » 1911 «Trattato di Ped. 1 » 1919 « L’educaz.
del geografo » 1922. 8 11 carattere umanistico della morale dei positivisti è
stato già rilevato. Paolo Raffaello Troiano, prof, di fil. mor. a Torino,
studioso benemerito dell’etica greca, defini come umanismo la sua filosofia :
umanismo critico e integrale, distinto dall’umanismo pragmatistico, perchè tien
separate le categorie gnoseologiche e quelle pratiche. L’uomo è il centro
teoretico e appreziativo del mondo: tutto da lui prende luce e si predica,
tutto da lui prende senso e si avvalora. Fondamento di ogni valutazione è uno
spirito individuale, che è l’unico reale: lo spirito assoluto è impensabile, lo
spirito collettivo una metafora. Ma nell’individuo esistono pure tendenze
collettive e storiche, e tendenze universali: individualismo e universalismo
sono aspetti inseparabili deH’umanesimo concreto. Ogni etica metafisica è
essenzialmente eteronoma e dogmatica: la concezione subbiettivi- stica dei
valori porta a costruire la morale sopra fondamento psicologico. Centro della
vita psichica, organo dei valori finali, regolatore supremo della vita è il
sentimento, che è il Iato subbiettivo e vissuto d’ogni fenomeno psichico, e
però espressione immediata dello stato del soggetto: fondamento di una morale
autonoma è il sentimento non come dolore (tendenza) o piacere (fruizione),
bensì come sentimento di calma che rivela lo stato di tregua per la so-
disfazione avvenuta e l’armonia di tutte le tendenze: all’edonismo va
sostituito l’alipismo: il senso di tutto il mondo dello spirito umano è
spirito, sospiro o conato di pace, di liberazione dal dolore. L’umanismo
pedagogico assume a fine della educazione la perfetta formazione degli organi
individuali dei valori umani, informandoli al sistema storico della coltura: la
educazione deve tendere a sostituire i valori religiosi con valori spirituali
più alti, vincendo la superstizione del divino con la celebrazione divina
dell’umano (« Etilica. I » 1897 « Ricerche sistematiche per una fil. del
costume. I 1900 «La fi!, mor. e i suoi probi, fond. » 1902 « Le basi
dell’umanismo » 1907 «L’umanismo ped. » 1908»). L’umanismo etico di Giovanni
Cesca (1859-1908), prof, di st. della fil. e di ped. a Messina, è fondato sul
fenomenismo gnoseologico ed esclude da sè il trascendentalismo, ma culmina
nella concezione di una religione morale e umanitaria (« La religione morale
dell’umanità» 1902 «La Fil. della vita» 1903 « La Fil. del- l’az. » 1908). La
religione identificata con la forza della idealità continuamente aspirante al
meglio, viene anche a identificarsi con la educazione moderna che,
distinguendosi dall’addestramento, deve rivolgersi all’Io profondo
dell’educando («Religiosità e ped. mod. » 1908). Il C. costruisce la pedagogia
generale (1900) sopra fondamento evoluzionistico: il suo pluralismo critico
tende a superare « Le antinomie psicologiche e sociali della educazione» (1896)
nella concezione della educazione stessa come processo unitario, realiz- zantesi
nella concordia di discordi molteplici fattori. In Erminio Juvalta (n. 1863),
prof, di fil. mor. a Torino, è particolarmente viva la consapevolezza della
esigenza critica. Non ha scritto molto: ma gli scritti suoi (« Prolegomeni a
una morale distinta dalla metafisica » 1901 « Su la possibilità e i limiti
della morale come scienza» 1907 «II vecchio e il nuovo problema della morale »
1914 « I limiti del razionalismo etico » 1919) son tutti il frutto di
meditazione severa, promossa da un irresistibile bisogno di chiarezza che lo
trae a rivedere assiduamente non soltanto le soluzioni dei problemi etici che
sono state proposte nel corso della storia, ma anche i termini e la posizione
dei problemi stessi. Le esigenze di ordine morale sono fondamentali e decisive
nella posizione e nella soluzione dei problemi di ordine metafisico; e
direttamente o indirettamente ne dipendono anche le questioni filosofiche, che
a primo aspetto si presentano come d’interesse prevalentemente teoretico. È
dunque, nonché opportuno, necessario affrontare i problemi morali
indipendentemente da presupposti di qualsiasi indirizzo filosofico, implicanti
una particolare soluzione dei problemi della realtà e della conoscenza. Nella
scelta fra le diverse intuizioni religiose, o fra i diversi sistemi filosofici,
prevale l’atteggiamento personale della coscienza morale. Lo J. crede alla
possibilità di una scienza normativa etica, ma la fa consistere in un sistema
di relazioni e di leggi, le quali non hanno valore di norme da seguire, se non
nella ipotesi che sia assunto come fine quell’effetto o quell’ordine di
effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni e i fattori. Una tale
scienza differisce dalle altre scienze precettive soltanto perchè suppone che
al fine suo sia riconosciuto un valore di universale preferibilità e precedenza
sopra ogni altro fine. Perchè la determinazione delle norme etiche possa dirsi
scientifica, si richiede che il fine sia umanamente possibile, cioè in
relazione di dipendenza da una certa forma di condotta collettiva o individuale
(e particolarmente per questa maniera d’intendere il carattere scientifico
della morale, il punto di vista dello J. si differenzia da quello che ha
prevalso tra i positivisti). Perchè le norme sieno norme etiche, si richiede
che sia ammesso come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di
universale preferibilità e precedenza rispetto a qualsiasi altro fine
umanamente possibile, è una esigenza morale. L’esigenza caratteristica di una
norma morale (esigenza giustificativa, diversa dalla esigenza esecutiva, che è
relativa ai mezzi di assicurare la osservanza della norma stessa) è quella di
una universale giustizia; e il fine che sodisfa a questa esigenza è una forma
di società umana tale, che tutti i socii trovino nelle sue stesse condizioni di
esistenza la medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro
attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni ai quali la convivenza e
cooperazione sociale è mezzo. Allo studio del conflitto fra i criteri
fondamentali di valutazione morale, lo J. ha recato, e ancora promette,
notevoli contributi. Francesco Orestano (n. 1873), prof, di st. della fil. a
Palermo, ha coltivato la storia della filosofia e della pedagogia («Der Tu-
gendbegriff bei Kant» 1901 «Le idee fondam. di F. Nietzsche» 1903
«L’originalità di Kant» 1905 « Comenio » « Angiulli » 1907 «Rosmini» « L. da
Vinci») e la filosofia morale (« I Valori umani» 1907 «La scienza del bene e
del male» 1911 « Gravia Levia» 1914 «Prolegomeni alla scienza del bene e del
male » 1905 « Pensieri’ » 1923). Meglio che fra i positivisti, va annoverato
fra i seguaci dell’indirizzo critico. Egli ritiene che il positivismo coerente
non possa uscire dalla descrizione della vita morale: ma la scienza si rivela
insufficiente di fronte alle questioni più essenziali che la mente umana può
proporsi di fronte alla realtà, e delle quali nell’operare umano è implicita
una soluzione : la esperienza morale, forse tutta la esperienza umana, non
rivela al pensiero la totalità delle condizioni sue: non tutta la realtà è
nell’esperienza. 11 progresso dello spirito è segnato dall’accrescimento dei
problemi. D’altra parte l’O. ha finora soprattutto inteso a costruire sul
terreno della esperienza una scienza del bene e del male, che si limita alla
descrizione più economica, cioè più semplice e più completa, dei rapporti
funzionali elementari (espressi possibilmente nella forma del calcolo) dei
fenomeni morali; e ha portato nn ricco geniale contributo al problema del
valore e della valutazione, considerato cosi in generale come dal punto di
vista etico. Ogni sistema di vita morale consiste infatti in un complesso di
valutazioni, tendenti a obicttivarsi mediante azioni e a svilupparsi in un
sistema di prin- cipii e di leggi. Ammessa la subbiettività del valore, non per
questo se ne assume come sufficiente la spiegazione psicologica: la coscienza
non è che una piccola sezione della personalità: e quest’ul- tima è coestensiva
col sistema della vita, il quale presenta, nell’aspetto organico psicologico
sociale, una composizione multipla e pluricentrica. L’unità trascendentale
dell’io è un mito che non spiega nulla. La valutazione è una funzione
dell’interesse (che è reazione totale dell'io): è la coscienza riflessa di uno
stato d’interesse riferito al suo oggetto. Il concetto ontologico del valore
non può essere fondamento della scienza morale, la quale deve adoperare il
concetto del valore come un principio formale di sintesi dell’esperienza morale
senza obbedire ad alcuna intuizione concreta; caratteristico della reazione morale
è pertanto il riferimento di un oggetto particolare d’interesse al concetto
fondamentale che si ha della vita nella totalità de’ suoi scopi: questo
concetto è il vero fondamento di tutt’i giudizi etici: fondamento relativo, ma
che una volta fissato, agisce come principio assoluto. Tale definizione
s’integra nella definizione del fatto morale come impiego effettivo, cosciente
e volontario della vita in funzione di un tale concetto unitario, esplicito o
implicito, di essa: è la vita che pensa e vuole se stessa, che sceglie da sè i
suoi propri modi di essere: il mondo morale è una teleologia in azione. Ma la
vita non può pensarsi nè volersi che socialmente: la personalità sociale è il
soggetto della esperienza etica, la quale presenta cosi due aspetti, sociale e
personale. L’O. riconduce tutte le valutazioni a un comune denominatore, la
vita, che è la massima misura umana della realtà e del valore: il valore della
vita, poi, è una funzione dipendente del valqre supremo idealmente concepito:
per Luigi Valli, lib. doc. a Roma, «Il Valore Supremo » (1913) s’identifica con
la vita stessa. La sua teoria generale del valore come simbolo di una corrente
d’impulsi o di volontà concordi in una direzione, mette in luce la legge di
proiezione dei valori, per la quale la coscienza crea ai valori stessi una meta
fittizia, considerando come valore proprio l’ujtima parte consapevole di ogni
processo vitale, e con ciò crea i falsi assoluti della morale, che devono via
via decadere. Valore proprio, rispetto al quale tutti gli altri sono valori
relativi, è soltanto la vita, unico valore vero e perciò supremo, nel quale e
per il quale esistono gli altri valori, compresi i valori conoscitivi che sono
anch’essi valori strumentali della vita. In questa stessa Rivista (III, 2), il
V. ha presentato modificata in senso antiintellettualistico, la teoria della
religione sostenuta nel libro « Il fondamento psicol. della religione » (1904).
Zino Zini, lib. doc. a Torino, aderisce, sul terreno della gnoseologia, al
realismo critico: afferma l’intima unità o mutua compenetrazione dello spazio e
del tempo, e svolge una teoria dinamica dello spazio, concepito come emanazione
del tempo: la nostra sensibilità, cioè ia nostra vera vita spirituale in quanto
è formata di rappresentazioni e di sentimenti, d’intuizione e di volontà, è
soggetta alla legge fondamentale del tempo e delio spazio; ma le condizioni per
cui nella realtà soggettiva sorgono queste forme fonda- mentali, esistono nella
realtà oggettiva, nella natura (« La doppia maschera dell’universo»). Nel campo
della morale, lo Z. haprofessato sempre la insufficienza dell’empirismo e si è
venuto sempre più accostando (« La morale al bivio» 1914) alla posizione cri-
ticistica, in antitesi con il naturalismo etico e il determinismo: ma può essere
annoverato qui per l’opera data alla costruzione di una morale logica, la quale
sia l’applicazione alla condotta dei sistemi di cognizioni formulati dalla
scienza. Lo Z. ha vigorosamente criticato la morale religiosa, emotiva ed
eteronoma, tutta volta alla espiazione del passato e alla redenzione dai
peccato, e, svelandone il meccanismo psicologico, l’ha presentata come
impedimento alla formazione della personalità libera e responsabile (« Il
pentimento e la morale ascetica» 1902): egli ha ricostruito la storia
psicologica del sentimento e della idea di « Giustizia », e studiato il
problema sociale come problema che è anche morale e che trova la sua soluzione
non nella socializzazione della proprietà, ma nella partecipazione di tutti
alle condizioni di una civiltà superiore (« Proprietà individuale o proprietà
collettiva?» 1902). Scolaro dell’Ardigò e del Marchesini, Ludovico Limentani
(n. 1884), prof, di fil. inor. a Firenze, ha sostenuto che un’etica indi-
pendente dalla metafisica deve abbandonare ogni pretesa normativa o
deontologica: il valore morale si specifica come rapporto formale fra la
coscienza del dovere la quale si spiega con la costituzione pluralistica della
personalità e della società e la condotta effettivamente praticata: misura del
valore morale è lo sforzo, ed è però competente a giudicarne, in più eminente
grado, lo stesso soggetto agente. Dalla valutazione morale strido sensu vanno
distinte come « quasi morali » altre valutazioni, fra le quali caratteristiche
son quelle dipendenti dalla relazione fra la condotta del soggetto e le
aspettazioni dei socii (« I presupposti formali della indagine etica » 1912 «La
morale della simpatia» 1914 «Moralità e normalità» 1919 «L’onore e la vita
morale» 1923). Guglielmo Salvadori (n. 1879), lib. doc. a Roma, contribuì
efficacemente alla diffusione della dottrina evoluzionistica, con traduzioni di
opere dello Spencer e monografie illustrative (« H. S. e l’opera sua» 1900 «La
scienza economica e la teoria dell’evoluzione. Saggio sulle teorie econ.-soc.
di H. S.» 1901 «L’etica evoluzionista. Studio sulla fil. mor. di H. S.» 1903);
combattè gli errori del trasformismo meccanico («Natura, evoluzione e moralità»
1909) ed ebbe a guida l’evoluzionismo così nel sostituire una spiegazione
razionale dei sentimenti morali alle spiegazioni metafisica e puramente
empirica, rivelatesi insufficienti ( « Determinaz., classificaz. e spiegaz. dei
sent. mor.», 1903), come nel fondare sopra la conciliazione dell’antitesi
essere-divenire, un concetto positivo del diritto naturale («Das Naturrecht und
der Entwicklungsgedanke» 1905). 9. Il positivismo italiano già nel suo
fondatore, il Cattaneo, è, sulle orme del Vico, storicismo: Marselli, scolaro
del De Sanctis, dopo avere, ne’ primi suoi lavori di fil. della st. e di estetica,
ormeggiato lo Hegel, provò poi il disgusto dello abuso che gli hegeliani
avevano fatto della Idea astratta e della scienza a priori, e concepì la storia
come la più alta tra le scienze di osservazione, che con lo stesso metodo
adottato dalle scienze naturali, deve rivelarci le manifestazioni della natura
umana e le sue leggi. Il positivismo del M. è una metafisica monistica, che non
oppone lo spirito alla natura, nè risolve questa in quello, ma spiega con la
legge di evoluzione il progresso da una all’altro («La scienza dellastoria»
1873 80 «Le leggi storiche dell’incivilimento», postumo). P. R. Troiano diede
opera alla costituzione de «La storia come scienza sociale» (Voi. I. 1898),
combattendo il concetto dellastoria come opera d’arte. Da apprezzate ricerche
d’etnologia preistorica e protostorica («L’origine degli Indoeuropei» 1903),
condotte sulla traccia luminosa d’intuizioni del Cattaneo, Enrico De Michelis
procedette ad approfondire il problema della conoscenza storica. Le scienze di
leggi dalla matematica alla sociologia e la storia lato sensu, rispondono a due
distinte esigenze del pensiero: le prime hanno per oggetto quei rapporti
condizionalmente necessari delle cose e dei fenomeni che costituiscono la
«Natura»: la seconda riesce invece alla costruzione e rappresentazione del
reale a titolo di « mondo » o «universo». Hanno torto quei positivisti che
vorrebbero sostituire la storia con le scienze di leggi, estendendo a quella il
contenuto logico e il tipo epistematico di queste; ma è anche infondata (o
fondata soltanto sopra un’analisi insufficiente delle categorie sotto le quali
viene pensato il reale come natura, e sovra persistenti vedute astrattistiche e
sostanzialistiche) la svalutazione del conoscere matematico-naturalistico. Se
la costruzione della storia è il termine d’arrivo di tutto il conoscere, ogni
progresso della conoscenza storica ha per condizione il progredire delle
scienze di leggi; e se queste avessero un valore puramente convenzionale,
neanche la storia potrebbe aspirare a un valore filosofico («II problema delle
scienze storiche» 1914). Giambattista Grassi Bertazzi (n. 1867), prof, di st.
della fil. a Catania, fecondo studioso del pensiero antico, medievale e
moderno, ha avviato ampie ricerche sovra «I presupposti fondamentali della
storia della filosofia. Asturaro, prof, di fil. mor. a Genova, considerò i
problemi morali dal punto di vista dell’evoluzionismo, che, meglio del semplice
associazionismo, offre il modo di conciliare il naturale egoismo con l’ideale
del disinteresse («Saggi di fil. mor.» 1881): si adoperò sopratutto a sistemare
la sociologia mediante la classificazione e seriazione dei fatti sociali :
approfondì la dottrina del metodo delle scienze morali e la dottrina della
classificazione delle scienze ( « La sociologia, i suoi metodi e le sue
scoperte», 2. Ed. 1907). Ma della vastissima letteratura sociologica che dilagò
per l’Italia sul finire dello scorso secolo e nel primo decennio del presente,
non è il caso di far parola: sopra quella emergono per l’austera serietà degli
intendimenti e la rigorosa fedeltà al metodo positivo gli « Elementi di scienza
politica» di Gaetano Mosca ( 2' ed., 1923), prof, di diritto costituzionale a
Roma, (n. 1858) e il «Trattato di sociologia generale» di Pareto (1848-1923):
questi scrittori, se pure non fecero professione di filosofia, con il loro
pensiero robusto e originale esercitarono grandissima influenza sopra la
formazione delle giovani generazioni. Scolaro dell’Ardìgò, Achille Loria (n.
1857), prof, di economia politica a Torino, sociologo ed economista dei più
eminenti, ricercò un principio che lo guidasse alla spiegazione organica della
vita sociale: non si propose la soluzione di problemi speculativi, ma intese il
materialismo storico come un ferreo determinismo economico e ne trasse nel modo
più intransigente estreme illazioni («Le basi economiche della costituzione
sociale). Diffuse con parola lucida colorita efficace la conoscenza del
movimento sociologico contemporaneo («La sociologia, il suo compito, le sue
scuole, i suoi recenti progressi» 1900 «Verso la giustizia sociale » 1904-15).
La concezione della storia come divenire automatico e fatale dei processi
economici, e la interpretazione del materialismo storico come applicazione
della filosofia materialistica alla storia, sono state vigorosamente combattute
da MONDOLFO (si veda), prof, di st. della fi!, a Bologna. Già Labriola, prof,
di fil. mor. a Roma, aveva sostenuto che il materialismo storico deve fondarsi
sopra una dottrina di attività, sopra la marxista filosofia della praxis:
l’uomo non è un essere passivo e inerte, docile all’azione delle condizioni
esistenti: queste, mentre limitano e ostacolano la sua azione, lo stimolano a
volgersi contro di esse per reagirvi e trasformarle: le condizioni stesse che
l’uomo ha create sono da lui, nel processo della lotta fra le classi, superate
e trasformate. Il mar- ximo del L., contro ogni teoria dei fattori storici,
artificiosamente separati ed entificati, rivendica il principio della unità
della vita e della storia («Saggi intorno alla concez. mater. della st. »
1895-8). Anche il Mondolfo, autore di pregevoli saggi di psicologia (* Studi
sui tipi rappresentativi» 1909) e di storia della filosofia (« E. B. de
Condillac » 1902 « La morale di Hobbes » 1903 « Le teorie mor. e poi. di
Helvétius » 1904 «Il dubbio metodico e la st. della fil.» 1905 «Il pensiero di
R. Ardigò» 1908 «La fil. di G. Bruno nella interpretaz. di F. Tocco» 1911 «
Rousseau nella formaz. della cose, mod. » 1913 « F. Acri e il suo pensiero»
1914) e studioso di problemi pedagogici e culturali («Libertà della scuola»
1922), interpreta il materialismo storico come intuizione volontaristica della
vita e concezione critico-pratica della storia (« 11 materialismo stor. di F.
Engels» 1912 «Sulle orme di Marx J » 1923). A fondamento della ricostruzione
della dottrina sta lo stesso criterio, per cui la dialettica reale del Marx si
opponeva alla dialettica hegeliana della idea, ossia il principio, derivato
dall’umanismo del Feuerbach, che restituisce all’uomo la sua concreta realtà ed
azione nella vita, affermando di fronte alla realtà dello spirito la realtà
della natura. La conoscenza e la storia umana si sviluppano in un rapporto
dialettico fra soggetto (bisogni, aspirazioni, volontà degli uomini) e oggetto
(condizioni naturali e storiche): questo si pone come limite, ostacolo e perciò
stimolo progressivo all’attività umana e alle conquiste e creazioni, ch’essa
compie nella diuturna sua lotta, e che si convertono nelle condizioni nuove,
alle quali nuovamente spetterà la funzione di limite e perciò d’impulso a nuovi
sforzi di superamento. In questo volontarismo concreto, che riconosce fra i
bisogni umani la preminente impellenza del bisogno economico, è l’essenza del
processo storico e, insieme, la direttiva di ogni azione aspirante a inserirsi
efficacemente nella storia. Alla conoscenza della dottrina e dell’attività
politica degli estremi partiti rivoluzionari ha contribuito validamente Ettore
Gambigliani Zoccoli (« L’anarchia - Gii agitatori - Le idee - I fatti - 1907),
autore anche di saggi sopra la filosofia dello Schopenhauer e del Nietzsche e
già prof, di fil. mor. a Catania. 11 - Largo contributo recarono i positivisti
agli studi di filosofia giuridica, nei quali aveva già stampato un’orma
profonda Roberto Ardigò con la sua Sociologia. Uno sforzo di conciliazione fra
le dottrine positivistiche e il criticismo si ravvisa nei tre volumi delle
Opere (1908) di Icilio Vanni (1855-1903), prof, di f. d. d.° a Roma, che
assegnò alla fil. del dir. il triplice problema gnoseologico, fenomenologico,
deontologico: mise in luce la esigenza gnoseologica implicita nello stesso
positivismo conitiano e illustrò la dottrina etico-giuridica dello Spencer:
segnò le linee fondamentali di un programma critico di sociologia, riconoscendo
la caratteristica della vita sociale nella «storicità-. Le sue Lezioni ebbero
grande efficacia sulla educazione mentale di parecchi giuristi. Piuttosto
eclettica che propriamente positivistica è la dottrina di Giuseppe Carle
(1845-1917), prof, di f. d. d.° a Torino (« La vita del diritto nei suoi
rapporti colla vita soc.» 1880 «La F. d. d°. nello Stato mod. 1902-3), ispirata
ai principii dello storicismo. La necessità di una larga concezione sociologica
e storicistica del diritto fu sostenuta da Biagio Brugi, prof, d’istituz. di d°
civ. a Pisa (n. 1855: « Introduzione enciclopedica alle Se. giur. e soc. 4 »
1907), seguace e propugnatore dei principii della scuola storica, il quale
accolse e illustrò la dottrina dell’Ardigò ; da Gino Dallari (n. 1872: «La
esigenza del posit. crit. per lo studio fil. del dir. » 1903 « Il pensiero fil.
di H. Spencer » 1904 « Il nuovo contrattualismo nella fil. soc. e giur.» 1911 «
F. d. d.° e scienza storica dell’incivilimento» 1913); e da Gioele Solari (n.
1872: «La scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei sec.
