Grice
e Bolano: all’isola -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della colloquenza romana – scuola
di Catania -- filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Catania). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: “I was
born at Harborne, but there’s no volcano there- Bolano was born in Catania, and
he is especially revered THERE, rather than at Oxford, because he was able to
see some monuments – notably the Naumachia and the Hippodrome – before it was
covered by ‘lava’ –“ –“Oddly, when he philosophised on rhetoric – he used that
as a blurb – many philosophers traveled to Catania to be tutored by him – vide
Salonia --. So he used the blurb of his expertise on Catania to promote -- or rather his editor did, since
he is a gentleman, and a gentleman does not promote – his work on rhetoric --.”
“There are very few copies of this!” – “And Evola tired in vain – ‘in vano’ –
to find one!” Assai scarse sono le notizie sulla sua
vita. Quel poco che sappiamo viene riassunto nell'opera del Mongitore. Insegna
filosofia a Catania. Uno dei più eminenti esponenti dell'ateneo catanese: chiamato
“philosophiae peritissimus”, acquisce grande fama. Insegna a Palermo come
lettore con il "favoloso stipendio di ottocento onze annue"; Seguace
della tradizione aristotelica. Tipico esempio dell’umanista, unendo l'interessi
per la natura e la filosofia romana antica.
Stampa a Messina un “Opus logicum”, compendio di filosofia aristotelica
e frutto del suo insegnamento logico. Stampa anche di retorica e fisica ed
abbiamo notizie di un saggio naturalistica sull'Etna, il Discorso di
Mongibello. Ma l'opera cui maggiormente è legato è un “Chronicon urbis Catinae”,
in cui ci lascia preziose notizie e descrizioni su Catania e le sue vestigia
storiche prima di una catastrofica eruzione dell'Etna che profondamente ne
cambiò paesaggio, fisionomia ed urbanistica.
Il Chronicon rappresenta un raro esempio di indagine archeologica
diretta su Catania e rimase uno dei pochi lavori utili e seri sulle antichità
della città etnea. Riguarda, tra l'altro, la fondazione di Catania, l'anfi-teatro
romano, l'acquedotto romano, gli archi, il tempio di Cerere, la naumachia, l'ippodromo.
Per questi ultimi due edifici è la prima ed unica fonte a noi rimasta. Carrera
e Grossi attinsero direttamente dal manoscritto, traendone spunto per le loro
opere e pubblicando i pochi frammenti a noi rimasti. Eppure Bolano sube una grave umiliazione. Nell'anno
in cui si perdono le sue tracce, presentatosi a chiedere l'incarico di
filosofia nell'Università dove con onore insegnava da oltre quattri decenni, i
filosofi ecclesiastici lo contrastarono preferendo Riccioli. Il venerando
filosofo riottenne l'insegnamento solo per grazia del viceré Pietro Giron de
Osuna, una nomina, sottolinea Matteo Gaudioso, peggiore di una sconfitta, forse
la prima e ultima umiliazione del B., scomparso successivamente dalla scena. Fu
il suo ultimo anno di insegnamento e forse di vita. Antonino Mongitore, Bibliotheca sicula, sive
de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt. Storia
della filosofia in Sicilia da'tempi antichi, libri quattro. Archivio storico
per la Sicilia. Catanense Decachordon, Catanae. La Sicilia del Cinquecento: il
nazionalismo isolano, Roma, Mursia, Storia della filosofia in Sicilia da' tempi
antichi, libri quattro. Rivista internazionale di filosofia del diritto, Giorgio
Del Vecchio, Società anonima poligrafica italiana, Bibliotheca sicula, sive de
scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt Osservazioni sopra la storia di Catania
cavate dalla storia generale di Sicilia,Vincenzo Cordaro Clarenza Riggio, Sopra
uno rudere scoperto in Catania cenni critici dell'arch. Mario Musumeci, Mario
Musumeci, dalla tipografia della regia Università, L’indagine archeologica a
Catania e B., in Archivio Storico per la Sicilia. Edilizia pubblica e privata
nelle città romane, Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, L'ERMA di BRETSCHNEIDER,
Carrera, Delle Memorie historiche della città di Catania, I, Catania, Catanense
Decachordon, Archivio di Stato di Palermo, Tribunale del R. Patrimonio,
Memoriali. Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia. Napoli, Guida. L'Catania,
in Storia della Catania dalle origini ai
nostri giorni, Catania, Zuccarello e Izzi. Delle Memorie historiche della città
di Catania, I, Catania. Catanense Decachordon, Catinae, Antonino Mongitore,
Bibliotheca sicula, sive de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum
recentiora saecula illustrarunt, D. Bua, Sopra uno rudere scoperto in Catania
cenni critici dell'arch. Mario Musumeci, dalla tipografia della regia Università.
Storia della filosofia in Sicilia, Lauriel, Guido Libertini, L'indagine
archeologica a Catania e B. in Archivio Storico per la Sicilia Orientale. Dizionario
biografico degli italiani. 0 habmio L'imperatore Carlo V abdicando il
trono lascia nel re Filippo II suo figlio un principe intento ad ingrandireil
suo impero ed estendere isuoi domini:I vicerèdisseminati La mente del vescovo
Nicolò Caracciolo era rivolta a liberare la cattedrale di Catania non
ASTE Dorp Vel per BIOGRAFIA SICILIANA Catania, B.. Je secolo xvi scorreva
per Catania,, e forse per 1 Europa tutta, se la Sicilia di coltura, non in
iscevro di lustro o mancante tieramente purgatoperò ancora da'tristieffetti del
vandalica e della gotica barbarie, ed la ignoranza discipline mostravansi a
dito. icultoridelle buone le provin cie, e per mezzo de' quali lostato
de'sudditi pre come per 2 ' do stabile o sicuro di quanto operavasi da loro gli
animi di tutti erano irresoluți ed incerti, e Catania,vedevain alloraisuoi
cittadinioccupati soltanto del presente,interessarsi piùdicontese ed intestíni
partiti, che delle scienze e delle lettere. dalla diversi negli umori e nelle
in clinazioni, dgiotvernavanoi popoli con principi se non senza de'Cassinesi,
ed a riporvi in vece i canonici secolari. Il vicerè Lacerda fa diroccare la
casa del la Università degli studi'ed altre abitazioni per in
grandirelapiazzadel duomo. Marcantonio Colon na, successor suo, interpone la
sua autorità a con 20 pre ciliare le dispute del vescovo Coltello
colsenato.La corte di Romaè costrettaa chiamare ad ubbidienza il vescovo che
acremente contrastava col vicario apostolico Matteo Samiati. Controversielunghe
ed ostinaleinsorgono fra'i Catanesi e i Palermitani ecclesiastici Se in tale
condizione ditempi l'Università di Catania fioriva,ciò debbesi alla sovrana
protezione, che riguardar vuolsi per le lettere come il raggio del sole che
vivifica gli esseri e dà movimenti o p portuni al loro sviluppo. Dietro le
favorevoli rap presentanze di Marcantonio Colonna, il re Filippo volge benigno
lo sguardo al liceo catanese,ed il vicerèinterpetre della sovrana volontà,in
com penso del devastamento ordinatodalsuo predeces sore Lacerda da lui sì
discorde, fa costruire un nobile edifizio per la Università, corrispodente al
la magnificenza di Catania (d),e forma i regola menti per gli studi (e).
Filippo provvede di più, per mezzo del vicerè conte di Alba (f ), che i soli
laureati in Catania aspirar potessero alle magistra Ut perpetua jurgiorum
semina inter episcopum patresque conscripti collerentur.Amico,
Cat.illustr.,lib. VIII, c. 2. (Detti Constitutiones Marci Antonii Columnde,
1576. per patria di s.Agata. I nostri magnati erano tutti intesi a
stabilire la loro sacra congregazione dei Bianchi, a loro esempio (c) gli altri
ceti aumen tano le rispettive confraternite. Denuo Romam ille interpellator eorumquaeges
serat rationem redditurus. Amico, loc. cit. $ la 42 (c) Nel 1570. Ul
urbismajestatiresponderet.Amico,loc.cit. ture: autorizza le ingenti speseche
ilvescovo Pro spero Reibiba, non lascindo sfuggire le favorevoli disposizioni
del governo, impiegava nel portare a compimento l'edifizio, e non permette che
alzasse Messina un'altra Università. Accrescevasi in tal modo il numero dei
discenti in Catania; e l ' o nore di ammaestrare nella sola Università del re
gno,ed isignificanti stipendidallasovranamuni ficenza aumentati, incoraggiavano
i dotti a lasciar le brighe volgari, a rivolgersi alla coltura delle
lettere,edasegnalarsi nel pubblico insegnamento. (f Dopo averdettato questo
articolo ho saputo che nellabiblioteca de'PP.Benedettinidi questa città avvi un
esemplare dell'Opus logicum, Messanae Mongitore, Bibl, sic. c) Grossis, Dec.
ix, 151. Fra gli uomini scienziati che onoravano illi ceo catanese nel finedel
xvi secolo distinguevasi Lorenzo B. nato in Catania. Per più di anni 20 vi fu
professore di medicina, di cui avea dato lezioni anche presso l'estero, ere soave
acelebreilsuonomeperlesuecono scenze matematiche ed anatomiche, e pel gusto
nella latina poesia. Seguendo le aristoteliche dottrine, volle pnbblicare per
le stampe di Brea in Messina un libro di istituzioni filosofiche sotto il
titolo di Opus logicum, ed un altro di rettorica libri divenuti oramai così
rari da non petersi trovare chi ne avessenotizie. Ma ciavanzanope rò i
frammenti di opere più solide che tanto ap prezzar seppe l'accurato Carrera.
(a) Nel settembre del 1595. Amico, P
Amico,Cat.il.,lib.xu,c.v. e )Mongitore, Bibl.sic. Un Discorso sopra Mongibello
conteneva la descrizione fisica di questo vulcano, e la storia di molte sue
eruzioni. Carrera fa rilevare nel capi tolo della sua opera (a)in cui tratta
del mont Et na, aver ricavato da quel discorso quanto riguarda la misura
dell'altezza del vulcano,le sue regioni, la fertilità del suolo, la storia
delle sue eruzioni; e queste doveano da B. rapportarsi con som m a esattezza,
imperciocchèegli giungeva a notare anche il tempo in cui l'Etna non eruttava,co
me avvenne per anni trenta dopo la grande eruzione, durante la quale, come dice
lo stesso Bolano, formossi quel cratere oggi detto Monte negro.
Selesueideecircala origine degli incendî vulcanici non sono da riferirsi,è
colpadei tempi, in cui limitatissime erano le conoscenze de'feno meni naturali,
e basta il dire chei scriveva nel 1588. Ma l' Quel pregevole manoscritto
conservavasi in mani del di lui figliuolo Girolamo Bo Carrera, Notizie
istor.'di Catan., lib.'11, c. 2. Così dice il Grossis, ilMongitore eco.,ma
l'ab. Amico chiama quelmanoscritto Opusculum de rebus Catanae. Tom.3, lib.14,42.
44 1 opera che principalmente gli fa meri tare il rispetto e la riconoscenza
de'suoiconcittadini fu quellascritta in latino per illustrare la storia di
Catania, e che portava il titolo di Chronicon urbis Catanae; ed abbenchè non
fosse stata mai pubblicata per intero,fu quella però da cui tanto giovaron si
l'Arcangelo, il Carrera, il Grossis e molti altri che delle notịzie sto riché
di Cataniasi sono occupati. Vetusta Catanae monumenta e lenebris eruens primus
vulgavit. Amico. mare il piano del duomo(d), edaltempiodi Castore e Polluce
quelli presso il nuovo vico, die tro,ilForo lunare. Stima essere stato di Marcello
un busto marmoreo di squisito lavoro,che conservossi per lunga serie di anni
nella chie as di s. Agata, finchè Ferdinando de Vega non lo regalasseal
chitaristaPietro Murabito da Messina. La sua descrizione poi dell'anfiteatro
èdistintaed eloqnente, efa conoscere che il luogo ove erasi fabbricato
appellavasi Cam po stesicoreo Restavano sino ai suoi tempi tali avanzi
de'corridori e delle mura circolari, quanto potè misurarsi più dicento piedi:
calcolò cheil diametro dell'arena ascendeva a 290 piedi, ma colle fabbriche de'corridoja
490,coni470piedi di 45 for lano, da cui l'ebbeprestato il Carrera,come egli
stesso confessa: e quali cognizioni ne ab bia ricavato questo
storicolaborioso,può ben ve dersi in tutto il corso della sua opera, e princi
palmente ove trattasidegli antichi monumenti. Il B. che fu il primo a
descrivere le antichità catanesi, riconobbe ivestigi del tem piodi Cerere, fuoril'antica
Porta reale pressole müra della città, sulla collinetta appellata Torre del
vescovo,oggi covertadal Bastione deglinfetti. Credè doversi riferire al tempio
diBacco li ruderi a fianchi delle terme,oggi demoliti per Carrera. B. presso
Carrera circonferenza. Le porte della esterna facciata era no larghe 18
piedi,e doveano essere60 in numero, a 7 piedi distanti una dall'altra. Con
eguale esattezza rapporta le misure del l'odeo, detto da lui piccolo teatro, ed
el gran teatro, da cui furono svelte molte colonne di marmo, oltre ai materiali
tolti per le fabbriche moderne. Situa la naumachia presso l'antica por ta della
decima, e descrive non solole mura ed i ruderi che esistevano allora, ma
dell'uso della naumachia da archelogo ragiona, come fa per ilcontiguo ippodromo.
Tutti descrive i resti delle terme che scopri vansi a'suoi tempi in Catania, riforisce
lemi sure della fabbrica dell'arco diMarcello,ed ammi ra la solidità del
cemento e l'architettura. Ma sopratutto elegantissima è la descrizione degli
acquedotti che portando le acque soprala collina ove oggi è il quartiere del Corso,
le distribuiva no perlacittà; e dal Corso delle acque quell sito trasse il
nonne che fin oggi conserva. Zelantissimo B. del vero decoro della sua patria
mal soffiriva il poco conto in che tene vansi que resti del di lei antico
splendore. I cit tadini catanesi, pochissimi eccettuati, in quel tempo, come abbiamo
osservato, poco o nulla calco Molessane calcis ubertate et aelneorum lapidum
concinnitate tamcelebris,utmiraripotiusquam obser vare debeamus. Quingentoscirciterannosab
Ansgerioepisco po catanensi dirutum est, ut divae Agathae, comitis Rogerii
sumptibus,struerentur aedes:cujus et gratia theatra ruinam experta sunt. Loc.
cit. Columnarum plurimae et concinnati lapides ab Ansgerio translati sunt
omnes,ut decorticatum jure pos sit appellari theatrum istud. lar potevanoil
valore di sì veneranda antichità: e l'arco di Marcello dopo il tremuoto
soffriva la ultima sua rovina per la fabbrica della chiesa di s. Caterina, poi
confraternita de' Bianchi.Le pietre intagliate dell'anfiteatroe del teatro
servirono al vescovo Angerio per la costruzione del duomo, ed il resto
impiegossi in appres so alla fabbrica delle cortine delle muraglie. Il duomo
stesso alzavasiin gran parte sopra antiche terme: sull'anfiteatro ergeansi
chiese ed abitazioni di privati, come ugualmente sopra la scena ed i corridori
del teatro. I Assisoeglisu' ruderidiquei gloriosimonu menti, simileal franco
viaggiatorea vistadelle rovine di Palmira, meditava a quale insultante di
menticanza condannavali il tempo, come egli contentasididire,pernon
urtardifronte, iocre do, la ignoranza e la barbarie: e da pertutto nel
lasuaopera, fatralucere ilsuorammarico,quan do parladelteatro e dell'anfiteatro.
Scorgesi nel dilui manoscritto la grande ac curatezzache egliusava
nelleosservazioni,ela diligenza nelle misure. Animirando la maestà di quegli
avanzi scriveva quasi entusiastato, par che
Quae sola temporis diuturnitate sunt perpeluae oblivioni tradita. la
lingua prestavasi allora, al suo genio, e lo stile del suo Chronico fa in certo modo ammirarsi. LIR. Nè ilsuo
zelo per la patria limitato erasól tanto a mettere in luce ladi leiantica gloria;
B. lo estendeva a tutta possa alla di lei effet tiva prosperità nell'.
vistadeipositivi dannicherecavano allasalutepub blica le acque dell'Amenano,
raccoltenell'antica Piazza dell'erbe, per uso di alcuni mulini iyisesi stenti, caldeistanzeavanzòalsenato
onde:toglie re quel fomite d'infette esalazioni, e seppe tanto insistere colla
sua medica autorità,cheriuscita diroccareimuliniedar, liberocorso alleacqueper
appositi canali sino al mare. Charts ! Tutto misein opera in fineonde
ricostruisse Catania il suo molo. U n ragionato discorso scris sealsenato, incuifeconoscere
comeperlamu mficenza del re Alfonso il magnanimo la fabbrica del molo erasi
cominciata ip. Catanianel, che si era dell'opera desistito alla morte di quel i
fundiores ductus concinnatis lapidibus confecto saqua maredelata, atque omni perniciosa
humiditate sublata. intero Non sarà fuor diluogo ilrapportare'per quel passo
ove B. parla della magnificenza di Gatan j a 'nell'aver trasportato da Licodia
le acque in città: <e.Hinc mirari non desino priscam illam urbis rosirae
majestatem pene incredibilem, quae tot pariter quot h o die insignita fontibus
ac putealibus aquis BE op A, refertissima, effatudignissimis sumptibus
aquamhanc eLicodia, milliaribus sexdecim distantem, qua Naumachiąm et
Thermescompleret,domos pariteretdetergeretet or, naret est emerita, ut qui et
situ ei climale pro studiorum domicilio purissimusaer est defecatus, insuper in
cię vium columitatem vel arte eficeretur: cit. ad Se la memoria
degl'illustritrapassati servir debbedi modello alla condotta de'viventi, B. è uno
diqueipochi alcertocheimitar dovrebbonsi da'veri cittadini:imperciocchè einon
giovossi delle scienze per sola coliura del súd spi rito, ma curò dirivolgerle
ad utilepubblico,e efece onore alla patriamettendo in luce imonu menti del di
lei antico splendore: diè opera onde cessassero i fomiti che il puro aere ne
infettavano, e procurò, per quanto valevano le sue forze, che ampie ricchezze
ritraese Catania dalcommerciom a GEMMELLARO.
at titis Quippequipro statuendamoleni hil'non'ani madvertit utile et
commodum publicis civitatum et'op pidorum adjacentium sumptibus pro
publiciaeris copia struendum regia potestate praecepit. Mortepraeventus suo
tempore exorsus non perfecie.Posteri vero pelfucata negotii dificultateperterriti,
velreimomentum"tam ada mirabilenon agnoscentesaversiprimordiorumruinam
nonrepararunt ípoinel16obecc.)!. Opus logicum B.
Siculi Catanensis philosophiae, ac medicinae professoris candidissimi, nec non
in almo studio vrbis Catinæ lectoris celeberrimi. In quo scientias cum
callentibus, tum adepturis necessaria duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte
recepta breuiter, ac peripatetice traduntur OPVS LOGICVM B. SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC
NON IN ALMO STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS
TVM ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE
TRADVNTVR OPVS LOGICVM SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII
CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO
SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT EX
ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVR Opus logicum. Mess. Metaphysica, Naluralis Philosophia,
Praedicamenta, nec non Theologia Naturalis.Ven.in fol. OPVS LOGICVM
LAVRENTII BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO
STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS
NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE
TRADVNTVROpus logicum Laurentii Bolani Siculi Catanensis philosophiae, ac
medicinae professoris candidissimi, nec non in almo studio vrbis Catinæ
lectoris celeberrimi. In quo scientias cum callentibus, tum adepturis
necessaria duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte recepta breuiter, ac
peripatetice traduntur Lorenzo
Bolano. Bolano. Keywords: dialettica, colloquenza romana, i romani a Sicilia –
sicilia regione dell’impero romano, filosofia romana antica – filosofia romana
nella monarchia; filosofia romana nella repubblica, filosofia romana
nell’impero. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bolano” – The Swimming-Pool
Library. Bolano.
Grice e Bonaiuti: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- Eppur si muove – scuola di Pisa – filosofia
pisana – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pisa). Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo
italiano. Pisa, Toscana. Grice: “There is a Buonaiuti; but this is BON-!” Galileo
B. – tomba a Firenze. Galileo Galilei. Grice: “His father was, like mine, a
musician.” – “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che
continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si
può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i
caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i
caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali
mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi
vanamente per un oscuro laberinto”. Personaggio chiave della rivoluzione
scientifica, per aver esplicitamente introdotto il metodo scientifico (detto
anche "metodo galileiano" o "metodo sperimentale"), il suo
nome è associato a importanti contributi in fisica e in astronomia. Di primaria
importanza fu anche il ruolo svolto nella rivoluzione astronomica, con il
sostegno al sistema eliocentrico e alla teoria copernicana. I suoi principali
contributi al pensiero filosofico derivano dall'introduzione del metodo
sperimentale nell'indagine scientifica grazie a cui la scienza abbandonava, per
la prima volta, quella posizione metafisica che fino ad allora predominava, per
acquisire una nuova, autonoma prospettiva, sia realistica che empiristica,
volta a privilegiare, attraverso il metodo sperimentale, più la categoria della
quantità (attraverso la determinazione matematica delle leggi della natura) che
quella della qualità (frutto della passata tradizione indirizzata solo alla
ricerca dell'essenza degli enti) per elaborare ora una descrizione razionale
oggettiva[N 6] della realtà fenomenica. Sospettato di eresia e accusato di
voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture,
Galilei fu processato e condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22
giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella
propria villa di Arcetri. Nel corso dei secoli il valore delle opere di Galilei
venne gradualmente accettato dalla Chiesa, e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992,
papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle
scienze, riconobbe "gli errori commessi" sulla base delle conclusioni
dei lavori cui pervenne un'apposita commissione di studio da lui istituita nel
1981, riabilitando Galilei. La casa natale di G. Abitazione all'800
Abitazione in via Giusti Dal libretto di battesimo di Galileo riportante come
luogo "in Chapella di S.to Andrea", si credeva fino alla fine
dell'800 che Galileo potesse essere nato vicino alla cappella di Sant'Andrea in
Kinseca nella fortezza San Gallo, il che presumeva che il padre Vincenzo fosse
un militare. In seguito fu identificata casa Ammannati, vicino alla Chiesa di
Sant'Andrea Forisportam, come la vera casa natale. Figlio di Vincenzo G. e di
Giulia Ammannati. Gli Ammannati, originari del territorio di Pistoia e di
Pescia, vantavano importanti origini; Vincenzo G. invece apparteneva ad una
casata più umile, per quanto i suoi antenati facessero parte della buona
borghesia fiorentina. Vincenzo era nato a Santa Maria a Monte, quando ormai la
sua famiglia e decaduta ed egli, musicista di valore, dove trasferirsi a Pisa
unendo all'esercizio dell'arte della musica, per necessità di maggiori
guadagni, la professione del commercio. La famiglia di Vincenzo e di
Giulia, contava oltre G.: Michelangelo G., musicista presso il granduca di
Baviera, Benedetto G., morto in fasce. Dopo un tentativo fallito di inserire G.
tra i XL studenti toscani che venivano accolti gratuitamente in un convitto di
Pisa, e ospitato senza spese da Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino
di battesimo di Michelangelo G., e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle
necessità della famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro. A Pisa, G.
conosce Bartolomea Ammannati che cura la casa del rimasto vedovo Tebaldi il
quale, nonostante la forte differenza d'età, la sposa, probabilmente per metter
fine alle malignità, imbarazzanti per la famiglia G., che si facevano sul conto
della giovane nipote. Successivamente fa i suoi primi studi a Firenze, prima
col padre, poi CON UN MAESTRO DI DIALETTICA e infine nella scuola del convento
di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio. Vincenzo iscrive
il figlio a Pisa con l'intenzione di fargli studiare medicina, per fargli ripercorrere
la tradizione del suo glorioso antenato Galileo Bonaiuti e soprattutto per
fargli intraprendere una carriera che poteva procurare lucrosi guadagni.
Nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di quegli anni, la sua
attenzione e presto attratta dalla semiotica, la logica, e la matematica – lo
studio del segno -- che comincia a studiare sfruttando l'occasione della
conoscenza fatta a Firenze di Ricci da Fermo, un seguace della scuola
matematica di Tartaglia. Caratteristica del Ricci e l'impostazione che egli
dava all'insegnamento della matematica: non di una scienza astratta o formale,
ma di una disciplina materiale che serve a risolvere i problemi pratici legati
alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche. E, infatti, la linea di studio
Tartaglia-Ricci (prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad
Archimede) a insegnare a G. l'importanza della precisione nell'OSSERVAZIONE dei
dati e il lato prammatico della ricerca scientifica. È probabile che a Pisa
segue anche i corsi di filosofia naturale (fisica) tenuti dal liziio BONAMICI.
Durante la sua permanenza a Pisa arriva alla sua prima, personale scoperta, che
chiama l' “iso-cronismo” nelle oscillazioni di un pendolo. Rinuncia a
proseguire gli studi di medicina e anda a Firenze, dove approfondì i suoi nuovi
interessi, occupandosi di meccanica e d’idraulica. Trova una soluzione al
problema della corona di Gerone inventando uno strumento per la determinazione
idrostatica del peso specifico dei corpi. L'influsso di Archimede e dell'insegnamento
del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi.
Cerca intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni
private a Firenze e a Siena, anda a Roma a richiedere una raccomandazione per
entrare nello studio di Bologna a Clavius, ma inutilmente, perché a Bologna gli
preferirono alla cattedra Magini. Su invito dell'accademia fiorentina tenne due
lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno, difendendo le ipotesi
già formulate da Manetti sulla topografia dell'Inferno. G. si rivolse allora a
Monte, matematico conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni
matematiche. Monte e fondamentale nell'aiutare G. a progredire nella carriera
quando, superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di
Cosimo de' Medici, lo raccoma al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte,
che a sua volta parla con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici.
Sotto la sua protezione, ha un contratto triennale per una cattedra a Pisa,
dove espose chiaramente il suo programma, procurandosi subito una certa
ostilità nell'ambiente accademico di formazione lizia. Il metodo che sigue e
quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai
supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno
insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi
filosofi quando insegnano elementi fisici. Per conseguenza quelli che imparano,
non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè
perché le ha dette ARISTOTELE. Se poi e vero quello che ha detto ARISTOTELE,
sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché
hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici che una tesi sia
contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla
esperienza e alla ragione. Frutto dell'insegnamento pisano è “De motu
antiquiora”, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar
conto del problema del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato,
pubblicato a Torino, “Diversarum speculationum mathematicarum liber d
Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell'IMPETO come causa del
moto violento. Benché non si sapesse definire la natura dell’impeto impresso a
un corpo, questa teoria, elaborata da
Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini, pur non essendo in grado
di risolvere il problema, si oppone alla tradizionale spiegazione aristotelica
del movimento come prodotto del mezzo nel quale IL CORPO ANIMATO stesso si
muove. A Pisa G. non si limita alle sole occupazioni scientifiche.
Risalgono infatti a questo periodo le sue “Considerazioni sul Tasso” che
avrebbero avuto un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note
sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della
Gerusalemme e dell' “Orlando furioso” dove, mentre rimprovera al Tasso la
scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò
che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido
delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di
questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del
fantasma poetico. La morte del padre lo lasciando l'onere di mantenere tutta la
famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, dove provvedere alla dote,
contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze della
sorella Livia con Galletti, e altri denari avrebbe dovuto spendere per
soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo. Del
Monte intervenne ad aiutare nuovamente, raccomandandolo al prestigioso studio
di Padova, dove era ancora vacante una catedra dopo la morte di Moleti. Le
autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un
contratto, prorogabile, di IV anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno.
Tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni comincia un corso
destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi sarebbe restato
per diciotto anni, che avrebbe definito «li diciotto anni migliori di tutta la
mia età. Arriva a Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di BRUNO a
Venezia. Nel dinamico ambiente di Padova (risultato anche del clima di
relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana), intrattenne rapporti cordiali anche con
personalità di orientamento filosofico lontano dal suo, come CREMONINI filosofo
rigorosamente lizio. Frequenta anche i circoli colti e gli ambienti senatoriali
di Venezia, dove stringe amicizia con Sagredo, che G. rese protagonista del suo
Dialogo sopra i massimi sistemi, e SARPI, esperto di semiotica. È contenuta
proprio nella lettera al frate servita
la formulazione della legge sulla caduta dei gravi. Gli spazii passati dal moto
naturale esser in proportione doppia dei tempi, e per conseguenza gli spazii
passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le altre cose. Et il
principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con
quella proportione che si discosta dal principio del suo moto. G. tiene a
Padova lezioni di meccanica: il suo “Trattato di meccaniche” dovrebbe essere il
risultato dei suoi corsi, che hanno origine dalle “Questioni meccaniche” di
Aristotele. A Padova G. attrezza con l'aiuto di un artigiano che abitava
nella sua stessa casa, una officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbrica
strumenti che vende per arrotondare lo stipendio. Perla macchina per portare
l'acqua a livelli più alti ottenne dal Senato veneto un brevetto ventennale per
la sua utilizzazione pubblica. Da anche lezioni private e ottenne aumenti di
stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente passa ai 1.000. Una nuova stella e osservata d’Altobelli, il
quale ne informa G.. Luminosissima, e osservata successivamente anche da
Keplero, che ne fa oggetto di uno studio, il De Stella nova in pede
Serpentarii. Su quel fenomeno astronomico G. tenne III lezioni, il cui testo
non ci è noto, ma contro le sue argomentazioni scrive un opuscolo Lorenzini,
sedicente lizio originario di Montepulciano, su suggerimento di CREMONINI, e
intervenne a sua volta con un opuscolo anche Capra. Interpreta il fenomeno
della nuova stella come prova della mutabilità dei cieli, sulla base del fatto
che, non presentando la nuova stella alcun cambiamento di parallasse, essa
dovesse trovarsi oltre l'orbita della Luna. A favore della tesi si
pubblica “Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito della Stella
Nuova. Ronchitti difende la validità del metodo della parallasse per
determinare la distanza minima di cose accessibili all'osservatore solo
visivamente, quali sono gl’astri. Rimane incerta l'attribuzione del dialogo, se
cioè sia opera dello stesso G. o di Spinelli. Compose II trattati sulla
fortificazione, la breve introduzione all'architettura militare e un trattato
di fortificazione. Fabbrica un compasso, che descrive in “Le operazioni del
compasso geometrico et militare” (Padova). Il compasso e strumento già noto e,
in forme e per usi diversi, già utilizzato, né G. pretese di attribuirsi
particolari meriti per la sua invenzione. Ma Capra lo accusa di aver plagiato
una sua precedente invenzione. Ribalta le accuse di Capra, ottenendone la
condanna da parte dei Riformatori dello Studio padovano e pubblica una Difesa
contro alle calunnie et imposture di Capra, dove ritorna anche sulla precedente
questione della nuova stella. L'apparizione della nuova stella crea grande
sconcerto nella società e G. non disdegna di approfittare del momento per
elaborare, su commissione, oroscopi personali, al prezzo di 60 lire venete.
Peraltro, e messo sotto accusa dall'inquisizione di Padova a seguito di una
denuncia di un suo ex-collaboratore, che lo aveva accusa precisamente di aver
effettuato oroscopi e di aver sostenuto che gl’astri determinano le scelte
dell'uomo. Il procedimento, però, e energicamente bloccato dal Senato della
Repubblica veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di
esso non giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al
Sant'Uffizio. Il caso venne probabilmente abbandonato anche perché G. si e
occupato di astrologia natale e non di astrologia pro-gnostica o
previsionale. La sua fama come autore d’oroscopi gli porta richieste, e
senza dubbio pagamenti più sostanziosi, da parte di cardinali, principi e
patrizi, compresi Sagredo, Morosini e qualcuno che si interessa a Sarpi.
Scambia lettere con Gualterotti, e, nei casi più difficili, con Brenzoni. Tra i
temi natali calcolati e interpretati figurano quelli delle sue due figlie,
Virginia e Livia, e il suo proprio, calcolato tre volte. Il fatto che si
dedicasse a questa attività anche quando non e pagato per farlo suggerisce che
egli vi attribuisse un qualche valore. Non basta guardare, occorre guardare con
occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono. (if you see that p, because
you want that p). Non sembra che, nella polemica sulla
nuova stella, G. si e già pubblicamente pronunciato a favore della teoria
elio-centrica di Copernico. Si ritiene che egli, pur intimamente convinto
copernicano, pensasse di non disporre ancora di prove sufficientemente forti
d’ottenere invincibilmente l'assenso della universalità dei filosofi. Tuttavia,
espressa privatamente la propria adesione al copernicanesimo a Keplero – che
pubblica il suo Prodromus dissertationum cosmographicarum scrive. Ho già
scritto molte argomentazioni e molte confutazioni degl’argomenti avversi, ma
finora non oso pubblicarle, spaventato dal destino dello stesso Copernico,
nostro maestro. Questi timori, però, svaniranno proprio grazie al cannocchiale,
che G. punta per la prima volta verso il cielo. Di ottica si sono occupati già
Porta nella sua Magia naturalis e nel De refractione e Keplero negli Ad
Vitellionem paralipomena, opere dalle quali era possibile pervenire alla
costruzione del cannocchiale. Lo strumento e costruito indipendentemente da
Lippershey. G. decide allora di preparare un tubo di piombo, applicandovi
all'estremità due lenti, ambedue con una faccia piena e con l’altra
sfericamente concava nella prima lente e convessa nella seconda. Quindi,
accostando l’occhio alla lente concava, percepii l’astro abbastanza grande e
vicino, in quanto essi apparivano III volte più prossimi e IX volte maggiori di
quel che risultavano guardati con la sola vista naturale. Presenta
l'apparecchio come sua costruzione al governo di Venezia che, apprezzando
l'invenzione, gli raddoppia lo stipendio e gl’offre un contratto vitalizio
d'insegnamento. L'invenzione, la riscoperta e la ricostruzione del cannocchiale
non è un episodio che possa destare grande ammirazione. La novità sta nel fatto
che G. è il primo a portare questo strumento, usandolo in maniera prettamente
logica e concependolo come un potenziamento del sentire – il vedere. La
grandezza di Galileo nei riguardi del cannocchiale è stata proprio questa.
Supera tutta una serie di ostacoli concettuali (cf. Galileo sees that the star
is nice +> without a telescope – I could see the cow from the window) --
utilizzando suddetto strumento per rafforzare le proprie tesi. Grazie al
cannocchiale, G. propone una nuova visione del mondo celeste. Giunge alla
conclusione che, alle stelle visibili ad occhio nudo, si aggiungono altre
innumerevoli stelle mai scorte prima d’ora. L'universo, dunque, diventa più
grande. Non c’è differenza di natura fra la terra e la luna. G. arreca così un
duro colpo alla visione aristotelico-tolemaica geo-centrica del mondo,
sostenendo che la superficie della luna non è affatto liscia e levigata bensì
ruvida, rocciosa e costellata di ingenti prominenze. Quindi, tra gl’astri,
almeno la luna non possiede i caratteri di assoluta perfezione che ad essa
erano attribuiti dalla tradizione. Inoltre, la luna si muove, e allora perché
non dovrebbe muoversi anche la terra che è simile dal punto di vista della
costituzione? Vengono scoperti i un satellite di Giove, che G. denomina la
stelle medicea. Questa consapevolezza l’offre l'insperata visione in cielo di
un modello più piccolo dell'universo copernicano. Le scoperte sono pubblicate
nel Sidereus Nuncius, una copia del quale G. invia a Cosimo II, insieme con un
esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei IV satelliti, battezzati da G.
in un primo tempo Cosmica Sidera e successivamente medicea sidera. È evidente
l'intenzione di G. di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto
probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma
anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di
fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero
mancato di sollevare polemiche. Chiede a Vinta, Primo Segretario di Cosimo
II, di essere assunto allo Studio di Pisa, precisando. Quanto al titolo et
pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di matematico, che S.
A. ci aggiugnesse quello di “filosofo”, professando io di havere studiato più
anni in FILOSOFIA, che mesi in matematica pura. Il governo fiorentino comunica
a G. l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa et di
FILOSOFO del Ser.mo Gran Duca, senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello
Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno,
moneta fiorentin. G. firma il contratto e raggiunse Firenze. Qui giunto
si premura di regalare a Ferdinando, figlio del granduca Cosimo, la migliore
lente ottica che realizza nel suo laboratorio organizzato quando e a Padova
dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano confezionava occhialetti sempre
più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fa con il cannocchiale
mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò a Keplero che ne
fa buon uso e che, grato, conclude la sua opera Narratio de observatis a se
quattuor Jovis satellitibus erronibus, così scrivendo. “Vicisti G.” --
riconoscendo la verità delle scoperte di G. Ferdinando ruppe la lente. G. gli
regala qualcosa di meno fragile: una calamita armata, cioè fasciata da una
lamina di ferro, opportunamente posizionata, che ne aumenta la forza
d'attrazione in modo tale che, pur pesando solo sei once, il magnete sollevava
XV libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro. In occasione del trasferimento
a Firenze lascia la sua convivente, la veneziana Marina Gamba, conosciuta a
Padova, dalla quale aveva avuto tre figli: Virginia e Livia, mai legittimate, e
Vincenzio, che riconosce. Affida a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la
quale già convive l'altra figlia Virginia, e lascia Vincenzio a Padova alle
cure della madre e poi, dopo la morte di questa, a Bartoluzzi. In
seguito, resasi difficile la convivenza delle due bambine con Ammannati, G. fa
entrare le figlie nel convento di San Matteo, ad Arcetri (Firenze),
costringendole a prendere i voti non appena compiuti i rituali XVI anni.
Virginia assunse il nome di suor Maria Celeste, e Livia quello di suor
Arcangela, e mentre Virginia G. si rassegna alla sua condizione e rimase in
contatto epistolare con il padre, Livia non accetta mai l'imposizione. La
pubblicazione del Sidereus Nuncius suscita apprezzamenti ma anche diverse
polemiche. Oltre all'accusa di essersi impossessato, con il cannocchiale, di
una scoperta che non gl’apparteneva, e messa in dubbio anche la realtà di
quanto egli asseriva di aver scoperto. Sia Cremonini, sia Magini, che sarebbe
l'ispiratore del libello “Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum” da
Horký, pur accogliendo l'invito di G. a guardare attraverso il telescopio che
egli ha costruito, ritennero di *non* vedere alcun supposto satellite di
Giove. Solo più tardi Magini si ricredette e con lui anche Clavius, che
aveva ritenuto che i satelliti di Giove individuati da G. sono soltanto
un'”illusione” prodotta non direttamente dal corpo di G. mai dalla lente del
telescopio. Quest’obiezione e difficilmente confutabile. Conseguente sia alla
bassa qualità del sistema ottico del primo telescopio, sia all'ipotesi che la
lente potessero deformer la vision natural all’occhio nudo. Un appoggio molto
importante e dato a G. da Keplero, che, dopo un iniziale scetticismo e una
volta costruito un telescopio sufficientemente efficiente, verifica l'esistenza
effettiva dei satelliti di Giove, pubblicando a Francoforte la “Narratio de observatis
a se IV Jovis satellitibus erronibus quos G. mathematicus florentinus jure
inventionis MEDICAEA SIDERA nuncupavit”. Poiché i gesuiti del Collegio Romano
sono considerati tra le maggiori autorità scientifiche del tempo, si reca a
Roma per presentare le sue scoperte. E accolto con tutti gl’onori da Paolo V e
da Cesi, che lo iscrive nei Lincei. G. scrive a Vinta che i gesuiti avendo
finalmente conosciuta la verità dei nuovi MEDICAEA SIDERA, ne hanno fatte da II
mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo
“riscontrate con le mie” e si rispondano giustissime. Però, a quel tempo non sa
ancora che l'entusiasmo con il quale anda diffondendo e difendendo le proprie
scoperte e teorie suscita resistenze e sospetti precisamente in ambito
ecclesiastico. Bellarmino incarica i matematici vaticani d’approntargli
una relazione sulle nuove scoperte fatte da un valente matematico per mezo d'un
istrumento chiamato cannone overo ochiale e la congregazione del sant’uffizio
precauzionalmente chiede all'inquisizione di Padova se e mai stato aperto, in
sede locale, qualche procedimento a carico di G.. Evidentemente, la curia
romana comincia già a intravedere quali conseguenze avrebbero potuto avere
questi singolari sviluppi della filosofia sulla concezione generale del mondo e
quindi, indirettamente, sui sacri principi. Scrive il Discorso intorno alle
cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, nel quale
appoggiandosi alla teoria di Archimede dimostra, contro Aristotele, che i corpi
galleggiano o affondano nell'acqua a seconda del loro peso specifico non della
loro forma, provocando la polemica risposta del Discorso apologetico d'intorno
al Discorso di G. di Colombe. Al Pitti, presenti il granduca, la granduchessa
Cristina e Barberini, allora suo grande ammiratore, da una pubblica
dimostrazione sperimentale dell'assunto, confutando definitivamente
Colombe. G. accenna anche alle macchie solari, che sosteniene di aver già
osservate a Padova, senza però darne notizia: scrive ancora, l'Istoria e
dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, pubblicata a Roma
dall'Accademia dei Lincei, in risposta a III lettere di Scheiner che,
indirizzate a Welser, duumviro di Augusta, mecenate delle scienze e amico dei
Gesuiti dei quali e banchiere. A parte la questione della priorità della
scoperta, Scheiner sostene erroneamente che le macchie consisteno in sciami di
astri rotanti intorno al Sole, mentre G. le considera materia fluida
appartenente alla superficie del sole e ruotante intorno ad esso proprio a
causa della rotazione stessa della stella. L'osservazione delle macchie
consentì, quindi, a G. la determinazione del periodo di rotazione del sole e la
dimostrazione che il cielo e la terra non sono II mondi radicalmente diversi,
il primo solo perfezione e immutabilità e il secondo tutto variabile e
imperfetto. Infatti, ribadì a Cesi la sua visione copernicana scrivendo come il
sole si rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con rivoluzione simile
all'altre de i pianeti, cioè DA PONENTE VERSO LEVANTE intorno a i poli
dell'eclittica: la quale novità dubito che voglia essere il funerale o più
tosto l'estremo e ultimo giudizio della pseudo-filosofia, essendosi già veduti
segni nelle stelle, nella luna e nel sole; e sto aspettando di veder scaturire
gran cose dal peripato del LIZIO per mantenimento della immutabilità dei cieli,
la quale non so dove potrà esser salvata e celata. Anche l'osservazione del
moto di rotazione del sole e dei pianeti e molto importante: rende meno
inverosimile la rotazione terrestre, a causa della quale la velocità di un
punto all'equatore sarebbe di circa 1700 km/h anche se la terra fosse immobile
nello spazio. La scoperta delle fasi di Venere e di Mercurio, osservate da
G., non e compatibile col modello geocentrico di Tolomeo, ma solo con quello
geo-eliocentrico di Tycho Brahe, che Galileo non prende mai in considerazione,
e con quello elio-centrico di Copernico. G., scrivendo a Giuliano de' Medici
afferma che Venere necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche
Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i pittagorici,
Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in
Mercurio. Difende il modello elio-centrico e chiarì la sua concezione della
scienza in IV lettere private, note come "lettere copernicane" e
indirizzate a Castelli, II a Dini, una alla granduchessa madre Cristina di
Lorena. L'horror vacui Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Vuoto (filosofia). Secondo la dottrina aristotelica in natura il
vuoto non esiste poiché ogni corpo terreno o celeste occupa uno spazio che fa
parte del corpo stesso. Senza corpo non c'è spazio e senza spazio non esiste
corpo. Sostiene Aristotele che "la natura rifugge il vuoto" (natura
abhorret a vacuo), e perciò lo riempie costantemente; ogni gas o liquido tenta
sempre di riempire ogni spazio, evitando di lasciarne porzioni vuote.
Un'eccezione però a questa teoria era l'esperienza per la quale si osservava
che l'acqua aspirata in un tubo non lo riempiva del tutto ma ne rimaneva
inspiegabilmente una parte che si riteneva fosse del tutto vuota e perciò
dovesse essere colmata dalla Natura; ma questo non si verifica. G. rispondendo
a una lettera inviatagli da un cittadino ligure Baliani conferma questo fenomeno
sostenendo che «la ripugnanza del vuoto da parte della Natura» può essere
vinta, ma parzialmente, e che, anzi, «lui stesso ha provato che è impossibile
far salire l’acqua per aspirazione per un dislivello superiore a 18 braccia,
circa 10 metri e mezzo. Galilei quindi crede che l'horror vacui sia limitato e
non si chiede se in effetti il fenomeno fosse collegato al peso dell'aria, come
dimostrerà Evangelista Torricelli. La disputa con la Chiesa Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Disputa tra Galileo
Galilei e la Chiesa. La denuncia del domenicano Tommaso Caccini. Il cardinale
Roberto Bellarmino. Dal pulpito di Santa Maria Novella a Firenze Caccini lancia
contro certi matematici moderni, e in particolare contro G,, l'accusa di
contraddire ARISTOTELE con le loro concezioni astronomiche ispirate alle teorie
copernicane. Giunto a Roma, Caccini denuncia G. in quanto sostenitore del moto
della terra intorno al sole. Intanto a Napoli e stato pubblicato un saggio di
Foscarini, “Sopra l'opinione de' Pittagorici e di Copernico”, dedicata a G,, a
Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei, che intendeva accordare ARISTOTELE
con la teoria copernicana interpretandoli in modo tale che non gli contradicano
affatto. Bellarmino, già giudice nel processo di Bruno, tuttavia afferma che
sarebbe stato possibile reinterpretare i passi del LIZIO che contraddicevano
l'eliocentrismo solo in presenza di una vera dimostrazione di esso e, non
accettando le argomentazioni di G,, aggiunge che finora non gliene era stata
mostrata nessuna, e sostene che comunque, in caso di dubbio, si dovessero
preferire IL LIZIO. L'anno dopo Foscarini verrà, per breve tempo,
INCARCERATO e la sua Lettera proibita. Intanto il Sant’uffizio stabilì di
procedere all'esame delle Lettere sulle macchie solari e G. decide di venire a
Roma per difendersi personalmente, appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a
Roma il G. matematico» – scrive Cosimo II a Scipione Borghese – «et viene
spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie,
che gli sono state apposte da' suoi emuli. Il papa ordina a Bellarmino di
convocare G. e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse
rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni,
di fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non
insegnarla, non difenderla e non trattarla. Bellarmino da comunque a G. una
dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la
proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie
ricevute malgrado tutto, fecero cadere G. nell'illusione che a lui fosse
permesso quello che ad altri e vietato. Comparvero nel cielo tre comete, fatto
che attira l'attenzione e stimolò gli studi degli astronomi di tutta Europa.
Fra essi Grassi, matematico del Collegio Romano, tenne con successo una lezione
che ha vasta eco, la Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII.
Con essa, sulla base di alcune osservazioni dirette e di un procedimento
logico-scolastico, egli sostene l'ipotesi che le comete fossero corpi situati
oltre al cielo della Luna e la utilizza per avvalorare il modello di Tycho
Brahe, secondo il quale la terra è posta al centro dell'universo, con gli altri
pianeti in orbita invece intorno al sole, contro l'ipotesi elio-centrica.
G. decise di replicare per difendere la validità del modello copernicano.
Rispose in modo indiretto, attraverso lo scritto Discorso delle comete di un
suo amico e discepolo, Guiducci, ma in cui la mano del maestro e probabilmente
presente. Nella sua replica Guiducci sostene erroneamente che le comete non
sono oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su
vapori elevatisi dalla Terra, ma indica anche le contraddizioni del
ragionamento di Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle
comete con il cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra
astronomica ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario
Sarsi, attacca direttamente G. e il copernicanesimo. G. a questo punto
rispose direttamente. E pronto il trattato “Il Saggiatore”. Scritto in forma di
lettera, e approvato dagli accademici dei Lincei e stampato a Roma. Dopo la
morte di papa Gregorio XV, con il nome di Urbano VIII saliva al soglio
pontificio Barberini, da anni amico ed estimatore di G.. Questo convinse
erroneamente G. che risorge la speranza, quella speranza che era ormai quasi
del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso sapere
dal lungo esilio a cui era stato costretto, come scritto al nipote del papa
Francesco Barberini. G. resenta una teoria rivelatasi successivamente
erronea delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. In effetti, la
formazione della chioma e della coda delle comete, dipendono dall'esposizione e
dalla direzione delle radiazioni solari, dunque Galilei non aveva tutti i torti
e Grassi ragione, il quale essendo avverso alla teoria copernicana, non poteva
che avere un'idea sui generis dei corpi celesti. La differenza tra le argomentazioni
di Grassi e quella di Galileo era tuttavia soprattutto di metodo, in quanto il
secondo basava i propri ragionamenti sulle esperienze. Galileo scrisse infatti
la celebre metafora secondo la quale la filosofia è scritta in questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi “(io dico
l'universo)” mettendosi in contrasto con Grassi che si richiamava all'autorità
dei maestri del passato e di Aristotele per l'accertamento della verità sulle
questioni naturali. Giunse a Roma per rendere omaggio al papa e
strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti del
sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non
ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso. Senza nessuna
assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato
onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio – G.
ritenne di poter rispondere finalmente alla Disputatio di Francesco Ingoli.
Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica, nella sua risposta G. dovrà
confutare le argomentazioni anticopernicane dell'Ingoli senza proporre quel
modello astronomico, né rispondere alle argomentazioni del LIZIO. Nella Lettera
G. enuncia per la prima volta quello che sarà chiamato il principio della
relatività galileiana: alla comune obiezione portata dai sostenitori della
immobilità della terra, consistente nell'osservazione che i gravi cadono
perpendicolarmente sulla superficie terrestre, anziché obliquamente, come
apparentemente dovrebbe avvenire se la Terra si muovesse, G. risponde portando
l'esperienza della nave nella quale, sia essa in movimento uniforme o sia
ferma, i fenomeni di caduta o, in generale, dei moti dei corpi in essa
contenuti, si verificano esattamente nello stesso modo, perché «il moto
universale della nave, essendo comunicato all'aria ed a tutte quelle cose che
in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione
di quelle, in loro indelebilmente si conserva».[65] Dialogo Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo. Galilei comincia il suo nuovo lavoro, un Dialogo
che, confrontando le diverse opinioni degli interlocutori, gli avrebbe
consentito di esporre le varie teorie correnti sulla cosmologia, e dunque anche
quella copernicana, senza mostrare di impegnarsi personalmente a favore di
nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari prolungarono la stesura
dell'opera. Dovette prendersi cura della numerosa famiglia del fratello Michelangelo,
mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in legge a Pisa si sposa con Sestilia
Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno dei segretari del duca Ferdinando,
e di Alessandra. Per esaudire il desiderio della figlia Maria Celeste, monaca
ad Arcetri, di averlo più vicino, affitta vicino al convento il villino «Il
Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per ottenere l'imprimatur
ecclesiastico, l'opera venne pubblicata. Nel Dialogo i due massimi
sistemi messi a confronto sono quello geo-centrico e quello elio-centrico. Tre
sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici di Galileo, Salviati e
Sagredo, nello cui palazzo si fingono tenute la conversazione. Il terzo
protagonista è ‘Simplicio,’ un commentatore di Aristotele, oltre a
sottintendere il suo semplicismo scientifico. Simplicio è il sostenitore del
sistema geo-centrico, mentre l'opposizione elio-centrica è sostenuta da
Salviati e Sagredo. Il Dialogo ricevette molti elogi, ma si diffusero le voci
di una proibizione. Riccardi scrive ad Egidi che per ordine del Papa il
“Dialogo” non doveva più essere diffuso. Gli chiedeva di rintracciare le copie
già vendute e di sequestrarle. Il Papa adirato accusa G. di aver raggirato i
ministri che avevano autorizzato la pubblicazione. L’Inquisizione romana
sollecita quella fiorentina perché notificasse a Galileo l'ordine di comparire
a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario generale del
Sant'Uffizio. Galileo, in parte perché malato, in parte perché spera che la
questione potesse aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del processo,
ritarda per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa insistenza del
Sant'Uffizio, parte per Roma in lettiga. Il processo comincia con il
primo interrogatorio di Galileo, al quale Maculano contesta di aver ricevuto un
precetto con il quale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare la teoria
elio-centrica, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla.
Nell'interrogatorio Galileo nega di aver avuto conoscenza del precetto e
sostenne di non ricordare che nella dichiarazione di Bellarmino vi fossero le
parole “quovis modo” (in qualsiasi modo) e “nec docere” (non insegnare).
Incalzato dall'inquisitore, Galileo non solo ammise di non avere detto cosa
alcuna del sodetto precetto, ma anzi arriva a sostenere che nel detto Dialogo
mostra il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di
Copernico sono invalide e non concludenti. Concluso il primo interrogatorio,
Galileo fu trattenuto, pur sotto strettissima sorveglianza, in tre stanze del
palazzo dell'Inquisizione, con ampia e libera facoltà di passeggiare. Il giorno
successivo all'ultimo interrogatorio, nella sala capitolare del convento
domenicano di Santa Maria sopra Minerva, presente e inginocchiato G., fu emessa
la sentenza dai inquisitori generali contro l'eretica pravità, nella quale si
riassume la lunga vicenda del contrasto fra G. e il LIZIO, cominciata con lo
scritto Delle macchie solari e l'opposizione dei LIZII al modello Copernicano.
Nella sentenza si sostiene poi che il documento fosse un'effettiva ammonizione
a non difendere o insegnare la teoria copernicana. Imposta l'abiura con
cuor sincero e fede non finta e proibito il Dialogo, e condannato al carcere
formale ad arbitrio nostro e alla pena salutare della recita settimanale dei
sette salmi penitenziali per tre anni, riservandosi l'Inquisizione di moderare,
mutare o levar in tutto o parte le pene e le penitenze. Se la leggenda della
frase di G., «E pur si muove», pronunciata appena dopo l'abiura, serve a
suggerire la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la
conclusione del processo segna la sconfitta del suo programma di diffusione
della filosofia, fondata sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro
verifica sperimentale – contro il LIZIO che produce esperienze come fatte e
rispondenti al suo bisogno senza averle mai né fatte né osservate – e contro i
pregiudizi del senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque
apparenza: una filosofia che insegna a non aver più fiducia nell'autorità,
nella tradizione e nel senso commune e che vuole insegnare a pensare. La
sentenza di condanna prevedeva un periodo di carcere a discrezione del
Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i
salmi penitenziali. Il rigore letterale fu mitigato nei fatti. La prigionia
consistette nel soggiorno coatto per cinque mesi presso Palazzo Niccolini, a
Trinità dei Monti e di qui, in Palazzo Piccolomini a Siena. Quanto ai salmi
penitenziali, Galileo incarica di recitarli, con il consenso della Chiesa, la
figlia Livia, suora di clausura. Piccolomini favore G., permettendogli di
incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A
seguito di una lettera che denunci l'operato, il Sant'Uffizio provvide,
accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a
confinarlo nell'isolata villa del Gioiello, che possede nella campagna di
Arcetri. Si l’intima di stare da solo, di non chiamare ne di ricevere alcuno,
per il tempo ad arbitrio di Sua Santita. Solo i familiari poaaono fargli
visita, dietro preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu
particolarmente dolorosa la morte di Livia. Poté tuttavia mantenere
corrispondenza con amici ed estimatori: a Diodati consolandosi delle sue
sventure che l'invidia e la malignità “mi hanno machinato contro” con la
considerazione che l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più
sublime grado dell'ignoranza. Da Diodati seppe della versione in latino che
Bernegger anda facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di Rocco,
purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla di filosofia che
scrive a Venezia mordacità e contumelie contro di lui. Questa, e altre lettere,
dimostrano quanto poco G. avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane.
Dopo il processo scrive e pubblica “Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze attinenti la mecanica e i moti locali”, organizzato
come un dialogo che si svolge in quattro giornate fra i tre medesimi
protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi: Sagredo, Salviati e
Simplicio. Nella prima giornata si tratta della resistenza dei materiali. La
diversa resistenza deve essere legata alla struttura della particolare materia
e G., pur senza pretendere di pervenire a una spiegazione del problema,
affronta l'interpretazione atomistica di Democrito, considerandola un'ipotesi
capace di rendere conto di fenomeni fisici. In particolare, la possibilità
dell'esistenza del vuoto – prevista da Democrito – viene ritenuta una seria
ipotesi scientifica e nel vuoto – ossia nell'inesistenza di un qualunque mezzo
in grado di opporre resistenza – Galileo sostiene giustamente che tutte le cose
discendeno con eguale velocità, in opposizione con Aristotele che ritiene
l'impossibilità concettuale di un moto in un vuoto. Dopo aver trattato
della statica e della leva nella seconda giornata, nella terza e nella quarta
si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto uniforme, del moto
naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato e delle oscillazioni
del pendolo. Intraprende corrispondenza con Bocchineri. La famiglia
Bocchineri di Prato aveva dato una giovane, di nome Sestilia, sorella di
Alessandra, per moglie al figlio di Galilei, Vincenzio. Quando Galilei
incontra Bocchineri, questa è una donna che si è affinata e ha coltivato la sua
intelligenza, sposa di Buonamici, un importante diplomatico che diventerà buon
amico di Galilei. Bocchineri e Galilei si scambiano numerosi inviti per
incontrarsi e G. non manca di elogiare l'intelligenza di Bocchineri dato che sì
rare si trovano donne che tanto sensatamente discorrino come ella fa. Con la
cecità e l'aggravarsi delle condizioni di salute è costretto talvolta a
rifiutare gli invite NON *SOLO* per le molte indisposizioni che mi tengono
oppresso in questa mia gravissima età, ma perché son ritenuto ancora in
carcere, per quelle cause che benissimo son note. L'ultima lettera mandata di "non volontaria brevità". Ad
Arcetri, assistito da Viviani e Torricelli. «Vide / sotto l'etereo padiglion
rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto, onde all'Anglo che tanta ala
vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento. E tumulato nella Basilica di
Santa Croce a Firenze. Il Cristenesimo mantenne la sorveglianza anche nei
confronti degli allievi. Quando i seguaci diedero vita al Cimento, esso
intervenne presso il Granduca, e il Cimento e sciolto. Convinto della
correttezza della cosmologia copernicana, G. era ben consapevole che essa fosse
ritenuta in contraddizione con il testo cristiano che sostenevano invece una
concezione geocentrica dell'universo. Il cristanesimo considera le Sacre
Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva essere
accettata, fino a prova contraria, soltanto come semplice ipotesi (“ex
supposition”) o modello matematico, senza alcuna attinenza con la reale
posizione dei corpi celesti. Proprio a questa condizione il “De revolutionibus
orbium coelestium” di Copernico non e condannato dalle autorità ecclesiastiche
e menzionato nell'Indice dei libri proibiti. Galileo si inserì nel dibattito
sul rapporto fra scienza e fede con la lettera a Castelli. Difese il modello
copernicano sostenendo che esistono *due* verità necessariamente non in
contraddizione o in conflitto fra loro. La Bibbia è certamente un testo sacro
di ispirazione divina e dello Spirito Santo, ma comunque scritto in un preciso
momento storico con lo scopo di orientare il lettore verso la comprensione
della vera religione. Per questa ragione, come già avevano sostenuto molti
esegeti tra i quali *Lutero* e Keplero, i fatti del LIZIO sono stati
necessariamente scritti in modo tale da poter essere compresi anche dagli
antichi e dalla gente comune. Occorre quindi discernere, come già sostenuto da
Agostino, il messaggio propriamente basato nella fede dalla descrizione,
storicamente connotata ed inevitabilmente narrativa e didascalica, di fatti,
episodi e personaggi. Dal che seguita, che qualunque volta alcuno,
nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono litterale, splicito,
potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contraddizioni e
proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora. Poi che
sarebbe necessario dare a Dio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti di un
corpora quasi-umanio, come d'ira, di pentimento, d'odio ed anco tal volta la
dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future.” Lettera alla
granduchessa di Toscana. Il noto episodio biblico della richiesta di Giosuè a
Dio di fermare il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito ecclesiastico
a sostegno del sistema geo-centrico. Galileo sostenne invece che in quel modo
il giorno non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema geo-centrio la rotazione diurna
(giorno/notte) non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La
Bibbia deve essere re-interpretata e bisogna “alterar” il “senso” delle parole,
e dire che quando la Scrittura dice che Dio ferma il Sole, voleva dire che
ferma 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a
fatica idonei a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, lo Spirito Santo
dice al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati. Nel
sistema elio-centrico la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la
rivoluzione della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte)
della Terra attorno all'asse terrestre. Quindi l'episodio biblico ci mostra
manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema aristotelico e
Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.. Infatti se Dio
avesse fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe
necessariamente bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel
sistema copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto
sia della (ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre
diurna prolungando quindi la durata del giorno. A questo proposito, è
interessante la critica proposta da Koestler, in cui sostiene che Galileo sape
meglio di chiunque altro che se la terra si fermasse bruscamente, montagne,
case, città, crollerebbero come un castello di carte. Il più ignorante dei
frati, senza sapere nulla del momento di inerzia, sape benissimo quel che
succedeva quando i cavalli e la carrozza frenavano di colpo o quando una nave
finiva contro gli scogli. Se si interpreta la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco
arresto del Sole non aveva effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva
credibile al pari di qualsiasi altro miracolo. In base all'interpretazione di
Galileo, Giosuè avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera!
Sperando di far passare queste sciocchezze penose, Galileo rivela il suo
disprezzo per gli avversari. Fece analoghe considerazioni in lettere a Dini, le
quali destarono preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee
innovative, il carattere polemico e l'ardimento coi quali Galilei sostene che
alcuni passi della Bibbia dovessero venir re-interpretati alla luce del sistema
copernicano. Le Sacre Scritture si occupano di Dio. La filosofia naturale, che
fa indagini sulla Natura si fondarsi su «sensate esperienze» e «necessarie
dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non possono contraddirsi perché derivano
entrambe da Dio. Di conseguenza, in caso di discordia apparente, non sarà la
scienza a dover fare un passo indietro, bensì gli interpreti del testo sacro
che dovranno cercare al di là del “significato” splicito superficiale
(explicatura). Le Sacre Scritture sono conforme soltanto "al comun modo
del volgo", ossia si adatta non già alle competenze degli "intendenti",
ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune, velando così con una sorta di
“allegoria” il “senso più profondo” di un enunciato.. Se il “messaggio”
“letterale” diverge da un enunciato del filosofo naturale, non lo può mai il
suo “contenuto” "recondito" e più autentico, ricavabile
dall'interpretazione delle Sacre Scriture oltre i suoi “significato” più
epidermico. Circa il rapporto tra filosofia e la rivelazione, celebre è la sua
frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado,
l'*intenzione* dello Spirito Santo essere d'*in-segn-arci* come si vadia al
cielo, e non come vadia il cielo», usualmente attribuita Baronio. Si noti che,
applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di
Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema
copernicano o la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico.
Deriva invece proprio da tale criterio la teoria di Galileo secondo la quale
esistono *due* sorgenti di *conoscenza* che sono in grado di rivelare la stessa
verità che proviene da Dio. Il primo è le
Sancte Scritture, scritte dal spirito santo in termini comprensibili al
"volgo", che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione
dell'anima, e richiede quindi un'attenta inter-pretazione delle affermazioni
relative ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), scritto in simboli», che va letto (decifrato) secondo la ragione
(non la fede) e non va pos-posto alle Sancte Scriture ma, per essere *ben* o
corretamente interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui Dio –
nostro genitore -- ci ha dotati: sentire, il giudicare, il discorrire. Nella disputa
filosofica di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla autorità di
luoghi delle Sancte Scritture, ma dall’esperienza sensata (a posteriori) e
dalla di-mostrazioni necessaria (dall’assiomi, a priori): perché, procedendo di
pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la Natura – la fisi dei grecchi --,
quella come ‘dettatura’ (dictature – dettato ed impiegato) dello Spirito Santo,
e questa ‘dettatura’ come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio,
nostro genitore.” La FILOSOFIA – regina scientiarum – La ‘materia’ della
filosofia la rende d'importanza primaria (metafisica come filosofia prima,
filosofia naturale come filosofia seconda. La flosofia non pretendere di
pronunciare giudizi su una verità specifica (la porta e chiusa). Al contrario,
se una certa esperienza non si accorda con un assioma, allora e quest’assioma
che deve essere ri-letti alla luce della experienza. Non vi può essere, in
definitiva, dis-accordo tra ragione ed experienza, essendo, per definizione,
entrambe vere. Ma, in caso di *apparente* contraddizione su un fenomeno
naturale, occorre modificare l'interpretazione dell’assioma per adeguarla
all’esperienza. Aristotele – con il suo geo-centrimo -- non differe
sostanzialmente da G.. IL LIZIO ammetteva la necessità di rivedere
l'interpretazione dell’esperienza. Ma nel caso del sistema elio-centrico,
Bellarmino sostenne, ragionevolmente, che non vi fossero una prova conclusive a
suo favore. Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel
centro del mondo (o nostro sistema pianetario) e la terra nel terzo cielo, e
che il sole (elio) non circonda la terra (gea), ma la terra circonda il sole,
allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che
paiono contrarie, e più tosto dire che “non l'intendiamo” – cf. Grice on
metaphor and ‘My neighbour’s three-year old is an adult”), che dire che sia
“falso” (‘You’re the cream in my coffee”, “My neighbour’s three-year old
understands Russell’s Theory of Types”) quello che si dimostra. Ma io non crederò
che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata. L’ esperienzia di
visione – osservazione -- con gli strumenti allora disponibili, della
parallasse stellare (che si sarebbe dovuta riscontrare come l’effetto dello
spostamento della Terra rispetto al cielo delle stelle fisse) costituiva invece
evidenza contraria alla teoria elio-centrica. In tale contesto, Aristotele
ammetteva quindi che si parlasse di una teoria o ipotesi o modello
elio-centrico solo “ex suppositione” (come ipotesi matematica geometrica o
aritmetica). La difesa di G. ex professo (con cognizione di causa e competenza,
di proposito e intenzionalmente) della teoria geo-centrica quale “reale”
descrizione fisica del sistema solare e delle orbite dei pianete si scontrò
quindi, inevitabilmente, con la posizione ufficiale d’Aristotele. Tale
contrapposizione sfociò nel processo a G., che si concluse con la condanna per
veemente sospetto di eresia" e l'abiura forzata delle sue concezioni
astronomiche. RiAl di là dal giudizio storico, giuridico e morale sulla
condanna a G., le questioni di carattere epistemologico filosofico e di
“ermeneutica” che furono al centro del processo sono state oggetto di
riflessione da parte di Grice. che spesso ha citato la vicenda di G. per esemplificare,
talora in termini volutamente paradossali, il suo pensiero in merito a tali
questioni. Contro Feyerabend, sostenitore di un'anarchia epistemologica, Grice
sostenne che Aristotele si attenne alla ragione più che G., e prese in
considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della teoria
elio-centrica. La sentenza aristotelica contro Galilei e razionale e giusta, e
solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revision.
Questa provocazione sarà poi ripresa da Ratzinger, dando luogo a contestazioni
da parte dell'opinione pubblica. Ma il vero scopo per cui Grice espresso tale
provocatoria affermazione e "solo mostrare la contraddizione di coloro che
approvano l’eliocentrismo di G e condannano il geo-centrismo LIZIO, ma poi
verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo sono I LIZII ai
tempi di Galileo. Nel corso dei secoli che seguirono, IL LIZIO modifica la
propria posizione nei confronti di G.. Il Sant'Uffizio concede l'erezione di un
mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in Firenze. Benedetto XIV
olse dall'Indice i libri che insegnavano il moto della Terra (“e pur si muove”)
con ciò ufficializzando quanto già di fatto aveva fatto Alessandro VII con il
ritiro di un dicreto. La definitiva autorizzazione all'”in-segna-mento”
del moto della terra e dell'immobilità del sole arriva con un decreto della
Sacra Congregazione dell'inquisizione approvato da Pio VII.
Particolarmente significativo risulta il contributo di Newman, a pochi anni
dalla abilitazione dell'insegnamento dell'eliocentrismo e quando le teorie di
Newton sulla gravitazione risultavano ormai affermate e provate
sperimentalmente. Newman riassume il rapporto dell'elio-centrismo con il LIZIO.
«Quando il sistema copernicano comincia a diffondersi, quale LIZIO non sarebbe
stato tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo, per
l'apparente contraddizione che esso implica con una certa autorevole
tradizione? Generalmente si accetta che la terra e immobile e che il sole,
fissato in un solido firmamento, ruota intorno alla terra. Dopo un po' di
tempo, tuttavia, e un'analisi completa, si scoprì che il LIZIO non decide quasi
niente su questioni come questa e che la scienza fisica puo muoversi in questa
sfera di pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con l’adagio,
“Master dixit””. Newman compie della vicenda G. come conferma, e non negazione,
del LIZIO. E certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta
ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai LIZII una certa interpretazione
di questa affermazione fisica geo-centrica, che il LIZIO non l'ha formalmente
riconosciuta (la teoria del geocentrismo, ndr). Guardando alla questione da un
punto di vista umano, e inevitabile che essa dovesse far propria
quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto all’esperienza,
troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin dall'inizio essa ha
sempre fatto su Aristotele, com'è suo compito e suo diritto fare, tuttavia, è
sempre stata indotta a spiegare formalmente Aristotele o a dar loro un senso di
autorità che l’esperienza può mettere in discussione. Paolo VI fece avviare la
revisione del processo e con l'intento di porre una parola definitiva riguardo
a queste polemiche Giovanni Paolo II auspicò che fosse intrapresa una ricerca
interdisciplinare sui difficili rapporti di G. con la Chiesa e istituì una
Commissione per lo studio della controversia tolemaico-copernicana nella quale
il caso G. si inserisce. Il papa ammise, nel discorso in cui annuncia
l'istituzione della commissione, che"G. ha molto a soffrire, non possiamo
nasconderlo, da parte di uomini del LIZIO. Si cancella la condanna e chiarì la
sua interpretazione sulla questione teologica scientifica galileiana
riconoscendo che la condanna di G. e dovuta all'ostinazione di entrambe le
parti nel non voler considerare le rispettive teorie come semplici ipotesi non
comprovate sperimentalmente e, d'altra parte, alla mancanza di perspicacia,
ovvero di intelligenza e lungimiranza, dei filosofi del LIZIO che lo condannarono,
incapaci di riflettere sui propri criteri di interpretazione del LIZIO e
responsabili di aver inflitto molte sofferenze a G. Come dichiara Giovanni
Paolo II, come la maggior parte dei suoi avversari LIZII, G. non fa distinzione
tra quello che è l'approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione
sulla natura, di ordine filosofico, che esso generalmente richiama. È per
questo che G. Rifiuta il suggerimento che gli era stato dato di presentare come
un'ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da
prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un'esigenza del metodo sperimentale
di cui egli fu l’iniziatore. Il problema che si posero dunque i LIZII sono
quello della compatibilità dell'eliocentrismo ed il LIZIO. Così l’esperienza,
con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbliga I LIZII
ad interrogarsi sui loro criteri di interpretazione di Aristotele. La maggior
parte non seppe farlo. Il giudizio pastorale che richiedeva la teoria
copernicana e difficile da esprimere nella misura in cui il geo-centrismo
sembra far parte dell’insegnamento stesso del LIZIO. Sarebbe stato necessario
contemporaneamente vincere delle abitudini di pensiero e inventare una
pedagogia capace di illuminare il popolo. La storia del pensiero scientifico
del Medioevo e del Rinascimento, che si comincia ora a comprendere un po'
meglio, si può dividere in due periodi, o meglio, perché l'ordine cronologico
corrisponde solo molto approssimativamente a questa divisione, si può dividere,
grosso modo, in tre fasi o epoche, corrispondenti successivamente a tre
differenti correnti di pensiero: prima la fisica aristotelica; poi la fisica
dell'impetus, iniziata, come ogni altra cosa, dai Greci ed elaborata dalla
corrente dei Nominalisti; e infine la fisica galileiana. Fra le maggiori
scoperte che G. fece guidato dagli esperimenti, si annoverano un primo
approccio fisico alla relatività, poi noto come “relatività galileiana”, la
scoperta delle quattro lune principali di Giove, dette appunto “satelliti
galileiani” (Io, Europa, “Ganimede” e Callisto), il principio di inerzia,
seppur parzialmente. Compì anche studi sul moto di caduta dei gravi e
riflettendo sui moti lungo i piani inclinati scoprì il problema del "tempo
minimo" nella caduta dei corpi materiali, e studia varie traiettorie, tra
cui la spirale paraboloide e la cicloide. Nell'ambito delle sue ricerche
di matematica – geometria ed aritmetica -- si avvicinò alle proprietà
dell'infinito introducendo un celebre paradosso di G.. G. incoraggiò Cavalieri
a sviluppare le idee del maestro e di altri sulla geometria con il metodo degli
indivisibili, per determinare aree e volumi: questo metodo rappresentò una
tappa fondamentale per l'elaborazione del calcolo infinitesimale. Quando
Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato con un peso scelto
da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso che egli stesso
sapeva già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta fu una rivelazione
luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la
ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che
essa deve costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi
guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre
osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero
capo a una legge necessaria. Galilei fu uno dei protagonisti della fondazione
del metodo scientifico espresso con linguaggio matematico e pose l'esperimento
come strumento a base dell'indagine sulle leggi della natura, in contrasto con
Aristotele e la sua analisi qualitativa del cosmo. Hanno sin qui la maggior
parte dei filosofi creduto che la superficie della luna fosse pulita tersa e
assolutissimamente sferica, e se qualcuno disse di credere, che ella fusse
aspra e muntuosa fu reputato parlare più presto favolusamente, che
filosoficamente. Ora io questa istessa lunare asserisco il primo, non più per
immaginazione, ma per sensata esperienza e necessaria dimostrazione, che egli è
di superficie piena di innumerevoli cavità ed eminenze, tanto rilevate che di
gran lunga superano le terrene montuosità. Già nella lettera a Welser a
proposito della polemica sulle macchie solari, G. si domandava che cosa l'uomo
nella sua ricerca vuole arrivare a conoscere. «O noi vogliamo specolando
tentar di penetrar l'essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi
vogliamo contentarci di venir in notizia d'alcune loro affezioni» Ed
ancora: per conoscenza intendiamo l'arrivare a cogliere i principi primi dei
fenomeni o come questi si sviluppano? «Il tentar l'essenza, l'ho per
impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze
elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro
della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle
macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste sostanze vicine aviamo
altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i
quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno
all'altro. La ricerca dei principi primi essenziali comporta dunque una serie
infinita di domande poiché ogni risposta fa nascere una nuova domanda: se noi
ci chiedessimo quale sia la sostanza delle nuvole, una prima risposta sarebbe
che è il vapore acqueo ma poi dovremo chiederci che cos'è questo fenomeno e
dovremo rispondere che è acqua, per chiederci subito dopo che cos'è l'acqua,
rispondendo che è quel fluido che scorre nei fiumi ma questa «notizia dell'acqua»
è soltanto «più vicina e dependente da più sensi», più ricca di informazioni
particolari diverse, ma non ci porta certo la conoscenza della sostanza delle
nuvole, della quale sappiamo esattamente quanto prima. Ma se invece vogliamo
capire le «affezioni», le caratteristiche particolari dei corpi, potremo
conoscerle sia in quei corpi che sono da noi distanti, come le nuvole, sia in
quelli più vicini, come l'acqua. Occorre dunque intendere in modo diverso lo
studio della natura. «Alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica»,
educati nel culto di Aristotele, credono che «il filosofare non sia né possa
esser altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele» che portano
come unica prova delle loro teorie. E non volendo «mai sollevar gli occhi da
quelle carte» rifiutano di leggere «questo gran libro del mondo» (cioè
dall'osservare direttamente i fenomeni), come se «fosse scritto dalla natura
per non esser letto da altri che da il LIZIO, e che gli occhi suoi avessero a
vedere per tutta la sua posterità. Invece i discorsi nostri hanno a essere
intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.A fondamento del
metodo scientifico quindi ci sono il rifiuto dell'essenzialismo e la decisione
di cogliere solo l'aspetto quantitativo dei fenomeni nella convinzione di
poterli tradurre tramite la misurazione in numeri così che si abbia una
conoscenza di tipo matematico, l'unica perfetta per l'uomo che la raggiunge
gradatamente tramite il ragionamento così da eguagliare lo stesso perfetto
conoscere divino che la possiede interamente e intuitivamente. Però...quanto
alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è
l'istessa che conosce la sapienza divina. Il metodo galileiano si dovrà
comporre quindi di due aspetti principali: sensata esperienza, ovvero
l'esperimento distinto dalla comune osservazione della natura, che deve infatti
seguire a un'attenta formulazione teorica, ovvero a ipotesi (metodo
ipotetico-sperimentale) che siano in grado di guidare l'esperienza in modo che
essa non fornisca risultati arbitrari. Galileo non ottenne la legge di caduta
dei gravi dalla mera osservazione, altrimenti ne avrebbe dedotto che un corpo
cade più rapidamente tanto più è pesante (un sasso nell'aria arriva prima a
terra di una piuma per via dell'attrito). Studiò invece il moto dei corpi in
caduta controllandolo con un piano inclinato, costruendo cioè un esperimento
che gli permettesse di ottenere risultati più precisi. Anche l'esperimento
mentale può essere un utile strumento di dimostrazione e permise a Galileo di
confutare le dottrine aristoteliche sul moto. necessaria dimostrazione, ovvero
un'analisi matematica e rigorosa dei risultati dell'esperienza, che sia in
grado di trarre da questa risultati universali e ogni conseguenza in modo necessario
e non opinabile espressi dalla legge scientifica. In questo modo Galileo
concluse che tutti i corpi nel vuoto precipitano con una velocità proporzionale
al tempo di caduta, anche se chiaramente non aveva effettuato esperimenti
considerando tutti i possibili corpi con differenti forme e materiali. La
dimostrazione va ulteriormente verificata, con ulteriori esperienze, ovvero il
cosiddetto cimento che è l'esperimento concreto con cui va sempre verificato
l'esito di ogni formulazione teorica. Sintetizzando la natura del metodo
galileiano, Mondolfo infine aggiunge che: «Il vincolo stabilito da G. tra
osservazione e dimostrazione le esperienze fatte mediante i sensi e le
dimostrazioni logico-matematiche della loro necessità – e un vincolo reciproco,
non unilaterale: né le esperienze sensibili dell’ osservazione potevano valere
scientificamente senza la relativa dimostrazione della loro necessità, né la
dimostrazione logica e matematica poteva raggiungere la sua "assoluta
certezza oggettiva" come quella della natura senza appoggiarsi all’
esperienza nel suo punto di partenza e senza trovare la sua conferma in essa
nel suo punto d’ arrivo. È questa l'originalità del metodo galileiano: avere
collegato esperienza e ragione, induzione e deduzione, osservazione esatta dei
fenomeni e elaborazione di ipotesi e questo, non astrattamente ma, con lo
studio di fenomeni reali e con l'uso di appositi strumenti tecnici. La
terminologia scientifica in Galilei Fondamentale è stato il contributo di G. al
linguaggio scientifico, sia in campo matematico, sia, in particolare, nel campo
della fisica. Ancora oggi in questa disciplina molto del linguaggio settoriale
in uso deriva da specifiche scelte dello scienziato pisano. In particolare,
negli scritti di Galileo molte parole sono tratte dal linguaggio comune e
vengono sottoposte ad una "tecnificazione", cioè l'attribuzione ad
esse di un significato specifico e nuovo (una forma, quindi, di neologismo
semantico). È il caso di "forza" (seppur non in senso newtoniano),
"velocità", "momento", "impeto",
"fulcro", "molla" (intendendo lo strumento meccanico ma
anche la "forza elastica"), "strofinamento",
"terminatore", "nastro". Un esempio del modo in cui Galileo
nomina gli oggetti geometrici è in un brano dei Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze: «Voglio che ci immaginiamo esser levato via
l'emisferio, lasciando però il cono e quello che rimarrà del cilindro, il
quale, dalla figura che riterrà simile a una scodella, chiameremo pure
scodella. Come si vede, nel testo ad una terminologia specialistica
("emisferio", "cono", "cilindro") si accompagna
l'uso di un termine che denota un oggetto della vita quotidiana, cioè
"scodella". Galilei è ricordato nella storia anche per le sue
riflessioni sui fondamenti e sugli strumenti dell'analisi scientifica della
natura. Celebre la sua metafora riportata nel Saggiatore, dove la matematica
viene definita come il linguaggio (o la semiotica, o i ‘signi’ – il segno -- in
cui è scritto libro della natura: La filosofia è scritta in questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la
lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua
matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche,
senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi
è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. In questo brano Galilei mette
in collegamento le parole "matematica", "filosofia" e
"universo", dando così inizio a una lunga disputa fra i filosofi
della scienza in merito a come egli concepisse e mettesse in relazione fra loro
questi termini. Ad esempio, quello che qui Galileo chiama "universo"
si dovrebbe intendere, modernamente, come "realtà fisica" o
"mondo fisico" in quanto Galileo si riferisce al mondo materiale
conoscibile matematicamente. Quindi non solo alla globalità dell'universo
inteso come insieme delle galassie, ma anche di qualsiasi sua parte o
sottoinsieme inanimato. Il termine "natura" includerebbe invece anche
il mondo biologico, escluso dall'indagine galileiana della realtà fisica.
Per quanto riguarda l'universo propriamente detto, Galilei, seppur
nell'indecisione, sembra propendere per la tesi che sia infinito:
«Grandissima mi par l’inezia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto
l’universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso che
all’immensa, anzi infinita, sua potenza» Egli non prende una posizione
netta sulla questione della finitezza o infinità dell'universo; tuttavia, come
sostiene Rossi, «c'è una sola ragione che lo inclina verso la tesi
dell'infinità: è più facile riferire l'incomprensibilità all'incomprensibile
infinito che al finito che non è comprensibile». Ma Galilei non prende mai
esplicitamente in considerazione, forse per prudenza, la dottrina di Giordano
Bruno di un universo illimitato e infinito, senza un centro e costituito di
infiniti mondi tra i quali Terra e Sole che non hanno alcuna preminenza cosmogonica.
Lo scienziato pisano non partecipa al dibattito sulla finitezza o infinità
dell'universo e afferma che a suo parere la questione è insolubile. Se appare
propendere per l'ipotesi della infinitezza lo fa con motivazioni filosofiche in
quanto, sostiene, l'infinito è oggetto di incomprensibilità mentre ciò che è
finito rientra nei limiti del comprensibile. Il rapporto fra la matematica di
Galileo e la sua filosofia della natura, il ruolo della deduzione rispetto
all'induzione nelle sue ricerche, sono stati riportati da molti filosofi al
confronto fra aristotelici e platonici, al recupero dell'antica tradizione
greca con la concezione archimedea o anche all'inizio dello sviluppo nel XVII
secolo del metodo sperimentale. La questione è stata così ben espressa dal
filosofo medievalista Moody. Quali sono i fondamenti filosofici della fisica di
Galileo e quindi della scienza moderna in genere? Galileo è sostanzialmente un
platonico, un aristotelico o nessuno dei due? Si limitò, come sostiene Duhem, a
rilevare e perfezionare una scienza meccanica che aveva avuto origine nel
Medioevo cristiano e i cui principi fondamentali erano stati scoperti e
formulati da Buridano, da Nicola Oresme e dagli altri esponenti della
cosiddetta "fisica dell’ impetus" del XIV secolo? Oppure, come
sostengono Cassirer e Koyré, voltò le spalle a questa tradizione dopo averla
brevemente processata nella sua dinamica pisana e ripartì ispirandosi ad
Archimede e Platone? Le controversie più recenti su Galileo sono consistite in
larga misura in un dibattito circa il valore fondamentale e l’ influsso storico
che su di lui avevano esercitato le tradizioni filosofiche, platoniche e
aristoteliche, scolastiche e antiscolastiche. Galileo viveva in un'epoca in cui
le idee del platonismo si erano diffuse nuovamente in tutta Europa e in Italia
e probabilmente anche per questa ragione i simboli della matematica vengono da
lui identificati con entità geometriche e non con numeri. L'uso dell'algebra
derivato dal mondo arabo nel dimostrare relazioni geometriche era invece ancora
insufficientemente sviluppato ed è solo con Leibniz e Isaac Newton che il
calcolo differenziale divenne la base dello studio della meccanica classica.
Galileo infatti nel mostrare la legge di caduta dei gravi si servì di relazioni
e similitudini geometriche. Da una parte, per alcuni filosofi come
Alexandre Koyré, Ernst Cassirer, Edwin Arthur Burtt (1892–1989), la
sperimentazione fu certamente importante negli studi di Galileo e giocò anche
un ruolo positivo nello sviluppo della scienza moderna. La sperimentazione
stessa, come studio sistematico della natura, richiede un linguaggio con cui
formulare domande e interpretare le risposte ottenute. La ricerca di questo
linguaggio era un problema che aveva interessato i filosofi sin dai tempi di
Platone e Aristotele, in particolare rispetto al ruolo non banale della
matematica nello studio delle scienze della natura. Galilei si affida a esatte
e perfette figure geometriche che però non possono mai essere riscontrate nel
mondo reale, se non al massimo come rozza approssimazione. Oggi la
matematica nella fisica moderna è utilizzata per costruire modelli del mondo
reale, ma ai tempi di Galileo questo tipo di approccio non era affatto
scontato. Secondo Koyré, per Galileo il linguaggio della matematica gli
permette di formulare domande a priori prima ancora di confrontarsi con
l'esperienza, e così facendo orienta la stessa ricerca delle caratteristiche
della natura attraverso gli esperimenti. Da questo punto di vista, Galileo
seguirebbe quindi la tradizione platonica e pitagorica, dove la teoria
matematica precede l'esperienza e non si applica al mondo sensibile ma ne
esprime la sua intima natura. La visione aristotelica Altri studiosi di
Galilei, come Stillman Drake, Pierre Duhem, John Herman Randall Jr., hanno
invece sottolineato la novità del pensiero di Galileo rispetto alla filosofia
platonica classica. Nella metafora del Saggiatore la matematica è un linguaggio
e non è direttamente definita né come l'universo né come la filosofia, ma è
piuttosto uno strumento per analizzare il mondo sensibile che era invece visto
dai platonici come illusorio. Il linguaggio sarebbe il fulcro della metafora di
Galileo, ma l'universo stesso è il vero obbiettivo delle sue ricerche. In
questo modo secondo Drake, Galileo si allontanerebbe definitivamente dalla
concezione e dalla filosofia platonica per accostarsi invece alla filosofia
aristotelica per cui ogni realtà deve avere in sé stessa le leggi del proprio
costituirsi. La sintesi tra platonismo e aristotelismo Secondo Eugenio Garin
Galileo invece, con il suo metodo sperimentale, vuole identificare nel fatto
osservato "aristotelicamente" una necessità intrinseca, espressa
matematicamente, dovuta al suo legame con la causa divina "platonica"
che lo produce facendolo "vivere". Alla radice di gran parte della
nuova scienza, da Leonardo a Galileo, accanto al desiderio tutto rinascimentale
di non lasciare intentata via alcuna, è viva la certezza che il sapere ha
aperta innanzi a sé la possibilità di una salda cognizione. Se noi
ripercorriamo la Teologia platonica, vi troviamo al centro questa tesi,
largamente e minutamente discussa nel libro secondo: alla mente di Dio sono
presenti tutte le essenze; la divina volontà, che poteva non creare, ha
manifestato la sua generosità col dare concreta e mondana realizzazione alle
eterne idee facendole vivere. La fecondità del concetto di creazione si rivela
nel dono della vita che Dio ha dato, e poteva non dare. Ma la volontà non tocca
quel mondo razionale che costituisce l'eterna ragione divina, il verbo divino,
cui dunque si conforma e si adegua questo mondo il quale, platonicamente,
rispecchia l'ideale razionalità per il tramite dell'intermediario matematico:
"numero, pondere et mensura". La mente umana, raggio del Verbo divino,
è nelle sue radici impiantata essa pure in Dio; è in Dio partecipe in qualche
modo dell'assoluta certezza. La scienza nasce così per il corrispondersi di
questa struttura razionale del mondo, impiantata nell'eterna sapienza divina, e
della mente umana partecipe di questa luce divina di ragione. Studi sul moto La
descrizione quantitativa del movimento Rappresentazione dell'evoluzione
moderna dei diagrammi utilizzati da Galileo nello studio del moto. Ad ogni
punto di una linea corrisponde un tempo e una velocità (segmento giallo che
termina con un punto blu). L'area gialla della figura così ottenuta corrisponde
quindi allo spazio totale percorso nell'intervallo di tempo (t2-t1). Dilthey
vede Keplero e Galilei come le massime espressioni nel loro tempo di "pensieri
calcolatori" che si disponevano a risolvere, tramite lo studio delle leggi
del movimento, le esigenze della moderna società borghese: «Il lavoro
degli opifici urbani, i problemi sorti dall’invenzione della polvere da sparo e
dalla tecnica delle fortificazioni, i bisogni della navigazione relativamente
ad apertura di canali, a costruzione e armamento di navi, avevano fatto della
meccanica la scienza preferita del tempo. Specialmente in Italia, nei Paesi
Bassi e in Inghilterra, questi bisogni erano assai vivaci, e provocarono la
ripresa e continuazione degli studi di statica degli antichi e le prime
ricerche nel nuovo campo della dinamica, specialmente per opera di Leonardo,
del Benedetti e dell'Ubaldi. Galilei fu infatti uno dei protagonisti del
superamento della descrizione aristotelica della natura del moto. Già nel
medioevo alcuni autori, come Giovanni Filopono nel VI secolo, avevano osservato
contraddizioni nelle leggi aristoteliche, ma fu Galileo a proporre una valida
alternativa basata su osservazioni sperimentali. Diversamente da Aristotele,
per il quale esistono due moti "naturali", cioè spontanei, dipendenti
dalla sostanza dei corpi, uno diretto verso il basso, tipico dei corpi di terra
e d'acqua, e uno verso l'alto, tipico dei corpi d'aria e di fuoco, per Galileo
qualunque corpo tende a cadere verso il basso nella direzione del centro della
Terra. Se vi sono corpi che salgono verso l'alto è perché il mezzo nel quale si
trovano, avendo una densità maggiore, li spinge in alto, secondo il noto
principio già espresso da Archimede: la legge sulla caduta dei gravi di
Galileo, prescindendo dal mezzo, è pertanto valida per tutti i corpi, qualunque
sia la loro natura. Per raggiungere questo risultato, uno dei primi
problemi che Galileo e i suoi contemporanei dovettero risolvere fu quello di
trovare gli strumenti adatti a descrivere quantitativamente il moto. Ricorrendo
alla matematica, il problema era quello di capire come trattare eventi
dinamici, come la caduta dei corpi, con figure geometriche o numeri che in
quanto tali sono assolutamente statici e sono privi di alcun moto. Per superare
la fisica aristotelica, che considerava il moto in termini qualitativi e non
matematici, come allontanamento e successivo ritorno al luogo naturale,
bisognava dunque prima sviluppare gli strumenti della geometria e in
particolare del calcolo differenziale, come fecero successivamente fra gli
altri Newton, Leibniz e Cartesio. Galileo riuscì a risolvere il problema nello
studio del moto dei corpi accelerati disegnando una linea ed associando ad ogni
punto un tempo e un segmento ortogonale proporzionale alla velocità. In questo
modo costruì il prototipo del diagramma velocità-tempo e lo spazio percorso da
un corpo è semplicemente uguale all'area della figura geometrica costruita. I
suoi studi e le sue ricerche sul moto dei corpi aprirono inoltre la via alla
moderna balistica. Sulla base degli studi sul moto, di esperimenti mentali e
delle osservazioni astronomiche, Galileo intuì che è possibile descrivere sia
gli eventi che accadono sulla Terra che quelli celesti con un unico insieme di
leggi. Superò quindi in questo modo anche la divisione fra mondo sublunare e
sovralunare della tradizione aristotelica (per la quale il secondo è governato
da leggi diverse da quelle terrestri e da moti circolari perfettamente sferici,
ritenuti impossibili nel mondo sublunare). Il principio d'inerzia e il moto
circolare Sfera sul piano inclinato Studiando il piano inclinato, Galilei
si occupò dell'origine del moto dei corpi e del ruolo degli attriti; scoprì un
fenomeno che è conseguenza diretta della conservazione dell'energia meccanica e
porta a considerare l'esistenza del moto inerziale (che avviene senza
l'applicazione di una forza esterna). Ebbe così l'intuizione del principio di
inerzia, poi inserito da Isaac Newton nei principi della dinamica: un corpo, in
assenza d'attrito, permane in moto rettilineo uniforme (in quiete se v=0) fino
a quando forze esterne agiscono su di esso. Il concetto di energia non era
invece presente nella fisica del Seicento e solo con lo sviluppo, oltre un
secolo più tardi, della meccanica classica si arriverà ad una precisa
formulazione di tale concetto. Galileo pose due piani inclinati dello
stesso angolo di base θ, uno di fronte all'altro, ad una distanza arbitraria x.
Facendo scendere una sfera da un'altezza h1 per un tratto l1 di quello a SN
notò che la sfera, arrivata sul piano orizzontale tra i due piani inclinati,
continua il suo moto rettilineo fino alla base del piano inclinato di DX. A
quel punto, in assenza d'attrito, la sfera risale il piano inclinato di DX per
un tratto l2 = l1 e si ferma alla stessa altezza (h2 = h1) di partenza. In
termini attuali, la conservazione dell'energia meccanica impone che l'iniziale
energia potenziale Ep = mgh1 della sfera si trasformi - man mano che la sfera
discende il primo piano inclinato (SN) - in energia cinetica Ec = (1/2) mv2
sino alla sua base, dove vale mgh1 = (1/2) mvmax2. La sfera si muove quindi sul
piano orizzontale coprendo la distanza x tra i piani inclinati con velocità
costante vmax, fino alla base del secondo piano inclinato (DX). Risale poi il
piano inclinato di DX, perdendo progressivamente energia cinetica che si
trasforma nuovamente in energia potenziale, fino a un valore massimo uguale a
quello iniziale (Ep = mgh2 = mgh1), al quale corrisponde velocità finale nulla
(v2 = 0). Rappresentazione dell'esperimento di Galileo sul
principio d'inerzia. Si immagini ora di diminuire l'angolo θ2 del piano
inclinato di DX (θ2 < θ1),e di ripetere l'esperimento. Per riuscire a
risalire - come impone il principio di conservazione dell'energia - alla
medesima quota h2 di prima, la sfera dovrà ora percorrere un tratto l2 più
lungo sul piano inclinato di DX. Se si riduce progressivamente l'angolo θ2, si
vedrà che ogni volta aumenta la lunghezza l2 del tratto percorso dalla sfera,
per risalire all'altezza h2. Se si porta infine l'angolo θ2 ad essere nullo (θ2
= 0°), si è di fatto eliminato il piano inclinato di DX. Facendo ora scendere
la sfera dall'altezza h1 del piano inclinato di SN, essa continuerà a muoversi
indefinitamente sul piano orizzontale con velocità vmax (principio d'inerzia)
in quanto, per l'assenza del piano inclinato di DX, non potrà mai risalire
all'altezza h2 (come prevederebbe il principio di conservazione dell'energia
meccanica). Si immagini infine di spianare montagne, riempire valli e
costruire ponti, in modo da realizzare un percorso rettilineo assolutamente
piano, uniforme e senza attriti. Una volta iniziato il moto inerziale della
sfera che scende da un piano inclinato con velocità costante vmax, questa
continuerà a muoversi lungo tale percorso rettilineo fino a fare il giro
completo della Terra, e ricominciare quindi indisturbata il proprio cammino.
Ecco realizzato un (ideale) moto inerziale perpetuo, che avviene lungo
un'orbita circolare, coincidente con la circonferenza terrestre. Partendo da
questo "esperimento ideale", Galileo sembrerebbe erroneamente
ritenere che tutti i moti inerziali debbano essere moti circolari.