XVII e XVIII» 1904 «La idea individ. e la idea soc. nel d°. privato» 1911 «li
probi, mor. » 1900), professori di f. d. d°. a Pavia e Torino. Rigoroso
positivista fu Salvatore Fragapane, prof, di f. d. d°. a Bologna (1868-1909),
che sostenne contro il contrattualismo l’unità dell’individuo e del gruppo,
dell’idea e del fatto, della coscienza e della società («Contrattualismo e
sociol. contemp. » 1892), applicò al campo della filosofia giuridica il metodo
genetico evolutivo (« Il probi, delle origini del dir. » 1896) e combattè
l’eclettismo del Vanni, negando il compito deontologico della f. d. d.° («
Obbiettò e limiti della f. d. d.° » 1897-9). Scolaro del Fragapane e
illustratore dell’opera del Vanni è Antonio Falchi (n. 1879), prof, di f. d.
d.° a Parma («L’opera di I. Vanni» 1903 «Sulla differenziaz. del diritto dalla
mor. » 1904 «Le mod. dottrine teocratiche» 1908 « I fini dello Stato e la funz.
del Potere»), che negò la legittimità della esigenza metafisica nella f. d. d.°
Particolare attenzione all’aspetto psicologico della fenomenologia giuridica
prestò Vincenzo Miceli, prof, di f. d. d.° a Pisa, che sostenne la riduzione
della f. d. d.° per la parte speculativa alla filosofia morale, e per la parte
tecnica alla dottrina generale del diritto (« Le fonti del d.° dal p. d. v.
psichico-soc. » 1905 « Prin- cipii di F. d. d.° » 1914). Considerarono la vita
del diritto da un punto di vista evoluzionistico e antropologico Raffaele
Schiattarella (1839-1902), Giuseppe d’Aguanno (1862-1908) e Giuseppe Vadalà
Papale (1854-1921), prof, di f. d. d.° rispettivamente a Palermo, Messina,
Catania. Dalla scuola dell’Ardigò sono usciti Alessandro Grappali e Alessandro
Levi: il primo (n. 1874), prof, di f. d. d.° a Modena, contribuì alla critica
della Sociologia del Maestro dal punto di vista del materialismo storico (« La
genesi soc. del fenomeno scientifico» 1899), fece conoscere in Italia le
principali correnti del pensiero sociologico straniero (« Saggi di sociologia »
1899 « I fondamenti giu.el solidarismo » 1914) e assegnò alla sociologia la
triplice funzione critica, sintetica e teleologica («Sociologia e psicologia»
1902). Il Levi (n. 1881), prof, di f. d. d.°a Catania, assegna alla filosofia
il compito di discutere il problema gnoseologico, e conseguentemente intende la
f. d. d.°come logica o gnoseologia del diritto, differenziato dalla economia e
dall’etica come una distinta forma logica o «guisa» dello spirito umano; assume
come concetto fondamentale dell’ordinamento giuridico, quello di rapporto
giuridico, individuazione della forma logica del diritto, che è l’apprezzamento
delle attività nel loro profilo intersoggettivo: «ubi societas, ibi ius».
(«Contributi ad una teoria fil. dell’ordine giur.» 1914 « F. d. d.°e tecnicismo
giuridico» 1920 «Saggi di teoria del d.° » 1924 « La Fil. poi. di G. Mazzini »
1917). Alfredo Bartolomei (n. 1874), prof, di f. d. d.° a Napoli, in un saggio
giovanile discusse, alla stregua di una metafisica monistica e apprezzò con
equanimità e acume « I principii fondam. dell’etica di R. Ardigò e le dottrine
della fi], scientifica » 1900, ma il suo ulteriore pensiero si svolse in
direzione piuttosto criticistica che non positivistica. Benvenuto Donati (n.
1883), prof, di f. d. d.° a Macerata, ha portato contributi allo studio del
diritto come fenomeno, e si è poi rivolto specialmente alle ricerche storiche,
rendendosi benemerito degli studi vichiani («Interesse e attività giuridica»
1909 «11 socialismo giur. e la riforma del d.° » 1910 « Il rispetto della legge
dinanzi al principio di autorità. Critica alla Fil. civ. di Hobbes » 1919
«Autografi e documenti vichiani inediti o dispersi » 1921 « Essenza e finalità
della scienza del d° » 1924). Roberto Vacca ha tracciato le linee di un
programma di f. d. d.° sulla base del metodo sperimentale («Il d.°
sperimentale» 1923). 12. Il positivismo fu portato naturalmente a contribuire a
quel movimento che può definirsi di filosofia della scienza. Positivistico è
l'atteggiamento assunto nel suo libro «Scienza e opinioni» da Bernardino
Varisco (n. 1850), prof, di fil. a Roma, il quale non potrebbe esser annoverato
oggi più tra i positivisti, dopo la revisione e le integrazioni alle quali è
stato indotto dal suo indomito spirito di ricerca. Il V. distingue assolutamente
pensiero e realtà. Questa si compone d’infiniti corpuscoli, estesi ma
fisicamente indivisibili, dotati di proprietà psico-fisiche. Fisicamente, i
corpuscoli si muovono e all’occasione si urtano; e, quantunque duri, negli urti
si comportano come se fossero elastici. La fisica del V. si riduce
integralmente a una meccanica, sul genere di quella del P. Secchi: l’accadere
fisico è quello che ha luogo tra i corpuscoli, mentre l’accadere psichico è
provocato, In ogni corpuscolo, degli urli a cui va soggetto. Non esistono
mentalità indipendenti dal fatto del nostro pensare (il V. mantiene anche oggi
questo suo concetto, che per altro ha reso più coerente). L’esigenza del nostro
pensiero non è se non l’esigenza causale dei fatti psichici che lo
costituiscono, Ciascun fatto psichico (separatamente preso) è insieme una
forza, e un conoscere affatto embrionale, ma certo assolutamente. Quello che è
vero va distinto da quello che consta. P. es.: consta che C è conseguenza
necessaria di P; consta che il remo nell’acqua si vede spezzato. Ma C non è
vera che sotto condizione; e che il remo sia spezzato, non è punto- vero.
Quello che consta non è dunque vero, in generale, che relativamente; peraltro è
un vero noto e certo. Al di là di quello che consta c’è un vero assoluto (p.
es., la dipendenza necessaria di C da P è assolutamente vera), che può essere
in parte ignoto, o non conosciuto con certezza. Per giungere alla cognizione
del vero assoluto, è necessario che ci fondiamo su quello che consta. E a ciò
si riduce quello, che dal V. fu chiamato il suo positivismo: constano soltanto
le conclusioni delle scienze positive (dimostrative, secondo Galileo, il quale
riteneva opinabili tutte le altre dottrine). Fine della
filosofia,secondoilV.,ilqualeinpropositononmutò molto le sue opinioni, è la
discussione del problema, se oltre alla natura psico-fisica ci sia o non ci sia
un soprannaturale, cioè se la religione sia o non sia giustificata. Ed egli
rispondeva allora che alla riflessione il soprannaturale non può constare; il sentimento
del soprannaturale, qualunque ne sia il valore oggettivo, non può essere
tradotto in cognizione distinta, non può servire di fondamento alla costruzione
del sapere. 1 nomi di Federigo Enriques e di Eugenio Rignano si trovano
associati nell’impresa di promuovere con la rivista « Scientia > (fondata
nel 1907 e tuttora fiorente sotto la direzione del R.) la coordinazione del
lavoro scientifico, la critica dei metodi e delle teorie, e di affermare un
apprezzamento più largo dei problemi della scienza. «Problemi della scienza»
s’intitola il libro (1906) con il quale l’E. (n. 1871), matematico di fama già
mondiale, si annunziò come rappresentante di un positivismo che può dirsi
critico, dominato come tale, dalla consapevolezza della esigenza gnoseologica.
La teoria della conoscenza, sostenuta dall’E., deriva dall’esame della scienza,
non accettata dogmaticamente ma investigata nelle sue origini e nel suo
significato: ed è ben giustificata la definizione della sua costruzione come
positivismo critico: l’E. infatti elimina il dualismo di assoluto e relativo,
sostanza e fenomeno rappresenta il lavoro scientifico come un progresso senza
fine, perchè sono senza fine i rapporti che legano fra loro le cose, e il
concatenamento delle cause naturali: e questo progresso concepisce come
procedimento di approssimazioni successive, dove dalle deduzioni parzialmente
verificate e dalle contraddizioni eliminanti l’errore delle ipotesi implicite,
sorgono nuove induzioni più precise, più probabili, più estese ricerca la origine
empirica delle concezioni metafisiche, alle quali può attribuirsi soltanto il
valore d’ipotesi, capaci talora di preparare scoperte e teorie scientifiche fa
oggetto di studio il fondamento psicologico e il contenuto sperimentale delle
supreme categorie logiche opera una revisione delle stesse dottrine
positivistiche, con il fine di escluderne i residui metafisici assume come
criterio della verità la esperienza, la quale dimostra se sussista o meno
l’accordo fra l’elemento subiettivo della previsione e l’elemento obbiettivo
della realtà riconosce come dati immediati della realtà non le sensazioni pure,
ma piuttosto i rapporti fra sensazioni e volizioni che condizionano le nostre
aspettative, e ne esprimono gl’invarianti elementari riconosce pertanto che la
nostra credenza a qualcosa di reale suppone un insieme di sensazioni che
invariabilmente susseguono a certe condizioni volontariamente disposte riesce
con la definizione del reale come invariante della corrispondenza fra volizioni
e sensazioni a unificare, contro le teorie della scienza, nominalistiche e
convenzionalistiche, la comprensione del «fatto bruto» e quella del «fatto
scientifico». Tutta l’opera dell’E. è ispirata alla fede razionale nel valore
della scienza e al principio della continuità e interdipendenza di scienza e
filosofia. Nella valutazione del contrasto « razionalismo-storicismo » il
pensiero dell’E. va sempre più evolvendosi nel senso del razionalismo, ch’egli
cerca tuttavia di comporre con l’empirismo da un lato e con lo storicismo dall’altro
(«Scienza è razionalismo» 1912 «Per la storia della logica » 1922). Rignano,
lib. doc. a Pavia, ha coltivato gli studi sociologici biologici psicologici: ha
esposto criticamente la sociologia comtiana, soprattutto dal punto di vista
metodologico («Là sociol. nel Corso di Fil. pos. di A. C. » 1904): ha spiegato
il meccanismo di trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti con una
ipotesi ontogenetica, che rende conto dei fatti recati a favore così del
preforniismo come della epigenesi. L’altra ipotesi sussidiaria
suH’accutnulazione specifica, che sarebbe la proprietà fondamentale ed
esclusiva della energia nervosa, base della vita, spiega i fenomeni mnemonici
propriamente detti e la proprietà mnemonica della sostanza vivente in generale.
Così la ipotesi centroepigenetica rientra fra le teorie delio sviluppo, ed è
fornito un modello energetico, capace di dare una idea della natura intima
della vita («Sulla trasmissibilità dei caratteri acquisiti). Hanno origine e
natura mnemonica anche le tendenze affettive (« Essais de synthèse scien-
tifique» 1912). L’analisi del ragionamento, cioè del più complesso tra i fatti
psichici, porta a studiare gli altri fatti, sempre meno complessi, che lo
costituiscono, fino ai due più elementari, che dànno luogo a tutti gli altri:
da un lato, cioè, sensazioni ed evocazioni sensoriali, dall’altro, tendenze
affettive (« Psicologia del ragionamento » 1920). Così la sola proprietà
mnemonica spiega e unifica tutte le manifestazioni finalistiche della vita,
dalla ontogenesi e dal preadattamento anatomo-fisiologico ali’ambiente, fino
agl’istinti più complessi e alle più alte manifestazioni del pensiero (« La
memoria biologica » 1922). I nomi del Varisco, dell’Enriques e del Rignano
mostrano come il pensiero italiano abbia preso parte attiva a quel movimento di
revisione critica della scienza, che è una delle caratteristiche più notevoli
del pensiero contemporaneo. Ma non debbo dimenticare pur vedendomi costretto,
per non esorbitare dai limiti del mio tema, a un accenno sommario e pur troppo
insufficiente — l’opera di Giuseppe Peano (« Calcolo geometrico » 1888 « 1
principii di Geometria logicamente esposti » 1889) e de’ suoi discepoli Mario
Pieri, Alessandro Padoa, Cesare Burali-Forti, la quale tanto ha contribuito a
dare alla matematica una rigorosa sistemazione logico-deduttiva, con tendenza
nominalistica, escludendo qualsiasi appello all'intuizione. E vuol essere anche
ricordato il valore logico e filosofico che, partendo dagl’insegnamenti del
Peano e di Antonio Gar- basso (« Fisica d’oggi. Filosofia di domani » 1910),
Annibaie Pastore, prof, di fil. teor. a Torino, ha dato alla logica-matematica
e alla teoria dei modelli meccanici (« Sopra una teoria della scienza » 1903 «
Logica formale dedotta dalla consideraz. di modelli meccanici » 1906 «Del nuovo
aspetto della scienza e della fil.» 1907 «Sillogismo e proporzione» 1910 «Il
pensiero puro» 1913 «Il problema della causalità» 1921). Il calcolo logico,
secondo il P., non è che uno degl’infiniti modelli con cui si può rappresentare
l’ordine dei fenomeni e prevederli; e tutti sono immagini o simboli equivalenti
dell’infinita verità. Ma nelle sue ultime opere il P., superando la posizione
di questo suo iniziale nominalismo, accenna ad orientarsi verso unaforma di
panlogismo. 13. — Al positivismo — anzi al positivismo più rigoroso ed estremo
— va pure ascritta la « filosofia scettica » di Giuseppe Rensi (n. 1871), prof,
di fil. mor. a Genova, pensatore fervido, scrittore suggestivo, polemista
animoso. Egli muove in tutt’i suoi libri principali una vivace battaglia contro
l’idealismo assoluto, negando radicalmente ogni assolutezza delle forme o
attività spirituali, e sostenendo che nell’ambito della sfera della pura
ragione (in quanto cioè la pura ragione, o lo spirito, costruisca cavando esclusivamente
dal proprio fondo, a priori, e si concepisca non come determinata dal fatto,
dal dato, ma come generante essa l’oggetto) impera sovrana e invincibile
l’antinomica ossia lo scetticismo. Ma, quindi, certezza v’è solo nella
constatazione sensibile del fenomeno come tale, e a questa certezza è parallelo
l’accordo universale, in ciò, delle menti. Comincia il regno dell’incertezza,
della mera opinione, e quindi della fantasia (e perciò in un certo senso
dell’arte) quando si vuole salire oltre la constatazione del fenomeno per
interpretarlo. Dunque, o la filosofia è la constatazione del fenomeno, ed è
positivismo e scienza; o è l'interpretazione di esso, ed è mera espressione
d'impressioni, cioè arte, e, dal punto di vista del sapere, scetticismo (« Lineamenti
di Fil. scettica » 1919). Di conseguenza, anche nel campo pratico, morale e
diritto non sono costruzioni razionali che lo spirito cavi con apodittica
assolutezza dal proprio fondo, ma sono determinati, qua e là variamente, dalla
«Autorità» del fatto esteriore, come il positivismo sofistico e quello
hobbesiano avevano scorto («Il diritto», ib. «Filosofia dell’Autorità» 1920
«Introduzione alla scepsi etica» 1921). Anche l’estetica è, come forma a priori
dello spirito, nient’altro che scepsi estetica (« La scepsi estetica» 1919) e
come «bello» non può valere se non la valutazione di fatto che pronuncia il
gruppo sociale o la specie. Negli ultimi suoi scritti («L'irrazionale, il
lavoro, l’amore» 1923 « Interiora Rerum » « Realismo » 1924) il R. accentua i
caratteri realistici e nello stesso tempo pessimistici del suo scetticismo. Non
come positivista, ma come scettico, vuol essere qui ricordato Levi, prof, di
st. d. fil. a Pavia e operoso cultore della st. d. fil. ant. (« Il concetto del
tempo nei suoi rapporti coi probi, dell’essere e del divenire nella fil. gr.
sino a Platone» 1910 « Id. nella fil. di Platone» 1920 «Sulle interpretaz.
immanentistiche della fil. di PI.» 1920), mod. («La fil. di Berkeley» 1922) e
conteinp. (« L’indeterminismo nella fil. frane, contemp. » 1904 ecc.). Il L.
(«Sceptiea*) rappresenta un radicale scetticismo che eliminando da sè ogni
elemento dommatico, sfugge alla consueta accusa d’intima contraddizione. Tutte
le metafisiche, compreso l’idealismo assoluto, si fondano sopra una concezione
realistica, che, in quanto voglia rispondere a esigenze non pratiche ma
puramente teoretiche, è senza giustificazione, anzi in contrasto con il
presupposto fondamentale del conoscere (costituito dal mio io pensante): tutte
- dico fuorché una, il solipsismo, che da questo presupposto direttamente
deriva, e che, sebbene criticabile perchè includente innegabili irrazionalità,
è fra tutte la più plausibile. Contro il positivismo, il solipsismo sostiene
che il dato dell’esperienza esige una interpretazione del pensiero, e però non
ha valore per sè. L’estetica del L. («La fantasia estetica» 1913) si riassume
nella tesi che « l’opera d’arte nasce dal mistero, ha caratteri non
determinabili completamente ed esaurientemente e suscita in chi la contempla
uno stato particolarissimo, irreducibile e non del tutto definibile ». 14 In
Sicilia il positivismo si presenta con aspetti caratteristici nella filosofia
dell’identità di Corleo, prof, di fil. mor. a Palermo, e nel radicale empirismo
di Cosmo Guastella (1854-1922), prof, di fil. teor. a Palermo. Nel C.,
positivistico è il metodo, o il punto di partenza: ma egli con la pura
osservazione dei fatti e senza nulla presupporre vuol giungere alla metafisica
e a conclusioni eminentemente razionalistiche. Non vi è qualità la quale non si
riduca a quantità, e questa riduzione che è il compito della scienza, rende
possibile la costruzione di una filosofia che adegui la esattezza della
matematica. Il C. ha una concezione atomistica della vita psicologica: dalle
percezioni che sono gli atti primordiali del pensiero, e, presentandosi come in
parte identiche, in parte non identiche fra loro, sono tutte complessi,
identici con la somma delle parti risultano l’analisi e la sintesi spontanee,
che operano sopra le percezioni stesse, onde i punti simili di queste si
presentano similmente, e i punti per cui si differenziano si separano
naturalmente: così si spiegano le formazioni mentali superiori. Lo stesso
fondamentale assioma della identità non è dunque che un dato della esperienza,
emergente dalla osservazione del fatto del pensiero: ma è un tale dato che
consente di trovare nell’empirico l’assoluto, perchè assoluto è che
identicamente apparisca ciò che identicamente apparisce. La noologia del C. è
per un verso psicologia empirica: ma per l’altro verso è, in quanto la sua
psicologia è piuttosto una schematizzazione matematica di esperienze
psicologiche, anche logica e gnoseologia. La esperienza si eleva al grado di
concetto per virtù della legge di priorizzazione, onde gli elementi costanti
della rappresentazione di un oggetto «prendono il davanti», diventando tipo e
norma degli altri, e quel che vieti dopo, o si assimila a ciò che precedette e
riproduce quegli elementi costanti, o non si assimila e non li riproduce: qui è
la fonte della universalità e della necessità: ma i giudizi si fondano tutti
sull’analisi del fatto o del concetto e sul riconoscimento d’un’identità
parziale o totale: non esistono giudizi sintetici a priori. Alla stregua del
principio d’identità il C. esamina e critica le idee madri (categorie) e
procede a rettificare e giustificare, contro i positivisti, le idee della
metafisica, da quella di atomo a quella di Dio, mostrando che esse hanno pure
fondamento positivo e valore obiettivo, perchè sono composte con elementi presi
dalla esperienza mediante l’astrazione e la sintesi degli astratti (« Fil.
univ. » 1860-3 «Il sistema della fil. univ. ovvero la fil. dell’identità»
1880). Guastella procede sulle orme del Mill, sforzandosi di ridurre il
pensiero di lui a maggior coerenza, e professa un assoluto nominalismo. Il suo
sistema nell’aspetto ontologico, è un fenomenismo radicale (esse est percipi)
e, nell’aspetto logico, psicologico e gnoseologico, un non meno radicale
empirismo. Fenomenismo, perchè questa dottrina non afferma niente, nè come
conosciuto nè come inconoscibile, ai di là del mondo empirico, intendendosi per
mondo empirico l’insieme dei fatti di cui si ha esperienza o che s’inferiscono
da questi in virtù della generalizzazione dei rapporti costanti osservati fra
di essi, ed essendo esso null’altro che la stessa esperienza. Empirismo, cioè
una dottrina sul criterio della verità, che tra i motivi delle nostre
affermazioni di quelle che non sono semplici atti di memoria o comparazione non
ammette come legittimo che la induzione, e respinge come illegittimi l’evidenza
intrinseca (non confermata dall’induzione) e l’influenza della passione e della
volontà. Il pensiero ha natura sensibile, e non è costituito se non da imagini
concrete e particolari: non esistono giudizi a priori : tutte le nostre
proposizioni sono affermazione o negazione della esistenza di certi fatti
particolari. Anche le nozioni di causa (notevole la critica dissolvente del
concetto di causa efficiente) e di sostanza derivano daglielementi del senso.
Non si può affermare altra esistenza che quella dei fenomeni: fenomeni interni
o subbiettivi nei quali si risolve il Me, fenomeni della natura esteriore, che
si risolvono in sensazioni reali o possibili: non vi è altra scienza possibile
che quella delle uniformità di successione, coesistenza, somiglianza tra i
fenomeni. E il fenomeno è il fatto dell’esperienza, e non esiste se non in
quanto se ne ha esperienza: ma questa conoscenza fenomenica è completa e
assoluta. Anche la credenza nella esistenza degli altri soggetti ha fondamento
nella esperienza, che dà cosi la via di sfuggire al solipsismo. Il postulato
della corrispondenza tra spirito e realtà deve essere ammesso come
obbiettivamente valido, senza uopo di prova, perchè esso è anzi implicito in ogni
prova, e non si potrebbe contestarlo senza rinunziare all’uso del pensiero:
rientra, in sostanza, nel postulato universale, che noi dobbiamo aver fiducia
nelle nostre facoltà. La parte più originale della dottrina dei G. è la
Filosofia della Metafisica, cioè la ricerca del fondamento psicologico delle
costruzioni metafisiche e la dimostrazione del loro carattere illusorio. Quel fatto
che è la metafisica, richiede di essere spiegato: come nasce la tendenza
irresistibile a trascendere la esperienza, e come si determinano le varie forme
sotto cui ci apparisce questo preteso al di là dei fenomeni? Tale tendenza è
tutt’uno con quella che porta ad assimilare tutti i fenomeni e tutte le idee
che ci formiamo su di essi ai fenomeni, e alle idee sui fenomeni, che ci sono
più familiari: particolarmente ai fenomeni dell’azione della volontà sul nostro
corpo donde la filosofia volizionale e del movimento per urto donde la
filosofia meccanica o impulsionistica («Saggi sulla teoria della con. I. Sui
limiti e l’ogg. della con. a priori 1897. II. Fil. della Metafisica 1905» «Le
ragioni del fenomenismo» 1921-3). Non era mio compito considerare le relazioni
del positivismo italiano con le filosofie ch’esso trovò già vigoreggianti al
suo primo manifestarsi, e con le altre correnti che successivamente, in
antitesi o in continuità con esso, hanno avuto o'ritrovato fortuna tra noi. La
precedente rassegna analitica basta a dimostrare la profondità, l’ampiezza, la
fecondità di un movimento che scaturisce da una necessità, immanente allo
spirito umano. Fin dal suo apparire il positivismo fu accompagnato in Malia con
i segni aperti di una ostilità che non ha disarmato mai : è leggenda tanto più
insistentemente ripetuta quanto più esaurientemente sfatata ch’esso abbia mai
ottenuto il predominio nell’insegnamento superiore o aspirato a esercitarvi una
tirannica dittatura. Ha tenacemente resistito all’imperversare di polemiche, le
quali hanno sovente trasceso i limiti segnati alla critica onesta e serena,
mossa unicamente da zelo di verità. Seguendo la traccia di Roberto Ardigò, e
trovando in sè la virtù di reagire contro la tendenza al semplicismo e al rozzo
empirismo, è venuto progressivamente interiorizzandosi e affinando in sè il
senso della esigenza storica e critica: inflessi- bile nel rivendicare alla
filosofia la stffi autonomia e la sua distinta funzione, ha tenuto fede al
patto di alleanza con la scienza, stretto sul fondamento della unità di metodo
: e non è certamente questa la sua minore benemerenza verso la cultura nazionale.
Firenze, R. Università. Dice MASNOVO (si veda) in “IL NEOTOMISMO IN ITALIA” che
nel tracciare in poche pagine le vicende del TOMISMO (AQUINO (si veda))
italiano ferma l’attenzione piuttosto sulle situazioni che sugl’uomini: la
quale cosa, se torna utile sempre nella storia della filosofia, molto più torna
utile quando il periodo a cui si guarda è abbastanza recente. Le ragioni sono
di prima evidenza. Entriamo in argomento. Non ò possibile caratterizzare
secondo verità l’AQUINO AQUINISMO senza prima formarsi un’idea esatta dell’AQUINO
AQUINISMO anteriore. Certo le scuole domenicane italiane mantenneno sempre in
qualche efficenza il loro AQUINO (si veda) AQUINISMO e prima e dopo.
Nonpertanto se l’AQUINISMO d’AQUINO italiano s’afferma vivamente e
risolutamente e via via negli anni successivi, ciò è dovuto principalmente al
canonico piacentino BUZZETTI (si veda), le cui lezioni sono già diffuse in
manoscritti per l’Italia, e i cui scolari avevano già iniziato all’AQUINISMO
d’Aquino, più o meno fortunatamente, TAPARELLI (si veda), LIBERATORE (si veda) e
tant’altri dentro e fuori della compagnia di Gesù. PECCI (si veda) a Perugia è
certamente sotto, l’influsso di Sordi, piacentino e scolaro di Buzzetti: è
lecito pensare il medesimo del canonico napoletano Gaetano Sanseverino
(3). A. Masnovo, Il Neotomismo in
Italia, p. 129. (Società Editrice « Vita e Pensiero», Milano, 1924). Cfr. «L’amico d’Italia», anno IV, Torino,
1825, voi. Vii, p. 200. Quivi Don Carlo Gazola, tessendo l’elogio In morte
dello zio Vincenzo Buzzetti, ci fa sapere che lo zio « tracciò egli un corso
breve di filosofia, che tiensi nel seminario vescovile di Piacenza e nelle
pubbliche scuole di Reggio e in quelle di Napoli; filosofia in che null’altro
difetto ritrovasi fuor quello di sommamente piacere a tutti i giovani
d’ingegno». (3) A. Masnovo, Il Neotomismo in Italia. Buzzetti rimetteva a nuovo
il tomismo, consapevolmente o no, sotto la spinta del movimento romantico, e
l’inseriva, certo consapevolmente, nella reazione che, tra la fine del 1700 e l’inizio
del 1800, si scatenava anche in Italia, compreso il ducato di Parma, avverso
l’empirismo del Locke e il sensismo del Condillac. Anzi si può e si deve dire
che in Italia il Buzzetti è (cronologicamente almeno) il primo grande
rappresentante della reazione anti- sensistica. Certo non può venire in gara
col Buzzetti il Rosmini, la cui attività letteraria comincia quando il Buzzetti
è morto (1824). Quanto al Galluppi la sua reazione all’empirismo data dal 1819:
anno nel quale egli inizia la pubblicazione del «Saggio filosofico sulla
critica della conoscenza... ». Or noi sappiamo che prima del 1816 il Buzzetti
professava il suo battagliero tomismo in contrasto al sensismo. Infatti il P.
Serafino Sordi, entrato nella Compagnia di Gesù verso la fine del 1816 , aveva
già seguito il corso tomistico dettato nel Seminario di Piacenza sotto
l’ispirazione del Buzzetti. Questo tomismo, per cosi dire, buzzettiano, che
riprende non già come un effimero capriccio ma come sforzo e forza davvero
vitali, e che, col Sordi e col Taparelli col Liberatore e col Sanseverino, si
svolge perennemente a contatto del pensiero e delle preoccupazione ambienti, a
che punto trovasi del suo svolgimento nel decennio 1870-1880? A questa dimanda
risposi ampiamente in altra circostanza (3). Qui basti ricordare che il
Liberatore nel 1858 aveva già scritto i due volumi « Della conoscenza
intellettuale » destinati ad affermare la dottrina tomistica della conoscenza
frammezzo alle opposte correnti del tradizionalismo, dell’ontologismo e del rosmi-
nianesimo; che nel 1875 aveva terminato il trattato «Dell’uomo» risultante dei
due volumi «Del composto umano» già pubblicato nel 1862 e dell’« Anima »; che
fin dal 1860 aveva impresso alle sue « Institutiones » l’indirizzo decisamente
tomistico (4), svolgendovi la metafisica generale e la speciale. Quanto al
Sanseverino, egli 0) L’opuscolo galluppiano «Dell’analisi e della sintesi»,
scritto fino dal 1807, prescindeva dall’origine semplicemente sensistica o no
delle idee che entrano a formare le nostre conoscenze ossia i nostri giudizi
(Galluppi, Saggio filosofico. . ., Libro 1, c. Il, paragr. 37 e ss.). A. Masnovo, // Neotomismo in Italia. Masnovo,
Il Neotomismo in Italia, p. 115. (4) Cfr. «Institutiones Philophiae .. Romae,
Typis Civilitatis Catholicae, 1869. Quivi da pag. 3 a p. G è riportata la
prefazione dell’edizione del 1860; la quale prefazione appunto ci avverte del
deciso indirizzo tomistico che ormai assumono le «Institutiones» liberatoriane.
E l'avvertimento non è disdetto dall’opera. era sceso prematuramente sì nel
sepolcro il 1865 a soli 54 anni, ma ci aveva lasciato di suo « I principali
sistemi della filosofia sul criterio», e la monumentale « Pliilosophia
Christiana cum antiqua et nova comparata
». Non occorrono aggiunte per convincersi che, mentre il decennio
1870-1880 fila i suoi giorni, la restaurazione del tomismo quanto a metafisica,
cioè per la sua parte capitale, è già un fatto compiuto. Il dualismo di Dio
immobile e del mondo diveniente, nonché l’altro dualismo di potenza e di atto
in ogni cosa creata e più precisa- mente di materia e di forma nelle cose
corporee, il Neotomismo li ha già affermati risolutamente. Di più il Ncotomismo
ha già applicato l’ilemorfismo ai viventi in genere (dove la forma è l’anima) e
in particolare al composto umano che è una unità sostanziale vivificata da
un’anima sussistente, spirituale, immortale. A proposito della cognizione umana
il Ncotomismo ha già proclamato l’irriducibilità della medesima a semplice
risultato di senzazioni, e insieme riconosciuto per ciascun uomo la necessità
dell'intervento di un proprio e intimo principio spirituale (l’intelletto
agente) affine di universalizzare il dato del senso. I principii poi onde si
svolge la vita conoscitiva dominano soggetto ed oggetto. Passando dall’ordine
speculativo a quello pratico, Dio (ben inteso, personale e trascendente) è già
stato proclamato fonte del dovere nella vita morale e fonte dell’autorità nella
vita sociale. Ma il Neotomismo italiano del periodo 1870-1880 oltre a trovarsi
dinnanzi a la metafisica dell’Aquinate, già restaurata, ha piena consapevolezza
della cosa. Nel 1875 sulla Civiltà Cattolica
il Liberatore dichiara che « rimessa oggimai in onore la vera
metafisica, è mestieri porre in armonia con essa la scienza fisica»; parimenti
nel 1875 lo stesso Liberatore nell’ultima pagina del suo « Dell’anima umana »
ripete che « la vittoria per ciò che riguarda la parte metafisica sembra
assicurata massimamente dopo che il movimento ristoratore dall’Italia si
propagò nella Francia, nella Germania e nella Spagna. Ma il trionfo della sana
dottrina non è compiuto se non viene esteso anche alla fisica, compilandone una
che stia in perfetta armonia colla metafisica, e che, facendo tesoro Com’è detto nel Monitum Editorum apposto al
primo dei sette volumi della « Philosophia Christiana » (ed. 1878), il Can.
Nunzio Signoriello, dopo la morte del Sanseverino suo maestro —, « bisce
voluminibus manus admovit eaque in meliorern ordinem redegit, et quartum Logicai
voliimen condidit prae- cedentibus omnino aequale». Civiltà Cattolica. di tutti i progressi delle
scienze esperimentali, mostri come essi, lungi dal contrastare, confermano anzi
la parte razionale dell’antica filosofia. A questo convien che sieno volte
quinci innanzi le cure dei veri sapienti; e io non dubito che il provvido Iddio
susciterà tra breve tra i cultori delle scienze naturali chi sappia
trionfalmente applicarvi l’ingegno e la fatica». Al Liberatore fa eco il Card.
Giuseppe Pecci, il quale aH’inaugurazione dell’Accademia Romana di San Tommaso
d’Aquino il giorno 8 Maggio 1880 pronunciava queste parole all’indirizzo degli
accademici: «Dunque la vostra restaurazione (filosofica) si stende per
indiretto ma efficacemente alla restaurazione eziandio di tutte le scienze. E
quanto alle scienze razionali, richiamata una volta in luce la dottrina di San
Tommaso, la restaurazione può dirsi quasi fatta: non rimane che arricchirla e
ampliarla nelle applicazioni. Più lungo studio richiederanno dal vostro ingegno
le scienze naturali... ». Adunque secondo
il Pecci, come secondo il Liberatore, non vanno cercati nel decennio 1870-1880
gl’inizi del neotomismo: che anzi, secondo loro, il movimento neotomistico
propriamente filosofico si conclude in questo stesso decennio. Che se
particolari caratteri assume, comeassumeeffettivamente.il Neotomismo in questo
decennio, uno possiamo riporlo fin d’ora, come autorizzano e ce ne fanno dovere
il Liberatore e il Card. Giuseppe Pecci, nel tentativo di porre a contatto la
filosofia scolastica, ormai risorta, con il mondo delle scienze fisiche e
naturali. Col bisogno di penetrazione nel campo scientifico si fa sentire anche
il bisogno d’intensificare la volgarizzazione. Appunto sui mezzi di diffondere
la ristorata filosofia chiama l’attenzione una serie di articoli della Civiltà
Cattolica, comparsi nel 1870. Mentre caratterizziamo cosi il neotomismo dopo il
1870 non vogliamo escludere da questo periodo ogni sviluppo di speculazione;
come non vogliamo escludere dal periodo precedente l’opera di volgarizzazione e
di penetrazione scientifica. Caratterizzando, ci basta guardare agli elementi
che, pur non essendo esclusivi, hanno una prevalenza indiscussa. Vediamo dunque
quali forme concrete vanno assumendo dal 1870 in poi i propositi di
penetrazione scientifica e di volgarizzazione. * * * Guardiamo anzitutto
all’opera di volgarizzazione. Se la restaurazione del tomismo nel secolo XIX è
dovuta all’iniziativa privata
L’accademia Romana di S. Tommaso d’Aquino (pubblicazione periodica). che
deve superare autorevoli contrasti (I), la divulgazione si compie in gran parte
per l’intervento dell’autorità ecclesiastica e più precisamente dal Pontificato
Romano. Ed è naturale. Filosofia e Chiesa, in fondo in fondo, risolvono il
problema della vita. Quando le due soluzioni armonizzano, benché ottenute dalla
Filosofia e dalla Chiesa con mezzi propri anzi finché cosi ottenute , il mutuo
appoggio torna onorevole e vantaggioso per entrambe, e risponde certo a un
diritto, ma più ancora a un preciso dovere. Nell’opera di volgarizzamento dopo il
1870 possiamo distinguere due aspetti: uno positivo consistente nell’emissione
di documenti ecclesiastici a favore del Neotomismo, nell’istituzione di
accademie, nella pubblicazione di riviste e simili; uno, per cosi dire,
negativo consistente nell’eliminare dalla circolazione dottrine che si fanno
passare come di ispirazione tomistica, ed effettivamente tali non sono. I due
aspetti, idealmente distinti, praticamente si confondono. L’aspetto positivo
richiama subito alla mente l’enciclica « Aeterni Patris» ossia «De Philosophia
Christiana ad mentem S. Thomae Aquinatis doctoris Angelici in scholis
catholicis instauranda », prò mulgata nel 1879 addi 4 agosto festa di San
Domenico dal pontefice Leone XIII, fratello dell’ex gesuita e fervido tomista
Card. Giuseppe Pecci. Da questa enciclica i cattolici sono invitati a dare il
loro nome alla filosofia che si ispira a San Tommaso d’Aquino. Nello stesso
anno 1879 si imprende, per ordine e per munificenza del Pontefice, una grande
edizione delle opere dell’Aquinate, non ancora terminata oggidì. Un anno dopo,
cioè nel 1880, e ancora il 4 agosto, San Tommaso è proclamato da Leone XIII
patrono delle scuole cattoliche. È facile comprendere l’influsso capitale di
questi documenti, che non creano certo il neotomismo; cooperano però
validissimamente alla sua diffusione. Le accademie tomistiche pullulano per
ogni diocesi accanto ai vescovadi e ai seminari. Si può convenire che il
movimento guadagnando in estensione perde in proti) Basti pensare
all’iiitervento dello stesso Superiore Generale contro quei gesuiti che a
Napoli circa il 1833 tentarono la restaurazione del tomismo. (Cfr. A. Masnovo.
Il Ncotomismo in Italia, p. 61). Se il
Gentile, dedicando sulla «Critica» del 20 novembre 1911 un capitolo della sua
Filosofia in Italia dopo il 1850 ai Neotomisti, e parimenti il Saitta nel suo
volume Le origini del Neotomismo nel secolo XIX avessero ben notato il momento
esatto e il significato preciso dell’intervento ecclesiastico a prò’ del Neotomismo,
già spontaneamente affermatosi prima del 1870, non avrebbero tratto motivo da
questo stesso intervento per svalutare il Neotomismo. Fatto questo rilievo, è
giusto tributare omaggio tanto al Gentlte quanto al Saitta per l’interesse
addimostrato verso il neotomismo. fondita. Ma è questa la naturale vicenda
delle cose umane, e meravigliarsene sarebbe da ingenui. Tra le accademie del
periodo che c’interessà merita particolare men 2 ione l’« Accademia Romana di
S. Tommaso d’Aquino» , inaugurata, come sopra fu detto, l’otto maggio 1880. Suo
organo è il periodico omonimo « L’accademia romana di San Tommaso d’Aquino »,
che inizia le pubblicazioni subito nel 1881 ed esce annualmente in due
fascicoli. 1 collaboratori principali sono, oltre il Card. Giuseppe Pecci, i
professori Francesco Satolli, Benedetto Lorenzelli, Giuseppe Prisco e i P.P.
Tommaso Zigliara O. P. e Camillo Mazzella S. I. , che, tutti, finiranno
cardinali della Chiesa Romana. Si aggiungano i padri gesuiti Liberatore e
Cornoldi, il can. Nunzio Signoriello, mons. Salvatore Talamo, l’avv. Giovanni
Fabri, il prof. Giannantonio Zanon ed altri ancora. Abbondano naturalmente i
commenti a San 1 ommaso. Il Card. Pecci pubblica nel volume secondo la sua «
Parafrasi e dichiarazione dell’opuscolo di San Tommaso «De ente et essentia » ;
altri si fermano di preferenza intorno agli articoli che S. Tommaso dedica alla
cognizione umana nella Somma Teologica dalla questione LXXXIV alla LXXXVIII.
Questi commenti anche oggi si possono leggere con profitto. Oltre i commenti a
San Tommaso, trovano largo posto gli attacchi al rosminianesimo, come portava
la necessità del momento. Non era infatti possibile diffondere la genuina
filosofia dell’Aquinate senza incrociare le armi con i fautori del
rosminianesimo, i quali tenevano a far apparire coincidenti rosminianesimo e
tomismo: coincidenza perfettamente illusoria, sopratutto dopo che, morto il Ro-
mini, era venuta alla luce la sua «Teosofia», sdrucciolante ornai, sulla buccia
dell’ente ideale, troppo apertamente ancorché preterin- tenzionalmeute, verso
l’ontologismo o intuizionismo divino che dir si voglia, e verso il panteismo. A
mente calma e fredda, con animo scevro da ogni passione di parte, oggi si può
convenire che il sistema ideologico del « Nuovo Saggio sull origine delle idee
» prc disponeva ai mali passi. Ebbi altra volta occasione di scrivere che Già a
Napoli nel 1874, ricorrendo il sesto centenario della morie di San Tommaso
d’Aquino, era stata istituita un’« Accademia di S. Tommaso d’Aquino» ; e pure
in Roma nello stesso anno 1874 aveva incominciato a vivere !’« Accademia
filosofico medica di San Tommaso d Aquino. Nel 1892 dalla tipografia vaticana
usciva, sotto il velo dell’anonimo, la celebre « Rosminianarum propositionum
quas S. R. U Inquisitio, approbante S. P. Leone XIII, reprobavit, proscripsit,
damnavit Trutina theologica ». Si seppe di poi esserne autore il Card.
Mazzella. Rosmini disimpegnò nella prima metà del secolo XIX una funzione
veramente utile in prò’ del Neotomismo, sospingendone i cultori a prendere
contatto con la filosofia ambiente estranea od avversa. Aggiungo ora che gli si
può e gli si deve riconoscere il merito di aver insistito, sia pure deviando,
sull’elemento divino nella cognizione umana. Il domani filosofico ritornerà
sicuramente su questo elemento. Ma fu, almeno almeno, un gran perditempo quel
volersi da troppi e sistematicamente nella seconda metà del secolo XIX
indurare, o per illusione o per arte polemica, nel difendere una coincidenza
assolutamente irreale. Questo nocque oltremodo al rosminianesimo nel giudizio
degli uomini imparziali ed equilibrati, che dovettero scorgervi o troppa
ingenuità o troppa (come dire?) virtuosità. Certo San Tommaso non ha nulla di
comune con le debolezze intuizionistiche e panteistiche del Rosmini: senza dire
che San Tommaso attribuisce proprio all’astrazione la formazione degli
universali, mentre il misconoscimento di questo potere dell’astrazione è la
base stessa della speculazione rosminiana nel « Nuovo saggio sull’origine delle
idee ». Fra coloro che sulle pagine dell’* Accademia Romana di San Tommaso
d’Aquino » polemizzarono più diffusamente e più autorevolmente contro il
rosminianesimo va ricordato Liberatore. Il neotomismo aveva chiarita e
giustificata le sua posizione speculativa di fronte al rosminianesimo ed alla
sua ideologia pericolosa fino dall’opuscolo di Sordi. Dice VOLPE nel
“HEGELIANISMO ITALIANO”, 6,P Svill, PP° dell ° he g elis "'° SUl !° He
sei, dopo aver affermato che il gran mento dello H. sta nella scoperta della
dialettica come relazione sintesi di opposti e aver soggiunto che oltre la
sintesi degli opposti c è la sintesi dei distinti, conclude che il torto dello
H è di aver confuso quella dialettica con questa. Oltre gli opposti, essere e
nulla, spiiito e natura, vero e falso, ecc., i quali non sono reali che nella
sintesi di cui costituiscono i momenti astratti ; ci sono, dunque, pel Croce, i
distinti: bello, vero, utile, buono, i quali non si trovano fra loro nella
stessa relazione degli opposti, reali solo nella sintesi- ma sono, invece,
egualmente, tutti reali e concreti, così da poter sussistere I nno accanto
all’altro. Posto ciò, il rapporto fra i gradi orme dello spinto è, pel C.,
questo: esso procede per diadi (invece che per triadi), nelle quali il primo
termine sussiste da sè cornar 0 ’ PU k aV, end ° anch ’ esso una sua
sussistenza concreta come tale, assorbe .1 primo: così, l’arte, si è visto, è
alogica, ma filosofia, sintesi di intuizione e concetto, è anche arte, cioè ha
etica^ ° rC espress . lv ° : la volizione economica è amorale, ma quella senni
n* V, ’T economica > la volizione morale essendo anche sempre utile Lo
spinto, poi, è di natura circolare, e però passa da un grado all altro: passa
dal grado intuitivo al logico, all’economico, all etico, e dall’ultimo trapassa
ancora al primo, all’intuitivo ornendo .1 contenuto pratico alla nuova
intuizione, e così in eterno’ nfa°tfi ni a gra t ÌmP ' ÌCÌta resistenza di tu,
“ i quattro gradii nfatti, appunto perchè nel grado intuitivo, ad es., è già
implicito 11 ’° glC0 Sl P uò P assa re dall’uno all’altro. E il passaggio
consisterebbe, infine, nel divenire esplicito ciò che era Lplidtò Ili Ora è
necessario osservare subito, che in questa teoria del Croce vengono così in
contatto due dialettiche contrarie: quella degli opposti e quella dei distinti.