Probabilmente per questo motivo considerò, per i moti planetari da lui
(arbitrariamente) ritenuti inerziali, sempre e solo orbite circolari,
rifiutando invece le orbite ellittiche dimostrate da Keplero. Dunque, ad essere
rigorosi, non pare essere corretto quanto afferma Newton nei
"Principia" - fuorviando così innumerevoli studiosi - e cioè che
Galilei avrebbe anticipato i suoi primi due principi della dinamica. Misura
dell'accelerazione di gravità File:Isocronismo.webm Spiegazione del
funzionamento dell'isocronismo nella caduta dei gravi lungo una spirale su un
paraboloide. Galileo riuscì a determinare il valore che egli credeva costante
dell'accelerazione di gravità g alla superficie terrestre, cioè della grandezza
che regola il moto dei corpi che cadono verso il centro della Terra, studiando
la caduta di sfere ben levigate lungo un piano inclinato, anch'esso ben
levigato. Poiché il moto della sfera dipende dall'angolo di inclinazione del
piano, con semplici misure ad angoli differenti riuscì a ottenere un valore di
g solamente di poco inferiore a quello esatto per Padova (g = 9,8065855 m/s²),
nonostante gli errori sistematici, dovuti all'attrito che non poteva essere
completamente eliminato. Detta a l'accelerazione della sfera lungo il
piano inclinato, la sua relazione con g risulta essere a = g sin θ per cui,
dalla misura sperimentale di a, si risale al valore dell'accelerazione di
gravità g. Il piano inclinato permette di ridurre a piacimento il valore
dell'accelerazione (a < g), facilitandone la misura. Ad esempio, se θ = 6°,
allora sin θ = 0,104528 e quindi a = 1,025 m/s². Tale valore è meglio
determinabile, con una strumentazione rudimentale, rispetto a quello
dell'accelerazione di gravità (g = 9,81 m/s²) misurato direttamente con la
caduta verticale di un oggetto pesante. Misura della velocità della luce
Guidato dalla similitudine con il suono, Galileo fu il primo a tentare di
misurare la velocità della luce. La sua idea fu quella di portarsi su una
collina con una lanterna coperta da un drappo e quindi toglierlo lanciando così
un segnale luminoso ad un assistente posto su un'altra collina ad un chilometro
e mezzo di distanza: questi non appena avesse visto il segnale, avrebbe quindi
alzato a sua volta il drappo della sua lanterna e Galileo vedendo la luce
avrebbe potuto registrare l'intervallo di tempo impiegato dal segnale luminoso
per giungere all'altra collina e tornare indietro.Una misura precisa di questo
tempo avrebbe consentito di misurare la velocità della luce ma il tentativo fu
infruttuoso data l'impossibilità per Galilei di avere uno strumento così
avanzato che potesse misurare i centomillesimi di secondo che la luce impiega
per percorrere una distanza di pochi chilometri. La prima stima della
velocità della luce fu opera, nel 1676, dell'astronomo danese Rømer basata su misure
astronomiche. Apparati sperimentali e di misura Termometro di Galileo, in
un'elaborazione successiva. Gli apparati sperimentali furono fondamentali nello
sviluppo delle teorie scientifiche di Galileo, che costruì diversi strumenti di
misura originalmente o rielaborandoli sulla base di idee preesistenti. In
ambito astronomico costruì da sé alcuni esemplari di cannocchiale, provvisti di
micrometro per misurare quanto distasse una luna dal suo pianeta. Per studiare
le macchie solari, proiettò con l'elioscopio l'immagine del Sole su un foglio
di carta per poterla osservare in sicurezza senza danni alla vista. Ideò anche
il giovilabio, simile all'astrolabio, per determinare la longitudine usando le
eclissi dei satelliti di Giove. Per studiare il moto dei corpi si servì invece
del piano inclinato con il pendolo per misurare intervalli temporali. Riprese
anche un rudimentale modello di termometro, basato sulla dilatazione dell'aria
al variare della temperatura. Il pendolo Schema di un pendolo Galileo
scoprì nel 1583 l'isocronismo delle piccole oscillazioni di un pendolo; secondo
la leggenda l'idea gli sarebbe venuta mentre osservava le oscillazioni di una
lampada allora sospesa nella navata centrale del Duomo di Pisa, oggi custodita
nel vicino Camposanto Monumentale, nella Cappella Aulla. Questo strumento è
semplicemente composto da un grave, come una sfera metallica, legato ad un filo
sottile e inestensibile. Galileo osservò che il tempo di oscillazione di un
pendolo è indipendente dalla massa del grave e anche dall'ampiezza
dell'oscillazione, se questa è piccola. Scoprì anche che il periodo di
oscillazione {\displaystyle T}T dipende solo dalla lunghezza del filo
{\displaystyle l}l:[135] {\displaystyle T=2\pi {\sqrt {\frac
{l}{g}}}}T=2\pi {\sqrt {\frac {l}{g}}} dove {\displaystyle g}g è
l'accelerazione di gravità. Se ad esempio il pendolo ha {\displaystyle
l=1m}{\displaystyle l=1m}, l'oscillazione che porta il grave da un estremo
all'altro e poi di nuovo indietro ha un periodo {\displaystyle T=2,0064s}{\displaystyle
T=2,0064s} (avendo assunto per {\displaystyle g}g il valore medio
{\displaystyle 9,80665}{\displaystyle 9,80665}). Galileo sfruttò questa
proprietà del pendolo per usarlo come strumento di misura di intervalli
temporali. La bilancia idrostatica Galileo nel 1586, all'età di 22 anni quando
era ancora in attesa dell'incarico universitario a Pisa, perfezionò la bilancia
idrostatica di Archimede e descrisse il suo dispositivo nella sua prima opera
in volgare, La Bilancetta, che circolò manoscritta, ma fu stampata
postuma «Per fabricar dunque la bilancia, piglisi un regolo lungo almeno
due braccia, e quanto più sarà lungo più sarà esatto l'istrumento; e dividasi
nel mezo, dove si ponga il perpendicolo [il fulcro]; poi si aggiustino le
braccia che stiano nell'equilibrio, con l'assottigliare quello che pesasse di
più; e sopra l'uno delle braccia si notino i termini dove ritornano i
contrapesi de i metalli semplici quando saranno pesati nell'acqua, avvertendo
di pesare i metalli più puri che si trovino. Viene anche descritto come si
ottiene il peso specifico PS di un corpo rispetto
all'acqua: {\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname {peso\;in\;aria}
}{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname {peso\;in\;acqua}
}}}{\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname {peso\;in\;aria} }{\operatorname
{peso\;in\;aria} -\operatorname {peso\;in\;acqua} }}}. Ne La Bilancetta si
trovano poi due tavole che riportano trentanove pesi specifici di metalli
preziosi e genuini, determinati sperimentalmente da Galileo con precisione confrontabile
con i valori moderni. Il compasso proporzionale Una descrizione dell'uso
del compasso proporzionale fornita da Galileo Galilei. Il compasso
proporzionale era uno strumento utilizzato fin dal medioevo per eseguire
operazioni anche algebriche per via geometrica, perfezionato da Galileo ed in
grado di estrarre la radice quadrata, costruire poligoni e calcolare aree e
volumi. Fu utilizzato con successo in campo militare dagli artiglieri per
calcolare le traiettorie dei proiettili. Galilei e l'arte Letteratura Gli
interessi letterari di Galilei Durante il periodo pisano Galileo non si limitò
alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questi anni le sue
Considerazioni sul Tasso che avranno un seguito con le Postille all'Ariosto. Si
tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi
volumi della Gerusalemme liberata e dell'Orlando furioso dove, mentre
rimprovera al Tasso «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta
dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei
bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma
l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica –
pur nella varietà – del fantasma poetico. Galilei scrittore. D'altro più non si
cura fuorché d'essere inteso» (Giuseppe Parini) «Uno stile tutto cose e
tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma
diretta e propria in che è l'ultima perfezione della prosa.» (Francesco
De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana) Dal punto di vista letterario,
Il Saggiatore è considerata l'opera in cui si fondono maggiormente il suo amore
per la scienza, per la verità e la sua arguzia di polemista. Tuttavia, anche
nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo si apprezzano pagine di
notevole livello per qualità della scrittura, vivacità della lingua, ricchezza
narrativa e descrittiva. Infine Italo Calvino affermò che, a suo parere,
Galilei è stato il maggior scrittore di prosa in lingua italiana, fonte di
ispirazione persino per Leopardi. L'uso della lingua volgare L'uso del volgare
servì a Galileo per un duplice scopo. Da una parte era finalizzato all'intento
divulgativo dell'opera: Galileo intendeva rivolgersi non solo ai dotti e agli
intellettuali ma anche a classi meno colte, come i tecnici che non conoscevano
il latino ma che potevano comunque comprendere le sue teorie. Dall'altro si
contrappone al latino della Chiesa e delle diverse Accademie che si basavano
sul principio di auctoritas, rispettivamente biblico ed aristotelico. Si viene
a delineare una rottura con la tradizione precedente anche per quanto riguarda
la terminologia: Galileo, a differenza dei suoi predecessori, non trae spunti
dal latino o dal greco per coniare nuovi termini ma li riprende, modificandone
l'accezione, dalla lingua volgare. Galileo, inoltre, dimostrò atteggiamenti
diversi nei confronti delle terminologie esistenti: terminologia
meccanica: cauto accoglimento; terminologia astronomica: non respinge i
vocaboli che l'uso abbia già accolto o tenda ad accogliere. Li utilizza, però,
come strumenti, insistendo sul loro valore convenzionale ("le parole o
imposizioni di nomi servono alla verità, ma non si devono sostituire a essa).
Lo scienziato poi segnala gli errori che nascono quando il nome travisa la
realtà fisica o che nascono dalla suggestione esercitata dagli usi comuni di un
vocabolo sul significato figurato assunto come termine scientifico; per evitare
questi errori, egli fissa esattamente il significato dei singoli vocaboli: sono
preceduti o seguiti da una descrizione; terminologia peripapetica: rifiuto
totale che si manifesta con la sua messa in ridicolo, servendosene come puri
suoni in un gioco di alternanze e rime. Arti figurative «L'Accademia e
Compagnia dell'Arte del Disegno fu fondata da Cosimo I de' Medici nel 1563, su
suggerimento di Giorgio Vasari, con l'intento di rinnovare e favorire lo
sviluppo della prima corporazione di artisti costituitasi dall'antica compagnia
di San Luca. Annoverò tra i primi accademici personalità come Buonarroti,
Bartolomeo Ammannati, Agnolo Bronzino, Francesco da Sangallo. Per secoli
l'Accademia rappresentò il più naturale e prestigioso centro di aggregazione
per gli artisti operanti a Firenze e, al tempo stesso, favorì il rapporto fra scienza
e arte. Essa prevedeva l'insegnamento della geometria euclidea e della
matematica e pubbliche dissezioni dovevano preparare al disegno. Anche uno
scienziato come Galileo Galilei fu nominato membro dell'Accademia fiorentina
delle Arti del Disegno. Galileo, infatti, prese pure parte alle complesse
vicende riguardanti le arti figurative del suo periodo, soprattutto la
ritrattistica, approfondendo la prospettiva manieristica ed entrando in
contatto con illustri artisti dell'epoca (come il Cigoli), nonché influenzando
in modo consistente, con le sue scoperte astronomiche, la corrente
naturalistica. Superiorità della pittura sulla scultura Per Galileo nell'arte
figurativa, come nella poesia e nella musica, vale l'emozione che si riesce a
trasmettere, a prescindere da una descrizione analitica della realtà. Ritiene
inoltre che tanto più dissimili sono i mezzi usati per rendere un soggetto dal
soggetto stesso, tanto maggiore l'abilità dell'artista. Perciocché quanto più i
mezzi, co' quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto più
l'imitazione è maravigliosa.” Ludovico Cardi, detto il Cigoli, fiorentino, fu
pittore al tempo di Galileo; ad un certo punto della sua vita, per difendere il
suo operato, chiese aiuto al suo amico Galileo: doveva, infatti, difendersi
dagli attacchi di quanti ritenevano la scultura superiore alla pittura, in
quanto ha il dono della tridimensionalità, a discapito della pittura
semplicemente bidimensionale. Galileo rispose con una lettera. Egli fornisce
una distinzione tra valori ottici e tattili, che diventa anche giudizio di
valore sulle tecniche scultoree e pittoriche: la statua, con le sue tre
dimensioni, inganna il senso del tatto, mentre la pittura, in due dimensioni,
inganna il senso della vista. Galilei attribuisce quindi al pittore una
maggiore capacità espressiva che non allo scultore poiché il primo, tramite la
vista, è in grado di produrre emozioni meglio di quanto faccia il secondo
mediante il tatto. “A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa
gli uomini di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno
dipinti che scolpiti, perché ella gli scolpe e gli colora.” Il padre di Galileo
era un musicista (liutista e compositore) e teorico musicale molto noto ai suoi
tempi. Galileo fornì un contributo fondamentale alla comprensione dei fenomeni
acustici, studiando in modo scientifico l'importanza dei fenomeni oscillatori
nella produzione della musica. Scoprì anche la relazione che intercorre fra la
lunghezza di una corda in vibrazione e la frequenza del suono emessa. Nella
lettera a Lodovico Cardi, Galileo scrive: «Non ammireremmo noi un musico,
il quale cantando e rappresentandoci le querele e le passioni d'un amante ci
muovesse a compassionarlo, molto più che se piangendo ciò facesse?... E molto
più lo ammireremmo, se tacendo, col solo strumento, con crudezze et accenti
patetici musicali, ciò facesse...» (Opere XI) mettendo sullo stesso piano
la musica vocale e quella strumentale, dato che nell'arte sono importanti solo
le emozioni che si riescono a trasmettere. Dediche Banconota da 2.000
lire con la raffigurazione di Galileo 2 euro commemorativi italiani per
il 450º anniversario della nascita di Galileo Galilei A Galileo sono stati
dedicati innumerevoli tipi di oggetti ed enti, naturali o creati dall'uomo:
la Galileo Regio, una regione della superficie del satellite Ganimede;
l'asteroide 697 Galilea; una sonda spaziale, la Galileo; un sistema di
posizionamento spaziale, il sistema Galileo; il gal (unità di accelerazione);
il Telescopio Nazionale Galileo (TNG), situato sull'isola di La Palma (Spagna);
l'aeroporto internazionale "Galileo Galilei" di Pisa; un gruppo
musicale giapponese, Galileo Galilei; un album degli Haggard dal titolo
"Eppur si muove"; una canzone scritta e interpretata dal cantautore
pugliese Caparezza intitolata "Il dito medio di Galileo"; il
sottomarino Galileo Galilei; una nave da guerra italiana, la Galileo Galilei;
la banconota da 2.000 lire; una canzone Messer Galileo cantata da Edoardo
Pachera durante la 52ª edizione dello Zecchino d'Oro; una società, produttrice
di strumenti scientifici, ottici ed astronomici e denominata Officine Galileo;
una moneta commemorativa da 2 euro nel 2014 per il 450º anniversario della sua
nascita; un supercomputer di potenza di calcolo pari a circa 1 PetaFlop,
installato presso il consorzio interuniversitario CINECA e classificato per
diverso tempo fra le prime 500 strutture di calcolo al mondo; una cattedra di
storia della scienza dell'Università di Padova, detta appunto cattedra
galileiana, istituita per Enrico Bellone a cui poi successe William R. Shea che
la resse fino al 2011, più la Scuola Galileiana di Studi Superiori della stessa
università, nonché l'Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti di
Padova. Galileo Day Galileo Galilei viene ricordato con celebrazioni presso
istituzioni locali il 15 febbraio, il Galileo Day, giorno della sua nascita. Altre opere: La bilancetta
(postuma), Tractatio de praecognitionibus et precognitis and Tractatio de
demonstration. Le mecaniche, Le operazioni del compasso
geometrico et militare, Sidereus Nuncius,
Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, Istoria e
dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (pubblicato
dall'Accademia dei Lincei), 1613 (su archive.org, BEIC) Discorso sopra il
flusso e il reflusso del mare, Roma, Il Discorso delle Comete, Il Saggiatore,
Roma, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Firenze, Due nuove
scienze, Leida, Trattato della sfera, Roma 1656 (su BEIC) Lettere Lettera al
Padre Benedetto Castelli, Lettera a Madama Cristina di Lorena, Lettera a Pietro
Dini, Edizione nazionale Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, a cura
di Antonio Favaro, Firenze, G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei. Edizione
nazionale sotto gli auspicii di Sua Maestà il Re d'Italia. Firenze, Tipografia di G. Barbera, Le opere
di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, Appendice, Firenze, Giunti, 2013 ss. in
quattro volumi: Vol. 1: Iconografia galileiana, a cura di F. Tognoni, Carteggio,
a cura di M. Camerota e P. Ruffo, con la collaborazione di M. Bucciantini,
Testi, a cura di A. Battistini, M. Camerota, G. Ernst, R. Gatto, M. Helbing e
P. Ruffo, Documenti, a cura di M. Camerota e P. Ruffo (Edizione digitale delle
Opere Letteratura e teatro Vita di Galileo è il titolo di un'opera teatrale di
Brecht in più versioni, a partire dalla prima risalente agli anni 1938-39. Gli
ultimi anni di Galileo Galilei è il titolo di un'opera teatrale giovanile di
Ippolito Nievo. Galileo è uno spettacolo teatrale del 2010 di Francesco Niccolini
e Marco Paolini. Film Galileo Galilei è un cortometraggio sullo scienziato
pisano. Galileo è un film di Cavani. Galileo si chiama anche il film di Joseph
Losey tratto dal dramma Vita di Galileo di Bertolt Brecht. Per testuali parole
di Puccianti, Galileo fu veramente cultore e propugnatore della Natural
Filosofia: in effetti egli fu matematico, astronomo, fondatore della Fisica nel
senso attuale di questa parola; e queste varie discipline considerò sempre e
trattò come intimamente connesse tra loro, e insieme ad altri studi vari, come
diversi aspetti e atteggiamenti di una stessa attività dello spirito: filosofo
dunque, anche perché portò su questa attività la riflessione e la critica; ma
non incurante delle conseguenze o, come ora si direbbe, delle applicazioni
pratiche. I problemi più importanti e centrali lo impegnarono per tutta la
durata della sua vita scientifica, non con continua opera su ciascuno di essi,
ma con ritorni successivi sempre più approfonditi e più generali, e in fine
risolutivi» (da: Luigi Puccianti, Storia della fisica, Firenze, Felice Le
Monnier, Fondamentali furono inoltre le sue idee e riflessioni critiche sui
concetti fondamentali della meccanica, in particolare quelle sul movimento.
Tralasciando l'ambito prettamente filosofico, dopo la morte di Archimede, il
tema del movimento cessò di essere oggetto di analisi quantitativa e
discussione formale allorché Gerardo di Bruxelles, vissuto nella seconda metà
del XII secolo, nel suo Liber de motu riprese la definizione di velocità, già
peraltro considerata dal matematico del III secolo a.C. Autolico di Pitane,
avvicinandosi alla moderna definizione di velocità media come rapporto fra due
quantità non omogenee quali la distanza e il tempo (cfr. Gerard of Brussels,
"The Reduction of Curvilinear Velocities to Uniform Rectilinear
Velocities", edito da Clagett, in Grant, A Source Book in Medieval
Science, Cambridge (MA), Harvard University Press, e Mazur, Zeno's Paradox. Unraveling the Ancient
Mystery Behind the Science of Space and Time, New York/London, Plume/Penguin
Books, Ltd., Achille e la tartaruga. Il
paradosso del moto da Zenone a Einstein, a cura di Claudio Piga, Milano, Il
Saggiatore, Grazie al perfezionamento del telescopio, che gli permise di
effettuare notevoli studi e osservazioni astronomiche, fra cui quella delle
macchie solari, la prima descrizione della superficie lunare, la scoperta dei
satelliti di Giove, delle fasi di Venere e della composizione stellare della
Via Lattea. Per maggiori notizie, si veda: Luigi Ferioli, Appunti di ottica
astronomica, Milano, Hoepli, Cfr. pure Vasco Ronchi, Storia della luce,
IBologna, Nicola Zanichelli Editore, Dal punto di vista storico, un'ipotesi
autenticamente "eliocentrica" fu quella di Aristarco di Samo, poi
sostenuta e dimostrata da Seleuco di Seleucia. Il modello copernicano invece,
contrariamente a quanto generalmente ritenuto, è eliostatico ma non
eliocentrico. Il sistema di Keplero, poi, non è né eliocentrico (il Sole occupa
infatti uno dei fuochi dell'orbita ellittica di ciascun pianeta che gli ruota
attorno) né eliostatico (a causa del moto di rotazione del Sole attorno al
proprio asse). La descrizione newtoniana del sistema solare, infine, eredita le
caratteristiche cinematiche (i.e., orbite ellittiche e moto rotatorio del Sole)
di quella kepleriana ma spiega causalmente, tramite la forza di gravitazione
universale, la dinamica planetaria. ^ A proposito del modello copernicano: «È
da notare che, sebbene il Sole sia immobile, tutto il sistema [solare] non
ruota intorno ad esso, ma intorno al centro dell'orbita della Terra, la quale
conserva ancora un ruolo particolare nell'Universo. Si tratta cioè, più che di
un sistema eliocentrico, di un sistema eliostatico.» (da G. Bonera, Dal sistema
tolemaico alla rivoluzione copernicana, E non più soggettiva, come era stata
fino ad allora condotta. ^ Secondo Guerra, nella casa sita al n. 24
dell'attuale via Giusti in Pisa (G. Del Guerra, La casa dove, in Pisa, nacque
G., Pisa, Tipografia Comunale. Verosimilmente, G. non dovette avere buoni rapporti
con la madre se non ricorda mai gli anni della sua infanzia come un periodo
felice. Il fratello Michelangelo ha occasione di scrivere a questo proposito a
G., quasi augurandosene l'ormai imminente dipartita. Di nostra madre intendo,
con non poca meraviglia, che sia ancora così terribile, ma poiché è così
discaduta, ce ne sarà per poco, sì che finiranno le lite.» Un Ammannati fu
fatto cardinale da Clemente VII, mentre il fratello Ammannati ottenne la
porpora da uno dei successori di Clemente, l'antipapa Benedetto XIII. Quanto a
Piccolomini, cardinal, fu umanista, continuatore dei Commentarii di Pio II e
autore di una Vita dei papi che è andata perduta. Si ricorda un BONAIUTI, che
fa parte del governo di Firenze dopo la cacciata del Duca di Atene e un G. Bonaiuti,
medico noto al suo tempo e gonfaloniere di giustizia, il cui sepolcro nella
Basilica di Santa Croce divenne la tomba dei suoi discendenti. A partire da G.
BONAIUTI, il cognome della famiglia cambiò in “Galilei.” Così scrive Tedaldi a
Vincenzo G. Per la vostra ho inteso quanto havete concluso con il vostro
figliuolo [Galileo]; et come, volendo cercar di introdurlo qua in Sapienza, vi
ritarda il non esser la Bartolomea maritata, anzi vi guasta ogni buon pensiero;
et che desiderate che la si mariti, e quanto prima. Le considerationi vostre
son buone, et io non ho mancato né manco di far quell'opera che si ricerca; ma
sino a qui son venuti tutti partiti, per non dir obbrobriosi, poco aproposito
per lei… Per concludere, ardisco di dire che credo che la Bartolomea sia così
casta come qual si vogli pudica fanciulla; ma le lingue non si possono tenere;
pure io crederrò, con l'aiuto che do loro, di levar via tutti questi romori et
farli supire; per il che a quel tempo potrete facilmente mandare il vostro G. a
studio; et se non harete la Sapienza, harete la casa mia al vostro piacere,
senza spesa nessuna, et così vi offero et prometto, ricordandovi che le novelle
son come le ciriegie; però è bene credere quel che si vede, e non quel che si
sente, parlando di queste cose basse.» Obbligatoriamente l'iscrizione doveva
avvenire per gli studenti toscani in quell'Università. Chi voleva andare in
un'altra Università avrebbe dovuto pagare una multa di 500 scudi stabilita da
un editto granducale per scoraggiare la frequenza in un ateneo diverso da
quello pisano (In: A. Righini, Op. cit.). ^ Lo testimonierebbe la coincidenza
di argomentazioni esistente tra gli Juvenilia, gli appunti di fisica abbozzati
da Galileo in questo periodo, e i dieci libri del De motu del Bonamico. (In:
Storia sociale e culturale d'Italia, La cultura filosofica e scientifica, La
filosofia e le scienze dell'Uomo, La storia delle scienze, Milano, Bramante
Editrice, Ne descrive i dettagli nel breve trattato La bilancetta, circolato
prima fra i suoi conoscenti e pubblicato postumo (Bottana, G. e la bilancetta:
un momento fondamentale nella storia dell'idrostatica e del peso specifico,
Firenze, Olschki. Studi riportati nel Theoremata circa centrum gravitatis
solidorum, pubblicato in appendice ai Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali. ^
Galileo sottopose a Clavius una sua insoddisfacente dimostrazione della
determinazione del baricentro dei solidi. (Lettera a Clavius). Medici aveva progettato
una draga per il porto di Livorno. Su questo progetto il granduca Ferdinando
aveva chiesto una consulenza a Galilei che dopo aver visto il modellino affermò
che non avrebbe funzionato. Medici volle comunque costruire la draga che in
effetti non funzionò. (Nelli, Vita e commercio letterario di G., Losanna, con
tale Landucci che G. raccomandò a Cristina di Lorena riuscendo a fargli
ottenere il posto di pesatore al saggio; il lavoro, consistente nel pesare gli
argenti che venivano venduti, procurava un guadagno di circa 60 fiorini.
Lettera a Cristina di Lorena (Ed. Naz., Vol. X, Lettera N., Alla dote per la
sorella Livia avrebbe dovuto contribuire anche il fratello Michelangelo.
(Lettera a Michelangelo G., Michelangelo... fu versatissimo nella musica e la
esercitò per professione; essendo stato buon liutista non v'è dubbio che fosse
allievo egli pure di suo padre Vincenzo. visse in Polonia al servizio di un
conte palatino; era a Monaco di Baviera ove insegna musica, e in una lettera
datata del 16 agosto di quell'anno, egli pregava il fratello G., di
acquistargli grosse corde di Firenze per suo bisogno et dei suoi scolari...»
(Dizionario universale dei musicisti, Milano, Sonzogno). Le spese per i viaggi
in Polonia e Germania furono sostenute da G.. Michelangelo appena sistematosi
in Germania volle sposarsi con Bandinelli e, anziché saldare il debito per la
dote che aveva con il cognato Galletti, spese tutto il denaro che aveva in un
lussuoso ricevimento nuziale. ^ «Mi dispiace ancora di veder che V.S. non sia trattata
second'i meriti suoi, e molto più mi dispiace che ella non habbi buona
speranza. Et s'ella vorrà andar a Venetia questa state, io l'invito a passar di
qua, che non mancarò dal canto mio di far ogni opera per aiutarla e servirla;
chè certo io non la posso veder in questo modo. Le mie forze sono deboli, ma,
come saranno, io le spenderò tutte in suo servitio. (Lettera di Monte a G.. In: Ed. Naz.,
Lettera. Ancora vivente, G. fu ritratto da alcuni dei più famosi pittori del
suo tempo, come Tito, Caravaggio, Tintoretto, Caccini, Villamena, Leoni,
Passignano, Sandrart e Mellan. I due ritratti più famosi, visibili alla
Galleria Palatina di Firenze e agli Uffizi sono invece di Justus Suttermans che
rappresenta G. ormai anziano come simbolo del filosofo conoscitore della
natura. (In "Portale G.") Per moto «naturale» s'intende quello di un
grave, ossia di un corpo in caduta libera, diversamente dal moto violento, che
è quello di un corpo che sia soggetto ad un «impeto». L'esatta formulazione
della legge è stata data da G. nel successivo De motu accelerato: «Motum
aequabiliter, seu uniformiter, acceleratum dico illum, qui, a quiete recedens,
temporibus aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi superaddit», ove
l'accelerazione di gravità è indicata essere direttamente proporzionale al
tempo e non allo spazio. (Ed. Naz.) Con lettera da Verona, l'Altobelli riferiva
a Galileo, senza dar credito, che la stella, «quasi un arancio mezzo maturo»,
sarebbe stata osservata. In verità, dietro Antonio Lorenzini (da non confondere
col vescovo Lorenzini) si celava il Cremonini; cfr. Uberto Motta, Antonio
Querenghi. Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento,
Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Vita e
Pensiero, «Nacque in Padova. Poco più che ventenne professò i voti nell’Ordine
Benedettino, e nei primi anni del secolo XVII si trovava nel monastero di S.
Giustina di Padova, legato in molta intimità col Castelli, insieme col quale fu
discepolo di G., prendendo le parti del Maestro nelle questioni relative alla
stella nuova (Da Museo G.). Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis, per
quem omnia fere tum Euclidis, tum mathematicorum omnium problemata facili
negotio resolvuntur, opera et studio Balthesaris Capræ nobilis Mediolanensis
explicata. (In: Patauij, apud Petrum Paulum Tozzium) Alcuni calcoli
astrologici, anche risalenti al periodo fiorentino, furono conservati da G. e
compaiono nell'Opera omnia (sezione "Astrologica nonnulla"). Da
notare che per lo più si tratta di calcoli del tema natale, solo in qualche
caso accompagnati da interpretazioni o pronostici. È stata ritrovata una lista
della spesa dove G., insieme a ceci, farro, zucchero, ecc., ordinava di
acquistare anche pezzi di specchio, ferro da spianare e quanto di utile per il
suo laboratorio ottico. (Da una nota di una lettera di Brenzoni conservata nella Biblioteca Centrale di
Firenze) Espressione tradizionalmente attribuita da scrittori cristiani
all'imperatore pagano Flavio Claudio GIULIANO che in punto di morte avrebbe riconosciuto
la vittoria del Cristianesimo. Hai vinto o G., riferendosi a Gesù nativo della
Galilea. Il comportamento di G. è stato variamente giudicato: vi è chi sostiene
che egli le chiuse in convento perché «doveva pensare a una loro sistemazione
definitiva, cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era
probabile un futuro matrimonio» (come se egli non potesse legittimarle, come
fece con il figlio Vincenzio e come se una monacazione coatta fosse preferibile
a un matrimonio non prestigioso; cfr. Sofia Vanni Rovighi, Storia della
filosofia moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione scientifica a Hegel,
Brescia, Editrice La Scuola), mentre altri ritengono che «alla base di tutto
stava il desiderio di G. di trovare per esse una sistemazione che non
rischiasse di procurargli in futuro alcun nuovo carico [...] tutto ciò
nascondeva un profondo, sostanziale egoismo» (cfr. Geymonat,). «quel mirare per quegli occhiali
m'imbalordiscon la testa», avrebbe detto Cremonini secondo la testimonianza di
Gualdo. (Da una lettera del Gualdo a G.. Scheiner pubblicò ancora
sull'argomento il De maculis solaribus et stellis circa Iovem errantibus. La
priorità della scoperta andrebbe all'olandese Fabricius, che pubblicò a
Wittenberg, Maculis in Sole observatis, et apparente earum cum Sole
conversione. Cioè con i sensi, con l'osservazione diretta. ^ «Egli pensava
infatti che una colonna d’acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l’azione
del suo stesso peso, così come si spezza una fune di materiale poco resistente
quando, fissata in alto, viene tirata dal basso. Fu quindi proprio questa
analogia fondata sull’esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada.
(in IL VUOTO – Garagnani – Isis Archimede). Salmi che la figlia di G., suor
Maria Celeste, s'incaricò di recitare, con il consenso della Chiesa. Baretti,
in una sua ricostruzione, avrebbe fatto nascere la leggenda di un G. che una
volta alzatosi in piedi, colpì la terra e mormorò: "E pur si muove!"
(In Baretti, The Italian Library. Tale frase non è contenuta in alcun documento
contemporaneo, ma nel tempo fu ritenuta veritiera, probabilmente per il suo
valore suggestivo, a tal punto che Berthold Brecht la riporta in "Vita di
G.", opera teatrale dedicata allo scienziato pisano alla quale egli si dedicò
a lungo. In Paschini è riportato che: «secondo le norme del Sant'Offizio»
questa condizione «era equiparata ad una prigionia per quanto egli facesse per
ottenere la liberazione. Si ebbe il timore probabilmente ch'egli riprendesse a
fare propaganda delle sue idee e che un perdono potesse significare che il
Sant'Offizio si fosse ricreduto a proposito di esse» (cfr. pure Santini,
"G.", L'Unità). Conceditur habitatio in eius rure, modo tamen ibi in
solitudine stet, nec evocet eo aut venientes illuc recipiat ad collocutiones,
et hoc per tempus arbitrio Suae Sanctitatis. (Ed. Naz.) A G. era infatti
proibito stampare qualunque opera in un paese cattolico. ^ Fonti di questa
corrispondenza si trovano in: Paolo Scandaletti, Galilei privato, Udine,
Gaspari editore, Favaro, Amici e corrispondenti di G., Bocchineri, Venezia,
Pubblicazioni del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, VNero, G. e
il suo tempo, Milano, Simonelli Editore, A. Righini, G.: tra scienza, fede e
politica, Bologna, Editrice Compositori; Geymonat, Abetti, Amici e nemici di
G., Milano, Bompiani, Banfi, «Galileo fu
invitato alla villa di S.Gaudenzio, sulle colline di Sofignano, alla fine di
luglio del 1630, ospite di Buonamici, che con lo scienziato vantava una
parentela da parte della moglie Alessandra Bocchineri: la sorella di lei,
Sestilia, aveva sposato a Prato l'anno prima il figlio di G., Vincenzo. (In
Comune di Vaiano) Fu permessa a Galilei l'assistenza dell’allievo Viviani e, anche di Torricelli. La prego a
condonare questa mia non volontaria brevità alla gravezza del male; e le bacio
con affetto cordialissimo le mani, come fo anche al Signor Cavaliere suo
Consorte.» (In Le Opere di G., a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società
Editrice Fiorentina) Anfossi pubblicava–anonimamente in Roma un libro in cui le
leggi di Keplero e di Newton erano presentate come cose che non meritano la
menoma attenzione» e si chiedeva come mai tanti uomini santi ispirati dallo
Spirito Santo, «ci han detto ottanta e più volte che il Sole si muove senza
dirci una volta sola che è immobile e fermo?» (Sebastiano Timpanaro, Scritti di
storia e critica della scienza, Firenze, G. C. Sansoni, L'edizione curata da
Favaro si basa sulle copie allora disponibili, perché l'originale non era stato
ritrovato (Avvertimento. Il manoscritto originale è pubblicato come appendice a
Camerota, Giudice, Ricciardi, "The reapparance of G.'s original letter to
Castelli". L'effetto di parallasse stellare, che dimostra la rivoluzione
della Terra attorno al Sole, sarà misurato da Bessel. Per il testo della
condanna, vedi: Sentenza di condanna di G., su wikisource.org. Per il testo
dell'abiura, vedi: Abiura di G. su it.wikisource.org. Questa frase è stata
citata in un intervento molto criticato di Joseph Ratzinger (cfr. "La
crisi della fede nella scienza" in Svolta per l'Europa? Chiesa e modernità
nell'Europa dei rivolgimenti, Roma, Paoline. Ratzinger aggiunge da parte sua
che: Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa
apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della
razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in
una ragionevolezza più grande. Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che
evidenzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto
oggi la scienza e la tecnica. Già chiaramente indicati nella Lettera a Madama
Cristina di Lorena granduchessa di Toscana. L'Accademia del Cimento, fra le più
antiche associazioni scientifiche al mondo, fu la prima a riconoscere
ufficialmente, in Europa, il metodo sperimentale galileano. Fu fondata a
Firenze da alcuni allievi di G., Torricelli e Viviani. Si lasci alla
storiografia stabilire, caso fosse mai possibile, se Galileo concepisse il moto
inerziale unicamente come circolare o se ammettesse anche la possibilità in
natura della prosecuzione indefinita del moto rettilineo, anche perché in G.
non si può sensatamente parlare di formulazione del principio d'inerzia come se
fossimo nell'ambito della moderna fisica newtoniana, ma solo di alcune considerazioni
preliminari al principio della relatività del moto.» Portale G., su
portalegalileo. Museo galileo. it.Testi non compresi nella prima edizione
dell'Edizione Nazionale curata da Antonio Favaro, ma in quella curata da
Edwards e Helbing, con Introduzione, Note e Commenti di Wallace, per Le opere
di G.. Edizione Nazionale, Appendice Testi, Firenze, G. C. Giunti.
Bibliografiche Abbagnano, Albert Einstein, Leopold Infeld, L'evoluzione
della fisica. Sviluppo delle idee dai concetti iniziali alla relatività e ai
quanti, Torino, Editore Boringhieri, Gliozzi, "Storia del pensiero
fisico", in Berzolari, Enciclopedia delle matematiche elementari e
complementi, Milano, Editore Ulrico Hoepli, Paolo Straneo, Le teorie della
fisica nel loro sviluppo storico, Brescia, Morcelliana, Toraldo di Francia,
L'indagine del mondo fisico, Torino, Einaudi editore, Gamow, Biografia della
fisica, Biblioteca della EST, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Max Born, La
sintesi einsteiniana, Torino, Boringhieri, Natalino Sapegno, Compendio di
storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia Editrice, Centro di
Studi Filosofici di Gallarate (cur.), Dizionario dei Filosofi, Firenze, G.C.
Sansone Editore, Ludovico Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico
e scientifico, Milano, Aldo Garzanti Editore, Geymonat, Lineamenti di filosofia
della scienza, Biblioteca della EST, Milano, Mondadori, Enriques, Santillana,
Compendio di storia del pensiero scientifico, dall'antichità fino ai tempi
moderni, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, Renato Pettoello, Leggere Kant,
Brescia, Editrice La Scuola, Lerner, Qualità e quantità e altre categorie della
scienza, Torino, Editore Boringhieri, Pietro Redondi, Galileo eretico,
Roma-Bari, Editori Laterza, Sentenza di condanna di G,. Giovanni Paolo
II. Vaticano, discorsi, Discorso ai partecipanti alla sessione plenaria della
Pontificia Accademia delle scienze, su w2. vatican.va, 31 ottobre Tullio Regge,
Cronache dell'universo. Fisica moderna e cosmologia, Torino, Editore
Boringhieri, La dimora natale di G.: l’enigma delle tre case, Shea, La
Rivoluzione scientifica–I protagonisti: G., in: Storia della Scienza Treccani,
Aliotta e Carbonara Righini, G.. Tra scienza, fede e politica, Bologna,
Editrice Compositori, Lettera da Pisa di Tedaldi a Vincenzo G., «mi è grato di
saper che haviate rihavuto G,, et che siate di animo di mandarlo qua a studio».
(Ed. Naz.) Kline, Bellone, Caos e armonia. Storia della fisica moderna e
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circa la Nova et portentosa Stella che nell'anno MDCIIII adì X ottobre apparse.
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Lorenzo Pasquati, 1605. ^ Antonio Favaro, "Galileo Galilei ed il «Dialogo
de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova». Studi e
ricerche", Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti,
Enciclopedia Treccani alla voce "Ronchitti, Cecco di" ^ Difesa di
Galileo Galilei nobile fiorentino, lettore delle matematiche nello studio di
Padova, contro alle calunnie et imposture di Capra milanese, usategli sì nella
«Considerazione astronomica sopra la Nuova Stella del MDCIIII» come (&
assai più) nel pubblicare nuovamente come sua invenzione la fabrica et gli usi
del compasso geometrico et militare sotto il titolo di «Usus et fabrica circini
cuiusdam proportionis et c.» (In: Venetia, presso Tomaso Baglioni). Favaro,
"G. astrologo secondo documenti editi e inediti. Studi e ricerche",
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Le epigrafi svelate, Roma, Edizioni Nuova Cultura, Geymonat, Reale, Antiseri,
Manuale di filosofia. Editrice La Scuola, Ed. Naz., Lettera di Vinta a G. (Ed.
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l'opinione de' Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della Terra e
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Per una rigorosa disamina storico-critica della dinamica relativa, si veda:
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scienze, lettere ed arti Arcetri Astronomia Bibliografia su Galileo Galilei
Cannocchiali di G. Casa di G. Domus Galilaeana Fisica Galilei (famiglia)
Isocronismo La favola dei suoni Meccanica Metodo scientifico Micrometro di
Galileo Museo Galileo Copernico Ricci Processo a G. Relatività galileiana
Rivoluzione astronomica Rivoluzione scientifica Termometro galileiano
Trasformazione galileiana Villa Il Gioiello Vincenzo G. Virginia G. Vita
privata di G. Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
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galileiane, su galileoteca.museogalileo.it. Museo G. – Firenze, Italia, su
museogalileo.it. Conserva gli strumenti scientifici originali di G. European
Cultural Heritage Onlinesu echo.mpiwg- berlin.mpg.de. Scheda su G. accademico
della Crusca sul sito dell'Accademia, su adcrusca.it.Fondo "Antonio
Favaro", su domusgalilaeana.it. Archivio "Scienza et Fede", su
disf.org. Laboratorio storico "G.", su illaboratoriodi
galileogalilei. it. Lo scherzo d'un uomo di genio dice cose più serie che
non le cose serie dell'uomo volgare; anzi primo indicio della superiorità è il
sorriso. Il volgo andava ripetendo che la caduta di un pomo preannunziò la
scoperta della gravitazione universale: e Byron scherzando di ceva essere stata
la prima volta, da Adamo in qua, che un pomo e una caduta dessero qualche
vantaggio al genere umano. Altro che pomo ! voleva dire il poeta: esatte
premesse occorrono alle grandi scoperte e non il caso. Il pensiero è una catena
e ciò che ai più par caso entra nella serie. Togliete G. e Keplero e avrete
soppresso le premesse immediate a Newton. Togliete Copernico, e li avrete
soppressi tutti. Togliete le tradizioni pitagorichealle univer sità italiane e
sparisce Copernico. Dov'è il caso? Il pomo no: una serie di grandi pensieri che
furono grandi scoperte sgombrò le vie del firmamento all' anglo. Un fatto può
essere occasionale, ma per quegli uomini che portano nel cervello quella
preparazione, che rias sumendo la serie, afferra il fatto e lo trasforma. Così
nell'astronomia e così proprio in tutte le altre scienze. To gliete Bruno e
Campanella, e non troverete Vico. Togliete Telesio, e li perdete tutti.
Togliete le tradizioni naturalistiche dell'antica scuola italica— già greca di
origine —e sparisce Telesio. È la me desima serie ed è una riprova della
cognatela tra tutte le scienze. E questa serie non si smentisce neppur dove la
reazione crede spennare le reni agl'ingegni alati. Non fu una reazione il libro
della Ragion di Stato —che creò tanti discepoli-contro il Principe, che aveva
già tutta una scuola, cioè Bottero non ebbe il disegno aperto di reagire
trionfalmente contro Machiavelli? Ebbene, mentre il prete Bottero mandava ad
uno de'più grandi e sventurati ingegni 215 italiani quante maledizioni gli
erano ispirate dalla triplice reazione di Parigi, di Madrid e di Roma, era nel
tempo istesso tirato dalla logica a prendere da MACHIAVELLI (si veda) la
teorica de’ mezzi, come il secre tario di Firenze aveva preso la teorica
de'fini pubblici da ALIGHIERI (si veda) e da PETRARCA (si veda), ispirati —
alla loro volta —dall'antica tradizione ro mana. Ed ecco la reazione entrare
nella serie, come appunto la santa alleanza insinuava ne 'codici tanti
principii della rivoluzione. E ciò non accade soltanto rispetto ai
sistemide'quali l'uno suppone l'altro anche dove il secondo reagisce al primo,
ma alle singole teo riche di ciascuno, le quali non segnano un progresso che
non sia una conclusione di ciò che si era pensato prima. A che mira, infatti,
la critica di G.? A reintegrare l'unità della natura. Ma se Bacone lo chiama
filosofo telesiano, voi dovete ricordare che Telesio non solo aveva propugnato
il metodo sperimen tale, ma tentato comporre il dissidio lasciato aperto da
Aristotile tra materia e forma, come POMPONAZZI (si veda) e CAMPANELLA (si veda)
troncano il dualismo tra intelletto e senso, e Bruno tra natura e Dio. Non è un
gruppo, è una catena nella quale il nome di ciascuno s’inanella nel precedente,
e tutti insieme presentano il disegno della rinnovata natura. Per questi il
risorgimento fu naturalismo, fu ita liano, mentre la scolastica era stata
europea. Se dalla serie e dal proprio posto nella serie voi spiccate il nome di
G., vi accorgerete che resterà il nome di un astronomo più o meno insigne, di
un improvvisatore di qualche teorica, dello scopri tore fortunato di qualche
astro e di qualche istrumento, ma che cosa egli abbia aggiunto al pensiero, per
quale via e con quali effetti voi non saprete dire. Ammirerete un mito e sarà
volgare ammirazione. Voi, in somma, assisterete ai miracoli di un prestigiatore
non alle scoperte del genio. Or sospettate voi che io vi voglia esporre ad una
ad una le pre messe di G. e di Klepero per arrivare sino a Newton? che io
voglia indicarvi da quali parti specialmente della meccanica terre stre emerse
la meccanica celeste e come la dimostrazione de'quadrati de' tempi delle
rivoluzioni che stanno fra loro come i cubi degli assi maggiori delle orbite
abbia aperto a Newton la conclusione che la forza era proporzionale alla massa?
Sarebbe riuscire, pel cammino peggiore, a nessuna meta. I dotti · non
imparerebbero una sillaba di nuovo e vedrebbero in espressioni difettive
snaturate quelle forme che chiedono un'analisi esatta, e i meno dotti si
allontanerebbero storditi e infastiditi. Io, dunque,. senza guastare la serie,
debbo dirvi quel che penso io intorno ad al cuni pensieri di quell'uomo sommo e
scelgo — non a caso —i punti seguenti: 1.º Come intese G. il metodo
sperimentale? 2. ° Quale valore oggettivo dette egli alla conoscenza? 3. °
Quale fu il risulta mento scientifico e morale delle sue dottrine? Non è poco,
e più che nella cortesia --cosa mediocre— confido nella serietà con la quale
voi ed io vogliamo che sia discusso il pa trimonio glorioso della mente. II. «
Non vogliamo costruzioni scientifiche, non metodi aprioristici, vogliamo il
metodo sperimentale: Così gridano, e vogliamolo pure, io scrivevo, ma
vogliamolo davvero. Non fu forse proclamato ed eser citato con diverso intento
e diversa fortuna? Non fu fecondo o arido, secondo l'intelletto e la mano che
presero a trattarlo? Non si distin gue dall'empirismo? Bisogna dunque sapere
che è veramente me todo sperimentale. G. si trova a pari distanza tra TELESIO
(si veda) e Bacone, due che pro pugnarono il metodo sperimentale senza scoprire
nulla nel mondo naturale, e si trova ad un secolo di distanza da Leonardo da
Vinci, che, professando il metodo sperimentale, strappò più di un segreto alle
cose reali. Perchè dunque l'istesso metodo, arido nelle mani di Telesio e di
Bacone, diventa fecondo nelle mani di Leonardo e di G.? Ecco il punto. E la
risposta è chiara: — Perchè il metodo non è veramente lo stesso. Per Telesio e
Bacone comincia e resta nel fenomeno e dove al fenomeno aggiunge qualche
ipotesi, è soggettiva, cioè puro ri torno all'antico. Per Leonardo e G. comincia
dal fatto e sale alle alte sfere della ragione, mediante il linguaggio stesso
delle cose che è la matematica. La matematica è formale come la logica —dice
Bacone. La matematica è reale come le cose afferma G.. Con la matematica sei
arrivato a far girare la terra -è un frizzo di Bacone contro G.. E la terra
gira -- grida il pisano. Pur tu ti sei disdetto —rincalza Bacone. Stolto ! dice
G. -- potevo disdirmi cento volte, e la prova re sta e la terra continua il suo
giro. Ma chi ti malleva la realtà della matematica? Il fatto stesso che
misuratamente si move, misuratamente per corre il tempo e lo spazio, nella
misura costituisce l'ordine. -La misura è aggiunta. - La misura è: io la colgo:
chi non la coglie non vede il fatto. TELESIO (si veda) non lo dice. VINCI (si
veda) lo dice, e scoprì. Telesio e tu non avete scoperto. Il fatto a voi è
stato muto; a noi ha parlato. Fermiamoci. Il divario è grande. Potete voi dire
che sia l'istesso metodo? È Bacone l'anglo che intese G. o un altro? Quando si
parla di metodo sperimentale, di senso, di fatto, biso gna cogliere tutto il
fatto, il quale non è qualità soltanto, è quan tità; e questi due termini
s'integrano a vicenda, in modo che la quantità si qualifica, e la qualità si
quantifica. Questo pro cesso graduale ed intimo delle cose è l'evoluzione, e la
legge che la traveste, affaticandola di moto in moto, è la causalità, che in
Newton si determina come gravitazione universale. Il fatto dunque non è
fenomeno soltanto, è fenomeno e legge. Così G. lo intuisce e così lo intuisce
intero; Bacone coglie un termine solo e mutila il fatto. L'esperienza che in G.
è piena, in Bacone è unilaterale; quel metodo che in Galilei è sperimentale, in
Bacone diventa empirico; e quel processo che nell'uno è fecondo di scoperte,
nell'altro è gonfio di precetti pom posi. Ha un bel rimuovere Bacone tutti
quelli ch'ei chiama idoli, se innanzi agli occhi gli rimane fisso l'idolo
peggiore, il fatto eslege. Così aveva fatto Leonardo da Vinci notando nel
fenomeno la legge, e così fa Galilei, entrambi con pochi precetti e con effetti
amplissimi, tirandone l'uno applicazioni mirabili alla meccanica, e
specialmente all'idraulica, l'altro al sistema planetario. E si ripeta pure che
in G. l'esperienza naturale è senso pieno, ma quì un fatto contemporaneo ci
deve fermare e impensie rire. Bruno senza i computi di Copernico, senza il
metodo speri mentale e il teloscopio di G., e senza il calcolo superiore di
Newton, non era pervenuto per sola forza di pensiero, alle medesi me anzi a più
larghe conclusioni che non si trovino nell'astronomo tedesco, nell'italiano e
nell'inglese, affermando cose che facevano sgomento a Klepero e furono trovate
poi vere dal progresso poste riore? Il pensiero, da solo, non valse altrettanto
che l'esperienza, e 218 ciò che lo scienziato induceva computando, il genio non
poteva co struire? L'esempio di Bruno, non bene inteso, potrebbe inficiare la
cri tica di G., nè per il genio vale ricorrere ad eccezioni, che com plicano la
quistione e non spiegano nulla. Il vero è che Bruno intese il fatto e
l'esperienza come G., e movendo dal medesimo punto, l'uno giunse con la logica
dove l'altro con la matematica. La conseguenza è che la matematica è la logica
delle cose, e che se rispetto alla mente, come dice Leibintz, pensare è
calcolare, rispetto alle cose moversi misurata mente vuol dire evolversi
razionalmente. Bruno è la riprova, non l'eccezione. Appena, infatti, il nolano
intese il sistema copernicano, n'esultò, cercò alla matematica la riprova della
logica, e come Campanella scrisse l'apologia di Ga lilei, così Bruno di
Copernico. Era dal medesimo punto di partenza la medesimezza del pensiero
logico e del pensiero matematico, con medesimezza di disegno e di effetti.
E-ora si dirà-Cartesio non intese fare la medesima cosa, cioè costruire la
fisica col pensiero, come il nolano, introducendovi la matematica, come G., e
perchè egli riuscì a costruire una fi sica falsa, disconoscendo Bruno in tutto
e in gran parte il disegno di G.? Perchè egli non muove come que due dal fatto,
bensì dall'idea astratta, dal puro cogito, che non è la cosa, ma l'ombra della
cosa, e l'ombra ei tratta come cosa salda. Perciò non solo non giunse per forza
di logica, agl’infiniti mondi del nolano, ma nep pure per forza di matematica a
riconoscere l'importanza del siste ma eliocentrico dimostrato da Copernico e da
G.. Bacone errò, mutilando il fatto e attenendosi al solo fenomeno, Cartesio
errò, correndo dietro l'ombra del fatto e improvvisando la legge. L'uno cadde
nell'empirismo l'altro nell'apriorismo. In Bacone riconosciamo il merito di
avere insistito sulla indu zione, e in Cartesio, come dice Comte, il merito di
aver convertito la qualità in quantità, e la quantità continua nella discreta.
Ma l'uno e l'altro, non avendo colto il punto di partenza, non aggiun sero
nulla alla scienza della natura. Justus Liebig, parlando dell'intima gioia
degli scopritori - ne gata a Bacone - nomina G., Klepero, Newton. E perchè non
ricorda Bruno? Quanta non è la sua gioia dove saluta le comete come testimoni
della sua filosofia, e parlando di Copernico, ag giunge qualche felicità essere
toccata al secolo suo, quando dai 219 lidi dell'oceano germanico un grande
astronomo sorse a con forto della sua filosofia. In quella gioia c'è — come ho
detto— l’unità del pensiero logico col matematico, e nella medesimezza de'
risultati c'è la cognatela tra la natura e il pensiero, la quale vuol essere
riaffermata, supe rando da una parte il vecchio idealismo metafisico e
dall'altra il positivismo empirico. Ed ora, dopo il metodo sperimentale, dobbiamo
esaminare in G. il valore che egli dà alla conoscenza. INon è di piccolo
momento questo esame; involge il massimo pro blema della filosofia ed è un
punto importante della mente, e dirò, del carattere di Galilei. Si può
formularlo così: Il metodo speri mentale condusse G. a quel relativismo
filosofico che dà alla conoscenza un valore precario, cioè o relativo al
soggetto pensante (sofistica) o relativo ad un certo tempo e luogo (empirismo)?
In altre parole: per G. nulla di permanente, di assoluto, di uni versale entra
nella conoscenza, o c'è invece delle conoscenze che per loro necessità
intrinseca s' impongono a tutti gli uomini, e alla natura come agli uomini, e a
Dio come alla natura? Ci sono— risponde il Pisano - e il fatto ci dice che
sono, e ci dice che sono le conoscenze matematiche sian pure o applicate,
perchè non mutano per variare di luogo e di tempo, e perchè tali si riscontrano
nelle cose quali si trovano nella mente. La natura le impone, la mente le
sugella, neppur Dio potrebbe negarle, ma o il sofista o il pazzo.