Sono, dunque, due differenti specie di rapporti che concorrono al ritmo
dialettico, crociano, dei gradi: il mutuo rapporto dei gradi in quanto tali,
cioè distinti, concreti, e quello degli stessi in quanto astratti momenti di
ognuno dei gradi concreti. Il grado intuitivo, ad es., ha due significati ben
diversi, quello di momento della sintesi a priori logica (sintesi, si è visto,
d’intuizione e concetto), e quello di sintesi a priori estetica, grado concreto
e indipendente, come tale, dal grado logico, che, a sua volta, come tale, è in
egual relazione verso di quello. Ove è palese, che, nel primo caso su
accennato, si ha una relazione di opposti, e nel secondo una relazione di
distinti. È in questo punto dell’incontro delle due dialettiche, che si sono
soffermati più a lungo i critici del Croce. È stato osservato, ad esempio, che
le due dialettiche si annullano l’un l’altra ; che il concetto
dell’implicito-esplicito, che deve spiegare il passaggio da un distinto
all’altro, è un semplice mito, non differente, essenzialmente, da quello del
passaggio dall’inconscio al conscio ; che il concetto stesso di circolo è
mitologico, e così via. Il carattere espositivo di questo scritto c’impedisce
di entrare nella questione: si è ricordato ciò per informazione del lettore.
Fin’ora si è discorso dell’estetica, della logica, della filosofia della
pratica: veniamo ora alla Teoria della storiografìa (1917) che conclude il
sistema della filosofia dello spirito quasi con una brusca correzione. In
quest’ultima opera il C. vuole integrare la sua unificazione precedente della
filosofia e della storia nel giudizio percettivo, col concetto della
contemporaneità della storia. La storia, antichissima o recente che sia, è
storia contemporanea, cioè sempre relativa al soggetto presente, che col
pensarla la suscita, la fa; badando però a intendere questa presenza come
assoluta e ideale, tale, cioè, che condizioni essa e superi l’empirico presente
e passato del tempo. Ma intesa così la storia, come procedente
dall’universalità del soggetto, come attualità piena dello spirito, essa appaga
allora l’esigenza filosofica di possedere la realtà nella sua pienezza e
totalità, e la filosofia come Logica, come un distinto momento dello spirito,
viene sminuita di valore. In relazione, infatti, al nuovo concetto di storia,
la filosofia, nel senso più adeguato e profondo, viene ad G. De Ruggiero, La Filosofia Contemporanea,
voi. Il, p. 164. N. Spirito, Il nuovo
idealismo italiano. essere il momento trascendentale della conoscenza storica,
alla quale appresta le categorie necessarie a pensare la totalità del reale. «
La filosofia non può essere altro che il momento metodologico della
storiografia, dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi
storici...». Dilucidazione che «si muove nelle distinzioni dell’Estetica e
della Logica, dell’Economica e dell’Etica; e tutte le congiunge nella filosofia
dello spirito ». Il pensiero del C. conclude, dunque, ad una sopravvalutazione
della storia, o filosofia in largo senso, di fronte alla logica, o filosofia
stricto sensu: conclude, infine, parrebbe a due concetti di filosofia: la
logica, o filosofia stretta, che come tale resta al di qua dell 'atto
storiografico, o filosofico in senso profondo. Ecco quel ch’è sfato chiamato,
anche recentemente, l’umanismo del Croce. Umanismo, si è detto, perchè tutta la
storia della storiografia assume il valore di una storia della filosofia
incentrata nel concetto dell’uomo, del mondo ch’è il suo mondo (Vico), e dei
suoi bisogni spirituali . È stato ancora osservato, che quel ch’è la funzione
della filosofia rispetto al problema della scienza nei filosofi del
neo-criticismo positivista, si ritrova nel Croce, come coscienza critica
immanente all’atto storiografico, di cui essa è il momento puramente
trascendentale . IL La formazione mentale di G. Gentile ha origini diverse da
quella crociana. A Bertrando Spaventa, e, attraverso questi, a Hegel, Fichte,
Kant, Cartesio, e ai nostri Gioberti, Vico e Bruno, si riallaccia, fin dagli
inizi, la meditazione del fondatore dell’idealismo dell’atto. È, poi, partendo
in particolare dallo Hegel, con la riforma ch’ei propone, indipendentemente dal
Croce, e sulle orme dello Spaventa, della dialettica hegeliana, che il pensiero
del G. dà i primi frutti originali. Lo Spaventa, studiando le tre prime
categorie della Logica hegeliana, essere, non-essere, divenire, aveva
osservato, sorpassando i precedenti interpreti (Trendelenburg, Vera etc.), che
« questa posizione imbrogliata dell’essere e del non-essere (lo stesso e non-lo
stesso) è la viva espressione della natura del pensare. Se si toglie di mezzo
il pensare non se ne capisce niente». E il Gentile, negli studi intitolati,
appunto, La Riforma della dialettica hegeliana (1913), affermò, che « Se
l’essere non è più un’idea in sè, ma una cate (Carlini) goria, e categoria è
atto mentale, come può realizzarsi l’atto della mente altrimenti che come unità
di essere e non-essere, cioè divenire? L’atto si fa, fit, diviene. È in quanto
diviene... Quando è semplicemente, non è». E potè concludere, altrove: «
L’essere che Hegel dovrebbe mostrare identico al non-essere nel divenire che
solo è reale, non è l’essere che egli definisce come l’assoluto indeterminato
(l’assoluto indeterminato non può essere che l’assoluto indeterminato I); ma
l’essere del pensiero che definisce, e, in generale, pensa: ed è, come vide
Cartesio, in quanto pensa, ossia non essendo (perchè, se fosse, il pensiero non
sarebbe quello che è, ossia un atto), e perciò ponendosi, divenendo». In
conclusione, l’essere, il non-essere, il divenire, non sono più, pel G.,
posizioni logiche, obbiettive del reale, com’erano per ('Hegel, ma momenti
della coscienza in atto, del pensiero pensante, in cui il divenire, come
sintesi degli altri due termini, esprime nient’altro che il processo del
sapere, che vince nella sua concretezza i momenti astratti, rigidi, in cui
l’analisi lo rompe : e cosi, com’è stato già osservato, tutta la sovrastruttura
della logica hegeliana crolla. Crolla, perchè vien mostrato che la deduzione
hegeliana delle categorie, che voleva essere sistematica, contro quella
empirica di Kant, e conciliare la molteplicità con l’assoluta unità, non riesce
a questa conciliazione, perchè anche in essa vi si analizzano concetti invece
di realizzarli nella loro unità vivente: è dialettica di pensieri pensati usando
la terminologia gentiliana; e cioè non-dialettica, perchè il pensato, come
tale, non si svolge, non si dialettizza. Manca, insomma, l’unità, la vita:
anche Hegel si smarrisce, a un tratto, dietro ipostasi, immobili e ferme:
platonismo, in fondo. L’unità, dice il G., non può esser data che dal pensiero
in atto, dall’atto in atto. La vera Idea è atto, l’unica categoria è Yatto
spirituale ; onde «tutti gli atti del pensiero, quando non si considerino come
meri fatti, quando non si guardino dall’esterno, sono un atto solo. E però per
il nuovo idealismo le categorie sono infinite di numero, in quanto categorie
del pensare che si guarda come pensato (la storia); e sono una sola infinita
categoria, in quanto categoria del pensare nella sua attualità». Ma allora la
deduzione hegeliana si risolve proprio, anch’essa, in fondo, in una deduzione
empirica (anche Hegel ha, come Kant, numerato le categorie!); e la sua non può
essere la deduzione delle categorie, ma « un caso fra infiniti casi possibili
di deduzione, o meglio... un frammento o un moti ) Cfr. De Ruoqiero. mento
della eterna deduzione, in cui consiste la storia non pure del pensiero, come
s’intende comunemente, ma del mondo ». Non pure del pensiero, ma del mondo,
perchè l’atto, a cui si riduce l’Idea pel ò., è occorre dirlo? actus purus, nel
senso più moderno e integrale, come atto che è tutta forma perchè è tutta
materia, generata dalla forma: forma formante, davvero: è quel processo
autocreatore del puro pensiero ch’è l’Autocoscienza nella sua concreta individualità:
onde l 'io empirico e particolare non è che l’attuarsi dell’Io puro,
trascendentale. La stessa istanza critica che la Riforma compie in rapporto
alla Logica hegeliana, l’Introduzione del Sommario di Pedagogia (1913-14) la
compie come è stato acutamente osservato in rapporto alla Fenomenologia. Come
il pensiero puro non ha bisogno di percorrere i gradi categorici dell’essere,
del conosciuto, secondo gli schemi della logica formale, per giungere alla
piena coscienza di sè, perchè si pone a priori come pensiero consapevole e
attuale; cosi non ha nemmeno bisogno di passare per i gradi psicologici della
conoscenza, la sensazione, la percezione, la rappresentazione, etc., perchè non
può mutuare da altri che da sè, non soltanto la sua forma, ma anche il suo
contenuto . La dottrina psicologica tradizionale che concepisce il processo
psichico effettuantesi per gradi monadisticamente distinti, è possibile
soltanto per una concezione analitica dello spirito; onde questo può essere di
volta in volta, sensazione, percezione, concetto etc., solo in quanto venga
considerato, naturalisticamente, come un aggregato di momenti giustapposti, gli
uni fuori degli altri. Ma se si concepisce io spirito come vivente unità
originaria, come pensiero pensante, pensare e non pensato, ogni molteplicità
scompare e tutti i gradi psichici si risolvono n eli’unico atto dello spirito.
Nella sensazione è già lo spirito nella sua intierezza, e la sensazione è
perciò necessariamente anche percezione, giudizio, concetto, conoscenza, volontà,
come tutti questi gradi non sono che sensazione: quel sensus sui ch’è, infatti,
lo spirito. Tuttavia non si creda che manchi nel O. il concetto di un processo
fenomenologico: c’è anzi, e originale: ed è una fenomenologia che,
identificatasi con la logica, non è altro che la stessa storia dello spirito.
Le distinzioni risorgono, dunque, nel processo spirituale, ma non più come
gradi tipici, giustapposti, ma come distinzioni concrete, storiche, vieppiù
ricche col progredire del processo. Cioè, ogni
De Ruooiero. atto dello spirito non è che la coscienza più profonda di
un atto anteriore, che è il contenuto del primo, il quale naturai mente è la
forma di quello. « La sensazione-contenuto è dentro la sensazione- forma,
risolta e assorbita nell’attualità di questa ». Ogni atto di coscienza può
dirsi percezione rispetto a una sensazione precedente, la quale, in quanto atto
spirituale, fu anch’essa percezione. Cosicché si passa da percezione a
percezione, o, è Io stesso, da sensazione a sensazione. E in sostanza la
sensazione è una sola: l’atto spirituale nel suo interno mediarsi, e che,
mediandosi m eterno, si svolge attraverso infiniti momenti, infinite
sensazioni. Venendo alla dottrina propriamente pedagogica del Sommano, ne
accenneremo il concetto fondamentale: che educatore e educando sono due momenti
di un’unica realtà, l’Universale, io Spirito, onde hanno in esso la loro
profonda unità: scompare così ogni hiatus fra l’uno e l’altro; e il processo
educativo non è che processo di reciproca autoeducazione: ognuno vede
nell’altro sè stesso, lo Spirito, e attraverso l’altro forma un migliore, un
più alto sè stesso. Processo di universalizzazione, dunque, processo
eminentemen e etico. 11 miracolo dell'educazione è spiegato; e la prassi
educativa ha nel concetto d e\\’autoeducazione il suo miglior lume, la guida
più certa. È stato riconosciuto che nella storia della pedagogia 1 Sommario
segna una tappa ideale confrontabile solo con YEmilio. Questo realismo
spiritualistico del Sommario venne assumendo - è stato osservato - negli scritti successivi, L'esperienza pura
e la realtà storica, e Teoria generale dello spinto come atto puro un carattere
più univeversale in quanto dal problema del a formazione dell’uomo si passò a
quello di dimostrare in esso la radice di tutti gli altri problemi concernenti
la realta e le sue categorie. Il principio dell’idea come atto acquistò sempre
piu carattere metafisico. . Già nel primo dei due scritti suaccennati 1 atto
viene concepito come pura esperienza che lo spirito fa di sè, eliminando in tal
modo qualunque presupposto dello spirito, sia oggettivo che soggettivo, e
generando da sè ogni realtà: tutta l’esperienza nelle sue infinite concrete
distinzioni è posta dall’atto e. nell’atto in un'esperienza storica, non nei
senso della storia presupposta all atto e quindi empiricamente concepita, ma
della storia che si attua quale vita eterna dello spirito. Nell’atto veniva
così risolta l’antitesi di a priori ( 1 ) Carlini, op. cit., p. 232. e di a
posteriori, e si concludeva a un formalismo assoluto, o, che è lo stesso, a un
empirismo assoluto . Ma questo esplicito significato metafisico appare in tutto
il suo sviluppo nella Teoria, uno dei capolavori del G. Qui, attraverso i
problemi della storia della filosofia, attraverso soprattutto il problema
kantiano e hegeliano, è dimostrato dal G. come lo spirito generi da sè stesso
la natura: il mondo del molteplice e crei nella sua dialettica unificatrice
moltiplicatrice spazio e tempo. Lo spirito viene concepito come conceptussui,
concetto che pone sè stesso, autoctisi. Ma questo porsi è, naturalmente, non
immediato, ma mediato. Lo spirito si pone attraverso la natura, l’oggetto; il
soggetto si pone mediandosi come oggetto. Quell’unità ch’è lo spirito si pone,
perciò, come molteplicità, attraverso la molteplicità, appunto perchè non è
unità immediata, statica, ma mediata in sè stessa, dialettica, unità, insomma,
dinamica e concreta, vivente. In altri termini, lo spirito si afferma negando,
non si svolge se non negando perennemente il suo opposto, la natura, che è per
ciò suo essenziale momento dialettico, e però spirito anch’essa, e non
un’entità a sè, concepibile come astratta dallo spirito. La natura, insomma,
come non-essere di quell’essere ch’è lo spirito: e cosi l’errore, il male, il
dolore sono egualmente il non-essere di quell’essere; eterno momento del
processo della verità, del bene, della vita. Certo, se la verità, il bene, si
concepiscono immutabili, ab aeterno, l’errore, il male sono inconcepibili. Ma
se la verità e il bene, come pensa il Gentile, sono divenire, atto, essi devono
perennemente superare sè stessi, ritrovando in sè l’errore, il male da
superare. E però, errore e verità, male e bene non sono realtà distinte,
indipendenti, ma i momenti di una sintesi, che è « errore nella verità, come
suo contenuto che si risolve nella forma», è «male onde il bene si nutre, nel
suo assoluto formalismo». Finiremo con un cenno, purtroppo frettoloso e assai
inadeguato, dell ultima grande opera del G., forse il suo maggior capolavoro,
certo, a tutt oggi, il suo testamento filosofico, per la compiutezza della
sistemazione: il Sistema di logica come teoria del conoscere. Uno dei concetti
fondamentali della speculazione gentiliana, naturalmente implicito nei
precedenti, è quello dell’identità della filosofia con la sua storia: infatti
se la filosofia è concepita come processo di autocoscienza, essa è storia,
storia eterna in tempo; e però Carlini. ogni
sistema coincide col corso storico del pensiero, in quanto esso riassume e
potenzia in sè, giustificandoli, i sistemi precedenti, che non sono che momenti
idealmente anteriori di que\Yunico processo di pensiero autocosciente, ch’è —
eminenter — la filosofia. Orbene, il sistema di logica attinge certo la sua
capitale impor¬ tanza, nell’assieme dell’opera del G., da questo: che esso vuol
es¬ sere ed è l’ultima riprova concreta, effettuale del suaccennato prin¬ cipio
dell’identità di filosofia e storia della filosofia. Esso ci mostra, di fatti,
come il sistema gentiliano, la nuova logica del pensiero pensante, si
costituisca a patto di ricapitolare in sè, di conservare e giustificare,
inverandola, l’antica logica ari¬ stotelica, la logica del pensiero pensato.
Infatti, la dialettica aristo- teiico-scolastica vien mostrata come grado
necessario alla dialettica del concreto, in quanto essa, dandoci la legge del
pensiero pensato (A — A) ci spiega il momento dell 'oggettività del pensiero a
sè stesso, oggettività necessaria, se —ricordiamolo — il puro pensiero
dev’essere concepito non come immediata soggettività, ma come
soggettività-oggettività, soggetto-oggetto, mediazione, dialetticità. Occorre
osservare, che qui il logo della logica del pensato, del¬ l’astratto, cioè A =
A, viene negato al tempo stesso che conser¬ vato, perchè non è più considerato
a sè, da un punto di vista astratto, ma è considerato dal punto di vista
concreto, cioè in fun¬ zione del logo della logica concreta, cioè del pensiero
pensante, A = non A? Conservare ch’è negare; inverare, come è, difatti, di quel
divenire ch’è lo spirito, la filosofia. E però è giusto -riconoscere, ancora,
che in tal modo « tutto il processo storico del concetto di logica si risolve,
identificandovisi, nel nuovo concetto dialettico » : quello del Gentile; e che,
ripetiamolo, la verità del principio del circolo di filosofia e storia della
filosofia, è dimostrata dal sistema stesso del G.; che, mentre convalida quel
principio, ne è, a sua volta, — si noti — convalidato, fondato po¬ sitivamente:
storicamente. Croce e Gentile hanno suscitato, da anni, un gran movi¬ mento di
idee, e di discepoli, attorno a sè: il primo soprattutto nell’ampio campo della
cultura letteraria e storica in genere: il se¬ condo nel campo della filosofia
teoretica e della storia della filosofia. Nominare discepoli del Croce non è
cosa facile, perchè, facen¬ ti) Spirito. dosi sentire il suo influsso nel largo
campo della cultura storico- letteraria, tutti, in quest’ultimo ventennio, sono
stati e sono ancora, in certo senso, crociani: in ispecie i critici di
letteratura e arte e gli storici sono permeati di pensiero crociano, anche se
lo negano- Soprattutto, il concetto crociano dell’arte è, si può dire, entrato
a far parte del patrimonio di idee necessario a chi voglia pensare e vivere in
armonia col progresso effettivo del pensiero della storia. Dei critici
letterari, che hanno subito, consapevolmente o no, l’influsso dell’estetica
crociana, ricordiamo qui G. A. Borgese, che, per quanto staccatosi in seguito
da Croce, serba traccie di pensiero crociano nelle pagine migliori; Emilio
Cecchi; Alfredo Gargiulo, autore d’un d’Annunzio; Luigi Russo, autore d’on Di
Giacomo e di un Verga; e infine Attilio Momigliano ( Studi Manzoniani, Goldoni,
Verga). Nella critica delle arti figurative ci piace notare Lionello Venturi;
nella critica musicale F. Torrefranca e G. Bastianeili. Piò facile è far
qualche nome di discepoli del Gentile, essendo più tecnico, e quindi più
ristretto, il campo su cui si è irradiato il pensiero gentiliano: filosofia
teoretica e storia del pensiero speculativo, come si è detto. Ricorderemo, anzitutto,
due pensatori, Armando Carlini e Giuseppe Saitta, che si posson dire i
rappresentanti di due interpretazioni e svolgimenti opposti del pensiero del
Maestro: la dottrina di destra come è stato detto (I) - del Carlini, in cui si
tenta di svolgere entro l’ambito de\V attualismo alcune esigenze empiristiche
come quella della pluralità dei soggetti e quella di un mondo soggettivo,
morale, distinto dal mondo oggettivo, della percezione, della conoscenza: si
veda La vita dello Spirito (1921); e la dottrina di sinistra del Saitta, che
tende a un’ulteriore, più profonda identificazione di io empirico e Io
trascendentale: si legga Lo spirito come eticità (1920). « Armando Carlini,
professore nella R. Univ. di Pisa, proviene dalla filosofia crociana. Egli tende
a elaborare il lato spiritualistico piuttosto che quello logico-dialettico
della filosofia gentiliana. L’attualismo del maestro ubbidisce, a suo avviso, a
due motivi diversi: l’uno costituisce l'originalità propria della filosofia
gentiliana, ed è il motivo psicologico e lo sforzo di risolvere la dialettica
nel ritmo stesso della vita interiore, onde l’autocoscienza e la personalità
coincidono nel processo autocreatore dello spirito; l’altro è un ritorno al
problema hegeliano-spaventiano della dialettica come logica melati) Cfr.
Spirito. fisica, onde l’atto, più che spiegare se stesso si assume il compito
di spiegare il mondo della natura e dello spirito. L’attualismo diventa cosi,
dice il C., un puntualismo, in cui tutte le distinzioni di problemi spirituali
si neutralizzano in un concetto generico dell’attività del pensare. Egli tenta,
perciò, di ripigliare la prima posizione e di svolgere il concetto del ritmo
interno all’atto come il problema fondamentale dell’attualismo. L’atto realizza
se stesso come quello. « Io penso» ch’è unità in una dualità di vita e di
pensiero, di personalità morale e di riflessione filosofica su essa. La
distinzione posta in seno all’atto gli permette di riguardare questo come
condizione trascendentale di una dualità tra il mondo dell’esperienza sensibile
o mondo del conoscere, e quello dell’azione ch’è propriamente il mondo
storico-morale. Nello stesso tempo, l’atto, non coincidendo più dentro sè con
se stesso, fa appello a un punto di vista trascendente, in cui quel dissidio
venga pacificato, e pone così il problema fondamentale della vita religiosa. Il
Carlini e il Saitta sono anche storici, in ispecie il secondo: al Carlini si
deve un’ampia monografia sul Locke, al Saitta monografie sul Gioberti, sul
Ficino e vari saggi. Alla destra appartengono ancora il Ferretti e il
Codignola, pedagogisti; alla sinistra Guido De Ruggiero, autore di un saggio
sulla Filosofia contemporanea e di una Storia della Filosofia, opere di
carattere critico, prevalentemente. La posizione mentale del de Ruggiero, di
fronte aH’idealismo del Croce e del Gentile, può essere caratterizzata da una
più viva preoccupazione dell’importanza speculativa dei problemi sulla scienza
della natura. Il D. R. fin dal 1913 in una monografia dal titolo : La scienza
come esperienza assoluta ripudiava nettamente le dottrine prammatistiche della
scienza accolta nel sistema crociano e poneva il problema dell’unità della
scienza della natura e della filosofia, abbozzando una teoria del positivismo
assoluto, in cui le scienze, guardate nella loro intima genesi spirituale,
piuttosto che nell’astratta oggettivazione naturalistica, erano reintegrate
nella vita speculativa dello spirito. E più recentemente in un saggio sui
Problemi della scienza e della umanità ha ulteriormente sviluppato questo punto
di vista, mostrando la necessità che le due correnti dell’idealismo moderno,
quello storicista che fa capo al Vico e allo Hegel e quella scientifica, che fa
capo alla Critica della ragion pura di Kant, a torto dissociate dall’idealismo
contemporaneo, vengano ricomposte in una unità articolata e sintetica, per cui,
pur riconoscendo il carattere storico della vita spirituale, questa storia non
s’isterilisca in un mero umanesimo, ma includa in sè l’opera delle scienze
naturali, e attraverso di esso, il mondo stesso della natura nella sua
pienezza. Ampia attività storica hanno esercitato altri due pensatori più ligi
alle dottrine del Maestro: Vito Fazio-Allmayer, con saggi.su Galileo e sulla
Teoria della libertà in Hegel-, e Adolfo Omodeo autore di una Storia delle
origini cristiane in più volumi. È da ricordarsi ancora Antonio Anzilotti,
autore di un Gioberti, studiato nella sua filosofia e prassi politica e Cecilia
Dentice D’Accadia, che ha dedicato specialmente la sua attività allo studio del
problema religioso in Schleiermacher e Kant. In pedagogia, Giuseppe Lombardo-
Radice, autore di una Teoria e storia dell'educazione e di molti saggi
pedagogici, è il maggiore interprete e prosecutore della pedagogia idealistica
del Maestro, nella teoria e nella pratica. POSTILLA BIBLIOGRAFICA SU CROCE E
GENTILE. Delle seguenti opere si cita solo l’ultima ediz. Croce (Pescasseroli,
prov. di Aquila): Estetica come, scienza dell’espressione e linguistica
generale. Teoria e Storia 5» ediz. Bari, Laterza; Logica come scienza del
concetto puro. 4‘ ediz. Bari, Laterza, 1920; Filosofia della pratica. Economica
ed etica. 9* ediz. Bari, Laterza, 1923; Teoria e storia della storiografia. 2*
ediz. Bari, Laterza, 1920; Problemi di Estetica e contributi alla storia dell’Estetica
italiana. Bari, id. 1910; La Filosofia di G. B. Vico. 2 1 ed. Bari, id. 1922;
Saggio sullo Hegel. 2” ed. Bari, id. 1913; Nuovi Saggi di estetica. Bari, id.
1921. Giovanni Gentile (n. a Castelvetrano, prov. di Trapani): La riforma della
dialettica hegeliana. 2* ed. Messina, Principato; 1 problemi della scolastica e
il pensiero italiano. 2» ed. Bari, Laterza, 1923; Sommario di Pedagogia come
scienza filosofica. 2* ed. Bari, id. 1920-22; Teoria generale dello Spirito
come atto puro. 3* ed. Bari, id. 1920; Sistema di logica come teoria del
conoscere. 2» ed. Bari, id. 1921-23; Discorsi di religione. Firenze, Vallecchi,
1920; Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento. Firenze, id. 1920; La
Riforma dell’educazione. Bari, Laterza, 1920; Frammenti di estetica e
letteratura. Lanciano, Carabba. Dice Lamanna in “IL REALISMO PSICOLOGISTICO
NELLA NUOVA FILOSOFIA ITALIANA” che Sarlo, nato nel 1864 in un paesello della
Basilicata (San Chirico Raparo), venne alla filosofia dalla medicina. E ve Io condusse
intima vocazione, oltre, e più, che esterna vicenda di casi. Già durante gli
studi universitari, a Napoli, si compiaceva di frequentare, con le lezioni
della Facoltà cui era iscritto, quelle di lettere e filosofia: e fu, tra
l’altro, uditore dello Spaventa negli ultimi anni del suo insegnamento. La
stessa sua prima pubblicazione un volumetto di Studi sul Darwinismo, ch’egli
scrisse ancor giovanetto nel 1887 attesta la tendenza di lui a studiare, anche
nel campo delle scienze biologiche, le questioni più generali, quelle che sono
poi stimolo e offrono motivi alla speculazione filosofica. Questa tendenza
divenne in lui sempre più consapevole durante gli anni che passò, come medico,
nel Manicomio di Reggio Emilia, dove compì ricerche psichiatriche che,
mettendolo a contatto più diretto con i problemi dell’anima, determinarono il
suo passaggio alla psicologia e alla filosofia. In questo campo non ebbe
maestri: fu un autodidatta: dovette cercar da sè, come a tentoni, la sua
strada, ed era naturale che la trovasse solo attraverso deviazioni, incertezze,
ritorni. La sua educazione naturalistica e l’influenza dell’ambiente culturale
del tempo, impregnato di positivismo, lo portarono dapprima a seguire questo
indirizzo di pensiero: e in uno degii organi della filosofia positivistica, la
Rivista dell’Angiulli, egli fece le sue prime armi. Ma non tardò ad
allontanarsi dal positivismo, a mano a mano che venne ac - quistando coscienza
delle deficienze di quella dottrina cosi in ordine all’interpretazione del fatto
conoscitivo come in ordine alla fondazione della moralità e religiosità umana:
deficienze, che illustrò poi in quelle Note sul positivismo contemporaneo in
Italia, pubblicate in appendice agli « Studi sulla Filosofia contemporanea »
nel 1901, una delle critiche più penetranti e conclusive che della gnoseologia
positivistica siano state fatte in Italia. La sua coscienza filosofica si venne
formando nel decennio 1890- 1900. Concorsero a questa formazione lo studio del
Rosmini, i rapporti personali o spirituali con alcuni dei più cospicui
rappresentanti italiani dello spiritualismo e del neo-criticismo, come Luigi
Ferri, Filippo Masci e, in particolare, Francesco Bonatelli, e, più
specialmente, lo studio diretto delle correnti più significative del pensiero filosofico
e psicologico contemporaneo, segnatamente inglese e tedesco, alcune delle quali
egli per primo, o tra i primi, fece conoscere in Italia. E di questa sua
attività furono frutto due saggi rosminiani: La logica di A. Rosmini e i
problemi della logica moderna e Le basi della psicologia e della biologia
secondo A. Rosmini considerate in rapporto ai risultati della scienza moderna
(Roma) poi rifusi in altri lavori ; due volumi di Saggi filosofici (Torino,
Clau- sen) posteriormente anch’essi rielaborati e rifusi —; studi su autori
stranieri sparsi in varie riviste, alcuni dei quali furono poi, con altri di
epoca posteriore, raccolti nel volume Filosofi del tempo nostro (Firenze, La «
Cultura Filosofica» editrice); saggi di psicologia; il volume Metafisica, Scienza
e Moralità (Roma, Balbi, 1898), e il volume già ricordato Studi sulla Filosofia
contemporanea : La Filosofia scientifica (Roma, Loescher, 1901). L’esigenza che
si rivela come fondamentale in questi studi del De Sarlo, è quella di mostrare
le vie per le quali le scienze positive, e più particolarmente quelle naturali,
sboccano, per una necessità imposta dalla logica a loro immanente, in una
concezione filosofica nella quale il naturalismo è superato, cosi per il
riconoscimento dei poteri originari e irriducibili dello spirito quale soggetto
conoscente e quale persona morale, come per il coronamento del sapere
filosofico in un’interpretazione teistica della realtà universale; mentre,
dall’altro lato, la filosofia stessa, come sistemazione e critica del sapere,
riceve dalle scienze particolari continuo alimento e stimolo. E la necessità di
questo connubio fecondo, nella loro reciproca azione, della scienza e della
filosofia, è rimasta come uno dei motivi principali del pensiero del De Sarlo,
anche quando, nel periodo di piena maturità della sua attività di studioso, ha
tratto i principii del suo filosofare non più dal neo-criticismo, di cui si
sente l’influsso neghi scritti sinora citati, ma dallo sperimentalismo inglese
da Locke a Mill —; dall’intuizionismo della scuola scozzese specie per il
rilievo costantemente dato agli assiomi così gnoseologici come etici,
costitutivi dello spirito umano, e apprensibili con evidenza immediata
nell’esperienza interna e infine dal realismo dell’Her- bart e del Lotze. Conseguita
nel 1894 la libera docenza in filosofia presso l'Università di Roma, insegnò
questa disciplina nei licei di Benevento, di Torino, di Roma, fino al 1900,
quando ottenne per concorso la cattedra di filosofia teoretica all’Istituto di
Studi Superiori di Firenze, cattedra ch’egli ha tenuto e tiene ancor oggi con
l’autorità e l’efficacia di un Maestro. Presso lo stesso Istituto Superiore
fondò nel 1903 un Gabinetto di Psicologia Sperimentale, il primo del genere in
Italia, e che è rimasto anche oggi il più ricco di apparecchi: molte e
importanti ricerche vi sono state compiute sotto la sua direzione, sebbene, in
questi ultimi anni, la potenzialità scientifica- mente produttiva del Gabinetto
sia stata assai ridotta per le condizioni materiali veramente miserevoli nelle
quali si è venuto a trovare. Dal 1907 al 1917 il De Sarlo ha diretto la Cultura
Filosofica, una Rivista che ebbe un programma ben definito e, specie nei primi
anni, fu vivacemente battagliera cosi contro il positivismo ormai declinante,
come, e più, contro il risorgente idealismo. La sua operosità di studioso ha
dispiegato con assiduità e intensità instancabile nel campo della psicologia,
dell’etica, della filosofia generale, pubblicando poderosi volumi, ai quali
specialmente noi ci riferiremo nella esposizione e caratterizzazione della sua
filosofia. Il valore della sua opera ha avuto riconoscimento ufficiale nel
premio Reale per la filosofia, conferitogli dall’Accademia dei Lincei, della
quale egli è, dal 1921, socio nazionale. Elenchiamo qui le opere principali del
De Sarlo, escluse le prime già citate che poi sono state rifuse nelle
successive: Metafisica Scienza e Moralità. Studi di Filosofia morale. Roma,
Balbi. Contiene: Il naturalismo Il telismo L’idealismo e la moralità Il
socialismo come concezione filosofica Vita morale e vita sociale]. Studi sulla
Filosofia contemporanea. Prolegomeni : La « Filosofia scientifica ». Roma,
Loescher. Sarlo d’ordinario è presentato come un teista e uno spiritualista.
Tale egli stesso ha sovente dichiarato esplicitamente [Contiene : Du
Boys-Reymond, Helmholtz, Darwin, Il positivismo contemporaneo in Italia ]. I
dati dell’esperienza psichica. Firenze, Pubblicazioni del R. Istituto di Studi
Superiori, 1903, 1. voi. di pagg. 430 in-8. L’attività pratica e la coscienza
morale. Firenze, Seeber. Principii di Scienza etica, con un’Appendice su La
patologia mentale in rap- perto all’etica e al diritto. Palermo, Sandron, in
collaborazione con Q. Calò). II Pensiero Moderno. Palermo, Sandron, 1 voi. di
pagg. 410 in-8. [Contiene: a) Tre studi che possiamo dire introduttivi : La
formazione della coscienza filosofica odierna Uno sguardo alla filosofia I
compiti della filosofia nel momento presente. b) Altri tre studi che
costituiscono come la parte centrale del volume, la più vasta per il contenuto
che abbraccia e per l’estensione che ha: ! problemi gnoseologici nella
filosofia contemporanea Lo psicologismo nelle sue principali forme; I diritti
della Metafisica, nel quale ultimo specialmente sono sottoposti a un rapido e vigoroso
esame critico i principali indirizzi della filosofia contemporanea. c) Altri
quattro studi su particolari problemi o correnti filosofiche : Il significato
filosofico dell'evoluzione [Filosofia e scienza dei valori Stillo spiritualismo
odierno]. Filosofi del tempo nostro. Firenze, La «Cultura Filosofica» editrice,
1916. [Contiene studi su Paulsen, Hodgson, Ward, Bradley, Reitike, Hartmann,
Zeller, Bonatelli]. Psicologia e Filosofìa. Studi e ricerche. Firenze, La «
Cultura Filosofica » [Contiene: Alcuni studi di filosofia generale,
importantissimi per la comprensione della posizione del De Sarlo nel campo
filosofico, e della concezione dei rapporti tra filosofia e psicologia: Vecchia
e nuova Psicologia La psicologia e le
scienze normative L’esperienza psichica L’individuo dal punto di vita
psicologico Il soggetto La causalità psichica Sensazione e coscienza. b ) Due
ampi studi di psicologia metafisica: Il concetto dell'anima nella psicologia
contemporanea Idee metafisiche intorno all’anima Saggi contenenti la materia
per un orgànico trattato sulle funzioni psichiche : La classificazione dei
fatti psichici L’attività conoscitiva
L’attività immaginativa Vita affettiva ed attività pratica, con i quali
saggi è strettamente connesso un amplissimq studio intorno a Le determinazioni
formali della vita psichica, e più particolarmente all'azione dell’esercizio e
dell'abitudine su tutte le funzioni fisiologiche e psichiche. (Appartengono a
questo gruppo altri saggi minori.- Sulla teoria somatica delle emozioni Sullo
studio dei sentimenti nella psicologia inglese contemporanea - Sulla percezione
delle forme). d) Studi di psicologia fisiologica e patologica: Cervello e
attività psichica L’attività psichica
incosciente Sulla psicologia della
suggestione Le alterazioni della vita psichica
La psicologia degli animali]. di essere. E tale, certo, egli si rivela
nei suoi scritti, dai più antichi ai più recenti. Ma, è da aggiungere subito,
non è data così la caratteristica più saliente della sua figura di pensatore:
sfugge a quella designazione gran parte, e forse la più significativa, della
sua opera filosofica; viene, comunque, lasciata cosi nell’ombra quella
concezione della filosofia e del metodo di filosofare che, meglio d’ogni altro
elemento, vale a individuare la sua posizione personale nel movimento
filosofico italiano contemporaneo. Uno dei suoi primi lavori, anzi il primo
veramente organico che l’ulteriore sviluppo del suo pensiero abbia lasciato
immune da quelle rielaborazioni più o meno sostanziali cui, come abbiamo già
detto, egli ha sottoposto altri suoi scritti di quel tempo, voglio dire il
volume Metafìsica, Scienza e Moralità, è tutto una riaffermazione dei princìpi
fondamentali della dottrina teistica cosi contro il naturalismo come contro
l’idealismo assoluto. La concezione di Dio quale Ragione che si esprime
continuamente ed eternamente nel mondo, e non come legge o ordinamento
astratto, bensì come soggetto concreto e vivente, è in quel libro svolta e
presentata come la sola concezione metafisico-religiosa, che, gravitando sulle
esigenze morali più profonde della coscienza umana, sulla considerazione del
valore assoluto della persona, contenga di queste esigenze il riconoscimento e
la giustificazione più piena, e fornisca per ciò stesso il principio di quella
sistematica unificazione di tutta la realtà, a cui la mente umana tende per sua
natura, e in cui possono essere inverate le particolari connessioni di
frammenti di realtà che le scienze della natura stabiliscono mediante le serie
causali dei fenomeni. E tra gli scritti meno antichi, due saggi, dei più
elaborati e ricchi d’idee, I diritti della Metafìsica (nel volume « Pensiero
Moderno ») e Idee metafìsiche intorno all’anima (nel II voi. di « Psicologia e
Filosofia »), giungono, attraverso l’analisi dei concetti di causa e di
sostanza, alle medesime conclusioni teistico-spiritualistiche intorno a Dio e
all’anima umana. Dio è la Causa prima, la causa che non è effetto, postulata
qual condizione essenziale della comprensibilità di qualsiasi fatto particolare
in quanto anello di una serie causale: causa la quale non può esser concepita,
se non come analoga alla sola causa vera a noi nota, che è la nostra stessa
volontà in quanto libera, in quanto costitutiva d’un cominciamento assoluto;
non può quindi esser concepita se non come volere essa stessa, e quindi come
causa finale. E Dio è la Sostanza Assoluta. l’Essere nel quale trova compiuto
soddisfacimento l’esigenza del pensiero a cui risponde il concetto di sostanza:
che è il concetto di essere che non è in altro nè per altro, ma è essere per
sè, condizione e presupposto di ogni altra determinazione, principio e unità
reale di ogni molteplicità. E anche per questo rispetto esso non può venir
concepito se non in analogia con quella che è per noi l’espressione più
immediata e genuina della sostanzialità, ossia la coscienza, che è appunto
esistenza per sè, l’io che è immediatamente percepito come principio unico di
una molteplicità di funzioni e di atti, in cui manifesta la sua realtà. E le
sostanze finite possono anche esser considerate come pensieri di Dio, e quindi
come atti di quest’Essere per sè per eccellenza, purché però l’atto e la
funzione di Dio siano intesi come tali che il termine di essi abbia un essere
almeno parzialmente indipendente e sia fornito della capacità di esistere per
sè, di spontaneità e di libertà. Appunto queste proprietà degli esseri finiti
rileva e illustra il De S. nel tentativo di determinare cosi l’origine come il
destino delle anime. L’origine dell’anima la quale implica, per un lato, la
produzione di qualcosa di nuovo e, per l’altro, la conformità a un ordine di
leggi immutabile, può, secondo il De S., esser posta in rapporto con l’azione
divina, purché questa s’intenda appunto come sostrato reale in cui ha il suo
sostegno quell’ordinamento di leggi, per il quale, in date condizioni, nuovi
fatti accadono o nuovi fini e valori vengono realizzati. E poiché
quelPordinamento è eterno, anche delle anime può dirsi che esistono ab aeterno,
come principi potenziali, i quali aspettano che i destini si maturino per poter
divenire attuali. E una volta divenuti attuali, i centri reali di vita e di
coscienza sono, secondo il De S-, indistruttibili, appunto in forza del pregio
intrinseco che essi posseggono come sostanze: onde l'affermazione dell’immortalità
di tutte le anime. È innegabile, dunque, che del problema metafisico per
eccellenza il De S. presenta costantemente una soluzione conforme, nei suoi
principii fondamentali, al teismo e spiritualismo tradizionale. Ma bisogna
subito aggiungere che nella trattazione di questo problema della realtà egli è
sempre consapevole del carattere meramente congetturale di quella soluzione,
quantunque questa gli sembri meno inadatta delle altre a dare dei fatti e della
realtà conoscibile una certa quale interpretazione sistematica. Egli non si
nasconde mai le oscurità che si oppongono alla piena intelligibilità
dell’Assoluto: non dissimula le antinomie tra le quali la ragione umana si
dibatte ogni volta che pretende di dare della realtà ultima una definizione esauriente.
E’ troppo persuaso dello scarso valore dimostrativo che possono avere le
analogie in base alle quali noi trasportiamo dal finito all’infinito o
estendiamo da una ad altra sfera di realtà i nostri concetti, perchè si possa
credere che egli s’illuda sulla portata effettiva di quelle ipotesi, anche se
l’intimo convincimento suo della preferibilità di quelle ad altre ipotesi dia
talora alla sua trattazione un tono che può parere alquanto dommatico. Le
riserve prudenziali che spesso interrompono la sua trattazione di tali problemi
potrebbero anzi indurre a ritenere ch’egli sia in fondo un agnostico in fatto
di metafisica: ed egli non disdegnerebbe certo questo epiteto, se per
agnosticismo s’intende la persuasione che il mistero dell’universo è e rimarrà
ineluttabilmente un mistero per la mente umana. Agnosticismo, che ben si
concilia in lui con la fede questa, si, veramente dommatica nel senso migliore
delia parola con la fede sulla validità assoluta dei princìpi razionali, con
l’affermazione che nel fondo della realtà è la Ragione : si concilia, perchè,
data appunto l’ind'pendenza relativa delle coscienze finite dall’Essere
assoluto di Dio, possono da ognuna di quelle essere colti soltanto frammenti
della razionalità in cui questo si rivela come immanente all'universo. È uno
dei caconi della maniera di filosofare del De S. questo, che l’esigenza
dell’unità, la quale è essenziale alla ragione e si esprime nel suo grado più
alto nella posizione del problema metafisico, non può e non deve essere sodisfatta
con l’eliminazione delle differenze che la realtà presenti e la ragione stessa
riconosca come irriducibili, anche se non riesca poi facile o possibile alla
mente umana stabilire come questa molteplicità irreduttibile possa esser
ricondotta o comunque messa in relazione con quel principio reale di unità
assoluta che è Dio. Cito due esempi caratteristici, relativi al concetto
fondamentale di sostanza. Della sostanza, come s’è visto, noi abbiamo, secondo
il D. S., una conoscenza immediata nell’apprensione del nostro io, in quanto
questo è un essere per sè e si manifesta nei fatti psichici come in atti suoi,
senza esaurirsi in nessuno di essi. Da ciò parrebbe lecito dedurre che il mondo
sia costituito di sostanze omogenee, ossia di esseri che siano per sè come
unità di coscienza, anche se tra le varie sostanze si debba stabilire una
differenza di grado: parrebbe cioè giustificato il monismo spiritualistico.