L'affermazione è solenne, e bisogna lasciargli la parola. Quanto alla verità,
egli dice di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è
l'istessa che conosce la sapienza divina. Nessun divario, dunque, in questo tra
la sapienza divina e umana? Di vario di modo, egli dice, lo ammettiamo, perchè
in Dio è sapienza intuitiva quella che nell'uomo è discorsiva; di numero pure,
perchè Dio le sa tutte quelle verità, e l'uomo una parte; ma di necessità no:
sono del pari necessarie per lui e per noi, e mille Demosteni e Aristotili
e-voleva dire—mille Dei non potrebbero scemare la certezza di una sola di
quelle. Partecipa di questa certezza la scienza della natura, le cui leggi sono
matematiche. E il processo fu questo: TELESIO (si veda) afferma che il 220
libro della filosofia è la natura. Bruno aggiunse che quel libro è scritto in
carattere assoluti: G. conchiuse che i caratteri sono matematici. Anche
Cartesio disse come G.: Apud me omnia sunt ma thematice in natura; ma lo disse
dopo e timidamente, essendoci questa differenza tra’due pensatori, che per G.
le verità mate matiche leggibili nella natura hanno l'istesso valore per la
mente sia divina o umaņa, e per Cartesio niente è limite alla onnipotenza di
Dio, neppure il principio di contraddizione. Se lo disse davvero o per vivere
tranquillo, specialmente dopo le persecuzioni fatte a G., non - so; ma, certo,
l'italiano lo a vanza di tempo e di fermezza. Delle altre scienze che non sono
le naturali G. dubitò, perchè si sottraggono alle matematiche e l'uomo vi mette
del suo. Le abbandonò al relativismo. Ma se tutto è evoluzione e tutto procede
da natura, noi ben pos siamo affermare che i suoi Dialoghi delle Scienze Nuove
saranno quasi prefazione di una Scienza Nuova intorno alla comune natura delle
nazioni. Le teoriche sulla psico-fisi e sulla fisica sociale hanno assai
allargato il campo di applicazione alle matematiche. Noi, è vero, non possiamo
mutare le leggi naturali, ma possiamo forse mutare le leggi sociali e costruire
a nostro talento le società umane? La storia non rientra ogni giorno più nelle
leggi della natura e però della misura? La morale par certo la cosa più im
ponderabile, ed è pure altrettanto graduale e necessaria nel suo processo che
il suo moto si potrebbe dire uniformemente accelerato. Dal pensiero si traduce
nella volontà, dall'azione alle istituzioni, e se rea, dal fastigio all ' imo.
Signori, ho esaminato quelli che nella scienza di G. mi parevano i punti
principali ed ho tentato liberare dagli equivoci volgari il metodo
sperimentale. Non a pompa letteraria mi sono giovato di rapidi raffronti ma per
delineare quello che fu il cervello più equilibrato di quanti al mondo furono
scienziati. Le conse guenze scientifiche e morali di quella profonda
rivoluzione intel lettuale io ve le ho segnate senza orgoglio nazionale e con
pura coscienza di uomo. Era cosí alto il tema, così pieno di pensiero, di [Qui
manca qualche pagina intorno all'applicazione delle matematiche ai fenomeni
sociali e morali, non potuta trovare. 221 poesia, di storia, di gloria e di
dolori che a me non che il tempo, mancò il volere di divagare. Abbasserei
l'occhio da Telesio, da Co pernico, da G. per posarlo sulla politica? Farei
allusioni, rim proveri, programmi? Mail monumento che divisate è mondiale; una
sillaba aggiunta al tema macchierebbe la prima pietra: e, per rien trare nella
mediocrità de ' Parlamenti, invidieremmo a noi questa breve fortuna che ci
solleva a colloquio coi legislatori degli astri. Che sono i nostri codici, i
nostri statuti, i disegni nostri, che durata hanno e che sapienza di fronte
alle leggi onde G. sta biliva il ritmo dei cieli, Machiavelli la vicenda degli
Stati, e VICO (si veda) il corso dell'umanità? C'è qualcosa al di sopra dei
codici ed è la pa rola dei fondatori delle religioni, che lasciano libri sacri
e parlano ai millenarii. Pur viene il secolo che mette nella pagina più au
tentica di quei libri il tarlo del pensiero. Ma qualcuno c'è stato che senza
chiamarsi messia nè profeta misurò una parola a lettere di stelle, la pose nel
firmamento, e nessuno la cancellerà. Come chia mate un uomo che vi trasmette un
libro più duraturo di una bib bia? Alzate il monumento e non mi chiedete altro. The
principle of relativity states that it is im- possible to determine whether a
system is at rest or moving at constant speed with respect to an inertial
system by experiments internal to the system, i.e., there is no internal
observation by which one can distinguish a system moving uniformly from one at
rest. This principle played a key role in the defence of the heliocentric syst-
em, as it made the movement of the Earth com- patible with everyday experience.
According to common knowledge, the principle of relativity was first enunciated
by G. in his Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo (Dialogue Concerning
the Two Chief World Systems) (G.), using the metaphor known as ‘G.’s ship’: in
a boat moving at constant speed, the mechanical phenomena can be described by
the same laws holding on Earth. Many historical aspects of the birth of the
rel- ativity principle have received little or scattered attention. In this
short paper we put together some evidence showing that Bruno largely
anticipated Gal- ilei’s arguments on the relativity principle (Bruno). In
addition, we briefly discuss Galilei’s silence about Bruno, and the con-
nection between the lives and careers of the two scientists. A portrait of G.
by Leoni (wikipedia): An eighteenth century egrav- ing of Giordano Bruno the
history blog . com / wp - content / up- loads/bruno-giordano. De Angelis and
Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity The Dialogo Sopra i
Due Massimi Sistemi del Mondo is the source usually quoted for the enun-
ciation of the principle of relativity by G. However, its publication was
certainly not a surprise, as G. had expres- sed his views much earlier, in
particular when lecturing at Padova. Some aspects of the evolution of G.’s
ideas, from the Trattato della Sfera ... (D’Aviso, 1656) in which the Earth is
still placed at the centre of the Universe, towards the Dia- logo, and passing
through his heliocentric correspondence with Kepler (G.), are examined, for ex-
ample, by Barbour (2001), Crombie, Clavelin, Giannetto, Martins and Wallace.
The Roman Inquisition condemned the theory by Copernicus as being foolish and
absurd in philosophy. One month before, the inquisitor Ingoli addresses G in
the essay Disputation Concerning the Location and Rest of Earth Against the
System of Copernicus (Ingoli). This letter listed both scientific and
theological arg- uments against Copernicanism. G. responded, and in his lengthy
reply he introduced an early version of the ‘G.’s ship’ metaphor, and discussed
the experiment of dropping a stone from the top of the mast. Both arguments, as
we shall see, had previously been raised by Bruno, and later were used again by
G., although with small differences, in the Dialogo. In the Dialogo Sopra i Due
Massimi Sistemi del Mondo, G. discusses the arguments then current against the
idea that the Earth moves. The book is a fictional dialogue be- tween three
characters. Two of these, Salviati and Sagredo, refer to figures in the ok that
disappeared a few years after the publication of the book. Salviati plays the
role of the defender of the Copernican theory, putting forward G.’s point of
view. The second character, Sa- gredo, is a Venetian aristocrat who is educated
and liberal, and he is willing to accept new ideas. Thus, he acts as a
moderator between Salviati and the third character, Simplicio, who
fiercelysupportsAristotle. Thenameofthislast character (reminiscent of
‘simple-minded’ in Ital- ian) is in itself a clear indication of Galilean
dialectics, which are designed to destroy opponents. Despite being a famous
commentator of Aristotle, Simplicio manifests himself with an embarrassing
simplicity of spirit. G. uses Salviati and Simplicio as spokespersons for the
two clashing world views; Sagredo represents the discreet reader, the steward
of science, the one to whom the book is addressed, and he intervenes during the
discussions, asking for clarification, contributing conversational topics and
acting like a science enthusiast. On the second day, G.’s dialogue con- siders
Ingoli’s arguments against the idea that the Earth moves. One of these is that
if the Earth is spinning on its axis, then we would all be moving eastward at
hundreds of miles per hour, so a ball dropped from a tower would land west of
the tower that in the meantime would have moved a certain distance to the east-
wards. Similarly, the argument goes that a cannonball shot eastwards would fall
closer to the cannon compared to a ball shot to the west since the cannon
moving east would partly catch up with the ball. To counter such arguments
Galilei propos- es through the words of Salviati a gedanken- experiment: to
examine the laws of mechanics in a ship moving at a constant speed. Salviati
claims that there is no internal observation which allows them to distinguish
between a smoothly-moving system and one at rest. So two systems moving without
acceleration are equivalent, and non-accelerated motion is rel- ative: Salviati
– Shut yourself up with some friend in the main cabin below decks on some large
ship, and have with you there some flies, but- terflies, and other small flying
animals. Have a large bowl of water with some fish in it; hang up a bottle that
empties drop by drop into a widevesselbeneathit. Withtheshipstanding still,
observe carefully how the little animals fly with equal speed to all sides of
the cabin. The fish swim indifferently in all directions; the drops fall into
the vessel beneath; and, in throwing something to your friend, you need throw
it no more strongly in one direction than another, the distances being equal;
jumping with your feet together, you pass equal spaces in every direction. When
you have observed all these things carefully (though doubtless when the ship is
standing still everything must happen in this way), have the ship proceed with
any speed you like, so long as the motion is uniform and not fluctuating this
way and that. You will discover not the least change in all the effects named,
nor could you tell from any of them whether the ship was moving or standing
still. In jumping, you will pass on the floor the same spaces as before, nor
will you make larger jumps toward the stern than toward the prow even though
the ship is moving quite rapidly, despite the fact that during the time that
you are in the air the floor under you will be going in a direction opposite to
your jump. In throwing something to your companion, you will need no more force
to get it to him whether he is in the direction of the bow or the stern, with
yourself situated opposite. The droplets will fall as before into the Angelis
and Santo Bruno and the Principle of Relativity vessel beneath without
dropping toward the stern, although while the drops are in the air the ship
runs many spans. The fish in their water will swim toward the front of their
bowl with no more effort than toward the back, and will go with equal ease to
bait placed any- where around the edges of the bowl. Finally the butterflies
and flies will continue their flights indifferently toward every side, nor will
it ever happen that they are concentrated toward the stern, as if tired out
from keeping up with the course of the ship, from which they will have been
separated during long intervals by keeping themselves in the air. And if smoke
is made by burning some incense, it will be seen going up in the form of a
little cloud, remaining still and moving no more toward one side than the
other. The cause of all these correspondences of effects is the fact that the
ship’s motion is common to all the things contained in it, and to the air also.
That is why I said you should be below decks; for if this took place above in
the open air, which would not follow the course of the ship, more or less
noticeable differences would be seen in some of the effects noted. (G.). Note
that G. does not state that the Earth is moving, but that the motion of the
Earth and the motion of the Sun cannot be distinguished (hence the name
‘relativity’): There is one motion which is most general and supreme over all,
and it is that by which the Sun, Moon, and all other planets and fixed stars –
in a word, the whole universe, the Earth alone excepted – appear to be moved as
a unit from East to West in the space of twenty-four hours. This, in so far as
first appearances are concerned, may just as logically belong to the Earth
alone as to the rest of the Universe, since the same appear- ances would
prevail as much in the one sit- uation as in the other. (G.). The possibility that the Earth moves had been
discussed several times, in particular by the Greeks, mostly as a hypothesis to
be rejected. Also an annual motion of the Earth around the Sun had been
considered by Aristarchus of Samos. Later, some medi- eval authors discussed
the possibility of the Earth's daily rotation. The first was probably Buridan,
one of the ‘doctores parisienses’—a group of profes- sors at the University of
Paris in the fourteenth century, including notably Nicole Oresme. Buridan’s
example of the ship, which was lat- er used by Oresme, Bruno and G., is con-
tained in Book 2 of his commentary about Aristotle’s On the Heavens: It should
be known that many people have held as probable that it is not contradictory to
appearances for the Earth to be moved circu- larly in the aforesaid manner, and
that on any given natural day it makes a complete rotation from west to east by
returning again to the west – that is, if some part of the Earth were
designated [as the part to observe]. Then it is necessary to posit that the
stellar sphere would be at rest, and then night and day would result through
such a motion of the Earth, so that motion of the Earth would be a diurnal
motion. The following is an example of this: if anyone is moved in a ship and
imagines that he is at rest, then, should he see another ship which is truly at
rest, it will appear to him that the other ship is moved. This is so because
his eye would be completely in the same relationship to the other ship regardless
of whether his own ship is at rest and the other moved, or the contrary
situation prevailed. And so we also posit that the sphere of the Sun is totally
at rest and the Earth in carrying us would be rotated. Since, however, we imag-
ine we are at rest, just as the man on the ship Figure 3: Jean Buridan
(www.buscabio- grafias . com / biografia / ve rDetalle / 576 / Jean %Buridan).
moving swiftly does not perceive his own mo- tion nor that of the ship, then it
is certain that the Sun would appear to us to rise and set, just as it does
when it is moved and we are at rest. (Buridan). Here we agree with Barbour
(2001), that what Buridan is referring to is kinematic relativity. To Barbour,
... we have [here] a clear statement of the principle of relativity, certainly
not the first in the history of the natural philosophy of motion but perhaps
expressed with more cogency than ever before. The problem of motion is
beginning to become acute. We must ask our- selves: is the relativity to which
Buridan refers kinematic relativity or Galilean relativity? There is no doubt
that it is in the first place kinematic; for Buridan is clearly concerned with
the condi- tions under which motion of one particular body can be deduced by
observation of other bod- ies. (Barbour). Angelis and Santo Bruno and the
Principle of Relativity Later, Buridan (writes: But the last appearance
which Aristotle notes is more demonstrative in the question at hand. This is
that an arrow projected from a bow directly upward falls to the same spot on the
Earth from which it was projected. This would not be so if the Earth were moved
with such velocity. Rather, before the arrow falls, the part of the Earth from
which the arrow was projected would be a league’s distance away. But still
supporters would respond that it happens so because the air that is moved with
the Earth carries the arrow, although the arrow appears to us to be moved
simply in a straight line motion because it is being carried along Figure 4: A
miniature portrait of Nicole Oresme included in his Traité de la sphère. Aristotle, Du ciel et du
monde (wikipedia.org). with us. Therefore, we do not perceive
that motion by which it is carried with the air. Buridan already expresses some
concerns about the dynamics involved, but his conclusion is that ... the
violent impetus of the arrow in ascend- ing would resist the lateral motion of
the air so that it would not be moved as much as the air. This is similar to
the occasion when the air is moved by a high wind. For then an arrow pro-
jected upward is not moved as much laterally as the wind is moved, although it
would be moved somewhat. (ibid.). Thus, the theory of impetus is not pushed to
the limit in which one would identify it with the prin- ciple of inertia, nor
with a dynamical concept of relativity. A further step was implicitly taken a
few years later by Oresme. Oresme first states that no observation can disprove
that the Earth is moving: ... one could not demonstrate the contrary by any
experience ... I assume that local motion can be sensibly perceived only if one
body appears to have a different position with re- spect to another. And thus,
if a man is in a ship called a which moves very smoothly, irrespective if
rapidly or slowly, and this man sees nothing except another ship called b,
moving exactly in the same way as the boat a in which he is, I say that it will
seem to this person that neither ship is moving. (Oresme). Oresme also provides
an argument against Buridan’s interpretation of the example of the arrow (or
stone in the original by Aristotle) thrown upwards, introducing the principle
of composi- tion of movements: ... one might say that the arrow thrown up-
wards is moved eastward very swiftly with the air through which it passes, with
all the mass of the lower part of the world mentioned above, which moves with a
diurnal movement; and for this reason the arrow falls back to the place on the
Earth from which it left. And this appears possible by analogy, since if a man
were on a ship moving eastwards very swiftly without being aware of his
movement, and he drew his hand downwards, describing a straight line along the
mast of the ship, it would seem to him that his hand was moved straight down.
Following this opinion, it seems to us that the same applies to the arrow
moving straight down or straight up. Inside the ship moving in this way, one
can have horizontal, oblique, straight up, straight down, and any kind of
movement, and all look like if the ship were at rest. And if a man walks
westwards in the boat slower than the boat is moving eastwards, it will seem to
him that he is moving west while he is going east. Also, Nicolaus Cusanus
stated later, without going into detail, that the motion of a ship could not be
distinguished from rest on the basis of experience, but some different argu-
ments need to be invoked—and the same ap- plies to the Earth, the Sun, or
another star (Cusanus). All this happened before Copernicus: a dis- cussion of
how things could be, not so much about how things really are.
Thisviewpointwould change after Copernicus.
Years after the publication of the book by Copernicus and years
before Angelis and Santo Bruno and the Principle of Relativity G. was
called to Padova, Bruno goes to England and lectures at Oxford, unsuccessfully
looking for a teaching position there. Still, the English visit was a fruitful
one, for during that time Bruno completed and published some of his most
important works, the six ‘Italian Dialogues’, including the cosmological work
La Cena de le Ceneri (The Ash Wednesday Supper) (see Bruno). This latter book
consists of five dialogues between Theophilus, a disciple who exposes Bruno’s
theories; Smitho, a character who was probably real but is difficult to
identify, possibly one of Bruno’s English friends (perhaps Smith or the poet
Smith)—the Englishman has simple arguments, but he has good common sense and is
free of prejudice; Pru- dencio, a pedantic character; and Frulla, also a
fictional character who, as the name in Italian suggests, embodies a comic
figure, provocative and somewhat tedious, with a propensity to- wards stupid
arguments. In the third dialogue, the four mostly com- ment on discussions
heard at a supper attend- ed by Theophilus in which Bruno—called in the text
‘il Nolano’ (the Nolan), because he was born in Nola near Naples—was arguing in
part-icular with Dr Torquato and Dr Nundinio, representing the Oxonian faculty.
Bruno starts by discussing the argument relating to the air, winds and the
movement of clouds, and he largely uses the fact that the air is dragged by the
Earth: Theophilus ... If the Earth were carried in the direction called East,
it would be necessary that the clouds in the air should always appear moving
toward west, because of the extremely rapid and fast motion of that globe,
which in the span of twenty-four hours must complete such a great revolution.
To that the Nolan replied that this air through which the clouds and winds move
are parts of the Earth, be- cause he wants (as the proposition demands) to mean
under the name of Earth the whole machinery and the entire animated part, which
consists of dissimilar parts; so that the rivers, the rocks, the seas, the
whole vaporous and turbulent air, which is enclosed within the high- est
mountains, should belong to the Earth as its members, just as the air does in
the lungs and in other cavities of animals by which they breathe, widen their
arteries, and other similar effects necessary for life are performed. The
clouds, too, move through happenings in the body of the Earth and are based in
its bowels as are the waters ... Perhaps this is what Plato meant when he said
that we inhabit the con- cavities and obscure parts of the Earth, and that we
have the same relation with respect to animals that live above the Earth, as do
in re- spect to us the fish that live in thicker humid- ity. This means that in
a way the vaporous air is water, and that the pure air which contains the
happier animals is above the Earth, where, just as this Amphitrit [ocean]1 is
water for us, this air of ours is water for them. This is how one may respond
to the argument referred to by Nundinio; just as the sea is not on the surface,
but in the bowels of the Earth, and just as the liver, this source of fluids,
is within us, that turbulent air is not outside, but is as if it were in the
lungs of animals. (Bruno). The Dialogue then moves to discussing the motion of
projectiles, and Bruno starts by explaining the Aristotelian objection to the
stone thrown upwards: Smitho – You have satisfied me most suffic- iently, and
you have excellently opened many secrets of nature which lay hidden under that
key. Thus, you have replied to the argument taken from winds and clouds; there
remains yet the reply to the other argument which Aristotle submitted in the
second book of On the Heavens2 where he states that it would be impossible that
a stone thrown high up could come down along the same perpendicular straight
line, but that it would be necessary that the exceedingly fast motion of the
Earth should leave it far behind toward the West. Therefore, given this
projection back onto the Earth, it is necessary that with its motion there
should come a change in all relations of straightness and obliquity; just as
there is a difference between the motion of the ship and the motion of those
things that are on the ship which if not true it would follow that when the
ship moves across the sea one could never draw something along a straight line
from one of its corners to the other, and that it would not be possible for one
to make a jump and return with his feet to the point from where he took off.
(Bruno). In Theophilus’ speech, Bruno then gives the following reply (in
reference to the ship shown ina figure: Theophilus – With the Earth move ...
all things that are on the Earth. If, therefore, from a point outside the Earth
something were thrown upon the Earth, it would lose, because of the latter’s
motion, its straightness as would be seen on the ship AB moving along a river,
if someone on point C of the riverbank were to throw a stone along a straight
line, and would see the stone miss its target by the amount of the velocity of
the ship’s motion. But if some- one were placed high on the mast of that ship,
move as it may however fast, he would not miss his target at all, so that the
stone or some other heavy thing thrown downward would not come along a straight
line from the point E which is at the top of the mast, or cage, to the point D
which is at the bottom of the mast, or at some point in the bowels and body of
the ship. Thus, if from the point D to the point E someone who is inside the
ship would throw a stone straight up, it would return to the bottom along the
same line however far the ship mov- Angelis and Santo Bruno and the Principle
of Relativity ed, provided it was not subject to any pitch and roll. (Bruno).
He then continues with the statement that the movement of the ship is
irrelevant for the events occurring within the ship, and he explains the
reasons for this: If there are two, of which one is inside the ship that moves
and the other outside it, of which both one and the other have their hands at
the same point of the air, and if at the same place and time one and the other
let a stone fall without giving it any push, the stone of the former would,
without a moment’s loss and without deviating from its path, go to the prefixed
place, and that of the second would find itself carried backward. This is due
to nothing else except to the fact that the stone which leaves the hand of the
one supported by the ship, and consequently moves with its mo- tion, has such
an impressed virtue, which is not had by the other who is outside the ship: The
ship referred to in the dialogue; note that the letters are missing
(math.dartmouth.edu). because the stones have the same gravity, the same
intervening air, if they depart (if this is possible) from the same point, and
arc given the same thrust. From that difference we cannot draw any other
explanation except that the things which are affixed to the ship, and belong to
it in some such way, move with it: and the stone carries with itself the virtue
of the mover which moves with the ship. The other does not have the said
participation. From this it can evidently be seen that the ability to go
straight comes not from the point of motion where one starts, nor from the
point where one ends, nor from the medium through which one moves, but from the
efficiency of the originally impressed virtue, on which depends the whole
differ- ence. And it seems to me that enough consid- eration was given to the
propositions of Nun- dinio. (Bruno). The experiments carried out in the ship
are thus not influenced by its movement because all the bodies in the ship take
part in that move- ment, regardless of whether they are in contact with the
ship or not. This is due to the ‘virtue’ they have, which remains during the
motion, after the carrier abandons them. Bruno thus clearly expresses the
concept of inertia, using the word ‘virtu`’, in Italian meaning ‘quality’,
which is carried by the bodies moving with the ship—and with the Earth. Bruno’s
arguments certainly constitute a step towards the principle of inertia. We have
seen that in La Cena de le Ceneri Bruno anticipates to a great extent the
arguments of G. on the principle of relativity. In fact, his explanation
contains all of the fundamental elements of the principle. The idea that the
only movement observable by the subject is the one in which he does not take
part, was presented earlier by Jean Buridan and Nicole Oresme, together with
the notion of the composition of movements, which was alien to Aristotelian
mechanics (see Barbour). Sim- ilar arguments were used by Copernicus. The main
missing ingredient was the idea of inertia, which explains the fact that
projectiles move along with the Earth. In fact, while there is a continuous
line between Buridan, Oresme, Copernicus, Bruno and Galilei, the arguments of
Bruno on the impossibility of detecting absolute motion by phenomena in a ship
constitute a significant step towards the principle of inertia and providing a
dynamical context for relativity. What is new in Bruno, and what brings him
almost exactly to where G. stood, is a clear understanding of the concept on
inertia. The arguments and metaphors used in dis- cussions concerning the world
systems were common to different authors, and were largely derived from
Aristotle, Ptolemy and their com- mentators. Often they were used without ref-
erencing, and sometimes they were attributed to the wrong source. For example,
in his On the Heavens, Aristotle uses as experimental argu- ment the one about the
stone that is sent upwards. In their comment on this work, Buridan and Oresme
used a modified version of this experiment in which an arrow is sent upwards in
a ship — although this was possibly introduced by an earlier unidentified
commentator/translator. Nevertheless, the description by G. of exact- ly the
same ship experiment that Bruno used in the Cena makes it very likely that G.
knew this work. The use of the dialogue form with a similar choice of
characters can also be seen as a possible sign that Bruno influenced
G.. Angelis and Santo BRUNO and the Principle of Relativity However,
G. never mentions Bruno in his works, and in particular there is no reference
to him in G.’s large corpus of letters, even though he references the ‘doctores
parisienses’ in his MS 46 (G.), 3 a 110-page long manuscript containing
physical speculations bas- ed upon Aristotle’s On the Heavens. Some authors
(e.g. Clavelin) have commented on G.s silence about Bruno, putting forward
reasons of prudence, but as pointed out by Martins this can hardly explain the
absence of any mention also in his personal correspond- ence. Furthermore,
although G. himself never mentions Bruno’s name in his personal notes and
letters, several of his correspondents do mention the Nolan. In a letter to G.
dating to 1610, Martin Hasdale tells him that Kepler had expressed his
admiration for G., although he regretted that in his works the latter failed to
mention Copernicus, Giordano Bruno and sever- al Germans who had anticipated
such discov- eries—including Kepler himself: This morning I had the opportunity
to make friends with Kepler ... I asked what he likes about that book of
yourself and he replied that since many years he exchanges letters with you,
and that he is really convinced that he does not know anybody better than you
in this profession ... As for this book, he says that you really showed the
divinity of your genius; but he was somehow uneasy, not only for the German
nation, but also for your own, since you did not mention those authors who intro-
duced the subject and gave you the opportun- ity to investigate what you found
now, naming among these Bruno among the Italians, and Copernicus, and himself.
Thus, we can say that G. was probably aware of Bruno’s work on the Copernican
system. When G. arrived in Padova it is also possible that the two scientists
met, because Bruno was a guest of the nobleman Mocenigo in Venice at the time
and G. shared his time between Padova and Venice. IBruno had unsuccessfully
applied for the Chair of Mathematics that was assigned to G. one year later.
Although it might be impossible to prove that the two astronomers met, it is
hard to believe, given the motivations and characters of the two men and the
circumstances of their lives during those years, as well as the small size of
the Italian scientific community in those days, that they failed to discuss
their respective arguments con- cerning the defence of the Copernican system.
Amphitrite was in Greek mythology the wife of Poseidon, and therefore the
Goddess of the Sea. 2. See Aristotle. Although Antonio Favaro, the Curator of
the National Edition of Galilei’s works, dates it to 1584, Crombie and Wallace
prefer a date of around 1590. We wish to
thank Bonolis, Bettini, Pascolini,
Peruzzi and Saggion for useful suggestions, and the anonymous referees for
directing us to some important aspects that we neglected to mention in the
first draft of this paper. 8 Aristotle, On the Heavens. Cambridge (Mass.),
Harvard University Press (Loeb Classic Greek Library English translation of
theGreek original). Barbour. The Discovery of Dynamics, Ox- ford, Oxford
University Press. Bruno, The Ash Wednesday Supper. The Hague, Mouton (English
translation by Jaki of the Italian original. Buridan, Questions on Aristotle‟s
On the Heavens. Cambridge (Mass.), Medieval Academy of America (English
translation by Moody of the Latin original). Clavelin, G.s Natural Philosophy.
Paris, Colin (in French). Copernicus, On the Revolutions of the Heavenly
Spheres. Nuremberg, Johannes Petreius (in Latin). Crombie, The History of
Science from Augustine to Galileo. New York, Dover. Cusanus, N., 1985. On
Learned Ignorance. Minne- apolis, The Arthur J. Banning Press (English trans-
lation by J. Hopkins of the 1440 Latin original). Aviso, U. Treatise on the
Sphere of Galileo Galilei. Rome, N.A. Tinassi (apparently written in Padova in
Latin). G. Collezione Nazionale G. della
Biblioteca Nazionale di Firenze (in Latin). G., Carteggio. National Edition of the Works of G.,
Florence, G. Barbera (in Italian). G., Dialogue Concerning the Two Chief World
Systems. Berkeley, University of California Press (English translation by
Stillman Drake of the Italian original). Giannetto,
Bruno and Einstein. Nuova Civiltà delle Macchine (in Italian). Hasdale, M., Letter to G. In G. . Ingoli, F.,
Disputation Concerning the Location and Rest of Earth Against the System of
Coper- nicus. Rome (English translation by C.M. Graney of the Latin original at
arxiv.org). Martins, G. and the
principle of relativity. Cadernos de História e Filosofia da Ciência (in
Portuguese). Oresme, N.. Le livre du Ciel et du Monde. Book (manuscript). Paris, National Library.
Oresme, N., n.d. Traité de la sphère. Aristote, Du ciel et du monde. In the
National Library, Paris, fonds français. Wallace, W.A., Prelude to G.: Essays Angelis and Santo
BRUNO and the Principle of Relativity Medieval and Sixteenth-Century
Sources of G.s Thought. Dordrecht, Reidel. Wallace, W.A. G. and His Sources:
Heri- tage of the Collegio Romano in G.‟s Science. Princeton, Princeton University Press. Volgare
e latino nel carteggio galileiano G. epistolografo: volgare e latino. Un
confronto con Descartes e Mersenne. Le lingue dei corrispondenti. Le lettere
latine di G.. G. epistolografo: volgare e latino Per le consuetudini della
respublica litterarum lo scambio epistolare europeo riveste un ruolo
importantissimo, anche in considerazione della censura, in quanto «la lettre
n’a pas besoin d’imprimatur ni de ‘privilège’» (Fattori in Armogathe,
Belgioioso, Vinti).1 Non esistendo ancora i periodici scientifici, le lettere
svolgevano anche tale funzione. Allievi e simpatizzanti, protettori, principi e
cardinali, eruditi ita- liani e stranieri, colleghi ed ecclesiastici, artisti e
letterati, amici e familiari: il carteggio galileiano comprende tutto questo.2
I destinatari di Galileo sono per lo più in Italia, ma non mancano
corrispondenti stranieri, specialmente in Francia (Parigi e Lione), in Baviera,
a Praga e nei Paesi Bassi: «Per quanto la giurisdizione del 1 Sulla respublica
litterarum e la corrispondenza tra i savants cf. Fumaroli 1988; Bots, Waquet
1994 (in particolare i saggi di Johns, Fumaroli, Waquet, Frijhoff); Waquet;
Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999 (in particolare l’intervento di Marta
Fattori); Jaumann; Bots, Waquet; Fumaroli. Breve, ma puntualissimo, Bucciantini
in Irace 2011, 344-9; si veda anche Garcia. All’epistolario galileiano è
dedicato Ardissino 2010; la studiosa ha cura- to un’antologia delle lettere
italiane dello scienziato (G.), con introduzione di Battistini (L’umanità di
uno scienziato attraverso le sue lettere). Sul registro polemico
nell’epistolario si veda Ricci. Filologie medievali e moderne
Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano suo epistolario sia di
estensione europea, Galileo si rivolge soprat- tutto alla classe dirigente
degli Stati italiani, laica ed ecclesiastica» (Battistini in G.). In che lingua
scrivevG. le sue lettere? Ci si aspetterebbe che, nonostante la programmatica
scelta del volgare per le sue opere, egli utilizzasse nella corrispondenza con
gli stranieri il latino, lingua franca dell’aristocrazia del sapere. Una
verifica integrale nei volumi dell’EN riserva invece la sorpresa di una
situazione affatto diversa, che riportiamo in tabella: Anni Lettere di cui
scritte in latino da G. a Kepler (EN) 1 a Brengger (EN) a Kepler (EN) a
Fortescue [Aggiunti] (fEN) 1 a Bernegger [Aggiunti] (EN) 1 agli Stati generali
dei Paesi Bassi (EN) a Boulliaud (EN) a Boulliau(d) (EN) 3 Cf. anche
Garcia: «l’espace de cette république semble se réduire, dans son esprit, à la
seule Italie – c’est-à-dire aux trois villes de la Péninsule les plus actives
culturellement, Rome, Venise et Florence». Filologie medievali e moderne G. in
Europa, Bianchi Volgare e latino nel
carteggio galileiano Su un totale di 445 lettere – manteniamo i criteri di
Favaro, che include anche le epistole-trattato, quali le tre sulle macchie
solari, e le dedicatorie – sono latine soltanto 9 (il 2,02 %). Si tratta delle
lettere superstiti, ma, anche supponendo che la sorte ne abbia distrutto un
numero maggiore in latino che in italiano, i dati sono inequivocabili. Sappiamo
poi che di quelle 9, 2 sono state composte da Niccolò Ag- giunti su commissione
dello scienziato (v. infra). Ne restano dunque 7. 4.2 Un confronto con
Descartes e Mersenne Il confronto con Descartes è eloquente. Charles Adam ricostruisce che
nel carteggio superstite «sur un total de 498 lettres, 63 sont en latin»
(Adam), cioè il 12,65%. Del resto la familiarità del fi- losofo con il latino
era profonda: Il apprit le latin à fond, non seulement comme une langue morte,
mais comme une langue vivante qu’il pourrait avoir à parler et à écrire. Il la
parla, en effet, quelquefois en Hollande, et même en France à une soutenance de
thèses; et il l’écrivit dans trois ou quatre de ses ouvrages et un certain
nombre de lettres. Quelques- unes de ses notes mêmes, rédigées pour lui seul et
à la hâte, sont en latin. Il maniait cette langue aussi bien et souvent mieux
que le français, le plus souvent avec vigueur et sobriété, parfois aus- si
pourtant avec quelques gentillesses de style qui rappellent les leçons des bons
Pères; lui-même avoue qu’il a fait des vers, sans doute des vers latins, et une
fois avec Balzac il se piqua de bel esprit et lui écrivit dans un latin élégant
‘à la Pétrone’. (Adam 1910, 22)4 Il latino fu ancor più
abituale per Mersenne, che anche in quanto ecclesiastico (ordine dei Minimi)
era più legato alla lingua antica: su 308 epistole da lui redatte e
conservateci sono la- tine il 38, 64% (119), in francese le restanti.5 Sarebbe
interessante uno studio dell’uso linguistico in tale epistolario che analizzi
il tipo di missiva, la provenienza e la formazione dei destinatari. Accenniamo
qui soltanto al fatto che Mersenne, a cui furono rivolte alcune lette- [Al
carteggio di Descartes è dedicato l’ampio volume di Armogathe, Belgioioso,
Vinti; vi si veda in particolare il saggio di Torrini che compara l’epistolario
di Descartes e di G.: per il primo il carteggio fu un luogo privilegiato di
discussione filosofica, ben più che per G.. Conteggio nostro dai volumi della
corrispondenza dell’erudito (Mersenne). Divergono leggermente dalla nostra la
somma indicata nel vol. 17 a p. 107 (330) e quella che si ricava dall’indice
delle missive. La lettera a Baliani ci è tradita in italiano da una stampa
secentesca delle opere di questi, ma si tratta probabilmente di una traduzione
dall’originale latino o francese (cf. il commen- to di de Waard, Beaulieu).
Filologie medievali e moderne G. in Europa Bianchi Volgare e latino nel
carteggio galileiano re in italiano, non rispose mai in quella lingua; i
curatori del carteggio affermano, seccamente, che «Mersenne savait très mal
l’italien» (commento alla lettera). Troppo seccamente, perché egli comprendeva
in verità assai bene l’italiano, come dimostra la traduzione-rielaborazione di
pagine galileiane (Les Méchaniques de G., Les nouvelles pensées de G.).
Interessante sarebbe valutare affermazioni di comprensione o incomprensione di
una lingua stra- niera come quelle di Baliani, in cui la grafia sem- bra
giocare un grande ruolo. Per esempio, ha ricevuto da Mersenne una lettera «in
lingua francese, ma tanto chiara ché io l’ho intesa leg- gendola correntemente»
(missiva), cioè è riuscito a legger- la nonostante fosse in francese e
nonostante la grafia. Un mese pri- ma aveva spiegato al corrispondente.
Rispetto alla lingua, in che V. P. mi deve scrivere, confesso, che mi è più
caro che mi scriva in lat- tino, che già hò preso un poco la pratica del suo
carattere. Il france- se però intendo meno, ancorche intenda assai bene i libri
stampati (missiva; in nota i curatori ricordano che Torricelli aveva lo stesso
problema). G. non leggeva il francese.7 Contrariamente a ciò che era
consuetudine e norma nella respublica litterarum, G. fece uso parchissimo del latino
per l’epistolografia. Anche se dobbiamo precisare che era ormai scontata a
quell’altezza cronologica, almeno in Francia e Italia, l’utilizzo della lingua
materna per comunicare con connazionali,8 e il carteggio stricto sensu ga-
lileiano – lettere composte o ricevute dallo scienziato – non presenta quasi
eccezioni. Anche tra le lettere che nell’EN fanno corona all’epistolario
galileiano propriamente detto, ma che fornendo informazioni sullo scienziato
furono raccolte da Favaro, sempre o quasi gli italia- ni scrivono a un
connazionale (foss’anche il papa) in italiano. Analo- gamente si comportano i
dotti francesi (pur con qualche eccezione): Mersenne, Fermat, Descartes si
scrivono in francese. Ricorrono in- vece non infrequentemente al latino i dotti
tedeschi per comunicare tra loro: nell’EN si veda Scheiner che scrive a
Kircher, e Bernegger a tutti i propri connazionali.10 Analogamente, l’olandese
Gro- [Sul rapporto Mersenne-G.(e Descartes-G.) si veda almeno Bucciantini.Cf.
anche Favaro. Pantin 1996, 58: «À
la fin de la Renaissance, les langues vernaculaires (surtout s’il s’agissait du
français et de l’italien) étaient devenues le premier moyen de s’exprimer et
même de raisonner (dans la correspondances scientifiques du début du XVIIe siècle
les allemands sont souvent presque les seuls à parler latin)». Di diverso parere Battis- tini in G.: pur essendo
ancora il latino la lingua abituale nel trattare ma- terie scientifiche ed
erudite, anche tra connazionali». 9 Paolo Maria Cittadini, che si firma teologo
dello Studio bolognese, si rivolge in la- tino a G. (EN). Per un’indagine sulla
corrispondenza dei dotti tedeschi nel Cinquecento si veda Lefèbvre 1980. Cf.
anche Leonhardt. Filologie medievali e moderne G. in Europa Bianchi Volgare e
latino nel carteggio galileiano ot (Grotius) scrive in latino a Maarten van den
Hove (Martino Orten- sio nell’EN) e a Voss. Le lingue dei corrispondenti G. non
si allinea al costume della comunicazione latina con stra- nieri, mostrando una
forte tendenza a evitare la lingua antica. D’al- tra parte, l’adozione
dell’italiano da parte di stranieri testimonia la fortuna della nostra lingua e
il suo prestigio. G. instaura una comunicazione italiana paritetica – nel senso
che entrambi i corri- spondenti scrivono in italiano – non solo con Clavius e
Faber, che vi- vevano stabilmente in Italia da molti anni (si noti però che in
alme- no due lettere il principe Cesi aveva scritto al secondo in latino), ma
anche con Welser, l’ingegnere militare Antoine de Ville (al- lora in servizio
della Serenissima), Carcavy, Peiresc, Reael, Lowijs Elzevier, Ladislao di
Polonia, Massimiliano di Baviera, Beaugrand. L’effettiva conoscenza
dell’italiano da parte dei corrispondenti non si può misurare solo dalle
missive, per alcune delle quali va postulato l’intervento di un madrelingua
(certamente nel caso di principi e regnanti, ma anche le lettere di Reael sono
troppo ben scritte per non supporre almeno un correttore).16 Significativo il
caso di Noailles. Già scolaro di G. a Padova, ufficiale militare e poi non
troppo abile am- basciatore francese a Roma, attivo nel chiedere alla Chie- sa
clemenza per l’antico maestro, lo incontrò a Poggibonsi sulla via del ritorno
in Francia e ricevette una copia manoscritta delle Nuove scienze, delle quali
fu dedicatario. Restano 8 lettere da lui inviate a G. Le prime cinque sono in
italiano e risalgono al tempo in cui era diplomatico a Roma: di esse soltanto
una è interamente autografa, ma probabilmente Nell’inopportunità di riportare
dettagliate rassegne biografiche sui molti personag- gi che nomineremo,
rimandiamo una volta per tutte all’Indice biografico (anche del supplemento) e
agli indici di Drake e di Heilbron, nonché al regesto di nomi propri curato dal
Museo Galileo di Firenze, disponibile online e continuamente aggiornato. Daremo
qui solamente qualche informazione utile al nostro discorso. Cf. Stammerjohann.
Quando questi è malato, anche il fratello scrive in italiano a G.. 14 Cf.
Pernot e Vérin. Scrive in italiano anche a Micanzio. Bonaventure e Elzevier si
erano invece rivolti a G. in latino. Diodati scrive a Reael in italiano Su di
lui cf. Favaro. Per i corrispondenti francesi di G. rimandiamo a Baumgartner e
ai riferimenti bibliografici ivi contenuti. Filologie medievali e moderne G. in
Europa Bianchi Volgare e latino nel carteggio galileiano composta o almeno
rivista da un madrelingua. Le altre quattro han- no soltanto la sottoscrizione
di pugno del diplomatico. In un punto morto delle discrete manovre per il
mitigamento della condanna di G., Noailles si scusa con questi del ritardo nel-
lo scrivere: «Potrà similmente attribuire la cagione dell’haver tardato a
scriverli all’assenza del mio secretario italiano. È al- meno in parte un
pretesto, ma ci informa delle abitudini linguistiche della corrispondenza. La
stessa lettera riporta un breve poscritto au- tografo, che può dare l’idea
della competenza linguistica dell’amba- sciatore, buona, ma nettamente
inferiore alla lingua e allo stile esibito nelle altre lettere a G.: Il latore
de la presente li darà nove di me, et quanto gran stima fo de le sue virtù et
come sto con desiderio di servirla in ogni occorrenza. Di fatto, l’uso
dell’italiano sembra, non solo in Noailles, un piacere e un omaggio al maestro
degli anni pado- vani e al grande scienziato. Dopo il rientro in Francia
Noailles gli scriverà personalmente – cioè senza aiuto di segretari – in
francese (restano tre lettere autografe). Lettere che – l’ambasciatore dove
certo esserne al corrente – G. non poteva intendere e di cui restano tra i
manoscritti galileiani le traduzioni italiane. A Grienberger e de Groot che gli
si rivolgono in latino, G. RISPONDE IN ITALIANO. In latino gli scrivono anche
Gassendi (con l’eccezione di una missiva italiana composta insieme a Peiresc),
Tycho Brahe, Mersenne, Morin, Abraham e Bonaventure Elzevier, l’avver- sario
Scheiner e parecchi altri. Ma non sono conservate le risposte del nostro (a
Tycho non rispose affatto) e dunque non sappiamo in quale lingua fossero
composte. Gli scrissero invece in italiano Martin Hasdale (tedesco, fu a lungo
in Italia per divenire poi potente consigliere alla corte di Rodolfo II); David
Ricques (polacco o tedesco), Thomas Segget (scozzese, fu a lungo in Italia; poi
a Praga), il greco Demisiani, il cardinale Joyeuse, Zbaraski (Zbaraz), White
(allievo di Castelli, scrive da Londra e si scusa per gli errori di lingua),
Giovanni di Guevara (spagnolo, ma nato a Napoli), Philippe de Lusarches
(maestro di camera degli ambasciatori fran- cesi a Roma), Johannes Riijusk
(cugino del Reael, scrive da Venezia), Weert (olandese al servizio della
Serenissima), Justus Cf. l’introduzione di Favaro alle missive e il
supplemento. Al ruolo dei segretari nella respublica litterarum accenna Fattori
in Armogathe, Belgioioso, Vinti. Schorer (mercante tedesco attivo anche a Venezia),
Müller (tedesco, linceo, da Roma), Beaulieu (non meglio identificato), Welles
(da Londra), Breiner, Coignet, Lentowicz (che è studente a Padova), Schröter
(tedesco), Tarde, Assia, Brozek (polacco), Maarten van den Hove (Hortensius,
olandese). Bucciantini Filologie medievali e moderne G. in Europa Bianchi
Volgare e latino nel carteggio galileiano Weffeldich (agente degli Elzevier a
Venezia), Jean-Jacques Bouchard (dotto francese che visse molti anni a Roma),
Henry Robinson (ingle- se, fu a Livorno per commercio e abitò per alcuni anni a
Firenze). Restano alcune epistole italiane che Galileo inviò a Leopoldo
d’Austria (Innsbruck), a Pedro de Castro conte di Lemos (Madrid), agli Stati
Generali delle Province Unite dei Paesi Bassi (ve n’è un’altra in latino, di
cui parleremo tra qualche pagina), a Francisco de Sandoval duca di Lerma
(Madrid), a Maarten van den Hove (matematico olandese). Scrivono a G. sia in
latino che in italiano Leopoldo d’Austria, Jacques Jauffred21 (una missiva
privata è in volgare, una pubblica è stampata in latino), Benjamin Engelcke (di
Danzica, fu per alcuni an- ni in Italia). Gli Stati Generali delle Province
Unite dei Paesi Bassi si rivolgono a G. sia in latino che in francese (Reael
traduce per G.; una deliberazione dell’assemblea sulla proposta galileiana del
calcolo della longitudine è redatta in olandese e Reael la tradu- ce in latino
per Galileo). Il francese è peraltro usato anche in altre occasioni dagli
olandesi, come quando Huygens si rivolge a Diodati. Il quadro generale dell’epistolario
è dominato dall’italiano, anche perché la maggioranza degli stranieri aveva
vissuto per un periodo abbastanza lungo in Italia durante gli studi
universitari o per altri motivi. Sono dunque stranieri con una vasta conoscenza
personale della Penisola e della sua lingua. Le lettere latine di G. Si
esaminerà ora il ristretto gruppo di epistole latine di G. rimasteci. Della
corrispondenza tra G. e Kepler, di importanza capi- tale, restano poche
lettere, 7 da parte del tedesco, 3 da parte del pi- sano. Non si incontrarono
mai di persona. La comunicazione si svolse sempre in latino e coprì, per quanto
è conservato, un arco temporale che va dal 1597 al 1627 (ma le lettere scritte
da Kepler non vanno oltre il 1611). I rapporti scientifici e personali tra i
due scienziati so- no illustrati nel dettaglio e nell’ampio quadro culturale
del tempo in Bucciantini, a cui ci rifacciamo per la nostra analisi. Al tempo
del primo contatto epistolare nessuno dei due è famoso: G. è niente più che il
solido matematico dello Studio di Padova; Kepler, dopo aver rinunciato alla
carriera teologica e pastorale, è matematico a Graz. I due non si conoscono
neppure di nome. Per tramite Su di lui vedi DBI (s.v. Gaufrido). Cf. infra in
questo capitolo. 23 Cf. Favaro. Una testimonianza in senso contrario (ovvero
scarsa com- petenza dell’italiano da parte di studenti stranieri a Padova) è
riferita da Mikkeli; ci sembra tuttavia un’eccezione di fronte alle tante
altre. Filologie medievali e moderne G. in Europa Volgare e latino nel
carteggio galileiano dell’amico Paul Homberger, Kepler fece arrivare in Italia
il suo Mysterium cosmographicum. Probabilmente fu lo stesso Keplero a
suggerirgli [a Homberger] di destinare una copia allo Studio di Padova, ovvero
di consegnarla a chi in quel tempo occupava la catte- dra di matematica in una
delle università più prestigiose d’Europa» (Bucciantini). E G., letta solo la
prefazione dell’opera, nella quale Kepler dichiara la sua adesione al
Copernicanesimo, decide di inviare una lettera di ringraziamento all’autore per
tramite dello stesso Homberger che stava per fare ritorno in Austria. È la
missiva che contiene l’importantissima di dichiarazione di Copernicanesimo da
parte di G. (in Copernici sententiam multis abhinc annis venerim). Importantissima
anche in base alla doppia considerazione che a fine Cinquecento i copernicani
si contano sulle dita (oltre a Kepler e G., sono BRUNO (si veda), Rothmann,
Mästlin, Digges, Harriot, Stevin, de Zúñiga) e che prima delle scoperte le
copernicianisme était une opinion extravagante et ridicule, et donc non
dangereuse ni ne méritant même d’être condamnée (Bucciantini). Si capisce
dunque l’entusiasmo di G. nell’apprendere che un tale Kepler aveva le sue
stesse idee e pubblicava opere per difenderle e diffonderle, mentre lui, G.,
non aveva avuto il coraggio – afferma – di pubblicare le sue osserva- zioni in
difesa del sistema eliocentrico per non fare la fine di Copernico, lodato da
pochissimi e deriso dai più. Il latino di questa lettera ci sembra un poco più
elevato di quello del Sidereus nuncius, con più frequente subordinazione
(soprattutto frasi relative e infinitive). La gioiosa risposta di Kepler,
contento anch’egli di aver trovato un compagno, è più lunga e stilisticamente
superiore, per quanto non brillante: esclamazioni e interrogative retoriche
vivacizzano il dettato, che è molto fluido e senza imbarazzi; vi sono finezze
umanisti- che, come l’inserzione di una parola in caratteri greci (αὐτόπιστα).