Invece il De S. dedica due saggi ad una critica stringente di questa soluzione
del problema metafisico, che pur parrebbe la più conforme ai suoi supposti
spiritualistici (// monismo psichico e Sullo spiritualismo odierno, nel volume
« Pensiero Moderno »). È vero, egli dice, che tutto ciò che esiste, per il
fatto che esiste, agisce in una data maniera, e noi non possiamo rappresentarci
codesta attività che facendo uso di nozioni attinte alla nostra esperienza
intima, e che quindi in ultimo siamo sempre spinti a identificare l’esistenza
con una forma, per quanto attenuata, di psichicità. Ma l’analogia non deve far
perdere di vista le profonde differenze esistenti se non altro tra il modo di
comportarsi degli obietti e fatti costituenti la natura esterna e quello degli
esseri e processi psichici. Anzi, per il De S., a rigore non basterebbe opporre
al monismo, sia esso materialistico o immaterialistico, il dualismo : sarebbe
più logico parlare di pluralismo senza aggettivi, esprimente una pluralità di
energie e di attività tanto differenti tra loro,' che a rigore non possono
essere accomunate nè sotto la rubrica spirito né sotto qualsiasi altra rubrica.
Come e perchè esista quel dato numero di principii, cornee perchè esistano
quelli e non altri, non è possibile dire: è un fatto che va constatato, e non
si può e non si deve spiegare; come vanno indagate, constatate e descritte le
varie maniere di agire e reagire reciprocamente di questi vari esseri, ma non
si può presumere di spiegare, nel vero senso della parola, come e perchè si
stabilisca la connessione reciproca di tali esseri che sono esistenti per sè,
sebbene nelle maniere speciali di agire e reagire essi affermino e rivelino la
loro esistenza. Ma vi ha di più: la sostanza vivente e, più in particolare, la
sostanza psichica esiste ed agisce in quanto si sviluppa. Ora uno dei saggi più
penetranti del De S. (Il significato filosofico dell'evoluzione, nel volume «
Il Pensiero moderno ») è dedicato all’analisi del concetto di evoluzione, ed è
uno dei più significativi per dimostrare come nella concezione metafisica del
De S. si conciliino un temperato razionalismo e un prudente agnosticismo. Il
concetto di evoluzione, lungi dall’essere come vuole, ad es., l’hegelismo un
principio esplicativo, e lungi dal dare un’espressione compiuta della realtà
ultima, ha bisogno esso stesso di venir reso intelligibile. E l’analisi critica
di tal concetto rivela la presenza in esso di vere e proprie contradizioni, che
non possono essere eliminate se non considerando lo sviluppo non già come il
prius della realtà, ma come qualcosa di accessorio e di secondario. Il processo
evolutivo, mentre implica necessariamente il tempo, esige l’illusorietà del
tempo; mentre vuol essere creazione, implica già la preesistenza del termine a
cui arriva; si può leggere in esso, almeno post factum, la rispondenza a un
ordine razionale, ma chi dice razionalità, dice estra- temporaneità. Ogni
evoluzione implica dunque qualcosa di assoluto, di perfetto, di stabile, che
rappresenta il principio vero dell’evoluzione. Ecco il risultato, positivo,
certo, cui conduce l’analisi del concetto di evoluzione: ma è una certezza che
fa sorgere nuovi interrogativi: allora, ci si domanda, come e perchè i reali
concreti e finiti sono cosi fatti da dover attuare i fini solo mediante il
processo evolutivo, come e perchè l’ordine si realizza per gradi e attraverso
lo sviluppo? Il che equivale a domandarsi come e perchè esistano esseri finiti
che si trovano con l’assoluto in quegli speciali rapporti. E a questi
interrogativi non è possibile rispondere: ed ecco come, conclude il De S.,
l’evoluzione è un aspetto del « my- sterium magnurn » della realtà. Il problema
dell’evoluzione reale conduce al problema del tempo, e come questo resulta
dalla connessione del flusso con la permanenza, della successione con la
durata, così l’evoluzione poggia sul rapporto del divenire o variare con ciò
che è immutabile, permanente e eterno. Compito df;fa filosofia, dunque, di
fronte al problema più propriamente metafisico sembrerebbe essere, per il De
S., quello di rendere chiare e in un certo senso acuire e dimostrare
insuperabili, piuttosto che superare, le difficoltà che quel problema offre
alla mente umana; di illuminare i limiti di essa, piuttosto che additarle un
varco alla conoscenza piena dell’Assoluto. Ma non è questo, per il De S.,
l’unico compito della filosofia: o meglio, per assolvere questo stesso compito,
per condurre la mer*e umana appunto a queste posizioni che sono al margine del
mistero, a queste che possono dirsi frontiere della conoscenza umana, e per
dimostrare che sono frontiere invalicabili, la filosofia deve, secondo il De
S., percorrere il dominio stesso che innanzi alla conoscenza si stende, di qua
da quelle frontiere: ed è il dominio dell’esperieza nel senso più pieno e più
ampio di questa parola. Prima della « Dialettica trascendentale » e quindi
prima della Critica della Ragion pratica con i suoi postulati, vi è e vi deve
essere una « Estetica » e una «Analitica», per servirci della terminologia
usata da Kant, a designare un atteggiamento di pensiero analogo, per questo
rispetto, a quello criticistico, anche se, come vedremo, muova da supposti e
segua un. procedimento e giunga a risultati profondamente diversi. L’attività
filosofica del De S. ha avuto sempre, sin dalle sue prime manifestazioni,
un’impronta di positività, disdegnosa di ogni audacia speculativa, derivante
così dalla tempra del suo spirito come dalla sua educazione scientifica, oltre
che dal convincimento del valore nullo di ogni concezione che non sia un
portato necessario della critica della conoscenza positiva e non abbia quindi
una larga base empirica. Ma questo convincimento, si può dire, si è venuto in
lui sempre più radicando col maturarsi del suo pensiero, sino a divenire il
motivo fondamentale sempre più insistente del suo filosofare; sì che con questa
designazione appunto di filosofia dell'esperienza egli ama contrassegnare la
sua dottrina e il suo metodo, in recisa opposizione alla speculazione
idealistica dei neo hegeliani, che si è andata sempre più affermando in Italia.
Si direbbe che il diffondersi di quell’antiempirismo dialettico ch’egli
considera un vero « contagio » delle menti, l’abbia indotto ad accentuare
sempre più la necessità di ricorrere a cautele immunizzatrici, in un contatto
sempre più stretto, e più esclusivo, della filosofia col sapere empirico; di
ricondurre la filosofia, come in rifugio sicuro, in quei confini entro i quali
essa possa mantenere il carattere di scienza, essere, ai pari delle altre
scienze, un prodotto dei processi logici comuni della mente umana, anziché
l’espressione mistica o lirica che sia, notevole quanto si voglia per novità e
originalità, ma non suscettibile d’una dimostrazione razionale l’espressione,
dicevo, di una coscienza e quasi d’un temperamento individuale traverso il
quale la realtà si rifranga. E inaugurando, nello scorso ottobre, l’ultimo
Congresso italiano di filosofia a Firenze, giunse alle affermazioni estreme che
le attuali condizioni della cultura filosofica in Italia esigono un più o meno
lungo periodo di astinenza dall’alta speculazione, e che non il problema
filosofico, quello metafisico intorno alla natura della realtà ultima e
assoluta, ina / problemi filosofici particolari, o meglio questi prima e con
più fiducia e anzi con più sicurezza di successo che quello, e come condizione
per la stessa impostazione non che per ogni tentativo di soluzione di quello,
meritano di essere oggetto dell’indagine filosofica. Ma con ciò, si può
osservare, non è stato sacrificato proprio quello che è il carattere distintivo
del sapere filosofico rispetto alle scienze particolari, e che è appunto la
determinazione della relazione dei distinti, il riferimento della molteplicità
delle distinzioni a un principio unitario? Il De S. risponde che la filosofia è
aspirazione alla unità dell’Essere, senza che perciò il filosofo debba
trasformarsi in un allucinato dell’unità. La varietà e la inconciliabilità dei
tentativi compiuti nella storia della filosofia per unificare i reali e-le
conoscenze e per dedurre la complessità dei fatti da un unico principio, sta a
dimostrare, secondo lui, che all’unificazione si giunge colmando con
l’immaginazione le lacune della conoscenza certa e dimostrabile. Gli si può
replicare con l’obiezione consueta, che la vanità di quei tentativi risulta
dall’aver cercato la unità nell’oggetto invece che nel soggetto, nella natura
(o in Dio, che è lo stesso) invece che nello Spirito. Ma il De S. ribatte che
anzi appunto attraverso quel riferimento degli oggetti al soggetto conoscente,
appunto attraverso quella unificazione, diremmo, metodologica e gnoseologica,
di tutto il reale nell’io che è propria del sapere filosofico —, si rivela la
irriducibilità, diremo, ontologica degli oggetti e dei valori. Infatti, per il
De S., se da un lato la filosofia non può non scindersi in una molteplicità di
discipline, fondate su principii irriducibili (essere e valere, p. es.),
dall’altro lato queste hanno caratteri comuni, che valgano a fare di esse
appunto un unico gruppo, quello delle disciplini; filosofiche. E questi
caratteri comuni sono: I) determinazione dei concetti universali, attraverso i
quali la realtà può essere razionalizzata; 2) riferimento di tutta la realtà
allo spirito del soggetto, in cui e per cui l’esperienza in ogni sua forma si
costituisce. Due caratteri, questi, che sono per il De S. strettamente uniti e
come interdipendenti: perchè le idee universali ossia le nozioni metafisiche
fondamentali intanto assurgono a quel grado di fecondità per cui rappresentano
i mezzi di razionalizzazione della realtà, in quanto o sono il risultato della
giustii.jata estensione a tutta la realtà di concetti che abbiamo direttamente
appreso nella coscienza (sostanza, fine, causa), ovvero sono il prodotto della
riflessione sui modi in cui la realtà diviene intelligibile e acquista
consistenza nella mente umana. Lo spirito, in quanto termine comune di
riferimento di tutti gli elementi e fatti della realtà, viene ad occupare una
posizione centrale nel mondo, e la psicologia, come scienza dello spirito,
costituisce il terreno di incontro delle diverse discipline filosofiche. Si è
detto, la psicologia come scienza dello spirito : e di questa determinazione
v’è bisogno per non cadere nei facili equivoci cui può dar luogo la parola
psicologia o psicologismo. Già nei 1903, nel suo poderoso volume I dati
dell'esperienza psichica, il De S. insisteva sulla profonda differenza esistente
tra la psicologia come scienza empirica e la psicologia coinè scienza
filosofica. La prima, quale si è venuta costituendo negli ultimi decenni,
studia l’anima umana come un « obietto» tra gli altri obietti della natura, ha
aspetto e procedimento di una scienza naturale e non mira che alla spiegazione
causale dei fenomeni. Per essa la vita psichica è un complesso di « stati » di
coscienza: i quali, sì, implicano tutti una certa coscienza dell’io (in maniera
che per il De S. non è possibile una psicologia « senz’anima », anche se sia
psicologia empirica): ma il soggetto non è còlto, da questa, in funzione, ossia
nella sua attività tendente a determinati scopi. Si tratta di una
considerazione statico di dati, a cui il concetto di atto è necessariamente estraneo;
di una considerazione che tende a fissare i rapporti condizionali dei vari
ordini di stati psichici e a ridurre il complesso al semplice. La psicologia
empirica deve quindi limitarsi all’«analisi morfologica» della coscienza,
escludente qualunque funzionalità e quindi qualunque dinamismo. Ora « lo
spirito dice il De Sarlo (p. 412) non è una cosa tra le altre cose, ma è il
mezzo di rivelazione della realtà. Come tale lo spirito è universale:
universalizza sè stesso nelle sue funzioni ed universalizza per ciò stesso
l’obietto a cui è rivolta la sua attività ». Ecco perchè lo spirito può
considerarsi come in una posizione centrale rispetto a tutte le cose: e la
scienza che lo studia, ossia la psicologia come “ fisiologia „ dello spirito, è
necessariamente scienza filosofica. Nella considerazione funzionale dello
spirito s’impone il concetto di valore e quindi di fine. Le funzioni dello
spirito mercè i loro atti oggettivano i dati e stati soggettivi; perchè sono
determinazioni che qualificano, sì, il soggettò, ma lo qualificano in rapporto
all’oggetto, e danno quindi luogo a ciò che è universalmente valido, a quelli
che sono i valori oggettivi. La verità, il bene, il bello non sono dei dati o
dei fatti: sono degl’ideali, sono appunto valori, distinti da ogni altro valore
unicamente soggettivo per questo carattere, che sono forniti di una speciale
necessità che è la necessitàdi diritto ben diversa dalla necessità di fatto
degli stati psichici. Quest’ultima denota soltanto che uno stato è
inevitabilmente determinato, nella sua insorgenza, da certe condizioni, una
volta che queste siano date, cioè siano determinate da altre condizioni, e così
via; denota cioè che uno stato o un fatto psichico ha sempre la sua ragione
d’essere in altro. Ma è indifferente al valore di quello stesso stato o fatto,
se per valore s’intende ciò che ha la ragion d’essere in sè e non in altro
ossia un valore incondizionato e assoluto, ciò che deve essere anche se le
condizioni dell’essere non sussistano e quindi la realtà non sia ad esso adeguata.
La necessità psicologica abbraccia indifferentemente nella sua spiegazione così
il valore come il disvalore, così il vero, il bello, il bene, come l’errore, il
brutto, il male. Una tale distinzione di valore, come distinzione obiettiva e
universale, non si può avere se non mediante il riferimento alle leggi
costitutive delle funzioni originarie ed essenziali dello spirito, leggi non
meccaniche, superiori anzi al meccanismo psichico, perchè essenzialmente
teleologiche, indicanti cioè la maniera in cui quelle funzioni agiscono ogni
volta che raggiungono il termine che è costitutivo della loro natura
spirituale, leggi rivelanti la loro natura attraverso una forma di evidenza che
è indizio della loro necessità e universalità. Le leggi logiche e gnoseologiche
definiscono la natura del pensiero, le leggi etiche quelle della volontà, le
leggi estetiche quelle della fantasia. Sono principii o assiomi i quali
significano che il pensiero, il volere e la fantasia in tanto meritano
veramente questo nome e in tanto raggiungiamo il termine che ad esse è proprio,
in quanto si esplicano nel senso indicato da quelle leggi piuttosto che in
altro senso. La distinzione tra psicologia empirica, come scienza dell’anima
morfologica, naturalistica e la psicologia come scienza dello spirito
funzionale e filosofica, così nettamente affermata dal De S. nell’opera su
citata del 1903, è forse stata successivamente attenuata in altri scritti, nel
senso che, a suo giudizio, la conoscenza del meccanismo psichico risulta utile
alla determinazione dei modi in cui lo spirito si eleve al di sopra di esso r e
reciprocamente la conoscenza dei fini dello spirito è indispensabile per
l’apprensione esatta del meccanismo che serve di mezzo al raggiungimento di
t'°i. Ma l’attenuazione si riferisce ai rapporti tra le due considerazioni
dell’anima e non elimina con ciò la distinzione. E comunque il De S. non ha mai
cessato di differenziare nettamente ed energicamente il suo psicologismo da
quello naturalistico, che considera i valori dello spirito come « o
applicazioni di leggi psicologiche già operative in altre direzioni, ovvero
particolari, originarie manifestazioni dell’attività psichica, le quali però
attingono il loro significato dall’essere effetti necessari di certe cause
psichiche o risultati inevitabili di processi mentali naturali, e non già dal
rispondere a certi fini od esigenze valide anche se non mai realizzate». Si
leggano specialmente, in proposito, i saggi Lo psicologismo nelle sue
principali forme (nel voi. < Pensiero Moderno »), Vecchia e nuova
psicologia, La psicologia e le scienze normative, e La classificazione dei
fatti psichici (nel I voi. di « Psicologia e Filosofia. Lo psicologismo del De
S. non è dunque naturalismo, ma non è neppure immanentismo: offre anzi a lui il
mezzo per affermare e dimostrare, contro ogni forma d’idealismo immanentistico,
il suo realismo gnoseologico. Se nella determinazione di ciò che è l’essere e,
in genere, di ciò che è oggetto di conoscenza, il De S. ritiene di dovere
attenersi ai criteri generali su esposti del suo psicologismo, non è già perchè
egli ritenga che la psiche e i processi psichici costituiscano la stessa
realtà, anzi lo stesso essere, ma è solo in considerazione delle prerogative
che, in ordine alla conoscenza, sono proprie dell’esperienza psichica di fronte
ad ogni altra forma di esperienza. E queste prerogative sono due: 1) innanzi
tutto la così detta esperienza estèrna si rivela e acquista consistenza sempre
attraverso l'interna, perchè ciò che è direttamente percepito, anche in quelli
che sono comunemente detti oggetti esterni, è sempre il contenuto d’un atto
psichico; l’esperienza interna presenta la nota dell’evidenza (evidenza di
fatto) derivante dalla coincidenza del percepire col percepito; e perciò
l’esperienza psichica rappresenta il vero fondamento per la constatazione di
qualunque esistenza reale, e quindi di ogni sapere empirico. 2) In secondo
luogo, l’esperienza psichica è il solo tramite attraverso il quale tutto ciò
che è (reale o pensabile che sia), l’essere in generale ci si può rivelare.
L’io distinguendosi da tutta la realtà traspare a sè medesimo, e insieme tutta
la realtà diviene trasparente attraverso di esso. Nulla esiste che sia
propriamente nell’io, tranne l’io stesso, e insieme, in un certo senso, nulla
di cui si può discorrere esiste al di fuori dell’io, perchè la cosa, per essere
affermata e riconosciuta, deve in qualche maniera esser presente alla
coscienza. In questo consiste ciò che si può chiamare funzione rappresentativa
della mente. Ma proprio da questo carattere essenziale alla mente il De S.
deriva la necessità di affermare la trascendenza dell’oggetto rispetto alla
mente che lo afferma e lo pone. Noi, egli dice, arriviamo, è vero, al concetto
di essere e di obietto solo mediante la riflessione sull’atto di
riconoscimento: ma questo in tanto è tale, in quanto è provocato da qualcosa di
diverso da sè. La mente, non contenendo la realtà come tale, nè identificandosi
con essa, non può giungervi se non attraverso qualcosa che rappresenti o
sostituisca la realtà medesima. Le rappresentazioni mentali forniscono i segni
in base a cui l’intelletto costituisce la realtà. La realtà, si può anche
direche sia « percipi « e « intelligi », purché con ciò non si voglia
significare che l’essere si esaurisca nel fatto di essere percepito e inteso,
ma solo che non si ha modo di definire quest’essere prescindendo dalle sue
rivelazioni nella coscienza individuale. La conoscenza vale sempre per altro,
si riferisce sempre ad altro. Non che si tratti di una specie di corrispondenza
tra l’obietto trascendente e la rappresentazione mentale come grossolanamente
si ritiene da molti critici di tale concezione —, quasi fosse ammissibile
un’apprensione dell’oggetto qual’è in sé al di fuori della coscienza e quindi
un confronto tra la Cosa e 1 idea- L affermazione della trascendenza è imposta
dal bisogno di dare un senso alla funzione conoscitiva qual’è còlta in atto, al
fatto conoscitivo nel suo significato e nell’intendimento che lo anima. Certo,
per il De S., non si deve con Jiò pregiudicare la soluzione del problema
metafisico della costituzioile intima della realtà ultima. La metafisica può
anche giungere alla conclusione che la realtà, divelta da qualsiasi rapporto
con la coscienza, è un non senso, che tutto ciò che esiste, esiste in quanto è
connesso con una coscienza. Ma questo rapporto metafisico non può essere
identificato col rapporto gnoseologico tra obbietto e coscienza in quanto
conoscente. La coscienza nel riferimento alla quale può farsi consistere la
realtà di tutto ciò che è, non è certo la coscienza individuale del soggetto
che conosce questa realtà e la conosce riferendola a sé come altro da sè: anche
quando si sia ridotta metafisicamente la realtà a coscienza, tale coscienza
rispetto al soggetto conoscente, a questo o quel soggetto, è sempre un reale,
un oggetto, è sempre appresa da esso come altro da sè. Il quale ultimo punto
non potrebbe essere negato se ì.'in dimostrando che la distinzione delle
singole coscienze è illusoria e che i rapporti tra gli obietti costituenti l’universo
sono identici ai rapporti tra i fatti psichici di ciascuno. Questa
dimostrazione, per il De S., non può essere data: e ne vedremo il perchè, tra
poco, a proposito della natura del soggetto come reale. E, comunque, allo
stesso modo che la soluzione del problema gnoseologico non deve accogliersi
come tale da contenere o assorbire in sè la soluzione del problema metafisico,
cosi questa che, d’altronde, può essere solo punto d’arrivo dell’indagine
filosofica, e irta, come s’è già detto, di difficoltà e oscurità d’c^ni sorta
—, non può e non deve pregiudicare la soluzione del problema gnoseologico, sino
a eliminare ciò che è costitutivo del fatto della conoscenza, la dualità di
soggetto e oggetto. L’esperienza psichica l’abbiamo già detto è, per il De S.,
costituita di atti : e perciò anche il pensiero è atto. Ma chi dice atto, dice
qualcosa che accade nel tempo, qualcosa che sorge e si dilegua in un
determinato punto della durata. E allora, secondo il De S., non si può sfuggire
a questo quesito: se tutta l’esperienza psichica si risolve in un complesso di
atti e se in conseguenza tutto ciò che può essere conosciuto non lo può che
attraverso atti, come é possibile arrivare al concetto di ciò che non è atto,
al concetto, poniamo, di una relazione universale e necessaria tra idee, com'è
possibile arrivare al concetto del mondo della pensabilità, che esclude
qualsiasi elemento di efficienza, di azione reale, e che non è nel tempo?