La strategia culturale di Kepler per l’affermazione del Copernicanesimo prevede
innanzitutto il convincimento dei matematici ed egli si dichiara disponibile a
far pubblicare in terra tedesca gli scritti di G., se questi teme di farlo in
Italia. Ma G., non condividendo la strategia proposta, non rispose a questa
lettera.27 Stupito del silenzio, Kepler ritentò attraverso Bruce di avere nuove
di G. . Cf. anche Biancarelli Martinelli Una dichiarazione di poco precedente,
ma appena accennata e di- messa, diversamente dalle righe indirizzate a Kepler,
è in una lettera a Mazzoni (cf. Bucciantini Bucciantini Bucciantini Bucciantini
Filologie medievali e moderne G. in Europa Bianchi Volgare e latino nel
carteggio galileiano Giunse poi la stagione del Sidereus nuncius, durante la
quale Ke- pler fu il solo grande interlocutore straniero cui G. si rivolse e la
cui conferma delle scoperte ebbe importanza paragonabile soltanto a quella
degli studiosi del Collegio Romano. Oltre alla presa di posizio- ne ufficiale
con la Dissertatio cum Nuncio sidereo, Kepler invia a G. una lettera privata,
chiedendo, in sostanza, altri elementi a sostegno delle scoperte e del
cannocchiale. La risposta di G. è significativa. Il nostro è ancora a Padova,
ma ha già ottenuto il posto alla corte di Toscana e la lettera è pervasa da
un’esuberante soddisfazione del proprio succes- so, con toni che sfiorano
l’autocelebrazione» (Bucciantini): il racconto delle ricompense e dello
stipendio ricevuto dopo la scoper- ta, la protezione e la garanzia del Granduca
quanto alle scoperte, il ti- tolo di filosofo aggiunto ora a quello di
matematico, che Kepler non gli riconoscerà. Galileo non ha molto tempo per
scrivergli (paucissimae enim supersunt ad scribendum horae). Lo stile è solido
e non più impacciato come nella lettera; la scrittura è più fluida, c’è più movimento,
con interrogative e riferimenti eruditi (seppur scolastici, co- me oblatrent
sicophantae) e quasi con affetto per il suo alleato lontano che, pur chiedendo
chiarimenti e testimoni, lo ha appoggiato. In par- ticolare è insolita, in G.,
una conclusione come me, ut soles, ama. Con la pubblicazione della Dioptrice
(Kepler è il padre dell’ottica moderna), termina uno scambio frequente tra i
due: essi non hanno più avvertito il bisogno di confrontarsi e collaborare
rego- larmente, a causa sia di progetti e attitudini scientifiche differenti,
sia di piccole incomprensioni (per es. la stima riposta da Kepler in Simon
Mayr, che dispiacque al nostro). Certo, G. si informerà su come stia e che cosa
faccia l’altro e Kepler prenderà posizione nelle po- lemiche legate al
Saggiatore con l’Hyperaspistes, ma non è più in gioco una collaborazione
stabile e duratura. Le lettere superstiti, in ogni caso, allorché Galileo
raccomanda Bossi al dotto corrispondente perché questi lo accetti come scolaro.
La missiva, non molto interessante quanto al contenuto (una raccomandazione),
testimonia il tentativo di riallacciare la relazione. Nel poscritto Galileo
aggiunge: Mitto, cum his complicatam litteris, Orationem Nicolai Adiunctii,
adolescentis in omni humaniore et severiore literatura excultissi- mi: eam sat
scio te magna cum voluptate lecturum, et mirifice futuram ad tuum palatum et
gustum. Si tratta dell’Oratio de mathematicae laudibus, uscita a Roma nello
stesso anno dalla penna del giovane Aggiunti, notevole non solo per I motivi del distacco sono scandagliati in
Bucciantini. Filologie medievali e moderne Galileo in Europa Bianchi Volgare e
latino nel carteggio galileiano lo stile latino brillante di cui l’autore dava
prova, ma anche per la celebrazione della matematica come modo di vedere la
realtà (una Geometria nos in rerum notitiam perducit, et sola complectitur
studia universa). Dopo di che, morto Kepler il Dialogo lo accuserà, pur con
rispetto (così la didascalia a margine), di aver creduto a «predominii della
Luna sopra l’acqua, ed a proprietà occulte, e simili fanciullezze: come è noto,
un attacco che si ritorce contro G.. A rendere incompatibili le posizioni dei
due grandi vi erano idee radicalmente diverse sul cosmo e la posizione
dell’uomo in esso.31 Veniamo agli altri corrispondenti. Brengger, medico di
Augsburg, si interessava di problemi scientifici. Per tramite di Welser pone a
G. alcune questioni sui monti lunari, cui G. risponde con una lunga epistola in
un latino asciutto. A sua volta Brengger risponderà estesamente in latino. Una
delle due lettere composte in latino da Niccolò Aggiunti su incarico di G. si
legge ed è la risposta a Fortescue. Questi gli aveva indirizzato una pomposa
lettera latina annunciandogli la pubblicazione delle sue Feriae academicae, nelle
quali, di- scorrendo di ottica, catottrica, matematica e astronomia, adduceva
nonnulla experientia comprobata mea. Lettera pomposa in cui gli elogi a G.,
iperbolici, sono intessuti di riferimenti eruditi (il mito di Cefeo e la
costruzione del faro di Alessandria su progetto di Sostrato). La notizia più
saliente che il mittente vuole comunicare è l’a- ver fatto di G. un personaggio
del libro annunciato: In his usus sum artificio Marci Tullii aliorumque, qui,
ut sibi in dicendo auctoritatem concilient, inducunt colloquentes Catones,
Crassos, Antonios, similesque palmares homines. Igitur ignosce, Vir
sapientissime, si disputantem in scriptis meis temet repereris, Il passo è
riportato in Camerota. Secondo Peterson, inviando a Kepler il testo di
Aggiunti, G. inviterebbe il corrispondente a rivolgere un’attenzione matematica
non solo ai cieli, ma anche alla realtà terrestre. L’abbandono da parte di G.
di ogni visione antropocentrica è certamente una delle caratteristiche della
sua filosofia che più lo allontana non solo da Keplero ma anche da Copernico
(Bucciantini). Il progetto galileiano di fondazione di una scienza copernicana
del moto fu fin dall’inizio antitetico e concorrente alla nuova dina- mica
celeste kepleriana. La forza e la tenacia con cui G. proseguì in ogni momento
della sua vita le sue ricerche sul moto inerziale all’interno di una
prospettiva cosmologica gli impedirono di accettare le ‘assurde’ leggi
kepleriane» (Bucciantini). Laureato in medicina a Basilea, ebbe scambio
epistolare con Clavio e Kepler su problemi scientifici (cf. Reeves, van Helden;
Keil; Bucciantini). Pochissimo si sa di lui: cf. la voce di Kennedy nell’Oxford
Dictionary of National Biography, con bibliografia; Favaro; Besomi, Helbing.
Filologie medievali e moderne G. in Europa Bianchi Volgare e latino nel
carteggio galileiano illos inter qui exquisitis suis artibus occiduum hunc
sustentant orbem. Nelle Feriae è allestito un dialogo (con narratore) tra G.,
Clavio, Grienberger – astrologorum huius aevi facile principes – e Gonzaga. Con
la missiva Fortescue ne informa lo scienziato e si scusa per non avergli
chiesto il permesso (Ergo da veniam, serius petenti licet, Vir spectatissime,
quod, inconsulto te, cum tuo egerim nomine). Nella risposta – che commenteremo
– lo scienziato dichiara, con accenti che corrispondono del tutto ai moduli
dello stile encomiastico, che nostram enim mirifice incendisti cupiditatem,
pregando- lo di inviargli copia del libro non appena stampato (Cum typographi
suam operam absolverint, tuique libri editionem perfecerint, unum vel alterum
exemplar ad nos primo quoque tempore perferendum cures). Non escludiamo che la
parte ‘galileiana’ delle Feriae abbia potuto ispirare G. e suggerirgli
quell’unicum narrativo che è la sua appa- rizione come personaggio nel Dialogo
sopra i due massimi sistemi. In tale passo, per ribadire la priorità galileiana
su Scheiner riguardo alla scoperta della correlazione tra macchie solari e
l’inclinazione dell’asse solare, G. si è servito di un fine stratagemma reto-
rico-narrativo, unico nell’opera: Salviati ricorda dettagliatamente una
discussione con G. e ne riporta in modo diretto (con due punti e virgolette) le
parole. Un intervento ‘diretto’ dell’autore all’interno del Dialogo dei
personaggi. Lo stratagemma è interessante anche perché è un falso creato ad hoc
da G., come hanno acutamente ricostruito Besomi, Helbing e come era noto a
collaboratori di G.: Benedetto Castelli parlò del passo in questione come
«testimonio falso delle macchie del sole» (lettera a G.). L’influenza di Fortescue
su tale episodio è indimostrata, ma possibile anche in base alla cronologia
della composizione del Dialogo.35 Contrariamente alle sue abitudini, G. volle
rispondere a For- tescue in latino (questi era stato al Collegio inglese di
Roma; non sappiamo tuttavia se Galileo ne fosse al corrente), e si affidò per
questo al provetto latinista Aggiunti. Allievo di Castelli a Pisa, al quale
succedette sulla cattedra di matematica, Aggiunti fu anche precettore di corte,
dove conobbe e divenne discepolo fidato di G., tanto che fu tra coloro che
durante il processo asportarono da casa del maestro le carte giudicate
pericolose. Studiò in particolare i fenomeni capillari. Uni- ca sua opera a
stampa è la già menzionata Oratio de mathematicae Accenni in Favaro; Besomi, Helbing
e Camerota. La parte dell’opera sui movimenti delle macchie solari è stata
composta probabilmente dopo che Galileo aveva letto la Rosa Ursina [opera di
Scheiner] (Besomi, Helbing). Filologie medievali e moderne G. in Europa,
Bianchi Volgare e latino nel carteggio galileiano laudibus, che fu la
prolusione al suo insegnamento universi- tario; restano manoscritti alcuni
altri suoi testi. Ha fama di ottimo latinista e per questo G. chiede la sua
collaborazione. Ciononostante difese anche l’uso del volgare nella trattazione
filosofica. Aggiunti scriv a G.: Credo che V. S. Ecc.ma volentieri mi perdonerà
così lunga dilazione, vedendo che io gli pago il debito e in oltre qualche
usura: io parlo della rispo- sta al Sig.r Giorgio Fortescue, la quale mando a V.
S., fatta con quella maggior accuratezza che ho potuto. Harò caro intender
quan- to gli sodisfaccia. Nella soprascritta basterà fare: Eruditiss.o Viro
Georgio de Fortiscuto. Londinum. Della missiva ci resta la copia autografa di
G. In essa, datata da Favaro, si ringrazia ampollosamente, anche con richiami
eruditi, per l’onore di comparire come personaggio inter eximios viros e di
essere così celebrato. La lettera è ben nota agli studiosi galileiani, perché
G. dichiara di lavorare a un arduum opus: magnum mundi systema, quod trigesimum
iam annum parturiebam, nunc tandem pario. E di- chiarandone il tema (in hoc
opere abditissimas maris aestuum causas
inquiro, et, nisi mei me fallit amor, mirabiliter pando), prega il cor-
rispondente di inviargli dati sull’osservazione delle maree: Proinde siquid
habes circa hasce alternas aequoris agitationes diligenti nec divulgata
observatione notatum, ad me perscribere ne graveris. L’altra lettera latina
composta da Aggiunti su commissione di G. è indirizzata a Bernegger, dotto
residente a Strasburgo e traduttore in latino del Dialogo. Alcuni mesi prima
egli aveva scritto a G. annunciandogli la traduzione. Favaro ricostruisce che
probabil- mente tale epistola non fu consegnata allo scienziato, perché
Engelcke, che avrebbe dovuto portarla di persona, la spedì a G. ed essa andò
perduta (noi leggiamo oggi la minuta dello scri- vente); Engelke scrive poi a
G. informandolo della traduzione. La lettera di Bernegger è stesa in un latino
sicuro e curato, ma non af- fettato, con la sola iperbole finale di Galileo non
Italiae modo tuae, sed orbis, quem immortalibus tuis scriptis illustrasti,
lucidissimum sidus, che rispecchia lo stile encomiastico. Per la risposta
Galileo volle affidarsi anche in questa occasione ad Aggiunti, che così scriveva
allo scienziato: «Questa qui alligata è la lettera che, in esecuzione del suo
cenno, ho fatta al Bernechero, del quale non sapendo il nome non ho potuto
porvelo. Se le paresse lunga, potrà scorciarla et acconciarla a modo suo. Io
l’ho scritta con mia gran fatiga, perché il considerare in 36 Su Aggiunti,
oltre alla voce del DBI, si vedano Favaro; Camerota; Camerota; Peterson Cf.
Camerota. Commenteremo questa lettera nei cap. 8. Filologie medievali e
moderne G. in Europa Bianchi Volgare e latino nel carteggio galileiano nome di
chi io scrivevo mi sbigottiva. V. S. nel mio mancamento accusi il suo
comandamento. Ciò testimonia inequivocabilmente che Aggiunti non ha
semplicemente tradotto in latino una risposta re- datta da Galileo in volgare,
ma composto in toto la lettera. Essa sfoggia uno stile brillante, retorico,
erudito. Aggiunti parago- na Bernegger traduttore a un egregius pictor che
abbellisce la figura della persona ritratta: con i latinae elegantiae colores
egli riprodurrà le philosophicae lucubrationes dello scienziato. L’acme
retorico-erudita è raggiunta paragonando la traduzione del Dialogo al ritratto
di Antigono sapientemente realizzato da Apelle: essendo il sovrano privo di un
occhio; è appunto soprannominato μονόφθαλμος, il pittore sfruttò i vantaggi del
tre quarti per nascondere il difetto fisico, come ricorda un passo
dell’Institutio oratoria: Habet in pictura speciem tota facies: Apelles tamen
imaginem Antigoni latere tantum altero ostendit, ut amissi oculi deformitas
lateret. Aggiunti si rifà direttamente a Quintiliano e inscena una cecità di
G., non fisica, come avverrà più tardi, ma metaforica (difetti di stile e
improprietà di espressione del Dialogo): tuum artificium hoc pollicetur, ut,
citra similitudinis detrimentum, me pulchriorem quam sum ostendas, et, imitatus
Apellem, qui Antigoni faciem altero tantum latere ostendit, ut amissi oculi
deformitas occultaretur, tu quoque, si quid in me mutilum vel deforme offendes,
ab ea parte convertas qua speciosius apparebit. È evidente la soddisfazione e
l’orgoglio per la traduzione latina dell’o- pera che tante umiliazioni aveva
portato a G., soddisfazione e orgoglio accresciuti dai dolori fisici e dalla
perdita della figlia, man- cata pochi mesi addietro (ma di ciò non si accenna
nella lettera): Ceterum deierare liquido possum, post tot turbas et corporis
animique vexationes, quas mihi pepererunt primum studia ipsa, quae radices
artium amarae sunt, deinde studiorum fructus, qui multo ipsis radicibus
amariores fuerunt, hoc tuo erga me studio nullum mihi maius solatium
contigisse. Passi come questo attestano l’alto livello della prosa latina di
Aggiunti: sottolineamo la naturalezza stilistica con cui l’immagine degli studi
co- me radici delle scienze – radici amare perché intrise di fatica – si tramu-
ti nel paradosso dei frutti più amari delle radici, paradosso in cui sono
adombrate le sofferenze e umiliazioni del processo e dell’abiura. Alle quali G.
reagisce con nuovi studi e la stesura delle Nuove scienze: Non tamen his
angustiis eliditur aut contrahitur animus, quo liberas viroque dignas
cogitationes semper agito, et ruris angustam hanc solitudinem, qua
circumcludor, tanquam mihi profuturam aequo animo fero. Filologie medievali e
moderne G. in Europa Bianchi Volgare e latino nel carteggio galileiano
Bernegger fu sbalordito dall’eleganza di tale lettera e non subodo- rò che non
venisse dalla penna di G.; scrive infatti a Diodati: Valde me terruit ipsius
[G.] epistola, longe tersissima et elegantissima; quam elegantiam cum vel
mediocriter assequi posse desperem, verendum habeo ne magnus ille vir ingenii
sui divini foetum in commodiorem interpretem incidisse velit. Sed iacta est
alea. Aggiunti muore. Meno interessanti le ultime tre lettere di cui dobbiamo
occuparci. Il dotto Boulliaud inviò a G. una copia del suo De natura lucis40
accompagnandola con una lettera latina in cui si dichiarava amico di Gassendi e
di Diodati e in cui annunciava l’imminente pubblicazione del Philolaus sive
Dissertatio de vero Systemate Mundi. È una missiva di ac- compagnamento,
piuttosto breve e spedita quanto a stile. La risposta di G., pure in latino, ha
lo stesso tenore: con un dettato puramente comunicativo informava di aver già
perso la vista e di non poter quindi formarsi un giudizio sulle dimo- strazioni
del De natura lucis che contengano figure; ha però apprezzato ciò che gli è
stato letto e si interessa del Philolaus. Infine si scusa per la brevità e
sommarietà della risposta: Breviter admodum ac ieiune scribo, praestantissime
vir: plura enim scribere me non patitur molesta oculorum valetudo. Quare me
velim excusatum habeas. Una seconda lettera di Boulliaud risale: un puro
accompagnamento all’invio del Philolaus, con l’augurio retorico che utinam
Deus, qui alligat contritiones suorum, restituat oculorum lumen tibi ademptum,
nobisque tale damnum resarciat, ut ipse legas libellum, et rationum seriem sine
alienorum oculorum opera dispicias. La risposta latina del nostro,, è del tutto
analoga alla precedente. Ringrazia il corrispondente e apprezza quanto gli è
stato letto, ma non potendo vedere le figure non può giudicare bene. È latina,
infine, una missiva di G. agli Stati generali dei Pae- si Bassi, in cui chiede
che sia esaminata la sua proposta per il calcolo della longitudine in mare
ligure. È una lettera non retorica, per quanto contenga alcuni elementi topici
come l’elogio del destinatario: Celsitudinum Vestrarum, qui per omnia
maria et terras celeberrimas suas peregrinationes et navigationes cum gloria
maxima iam instituerunt et quotidie porro instituunt, et commercia amplissima
ubique quotidie dilatant. Su di lui vedi Beaulieu) e Hockey et al. L’opera a
stampa reca; non sappiamo dire se Boulliau(d) ne abbia inviato un esemplare
(cui poi fu apposta una datazione posteriore) o una copia manoscritta.
Filologie medievali e moderne G. in Europa G.
HASDALE a G. in Padova. Praga. Bibl. Naz. Fir. Mss. Gal. –
Autografa. mor mo Essendo un pezzo che disegnavo di ritornare in Italia, et
particolarmente a Padova et Venetia, più per godere quella gentilissima
conversatione di V. S. che per altro; et tanto più me ne cresce il desiderio,
quanto che veggo nuovi parti del suo felicissimo et divino ingegno. Delli quali
l'ultimo, intitolato Nuntius Sydereus, ha rapito ultimamente tutta questa Corte
in ammiratione et stupore, affaticandosi ogniuno di questi ambasciatori et
baroni di chiamare questi matemathici di qua per sentire se vi sanno fare
alcuna oppositione alle demostrationi di V. S. Però vanno procurando di havere
di quelli occhiali doppiii, per vederne l'esperienza. re re Io mi truovai, XII
giorni fa, a desinare dal Sig. Ambasciatore di Spagna, dove il Sig. Velsero
portò al detto Ambasciatore uno di questi libbri, mostrandogli molti luoghi
notabili di r quello libro. Il Sig. Ambasciatore mi domandò delle qualità di V.
S. Io gli risposi quello che potei, non già quanto V. S. merita. Mi disse che
voleva sentire l'openione del Kepplero sopra questo libro, sì come credo che
habbia fatto chiamarlo. Ma io questa mattina ho havuta occasione di fare
amicitia stretta con Kepplero, havendo egli et io mangiato con l'Ambasciatore
di Sassonia; et domattina siamo invitati da quel di Toscana, dove io vado
familiarmente di continuo, essendo quel Signor mio padrone vecchio. Hora gli ho
domandato quello che gli pare di quel libro et di V. S. Mi ha risposto che sono
molti anni che ha prattica con V. S. per via di lettere, et che realmente non
conosce maggiore huomo di V. S. in questa professione, nè manco ha conosciuto;
et che con tutto che il Tichone fosse tenuto per grandissimo, nondimeno che V.
S. l'avanzava di gran lunga. Quanto poi a questo libro, dice che veramente ella
ha mostrata la divinità del suo ingegno; però, che ella viene havere data qualche
occasione non solo alla natione Todesca, ma anco alla propria, non havendo
fattone mentione alcuna di quegli autori
che le hanno accennato et porta occasione di investigare quello che hora ha
truovato, nominando fra questi Giordano Bruno per Italiano, et il Copernico et
sè medesimo, professando di havere accennato simili cose (però senza pruova,
come V. S., et senza demostrationi): et haveva portato seco il suo libro, per
mostrar allo Ambasciatore Sassone il luogo. Ma in quello ch’eramo in questi ragionamenti,
è sopragionto un estraordinario di Sassonia al detto Ambasciatore, che ha
disturbata la conversatione. Ma domattina, piacendo a Dio, ci rivederemo, che
senz'altro porterà il medesimo suo libro con quello di V. S., come ha fatto
hoggi, per mostrarlo all'Ambasciatore di Toscana. Seppi poi la morte del Cl.mo
nostro Sig.r Cornaro, con mio grandissimo dispiacere, che me mo Vostro Aff.
Fratello lo Michelag. Galilei. De Kepplero non havendo fattione mentione.
Tra accennato e et si legge, cancellato, quelle cose. – Un LORENZO di CORNARO
era morto (Necrologio Nobili, nell'Archivio r lo scrive Pamfilio, quale
desidero sapere se si truova ancora costì, perchè gli vorrei scrivere. Et la
prego, havendo occasione, di fare un cordialissimo baciamano al Padre Maestro
Paolo et Padre Maestro Fulgentio, suo compagno, et che spero fra alcuni mesi
lasciarmi rivedere con qualche carico. Con che fine le bacio le mani. Di
Praga, Di V. S. Ecc. ma re mo Serv.
Devot. Martino Hasdale. Io mando questa per via dell'Ambasciatore di Venetia.
Mi ricordo degli suoi melloni Turcheschi. mor mo Fuori: All'Ecc. Sig. P.rone
Oss. r Il Sig. Gallileo Gallilei, Mattematico di Padova.Galilei. Galilei.
Keywords: “the sun rises in the east” “the sun sets in the west” “you’re the
cream in my coffee” ‘disimplicature’ -- esperienza, observazione, visione,
nature, aristotele, filosofia naturale, fisis, natura, interpretazione,
semiotica, segno naturale, il padre di Galileo – Some like Galileo Galilei, but
Vincenzo Galilei is MY man” – Galileo e Bruno, lizio, lizii. Refs: Luigi
Speranza, “Galileo, Grice e il saggiatore,” The Swimming-Pool Library, Villa
Grice. Galilei. “Grice e Bonaiuti. Bonaiuti.
Grice
e Bonatelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della
patognomia – scuola d’Iseo -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Iseo). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Iseo, Brescia, Lombardia. Grice:
“Bonatelli is undoubtedly a Griceian – like me, he merges psychologia –
‘psychologia rationalis or metaphysica’ as he puts it – with logic -. He makes
fun of ‘inglese,’ which by lacking inflections, disallows complex thought – He
distinguishes, in ways the Oxonian really cannot – unless he is into ‘Italian
studies’! – between ‘linguaggio,’ and THEN ‘’lingua.’” Grice: “Within the
lingua he distinguishes a primary stage which he genially calls ‘patognomico,’
or pathognomic, as Strawson would prefer, i. e. to ‘know the emotion’ of your
co-conversationalist – Italians never take ‘conoscere’ as sacred as we at
Oxford take ‘know’ – He considers the copula in something like “Fido is
shaggy,” there is the ‘nome’ – and within it the ‘nome aggetivo’ – this he
says, and rightly so, is the stuff of ‘il filosofo delle lingue’ – and the
copola which is the ‘is.’ He grants that he’ll only be concerned with lingua of
‘cepo indeuropeo,’ literally ‘indo-germanic vintage’!” – Grice: “Bonatelli is a
Griceian because he is into ‘significato’ – how an utterance becomes a vehicle
by which an utterer can SIGNIFY – il segno patognomico, as it were --.” Grice:
“Like me, he allows for ‘utter’ to be used broadly – ‘sordomuti’ have a
‘linguaggio di gesti e moti’ as ‘signo patognomico.’” Figlio di Filippo,
un commissario distrettuale al servizio del governo austriaco -- e da
Elisabetta Bocchi. Si trasferì a Chiari per compiere gli studi ginnasiali
presso uno zio materno: il canonico Annibale Bocchi. In questo periodo
studiò con Carlo Varisco, che, in seguito, diverrà suo cognato. Il Varisco,
infatti, sposò Giulia, sorella del Bobatelli e, dopo la morte di questa,
convolò a seconde nozze con un'altra sorella del B.: Laura. Dall'unione
fra Carlo e Giulia nacque Bernardino Varisco, insigne filosofo anch'egli, e
senatore del Regno d'Italia. Terminato il ginnasio, proseguì gli studi a
Brescia, frequentando il locale liceo, ed iniziando precocemente l'attività
didattica presso il Liceo Classico Arnaldo. Nel frattempo si rese
protagonista del grande fermento politico della sua epoca. Troviamo
conferma del suo fervente patriottismo in ciò che ne scrisse Michele Rosi nel
“Dizionario del Risorgimento nazionale” «Venuti i tempi nuovi, ebbe incarico di
istruire gli ufficiali della guardia nazionale; continuando nello stesso tempo
nel proprio insegnamento, cercò di suscitare nell'animo dei giovani i più
fervidi sentimenti patriottici. Per questo cadde in sospetto della polizia
austriaca, alla quale sfuggì (…) in Svizzera». Rientrato in patria ottenne
l'abilitazione all'insegnamento della filosofia, della matematica e della
fisica, che alternò tra Milano, presso l'istituto ginnasiale “Sorre”, e
Chiari. Una pubblicazione, di interesse psicologico ha titolo “Sulla
sensazione”. Si unì in matrimonio con Laura Formenti. Nel medesimo
anno, venne privato del posto di lavoro per motivi politici. Per riottenere
l'ammissione all'insegnamento, dovette avvalersi dell'intercessione della
nobildonna e benefattrice clarense, Ottavia Bettolini, col maresciallo Josef
Radetzky- In cambio di questa concessione, avvenuta soltanto il governo
austriaco gli impose di seguire un corso di studi superiori a Vienna, che
abbandonò forzatamente soltanto qualche mese dopo, essendosi ammalato di
tifo. Fu durante questa breve esperienza che il Bonatelli venne in
contatto coi maggiori esponenti della filosofia tedesca, da cui rimase
profondamente influenzato. Resta incerto se, nella capitale austriaca,
conseguì o meno la laurea, come ipotizzato da alcuni autori (Alliney, “B.”,
Brescia, La Scuola). Insega presso il liceo di Mantova, dove rimase fino a
dopo lo scoppio della Seconda Guerra d'Indipendenza, quando quella città fu
messa in stato d'assedio. Le imprese guerresche del sovrano sabaudo,
supportato da francesi e volontari garibaldini, vennero celebrate dal B. con la
composizione di un carme: “Il servaggio e la liberazione”, scritto a Chiari,
con dedica a Vittorio Emanuele II. Successivamente, l'attività didattica
del B. proseguì al liceo di Brescia ed al Carmine di Torino sino al 1861, anno
in cui si trasferì a Bologna per insegnare filosofia teoretica, nonostante
avesse appena vinto un concorso presso l'Genova che gli avrebbe permesso di
ricoprire la stessa cattedra. Nell'ateneo felsineo, il B. ebbe modo di conoscere
Carducci, che vi era professore di Letteratura Italiana. Lo stretto
legame fra i due cattedratici è testimoniato da una ventina di lettere,
conservate nell'archivio della Casa Carducci di Bologna. Gli anni
trascorsi a Bologna furono particolarmente proficui per l'elaborazione del
pensiero filosofico di B.: nacque allora una delle sue opere principali,
“Pensiero e conoscenza”, pubblicata. B. passò alla cattedra di filosofia
teoretica dell'Padova; impiego che manterrà fino alla morte. Nell'ateneo
lombardo ebbe diversi incarichi, fra cui quello di insegnare filosofia della
storia e di tenere per qualche anno i corsi di antropologia, pedagogia e storia
della filosofia. Divenne anche preside della facoltà di lettere e
filosofia. A Padova scrisse la sua opera maggiore: “La coscienza e il
meccanesimo interiore”. La fama del B. iniziò specialmente negli ambienti
del “platonismo” legati a Terenzio Mamiani, ottenendo anche ruoli di alto
prestigio al di fuori della propria attività didattica. Fu membro del
comitato di redazione del periodico “La filosofia delle scuole italiane”,
fondato dal Mamiani nel ‘69; posizione che mantenne fino a quando rassegna le
proprie dimissioni in seguito alla pubblicazione di alcuni articoli del
filosofo Bertini che, contenendo aspre critiche al cattolicesimo, urtavano con
le sue solide convinzioni religiose. Nonostante ciò, B. proseguì la propria
collaborazione con la rivista, curandone la rubrica “Conversazioni
filosofiche”. Socio corrispondente nazionale dell'Accademia dei Lincei
per la classe di Scienze morali, storiche e filologiche; e divenne socio
corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Torino, nella sezione di
Scienze filosofiche. Pubblica un altro saggio importante: “Percezione e
pensiero”. B. fu anche un brillante verseggiatore ed autore di alcune
pregevoli opere letterarie, fra cui: il carme “In morte di Tommaso Grossi”
(Milano), il poemetto “Alfredo” (Lodi), il carme precedentemente menzionato “Il
servaggio e la liberazione” (Brescia) e numerose composizioni in lingua
dialettale. Il filosofo Giovanni Gentile ne lodò le doti letterarie,
apprezzando la forma netta e quasi sempre precisa della sua espressione ed il
linguaggio vivo ed immaginoso; affermando addirittura che gli scritti del
Bonatelli potranno essere sempre cercati e letti con profitto. (Gentile, “La
filosofia in Italia”, su “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e
Filosofia diretta da Croce”). Inoltre, non esitò ad esporre il proprio
pensiero su tematiche politiche d'attualità. Ricordiamo, a proposito, due
saggi sulla possibilità di allargamento del diritto di voto: “Intorno al
fondamento naturale del diritto di voto” (Padova; Rendi) ed “Intorno al diritto
elettorale” (Atti del Reale Istituto veneto di scienze, lettere ed arti). Con
l'avanzare dell'età, si manifestò inevitabilmente qualche acciacco fisico, che
egli accolse stoicamente, confortato da una fede sincera e tenace. È
significativo quanto scrisse al nipote Bernardino Varisco, in una
lettera. «Carissimo Dino, l'aver io tardato a congratularmi teco
della riuscita non deriva certo dall'essermene io poco rallegrato, bensì dal
cumulo di noie, di pensieri, di tribolazioni che ora più che mai m'è piombato
addosso e che quasi mi schiaccia. Non entro nei particolari, perché a cosa
servirebbe? Basta, sia quello che Dio vuole!». (Massimo Ferrari, “Lettere
a Varisco, La Nuova Italia, Firenze. Malgrado ciò, il filoso d'Iseo proseguì
l'attività di docente ed accademico, senza affatto abbandonare l'indagine
speculativa, grazie ad una lucidità mentale che mai lo abbandonò, dedicando i
suoi ultimi sforzi alla traduzione del primo volume dell'opera “Microcosmo” di
Hermann Lotze, che sarà pubblicato postumo. Morì a Padova. Aveva insegnato
fino a due giorni precedenti alla morte. Le sue spoglie mortali riposano
nel piccolo cimitero di Longiano (FC), dove furono traslate da Padova, negli
anni '80 del secolo scorso, per volontà del nipote Gualtiero. Pensiero
Filosofo spiritualista, Pose al centro della sua speculazione l'uomo e ne
difese la spiritualità contro il positivismo materialista. Sulla scia di Lotze
valorizzò il sentimento e pose in esso la principale rivelazione dell'essere
per mezzo del giudizio di valore. La psicologia e la logica furono sempre
risguar date o come parte integrante della filosofia o almeno come una
preparazione essenziale allo studio di questa. E in vero essendo la filosofia
la ricerca dei fon damenti ultimi d'ogni cosa conoscibile all' uomo e una tale
ricerca suddividendosi in due grandi rami, che sono l'uno l'inves jigazione de'
supremi prin cipii dell'essere e l'altro quella dei supremi prin cipii del
conoscere, questa seconda parte della filo sofia domanda necessariamente lo
studio del sub bietto conoscente e della funzione conoscitiva, cioè la
psicologia, e lo studio delle forme e delle leggi della conoscenza, cioè la
logica. Ecco perchè al breve trattato che precede si fanno qui seguire questi
elementi di logica. La logica poi differisce essenzialmente dalla psicologia
per questo, che mentre la seconda studia il fatto del pensare e del conoscere (oltre
agli altri fatti interni o psichici) come effettivam ente avviene, la
logica in cambio studia le norme secondo le quali deve essere conformato e
diretto, perchè rag giunga il fine dell'attività conoscitiva che è il pos sesso
della verità. Essa quindi è una scienza nor mativa o precettiva e potrebbe non
male definirsi la scienza delle forme del pensiero in quanto sono ordinate alla
conoscenza. La verità, oggetto della conoscenza, è di tre ma niere verità
materiale, cioè la conformità del pensiero con la cosa a cui si riferisce; verità
formale, che è l'armonia del pensiero con se stesso; verità melafisica o ideale
od obbietliva in senso as soluto, che è l'intrinseca ragionevolezza degli
esseri o delle essenze. La seconda, cioè la formale, è l'ob bietto speciale
della logica ed è una condizione necessaria, sebbene non sufficiente, anche
della prima. In quanto alla verità nel terzo significato, ella, come s'è visto,
riguarda più presto l'essere che non il pensiero; ma il pensiero è pensiero
razio nale solo a condizione di partecipare a quella. La logica, secondo alcuni,
è scienza puramente forinale cioè considera esclusivamente la forma del
pensiero che è quanto dire il modo in cui gli ele menti di questo sono tra loro
combinati); secondo altri essa è anche materiale, cioè risguarda anche la
contenenza del pensiero. Senza discutere qui una tal questione assai sottile e
intricata noi ossserveremo: Che una logica strettamente formale è possibile,
benchè così se ne restringa il campo e si debbano lasciare insoluti de'
problemi ch'essa medesima solleva. In questo campo ella è scienza rigorosamente
esatta e offre delle affinità colla matematica. Che a voler trattare a fondo le
questioni logiche, è mestieri entrare in attinenze del pen siero, che
oltrepassano la pura forma e toccano da una parte alla psicologia dall'altra
alla metafisica. Il pensiero poi, oltre alle forme logiche, ne ha delle altre
che si riferiscono vuoi all ' esercizio dell'attività pensante (forme
psicologiche), vuoi al sentimento del bello (forme estetiche ), vuoi al
l'espressione del pensiero per mezzo della parola (forme grammaticali e
retoriche). Tutte queste non riguardano la logica; ma le psicologiche e le
grammaticali hanno colle logiche delle attinenze strettissime. Il valore della
logica è doppio; cioè essa ha in primo luogo un valore assoluto in quanto è un
complesso sistematico di verità, una scienza per sé stante; poi ha un valore
relativo in quanto serve a dirigere il pensiero e gli addita le norme, a cui
deve conformarsi se vuol raggiungere il suo fine. Il primo è nn valore
puramente teoretico, il secondo è un valore pratico e in questo senso la logica
chiamasi anche arte del pensiero. Le parti principali della logica si possono
ri durre a due, che sono il trattato delle forme logiche elementari, cioè del
concetto, del giudizio e del raziocinio; la metodologia logica ossia.
l'applicazione delle forme logiche a ' fini speciali delle scienze. Questo
manualetto si circoscrive quasi unica mente alla parte prima; per la seconda
dovremo contentarci di qualche breve cenno. Del concetto Il pensare, come
funzione conoscitiva, è sem pre un giudicare (come s'è veduto nella psicolo
gia); quindi la sua forma primitiva è il giudizio. Perciò il concetto, come
forma del pensiero, nonché şia anteriore al giudizio, lo presuppone. Onde, con
formemente alle dottrine esposte nella parte psicolo gica, s ' ha a stimar
falsa l'opinione di quelli che considerano il concetto come una rappresenta
zione generale; prima perchè una rappresentazione non può esser mai generale,
poi perchè il concetto si compone di giudizi e questi non si possono in verun
modo ridurre a rappresentazioni. Il concetto, psicologicamente considerato, è
un sistema di giu dizi reso fisso, la cui unità solitamente è legata a un
vocabolo o ad una espressione equivalente Di qui lo sforzo delle lingue per
foggiare nomi composti, come ferrovia, cromolitografia, Strafrecht (diritto
penale) ecc. Obbiettivamente poi il concetto è l'essenza della cosa, che in
esso si pensa, o vogliam dire la cosa in quanto pensabile. Ma per la logica il
concetto è un tutt' insieme di più determinazioni o note. Conviene per altro
che le note (caratteri) ineriscano a qualche cosa, di cui siano note e questo
substratum si può chia mare la sostanza logica del concetto; questa è sempre
presupposta in ogni concetto, quando sia considerato in sè e come per sè stante
Per altro il concetto, benchè sia un prodotto del pensiero e non della
sensibilità, ha bisogno di un elemento rappresentabile (sensibile) a cui s'ap
poggi. A questo fine servono principalmente quelle rappresentazioni sommarie,
che abbiamo chiamato schemi fantastici, e la parola; talvolta la sola parola.
Ci sono poi nelle nostre rappresentazioni, di qualunque specie sieno, delle
relazioni le quali alla lor volta si riflettono nelle relazioni intrinseche dei
concetti. Tra codeste relazioni principalissime sono quelle d'omogeneità e
d'eterogeneità. Le rappre sentazioni omogenee formano generalmente una scala di
disgiunzione, ossia una serie ordinata, in cui la differenza va aumentando
dall'uno all'altro termine. Le rappresentazioni omogenee (disgiunte) Sostantivamente e non aggettivamente direbbe
la gram matica. Cf. Psicologia non si escludono non solo le une dalle altre, ma
possono nemmeuo inerire a un tertium quid identico; le eterogenee o disparate,
com'anco si chiamano, non possono immedesimarsi tra loro, ma ben pos sono
inerire simultaneamente a una stessa cosa. Per quanto si proceda innanzi nel
cercare la ragione delle differenze tra le rappresentazioni, non si può fare a
meno d'arrestarsi finalmente davanti a delle differenze originarie, di cui non
si può ren dere altra ragione se non il fatto. Il concetto è logicamente
perfetto quando tut tociò che in esso si pensa armonizza seco stesso; ma sotto
il rispetto epistemologico ed obbiettivo il concetto per essere perfetto deve
adeguare piena mente la cosa, cioè quel quid qualsiasi a cui si ri ferisce. Ciò
non si avvera quasi mai in senso asso luto per l'uomo, anzi nella più parte de'
casi i nostri concetti sono molto inadeguati. E qui vuolsi notare un equivoco,
in cui spesso si cade per non aver distinto il concetto, in quanto è da noi
effet tivamente pensato, dal concetto nella sua perfezione obbiettiva. Perocchè
inteso in quest'ultimo signifi cato esso contiene già tutte le sue
determinazioni e non è suscettivo di svolgimento e di perfeziona mento. Le
qualità che il concetto deve possedere per accostarsi alla sua perfezione sono: la determinalezza. Se questa manca, esso è un
frammento, un abozzo di concetto, non un con cetto compiuto. La determinatezza
poi contiene anche la chiarezza e la perspicuità; la prima ri chiede che il
concetto sia pensato in modo che si possa distinguere da ogni altro; la seconda
si ot tiene quando si distinguono perfettamente tra loro i suoi elementi e
questi sono pensati nelle loro vere relazioni. L'universalità. E questa è di
due maniere, cioè il concetto deve essere valido per tutti i pen santi e deve
potersi applicare a tutti gli oggetti, che cadono entro il suo àmbito.
L'armonia ossia l'intrinseca congruenza; la quale sotto l'aspetto negativo è
l'assenza d'ogni contraddizione tra le parti del concetto, sotto l'aspet to
positivo è la reciproca esigenza, il mutuo lega me delle parti stesse.
Dall'universalità del concettto deriva ancora la sua indipendenza dal tempo;
onde si può dire immutabile ed eterno (estra -temporario ). Nè a ciò osta punto
se la materia del concetto sia per natura sua mutabile e soggetta al tempo. Il
concetto di cosa che muta e passa, anche di ciò che ha l'esistenza appena d'un
istante (p. es. della vita umana, del temporale, dalla caduta dei corpi, ecc. )
non muta e non passa, anzi, è eternamente identico a se stesso. Comprensione ed
estensione del concetto; astrazione e determinazione Il concetto, come di sopra
notammo, conside rato logicamente è l'unione di più determinazioni o note, le
quali ineriscono a quella che fu detta sostanza logica del concetto. Si vedrà
più innanzi che cosa sia e quel che importi codesta sostanza logica; qui si
osservi che essa pure può essere con siderata come una nota o un gruppo di
note, on dechè il concetto si potrà risguardare come l'in - sieme di tutte le
sue note. Ora il complesso di tutte le note d'un concetto costituisce quella
che chia masi comprensione o tenore o contenenza del con. cetto stesso. Siccome
poi un concetto si può pensare come determinazione di altri (siano concetti,
siano en tità quali si vogliano, per. es. il concetto mammi fero è
determinazione de' concetti: cavallo, cane, topo, ecc. e cosi dei singoli
cavalli, cani ecc. ), l'in sieme di tuttoció, di cui quel concetto è una de
terminazione, forma ciò che chiamasi estensione o sfera o ámbito del concetto
medesimo. Così, posto che il concetto A riunisca in se soltanto le note a, b,
c, queste nella loro totalità formeranno la comprensione di A. Se poi A è una
determinazione di in, n, pe nulla più, la totalità m, n, p, costituirà
l'estensione di A. A significare il rapporto, che collega tra di loro le parti
della comprensione ossiano le note di un concetto, si suole usare il simbolo
algebrico della moltiplicazione; onde comprensione di A = axbxc, o abc. Il
rapporto invece delle parti dell' estensione tra di loro suolsi esprimere col
simbolo dell'addi zione, onde estensione di A = m + n + p, E non a torto,
perchè come nella moltiplica zione ogni fattore moltiplica tutti gli altri,
così ogni nota determina l'insieme di tutte le altre; mentre le parti
dell'estensione si escludono tra di loro, come gli addendi, e sommate insieme
costi tuiscono il tutto. Questa relazione, che corre tra le note del concetto,
fu da molti disconosciuta e se ne accusò la logica, quasi essa pretenda ridurre
i concetti più differenti tra di loro a un tipo unico, ignorando anzi
cancellando le attinenze molto più essenziali che in ciascun concetto ne
collegano tra di loro i vari elementi. Ma a torto, perchè non tutti gli ele
menti, che entrano a comporre un concetto, possono per ciò dirsi note di
questo. Nota veramente non è se non ciò che può legittimamente applicarsi a un
concetto come un suo predicato. (Così p. es. nel concetto di triangolo entra
senza fallo anche l'idea della linea; ma siccome non può dirsi: il triangolo è
una linea, così linea non è nota di triungolo. Il medesimo dicasi del numero
tre). Ciò che entra in un concetto e non è nota di esso, sarà elemento d'una
sua nota; elemento che per costituire que sta nota deve essere pensato in certe
speciali rela zioni con altri elementi; ma queste non sono re lazioni logiche e
appartengono alla materia, non alla forma logica del concetto. Se da un
concetto si toglie qualche nota (o, a, parlar più propriamente, se nel pensare
un concetto si esclude dal nostro sguardo mentale qualche nota) questo processo
si chiama astrazione. Il processo contrario, che consiste nell'aggiungere
qualche nota a un concetto, prende il nome di determina zione, L'astrazione poi
può essere di due maniere, ascendente o verticale l ' una, laterale od orizzon
tale l ' altra. La prima si fa quando si tien fermo il concetto nella sua parte
sostanziale e si abban dona una o più note del medesimo Per es, dato il
concetto animale vertebrato mammifero, si lascia [La locuzione propria in tal
caso è astrarre da, Nel l'esempio addotto di sopra si dirà: astraggo dal
carattere mammifero. da parte la nota mammifero e si mantiene il con cetto
animale vertebrato. La seconda si effettua ritenendo del concetto dato una nota
(o un gruppo di note), che viene cosi a costituire un nuovo con cetto, e
lasciando andare tutto il resto. Per ciò fare è d'uopo comporre alla nota che
si astrae una nuova sostanza logica. Ad es. dato il concetto giglio, io ritengo
la nota bianco e abbandono il rimanente; qui il nuovo concetto non avrà più per
sostanza logica fiore, ma colore o qualità. La determinazione è il processo
contrario, come s'è veduto; ma di regola si contrappone non all ' astrazione
orizzontale, bensì alla verticale. Per essa da un concetto più generico, cioè
di minor comprensione, se ne forma uno meno generico os sia di maggiore
comprensione, aggiungendovi col pensiero qualche nuova nota. Per es. se al
concetto governo io aggiungo il carattere costituzionale, for mando così il
nuovo concetto meno generale go verno costituzionale, ho eseguito
quell'operazione che dicesi determinazione. Tale aggiunta di nuove note non è
del resto arbitraria del tutto; occorre che il carattere aggiunto sia
compatibile colla sostanza logica del concetto dato e col resto de'suoi
elementi. Per es. non si potrà aggiungere al concetto triangolo la nota
quadrilatero, al concetto virtù la nota verde, In questo caso si usa il verbo
astrarre transitiva mente. Nell'esempio di sopra: astraggo la bianchezza. ecc.
Donde si vede che la determinazione, per esser valida, presuppone la conoscenza
della materia del concetto e della reale dipendenza de' suoi elementi tra di
loro; criteri che la logica formale è impo tente a somministrare. É poi chiaro
che per l'astrazione ascendente si impicciolisce la compressione e con ciò si
au menta l'estensione del concetto; all'incontro per la determinazione si
accresce la comprensione e si diminuisce l'estensione. Questo rapporto tra le
estensioni e le compren sioni di due concetti, l'uno più l'altro meno astratto,
si esprime dicendo, che la comprensione e l'esten sione stanno tra di loro in
ragione inversa. Rap porto il quale perciò suppone che i due o più con cetti,
che si considerano, appartengano allo stesso tronco ossia abbiano la stessa
sostanza logica, in altri termini. appartengano alla medesima categoria. Di qui
ci nasce il bisogno di considerare bre vemente che cosa s'intenda in logica per
categoria. I concetti, considerati puramente sotto il ri. spetto della forma
logica, si distinguono tra di loro solamente per la ricchezza maggiore o minore
della comprensione e per la maggiore o minore am piezza dell' estensione, che è
quanto dire pel vario grado della loro generalità e particolarità. Pure ci sono
delle differenze fondamentali tra i concetti, che non si possono trascurare,
sebbene propriamente riguardino più la materia loro che non la forma. Tali
differenze vengono espresse anche dal linguaggio colla differente forma dei
voca boli, significandosi per es.gli oggetti concreti in dividuali coi nomi
propri, le classi di questi co'nomi comuni, le qualità cogli aggettivi, le
azioni co' verbi e cosi via. Di qui i tentativi tante volte rinnovati per
determinare le specie originarie de concetti os. siano le categorie. I più
famosi tra codesti tenta tivi furono quello d'Aristotele fra gli antichi e del
Kant fra i moderni. Le categorie aristoteliche sono dieci: oủoia (che contiene
un' ambiguità, potendosi tradurre per so stanza e per essenza ), nogóv (quantità),
nolóv (qua lità) noóo ti (relazione, noú (il dove), noté (il quando), nemogai (la
giacitura), èzelV (l'avere, l’abitus), TOLETV (azione), náoxelv (passione). In
quanto alle categorie kantiane si noti che esprimono più presto le forme
generali a priori, sotto le quali la nostra intelligenza è, necessitata a
pensare qualunque dato (stando alla teoria del Kant) che non le specie supreme
dei concetti. Esse sono dodici, ripartite a tre a tre sotto quattro dif ferenti
rispetti. Eccone il quadro: secondo la quantità Unità Pluralità Totalità
secondo la secondo la secondo la qualità relazione modalità Realtà
Sostanzialità Possibilità Limitazione Causalità Esistenza Negazione Az.
reciproca Necessità Parliamo qui delle lingue del ceppo indoeuropeo, et cui
appartengono le classiche e quasi tutte le moderne europee. Kant le dedusse
dalle varie forme del giu dizio, come apparirà della trattazione di queste. Ad
Aristotele le sue furono suggerite dall'analisi delle forme grammaticali della
lingua. Le categorie aristoteliche possono comodamen te ridursi alle quattro
seguenti: Sostanza. Proprietà (che comprende la qualità e la quantità). Stato (che
comprende la giacitura, l'abito, il fare, il patire). Relazione (che compende
il n1980 ti, il luogo, e il tempo). Finalmente alcuni le ridussero tutte a due;
sostanza e accidente. E qui voglionsi notare due cose, ciò sono Che la
categoria costituisce propriamente quel che abbiamo chiamato sostanza logica o
tronco del concetto, dimodochè levando via coll'astrazione ascendente tutte le
note d'un concetto, quello che resta sarà in ogni caso una delle categorie. Che
il nostro pensiero, pe ' suoi fini parti colari, usa sovente spostare la categoria
de'concetti, concependo per es. una qualità quasi fosse una so stanza oppure
un'azione, una relazione come qua lità ecc. L'astrazione orizzontale di solito
implica uno spostamento di categoria. Di qui i così detti nomi astratti della
grammatica, come bianchezza dall'aggettivo bianco, conoscenza del verbo cono
scere, ecc. Del resto non sempre quando una parola muta la categoria
grammaticale (facendo per es. d'un verbo un sostantivo, d'un aggettivo un
verbo, ecc. ) si muta veramente anche la categoria logica. S'è creduto da molti
che tutti i concetti po tessero essere così distribuiti o ordinati tra loro,
salendo via via dagli infimi (più concreti e parti colari ) ai superiori (più
astratti o generali) e da questi a uno supremo, che venissero a formare quasi
una piramide appuntantesi in codesto concetto su premo. Ma questo a rigore è
impossibile, perocchè: 1.0 Dato il concetto supremo (che indicheremo con A), donde
si avrebbero le differenze che occor rono a costruire i concetti inferiori?
Poniamo in fatti che il concetto supremo A si divida in due, M ed N. In tal
caso M dovrebbe essere A più una differenza d, N sarebbe = A più una differenza
d'. Ma ded dunque non contengono la nota A; dunque sono concetti anch'essi e
originari al pari di A.. 2.° Il concetto supremo sarà l'ente o il qualche cosa.
Ma in tal caso ci sarà almeno il concetto del nulla e della negazione, che ne
saranno esclusi. Oltredichè sarà un far violenza non solo alle pa role ma anche
al concetto, se si considerino come enti" p. es. le relazioni, come
l'eguaglianza, la dif ferenza, ecc. Se poi vogliasi risguardare come concetto
as solutamente supremo il pensabile (lasciando stare che abbiamo pure il
concetto dell'impensabile), è bensì vero che tutti i concetti, (tranne appunto
quello dell'impensabile) si potranno subordinare a questo; ma il pensabile è un
genere puramente analogico, ossia non riguarda il contenuto de' con cetti,
bensì soltanto la loro relazione estrinseca verso il subbietto pensante (Come
se v. gr. tutti gli oggetti ch'io posseggo li volessi ridurre al ge nere
supremo: il mio ). Le note dei concetti furono distinte dai logici in
essenziali e non essenziali ossia accidentali. Le essenziali si suddivisero in
costitutive o primarie e consecutive o attributi. Per altro queste e altre
distinzioni analoghe appartengono più presto alla metafisica che non alla
logica, essendochè questa non ci fornisce criteri sicuri per siffatte
distinzioni. Infatti se noi dichiariamo essenziali a un con cetto quelle note,
tolte le quali il concetto non è più quello di prima, tutte diventano
essenziali. Se poi si dichiarino essenziali solamente quelle note, levate le
quali il concetto non solo si muta, ma si sfascia del tutto (come p. es. se dal
concetto trian golo si tolga la nota figura o la nota trilatero), noi usciamo
dalla logica.Delle relazloni logiche che possono intercedere tra due concetti
Affinché due concetti possano essere paragonati logicamente tra di loro all'
uopo di determinarne la relazione, bisogna che abbiano la stessa sostanza
logica ossia appartengano alla stessa categoria. Ciò fermato, le relazioni in
cui possono tro varsi tra loro due concetti si ridurranno alle in frascritte.
Alcuni chiamano equipollenti due concetti quando sono un medesimo concetto
espresso in due differenti maniere. Questa denomi nazione crediamo sia
impropria. Altri più esatta mente dicono equipollenti que' concetti, che hanno
la stessa estensione, ma una differente compren sione. Tali sono p. es.
triangolo equilatero e trian golo equiangolo. Ente infinito e spirito assoluto,
ecc. Sopra e sott'ordinazione. Questa relazione si avvera tra due concetti,
quando l'estensione dell' uno fa parte dell ' estensione dell'altro; per
conseguenza la comprensione del secondo fa parte di quella del primo. Il più
generale (ossia quello che ha l'estensione maggiore e minore la comprensione)
dicesi sopra ordinato, il più particolare subordinato. (Per es. figura è
sopraordinato, triangolo è subordinato ). Il superiore o sopraordinato dicesi
anche genere, l' in feriore o subordinato specie. Ogni genere poi è alla sua
volta specie rispetto ad uno che gli sia supe riore, ogni specie è genere
rispetto a' suoi inferiori, e ciò finchè s'arrivi al supremo, che non può es
sere più specie e all'infimo che non può essere mai genere. Notisi per altro
che il concetto di un ente individuale, per es. di Tizio, logicamente non è per
necessità infimo e può considerarsi ancora come genere in rispetto al medesimo
come concetto preso con ultertori determinazioni. Così Tizio è genere riguardo
a Tizio seduto, a Tizio addormentato, ecc. Coordinazione. Sono coordinati tra
di loro i concetti che sono subordinati in pari grado a uno stesso concetto
superiore. Alcuni logici, con Wundt alla testa, distinguono V maniere di
coordinazione. Noi le riportiamo qui sotto, osservando nel tempo stesso che la
vera e propria coordinazione è soltanto la prima. Code ste varie specie di
coordinazione pertanto hanno luogo: a) Quando due o più concetti, subordinati
in pari grado a uno più generico, sono tra di loro di sgiunti, vale a dire
quando le loro estensioni si escludono reciprocamente. Per es. rosso, verde, az
zurro, ecc., che sono tutti subordinati a colore. Quando tra due concetti v' ha
una relazione vicendevole; per es. maschio e feminina, padre e figlio, agente e
paziente, ecc. Questi si chiamano propriamente concetti correlativi. Quando due
concetti, compresi sotto un terzo comune, hanno la massima differenza possi
bile tra loro. Per es. buone e cattivo, bianco e nero, angolo acuto e ottuso,
ecc. Tale relazione dicesi di contrarietà. d) Quando tra due concetti, compresi
sotto un terzo comune, passa la minima differenza possibile. Per es. tra i
sette colori dello spettro, giallo e verde; tra i poligoni, pentagono ed
esagono, ecc. Perché ciò avvenga occorre che la serie sia discreta; chè se in
cambio è continua, potendosi tra due termini qua lunque concepirne sempre uno
intermedio, questa, relazione a rigore non si avvera mai. Tale relazione si
dice di contiguità Quando due concetti s'incrocicchiano, ossia le loro
estensioni hanno una parte comune. Per es. figura rettangolare e figur'il
equilatera, europeo e cattolico. Codesta relazione è detta da alcuni d' in
terferenza. Dipendenza, che può essere
unilaterale o reciproca. Ha luogo tra concetti, che senza essere tra loro nè
coordinati nè subordinati, sono tali Il termine contingenza adoperato da taluno
in que st'uso è ambiguo.]che l ' uno determina l'altro; e questa dipendenza può
essere o non essere mutua. Per es. pena o colpa hanno una dipendenza
unilaterale, perchè la pena dipende dalla colpa, ma non questa da quella; fra
il tempo occorrente a eseguire un dato lavoro e la quantità del lavoro v'è
dipendenza reciproca, ecc. Tale relazione ha luogo tra un concetto qualsiasi e
la sua negazione; essi si chiamano anche contradit torii. Il concetto negativo
non si trova qui, come accade del contrario, in una opposizione determi nata
verso il positivo, anzi, preso a tutto rigore, esprime l’indefinita sfera di
tutto il pensabile ad esclusione del solo positivo opposto. Perciò Aristo tele
chiama le espressioni non -uomo, non -albero, ecc. nomi indefiniti. Ma ne' casi
concreti il concetto negativo si pensa solitamente come tale, che, in sieme col
suo opposto positivo, costituisca l'esten sione d'un concetto prossimamente
superiore. Così ad es. non -verde non verrà pensato come equiva lente a tutto
il pensabile ad eccezione del verde; ma bensì sotto il superiore colore, di cui
insieme col suo opposto verde costituisce tutta l'estensione. In tal supposto
il non - verde comprenderebbe i con cetti più disparati, per esempio giustizia,
strada ferrata, mu sica, cilindro, balena, ecc. Si può dire che la re lazione
che passa tra questi concetti consiste nel non avere tra loro veruna relazione.
Del resto la disparatezza non è si può dir mai assoluta, po tendosi sempre trovare
un qualche rispetto, sotto del quale i due concetti cessano d'essere tra loro
disparati. - Per rappresentare graficamente le relazioni lo giche de' concetti
tra di loro si ricorre solitamente al simbolo dei circoli tracciati in un piano.
Per A es. la congruenza di due circoli simbo B leggia l'equipollenza. La
subordinazione viene significata con l'in O o B clusione d'un circolo in altro
dove A è il A subordinato e B il sopraordinato. La coordinazione dei concetti
disgiunti in ge nerale è simboleggiata con vari circoli entro un D altro. B
Questa rappresentazione per altro Oc è imperfetta, perchè esprime bensi
l'inclusione delle estensioni di A, B, C in quella di D e la loro vi cendevole
esclusione; ma non già che la somma 285 delle tre estensioni degli inclusi
eguaglia quella dell'includente. Se tuttavia i coordinati disgiunti sono due
soli, tale relazione è significata meglio colla divisione d'un circolo per
mezzo del dia с metro, А B Tra le varie maniere di coordinazione, che noi
consideriamo come improprie, solo l'interferenza A B si rappresenta bene con
questo sistema, O > Wundt propone degli altri simboli, consi stenti in linee
rette, de' quali daremo qui una suc cinta idea per mezzo della figura seguente:
n b с e f m Dove 1.° l'equipollenza è significata dal rap porto d'un segmento
con se stesso; per es. ad: ad. 2. ° La sopra- ordinazione del rapporto d'una
retta con una sua parte: per es. ag: ab, e la su bordinazione inversamente, ab:
ag. La coordinazione a) di disgiunzione, dal rapporto di una parte del segmento
totale con una qualunque altra parte, per es. ab: de. a) di correlazione, dal
rapporto tra due parti collocate simmetricamente; per es. bc: ef. c) di
contrarieti, dal rapporto tra i due seg menti più distanti; per es. ab: fg. a )
di contiguità, dal rapporto tra due porzioni contigue, per es. de: ef. e) d'
interferenza, dal rapporto tra due seg menti che in parte coincidono; per es.
bd: ce. La dipendenza si esprime col rapporto di una retta ad un'altra, la cui
situazione dipenda dalla prima, per es. ag: am. Se la dipendenza è reciproca,
tale relazione è rappresentata meglio dal rapporto tra due rette, le quali si
suppone che si determinino reciprocamente; per es. am: an. A ben intendere la
natura di la definizione come operazione logica giovi considerarne i fini. E
anzi tutto quando l’uomo possedesse de' concetti obbiettivamente per fetti, non
ci sarebbe bisogno di definizioni; dun que la definizione sovviene in primo
luogo alle imperfezioni del nostro pensiero. Le imperfezioni principali, a cui
ripara la de finizione, sono a) l'incertezza del vincolo tra il concetto e la
parola con cui lo si esprime; ) l'in debolimento del nesso psicologico tra gli
elementi logici del concetto. Rispetto al primo fine la definizione è sempre
nominale, perchè serve a fissare il senso del voca bolo, a far sì che a quel
dato vocabolo si unisca sempre quel dato concetto. Rispetto al secondo fine la
definizione è reale, perchè serve a fissare e chia rire l'organismo interno del
concetto. Si aggiunga che la definizione (per es. nelle scienze puramente
formali, come le matematiche pure) spesso equivale alla formazione del concetto.
Infatti l'unità concettuale, come individuo logico, è spesse volte arbitraria.
In una moltitudine d'ele menti pensabili, la definizione ne fissa un certo
gruppo per iscopi vuoi scientifici, vuoi didattici. La definizione pertanto è
l'esposizione o me glio la determinazione della comprensione d'un con cetto e
prende la forma d' un giudizio, il cui sog getto è il concetto di cui si tratta
(detto il defi niendo ovvero definito) e il predicato (che chiamasi definiente)
è quel gruppo di note mediante le quali il primo viene definito. Non è per
altro necessario e nemmeno oppor tuno che il concetto da definirsi si risolva
in tutte le note che contiene; bensì basta si indichino quelle che sono
sufficienti a determinarlo perfetta- · mente, ossia a distinguerlo e dai
concetti conge neri e da quelli che appartengono ad altri generi. A tal uopo
servono il genere prossimo (cioè il con 288 cetto prossimamente superiore al
definiendo ) e la differenza specifica cioè quel carattere che lo con
traddistingue dai concetti coordinati ). Non s' inten de tuttavia con ciò che
ogni definizione debba es ser fatta per mezzo di due soli elementi; soltanto si
avverte che il tutt' insieme dei caratteri, che costituiscono il definiente,
dee comprendere due parti, cioè le note generiche e le specifiche. L'in
dicazione del genere serve anche a indicare a qual categoria il definiendo
appartenga. Anche la regola del genere prossimo non vuole esser presa con
pedantesco rigore. Una definizione può essere vera e logicamente irreprensibile
anche servendosi d'un genere che non sia il prossimo. Del resto non è nemmeno
sempre possibile il de terminare in via assoluta quale sia il genere pros simo
a cui appartiene un dato concetto. Per es. nella definizione dell'uomo si suol
as segnare come genere prossimo l'animale; mentre senza fallo ve n'è di più
prossimi, come a. verle bralo, mammifero, ecc. I logici, come già s'è accennato
più sopra, sogliono distinguere varie maniere di definizione, come la nominale,
che determina soltanto quel che si deve intendere sotto una data espressione, e
la reale, che si riferisce all ' intrinseco valore del con cetto. Una
sottospecie della definizione reale è la genelica, che esprime il processo onde
la cosa de finita si forma. 289 Si noti per altro che la distinzione delle de
finizioni in nominali e reali non è rigorosa, per che ogni definizione è reale,
in quanto indica le note dell'oggetto ed è nominale, in quanto il con cetto
così determinato si collega con un dato nome. Alcuni tuttavia intendono la
distinzione tra la de finizione reale e la nominale in un senso alquanto
differente; e dicono la definizione essere nominale, quando ha per fine
solamente di assegnare un dato vocabolo a un gruppo d'elementi pensabili, senza
curarsi se codesto gruppo abbia poi un' intima con nessione ed unità, se quindi
sia un concetto ob biettivamente valido; chiamano invece reale una definizione,
quando in essa apparisce anche la va lidità obbiettiva del definito. Gli errori,
da cui conviene guardarsi per dare una buona definizione sono principalmente
quelli che seguono: L'angustia. Una definizione è angusta quando il definiente
contiene qualche nota che non appar tiene a tutta l'estensione del definito. 0)
L'ampiezza, la quale ha luogo quando, per mancanza di note specifiche
sufficienti, il definiente oltrecchè al definito, conviene anche ad altri con
cetti congeneri. La sovralbondanza, che consiste nell'aggiun gere note non
essenziali e superflue rispetto al fine di distinguere il concetto dato da
tutti gli altri. La tautologia, che ha luogo quando il con cetto stesso da
definirsi è contenuto, sia manifestamente sia copertamente, nel definiente. (Per
es. la legge è il comando del legislatore). Il circolo o diallele, che consiste
nel defi nire A per mezzo di Be B daccapo per mezzo di A; ovvero anche nel
definire A per B, B per C, C per D, ecc. e D daccapo per A. Questo errore uel
definire è analogo e spesso si confonde col pa ralogismo detto ysleron -
proteron, pel quale si fon damenta una dottrina o un concetto sopra una dot
trina o un concetto, che hanno bisogno dei primi per essere scientificamente
validi. Le definizioni metaforiche. Le definizioni negative, che è quanto dire
quelle che si servono unicamente di negazioni. Pure la definizione negativa
talvolta è giusti ficata, sia perché il concetto da definirsi è esso medesimo
negativo, sia perch' esso è semplice e però non si può determinare in altro
modo che di stinguendolo per via di negazioni da quelli coi quali potrebbe
essere confuso. A determinare l ' estensione d'un concetto e insieme a mettere
in chiaro le attinenze intrinseche di più concetti subordinati ad un altro
serve la divisione logica. Essa consiste in un giudizio, di cui il soggetto è
il concetto da dividersi (detto il dividendo o il diviso, secondochè la
divisione si considera come già fatta oppure da farsi), e il pre dicato è una
serie di concetti subordinati al primo o coordinati disgiuntivamente tra di
loro (membri dividenti). In altre parole il soggetto è il genere e il predicato
è l'enumerazione delle specie com prese sotto quel genere. Siccome le specie
nascono dalle varie determi nazioni di cui il genere è suscettivo, quindi in ge
nerale occorre per la divisione che il concetto da dividersi possegga una nota,
la quale sia suscetti bile di varietà. Codesta nota chiamasi fondamento della
divisione, che dicesi anche il rispetto, sotto cui il concetto dato si divide.
Cosi il concetto uomo possiede la nota colore e questa essendo capace di
varietà, se n'avrà una divisione dell'uomo sotto il rispetto o il fondamento
del colore, in bianchi, neri, gialli, ecc. Lo Herbart pel primo fece osservare
che, do vendo la nota, la quale serve di fundamentum di visionis, essere un
concetto già diviso, ne segue che ogni divisione ne presupporrebbe un'altra già
fatta. Ora è chiaro che per tal modo s' andrebbe all ' in finito e quindi niuna
divisione sarebbe possibile. Donde segue che ci debbono essere alcnne di
visioni primitive cioè senza un fondamento asse gnabile. Tale è per es. la
divisione del colore in rosso, verde, ecc.; la divisione del numero in 1, 2, 3,
ecc. Secondo il numero de' membri dividenti la di visione chiamasi dicotomia,
tricotomia, ecc. Ogni divisione può essere ridotta a una dico tomia, ponendo
come primo membro il genere, col. l'aggiunta d'una differenza specifica e a
questo contrapponendo il genere stesso più la negazione di quella. Così la
divisione degli uomini sotto il rispetto del colore sarà sempre possibile nella
forma dico tomia così: gli uomini sono bianchi o non bianchi. In generale A ¢ A
b o A non b. Per altro, se le specie sono realmente più di due, il termine nega
tivo resta indeterminato. La dicotomia presenta dei vantaggi; per il che alcuni
l'hanno considerata come la divisione più rigorosamente logica; infatti in essa
i membri dividenti costituiscono una perfetta contrarietà. Altri preferiscono
la tricotomia, per la ragione che questa ci dà due termini opposti e uno che
serve di mediatore tra essi. Queste considerazioni per altro, valide per certi
casi e per certi determinati fini scientifici, non sono d'ordine generale nè
applicabili a tutti i casi. La dicotomia però può considerarsi come un utile
processo preparatorio affine di trovare tutte le spe cie d'un concetto. La
divisione dicesi naturale, se il fondamento è preso tra le note essenziali del
concetto; artifi ciale ove sia preso tra le accidentali. Notisi tutta via che
per gli speciali fini scientifici può riuscire 293 importantissima una
divisione, la quale per il pen sar comune parrebbe frivola e artificiosissima.
Quando tutti i membri dividenti d' una data divisione vengono divisi alla loro
volta, si ha la suddivisione. Per la quale non è necessario che i membri
dividenti della prima siano suddivisi tutti sotto lo stesso fondamento. Se
all'incontro un concetto viene successiva mente diviso sotto più d'un
fondamento, il com plesso di queste divisioni ci dà una codivisione. I membri
di questa saranno in numero eguale al prodotto del numero di termini che si
ottengono da ciascuna delle singole divisioni. Perché la co divisione sia
possibile bisogna che ciascuno dei termini ottenuti con una delle divisioni sia
atto a esser diviso sotto il medesimo fondamento. La divisione logica, per
essere corretta, deve rispondere ai seguenti requisiti: Ella dev'essere
adeguata; il che vuol dire che i membri dividenti presi insieme devono ri
produrre tutta intera l'estensione del diviso. Membra sint opposita, vale a
dire che le estensioni dei membri dividenti debbono escludersi tra di loro. Si
deve sfuggire il saltus in dividendo, os sia la divisione dev'essere continua.
Il salto con siste nel passare da termini ottenuti colla divisione fatta dietro
un fondamento a termini ricavati da una suddivisione fatta sotto un altro
fondamento. (Come v. gr. se uno dividesse i verbi in transitivi, intransitivi e
passivi). La divisione non deve scendere a minuzie. se Osservazione. - Una
divisione per essere logi camente compiuta domanderebbe che tutte le parti in
cui il fondamento è già diviso, fossero applicate al concetto da dividersi. Ma
in realtà ciò non si avvera se non rade volte, perchè spesso il dividendo non è
suscettivo di assumere non alcune di quelle varietà; perciò il numero effettivo
delle spe cie d'un dato genere non è dato dal puro schema tismo logico, ma
dalla natura delle cose. Così per es. gli uomini non possono dividersi, sotto
il ri spetto del colore, in tante specie in quante é di viso il fondamento
colore. Assai difficile a determinarsi logicamente è l'esclusione reciproca
delle estensioni di più con cetti tra loro e quindi dei membri dividenti,
quando l'uno' non sia la pura negazione dell'altro. In par ticolare manca la
reciproca esclusione e perciò i concetti sono interferenti, quando sono
risultati da una divisione fatta sotto più d'un fondamento (Per es. europeo e
musulmano, russo e marinaio, qua drilatero e figura regolare sono, a due, a
due, con cetti interferenti e perciò non si escludono tra di loro; il che
deriva da ciò che la prima coppia fu ottenuta colla divisione di uomo sotto i
due fon damenti parte del mondo e religione; la seconda colla divisione sotto i
fondamenti nazionalità e pro fessione; la terza sotto i fondamenti numero dei
tati e grandezza relativa degli angoli e dei lati). Ma l'escludersi dei termini,
in cui un concetto originariamente si divide (i quali servono poi di fondamento
a tutte le divisioni) è un fatto primi tivo, su cui la logica nulla può dire.
Le difficoltà incontrate dai logici ne' tentativi fatti per definire l'atto
giudicativo o il rapporto obbiettivo che a quello corrisponde, nascono da ciò
ch'esso è l'atto primitivo del pensiero e però as solutamente sui generis. Se
per es. lo si definisce quell'atto per cui si afferma o si nega qualche cosa di
qualche cosa, in realtà abbiamo fatto una definizione tautologica, perché
l'affermare o negare è appunto ciò che co stituisce il giudizio, ond' è come
dire: il giudizio è l'atto per cui si giudica. Riporteremo qui alcune altre
definizioni del giudizio. Per es. questa: Il giudizio è la determinazione d'un
concetto per mezzo d'un altro. E quest'altra: Il giudizio è il congiungimento o
la disgiunzione di due elementi del pensiero in corrispondenza all'unione o
alla separazione delle cose. O anche: È la coscienza d'un rapporto esi stente
tra due concetti. 0: La rappresentazione o la coscienza del l'unità o della non
unità di due concetti. Oppure: La decomposizione d'una rappresen tazione ne'
suoi elementi, ecc., ecc. A proposito di queste due ultime definizioni (la
seconda è del Wundt) si noti il fatto, parados sale in apparenza, che la stessa
cosa, cioè il giu dizio, possa essere definita in modi diametralmente opposti.
Ma questo fatto appunto rivela meglio di ogni altra considerazione la vera
natura del giu dizio, che è di essere sintesi e analisi ad un tempo, di
dividere unendo e unire dividendo. E ciò è pro prio e caratteristico del
pensiero, perchè io non posso separare mentalmente due elementi senza pensarli
insieme l'uno e l'altro col medesimo atto indiviso, nè posso mentalmente
riunirli senza te nerli al tempo stesso l'uno fuori dell'altro. Nel giudizio si
distinguono tre parti o elementi che sono il soggetto, che è il concetto da de
terminarsi ossia ciò di cui si afferma o nega qual che cosa. Il predicato, che
è il concetto che serve a determinare il soggetto. La copula, che è la
relazione tra il soggetto e il predicato, o guar dando il giudizio come atto
della mente, è l'affer mazione stessa. La copula è espressa dalla lingua
propriamente ed esplicitamente colla voce è, ovvero è significata dalla
flessione del verbo. Il giudizio senza fallo è una forma propria del pensiero;
nelle cose, a cui il pensiero si riferisce, (tranne il caso in cui l'oggetto
del pensiero con sista esso medesimo in pensieri) non ci sono giu dizi; ma se
il pensiero è vero, esso deve rappre sentare le cose, quindi in queste ci ha da
essere alcun che, il quale corrisponda alla forma del giu. dizio. Che cosa è
questa? Un tal problema è metafisico e però esce dai termini della logica;
crediamo tuttavia opportuno di farne un brevissimo cenno. Ricordiamoci che
l'atto di coscienza, base del pensiero, è essenzialmente reduplicazione, la cui
forma più semplice è questa A è A. Ciò posto la prima occasione obbiettiva dei
no stri giudizi potrebbero essere le differenze e i can giamenti delle cose e
la loro costanza o persistenza; le differenze come occasione che ne fa
avvertire la costanza. Ora la costanza delle cose, la loro fedeltà per così
esprimerci, a sè stesse, sono l'equivalente ob biettivo del giudizio d'identità
e in generale del giudizio affermativo. La differenza è di regola il
corrispondente del giudizio negativo. Il cangiamento poi, che del resto non può
esser mai totale e as soluto, ma che si fa sopra un fondo che rimane identico
a sè stesso, è rappresentato dai giudizi narrativi, p. es, il cane corre (mentre
prima era 298 fermo); l'albero perde le foglie (mentre prima era fronzuto) ece.
Insomma le cose, con la loro essenza immuta bile, le qualità, gli avvenimenti,
le relazioni, sono categorie obbiettive, che trovano il loro riscontro nel
giudizio. Di più il giudizio, come s'è visto nella Psico logia, è per l'essenza
sua un riferire; ora le cose possono essere riferite o al subbietto pensante
(p. es. io vedo, io percepisco, io penso la cosa A ); O a sè stesse (A è A,
l'uomo è uomo, ecc. ); o le une alle altre (come: la terra gira intorno al
sole, ecc. ); o anche le parti tra di loro (p. es. le colonne so stengono la
volta ); la cosa alle sue proprietà, a' suoi stati successivi, alle azioni e
passioni e via via. Le relazioni poi si partono in due classi, cioè reali o del
pensiero. Reali diciamo quelle che in teressano il modo d' esistere delle cose
(p. es. cau salilà, paternità, reciproca azione ecc. ); diciamo ideali o del
pensiero quelle che non interessano le cose, ma solo il nostro pensiero intorno
alle cose, come uguaglianza, somiglianza, differenza, maggioranza. Per es. la
grandezza relativa dei lati e quella degli angoli sono in una relazione reale;
all'incontro la relazione ch' io pongo fra un trian golo, pognamo, e un
quadrilatero quando dico che questo ha un lato di più di quello, è del
pensiero. Kant chiama analitici que' giudizi, il cui predicato si cava dalla
semplice analisi del soggetto, che cioè anche prima del giudizio faceva parte
del pensiero del soggetto; sintelici quelli, il cui pre dicato è preso fuori
del soggetto. Contro questa dottrina si sono sollevate fino dal tempo del Kant
molte obbiezioni, alcune delle quali insussistenti. Tra cui questa: se il
giudizio ha da esser vero, per necessità il soggetto deve contenere il
predicato; dunque tutti i giudizi sono analitici. Ora questa obbiezione suppone
che il giu dizio sia anteriore a sè stesso. Quel predicato che dopo il
giudizio, appartiene al soggetto, ha pure abbisognato d'un primo giudizio che
glielo appli casse. Così io potevo ad es. conoscere la capra ab bastanza per
distinguerla da ogni altro animale, eppure non sapere che è un ruminante.
Quando vengo a scoprire questa sua proprietà, tale scoperta prende la forma del
giudizio: la capra è un ru minante, il quale perciò è sintetico. D' allora in
So il professore crede la sua scolaresca immatura per questa questione, potrà o
saltare questo capitolo o tras portarlo in fondo al trattato del giudizio. 300
poi, dato ch'io ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per me analitico. Ciò
mostra che, almeno per molti giudizi, la differenza tra l' essere sintetici o
analitici, è relativa allo stato delle cognizioni di chi li fa. Ma la
distinzione tra giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi sopra, un
altro rispetto; analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele mento
cosi essenziale al concetto del soggetto, che questo senza di esso non possa
affatto esser pen sato. Tale sarebbe p. es. la trilateralità rispetto al
concetto triangolo. Sintetici al contrario saranno quelli, il cui soggetto può
essere pensato anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto
di legge è stato approvato dal Parlamento, ecc. ). La dottrina di Kant del
resto non coincide perfettamente nè colla prima interpretazione, nė colla
seconda; egli insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la
comprensione del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico
addotto da lui e tanto criticato (7 + 5 = 12), è realmente sintetico, perché
chi pensa il numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non
per questo ha già il concetto dell'unità nu merica 12, numero che è formato con
quell'addi zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa
contro versia e anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè (dato che ci siano
de' giudizi sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a
priori, ci contenteremo qui di que. sta osservazione. È chiaro che acciò siano
possibili delle analisi, quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che
anteriormente ci siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera
del pensiero? E il pensare non è sempre un giudicare? Dunque ci devono essere
dei giudizi sintetici. E siccome c'è un pensare, a posteriori e uno a priori,
cosi pare innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a
priori. I giudizi rispetto alla forma si sogliono distin. guere anzitutto in
semplici e composti. E qui si noti che debbono considerarsi come composti sol
tanto quei giudizi, che si possono senza alterarne il valore risolvere in due o
più giudizi semplici. I semplici si dividono primamente sotto il ri spetto
della qualità in affermativi e negativi. Af fermativi sono quelli in cui il
predicato è posto come, relativamente, identico al soggetto; negativi quelli in
cui il predicato è escluso dalla compren Del resto la distinzione de' giudizi
in analitici e sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un lato, dal l
' altro metafisica. sione del soggetto; ovvero, avendo riguardo alle
estensioni, pel giudizio affermativo il soggetto vien posto nell'estensione del
predicato, pel negativo ne è escluso. A queste due specie si po trebbe
aggiungerne una terza, ch' io proporrei di chiamare dei giudizi di disparatezza
o per più bre vità disparanti; e sono quelli i quali non esclu dono il
predicato dalla comprensione del soggetto nė ve lo includono, ma affermano
soltanto che il soggetto per sè non implica quel dato predicato, benchè lo
possa ricevere. Per es. se io prendo per soggetto il ferro e per predicato
ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto includa un tal predicato e
nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia affermato (p. es. colla
formola: il ferro per sè, o in quanto ferro, non è ossidato ) costituisce un
giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per quanto mi consta, ha tenuto
conto di questa classe speciale di giudizi.Secondo alcuni logici la ne gazione,
ne' giudizi negativi, non affetta la copula, ma bensì il predicato (A non è B
equivarrebbe al giudizio: A è non - B). Ma questo modo di consi derare il
giudizio negativo non è naturale nè rap presenta l'intenzione di chi pronuncia
il giudizio, salvo in rari casi. Oltre a' giudizi affermativi e negativi taluni
col Kant ammettono una terza specie di giudizi, sotto il rispetto della
qualità, cioè 303 - gl' indefiniti. Tali sarebbero quelli in cui è nega tivo il
predicato (A è un non B). Ma è una classe superflua, perchè in realtà questi
giudizi coincidono coi negativi. In secondo luogo i giudizi si distinguono
sotto il rispetto della quantità, vale a dire secondo la estensione in cui è
preso il concetto che fa da sog getto. Se l'estensione del soggetto è presa in
tutta la sua totalità, il giudizio dicesi universale. (Tutti gli A sono B o più
brevemente A è B; nessun A è B, o più brevemente A non è B). Se in cambio il
soggetto è preso solo con una parte della sua estensione, il giudizio è
particolare (Alcuni A sono B; alcuni A non sono B ). Stando a una teoria
propugnata dallo Hamilton e da altri e oonosciuta sotto il nome di teoria della
quantificazione del predicato, nel giudizio sarebbe determinata non solo
l'estensione in cui si prende il soggetto, ma anche quella del predicato. Cosi
nel giudizio: tutli gli uomini sono mor tali, il soggetto sarebbe preso in
tutta l'estensione e il predicato solo in parte della sua estensione, cosicchè
la forma rigorosamente logica sarebbe: tutti gli uomini sono alcuni mortali
(vale a dire parte dei mortali ). Nel giudizio: alcuni animali sono mammiferi,
il soggetto sarebbe preso in parte della sua esten sione e il predicato in
tutta la sua estensione; sic chè la sua forma rigorosa sarebbe: alcuni animali
sono tutti i mammiferi. Così ogni giudizio affermerebbe una congruenza di
estensione e corrispon derebbe sempre ad un'equazione. Ma questa teoria non è
accettabile, perché se anche la determina zione dell'estensione del predicato
si può artificio samente dedurre da ogni giudizio, essa è innaturale non
essendo effettivamente pensata da chi forma il giudizio, tranne certi casi
speciali che la lingua suole esprimere con qualche suo spediente. Secondo
Aristotele a' giu dizı universali e particolari si dovrebbe aggiungere per
terza la classe degli indefiniti o aorisli sarebbero quelli, in cui al soggetto
si attribuisce o si nega un predicato senza aver riguardo all'esten sione (P.
es. la virti merita premio; concepito senza pensare se ci siano o no molte
virtù e se il predicato meritevole di premio convenga a tutte o no). Questa
forma di giudizio coincide con quello che alcuni moderni chiamano giudizio
della com prensione, per distinguerlo da quelli, in cui il pre dicato viene
determinatamente attribuito a tutti o solo a una parte dei termini che formano
l ' esten sione del soggetto e ch'essi denominano giudizi dell' estensione. Noi
non accogliamo codesta classe di giudizi; perchè, sebbene sia vero che chi
forma il giudizio ' ora ha di mira la comprensione del sog getto ora l '
estensione, pure l ' una relazione trae Da non confondersi cogli indefiniti del
Kant, che sa rebbero una classe nel rispetto della qualità. con sè l ' altra anche se non esplicitamente
pen sata. Altri, con Kant, a' giudizi universali e particolari aggiungono i
singolari, quelli cioè in cui il soggetto ha il minimum pos sibile di estensione
cioè è un individuo. Ma se que st' individuo è determinato, esso costituisce
tutta l'estensione del concetto (p. es. Giulio Cesare) e pertanto il giudizio è
universale; se é indetermi nato (p. es. un soldalo ), esso rappresenta una
parte dell'estensione e perciò il giudizio cade nella classe dei particolari.
Osservazione 3. - I giudizi particolari possono ricevere ulteriori
determinazioni secondochè la parte che si prende dell'estensione del soggetto o
è più o men determinata o si lascia affatto indeterminata (Per es. molti A sono
B, pochissimi A sono B, la più parte degli A sono B, dodici A sono B, ovvero
semplicemente parte degli A sono B). Ma per la logica queste specificazioni
hanno di regola poca importanza, salvo il caso che l'interesse del pen siero
cada appunto su esse, come p. es. nel numero de' voti d'un corpo deliberante.
Il giudizio particolare differisce d'assai quanto al suo valore secondochè
preso indeterminatamente o determinatamente. In fatti il giudizio: alcuni A
sono B, può significare o che almeno alcuni A sono B, o che soltanto al cuni A
sono B. Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli A sono B, nel
secondo senso il giudizio universale, tutti gli A sono B, è necessa riamente
falso. I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari in luto senso, i
secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo si distinguono
in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano (o negano)
l'inerenza del predicato al sog getto (g. categorici), oppure: la dipendenza
del pre dicato dal soggetto (g. ipotetici), o, finalmente, se al soggetto viene
come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri d'una
disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g. disgiuntivi). Osservazione Questa
classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu
nemente accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E
invero i giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle
altre due, ma piuttosto una sottospecie di quelle; difatti tanto il giudizio
categorico quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi (Il tipo del y.
categorico disgiuntivo è: A è o B o C, dell'ipotetico -disgiun tìvo: se A è B,
o C è D, o M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il
predicato si pensa come necessariamente pertinente al soggetto, e questi
chiamansi giudizi necessari o apoditlici; o sono tali che il predicato si pensa
come di fatto appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi giudizi
della realtà o as sertorii; o, in terzo luogo, sono tali che il predi 307 cato
si pensa come possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi
possibili o problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio.
Veramente in questa classificazione della modalità si confondono due rispetti
differenti. I giudizi considerati obbiettivamente, sono o necessari, o della
realtà, o possibili; con siderati obbiettivamente sono apodittici, assertori o
problematici. Vale a dire che nel primo rispetto si considera la necessità, la
semplice realtà o la possibilità delle cose; nel secondo rispetto si con sidera
l'intensità della nostra affermazione. La dif ferenza tra i due rispetti
apparisce principalmente nella terza classe, in cui il giudizio della possibi
lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data determinazione, benchè
possa non averla (Per es. una casa può essere di nove piani ), mentre il
problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B? ). Tuttavia, affine
di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella logica si può
prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i giudizi si
dividono: rispetto alla qualità, in affermativi e ne gativi; rispetto alla
quantità, in universali e par ticolari; 3.º rispetto alla relazione, in
categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e ipote tico
- trovano il loro riscontro nel giudizio. Di più il giudizio, come s'è
visto nella Psico logia, è per l'essenza sua un riferire; ora le cose possono
essere riferite o al subbietto pensante (p. es. io vedo, io percepisco, io
penso la cosa A ); O a sè stesse (A è A, l'uomo è uomo, ecc. ); o le une alle
altre (come: la terra gira intorno al sole, ecc. ); o anche le parti tra di
loro (p. es. le colonne so stengono la volta ); la cosa alle sue proprietà, a'
suoi stati successivi, alle azioni e passioni e via via. Le relazioni poi si
partono in due classi, cioè reali o del pensiero. Reali diciamo quelle che in
teressano il modo d' esistere delle cose (p. es. cau salilà, paternità,
reciproca azione ecc. ); diciamo ideali o del pensiero quelle che non
interessano le cose, ma solo il nostro pensiero intorno alle cose, come
uguaglianza, somiglianza, differenza, maggioranza. Per es. la grandezza
relativa dei lati e quella degli angoli sono in una relazione reale;
all'incontro la relazione ch' io pongo fra un trian golo, pognamo, e un
quadrilatero quando dico che questo ha un lato di più di quello, è del
pensiero. Kant chiama analitici que' giudizi, il cui predicato si cava dalla
semplice analisi del soggetto, che cioè anche prima del giudizio faceva parte
del pensiero del soggetto; sintelici quelli, il cui pre dicato è preso fuori
del soggetto. Contro questa dottrina si sono sollevate fino dal tempo del Kant
molte obbiezioni, alcune delle quali insussistenti. Tra cui questa: se il
giudizio ha da esser vero, per necessità il soggetto deve contenere il
predicato; dunque tutti i giudizi sono analitici. Ora questa obbiezione suppone
che il giu dizio sia anteriore a sè stesso. Quel predicato che dopo il
giudizio, appartiene al soggetto, ha pure abbisognato d'un primo giudizio che
glielo appli casse. Così io potevo ad es. conoscere la capra ab bastanza per
distinguerla da ogni altro animale, eppure non sapere che è un ruminante.
Quando vengo a scoprire questa sua proprietà, tale scoperta prende la forma del
giudizio: la capra è un ru minante, il quale perciò è sintetico. D' allora in (1)
So il professore crede la sua scolaresca immatura per questa questione, potrà o
saltare questo capitolo o tras portarlo in fondo al trattato del giudizio. 300
poi, dato ch'io ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per me analitico. Ciò
mostra che, almeno per molti giudizi, la differenza tra l' essere sintetici o
analitici, è relativa allo stato delle cognizioni di chi li fa. Ma la
distinzione tra giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi sopra, un
altro rispetto; analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele mento
cosi essenziale al concetto del soggetto, che questo senza di esso non possa
affatto esser pen sato. Tale sarebbe p. es. la trilateralità rispetto al
concetto triangolo. Sintetici al contrario saranno quelli, il cui soggetto può
essere pensato anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto
di legge è stato approvato dal Parlamento, ecc. ). La dottrina del Kant del
resto non coincide perfettamente nè colla prima interpretazione, nė colla
seconda; egli insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la
comprensione del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico
addotto da lui e tanto criticato (7 + 5 = 12), è realmente sintetico, perché
chi pensa il numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non
per questo ha già il concetto dell'unità numerica 12, numero che è formato con
quell'addi zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa
contro versia e anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè (dato che ci siano
de' giudizi sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a
priori, ci contenteremo qui di que. sta osservazione. È chiaro che acciò siano
possibili delle analisi, quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che
anteriormente ci siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera
del pensiero? E il pensare non è sempre un giudicare? Dunque ci devono essere
dei giudizi sintetici. E siccome c'è un pensare, a posteriori e uno a priori,
cosi pare innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a
priori. I giudizi rispetto alla forma si sogliono distin. guere anzitutto in
semplici e composti. E qui si noti che debbono considerarsi come composti sol
tanto quei giudizi, che si possono senza alterarne il valore risolvere in due o
più giudizi semplici. I semplici si dividono primamente sotto il ri spetto
della qualità in affermativi e negativi. Af fermativi sono quelli in cui il
predicato è posto come, relativamente, identico al soggetto; negativi quelli in
cui il predicato è escluso dalla compren Del resto la distinzione de' giudizi
in analitici e sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un lato, dall’altro
metafisica. sione del soggetto; ovvero, avendo riguardo alle estensioni, pel
giudizio affermativo il soggetto vien posto nell'estensione del predicato, pel
negativo ne è escluso. Osservazione 1. – A queste due specie si po trebbe
aggiungerne una terza, ch' io proporrei di chiamare dei giudizi di disparatezza
o per più bre vità disparanti; e sono quelli i quali non esclu dono il
predicato dalla comprensione del soggetto nė ve lo includono, ma affermano
soltanto che il soggetto per sè non implica quel dato predicato, benchè lo
possa ricevere. Per es. se io prendo per soggetto il ferro e per predicato
ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto includa un tal predicato e
nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia affermato (p. es. colla
formola: il ferro per sè, o in quanto ferro, non è ossidato ) costituisce un
giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per quanto mi consta, ha tenuto
conto di questa classe speciale di giudizi. Osservazione 2. - Secondo alcuni
logici la ne gazione, ne' giudizi negativi, non affetta la copula, ma bensì il
predicato (A non è B equivarrebbe al giudizio: A è non - B). Ma questo modo di
consi derare il giudizio negativo non è naturale nè rap presenta l'intenzione
di chi pronuncia il giudizio, salvo in rari casi. Osservazione 3. – Oltre a'
giudizi affermativi e negativi taluni col Kant ammettono una terza specie di
giudizi, sotto il rispetto della qualità, cioè 303 - gl' indefiniti. Tali
sarebbero quelli in cui è nega tivo il predicato (A è un non B). Ma è una classe
superflua, perchè in realtà questi giudizi coincidono coi negativi. In secondo
luogo i giudizi si distinguono sotto il rispetto della quantità, vale a dire
secondo la estensione in cui è preso il concetto che fa da sog getto. Se
l'estensione del soggetto è presa in tutta la sua totalità, il giudizio dicesi
universale. (Tutti gli A sono B o più brevemente A è B; nessun A è B, o più
brevemente A non è B). Se in cambio il soggetto è preso solo con una parte
della sua estensione, il giudizio è particolare (Alcuni A sono B; alcuni A non
sono B ). Stando a una teoria propugnata dallo Hamilton e da altri e oonosciuta
sotto il nome di teoria della quantificazione del predicato, nel giudizio
sarebbe determinata non solo l'estensione in cui si prende il soggetto, ma
anche quella del predicato. Cosi nel giudizio: tutli gli uomini sono mor tali,
il soggetto sarebbe preso in tutta l'estensione e il predicato solo in parte
della sua estensione, cosicchè la forma rigorosamente logica sarebbe: tutti gli
uomini sono alcuni mortali (vale a dire parte dei mortali ). Nel giudizio:
alcuni animali sono mammiferi, il soggetto sarebbe preso in parte della sua
esten sione e il predicato in tutta la sua estensione; sic chè la sua forma
rigorosa sarebbe: alcuni animali sono tutti i mammiferi. Così ogni giudizio
affer 304 merebbe una congruenza di estensione e corrispon derebbe sempre ad
un'equazione. Ma questa teoria non è accettabile, perché se anche la determina
zione dell'estensione del predicato si può artificio samente dedurre da ogni
giudizio, essa è innaturale non essendo effettivamente pensata da chi forma il
giudizio, tranne certi casi speciali che la lingua suole esprimere con qualche
suo spediente. Osservazione 1. – Secondo Aristotele a' giu dizı universali e
particolari si dovrebbe aggiungere per terza la classe degli indefiniti o
aorisli (1 ) sarebbero quelli, in cui al soggetto si attribuisce o si nega un
predicato senza aver riguardo all'esten sione (P. es. la virti merita premio;
concepito senza pensare se ci siano o no molte virtù e se il predicato
meritevole di premio convenga a tutte o no). Questa forma di giudizio coincide
con quello che alcuni moderni chiamano giudizio della com prensione, per
distinguerlo da quelli, in cui il pre dicato viene determinatamente attribuito
a tutti o solo a una parte dei termini che formano l ' esten sione del soggetto
e ch'essi denominano giudizi dell' estensione. Noi non accogliamo codesta
classe di giudizi; perchè, sebbene sia vero che chi forma il giudizio ' ora ha
di mira la comprensione del sog getto ora l ' estensione, pure l ' una
relazione trae Da non confondersi cogli
indefiniti del Kant, che sa rebbero una classe nel rispetto della qualità. Vedi
sopra la Osservazione 3. 305 con sè l ' altra anche se non esplicitamente pen
sata. Altri, con Kant, a' giudizi universali e particolari aggiungono i
singolari, quelli cioè in cui il soggetto ha il minimum pos sibile di
estensione cioè è un individuo. Ma se que st' individuo è determinato, esso
costituisce tutta l'estensione del concetto (p. es. Giulio Cesare) e pertanto
il giudizio è universale; se é indetermi nato (p. es. un soldalo ), esso
rappresenta una parte dell'estensione e perciò il giudizio cade nella classe
dei particolari. I giudizi particolari possono ricevere ulteriori
determinazioni secondochè la parte che si prende dell'estensione del soggetto o
è più o men determinata o si lascia affatto indeterminata (Per es. molti A sono
B, pochissimi A sono B, la più parte degli A sono B, dodici A sono B, ovvero
semplicemente parte degli A sono B ). Ma per la logica queste specificazioni
hanno di regola poca importanza, salvo il caso che l'interesse del pen siero
cada appunto su esse, come p. es. nel numero de' voti d'un corpo deliberante.
Il giudizio particolare differisce d'assai quanto al suo valore secondochè
preso indeterminatamente o determinatamente. In fatti il giudizio: alcuni A
sono B, può significare o che almeno alcuni A sono B, o che soltanto al cuni A
sono B. Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli A sono B, nel
secondo senso il giudizio universale, tutti gli A sono B, è necessa riamente
falso. I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari in luto senso, i
secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo si distinguono
in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano (o negano)
l'inerenza del predicato al sog getto (g. categorici), oppure: la dipendenza
del pre dicato dal soggetto (g. ipotetici), o, finalmente, se al soggetto viene
come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri d'una
disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g. disgiuntivi). Osservazione Questa
classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu
nemente accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E
invero i giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle
altre due, ma piuttosto una sottospecie di quelle; difatti tanto il giudizio
categorico quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi (Il tipo del y.
categorico disgiuntivo è: A è o B o C, dell'ipotetico -disgiun tìvo: se A è B,
o C è D, o M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il
predicato si pensa come necessariamente pertinente al soggetto, e questi
chiamansi giudizi necessari o apoditlici; o sono tali che il predicato si pensa
come di fatto appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi giudizi
della realtà o as sertorii; o, in terzo luogo, sono tali che il predi 307 cato
si pensa come possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi
possibili o problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio.
Osservazione. – Veramente in questa classifi cazione della modalità si
confondono due rispetti differenti. I giudizi considerati obbiettivamente, sono
o necessari, o della realtà, o possibili; con siderati obbiettivamente sono
apodittici, assertori o problematici. Vale a dire che nel primo rispetto si
considera la necessità, la semplice realtà o la possibilità delle cose; nel
secondo rispetto si con sidera l'intensità della nostra affermazione. La dif
ferenza tra i due rispetti apparisce principalmente nella terza classe, in cui
il giudizio della possibi lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data
determinazione, benchè possa non averla (Per es. una casa può essere di nove
piani ), mentre il problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B?