Appunto per rispondere a questo quesito, occorre negare l’immanenza o l’inclusione
dell’oggetto nell’atto psichico corrispondente. Mentre vi sono contenuti di
coscienza i quali si moltiplicano come si moltiplicano i centri di coscienza,
ve ne sono altri che, pur essendo in speciale rapporto con i primi, rimangono
unici e anzi non sono concepibili che come unici. E anche quando agli obietti
in quanto parvenze non è attribuibile nessuna consistenza reale, non è lecito
affermare che essi si identifichino con gli atti stessi, giacché anche in tali
casi è sempre necessario presupporre ddle condizioni indipendenti atte a
provocare l’esplicazione dell’attività psichica riconosciuta poi come
illusoria. L’esistenza di siffatte condizioni è un presupposto ineliminabile :
o l’attività psichica ch’esse hanno provocata è adeguata alle condizioni medesime,
e allora si è autorizzati a identificarle con obietti reali, aventi
un’esistenza indipendente; o tale esplicazione è inadeguata, e allora s’impone
la necessità di ricercare quale forma di realtà e di esistenza possa essere
attribuita a quelle condizioni. Ma come si può decidere se vi sia o no
adeguazione dell’atto all’oggetto? Qui il De S. insiste sulla distinzione tra i
due ordini di oggetti conoscibili: gli obietti concreti e individuali (con le
loro qualità) da una parte, e gli elementi ideali o intelligibili, dall’altra.
L’esistenza è fornita sempre dall’esperienza: o è dato sensoriale, o è dato
della coscienza, e non può non occupare tempo ; l’intelligibile, invece, è
sempre formulabile per mezzo di un rapporto o di un complesso di rapporti, ed è
estraneo alle vicende del tempo. E il fondamento della cognizione, in rapporto
a questi due ordini di obietti, è da un lato la percezione dei fatti psichici e
di ciò che è relativo ad essi, e dall’altro la conoscenza di certi principii e
assiomi costituenti come l’ossatura della ragione; da un lato, cioè, l’evidenza
di fatto, fornita, come si è già accennato, dalla diretta esperienza che
abbiamo di noi stessi, e, dall’altro, la necessità razionale, qual’è còlta nei
principii logici. Questa distinzipne, però, non è da intendere, secondo il De
S., nel senso che l’apprensione dell’esistente e della sua qualità possa farsi
indipendentemente dal pensiero logico. Il fatto individuale non è
caratterizzabile che mediante nozioni universali; e 1 intelligibile, se può
essere considerato per sè (astratto) solo per opera della mente, è tanto
intimamente connesso (consubstanziale) con resistente, col puro fatto, che
questo non può formare oggetto di conoscenza se non per ciò che contiene di
inttj ligibile. È il pensiero che deve in certo modo investire di sè i
dati'dell’esperienza psichica per og- gettivarli affermandoli, facendone cioè
termini di atti giudicativi, e trasformarli così in reali conosciuti. Più in
particolare, è il pensiero che fa di quella sfera dell’esperienza psichica che
è la sensibilità, il tramite di una realtà trascendente la coscienza, e fa
delle qualità sensoriali non soltanto contenuti psichici aventi la realtà
stessa di altri contenuti psichici, come sentimenti, volizioni ecc., aventi
cioè resistenza che è propria degli stati o atti di quel prototipo di realtà
individuale che è l’io —, ma fenomeni d’una realtà trascendente. Il pensiero
pone e risolve il problema della realtà di un correlato obiettivo delle q alità
sensoriali, in quanto da un Iato queste non sono meri contenuti di coscienza o
creazione del soggetto come dimostrano la coerenza e permanenza che presenta
l’esperienza sensibile e le variazioni a cui questa può andar soggetta
indipendentemente da qualsiasi rapporto con la coscienza individuale ; e
dall’altro lato non sono cose in sè come dimostra la loro relatività alle
condizioni subiettive, per cui è impossibile dire chiaramente in che cosa
consistano, per sè prese. D’onde risulta che esse hanno una forma di esistenza
speciale che è appunto l’essere proprio dei fenomeni. Ora questo correlato
obiettivo delle qualità sensoriali può essere raggiunto solo per opera del
pensiero e non è determinabile nei suoi tratti essenziali che in base ai
principii razionali. Il pensiero rappresenta, pertanto, il solo mezzo per
distinguere l’apparenza dalla realtà, anzi il solo mezzo per attribuire un
significato a tale distinzione. Le parvenze sensoriali, i puri fenomeni e le
forme intuitive dello spazio e del tempo non possono non essere constatati, e
quindi come pseudo-esistenze, non possono non divenire obietti di conoscenze
immediate, nella forma di giudizi percettivi (pensiero tetico, immediato,
concreto). E quando i dati così affermati si trovino in contrasto col sistema
delle conoscenze organizzate intorno ai principii razionali, il pensiero
medesimo è chiamato a decidere in ultima istanza su ciò che va affermato come
reale e ciò che va riguardato come apparenza, è chiamato a decidere intorno
all’obbiettivo e al subbiettivo. Se già l’esistenza come tale esige, secondo il
De S., l’intervento del pensiero logico, s’intende che anche l’essenza del
reale non possa, e con più forte ragione, esser determinata che dal pensiero.
Essa consiste in relazioni, nelle quali la mente traduce ciò che dapprima è soltanto
sperimentato e vissuto (somiglianza e differenza, nesso di dipendenza, rapporti
quantitativi, rapporti di azione e passione, rapporti spaziali e temporali atti
a fornire le coordinate per l’individuazione). L’intelligibile, distrigato dal
reale per mezzo dei processi intellettivi, finisce per assumere l’ufficio di
segno rispetto a ciò che è posto come indipendente dal soggetto e come
sussistente. E il progressivo sviluppo della conoscenza è determinato dal
bisogno di fissare ciò che nella realtà vi ha di conforme alla ragione e quindi
di assimilabile da essa mediante la traduzione della realtà stessa in rapporti
razionali. La credenza che l’obietto sia sempre risolubile in elementi
intellettuali è il presupposto e anzi l’anima di qualsiasi conoscenza. La
realtà esistente, dunque, non può essere posta che dal pensiero in quanto
giudizio tetico; e non può essere conosciuta nella sua struttura se non nella
misura in cui il pensiero la traduce in un complesso di rapporti intelligibili.
Ma e con ciò il De Sarlo riafferma il carattere nettamente realistico del suo
razionalismo i termini di questi rapporti e il contenuto di quelle « tesi » non
sono risolvibili in pensiero.Vi è sempre distinzione, secondo il De S., tra lo
sperimentare e il pensare, nel senso che quello non è derivabile da questo,
anche se non possa divenire sperimentare «obiettivo », e quindi conoscere, che
per mezzo dell’attività del pensiero; vi è distinzione tra il pensiero come
oggetto di conoscenza, come pensabile o pensato, e il pensiero come attività
d’un soggetto, volta a raggiungere la verità sia questa un dato di fatto o
un’idea —, come pensiero pensante. È questa la natura dei rapporti, il cui
complesso costituisce la pensabilità del reale: da un lato essi sono il
risultato di atti (riferimento) compiuti dal soggetto, sì che, come tali,
parrebbero immanenti a una mente e quindi il prodotto di un soggetto. Ma
dall’altra parte IL REALISMO PSICOLOGISTICO 139 non sono posti arbitrariamente;
sono, più che suggeriti, imposti da esigenze obiettive. Nè l’inlelligibiiità
dei rapporti viene ad essere facilitata dal riferimento di essi ad una Mente
universale. Con ciò i rapporti vengono consideratifcome creazione arbitraria di
tale Mente ? E allora ogni analogia di questa con la mente umana verrebbe ad
essere cancellata, e il ricorso ad essa diverrebbe inutile allo scopo. Vengono,
invece, i rapporti considerati come espressione di una necessità intrinseca
alla natura delle cose? E allora la Mente universale non è che il nome per
esprimere la coerenza logica, l'intelligibilità nel suo aspetto obiettivo;
i»/telligibilità che può condurre la mente ad ammettere un’Intelligenz.l!
assoluta, senza che però questa sia assunta a principio esplicativo della
razionalità: la razionalità vale per sè, indipendentemente dall’essere
insidente in una mente. Quel che noi possiamo dire, conclude in proposito il De
S. t è che i rapporti, quali possono essere studiati dall’intelletto finito
individuale, suppongono obietti (termini) nella cui proprietà hanno il loro
fondamento, e che le relazioni, realizzate in questa o quella coscienza
mediante gli atti di riferimento, sono il riflesso delle relazioni obiettive.
Il problema gnoseologico, s’è visto, non può, secondo il De S., essere
convenientemente trattato se non quando si tenga presente che il soggetto a
cui, nel fatto conoscitiva, vien riferito l’oggetto, è il soggetto individuale;
e la soluzione réalistica ch’egli ha dato al problema potrebbe essere
compromessa esclusivamente nel caso che si fosse riusciti a dimostrare, in sede
metafisica, non solo che la realtà non può esser resa intelligibile che quando
sia considerata come il pensiero di una Mente Universale, ma anche che la
distinzione delle coscienze individuali tra loro e dalla Mente Universale sia
illusoria. La dimostrazione di questo secondo punto è per il De S. impossibile.
Intanto l’aver riconosciuto che l’esperienza psichica è costituita
essenzialmente di atti, non significa per il De S. affermare che il soggetto
dell’esperienza psichica si risolve in null’altro che in un complesso di atti.
È il concetto e l’esperienza stessa di atto che rinvia per necessità al
concetto di soggetto come di un reale distinto da ogni altro reale e quindi da
ogni altro soggetto. Certo, non è possibile determinare la natura del soggetto
(unità reale) senza riferirsi agli atti ch’esso compie: ma alla variabilità
degli atti non corrisponde la variabilità dell’unità del soggetto. L’individuo
non può non aver coscienza di essere in rapporto con altro da sè per mezzo di
atti da sè stesso compiuti; ma se esso non distinguesse sè (come principio
degii atti) dagli atti stessi, e questi dagli obietti a cui gli atti sono
rivolti, non potrebbe parlare di atti suoi numericamente distinti da quelli
degli altri individui. Inoltre il soggetto si fa, si crea con i suoi atti, ma
perchè possa farsi e crearsi, occorre che vi sia un principio reale, un dato
iniziale e quindi qualcosa di già fatto. La creazione non è ex nihilo; e la
stessa potenzialità o capacità è concepibile soltanto come inerente a qualcosa di
attuale, come funzione possibile di un essere. Non può, dunque, la coscienza
essere ridotta al mero complesso degli atti e fatti psichici. Ma non può
neppure, d’altra parte, sostiene il De S., confutando in svariatissime
occasioni la tesi idealistica —, non può neppure essere ridotta a una mera
equazione di pensante e pensato, alla pura relazione formale d’identità tra
conoscente e conosciuto. L’idealismo afferma che la suicoscienza è il grado
supremo dell’evoluzione d’un principio ideale, d’una legge, d’un universale;
quello in cui la realtà, che negli stadi inferiori si presenta come scissa
dall’idea, come essere distinto dal pensiero, come oggetto opposto al soggetto,
rivela invece la sua più intima natura, che è appunto unità e identità di
soggettivo e di oggettivo, di pensante e di pensato, di essere e di pensiero.
Quest’affermazione è per il De S. risultato d’una confusione derivante dal
significato equivoco della parola coscienza. Quando si parla di coscienza e di
suicoscienza, egli dice, bisogna distinguere tra la suicoscienza vera e
propria, fondata sulla capacità che ha l’io di ripiegarsi su se stesso e di
percepire il complesso dei fatti psichici come incentrantisi in un punto; e la
coscienza, in senso largo, come espressione dello speciale rapporto che può
esistere tra l’oggetto e l’io come conoscente. Quanto alla prima, l’equazione
di pensiero e di pensato non è che l’espressione, in termini intellettuali,
d’una esperienza vissuta sui generis, di un fatto che può essere indicato ma
non definito, perchè per sè preso oltrepassa il pensiero, e non può assumere
carattere di necessità razionale. E quanto alla seconda, la identificazione dei
due termini del rapporto conoscitivo non può ottenersi se non sostituendo
all’io empirico il cosi detto io universale o coscienza in generale o io
trascendentale. Ma osserva il De S., o con ciò s’intende quello che è comune
alle menti individuali ; e allora non si vede come si possa distinguere il
soggettivo psicologico dal soggettivo gnoseologico. 0 s’intende qualcosa che
vale indipendentemente da questa o quella coscienza empirica, che esprime il
modo come lo spirito deve operare perchè sia veramente tale, le esigenze
dell’intelligibilità significanti veri e propri compiti impditi da ciò che è
indipendente dal soggetto; e allora non v’è più ragione di parlare di io, di
soggetto, quando la soggettività si è identificata/con la razionalità, con
l’intelligibilità, che è anzi l 'oggetto della conoscenza e del pensiero
pensante. Ma da tale concezione della coscienza come di categoria delle
categorie, questo solo, secondo il De S., si ricava, che la realtà in tanto può
essere conosciuta ed essere compenetrata dal pensiero, in quanto è concepita
essa tessa come implicante pensiero. Il che poi significa che la realtà è fcosì
fatta da imporre certe esigenze alla mente individuale, ossia che nell’obietto
vi è qualcosa atto a provocare il riconoscimento. Ma il passaggio dalla
intelligibilità in quanto esigenza del riconoscimento da parte del soggetto,
alla riduzione della realtà a un processo di autocoscienza, all’affermazione
che nella realtà stessa non si trovi niente di più di ciò che è in noi stessi
quando giungiamo a identificarci e a riconoscerci, non è affatto giustificato.
L’autocoscienza, piuttosto, è già nel fondo della realtà, indipendentemente da
noi: non è dunque l’autocoscienza, quale si presenta negli individui singoli,
l’espressione genuina e compiuta della realtà. Nè vale ammettere
l’autocoscienza come potenzialmente esistente ab aeterno e attuantesi poi negli
individui: si riaffaccia allora quella suprema difficoltà contro cui, come già
si è accennato, urta sempre il pensiero umano, la difficoltà d’intendereA:ome
da ciò che è puramente pensabile, ideale, estratemporaneo, uno, si passi a ciò
che è reale, attuale, temporaneo, contingente, diverso, mutevole. Non è
possibile considerare soggetti molteplici che sono nel tempo e hanno uno
sviluppo e sono direttamente impenetrabili e incomunicabili, come
determinazioni, differenziazioni o sezioni dell’Uno, sol perchè essi hanno il
potere di superarci limiti del tempo idealmente e di elevarsi al mondo della
pura razionalità. E una riprova di questo è l’esistenza dell’errore logico,
etico, estetico che dimostra, come già si è visto, la possibilità d’una
discrepanza fra le funzioni psichiche e le categorie o principii ideali, di
qualunque ordine siano, tra la necessità psicologica e quella deontologica.
Questa distinzione tra la necessità di fatto e la necessità di diritto, tra ciò
che è ed è per opera di un soggetto reale e quel che dovrebbe essere in virtù
di principii razionali, è il presupposto da cui, è naturale, muove più
particolarmente il De S., nelle sue indagini di etica (per cui v. specialmente
VAttività pratica e la coscienza morate e i Principii di scienza etica). Per
lui tutta la vita morale ha il suo fondamento in certi principii valutativi che
si rivelano alla coscienza come forniti d’evidenza immediata analoga a quella
logica: veri e propri assiomi morali, la cui azione pervade le particolari
contingenze della vita pratica. Compiti dell’Etica sono perciò questi: a)
determinare la natura del- Vevidenza pratica (necessità e universalità) e- il
contenuto di queste condizioni essenziali nella vita morale (e per il De S.
tali principii si riducono a quelli della dignità e della perfezione personale,
della giustizia e della benevolenza); porre in luce lo svolgimento storico di
tali principii, in quanto, pur essendo stati sempre operativi, hanno dispiegato
variamente la loro efficacia in relazione con il variare delle condizioni della
civiltà; considerare tutte le istituzioni per qualunque via primamente sorte
alla luce degl’ideali etici, come organi dell’attuazione di essi. II De S.,
nella trattazione di questi problemi, afferma l’autonomia dello spirito nel
senso che il soggetto è tratto dalla sua stessa natura a dare l’assentimento a
principii superiori al suo io empirico. Egli quindi ammette una forma di
esperienza morale specifica e distinta da ogni altra forma di esperienza
spirituale, scientifica, estetica, religiosa ecc. La specificità di questa
esperienza è la condizione che rende possibile una scienza etica: della quale
egli insiste nel rivendicare l’autonomia e la priorità rispetto a qualsiasi
concezione propriamente metafisica. La Metafisica ha nell’etica una delle sue
basi più solide e a tal principio è ispirato, come abbiamo visto, tutto il
volume del De Sarlo "Metafisica, Scienza e Moralità „ ; ma nessuna teoria
morale può, secondo lui, essere costruita alla luce di una determinata
concezione generale dell’universo, piuttosto che sulla base dell’analisi
dell’esperienza morale. Come si vede, di fronte al problema etico il De S.
mantiene fermo quello stesso atteggiamento che abbiamo più particolarmente
illustrato a proposito del problema gnoseologico di stretta aderenza
all’esperienza, come tramite traverso il quale soltanto ci si rivela nella sua
efficienza e nella pienezza del suo contenuto ciò è che universale e
razionalmente necessario. A coloro che trovassero troppo modesto il compito
cosi assegnato alla filosofia, il De S opporrebbe volentieri le parole che Kant
scrisse all’indirizzo dei «metafisici» del suo tempo: «Il nostro disegno può
mirare a costruire una torre alta fino al cielo: ma il materiale è appena
sufficiente per una casa, spaziosa tuttavia abbastanza per le occupazioni
nostre sul piano dell’esperienza e alta a sufficienza per abbracciare questa
d’uno sguardo ». E comunque « le alte torri e i grandi metafisici simili ad
esse, intorno a cui (sia le une che gli altri) generalmente spira molto vento,
non sono fatti Der me. Il mio posto è la feconda bassura dell’esperienza. Dalla
scuola di SARLO (si veda) usce A. (n. Palermo, professore di filosofia
nell’Università di Napoli). A. inizia la sua attività di studioso con un saggio
sulla misura in psicologia sperimentale, Firenze, R. Istituto di Studi. Nel
campo specificamente FILOSOFICO, A. si afferma, oltre che con saggi minori e
con l’attivissima sua collaborazione alla Cultura Filosofica di Sarlo, col saggio,
“La reazione idealistica contro la scienza” (Palermo), che è una bella
battaglia in difesa del valore della scienza contro tutte le forme
d’intuizionismo, di prammatismo e d’idealismo assoluto, che tendono a svalutare
i concetti scientifici. (cf. H. P. Grice, IL DIAVOLO DEL SCIENTISMO]. Il motivo
centrale di questo saggio è che i concetti della scienza – e. g. psico-logia --
non sonò un impoverimento della realtà, ma un arricchimento del mondo
dell’intuizione. Il concetto, infatti, non è nello schema convenzionale che
serve a comunicarlo praticamente, e che per se stesso non ha certamente valore
di realtà, ma nella sintesi di esperienze concrete che attraverso quello schema
si realizza e nella quale l’intuizione si eleva ad una superiore potenza,
inquadrandosi in un contesto più largo di relazioni, completandosi con altr’intuizioni
che sfuggono alla veduta dell’attimo fuggitivo e ai nostri sensi limitati.
Questo modo d’INTENDERE IL CONCETTO SCIENTIFICO, come processo d’integrazione
dell’esperienza, che non sostituisce l’intuizione e non può mettersi al suo
posto, ma la completa ed arricchisce, già nelle sue discussioni con CROCE (si
veda), ora raccolte in L’estetica del Croce e la crisi dell’idealismo moderno,
Napoli. A. contrappone alla teoria dello pseudo-concetto, con la quale Croce
innesta nel ne^hegelianismo la dottrina di Mach intorno al valore puramente
pratico ed economico dei concetti. E questo motivo di ri-vendicazione del
valore teoretico della scienza è il nucleo che è rimasto costante nel pensiero
d’A. anche quando dal teismo delle sue prime Linee d’una concezione
spiritualistica del mondo, La Cultura filosofica, comparse poi come conclusioni
della traduzione inglese del suo saggio La reazione idealistica contro la
scienza (The Idealistic Reaction against Science, London) egli passa attraverso
la crisi della guerra mondiale a una concezione pluralistica del mondo. Questa
fase della sua filosofia, che comincia col saggio, La guerra eterna e il dramma
dell’esistenza (Napoli) e si sviluppa e completa per la parte gnoseologica nei
saggi La teoria di Einstein e le mutevoli prospettive del mondo (Palermo),
Relativismo e Idealismo (Napoli), Il problema di Dio e il nuovo pluralismo
(Città di Castello), è caratterizzata da un radicale sperimentalismo, il quale
però sia per i principi! da cui muove e le conclusioni a cui arriva, sia
specialmente per gli arditi procedimenti che segue, si allontana di parecchio
dallo sperimentalismo di Sarlo, come è facile scorgere dalla esposizione che
segue. La realtà, per A., è l’atto stesso di esperienza che ha due aspetti,
distinti, ma sempre uniti, il soggettivo e l’oggettivo. Non posso aver
coscienza di me senza distinguermi dal mondo e dalle altre persone. L’affermazione
della mia individualità implica dunque l’affermazione degl’altri individui e
del mondo, da cui mi distinguo. Non ha senso parlare d’un soggetto in sè o d'un
oggetto in sè, nè di soggetti come monadi solitarie fuori di questa relazione.
L’io e il mondo e le varie anime non esistono che nella sintesi concreta
dell’esperienza, come momenti, distinguibili, ma inseparabili, del suo
processo. Questa sintesi è, per A., l’unico vivente modello a immagine del
quale possiamo costruire le altre attività reali che non ci son date
all’intuizione immediatamente. E l’atto di esperienza col suo processo di
unificazione e distinzione del soggettivo e dell’oggettivo, come dell’individuo
e delle altre persone, col suo ritmo di concreta durata e la sua intuizione
dello spazio concreto, è l’unica forma a priori, soggettiva ed oggettiva
insieme. Le forme della nostra conoscenza, dunque, non sono pure apparenze;
bensì le forme stesse della realtà che si svolge, essendo questa appunto il
concreto processo dell’esperienza. Questo processo, per A., è inesauribile; non
ha nè principio, nè fine. Non ha senso domandarsi donde sia derivata la
esperienza. Ed è originaria la forma della sua distinzione nella pluralità
degli individui; pluralità che non esclude, come abbiamo già detto, la concreta
unità dell’esperienza, perchè nell’atto stesso in cui si coglie la distinzione,
si coglie insieme indissolubilmente l’unità dei termini distinti. I soggetti
d’esperienza son dunque originarli e imperituri nella loro eterna correlazione.
Possono da una forma oscura di vita elevarsi a una forma più consapevole e
chiara, o dalla luce della coscienza discendere nella penombra, ma non si
estinguono mai, non cessano di essere e di agire come spontanee energie motrici
del processo della realtà. Queste attività non sono originariamente coordinate
al raggiungimento d’un fine, allo svolgimento di un piano razionale che si at-
turi nella storia del mondo. La materia corrisponde alla fase in cui esse si
urtano disordinatamente in continui conflitti, dirigendosi a caso per la loro
spontaneità in tutte le direzioni. Statisticamente ne risultano medie costanti
di azioni complessive delle masse; onde l’apparente inerzia e uniformità della
materia. La vita dalle sue forme più semplici alle più complesse è il
coordinarsi di quella attività a un fine comune, che si raggiunge provando e
riprovando attraverso secolari esperimenti nell’evoluzione biologica e sociale.
E l’armonia del mondo non è mai completa, ma si va ancora realizzando
attraverso le più alte funzioni dello spirito: l’arte, la scienza, la religione
e la filosofia, che sono tutte forme diverse per le quali la vita
dell’individuo si integra progressivamente con la vita degli altri. E le
sintesi più alte si raggiungono sempre con l’esperimento: non c’è nessuna
teoria e nessun sistema che possa pretendere una giustificazione a priori: la
dialettica è arbitraria e infeconda. Agli abusi logici dei neo-hegeliani
l’Aliotta contrappone l’assoluto sperimentalismo della sua dottrina della
verità. Il vero non è nella corrispondenza a un modello oggettivo, sussistente
in sè; ma non è neppure nel processo puramente dialettico del pensiero. Una
teoria è vera se le azioni da essa suggerite riescono a realizzare un superiore
accordo delle nostre attività umane e delle altre innumerevoli energie operanti
nel mondo. E questo criterio non vale soltanto per le teorie scientifiche, ma
anche per i sistemi religiosi e filosofici che debbono sottoporsi anch’essi
all’esperimento storico. Non vi sono categorie immutabili e definitive, nè nel
mondo della natura nè in quello dello spirito. Tutte le forme di sistemazione
sono provvisorie e relative. Non c’è una verità assoluta, ma gradi diversi di
verità e realtà, secondo che realizzano forme più complete e integrali di vita
d’esperienza. L’errore, il falso non è quindi neppur esso tale in senso
assoluto; ma è una visione parziale, frammentaria, unilaterale rispetto a una
veduta più alta e più comprensiva. Tutte le intuizioni individuali, tutte le
varie prospettive sono vere e reali, ciascuna dal suo punto di vista; ma è più
vera e reale quella che riesce a coordinarle in una visione più completa da un
punto di vista più alto. E questo non esclude e cancella i punti di vista
inferiori, ma in sè li comprende integrandoli; dimodoché il progresso verso i
più alti gradi di verità è insieme un elevarsi a una maggiore ricchezza di
vita. Nel nostro pensiero è la realtà stessa che si tormenta nello sforzo di
attingere una superiore armonia. CALÒ (si veda) (n. Francavilla Fontana, in
prov. di Lecce) è professore di pedagogia nell’Istituto di Studi di Firenze.
Rivolse la sua attenzione dapprima ai problemi morali, ma con preferenza a
quelli che più direttamente si connettono a problemi filosofici d’ordine
generale e metafisico. Il suo primo lavoro importante, infatti, è quello
intorno al Problema della libertà nel pensiero contemporaneo (Palermo,
Sandron), che contiene un’analisi molto penetrante e un’ampia e sottile critica
del contingentismo e del prammatismo e di altre correnti contemporanee come il
neo-criticismo renouvieriano; e giunge all’affermazione del potere di libertà
come attitudine propria dello spirito individuale, presupposto indispensabile
della libertà etica; attitudine che si confonde con la stessa proprietà della
coscienza di porsi come un io, cioè come centro assoluto indeducibile e
irreducibiie d’ordinamento della realtà psichica e insieme d’energia
produttrice di fatti. Altri lavori ha dedicato il Calò a esaminare particolari
tendenze dell’etica moderna, come quello su l’ Individualismo etico nel sec.
XIX, premiato dall’Accademia Reale di Napoli, un quadro vasto e vivace delle varie
forme d’individualismo affermatesi non soltanto nella filosofia ma anche nella
letteratura del secolo scorso. Di fronte ad esse il C., mentre afferma
l’obiettività e universalità dei valori morali, riconosce insieme che questi
non hanno esistenza concreta nè azione effettiva se non nella sintesi vivente
della personalità, che è per ciò da porre come il valore etico supremo, come la
sola realtà fornita d’intrinseco valore morale. Queste idee che, nei due citati
lavori, costituiscono la conclusione o i principii ispiratori dell’esame
critico di svariati indirizzi dell’etica contemporanea, furono poi sviluppate e
sistemate, in forma di trattazione teorica della coscienza morale, nel volume
Principii di Scienza etica (Palermo, Sandron), preparato insieme col De Sarlo e
scritto dal C. In esso si illustra la specificità e l’immediatezza
dell’esperienza morale attraverso la quale si rivelano i principii etici
fondamentali, contro tutte le teorie che vogliono ridurre la necessità ideale a
necessità d’altro genere al che il C. ha
dedicato anche altri scritti minori, tra cui notevole il saggio su L’in-
terpretàzione psicologica dei concetti etici (in « Atti del Congresso di
psicologia » Roma). Vi sono inoltre definiti nel loro contenuto gli
oggetti-fini dell’attività umana, il cui va- ìore intrinseco è connaturato
all’esperienza etica. Ed è dato infine particolare sviluppo all’evoluzione
storica dei principii morali, la quale si fa consistere dal C. come, l’abbiamo visto, dal De S. nel successivo chiarirsi e purificarsi di
quei principii da elementi extramorali o paramorali; nella loro più rigorosa e
coerente esplicazione, resa possibile dallo sviluppo, oltre che della
sensibilità e della discriminazione etica, della cultura e del pensiero ; nella
successiva soluzione dei conflitti nei quali essi a volte vengono a trovarsi, e
nello sforzo sempre meglio riuscito di armonizzarli in valutazioni sintetiche;
nella estensione della loro applicazione a una sfera di realtà sempre più
larga. Pur occupandosi di problemi etici, il C. non ha mancato di portare il
suo contributo ad altri campi di discipline filosofiche (notevoli, p. es., i
suoi studi sulla dottrina del Brentano intorno al giudizio tetico e intorno
alla classificazione dei processi psichici, e parecchi saggi storici e critici
sul Boutroux, sul Bergson, sull’Allievo, sul Naville, sul Ladd, ecc.). Da
questi studi risulta che il C. è un seguace dello spiritualismo realistico, e
concorda sostanzialmente, in metafisica e gnoseologia, con le idee sopra
esposte del De Sarlo. Voltoli alla Pedagogia, il C. ha lavorato sulle medesime
basi. In questo campo i suoi principali lavori sono: La Psicologia
dell'attenzione in rapporto alla scienza educativa (Firenze, Tip. Cooperativa);
Fatti e problemi del mondo educativo (Pavia, Mattei e Speroni); Il problema
della coeducazione e altri studi pedagogici (Roma, Soc. ed. D. Alighieri);
L'educazione degli educatori. (Napoli, Perrella); Dalla guerra mondiale alla
scuola nostra (Firenze, Bemporad); per non citare i suoi scritti minori, specie
di storia della pedagogia, come quelli sul Lambruschini e sul Rousseau,
premessi ai volumi di questi autori, da lui stesso curati, nella Biblioteca
pedagogica ch’egli di¬ rige presso l’editore Sansoni. Il valore e il carattere
dell’opera pedagogica del Calò furono rilevati, con giudizio non sospetto, dal
Codignola, che nel 1916 af¬ fermò essere Calò « il più serio avversario della
pedagogia idea¬ listica in Italia » . Invero, il C., mentre ammette una
filosofia del¬ l’educazione e ne riconosce la fecondità,' non crede peraltro,
come l’idealismo sostiene, che la dottrina dell’educazione si riduca a
filosofia. Vi sono metodi relativi allo sviluppo delle attività psichiche, sia
in sè stesse sia in rapporto con quelle organiche, i quali non possono non essere
ricavati direttamente dalla conoscenza della realtà psichica e delle sue leggi,
quali si offrono all’esperienza e alla sperimentazione; vi sono norme educative
che si ricavano dalla determinazione dei fini etici dell’attività umana,
considerati in rap¬ porto al progressivo potere d’attuazione del fanciullo; vi
sono in¬ fine tipi e norme didattiche che si ricavano dall’esperienza storica e
da necessità storiche. Per il C., perciò, la pedagogia non può trovare la sua
sicura costituzione e la sua vera fecondità di vedute e di applicazioni che in
una concezione la quale, correggendo e integrando, riprenda la posizione
herbartiana e consideri le leggi psicologiche in funzione delle finalità
etiche. L’educazione è per lui pur sempre fatto essenzialmente spiri¬ tuale,
che si distingue da ogni altra forma di sviluppo o di perfezio¬ namento in
quanto vi collabora la libera attività del soggetto educando, e porta a un
sempre più pieno uso della propria libertà e all’acquisto sempre più
consapevole di valori intrinseci alla persona. Ciò che il C. nega è che
l’azione educativa si definisca per questo solo rispetto e sussista
indipendentemente da ogni forma di eteronomia: là dove i’eteronomia svanisce
ovvero si riduce a pura materia della libera determinazione del soggetto, si ha
l’attività etica strettamente intesa, non più il processo educativo. Per la
tendenza a psicologizzare il metodo, l’educazione appare al C. come un processo
di formazione nel quale le attività del soggetto e la forma valgono anche più
dei contenuto, degli oggetti, della materia del sapere o dell’operare, e gl
'interessi, nel senso her- bartiano, sono le forze che si tratta di nutrire e
di promuovere in Kant nella storia della
pedagogia e dell'etica, Napoli Nonostante ciò
o forse appunto per ciò —Codignola, facendo la storia della pedagogia
italiana contemporanea (nel libro Monroe Codignola, Breve corso di storia
dell’educazione, voi. II, Vallecchi, Firenz), si è contentato di accennare al
Calò ponendolo accanto a G. M. Ferrari, come seguace di un «indirizzo
spiritualistico eclettico»; e questo
raccostamelo come questa caratterizzazione sono stati poi echeggiati dal Saitta
nel suo Disegno storico della educazione, Bologna, Cappelli. modo da creare la
personalità più viva e compiuta e armonica. Perciò egli ha insistito sui
diritti della cultura Jormale, senza peral¬ tro porre nel nulla il valore degli
acquisti concreti (conoscenze e abilità), come vorrebbe fare un certo
formalismo e subiettivismo pedagogico superficiale. Ha mostrato la rispettiva necessità
e in¬ sostituibilità della cultura umana e storica e di quella realistica e
scientifica. Ha rivendicato l'esigenza d’un’educazione religiosa, elementare e
aconfessionale prima, storica poi nella scuola, confessio- sionale nella
famiglia. Infine dalla legge della storicità come aspet¬ to essenziale
dell’anima umana, egli deduce l'immanenza dell’idea di patria alla vita dello
spirito e quindi alla sua educazione. Questa perciò non può, secondo il C., non
essere nazionale, non può cioè non curare che ideali di cultura e di moralità
traggano dalla tradi zione storica e dalla organizzata esperienza del fanciullo
forma e colore che ne facciano, traverso le coscienze individuali, elemento di
vita, di coesione, di prosperità della società nazionale. E perciò, in tutto
quel che abbia riflessi e importanza per questo fine, l’istruzione,
l’educazione, la scuolà non possono non costituire ufficio e dovere dello
Stato, che è coscienza suprema, organizzazione unita¬ ria, garanzia
conservatrice della vita della nazione. Alla luce di questa concezione il C. ha
discusso e non soltanto in sede
scientifica, ma anche in Parlamento, dove egli ha seduto per due
legislature problemi concreti, come
quello del¬ l’ordinamento della Scuola media, della preparazione magistrale, della
riforma universitaria, dei rapporti tra scuola e famiglia, della coeducazione
ecc., mostrando sempre lucidità e prontezza di visione dei termini essenziali
di ogni problema e dei rapporti di esso con i principii dottrinari generali,
calore vivace e penetrazione nelle proposte di soluzioni. Lamanna (n. a Matera,
in Basilicata, professore di filosofia nell’Università di Messina) ha spiegato
la sua attività nel campo della filosofia della religione, dell’etica, e della
filosofia del diritto e della politica. Dopo alcuni studi minori sulle dottrine
religiose dello Schleiermacher, del Pfleiderer e delle scuole sociopsicologiche
più recenti, pubblicò un volume su La religione nella vita dello spirito,
(Firenze, La «Cultura Filosofica» edit.,), nel quale, attraverso un ampio esame
critico dei principali indirizzi di filosofia religiosa del sec. XIX, da Kant a
Blondel e a James, si sforza di determinare quale è per lui l’essenza della
religione, intesa questa essenza come il sostrato spirituale di tutte le forme
storiche della religione, come il principio dinamico informante e determinante
l’evoluzione della vita religiosa attraverso i secoli. Per il L. la religiosità
è elemento essenziale e perenne della vita spirituale umana: è un’esigenza
irriducibile alla coscienza dell’ideale (conoscitivo o estetico o morale),
sebbene nella coscienza dell’ideale, o, meglio, nella coscienza
dell’universalità e necessità dei valori costitutivi degli ideali immanenti
allo spirito, essa trovi la sua radice. In ogni atto spirituale v’è la
rivelazione, fatta a un’autocoscienza individuale, di qualcosa d 'assoluto
(universalità e necessità dei prin- cipii della ragione, intesa questa nel suo
senso più ampio) e, insieme, di qualcosa di relativo (elementi naturali,
particolaristici e contingenti, nei quali l’universale e il necessario volta a
volta si determina, ma sempre inadeguatamente). La natura stessa della
razionalità, la quale o è tutto o è nulla, o è universale o è una
fantasmagoria, determina nell’uomo l’aspirazione ad attuare pienamente in sè e
ad estendere a tutto l’universo il dominio dell’Assoluto. Ma, d altra parta, la
presenza del «relativo» dimostra per un lato che l’oggetto della razionalità,
il vero, il bene, il bello è indefinito, e contingente e parziale e continuamente
minacciato ne è, per l’attività umana, il possesso; e per l’altro lato che
nella realtà v’è qualcosa che non dev essere, qualcosa di anormale, di opposto
alla razionalità. Da questa situazione tragica lo spirito si libera mercè la
credenza in Dio, come fondamento reale di quello che nell’uomo è ideale, che
spiega, per una parte, la validità delle leggi ideali costitutive della
razionalità, e garantisce, per l’altro, l’indefinita attuabilità di esse,
nonostante l’inadeguazione ad esse della realtà empirica. Dimostrare come
dall’esercizio stesso delle funzioni fondamentali dello spirito scaturisca
necessariamente l’idea di Dio, nell’affermazione che quel che dev’essere è,
quel che pér noi è soltanto un ideale, ha già la sua piena attuazione in una
sfera trascendente di realtà, questo è il termine a cui tendono le
dimostrazioni del volume del L. I problemi morali sono stati dal L. esaminati
specialmente nei due volumi II sentimento del valore e la morale criticistica
(Firenze,) e II fondamento morale della politica secondo Kant (Firenze), a cui
si collegano studi minori, Il bene per il bene, L’amoralismo politico,
L'esperienza giuridica, Il diritto correlativo al dovere nell’idea di bene. In
quei due volumi si prende lo spunto dall’esame critico della dottrina Kantiana,
rilevandovi il contrasto, così tra il principio dell’autonomia e le conclusioni
rigoristiche dell’etica in generale, come tra le premesse idealistiche e
democratiche e alcune conclusioni assolutistiche e realistiche della morale
politica; e si dimostra che quel contrasto è conseguenza necessaria del
formalismo nella determinazione dell’ideale e del pessimismo nella
considerazione della realtà, inquanto, ipostatizzata la legislazione autonoma
nella volontà in sè e nella respublica noumenon, Kant vede nella realtà
individuale e sociale null’altro che inclinazioni al male e giuoco meccanico di
passioni. Da questi rilievi e dimostrazioni di carattere storico il L.. prende
occasione per affermare la necessità di un tramite che, eliminando il dualismo
tra l’ideale e il reale, renda possibile la compenetrazione di questo da parte
di quello. E siffatto tramite egli trova nella caratteristica funzione della
valutazione morale, rivelante con evidenza immediata oggetti della volontà
forniti d’intrinseco valore (beni universali e necessari), nell’amore attivo
per i quali si costituisce come valore supremo la personalità, e nella cui
indefinita attuabilità attraverso il succedersi delle generazioni è posta la
possibilità del progresso morale e della unificazione spirituale sempre più
piena della specie umana. Alla luce di questo principio il L.: 1) riconduce
nell’ambito della nozione di dovere —caratteristica dell’esperienza morale
anche quegli elementi che in opposizione al rigorismo kantiano son posti in rilievo
nella concezione morale dell’* anima bella» (Schiller e Fics), a proposito
della quale egli fa un ampio esame dei rapporti tra la funzione etica e quella
estetica. Illustra l’ordinamento giuridico come tecnica per l’ordinamento
morale: confutando i tentativi di ridurre il diritto a qualche concetto
estramorale, ne trova la radice nell’idea di bene morale e nella correlatività
al concetto di dovere, in quanto l’idea di lecito scaturisce dalla coscienza
della legittimità di respingere il limite e l’ostacolo postoda altri individui all’attuazione di un
bene conforme a un principio etico riconoscibile anche da questi ultimi: onde
la conclusione che se il contrasto è occasione per l’insorgenza della coscienza
del diritto, la sostanza ideale di questo è Varmonia, Y accordo-, e da questo
punto di vista sono idealmente giustificati gli elementi empirici costitutivi
della giuridicità (potere supremo e coattività). Afferma, infine, la sovranità
della morale in politica, mostrando come, entro l’amb'to stesso di una rigorosa
moralità politica, possano essere pienamente sodisfatte quelle esigenze alle
quali l’amoralismo politico dà il massimo rilievo; e dimostra, rimettendo in
valore alcuni elementi delle concezioni giusnaturalistiche, il valore
deontologico e il concetto ideale di certe nozioni della coscienza politica
moderna (come volontà generale, contratto originario, società dei popoli ecc.).
BONAVENTURA (si veda), libero docente e incaricato di psicologia nell’Istituto
di Studi Superiori di Firenze e assistente del De Sarlo nel Laboratorio di
psicologia sperimentale, dopo alcuni scritti minori di psicologia e di logica,
pubblicò un grosso volume su Le qualità del mondo fisico: studi di filosofia
naturale (Firenze, « Pubblicazioni del R. Ist. di St. Sup. »,), in cui i dati
della fisica, della chimica, della fisiologia non dirò solo che siano
largamente utilizzati, ma costituiscono addirittura la base per la soluzione
del problema, se sia o no possibile spiegare le differenze qualitative tra le
diverse energie fisiche riducendole ad un unico tipo di energia: problema che
il B. risolve in modo negativo, dimostrando che la riduzione delle molteplicità
qualitative delle energie fisiche ad un’unica forma nel senso del meccanismo e
di taluni indirizzi energetici, è illusoria. Posteriormente egli ha volto la
sua attività più in particolare agli studi e alle ricerche di psicologia,
compiuti, nel laboratorio diretto dal De Sarlo, coi metodi rigorosi propri
della psicologia moderna; ma la ricerca psicologica sebbene abbia anche, per
lui, un valore in sè stessa, come ricerca scientifica, e un valore sociale, per
le sue applicazioni, è stata ed è sempre, nell’economia dal suo pensiero, il
punto di partenza e di appoggio per salire verso la filosofia. Tra i problemi psicologici,
oltre ad alcune questioni di metodo (come queile del valore dell’introspezione
e- delle sue illusioni, a cui è dedicato il volume intitolato appunto Ricerche
sperimentali sulle illusioni dell'introspezione, Firenze, 1915), quello che lo
ha più attratto e su cui ha più lavorato, è il problema della percezione,
concepita come elaborazione intellettuale dei dati sensoriali, e in ispecie
della percezione dello spazio e del tempo: problema che da un lato connette la
ricerca psicologica con concezioni d’importanza fondamentale per la fisica e
per la matematica, dall’altra forma il punto centrale della teoria della
conoscenza. Intorno a questo problema egli ha lavorato da vari anni, sia
sottoponendo a revisione critica tutto il lavoro sinora compiuto sull’argomento,
sia compiendo egli stesso ricerche sperimentali per chiarire quei punti che
ancora gli sembravano non abbastanza illuminati. Alcune di queste ricerche
(concernenti l’attività del pensiero nella percezione tattile dello spazio; i
mezzi coi quali si stabilisce e i limiti entro i quali si contiene l’accordo
tra dati spaziali visivi e dati spaziali tattili; le illusioni
ottico-geometriche; l’importanza dei giudizi spaziali visivi nella psicofisica)
sono state già pubblicate in Riviste di psicologia italiane e straniere; ma la
somma di tutte le ricerche e di tutti gli studi costituisce un grosso volume
già pronto, ma ancora inedito —, in cui il problema psicologico dello spazio e
del tempo e le conseguenze filosofiche che ne scaturiscono, sono trattati in
tutti loro asp. Antonio Aliotta. Aliotta. Keywords: esperienza, l’implicatura
di Lucrezio, sacrificare, significare, sacrificare, guerra eternal. aliotta l’implicatura di lucrezio il filosofo di
campagna la guerra eterna — sacrificare/significare — croce — il latinismo
dello storicismo — galilei — vico – lucrezio -- epicureismo campano -- Refs.: Luigi Speranza,
Grice ed Aliotta” – The Swimming-Pool Library.
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