). Tuttavia, affine di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella
logica si può prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i
giudizi si dividono: 1.º rispetto alla qualità, in affermativi e ne gativi; rispetto alla quantità, in universali e par
ticolari; rispetto alla relazione, in
categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e ipote tico
-disgiuntivi); 308 4.º rispetto alla modalità, in apodittici, asser torii e
problematici. Secondo alcuni logici poi la modalità nor non appartiene alla
forma logica del giudizio, ma alla sua materia. Alle distinzioni sopra
enumerate alcuni vogliono aggiunta anche questa in: a) giudizi narrativi, nei
quali il predicato esprime un fatto e suol essere rappresentato da un verbo; b
) descrittivi, nei quali il predicato è una pro prietà del soggetto e suole
grammaticalmente essere espresso da un aggettivo; c ) esplicativi, nei quali il
predicato è un con cetto più generale, per se stante, nella cui esten sione
viene collocato il soggetto e solitamente si esprime mediante un sostantivo
(Esempi di queste tre specie: Cesare fu ucciso in Senato, il gelsomino è
odoroso, il triangolo è una figura ). La qualità e quantità de' giudizi vengono
de. signate per brevità colle lettere a, e, i, o, secondo i versi mnemonici:
Asserit a negat e, sed universaliter ambo; Asserit i negat o, sed
particulariter ambo. Altri preferiscono i seguenti segni: a = 72 19 ta =
giudizio universale affermativo negativo particolare affermativo Pр negativo. P
79 72 309 Osservazione sul giudizio ipotetico. - Codesta forma di giudizio è
stata interpretata in quattro maniere, ciò sono: 1.º Come un giudizio, il cui
soggetto e predi cato sono il soggetto e il predicato del conseguente, ma la
copula è subordinata all' antecedente come a condizione. (Dato p. es. il
giudizio ipotetico: Se A é B, C è D, il soggetto sarebbe C, il predicato D, e
la copula (ė ) è posta sotto la condizione che A sia B ). 2.º Come un giudizio,
il cui soggetto è il con seguente e il predicato è il suo dipendere dall'an
tecedente. Ossia, dato il tipo precedente, del nesso (Cé D) si afferma ch'esso
dipende dal nesso (A é B). 3º. Come un giudizio, in cui l ' antecedente fa da
soggetto ed il conseguente equivale al predicato. Cioè del nesso (A è B) si
afferma che da esso di pende la realtà del nesso (CUD). Questa interpre
tazione, che è la preferita dalla scuola erbartiana, è comoda specialmente per
la trattazione dei sillo gismi. 4.° Come un giudizio, il cui soggetto è il nu
mero dei casi in cui si avvera l'antecedente, e di questo si afferma ch'esso
coincide o non coincide, in tutto o in parte, col numero de casi in cui si
avvera il conseguente, che costituisce il predicato. Secondo quest'ultinia
interpretazione il giudi zio ipotetico non esprime la dipendenza o condi
zionalità dell'un membro rispetto all'altro, ma sol tanto la loro connessione
di fatto ossia la coincidenza. Prendendo i giudizi ipotetici secondo una delle
tre prime interpretazioni, questi non possono esser mai particolari. Infatti,
posto un giudizio di questa forma: qualche volta, se A è, B'è che sarebbe la
forma del giudizio ipotetico particolare), non si po trebbe più dire che B
dipenda da A. Un'altra questione sorge a proposito del giu dizio ipotetico,
vale a dire quand' esso debba dirsi negativo. Secondo taluni il giudizio
ipotetico ne gativo è quello, col quale si nega che il conseguente dipenda
dall'antecedente. Ma hanno torto, o per lo meno questo modo di vedere sconvolge
tutta la teoria del giudizio. Noi diremo a miglior diritto essere negativo
quello, in cui è negativo il conse guente (p. es. se A è, B non è, oppure se A
è B, C non è D). Se fosse negativo l'antecedente e po sitivo il conseguente, il
giudizio sarà ancora affer mativo (p. es. se A non è B, C è D, è un giudizio
affermativo ). Quell' altra maniera di considerare il giudizio ipotetico
negativo (se A è, non ne segue che B sia, oppure se A è B, non ne segue che C
sia D ) sarebbe più presto una forma di giudizio ipotetico parallela a quella
dei giudizi categorici da noi chiamati disparanti. Relazioni logiche possibili
tra due giudizi considerati in rispetto alla loro qualità e quantità Perchè due
giudizi possano essere paragonati logicamente tra di loro, occorre che abbiano
la stessa materia, cioè che contengano i medesimi concetti. Ci sono relazioni
logiche an che tra due giudizi, che hanno la stessa materia solo in parte; per
es. tra questi A è Be A è C; oppure A è B, C è B. Ma queste speciali relazioni
qui non si considerano, come quelle di cui si dovrà trattare nella teoria del
sillogismo. Ciò posto, divideremo tutte le relazioni formali, che possono aver
luogo tra due giudizi contenenti gli stessi concetti e considerati in rispetto
alla loro qualità e quantità secondo lo schema seguente: Indicando con a la
medesima posizione dei concetti; con P la posizione inversa de' concetti; con y
la medesima qualità ne' due giudizi; con 8 la qualità contraria ne' due giudizi;
con et la medesima quantità ne' due giudizi; con Ġ la quantità differente ne'
due giudizi, avremo: 312 E aye relazione d'identità (A è B, A è B ). 12 Ś - ays
relazione di subalternazione (A è B, qualche A. è B, A non è B, qualche a non è
B); dove l'universale si chiama subalternante é il par ticolare subalternato. a
E ada relazione di contrarietà (se i giudizi sono uni versali ) (A è B, A non è
B; di subcontrarietà (se particolari ) qualche d è B, qualche A non è B ). 8 Ś
= ad relazione di contradditorietà (tutti yli A sono B, qualche A non è B;
oppure: nessun A è B, qualche A è B ). E = Byɛ relazione di conversione
semplice (A è B, B è A; qualche A è B, qualche B é A; A non è B, B non è A; qualche A non è B, qualche B non è A
). Ś = By5 relazione di conversione accidentale (A è B, qualche B é A; A non è
B, qualche B non è A). Bdɛ relazione di contrapposizione semplice (A è B, ciò
che non è B non è A; qualche A è B, qual che non - B non è A; A non è B, ciò
che non è Bè A; qualche A non è B, qualche non- Bè 4). d Ś = 386 relazione di
contrapposisione accidentale (A è B, qualche non - B non è A; Anon è B, qual
che non - B è A; qualchè A è B, ciò che non è B non è A; qualche A non è B, ciò
che non è B è A ) (1 ). (1 ) La conversione e la contrapposizione si chiamano
semplici, se i due giudizi, hanno la stessa quantità, cioè sono o ambedue
universali o ambedue particolari; si dicono acci dentali (per accidens) ove la
quantità sia differente, cioè l'uno sia universale e l'altro particolare. 313
contra vorietà Le relazioni 2a, 3a, e 4a, cioè tutte le relazioni formali
possibili tra due giudizi, data la stessa po sizione dei concetti (escludendo
la 1a, d'identità, che non è veramente relazione tra due giudizi, giac che i
giudizi identici non sono che un giudizio solo) furono dagli antichi
simboleggiate nel se guente diagramma: a contrarietà e subalternazione
subalternazione subcontrarietà Dove convien rammentarsi che a significa un
giudizio universale affermativo, e un g. universale negativo, i un g.
particolare affermativo, o un g. particolare negativo. Sarà un esercizio utile
pei principianti di trovare esempi concreti per ciascuna delle relazioni di
giudizi sopra indicate. Noi ce ne siamo astenuti per non ingrossare senza
necessità il volume. Il medesimo diciamo in riguardo ai capitoli seguenti che
trattano delle inferenze immediate e delle forme sillogi Delle inferenze
immediate a) specie prima (dipendente dalla qualità e quantità) Quando da un
giudizio dato se ne può rica vare un altro immediatamente, cioè senza uopo di
un terzo giudizio, ha luogo quella che dicesi infe renza immediata. Noi
distingueremo tre specie di tali inferenze: a) quelle che nascono dai rapporti
formali tra due giudizi, dipendenti dalla qualità e quantità loro; b) quelle
che procedono dalla relazione; c) quelle che dipendono dalla modalità. Noi
indicheremo qui sommariamente le infe renze della specie accennata sub a, le
quali dipen dono dai rapporti formali, che possono intercedere tra due giudizi,
svolti nel capitolo precedente, omet tendo quello d'identità. Dalla
subalternazione. Dal gudizio subal ternante si deduce legittimameute il
subalternato, ossia se il subalternante è vero, sarà vero anche il stiche. Noi
per brevità abbiamo dato il nudo schematismo;: l'insegnante potrà proporre o
far cercare agli alunni gli esempi opportuni a illustrarlo. 1 subalternato. (Se
è vero il giudizio: tutti gli A sono B, sarà vero anche il giudizio: alcuni A
sono B. Se è vero: nessun A è B, sarà vero anche che qual che A non è B ). Ma
dalla verità del subalternato non segue la verità del subalternante. I alla
falsità invece del subalternato segue la falsità del subalternante. Ma dalla
falsità del su balternante non segue la falsità del subalternato. Osservazione.
Questa legge della subalter nazione è valida soltanto ove il giudizio partico
lare sia preso in senso lato (cioè nel senso dell'al meno non in quello del
soltanto ). Se invece il giu dizio particolare si prenda in senso stretto,
dalla verità del subalternante segue la falsità del subal ternato e dalla
verità del subalternato segue la falsità del subalternante; ma dalla falsità
del su balternante nulla segue rispetto al subalternato. 2.° Dalla contrarietà.
Due giudizi contrari non possono essere amendue veri, ma possono bensì es sere
amendue falsi; ossia dalla verità dell'uno segue la falsità dell'altro, ma
dalla falsità d'nino nulla segue rispetto all'altro. 3. ° Dalla subcontrarietà.
Due giudizi subcon trari possono essere amendue veri, ma non amendue falsi.
Ossia dalla verità dell' uno nulla segue ri spetto all'altro; ma se l'uno è
falso, l'altro deb b' essere vero. Osservazione. Anche questa legge vale so
lamente prendendo i giudizi particolari in lato - 316 senso. Prendendoli in
senso stretto dalla verità del l'uno segue la verità anche dell'altro; ma dalla
falsità di uno d'essi nulla segue rispetto all'altro. 4. Dalla contradittorietà.
Due giudizi contra dittorii non possono essere nè amendue veri ne amendue
falsi. Quindi dalla verità dell' uno segue la falsità dell'altro, dalla falsità
dell'uno la verità dell' altro. 5.º. Dalla conversione. Un giudizio universale
affermativo può essere convertito solo accidental mente; l'universale negativo
può essere convertito e semplicemente e accidentalmente. Un giudizio par.
ticolare affermativo può essere convertito solo sem plicemente. Il particolare
negativo non ammette conversione. Osservazione. -- Anche qui si prende il
giudizio particolare in senso lato. Prendendolo in senso stretto, l'universale
negativo non può essere con vertito accidentalmente e il particolare
affermativo non si può convertire. 6.° Dalla contrapposizione. Il giudizio
univer sale affermativo può essere contrapposto semplice mente e
accidentalmente. L'universale negativo solo accidentalmente. Il particolare affermativo
non ammette contrapposizione; il particolare negativo può essere contrapposto
semplicemente. La dimostrazione di tutte le inferenze, così valide come
invalide, indicate in questo capitolo, è
assai facile, qualora si ricorra al paragone delle estensioni, nel che serve di
grande aiuto l'uso delle rappresentazioni simboliche. Pren dasi per es. la
relazione di contrarietà. Tutli gli A sono B, nessun A i B. Che non possano
essere amendue veri risulta intuitivamente dalla figura. Sia B vero il primo si
avrà; ora il contrario А non è compossibile col B. primo. Che poi possano
essere falsi entrambi lo mostra il caso, che i due concetti A e B siano in A
terferenti O; il qual caso esclude B tanto che tutti gli A siano B, come che A
А B nessun A sia B Però la O dimostrazione di tutte le leggi delle inferenze
immediate può essere un utile esercizio da farsi dagli alunni. b ) specie seconda (inferenze della
relazione) Diconsi inferenze della relazione quei giudizi che possono dedursi
da un altro con mutamento della relazione. Così da un giudizio categorico
affermativo si può dedurre un ipotetico affermativo e uno nega tivo. Infatti
dato il giudizio: A e B si ha diritto d'inferirne che: se A è, B é, ed anche
che, se B non è, A non é. La ragione è facile a intendersi; perchè se B é un
predicato di A, la realtà di A trarrà seco quella di B; e togliendo B, la cui
esten sione comprende quella di A, si toglie anche A. Dal giudizio categorico
disgiuntivo si possono dedurre parecchi ipotetici, che qui brevemente in
dicheremo. Sia dato il giudizio A é o M o N o P, ne segue: 1º. Se A è, Ô M o N
o P è. 2." Se A è M, esso non è nè N nè P. 3.° Se A non è M, esso è o N o
P. 4.° Se A non é nė M né N, esso é P. 5.° Se nè M nè N nè P è, A non é. . c )
specie terza (inferenze modali) Chiamasi inferenza o conseguenza modale la
deduzione d'un giudizio da un altro per mezzo di un cangiamento di modalità. Il
principio che giustifica tali inferenze è que sto, che affermando il più si
afferma implicitamente anche il meno e negando il meno si nega impli citamente
anche il più: ma non inversamente. Quindi dalla verità d'un giudizio apodittico
s' inferisce legittimamente la verità dell'assertorio e del problematico; ma
non in ordine inverso. Dalla falsità poi d'un giudizio problematico segue la
falsità dell'assertorio e tanto più dell'apo dittico; dalla falsità del
giudizio assertorio segue la falsità dell'apodittico; ma non viceversa. Le
leggi precedenti sono giustificate da ciò che la negazione d'un giudizio
problematico è un giudizio apodittico, mentre la ne gazione d'un apodittico, è
un giudizio problematico. Si avverta che il giudizio problematico negativo ha
la forma A può non esser Be non già questa: A non può esser B. Quest'ul timo è
un giudizio apodittico.Queste relazioni appariscono intuitivamente nella
tabella seguente. 1 2 3 dover essere essere poter essere 4 5 6 non dover essere
non essere non poter essere ! Dove si vede che le formole 4, 5, 6 sono le
formole 1, 2, 3 ' coll' aggiunta della negazione. Ora mentre il n. 1 è apodittico,
il n. 4 è problematico: mentre il n. 3 è problematico, il n. 6 ė apodittico.
Osservazione 3. -- Le formole 1, 2, 3, potreb bero essere anche negative; in
tal caso la tabella precedente si trasforma in quest'altra. 1 1 2 3 dover non
essere non essere poter non essere 4 6 non dover non essere non non - essere
che equivale a poter essere che equivale a non poter non essere che equivale a
essere dover essere Col confronto delle due tabelle è facile riscon trare le
formole che si equivalgono: così il n. 6 della prima tabella equivale al n. 1
della seconda; il n. 5 della prima è identico al n. 2 della seconda; il n. 4
della prima equivale al n. 3 della seconda. Gli equivalenti dei numeri 4, 5, 6,
della seconda tabella sono già stati indicati nella tabella stessa. Il giudizio
disgiuntivo falsamente da taluni fu considerato come composto; esso non è una
somma di giudizi, ma un giudizio unico indecomponibile. Giudizi veramente
composti sono: 1º. i copulativi, i quali possono essere: a ) copulativi nel
soggetto. Es. A, B, C sono M. b ) copulativi nel predicato. Es. A è M, N, P. c
) copulativi in ambedue i termini. Es. A, B, C, sono M, N, P. 2.° I remotivi.
Questi alla loro volta possono essere: a ) remotivi nel soggetto. Es. nè A, nè
B, né C À M. b ) remotivi nel predicato Es. A non è nè M, nè N, nè P. In quanto
ai giudizi complessi in forma attri butiva, logicamente considerati, sono
giudizi sem plici, perchè l'attributo non è che una nota sia del soggetto sia
del predicato. Essi o 1.º sono complessi nel soggetto; es. A (che è M) è N. o
2.º sono complessi nel predicato; es. A è un M (che è N); o 3.º sono complessi
in amendue i termini; es. A (che è B) è un M (che è N). 21 322 Il problema
generale che un sillogismo si pro pone di risolvere è: dati due giudizi
indipendenti tra di loro, i quali contengono un termine comune, ricavarne un
terzo eliminando il termine comune. Se noi paragoniamo la forma rigorosamente
sillogistica col processo reale del nostro pensiero, vedremo che di rado il
secondo combacia esatta mente colla prima. Le cause principali di questo fatto
sono le due infrascritte. Che I NOSTRI PENSIERI E I DISCORSI CON CUI LI
SIGNIFICHIAMO [alla H. P. Grice], anche
se indirizzati a dimostrare qualche tesi, di solito contengono più sillogismi
svariatissimamente intrecciati e allacciati insieme. 2.º Che molti giudizi,
benchè formino una parte essenziale de' nostri ragionamenti, sono sottintesi e
solo implicitamente pensati, ossia pensati senza averne piena coscienza. Ora la
logica, non può e non deve proporsi di seguire i meandri psicologici del
pensiero, sibbene di determinare le forme esatte, le quali debbono essere
almeno implicitamente osservate se il nostro ragionamento ha da essere
concludente. Contro il valore del sillogismo furono emesse, massime dai
moderni, varie obbiezioni. Qui si ac I 323 cennano brevemente le più speciose,
unendo a cia scuna una concisa risposta. Il sillogismo non produce verun au
mento di cognizione, perché la conclusione era già racchiusa nelle premesse.
Risposta Codesta obbiezione potrebbe tutt'al più esser valida se il pensare
umano fosse istan taneo e tutto abbracciasse con uno sguardo. Ma siccome è
discorsivo, quindi successivo, la combi nazione del soggetto col predicato della
conclusione ha mestieri d' essere esplicitamente pensata; il che è per 1
appunto ciò che si fa per mezzo del sillo gismo. 05. 2. - Il sillogismo è una
pura petizione di principio, perchè la verità della premessa mag giore dipende
dalla verità della conclusione, anzi chè questa da quella. Infatti non può
esser vero per es. che tutti gli uomini sono mortali, se già non sia vero che
Pietro, Paolo, Antonio ecc. sono mortali. Risposta. – Codesta obbiezione si
fondamenta sul falso concetto che un giudizio universale altro non sia che la
somma di tanti giudizi particolari. Ora ciò nella massima parte dei casi non è
nem meno possibile, come se per es. io dovessi aspettare a formulare il
giudizio: gli uomini sono mortali, d'aver prima verificato la morte in ciascun
uomo. È vero invece che le premesse universali parte ri sultano dall'analisi
del soggetto considerato nella sua comprensione, parte da nessi necessari tra
un 324 concetto e un altro, parte da legittime induzioni. In generale sono
indipendenti dai singoli giudizi particolari e il sillogismo applica a questi
la regola già riconosciuta nel generale. Il sillogismo potrà servire tutt'al
più a rischiarare o ad esporre sistematicamente ve rità già note, ma non mai a
scoprirne, perché la scoperta del nuovo si fonda su processi psicologici.
Risposta. Prima di tutto è da notarsi, che tra i processi psicologici, onde può
risultare la sco perta di nuove verità, ce ne sono anche di quelli che
coincidono col sillogismo. Ma quel che più importa si è che un processo psicologico,
in quanto tale, non ha alcun valore scientifico e quello che può avere è
giustificato soltanto dal processo logico che lo informa. Finalmente contro
tutte le predette obbiezioni e altre analoghe sta questa osservazione fondamen
tale, che le premesse d'un sillogismo contengono la ragione della conseguenza.
Certo se è vero che tutti gli uomini sono mortali e che Pietro è uomo, è già
vero che Pietro è mortale; ma questa pro posizione è vera appunto perché sono
vere le prime due e il valore del sillogismo consiste nel mostrare questa
dipendenza. Tutti i sillogismi semplici possono ripartirsi nelle cinque classi
seguenti: 1. ° categorici puri, e sono quelli in cui tanto le premesse come la
conclusione sono giudizi ca tegorici; 2.° categorico - ipotetici o ipotetici
spurii, nei quali si le due premesse come la conclusione sono giudizii
ipotetici; 3.0 ipotetico -categorici o ipotetici in senso pro prio, che sono
quelli la cui premessa maggiore è un giudizio ipotetico, la minore un giudizio
cate gorico e la conclusione ordinariamente non sempre) un giudizio categorico;
categorici disgiuntivi, nei quali la maggiore è un giudizio categorico
disgiuntivo, la minore un giudizio categorico semplice o anche.categorico di
sgiuntivo, la conclusione un giudizio categorico semplice o anche categorico -
disgiuntivo; 5.° ipotetici disgiuntivi, in cui la premessa mag giore è un
giudizio ipotetico disgiuntivo, la minore è un giudizio categorico semplice o
categorico di sgiuntivo, la conclusione un giudizio categorico semplice o
disgiuntivo. - 326 Osservazione 1. Alcuni considerano l'indu zione e l'analogia
come forme speciali d'argomen tare distinte dal sillogismo; ma noi vedremo a
suo luogo che non sono se non casi particolari di questo. Osservazione 2. – C'è
chi distingue prima di tutto i sillogismi in semplici e composti. Ma i così
detti sillogismi composti non sono che serie di sil logismi semplici, i quali
ricevono la loro unità dalla forma stilistico - grammaticale. Del sillogismo
categorico (puro) I due giudizi, da cui si cava il terzo, qui come in tutte le
forme di sillogismo, si chiamano pré messe; il terzo conclusione. I concetti o
termini, che esso contiene, non possono essere nè più né meno di tre, perché le
due premesse debbono avere un termine comune. S'intende da sè che i concetti o
termini del sillogismo possono essere significati verbalmente o con una parola
o con parecchie. Di questi tre concetti quello che è comune ad ambedue le
premesse e che dev'essere escluso dalla conclusione dicesi medio, gli altri due
diconsi - estremi; dei quali il soggetto della conclusione chiamasi minore, il
predicato della conclusione, maggiore. Delle due premesse l ' una si dice
maggiore e suol essere più generale, l'altra minore. Quella, nel sillogismo
ordinato, si enuncia per prima, que sta per seconda. Per altro la premessa
maggiore è distinta rigorosamente dalla minore solo nella fi gura prima, come
si vedrà a suo luogo. Il sillogismo può avere diverse figure (oxńuara) secondo
la posizione che occupa il termine medio. Se questo funge da soggetto nella
maggiore e da predicato nella minore si ha la figura prima. Se è predicato in
entrambe le premesse, si ha la figura seconda. Se è soggetto in tutte e due, si
ha la fi gura terza. Fnalmente se è predicato nella mag giore e soggetto nella
minore, avremo la quarta figura. Le tre prime furono scoperte da Aristotele; la
quarta è attribuita a Galeno. Eccone qui i tipi; dove si noti che con S si
indica il termine minore, con M il medio, con P il maggiore. MP PM MP Fig. 4.8
PM SM Ş M MS MS SP SP SP SP - 328 SM Osservazione. – L'ordine in cui vengono
enun ciate le premesse è indifferente rispetto al produrre la conclusione;
questo per altro è l'ordine normale. Ma rispetto alla figura 1.a alcuni, col
Leibniz, so stennero come più naturale l'ordine inverso come quello in cui
apparisce intuitivamente la con tinuità della subordinazione, conformemente al
tipo matematico (S < M < P ). Codesta continuità però è intuitiva anche
nell'ordine tradizionale, quando come appunto suol fare Aristotele,
nell'enunciare il giudizio si parte dal predicato (P compete ad M, M ad S).
Siccome poi le premesse possono variare di qualità e di quantità, cosi si hanno
tanti modi (τρόποι των σχημάτων) quante sono le combinazioni che due giudizi
possono presentare sotto questo rispetto. Queste in effetto sono sedici per
ciascuna figura a a e a ia оа a e e e ie ое (1) αι ei i i o ¿ α Ο e o io 00 e
pertanto sessantaquattro per tutte le figure. (1) Cioè amendue le premesse
universali affermative (a a), la maggiore universale affermativa e la minore
universale negativo (a e ), la maggiore universale affermativa e la minore
particolare (a i), ecc. 4 Ma dei 64 'modi possibili, ce n'è 41 che non danno
conclusione; sicchè i modi concludenti e quindi validi si riducono a 19 tra
tutte le figure; dei quali 4 appartengono alla figura prima, 4 alla seconda, 6
alla terza e 5 alla quarta. Essi sono enumerati nei seguenti versi barbari, che
con qual che leggera variante si trovano per la prima volta nelle Sunmulae
logicales di Petrus Hispanus, il quale fu poi papa Giovauni XXI. Barbara,
Celarent, primae, Darii, Ferioque; Cesare, Camestres, Festino, Baroco, secundae;
Tertia grande sonans recitat Darapti, Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo.
Ferison. Quartao Sunt Bamalip, Calemes, Dimatis, Fesapo, Fresinon. L'artifizio
di questi versi mnemonici (tante volte messi in ridicolo, eppure anche a '
giorni no stri reputati utilissimi, come sussidio alla memoria, da filosofi
insighi d'oltralpe) consiste in questo: che le vocali di ciascun vocabolo
denotante un modo indicano la qualità e quantità delle premesse e della
conclusione. Per es. i tre 4 di Barbara significano che nel 1.º modo della 1.a
figura sono universali afferma tive le due premesse e la conclusione; l'e, i,
o, di Festino significano che nel 3.º modo della 2. figura la maggiore è
universale negativa (e ), la minore particolare affermativa (ë ), la
conclusione particolare negativa (0), ecc. In quanto alla consonante iniziale,
questa nella figura prima esprime il numero d'ordine nel modo (B essendo la
prima consonante del l ' alfabeto, C la seconda, D la terza, F la quarta ); ma
nelle altre figure indica a qual modo della 1.8 figura quel dato modo venisse
ridotto nella logica aristotelico - scolastica per dimostrarne la validità.
(Per es. l'iniziale di Cesáre e Camestres nella fi gura 2.a e di Calemes ·
nella 4.&, indicano che tutti e tre questi modi si dimostrano con ridurli
al modo Celarent della 1.a figura ). Le altre consonanti, nella figura 1. sono
puramente eufoniche; ma nelle re stanti figure le lettere s, m, p, c,
significano l'ope razione logica, che si deve eseguire per dimostrare la
validità di quel dato modo riducendolo a un modo della figura 1. Così s
significa conversio Sim plex, p conversio Per accidens, m Metathesis prae
missarum, c ductio per Contradictoriam proposi tionern. Che se si chiedesse con
qual metodo e secondo quali criteri siansi trascelti fra i 6+ modi possibili i
19 dati come concludenti, si risponde che Aristo tele e in generale gli antichi
e gli scolastici si servirono a tal uopo d'un processo differente da quello che
preferiscono i moderni. Aristotele di mostra dapprima quali modi siano validi e
quali no nella figura 1.a; e ciò fa sia partendo da' prin cipi generali del
ragionamento, sia per via d'esempi. Per le altre figure procede in parte
riducendone i modi a quelli della figura 1.“, in parte per via di esempi, ossia
mostrando che, se si ammettesse la validità di certi modi, si avrebbero
conclusioni manifestamente false. Questo processo non è rigoro samente logico.
I moderni in generale procedono per via d'eli minazione, cioè scartano via via
tutti quei modi ne' quali dalle relazioni tra gli estremi e il medio contenute
nelle premesse non risulta determinata la relazione tra i due estremi. E ciò
fanno col con fronto delle estensioni, nel che ci si può giovare anche dei
simboli grafici. Contro questo metodo si può obbiettare che è meccanico e che
suppone che le premesse siano sempre giudizi di subassunzione e che il
predicato sia sempre un concetto sostantivo, mentre in realtà esso può rappresentare
anche un'attività, una pro prietà, uno stato del soggetto. A ciò si risponde
1.º che ogni giudizio, anche se narrativo o descrit tivo, contiene pur sempre
una subassunzione che per mezzo dello spostamento di categoria è sempre
possibile concepire il predicato sostanti vamente. Ora applicando il detto
processo d'eliminazione, si ripudiano 1.º i modi e e, eo, o e, oo in tutte o
quattro le figure. Con che si giustifica l'antica re gola: ex mere negativis
nihil sequitur. I rapporti tra le estensioni degli estremi e del Pietro ieri
passeggiava in giardino equivale alla subassunzione di Pietro sotto gli esseri
che ieri passeggiavano in giardino. Indichiamo con P il complesso di tutti
quelli che ieri passeggiavano in giardino e abbiamo Pietro e P. 332 medio si
possono simboleggiare come segue nella ipotesi e e, ossia che entrambi le
premesse siano universali negative. Mм P S M M S Dove si vede a colpo d'occhio,
che stando ferma la esclusione re ciproca tra M e Pe tra Se M, la relazione di
S con P può concepirsi in tutti i modi possi bili; il che val quanto dire che
niuna conclu. sione è legittima. Se poi una delle pre messe (come in eo e in o
e) od amendue (0 o) siano particolari, l ' in determinazione è anco ra
maggiore. Così sono scartati 16 modi. 2.° In guisa analoga si eliminano i modi
che hanno amendue le premesse particolari e ciò per tutte le figure. Donde la
regola: ex mere particu laribus nihil sequitur. I modi che per questa legge
vengono esclusi sono i i, io, oi, oltre ad oo, che fu già eliminato in forza
della legge precedente. Sono così espunti altri 12 modi. 3.° Si rifiutano
similmente per tutte le figure M M SP 333 io, quei modi che hanno una maggiore
particolare e insieme una minore negativa. Così si elimina i e in tutte le
figure (giacchè io, o e, 00 sono già stati eliminati) e così altri 4 modi sono
dimostrati in concludenti. 4.° In figura 1.a se la maggiore è particolare e del
pari se la minore è negativa, non si ha con clusione. Restano cosi esclusi per
la figura 1a, oa, o e, a o (essendochè gli altri modi che cadono sotto questa
legge sono già stati esclusi in virtù delle leggi precedenti ). Ecco dunque
eliminati altri 4 modi. 5.° In figura 2.a sono invalidi i modi, ne ' quali la
premessa maggiore è particolare e quelli in cui entrambi le premesse sono
affermative. Così, oltre a' già esclusi, sono eliminati dalla totalità dei 64
gli altri 4 modi i a, o a, a a, ai in fig. 2. * 6. ° In figura 3." sono
esclusi i modi, che hanno la minore negativa; quindi, oltre a' già esclusi, si
espungono a e, a o. Altri due della totalità. 7.° In figura 4. non sono
concludenti quei modi in cui sia contenuta una premessa particolare negativa.
Sicché, oltre a' già esclusi, vengono eli minati i modi o a e ao. Di più in
questa figura è invalido anche il modo che ha la maggiore univer sale
affermativa con una minore particolare affer mativa (a i). Eliminati così altri
tre modi, che coi precedenti sommano a 45, restano i 19 concludenti. 334 Con un
processo simile si dimostra la validità di questi (1 ). Dall'ispezione
comparativa di tutti i modi con cludenti si ricavano le infrascritte regole per
tutte le figure. 1.° Se amendue le premesse sono affermative, la conclusione
sarà pure affermativa. 2. ° Se una delle premesse è negativa, negativa è pure
la conclusione. 3.° Se ambe le premesse sono universali, la conclusione sarà
universale nelle figure prima e se conda e talvolta nella quarta; nella terza e
talvolta nella quarta particolare. 4. ° Se una delle premesse è particolare, è
par ticolare anche la conclusione. 5.° La figura prima ha conclusioni di tutte
le forme; la figura seconda solamente negative, la terza solamente particolari.
Le regole quassù esposte sono compendiate nel detto: conclusio sequitur pártern
debiliorem (dove s'intende che un giudizio negativo è più debole d'uno
affermativo, uno particolare più debole d'uno (1) Un 'esercizio che potrà
essere utilmente fatto dagli alunni, sarà di dimostrare quali siano i modi
concludenti e i modi non concludenti per ciascuna figura, sia col metodo di
raffrontare le estensioni dei termini, di cui s'è dato un esem pio rispetto a
quelli che hanno ambedue le premesse nega tive, sia col metodo aristotelico -
scolastico della riduzione alla figura prima. 335 universale ). Questa legge
poi vale non solamente per la qualità e quantità delle conclusioni, ma an che
per la loro modalità. Vero è che Aristotele in segna che con una premessa
apodittica e una as sertoria si può avere una conclusione apodittica. Ma ciò
non è rigorosamente vero, come già rico nobbero gli antichi. Del sillogismo per
sostituzione, se un dato concetto fa parte comecchessia (at tributivamente od
obbiettivamente) del soggetto o del predicato d' un giudizio, servendo a
determi narli, e se da un secondo giudizio risulta che quel concetto è
equipollente a un altro, questo potrà es sere sostituito a quello nel primo
giudizio. Così s'avrà un sillogismo che chiamasi di sostituzione. Eccone il
tipo. 1 2 Am è P A è Pm in S m S dunque As è P dunque A è Ps. Ma se il
giudizio, che funge da premessa mi nore non è un giudizio d'identità, sibbene
di sub assunzione, in quali casi sarà lecito sostituire nella premessa maggiore
il nuovo termine della minore? 336 Se il dato concetto fa parte del soggetto
della maggiore, potrà essere sostituito da qualunque con cetto che sia
subordinato al primo. Se in cambio esso fa parte del predicato, vi si potrà
sostituire qualunque concetto, che contenga il primo cioè che gli sia
logicamente superiore. Così: 3 4 Am é P s è m A è Pm m è s dunque As è P (1 )
dunque A è Ps Questa regola vale se il concetto dato entra nella maggiore sotto
forma positiva; che se v'entra negativamente, allora vale la regola inversa 5 6
A non mè P m és A è P non m s è m dunque A non s è P dunque A è P non s La
dimostrazione di queste leggi si trova fa cilmente col confronto delle
estensioni e potrà as segnarsi per esercizio agli scolari, come pure l'esco
gitare degli esempi concreti. (1) Si avverta esser facile a cadere in equivoco
riguardo a questa formola, qualora si ritenga che la conclusione af. fermi che
A è s, mentre afferma soltanto che se A è s, esso è P. 337 Noi daremo un
esempio del tipo N. 3. Lo studio delle lingue classiche giova a formare la
mente. Il latino è una lingua classica. Dunque: Lo studio del latino giova a
formare la mente. La logica aristotelico - scolastica ha trascurato questa
forma di sillogismo, che pure è quella di cui si fa uso più frequente. Dei
sillogismi ipotetici spurii o categorico- ipotetici Se entrambe le premesse
d’un sillogismo sono giudizi ipotetici, si avrà una conclusione del pari.
ipotetica e, quando s'adotti il sistema di risguar dare l'antecedente come
soggetto e il conseguente come predicato, anche la posizione dei termini sarà
identica a quella dei sillogismi categorici. Anzi, secondo alcuni trattatisti
di logica, si avranno esat tamente tutte le figure e i modi del sillogismo ca
tegorico. Figura 1. Figura 2.2 modo BARBARA modo CAMESTRES Se A è B, C è D Se E
è F, A è B Se A e B, C e D Se E è F, C non è D Se E è F, CD. Se E è F, A non è
B 22. · 338 Figura 3.2 Figura 4.a modo DARAPTI modo BAMALIP Se A e B, C D Se A
i B, E È F se A è B, C i D se c è D, E è F Talvolta, se E é F, C è D. Talvolta,
se E é F, A è B. E così dicasi degli altri modi delle varie figure. Senonchè
contro questa dottrina si solleva una gravissima difficoltà; poichè come
abbiamo veduto, un giudizio ipotetico, ove s'interpreti come espri mente la
dipendenza del conseguente dall'antece dente, non può esser mai particolare.
Resterebbero quindi escluse le figure 3.8 e 4.a e tutti i modi delle altre due,
in cui o nelle premesse o nella conclusione entri un giudizio particolare. Se
in cambio s'interpreti il giudizio ipotetico come semplice coincidenza
dell'antecedente col con seguente, tutte le figure e tutti i modi del sillo
gismo categorico si potranno applicare anche ai giudizi ipotetici. Perocchè in
tale ipotesi il giudizio ipotetico universale affermativo significa che la to
talità dei casi, in cui s'avvera l'antecedente, coin cide con una parte almeno
de' casi in cui s ' avvera il conseguente; e il giudizio ipotetico particolare
affermativo significa che una parte dei casi, in cui s'avvera l'antecedente,
coincide con una parte al meno de' casi, in cui s'avvera il conseguente. Ana
logamente dicasi dei negativi. Così p. es. nel modo Darapti in figura 3. recato
qui sopra, la maggiore significa che il numero totale dei casi, in cui A è B
coincide con una parte almeno dei casi, in cui C è D; la minore significa che
la totalità dei casi, in cui A e B.coincide anche con una parte almeno dei casi,
in cui E è F. Sicché è legittima la con clusione che una parte dei casi in cui
E é F coin cide con una parte almeno de' casi in cui C e D. Conclusione
espressa dal giudizio: Talvolta se E è F, C e D. Se pertanto al giudizio
ipotetico voglia man tenersi il suo significato tradizionale, di esprimere cioè
la dipendenza del conseguente, come condizio nato, dall'antecedente, come
condizione, questa teo ria deve essere rigettata. Siccome per altro anche la
semplice coincidenza o connessione è una rela zione, che effettivamente ha
luogo tra i fatti, è pur legittimo anche il sillogismo inteso in questo senso.
Solo a togliere gli equivoci, sarebbe neces sario farne una classe a parte e
designarlo con un nome particolare. E ciò basti per la presente que stione, che
il diffonderci di più sarebbe violare le proporzioni di questo trattatello
elementare. Dei sillogismi ipotetici propriamente detti ossia ipotetico-
categorici Sono questi quei sillogismi, di cui la maggiore è un giudizio ipotetico,
la minore è un giudizio 340 categorico che afferma l'antecedente o nega il con
seguente della maggiore e la conclusione è un giu dizio categorico il quale
afferma il conseguente o nega l'antecedente della maggiore. Sicché questo
sillogismo ha due modi fonda mentali, il modo ponente (ponendo ponens) e il
modo tollente (lollendo -tollens). 1 2 MODO PONENDO PONENS MODO TOLLENDO -
TOLLENS Se A e B, C è D A è B Se A è B, C e D C non è D Dunque CD Dunque \ non
i B Il modo ponente segue il tipo della prima fi gura del sillogismo
categorico, il tollente quello della figura seconda. La conclusione poi si
giusti fica col metodo della riduzione all'assurdo; perchè, supponendo falsa la
conclusione, ne segue esser falsa una delle premesse. Onde la regola: posta la
condizione, è posto il condizionato, ma non vice versa; tolto il condizionato,
è tolta la condizione, ma non vice versa. Che se nella premessa maggiore il
conseguente sia negativo, si hanno due modi po nendo tollentes.. 3 4 MODO
PONENDO TOLLENS MODO PONENDO TOLLENS Se A ¿ B, C non ¿ D A e B Se A è B, C non
¿ D Сер Dunque C non è D Dunque A non è B 341 Se l'antecedente è negativo e
affermativo il conseguente, si hanno due modi lollendo ponentes. 5 6 MODO
TOLLENDO PONENS MODO TOLLENDO PONENS Se A non è B, C è D A non è B Se A non è
B, C è D C non è D Dunque C è D Dunque A è B Finalmente, ove siano negativi
tanto l'antece dente quanto il conseguente, si avranno i due modi seguenti:
MODO TOLLENDO TOLLENS MODO PONENDO PONENS Se A non è B, C non è D A non è B Se
A non è B, C non è D C è D Dunque C non è D Dunque A è B Un caso particolare di
sillogismo ipotetico, che merita considerazione, sebbene per quanto a me consta
non sia stato mai trattato dai logici, è il seguente. Sia la premessa maggiore
un giudizio ipotetico copulativo nel soggetto, ossia tale che il condizio nato
dipenda da più condizioni riunite; se la mi nore afferma la realtà d'una o più
di tali condizioni, non però di tutte, la conclusione sarà un giudizio
ipotetico, nel quale il conseguente dipenderà da quella o quelle condizioni,
che non sono state poste nella premessa minore. Tipo 342 1 MODO PONENTE Se A è
B, C e D, ed E è F S è P A è B e C è D dunque Se E è F, S è P Ora siccome il
progresso scientifico consiste per gran parte nel trasformare i giudizi
ipotetici in categorici, è chiaro che questa forma d'argomen tazione non ha
piccola importanza, come quella che tende ad eliminare via via le ipotesi, da
cui dipende il conseguente e si accosta così sempre più allo scopo. Se poi la
premessa minore sia negativa, avremo un modo tollente, in cui la conclusione
affermerà la mancanza di tutte o d' alcune o almeno d' una delle condizioni.
Tipo 2 MODO TOLLENTE Se A è B, C è D é E è F S è P S non è P dunque o nè A è B,
nè C è D, né E é F o né A é B, né cé D o né A é B, né E é F oné C é D, né E é F
O A non é B o C non ¿ D O E non é F 343 Sillogismi disgiuntivi a) CATEGORICI Il
sillogismo categorico disgiuntivo ha per pre messa maggiore un giudizio
categorico disgiuntivo, per premessa minore un giudizio categorico sem
plicemente o categorico remotivo e per conclusione un giudizio categorico,
disgiuntivo o no secondo i casi. I tipi principali di questa maniera di
sillogismo possono ridursi ai quattro seguenti: 1 1 2 A è o BoCoD A é o Bo COD
F non è nè B nè C nè D dunque Fio Bo CoD dunque F non é A 3 4 Аёо восор A non è
nè B mè C A è o Bo COD A non è B dunque A è D dunque A è o COD b) IPOTETICI Il
sillogismo ipotetico disgiuntivo è quello che ha come premessa maggiore un
giudizio ipotetico 344 disgiuntivo. I principali suoi tipi sono i seguenti: 1 2
Se A ¢ B, o C é Do E é F A é B Se A e B, o C é Do E é F né Cé D, né E é F
dunque o C é Do E é F dunque A non é B 3 4 Se A e B, o C é Do E é F А ё Весё D
Se A é B, OC é Do E é F A é B e C non é D dunque E non é F dunque Eé F In tutte
poi le forme dei sillogismi disgiuntivi, se la minore nega tutti i membri
disgiunti della maggiore, la conclusione nega il soggetto (o l'an tecedente)
della maggiore. 1 2 A É O MONOP Né Mné N né P sono Se' A é B, o C é Do E é Fo G
é H C non é D, E non é F, G non é H dunque A non é dunque A non é B Forma che
dicesi dilemma, trilemma, quadri lemma, ecc. secondo il numero dei membri
disgiunti. L'induzione (erayoyń ) non è
se non un sillo gismo, nel quale in luogo del termine medio (M) è data la serie
completa o incompleta delle sue specie (u, u', u ', u ' ', ecc. ). Il suo tipo
pertanto è questo: M, u ', u '.... sono P My u ', u '.... sono S dunque S è P
Il quale è un sillogismo in figura 3.a, colla differenza che la conclusione è
(o tende ad essere) universale. Se la serie delle specie di Mè completa così
nell' una come nell'altra premessa, l'induzione di cesi completa o perfetta e,
potendosi la minore con vertire, equivale a un sillogismo in Barbara: (u, u ' u
'') sono P Séoul, ou ou" dunque S e P Ma se i concetti specifici, in cui
il medio ė risoluto, non esauriscono l'estensione di S, l'in duzione dicesi
imperfetta e, stando alle leggi formali, non può dare se non una conclusione
più o meno probabile. Infatti la conclusione attribuisce a tutta l'esten sione
del genere di S quella proprietà P, che se condo la premessa maggiore è riconosciuta
appar tenere a un certo numero delle specie di S. Perciò suol dirsi che, a
differenza del sillogismo propriamente detto, il quale conchiude dall'univer
sale al particolare, l'induzione dal particolare con chiude all ' universale.
Ma per grande che fosse il numero dei casi particolari u, u', u ', ecc. non si
avrebbe giammai il diritto d' estendere il carattere P ai rimanenti che con
quelli costituiscono tutta l'estensione di S, quando non s'avesse fondamento di
supporre che P competa ai primi non accidentalmente, sibbene in forza della
loro comune natura. Quindi la pro babilità della conclusione aumenta di molto
qualora My u ', U ", ecc., anzichè concetti specifici del genere S, siano
esemplari d'un'unica specie. In tal caso può bastare che la proprietà P si
scopra anche in un solo. Il principio fondamentale, su cui si appoggia
l'induzione, è la ferma nostra persuasione dell'uni formità e della costanza
delle leggi naturali. Que sto principio tuttavia non basterebbe a fondamen tare
l'induzione senza la supposizione sopra accen nata: perché ove non si supponga
che il carattere P appartenga a M, u', u ', ecc. appunto in forza d'una legge
di natura, non saremmo in diritto di attri buirlo ad S. Ma stando ad alcuni
empiricisti e positivisti moderni l'induzione è l'unica sorgente d'ogni no stra
cognizione; quindi anche il principio della uniformità e costanza della natura
non potrebb’es sere ottenuto se non per mezzo dell'induzione. Ora ciò è
contradittorio, e per fuggire questa contrad dizione si ricorse a uno spediente
poco migliore della stessa contraddizione. Si disse che le prime nostre
induzioni, non potendo appoggiarsi a un principio che non è ancora dato, si
sostengono pu ramente sul numero dei casi, che presentano la proprietà P; onde
furono dette induzioni per enu meralionem simplicem. Ma se la semplice
enumerazione basta per le prime induzioni, per quelle in particolare da cui poi
risulterà il principio dell'uniformità di natura, perché non dovrebbe bastare
per tutte, rendendo così inutile il detto principio? E se non basta per le
altre, come basterà per quelle? Se la nostra credenza nell ' uniformità e
costanza delle leggi di natura non ha fondamento logico, quindi è irragio
nevole, come potranno aver valore le induzioni fon date sopra di essa? Non si
esce da questo laberinto di contraddi zioni e di assurdi se non si riconosca
che l'uomo è particeps rationis, cioè possiede delle verità ori ginarie, le
quali poi cumunicano il loro valore an che a quelle che si acquistano
coll'esperienza, in quanto contengono la giustificazione dei processi
sperimentali e in particolare del processo induttivo. Con il nome di “analogia”
si suole designarsi un raziocinio, che va da un particolare ad un altro
particolare coordinato, ossia più specificatamente, un raziocinio, pel quale
date due cose aventi un certo numero di caratteri comuni, un nuovo carattere
che si co nosca appartenere all'una di esse viene attribuito anche all'altra.
Il suo tipo è questo A (che è m, n, q ) é P S é m, n, a dunque S é P
Paragonando questa formola col sillogismo pro priamente detto si vede ch'essa
risulta di due sil logismi, che sono: 1 2 A é m, n, 9 S é m, n, 9 A é P S é A (Dunque
S ė A?) Dunque $ é P È chiaro che il n. Í non autorizza a conchiu dere che Sè
A, essendo un sillogismo in figura 24 con le premesse amendue affermative.
Perchè la conclusione (S è A), la quale deve servire di pre messa minore al n.
2, sia legittima e certa, biso gnerebbe che la premessa maggiore del n. 1 fosse
319 convertibile semplicemente ciò, che è m, n, q, è A). Ora ciò di regola non
si avvera e perciò le con clusioni dell'analogia non possono essere se non più
o meno probabili a seconda che l'enumerazione dei caratteri m, n, q si accosta
più o meno al tipo: ciò che è m, n, q, è A, ossia secondo che essi ser vono più
o meno perfettamente a caratterizzare A. È restato celebre il raziocinio per
analogia, col quale Franklin nel novembre 1749 argomentò che il fulmine dovesse
essere attirato dalle punte me talliche. Esso risponde esattamente al tipo
proposto di sopra. L'elettricità (la quale è condotta dai metalli, dà una luce
d'un certo colore, ha un movimento velocissimo, ecc. ) è attirata dalle punte
metalliche. Il fulmine è condotto dai metalli, dà una luce di quel dato colore,
ha un movimento velocissimo, ecc. Dunque: il fulmine sarà attirato dalle punte
metalliche. Anche l'analogia, come l'induzione, si fonda menta sul principio
dell'uniformità delle leggi della natura e della costanza dei tipi naturali.
Vuolsi poi notare che se il fatto del riscon trarsi i medesimi caratteri m, n,
q in S ed in A non basta a provare che S sia specie e A genere o viceversa,
indicherà che almeno deve esserci tra loro una correlazione e una
corrispondenza; sicchè se non potremo a rigore attribuire ad $ il carat tere P,
potremo attribuirgliene uno analogo Pin modo che s'abbia la proporzione: 4: P =
S: P'. 350 E il carattere P' sarà il prodotto di ciò per cui A coincide con S e
di ciò per cui differiscono. Così in fatti ha considerato l'analogia il Dro
bisch. Il quale istituisce questo ragionamento: Po niamo che G sia un genere di
cui A e B siano specie. Dato che in A scoprasi una nota ", questa potrebbe
spettare ad A per una di queste tre ra gioni: 1.° Perché y sia un carattere del
genere G. In tal caso y competerà anche a B. 2. Perché y sia nota specifica di
4 (quella per cui esso si distingue da B). In questo caso y non si può
attribuire a B. 3.° Perché y sia il prodotto o la risultante della natura
generica di A (cioè di G) e della sua tura specifica. In tal caso a B si dovrà
attribuire non già y, ma una nota y ', che sia il prodotto della natura
generica che B ha comune con de delia sua peculiar natura speclfica. Questo
terzo caso sarebbe la propria e vera aualogia. Così un naturalista, che abbia
scoperto in una specie animale un dato carattere, p. e. un certo organo, non
attribuirà a un'altra specie con genere alla prima l'identico carattere (organo);
ma ben piuttosto uno analogo, cioè tale che raccolga, in sè la natura del
genere e risponda insieme alla particolar natura della seconda specie. na Della
prova o dimostrazione Chiamasi con questo nome un ragionamento, il quale si
propone non solamente di vedere quali conseguenze dipendano logicamente da certe
pre messe, ma bensì di dedurre da premesse vere la verità di una conclusione.
La verità da dimostrarsi dicesi tesi o anche teorema, le premesse si chia mano
argomenti. La prova è di due specie, di cui l'una è la diretta, l'altra l '
indirelti o apagogica. Diretta è quella che, partendo dalla verità delle
premesse, ne deduce per via sillogistica (sia poi qualunque la forma e il
concatenamento dei sillo gismi) la verità della tesi. Indiretta o apagogica
quella, che muove dal supporre falsa la tesi e da questa supposizione de duce
una proposizione assurda in sé o tale che stia in contraddizione con una verità
già riconosciuta. Dicesi anche riduzione all'impossibile o all'assurdo (ab
assurdis, duà tõv aduvátov). È una dimostrazione indiretta anche quella che, partendo
da una premessa disgiuntiva, esclude ad uno ad uno tutti i membri di questa
disgiun zione meno uno; di che resta provato solo valido essere quell' uno che
rimane. La dimostrazione diretta ha un pregio maggiore in quanto, non solamente
produce la certezza della verità della tesi, ma ne fa vedere anche la ragione.
Codesto pregio è massimo quando il fondamento logico, da cui la prova è
ricavata, coincide col fon damento reale della cosa (dimostrazione dalla causa.
L'indiretta in cambio ha il vantaggio d'essere, per dir così, più violentemente
necessitante; essa, in forza del principio di contraddizione, ci strappa
l'assenso, benchè noi non vediamo il perchè della cosa. La dimostrazione detta
ad hominem, non è una vera dimostrazione, ma piuttosto un artifizio della
discussione. Essa parte da un principio, non in quanto sia vero in sé, ma in
quanto è accettato e ritenuto vero dall'avversario, onde questi è forzato ad
accettare la tesi sotto pena di cadere in contraddizione con se stesso. Gli
errori da fuggirsi nella dimostrazione o 1.º risguardano il modo in cui la
conclusione fu dedotta dalle premesse; o 2.º risguardano le pre messe (gli
argomenti); o 3.º stanno nella conclu sione. Gli errori della prima specie
consistono nella violazione di qualghe legge logica, in particolare delle leggi
del sillogismo; e ad' evitarli, oltre la conoscenza pratica delle dette leggi,
conviene por mente sopratutto al valore logico delle espressioni. In quanto
agli errori della seconda classe, il principale è la falsità d'una o più delle
premesse. E siccome questo per lo più si nasconde nel modo in cui il medio è
connesso cogli estremi, così prende il nome di fallacia falsi medii. Nelle
dimostrazioni apagogiche è assai fre quente l'errore della disgiunzione
incompleta della premessa maggiore. Altro errore riguardante le premesse è la
pe tizione di principio, la quale ha luogo quando si assume come principio una
proposizione, che può anche esser vera, ma la cui verità dipende da quella
della tesi che si vuol dimostrare. Gli errori della 3.* specie consistono in
ciò che la proposizione effettivamente dimostrata non è quella che si suppone
d'aver dimostrato (éregosumnos ). Codesta differenza tra la conclusione
realmente ot tenuta col nostro ragionamento e la tesi da dimo strarsi puo
essere qualitativα (μετάβασις εις άλλο γένος) ovvero quantitativa (il provar
troppo o troppo poco). Nella disputa un vizio frequente è la consape vole o
inconsapevole ignoratio elenchi (ή του ελέγχου äyvora ); vale a dire il non
avvertire o non voler avvertire qual sia il punto in discussione. Un caso
particolare di quest'ultimo difetto della prova è lo scambiare la confutazione
d'una data dimostrazione con la confutazione della tesi. Per rispetto al provar
troppo o troppo poco notisi che si prova troppo poco quando la conclu sione
effettiva è un giudizio meno ampio ossia meno generale della tesi; quindi in
tal caso la prova è senza fallo insufficiente. Ma il provar troppo, se
veramente esatto, non nuoce al valore della prova, anzi fornirebbe una dimostrazione
a fortiori della tesi. Tuttavia accade generalmente che la proposizione, con
quella gene ralità con cui sarebbe dimostrata se la prova fosse realmente
corretta, è manifestamente falsa; di che risulta ch'essa è destituita di valore
anche per la tesi, che è più ristretta. Ogni dimostrazione poi suppone che le
pre messe siano certe. Ora questa certezza o è il resul tato di altre
dimostrazioni o converrà sia immediata. Quindi coloro che negano che ci sia
verun princi pio immediatamente certo, tolgono con ciò la pos sibilità di
qualsiasi dimostrazione e però d'ogni certezza. Il medesimo avviene anche per
chi non am mette Verità se non relative; perocchè anche la verità relativa,
perche si possa dimostrare, abbisogna di qualche principio che sia vero di
verità assoluta. Chi invece nega alcuni principii amnettendone altri, può
essere convinto per via di ragionamento; il che per lo più si ottiene mostrando
che il ne gare la certezza immediata di quelli ch'egli nega conduce per logica
necessità a negare anche quelli che ei riconosce per veri. Ma in genere si
tratta più ch' altro di dissi pare un'illusione. L'avversario crede di
ammettere soltanto questo o quel principio, ma poi ne' suoi ragionamenti
presuppone tacitamente la verità an che di quelli ch'egli professa di non
riconoscere. L'argomentazione allora deve essere rivolta a pro vargli che
implicitamente egli ammette anche que sti. (Cosi ad es. il famoso cogito ergo
sum di Car. tesio, che egli pretendeva essere l'ultima e unica åncora di
salvezza contro il dubbio universale, per aver valore e servire di base alle
deduzioni ch'egli ne trae, richiede la verità anche del principio di identità e
in genere de' principii logici). Delle
fonti da cui si ricavano le premesse dei nostri ragionamenti e in particolare
del me todo sperimentale. La logica non può avere per ufficio di enume rare
tutti i principii de' nostri ragionamenti; ogni scienza particolare si occupa
di quelli che la ri guardauo. Tuttavia ella può offrire delle norme generali
valide per qualunque ordine di ricerche. I principii in genere consistono in un
giudizio che può essere o analitico o sintetico. Un giudizio analitico è per sè
evidente ogni qualvolta il con cetto di cui si tratta (il soggetto del
giudizio) sia valido (il che importa 1.º che non contenga ele menti
contradittorii tra di loro; 2.0 che rappresenti una sintesi legittima di
elementi) e il predicato sia evidentemente contenuto nel soggetto. I giudizi
sintetici o sono a priori (e in questo caso essi debbono esser tali che il
negarli conduca alla negazione della ragione e dello stesso pensiero), ovvero
sono a posteriori (e in tal caso l'ultimo criterio è l'esperienza si interna
che esterna, si diretta che indiretta (storica] ). Per rispetto alle cognizioni
che provengono da quest'ultima fonte, cioè dall'esperienza, si vuol di
stinguere l'osservazione dall'esperimento propria mente detto. L'osservazione
non dipende da regole logiche o almeno quelle che vi si possono assegnare hanno
ben poca efficacia; essa dipende sopra tutto dalle attitudini naturali, che per
altro possono essere educate e guidate. Uno de' maggiori ostacoli, che si
oppongono alla buona osservazione è la facilità a vedere nelle cose più di
quello che realmente c'è, ossia le false integrazioni della percezione. Un
altro sta nel non distinguere le parti d'un tutto o, con tendenza con traria,
nel concentrare e isolare l'attenzione sulle parti in guisa da perdere di vista
il loro nesso ed il tutto (che è quello che il proverbio tedesco esprime
dicendo che gli alberi non lasciano vedere il bosco ). Nella grande complessità
dei fenomeni naturali, la massima difficoltà, che s'incontra per distinguere le
cause dagli effetti e a ciascun effetto assegnare la sua causa propria, nasce
il più delle volte dal l'impossibilità, in cui siamo, di osservare gli uni
separatamente dagli altri. A superare questo scoglio l'osservazione si giova,
sempre che lo possa, delle circostanze varie in cui un medesimo fatto si
presenta. Ma a questo fine serve sopratutto l'esperimento con produrre
artificialmente il fatto, che si vuol studiare, in circostanze differenti e
isolandone fin dove è possibile i vari elementi. E l'esperimento s' avvantaggia
sopra l'osservazione non solo col variare le circostanze del fatto, ma col
produrre per l'appunto quelle varietà che meglio servono all'uopo. (Si
confrontino p. es. le cognizioni intorno all'elettricità che si potrebbero
ottenere dalla semplice osservazione dei temporali, dei lampi, dei fulmini,
ecc., con quella che il fisico ricava dagli esperimenti istituiti
sistematicamente nel suo laboratorio ). Ma la via comoda e fruttuosa
dell'esperimento non ci è sempre aperta; moltissimi esperimenti per la natura
della cosa e per la limitazione dei nostri mezzi sono impossibili (come sarebbe
per es. il produrre una cometa artificiale, un uomo due teste, ecc. ); molti,
benchè possibili, sono ille citi, come quelli che lederebbero dei diritti e vio
lerebbero le leggi della morale (P. es. l'allevare un bambino in un ambiente
viziato, spaventare un uomo con una falsa notizia ecc. ). Il famoso esperi
mento di Psammetico, narrato da Erodoto nel 2.º libro delle Storie, sui due
fanciulli, cui non fu in segnato a parlare e che probabilmente è una favola,
sarebbe stato illecito. con 358 In generale se l'esperimento, quando è possi:
bile, è superiore all'osservazione nello scoprire gli effetti di date cause,
l'osservazione supera l'espe rimento nel determinare le cause di dati effetti.
Perocchè se d'un effetto, che la natura ci presenta noi ignoriamo la causa o le
cause, di dove potremmo muovere per produrlo artificialmente? Se per altro
l'osservazione ci mostra certi fatti preceduti sempre da certi antecedenti, si
avrà ra gione di congetturare che tra questi antecedenti ci sia la causa, che
cerchiamo. Allora interviene l'espe rimento e provando e riprovando scopre se e
quale sia la vera causa. L'investigazione sperimentale, a cui la scienza della
natura deve i meravigliosi progressi che ha fatto da due secoli in qua, si
giova massimamente di due metodi, che secondo lo Stuart Mill, sono i seguenti:
1. ° Paragonare tra loro differenti casi, in cui il fenomeno che si studia,
avviene. 2.° Paragonare i casi, in cui il fenomeno ay viene, con altri (simili
nel rimanente) in cui quello non avviene. Il primo chiamasi metodo della
concordanza, il secondo metodo della differenza. E qui si avverta che altra
cosa è se si cerca la causa, altra se si cerca l'effetto d'un fenomeno
qualsiasi, quantunque nella maggior parte dei casi queste due ricerche
procedano per la stessa via. 359 Ciò posto, le regole del primo metodo si rias
sumono in questa: Se due o più casi d'un dato fenomeno hanno comune una sola
circostanza, que sta circostanza, ch'è la sola in cui tutti i casi combinano,
conterrà la causa (oppure l'effetto) di quel fenomeno. Pel secondo metodo si
assegna la regola se guente: Se un caso, in cui il fenomeno da esami narsi s'
avvera, e un caso, in cui il medesimo non ha luogo, hanno comuni tutte le
circostanze ad ec cezione d'una sola e quest'una s' incontra solo nel primo
caso, questa circostanza, per la quale sol tanto i due casi differiscono, sarà
l'effetto o la causa o una parte necessaria della causa del feno meno.
Osservazione. -- Il metodo della concordanza serve specialmente ne' casi in cui
l'esperimento è impossibile; quello della differenza nei casi in cui è
possibile. Siccome poi s'incontrano spesso' de' casi, in cui nè l'uno nè
l'altro dei due metodi accennati, preso da sè, ci potrebbe condurre allo scopo,
cosi l'uno può integrarsi per mezzo dell'altro ricor rendo a un terzo metodo,
che è la riunione di que' due e che si formola in questa regola: Se due o più
casi in cui un dato fenomeno (A ) si avvera, hanno comune una sola circostanza
(a), mentre due o più casi, in cui quello non s'avvera, non hanno comune
l'assenza di verun altro fra gli antecedenti di A, tranne quella di a, questa
circostanza in cui le due serie di casi unicamente differiscono, sarà l'effetto
o la causa o una parte necessaria della causa del fenomeno Questo dicesi il
metodo della concordanza e della differenza riunite. Altri due metodi della
ricerca sperimentale sono: a) quello che dicesi dei residui, il cui canone può
essere così formulato: Se da un fenomeno si detragga quella parte, che in forza
di anteriori in duzioại si sa essere effetto di certi antecedenti, Mill, da cui
abbiamo preso la teoria sopra esposta dei metodi per la ricerca sperimentale,
ha formolato questo terzo canone in altro modo, cioè precisamente cosi: Se due
o più casi, in cui il fenomeno avviene, hanno sol tanto una circostanza comune,
mentre due o più casi, in cui quello non avviene nulla hanno di comune tranne
l'assenza di questa circostanza; la circostanza in cui solamente le due serie
di casi differiscono, è l'effetto o la causa o una parte indispensabile della
causa di quel fenomeno (A system of Logic 5. edit. London). Ora noi abbiamo già
osservato fino dal 1867 in una recensione della detta logica del Mill (Rivista
bolognese) che qui era corso un errore o ne abbiamo proposto la correzione
colla formola riportata nel testo. 6 Perocchè scrivevamo - più casi che differiscano
in tutto meno nella mancanza di una sola circostanza (a) sono nonch'altro
inescogitabili; le coincidenze puramente negative sono infinite. » E a
giustificare la mia formola io soggiungeva: « Supponiamo che si avverino i casi
A B C, A DE, A FG, le conseguenze dei quali siano per or dine abc, ad e, afg;
noi non siamo ancora in diritto di ri tenere A come l'antecedente costante di
a, potendo questo resto del fenomeno sarà l'effetto degli antecedenti che
sopravanzano. b) Il metodo delle variazioni concomitanti. Il suo canone è questo.
Se un fenomeno varia in qual siasi modo ogniqualvolta un altro fenomeno varia
in una certa particolar maniera, quello sarà una causa o un effetto di questo o
sarà connesso col medesimo per qualche vincolo causale. essere una volta
l'effetto di B, un'altra di D, una terza di F, ecc. Se ora siano dati i casi G
HL, MNO, ecc., che non sono seguiti dal fenomeno a, il coincidere essi nella
man. canza di A non prova nulla; ma ben maggiormente provereb bero i casi BCH,
DEL, FGM, perchè non avendo essi co mune l'assenza di nessuno tra gli
antecedenti di a, tranne quella di A, ne risulta che nè B, nè C, nè D, nė E, nè
F, nė G sono la causa di a, ossia che in tutti i casi osservati, in cui a ebbe
luogo, esso fu sempre dovuto ad A. Il Mill ha notato essere difficile applicare
il metodo della concordanza ai casi negativi, cioè ai casi in cui quel determinato
fenomeno non succedo, ma non avverti che è ancora più enorme per non dire
infinita la difficoltà di determinare la coincidenza nei caratteri negativi,
vale a dire d'aver comuni delle mancanze. Nella lezione precedente [v.
sommario] abbiamo ricercati i principii generatori della lingua italiana;
venendo ora a parlarvi dell’importanza che il medesimo ha rispetto al pensare,
noteremo prima di tutto su che falso terreno si pongono coloro, che vogliono
fare una separazione assoluta tra il pensiero e la parola [greco ‘parabola’,
cf. romano ‘per-ferenza], per esaminare poscia se questa riesca a quello di
aiuto ovvero d’impedimento. La quale disamina, qualora venga istituita in
questa maniera, conduce quasi inevitabilmente alla seconda soluzione, cioè a
considerare la lingua italiana come un impaccio e nulla più, come un traino
inutile e pesante che il pensiero e costretto a trascinarsi dietro e che ne
impedisce il libero volo. Noi faremo ragione un’altra volta di queste opinion.
Quello che qui vogliamo si avverta si è che la parola [parabola, transferenza] e
il pensiero sono talmente concresciuti e fusi nella vita dello spirito, che non
si può movere un passo nella storia di questo senza trovarli l’uno nell’ altro
inviluppati. Come non e concepibile la lingua italiana in un essere che fosse
destituito dell attivitta pensativa, così non possiamo dire che cosa sarebbe il
pensiero senza la lingua italiana. Nè si dica che i sordo-muli ce ne porgono un
esempio vivente, giacché prima di tutto ogni educazione di questi infelici e
solo possibile per mezzo d' un sistema di comunicazione arbitrario, convenzionale,
e artifiziale che viene sostituito a quello negato a loro dalla natura, e iu
secondo luogo anche quel poco disviluppo intellettuale, che essi possono
raggiungere senza una siffatta educazione, è evidenlemenle conneso colla lingua
italiana, via un sistema di comunicazione di gesti e di moti, che sebbene
imperfettismo in confronto della parola, pure ne tien loro le veci comechessia.
Affine di formarci un’idea dell’ importanza che ha la lingua italiana per lo
svolgimento spirituale dell’uomo, noi esamineremo i seguenti punti. Come la
lingua italiana cooperi alla formazione delle prime nozioni che noi
acquistiamo. Qual ufficio la lingua italiana adempia nel collegamento di queste
in sistemi di cognizioni. Qual parte abbia nelle produzioni dello spirito via
le implicature. Questo argomonlo lu Iraltalo in Ire lezioni, delle quali diamo
qui solo la seronda j rispetto alle allre due, vedi il Sommario in lino. Quanto
al punto della cooperazione basti richiamare quanto si è dotto allorché
esaminammo il processo psicologico, onde la singola intuizione sensitiva danno
origine ad una nozione generale. Una nozione generale risulta da moltissimo
intuizioni singolari fuse insieme o collegale in serie. Ma come avviene poi che
tanti elementi psichici formino una unità? Come avviene che l’anima nostra
componga a sò stessa di quella pluralità una sola rappresentazione? Sta
benissimo che rinforzandosi reciprocamente le parti identiche, mentre le parti
diverse per la loro opposizione si oscurano a vicenda, quelle predominino sopra
di queste in modo da comparire esse sole nella coscienza; ma che cosa è poi
finalmente che dà a quelle il valore di una unità? Che cosa ò ciò che le tiene
insieme stabilmente congiunte di modo che non solo compariscano sempre unite,
ma compariscano come una cosa sola? Evidentemente non è altro se non la parola
(greco: parabola). La parola (greco: parabola) forma il nocciolo stabile,
intorno a cui si aggruppano tutti i singoli caratteri, che presi insieme
costituiscono una nozione, essa è come l’apice d' una piramide o d’un cono, la
cui base ò formata da tutte le singole intuizioni ond’ò risultata l’idea
generale. In tal modo poi, se ben si avverta, è spiegata non solamente l’unità
della nozione, ma anche la sua universalità, che ne è il carattere essenziale.
Niuna intuizione sensibile infatti, niuna imagine della fantasia può mai
vestire questo carattere della universalità; sia pure che l’imagine stessa, non
contenendo se non quei caratteri che sono comuni a molle intuizioni e quindi a
molli oggetti, possa risguardarsi corno il tipo generico di questi; la ò questa
una relazione che non è contenuta nell’ imagine stessa, ò una relazione
aggiuntavi dal pensiero che la considera in rapporto a quelle intuizioni e a
quegli oggelli. Conviene pertanto che essa imagine ridivenga oggetto della
coscienza riflessa, e questo accade solo per mezzo della parola (Steinlhul.
Gram. Log. u. Psych.). Un’ intuizione si colleghi psicologicamente con un suono
vocale – il sistema fonologico della lingua italiana. Ora il ricomparire di quest’ultimo
nella coscienza trae seco il ricomparire anche di quella e cosi nel suono —
cioè nella parola (greco: parabola) — è di nuovo intuita l’intuizione, ossia
l’intuizione è divenuta alla sua volta oggetto d’un’altra intuizione –
l’imagine -- vale a dire è divenuta oggetto della coscienza riflessa. Per tal
guisa nella intuizione riflessa, ossia nella parola (greco: parabola), non
solamente una somma di intuizioni viene aggruppata in una unità, ma anche tutte
le unità simili (cioè tutte le somme di intuizioni, che sono intuite dalla coscienza
riflessa sotto una sola intuizione) vengono comprese nella unità d’una sola
specie. Così la nozione o parola della lingua italiana, “albero”, è una sola,
qualunque sia il numero degl’oggeti a cui può applicarsi, qualunque il numero
delle singole intuizioni di alberi reali o dipinti che noi possiamo avere avuto,
e in questa sua unità “albero” ha il potere di essere il “rappresentante”
(segnante) di tutti gli infiniti alberi possibili. Io debbo per altro farvi
avvertire una cosa, acciocché non abbiale ad attribuirmi dottrine che non sono
le mio. Io ho mostrato come il processo psicologico onde i diversi tratti
rappresentativi si unificano in una sola
rappresentazione complessa e la universalizzazione di questa sono strettamente
connessi colla parola “albero” (greco: parabola). Con ciò io non ho inteso
affermare clic le idee delle cose — prese in sò — altro non sieno che parole,
ossia che quella sia mera unità fìttizia tenute insieme dalla parola (greco:
parabola). No, io conosco le enormi conseguenze che si trarrebbe seco questa
teoria. Essa riuscirebbe nientemeno che alla negazione assoluta delle idee e
con ciò alla negazione dell' ordine morale, dell’ ordine logico e dell' ordine
estetico del mondo; alla negazione assoluta del vero, del bello, del bene e del
giusto. Vedete pertanto se in questa materia occorra camminare guardinghi e
come un passo falsi dato in una investigazione apparentemente secondaria puo
far precipitare noi sistemi più spaventevoli. Io dico pertanto: l’idea di una
cosa e in se quello che e, eterna, immutabile, assoluta, norma e archetipo del
tutto. Essa si trovano più o meno realizzate nella natura e nell' uomo, ma non
per questo esaurite o scemate d’efficacia. Noi sappiamo che essa vi e, perchè
vediamo il creato e ogni processo che si compiono in esso soggetto a certa
legge, perchè nell’ente organici sopratutto viamo una rispondenza di fini e di
mezzi, troviamo un ordine, una proporzione, un’armonia, una bellezza, che rivelano
evidentemente un disegno. Noi sappiamo che essa e assoluta ed eterna perchè il
nostro pensiero si rifiuta a pensarle distrutto o alterato, perchè noi
concepiamo che gli assiomi, che valgono per noi, non potrebbero non valere per
qualunque altro essere in qualunque altro mondo a qualsiasi enorme distanza ili
tempo. Ma noi sappiamo altresì che solo un piccolo numero di tali idee è accessibile
alla nostra mente, che difficilmente la pensiamo nella sua purezza e
integrita), che molte nostre concezioni, che noi crediamo di poter mettere nel
novero di quelle, non sono che informi aborti della nostra imaginazione. Noi
argomentiamo finalmente che una idea assoluta, archetipo, eterna non possono
esistere completamente che nel pensiero divino; giacché altrimenti dove esisterebbero
esse? Sarebbero forse anteriori alla mente che dee concepirle, come suona la paradossale
sentenza di Hegel? Esisterebbero da sè, in aria, aspettando che finalmente dopo
molte evoluzioni e ri-assorbimenti sorga dal loro seno un essere capace di
afferrarle col suo pensiero? Essa esistoe dunque. Na non e il patrimonio
ereditario dell’uomo. Questi dee faticare tutta la sua vita, anzi le intere
generazioni devono a poco a poco accumulare il fruito delle loro fatiche,
perchè l’uomo giunga al possesso d’ una parte di quelle. Ora in questo lavoro, l'uomo
è sostenuto e guidato per mano dalla parola. L’impressione sensibile e la
ri-produzione (coppia) di queste forniscono il materiale greggio, da cui lo
spirito colle strumento della lingua italiana distilla i suoi concetti: o
questi non sono addirittura e comunque generati l’equivalente di quelle, ma si
hanno il compilo di avvicinarvisi sempre più e noi abbiamo veduto, allorché
parlammo degli elementi a priori dell'intelligenza dell’uomo, come nella natura
stessa dell’ anima sia deposta la norma istintiva, la misura originaria. a
tenore della quale un prodotto dello spirito viene a mano a mano depurato e
condotto a quel punto in cui possono aver valore di assoluta verità. E tanta è
1’importanza della parola in questo procosso, che noi non sappiamo altrimenti
concepire nò anche il pensiero divino, che come una intima parola che il
pensiero divino dice a sè stesso. La parola è per noi il “rappresentante” della
cosa in sè, dell’intima natura d’ogni essere, appunto perchè i nostri pensieri
non possono sollevarsi a quei concetti universali, che rappresentano non più le
accidentalità della cosa, ma la loro stabile essenza, se non nella parola e per
mezzo della parola. Dove si vede la causa d' un fatto a prima giunta
inesplicabile, cioè di quelle credenze superstiziose, giù altre volte tanto
diffuse e comuni a quasi tutti i popoli, sulla potenza magica di certe parole.
Tornando ora al nostro argomento osserveremo un altro importantissimo ufficio
che fa la parola per il pensiero. Benché l’attività del pensiero puro sia in sè
altra cosa dalla rappresentazione sensibile è tuttavia per la nostra natura
impossibile o per lo meno estremamente difficile di pensare senza l’appoggio
d’un elemento sensibile (l’imagine – di un segno). Basta la più leggera
riflessione sopra di sè per convincersi come anche un concetto astrattio non
viene mai pensato da noi senza un qualche fantasma sensibile che ad essi si
accoppia, anzi che fa l’ufficio di darcene a dir così un “segnale” che li contraddistingua.
Così l’idea di minaccia suole accompagnarsi all’ imagine visiva – il gesto, il
moto -- d’un dito brandito in alto. L’idea di frazione a quella di due numeri o
lettere separati da una linea orizzontale. L’idea di morte a quella dell’oscurilt
e va dicendo. Questo fallo, che si spiega osservando il processo psichico che
ha luogo nel pensare un concetto astratto, mentre consistendo questi in una
moltitudine grandissima di singole rappresentazioni fuse e complicale insieme e
che non possono più ri-comparire ad una ad una o non lo possono che
successivamente, conviene che vi sia nella coscienza qualche elemento
chiaramente re-presentabile e congiunto con quelle, il quale porta con sè la
tendenza alla successiva evoluzione di quella massa. Questo fatto mostra ad un
tempo l’utilità della parola. La parola infatti è un’magine sensitiva –
uditiva, ma cf. segno per l’altri quattro sensi -- facilmente re-presentabile,
distinta da ogni altra e perciò acconcia mirabilmente a quello suopo. Per la sua
chiarezza e distinzione la parola (o espressione o segno patognomico) evita il
pericolo di ri-chiamare altre serie di rappresentazioni da quelle che si
vogliono, ossia altri concetti, mentre per la sua semplicità e vivezza è facile
a tenersi presente nella coscienza. In tal modo, assicurali che noi siamo che
ogni espressione è il re-presentante d’un dato complesso di idee, noi non
abbiamo più mestieri di affaticarci a richiamare questo e colla rapidità del
baleno percorrendo colla mente diversi espressioni, compiamo un processo
cogitativo complicatissimo, che altrimenti op primerebbe il nostro pensiero
colla sua spaventevole molliplicità. Un altro fallo psicologico che dimostra
l’intimo nesso del pen¬ siero colla parola, si è questo che noi non crediamo
mai aver piena cognizione d’ una cosa finché non ne sappiamo il nome, mentre
al1' opposto molte volte ci sembra di conoscerla, quando in realtà ne
conosciamo solo l’espressione (nominale,
il nome) e nulla più. Noi avremo esaminato un oggetto (o cosa) sotto
ogni aspetto, ce ne saremo fatti un’imagine completa, ma finché non sappiamo il
“nome” (l’espressione nominale, alpha) che ha nel sistema di comunicazione
della lingua italiana, esso ci sembra pur sempre avvolto in una certa oscurità.
Dato poi che ci venga appreso un tal “nome”, quell’ oscurità pare dilegui al
risonare di esso, e sembra che l’oggetto o la cosa acquisti allora
definitivamente il suo posto fra le cose esteriori, che diventi allora qualche
cosa di stabile e indipendente. Quante volte passeggiando pei campi ci
abbattiamo a considerare un fiorellino, che forse abbiamo già spesso veduto, ma
senza che mai l’imagine del fiorellino pigliasse nella nostra memoria un luogo
stabile e fisso. Dopo averlo guardato e riguardato noi stiamo per gettarlo e
così esso rimarrebbe anche questa volta un oggetto perduto per noi, quando l’amico
che ne accompagna, studioso coni’ è di botanica, ce ne insegna il “nome”; ed
ecco che questo fiorellino ha preso per noi una consistenza e individualità
nuova. Noi sappiamo oramai -- che cosa? Se alle nostre cognizioni non si è aggiunto
altro che un puro “nome”? Un puro “nome” sì. Ma questo nome è un testimonio che
quel fiorenillo è già noto all’uomo. Testimonio che ha ricevuto un posto
determinato nell’ordine degli esseri. Quel nome ci attesta che esiste pari a
quello una intera *specie*, che gl’uomini possiedono questo concetto come cosa
oramai stabilita e indubitabile. Tanta è la forza d’ un nome! L’osservazione
che facemmo or ora intorno ai servigi che ci presta la lingua per
re-presentarci un concetto astratto ci introduce ad altro punto che ci siamo
proposti di esaminare. Per essere la parola il re-presentante del concetto, noi
possiamo operare sulla parole o il segno patognomico quasi fossero esso
medesimo il concetto, e i risultati riescono esatti al pari di quelli che
ottiene l’ algebrista, il quale designando arbitrariamente, artificialmente,
colle lettere dell’alfabeto le quantità, su cui vuole istituire le sue
investigazioni, ne cava fuori dei risultati non meno rigorosi di quel che se
avesse operato sulle effettive quantità. Che immensa facilitazione sia questa
per i processi del pensiero non occorre ch’io mi fermi a osservarlo. Una frase,
un *periodo*, un breve discorso equivalgono a dei mondi intieri di idee con
tutti i loro rapporti reciproci ! idee e rapporti che, ove non fossero nella
coscienza re-presentali da un’espressione, richiederebbero un enorme sforzo
mentale e un tempo non breve per venire effettivamente pensati. Bastici
ricordare quello che a ciascuno di noi certamente sarà più volte intervenuto,
cioè la difficoltà che si prova per concepire un’idea chiara di qualche cosa,
non trovando un vocabolo appropriato che la significhi (che e segno). Non è
pertanto da disprezzare — come fanno leggermente ta¬ luni — la tendenza di
tutte le scienze a crearsi una determinata e minuta terminologia, mentre senza
di questa è impossibile la sveltezza e la libertà di moversi del pensiero. E sotto
questo rispetto mi sembrano ridicoli coloro che, per un concètto esagerato
della purità della lingua, vorrebbero tolto alle scienze il più potente loro
stromento, i vocaboli. Che altri si provi a scrivere di fisica o di fisiologia
o di chimica o di psicologia nella lingua dei trecentisti! Anzi tutto io sono
certo che egli avrà pensato prima ciò che scrive sotto altri termini e altre
forme linguistiche e poi si sforzerà di sostituirvi alla meglio quelli del
Cavalca e del Villani; e poi che lentezza, che strascico, che indeterminatezza,
che equivoci, che confusioni! Non c’è via di mezzo, (I) Lolze, Mikrokosmus)
pensare coinè <jaelli di cui volete copiare il linguaggio o servirvi d’
altro materiale linguistico. Certo ogni novità ha da essere giustificata da duo
ragioni, l’insufficienza del materiale preesistente e la novità del pensiero;
ove manchi l’una o l’altra di queste due condizioni, avremo o licenziosi
corrompitori della lingua o miseri ammantatori di idee vecchie solto spoglie
novelle. Per mezzo della lingua italiana il pensiero ricostruisce entro di sè
il mondo esterno, col suo ordinamento, le sue graduazioni e lo sue reciproche
attinenze; gli esseri stabili c permanenti si distaccano dalle accidentalità
mutabili e passeggere, le sostanze si distinguono dalle qualilà, gli
avvenimenti si distribuiscono nel tempo, gli citelli mostrano il loro
concatenamento colle cause, le azioni e le passioni si contrappongono agli enti
che agiscono o che patiscono, i correlativi si fronteggiano e va dicendo, e
tuttociò sotto l’influsso c per l’opera della parola. E che la cosa sia così
voi lo vedete nelle forme gramaticali della lingua italiana e anzi tutto nelle
cose dette parti del discorso. Mentre la lingua italiana comprende un concetto
sotto la forma di “nome sostantivo”, la lingua lo riconosce è lo caratterizza
come una cosa che sta da sè, che si appoggia a sè stessa c che è idonea a
servire di punto di partenza por una seconda, di oggetto ad una terza. Il
sostantivo è la forma natu¬ rale con cui la lingua riproduce la cosa e elio
però in origine essa impiega solamente a designare ciò che come oggetto stabile
e indi¬ pendente si presenta alla intuizione sensibile. Se essa ad un altro
concetto impronta la forma di aggettivo, con ciò lo denota corno cosa che non
islà da sè e che riceve esistenza, grandezza, forma, circoscrizione solu da un
altro concetto sostantivo, a cui è pur sempre costretto appoggiarsi: e le
qualità sensibili delle cose sono le prime che la lingua italiana comprende
sotto forma di “nome aggettivo”. A questi elementi la lingua italiana aggiunge
il terzo, che è il più indispensabile, cioè il “verbo” o la copula, aflìne d’esprimere
il passaggio, con cui l’avvenimento collega fra loro quello imagini immote (1).
Anche questa forma serve da principio solamente a denotare i cangiamento
sensibile, ma poi ben presto venne estesa anche ad esprimere la relazione
stabile della cosa, mentre il movimento interno del nostro pensiero che va
dall’una all’altra e per coi solo noi possiamo concepire la relazione, viene
riguardato come un movimento reciproco che abbia luogo fra le cose stesse
paragonale. Senza tener dietro allo svolgimento delle altre forme gramaticali —
ciò che è ufficio della “filosofia della lingua italiana” — osserviamo qui che
queste tre forme — nome sostantivo (alpha), nome aggettivo (beta), e verbo o
copula (“il alpha e beta”)— presentano il minimo di organizzazione e di
distribuzione nel contenuto del pensiero, senza di cui sarebbe a questo
impossibile di intraprendere le sue operazioni. Nè è da opporre a queste considerazioni
che parecchie lingue non distinguono le parti del discorso con particolari *modificazioni*
di suono (amare, amante, amato, l’amante ama l’amato, l’amato e amato
dall’amante); perocché non è necessario che ogni forma del pensiero abbia il
suo corrispondente nella forma del suono, basta bene che questo sia pensato con
quella relazione (l) 111. ibiil. 9 Cogitativa. So un “idioma” non possiede, a
cagione di esempio, alcun distintivo esteriore per caratterizzare il nome sostantivo,
però la sua parola, sintatticamente informe, nell’anima di chi parla (il
mittente), per il pensiero concomitante dello stare da sè, è trasformata in
nome sostantivo. Ma se v’hanno alcune lingue che difettano dei mezzi per
rendere esternamente sensibile il concatenamento dei pensieri, le più di esse
invece inclinano all'altro estremo, producendo da sè una quantità di forme
gramaticali e sintattiche che evidentemente soverchiano il bisogno logico del
pensiero (1). E questo sia il luogo di richiamare una verità non mai abbastanza
ripetuta, cioè che la forma della lingua italiana è in sè diversa dalla “forma
logica”. La “forma logica” non conosce altri rapporti che quello di universale
e particolare, di subordinazione, coordinazione, inclusione ed esclusione,
posizione e negazione, mentre le forme linguistiche oltre di queste relazioni
ne esprimono infinite altre che si attengono vuoi alla natura delle cose, vuoi
alla maniera con cui queste fanno impressione sulla nostra sensibilità. La qual
ultima attinenza essendo suscettiva di infinite e finissime gradazioni ha dato
origine a tutte quelle delicate e svariatissime tinte (o implicature) della
lingua italiana?, di cui non possiamo farci un’ idea se non collo studio dei
filosofi più perfetti. In particolare la antica lingua latina usata dai romani
ha sotto questo rispetto dispiegalo un lusso e una ricchezza di forme, che il pensiero
italianao più arido e severo ha abbandonato come superflue. Basti ricordare le
ricchissime flessioni del verbo. Aggiungiamo a queste considerazioni l’immenso
vantaggio che l’antica lingua latina usati dai antichi romani all'individuo in
grazia del tesoro di pensieri che nella antica lingua latina già si
improntarono e che egli riceve come in eredità dalle generazioni precedenti col
solo apprendere la lingua latina. Quante intuizioni, quanti giudizi, quante
riflessioni, quanti confronti e raziocinii di infiniti uomini romani si sono a
dir così depositati nella lingua di un po¬polo! e il bambino che viene alla luce
nuovo a tutlociò che lo circonda, col solo apprendere la lingua italiana si
risparmia una fatica che supererebbe enormemente le forze del genio più
potente. Venendo da ultimo a considerare l'influenza che la lingua esercita
sulle produzioni dello spirito in generale e in particolare sulle creazioni
letterarie e poetiche, dobbiamo prima di lutto avvertire che la lingua italiana
non è già solamente una veste esteriore del pensiero, alla quale sia
indifferente di sostituire qualsiasi altro segno, ma sibbene la forma stessa in
cui il pensiero è fuso e concresciuto: che a volergliela strappare per aver
nudo il contenuto, gli'è come se si volesse togliere a una foglia o ad un fiore
la sua forma lasciandone intatta la sostanza. Noi avremmo in tal caso un dato
miscuglio chimico di materie, ma non più una foglia nè un fiore. Ma quello che
più imporla, considerando la lingua italiana sotto l’aspetto letterario, si è
che qualsiasi concetto può venir pensalo in varie maniere, in diverse
attinenze, con una maggiore o minor ricchezza di (1) Irt. iblei. 2 10
contenuto, con un accompagnamento più o meno ricco di fantasie e di sentimenti.
Conviene qui distinguere il valore del concetto strettamente logico od
obbiettivo che dir si voglia dal valore psicologico o subiettivo. Il primo deve
essere eguale per tulli e in tutte le circostanze, a menochè l'idea di cui si
tratta non sia addirittura falsata — il che equivarrebbe a dire che in vece di
un' idea se n' ha un- altra. Il secondo invece varia a seconda della persona (mittente)
che lo pensa, del lernpo, delle circostanze, dell' unione con altri e va
dicendo. Chi dice per esempio “la primavera”, certo intenderà quella data
porzione dell'anno che è determinata dal calendario. Ma questo non è che il
valore assoluto obbiettivo di tal concetto; quanti diversi aspetti non vestirà
esso invece nella mente delle varie persone che lo pensano! Per uno è la stagione
dei fiori, delle aure miti e feconde, del ringiovanimento delia natura, per
altri è il ritorno delle giornate del lavoro, delle opere campestri, pel
pastore è 1’epoca di ricondurre le gregge su pe’monli, per la giovinetta la
stagione della gioia e dell' amore e va dicendo che non finiremmo sì presto. E
basti questo esempio per mille che potremmo addurre a conferma delle nostre
parole. Ora la lingua italiana non si limita a denotare quel concetto astratto
e nudo, ma per lo più lo colora in una data guisa, lo lumeggia a suo modo, ne
mette in risalto un aspetto, ne accenna una profondità, ne tratteggia un
attinenza con altri, gli dà uno sfondo particolare, una positura determinala.
Tultociò senza dubbio la parola lo ottiene per mezzo diquella che chiamammo
forma interna e che è contenuta nell' etimologia dell’espresione; ed è per questo
altrettanto vero che scomparendo l’etimologia od origine, come si è dello,
dalla coscienza del mittente e del recipiente col procedere della coltura, la
lingua italiana dei moderni non presenta a gran pezza quella vivacità di
colorito, quella vita che sembra un eco ili quella elio si agita nel seno delle
cose stesse, quella freschezza d'imagini, che sono proprietà delle lingue e dei
popoli primitivi. Ma è pur vero che in sostiluzione di quella forma interna,
perdutasi insieme colla etimologia del vocabolo, nei tempi storici ognuno che
parla se ne vien formando un’altra, spesso indipendente dalla perentela
gramaticnle di quello e dalla sua primitiva derivazione. Chi dicendo per
esempio “cannone” pensa, come porterebbe la etimologia a noi pur vicinissima
del vocabolo, ad una grossa “canna”? 0 non si è egli piuttosto formata un’altra
forma interna, dovuto forse all'analogia tra il suono di questa parola e il
rimbombo solenne, e cupo dello sparo? lo forza di questa il cannone non è più
per noi la grossa canna, ma sibbene quello che tuona e rimbomba; ragione per
cui questo vocabolo da qual che poeta moderno si è potuto introdurre nel verso,
a malgrado della eccessiva schiiìltosilà della poesia italiana. Giù posto è
facile argomentarne con quanta forza debba la parola influire sul nostro
pensiero; posciachè a tenore delle speciali rappresentazioni e de’sentimenti
che ogni I) Questo concetto messo in luce specialmente dallo Sleinlhal. Qui
basii notare che la forma interna è l’anello intermedio che congiunge il
significato (il segnato) della parola (l’espressione) colla forma eslerna di
questa cioè col suono. Il vocabolo e ogni giro di frase e ogni costruito porla
seco nella coscienza, anche le ideo, che formano per così dire lo scheletro d’
un dato pensiero, rivestonsi di polpe e di vene, e indossano ora un manto
sfarzoso e sfolgorante, ora una lugubre gramaglie, ora sprizzano vivaci e
saltellanti come la gragnola sui tetti, ora fluiscono tranquille e compatte
come l’onda d’un ruscello. Ben si accorgono di questa verità coloro che si
provano a voltare un poeta d'ima in altra lingua; chè mentre la lettura di un
passo dell’originale li esalta e li rapisce, quel medesimo passo reso colla
massima proprietà e purezza nell’altro idioma non appare che un pensiero
dozzinale e senza effetto. E certi poeti non Sono mai propriamente gustati fuori
della propria nazione italiana! Ecco eziandio perchè la poesia nei tempi di
progredito incivilimento è costretta ad abbandonare una gran parte del comune
materiale linguistico, come quello che si è logorato ed è divenuto senza
effetto in grazia dell' uso cotidiano nelle bisogne triviali e prosaiche della
vita, per attenersi a quella parte che è ancora fresca di giovinezza e che
porla seco nell’animo del recipient quelle tinte fantastiche, quelle speciali
rappresentazioni e quei sentimenti, che debbono contribuire all'effello della
comuniccazione. Nè però è solamente l'uno o l’altro vocabolo che sia capace di questa
efficacia; la medesima voce riceve dal contesto, cioè dall’insieme di quelle
idee a cui è associata, un valore tutt’affatto particolare; e mentre in un caso
non desta in noi che un concetto astratto, in un altro eccita un’ imagine
triviale e bassa, in un terzo è capace di vestire la più splendida corona di
superbe fantasie. Prendiamo ad esempio l’espressione “ala”. Chi dicesse; la
lunghezza dell’ala deve avere la tale o tal’altra proporzione col peso del volatile,
non mi desta che il concetto astratto di quella parte del corpo del Uccello che
serve al volo; è un concetto scientifico. Se altri invece dica: “Ami meglio
l'ala, la coscia o il petto?” risveglierà nel recipient delle irnagini
gastronomiche eia rappresentazione per esem pio d’ un cappone arrostilo.
Allorché invece Ogo Foscolo canta di chi vede il suo spirito ricovrarsi sotto
le grandi ale Del perdono di Dio (metafora). Foscolo è forse l’estremità
anteriore del volatile, o la gustosa polpa del cappone che si muovono nella
nostra fantasia? o non piuttosto qualche cosa di indefinito e misterioso che si
stende sul creato come un gran manto e tutto lo copre e lo avvolge? L'oggetto
non è per noi se non ciò, per cui lo percepiamo, e siccome la parola, come si è
veduto, è l'organo della percezione, così ogni cosa è per noi quello che la
parola ce ne annunzia. Or chi non vede come tutte le produzioni dello spirito
saranno intimamente legate alla natura della lingua italiana e non solo della
lingua in generale. ma sì particolarmente della lingua italiana in cui si
pensa. Se poi lo scopo della composizione non sarà unicamente di trasmettere un
certo numero d'idee insieme colle loro attinenze, ma più di tutto di commovere
gli animi, di suscitare gli affetti, mettere in gioco la fantasia — ciò a cui
mirano appunto i prodotti della letteratura, nessun dubbio che la lingua italiana
sarà l’elemento predominante. E come essa guida per mano il poeta e gli conduce
innanzi questa o quell’altra imagine, questa o quell'altra serie di pensieri e
di fantasie, così alla sua volta il poeta per guidare e signoreggiare gli
uditori dovrà essere padrone di tutti i segreti, di tutti gli espedienti della
lingua italiana. La storia 'della letteratura lo conferma. Sommario di
tutto il corso: il segno patognomico. Dfferenti opinioni intorno al concetto
della filosofia. Se la Filosofìa sia una scienza, ovvero una speciale tendenza
del pensiero, un bisogno dello spirilo umano sempre linascente e non inai
appagabile. La Filosofia è una scienza in formazione. Oggetto della filosofia. La
filosofia è la scienza della verità assoluta, degli ultimi fondamenti del
tutto. Quindi essa investiga i principii su cui si fondano la altre scienze ed
è la scienza suprema (la regina delle scienze). Dottrina della cognizione. I problemi
fondamentali di questa. Lo scetticismo. Il criticism. L’idealismo. La dottrina
della cognizione vuol essere preceduta dalla psicologia. La Psicologia è una
parte della filosofia propriamente detta? Pensar volgare, pensar scientifico,
pensar filosofico. Esperienza e cognizione assoluta e loro rapport. La Psicologia
abbraccia questi due ordini di cognizioni. Partizione di essa, materia, metodo,
fonti, difficoltà, scopo e importanza. Se quesla parie della psicologia sia
indipendente dalla questione intorno all’ esistenza dell’ anima. Si ammette qui
l’esistenza dell' anima come un’ipolesi, senza però che una tale supposizione
influisca sullo sludio dei fenomeni spirituali. Primi passi della (I) /. pubblicata a parte. r,o r.rj.a, *?1
Complessili dei fenomeni psichici _ Zu T lrasf0rmazione d«' corpo,
coscienza classilìcazione provvisoria
dei fenomeni psicWci “na "Ua SUCC0ssione ~ Sirss- descriz!°ne re-presentazione,
percezione, fattori dell’intuizione ali
sensazione» intuizione, re-ppresentazione co!,.plesso ed elementideHe med»
me"-~a~e. 77 1 intuizione lolale e per cui gli elementi ranni-esenti,ivi
si S P.. Sl spezza in piu in cui questi clementi si compongono è un nun-1
ele,nen?n ° ~ la fo,ml.’ ficazione della sensazione. Sentimento fondamentale di
Rosmini**'-"duncoHà°d' s ClaSSI' ‘ 'golosamente l’elemento re-presentativo
dal sentimento „ fi. dira?011,1 d' separare distingue la materia dalia forma da
che sia data " una 7v aZ m ^ grandezza, "forma' c solidità
d;i°cro%i0in%S „"rson7Mi pel Ziio~ *?".,,ÌT0 aMa vtne„ùr?c,'ia s
s^no1: “-JM materia - suoni o romori - scala musicalo - seHIkinn^ r’ ‘ncdl° f,
p,ocesso ~ ^5?*“ SSS - materia - manca ogni dislinzione di parti - se si «a una
mCd'° ° P''?Cesso ^assu riarr.. ~.%sa sar* delle sensazioni. ’g CSl6"C' “
r,gorosa '"dividualità c incoi,,unicabililà mSmSVSfiS, iÌ^SSSS£ --—1
itipioduzione meccanismo doli’anima si» i« „... o scsi debba ammettere un
principio suneriore (r/i U f p,,n.c,p,° atl,vo in essa della dottrina di Ile,
hai ! (la re-presentazione consi. ef /lé”'"' 0 J r~ prinClp"
fondamentali ra,nonio reciproco residn eauiE 1 T,, '?omc fori!c ~ contrasto,
oscue soglia meccanica - con,piloni c fusioni l°1'0i„ ed8S,!ne ~ coscienza,
soglia statica incrocicchia,ncnto delle serie ed elTetli del medesimo -nSdTmnn,
T •*“ “ percezione - appercezione interna) Il sentir.» o t> r • f,1?
f1alazl0;M - eli¬ porti di re-presentazione appetire ciotti da llerbart a rap¬
ai. stabile a^ufslo ta *« - «ebba
ritenere codella re-presentazione c al gradualo oscuramento deMc^s
etsc"6'''^-!0 '"‘-T al!anforza produzione, memoria e imaginazione. 1
0 “ ggl clnP*ricl,e della ricirca^la'realtà"^^*tiiva*dello*spazio c *«7
Zr't'T Si**".-* «- - « -TS5S *r-s.%SS Intelligenza caratteri che la
distinguono dalla sprmihititò, • cartesiana, maiebranchiana (e giobe,-liana,
egeliana e rosa,intana) P'egaZ,°"e plat0nica’ Il giudizio come allo
foridamcnlale del pensiero sli.iii •,,
luizione, riconoscimento, classiflcazione giudizio logico ! - „iT ' da,- T
T"0 (informazione del concetto generic. Il giudizio implicito ed il
giudizio esplicito. falli senza consapevolezza di una o d’ambedue le raziocinii tasr*. - - « « » ~Wssutnsr--^.^.«•
•,» mm* pili le idee innule se una tale ipolesi sia aminrsihile i> •'
pi'e"d?ssero Pel' lo risolvere queslo problema - lendcnze innata de,
pensiero os^g^I“nT'in! r.i consapevolmente nelle sue operazioni e che poi la
riflessione discopre sceverandole dalla materia accidentale e riconoscendone la
necessilà ed il valore assoluto. Il pensiero e la lingua italiaa. Importanza
dei problemi che si riferiscono alla lingua italiana. S’elimina il problema
circa l’origine storica della lingua italiana. La disposizione fisiologica e
psichica che concorrano alla produzione di un sistema di comunicazione – un
sistema – il segno patognomico – della lingua italiana. Ripercussione dalla
sensazione al movimento. L’associazione del movimento fra loro e colla sensazione.
Come l’anima si scarichi della sua “affezione” (pathos) per via del movimento.
Il segno articolato. onomatonee. Come un segno (segnante, signans) acquisti un
significalo (segnato, signatum), ossia diventi parola [parabola] espressione o
segno patognomico. Il periodo o la fase patognomico – il segno patognomico. Il
periodo patognomico. La fase patognomica. Periodo patognomico, onomatoeico e
caratteristico-- nella formazione o
costituzione della comunicazione -- di un sistema di comunicazione -- linguaggio
— Signo patognomonico. Periodo patognomonico. Il processo linguistico nei tempi
storici che cosa s’ intenda per forma interna della lingua. Come la lingua
italiana coopera alla formazione della nozione generale. L’dea eterna e i
concetti umani lorza dei non»
ordinamento sistematico delle nostre idee per mezzo della parola influenza della lingua sui prodotli
letterarii la lingua non è solamente I’
espressione del pensiero — spiritualizzazione progressiva del linguaggio - la
lingua è uno dei prin¬ cipali elementi che costituiscono le nazioni danni che a dello di alcuni la lingua arreca
al pensiero dilesa della lingua — organismo indipendcnle di questa. La
mitologia considerata nella sua origine psicologica. L’nfanzia dell’ umanità. Come
si possa scoprire il processo psicologico che dà origine alla mitologia (tre
cose ser¬ vono a questo fine: I. la cognizione generalo delle leggi psichiche.
Lo studio della mitologla comparata, o la mitologia dei bambini e le
superstizioni popolari. Che cosa sia la Mitologia - fasi per cui passa -
rapporti tra la biologia e la morale - due opposte opinioni (tei pensatori
intorno all’ origine della mitologia. Della coscienza di sà - distinzione di
questa dalla coscienza dei propri stali. Se si possa ammettere un senso interno
stadii che il pensiero percorre per arrivare alla concezione del proprio io -
pretesa contraddizione nel concetto dell’ io tre gradi o potenze della
coscienza. Lo fenomenale e lo trascendente - lo, soggetlo puro* pura attivila c
lo realtà — l' lo e il centro mobile delle cose. Egoismo primitivo e’come 1
uomo ne esca raddoppiamento dell’ Io nel
sogno... Scnl"-"<» >nipossibilità di dedurlo da altre attività,
quindi è un’ attività primil'va. 7- J°, S‘ rPICg? cssenza ’ ma bensi *’ or'Sine
del sentimento - le due forme ladicali de sentimento cause della varietà dei
sentimenti - intreccio di questi - che cosa impedisca la loro fusione in un
sentimento unico indistinto efTctti
della progredì a col ura sulla varietà dei sentimenti sentimenti inavvertiti.
Influenza del sentimento sulla fantasia e sulla ragiono. Classificazione dei
sentimenti sentimenti estetici - il bel o d.liburne U ridicolo e 1 loro opposti
- due diverse teorie estetiche senlimenli mo all -- clementi innati della
inoratila - idea formale del dovere - contraddizioni intrin¬ seche ne I egoism.
Lo sviluppo dei sentimenti morali. La civiltà. Il sentirnent1 religiosi —
origine di questi - depurazione progressiva del sentimento religioso come il terrore passi in venerazione. Il
sentimento simpatico — spiegazione meccanica di questi. Con quale uomo un uomo
po simpatizzzare crudeltà dei bambini e
degli desimi'. T°m importanza del sentimento simpatico per la morale, educazione dei me
Riproduzione dei sentimenti, associazione di questi fra loro e colle
re-presentazione dC ° 'ggl che,e?olano la re-produzione e tras-missione del
sentimento per la concezione fantastica dell’universo per le arti, per la
comunicazione coll’altr’uomo. Ecc. Affetti in che differiscano dai sentimenti,
classificazione dei medesimi, appetizione, distinzione fra l’appetito e il
sentimento, analisi dell’appetizione appetizione cieco c desiderio accompagnato
dalla re-presentazione dell’ oggetto Vamato iTtinb g eia n Pr',na °. de' S,‘C°n <
l0
classificazione degli appetiti «ratiere degH sbassi? bi“8ni "“b‘“, volontà
- in che differisca dall’ appetite, fattori della volontà, due alti di (me¬ sta
- fine e mezzo, molivi della volontà - so il motivo sia da confondere colla
caule efficiente spontaneità e liberta la volontà è sempre spontanea. non
sempre liberà _ Jra.Ps*cologica e libertà morale, schiavitù del volere
procedente dallo passioni se VI siano passioni buone, nobili, ecc. effetti
delle passioni sull’anima ine so'uzione - fine supremo - carattere morale e
immorale) - in che consta „ Zi Svolgimento progressivo della vita psichica —
vifa del sentimenlo vita delti »ni::r.'.ivsr.s4
PSICOLOGIA RAZIONALA 0 METAFISICA 0) Problema circa l'esistenza dell'
anima, so non sia un vero di evidenza immediate, perchè si debba dimostrare -
contraddizione inerente al materialismo in quanto vuol essere teoria, il fatto
di coscienza diversità dei fenomeni fisici c psichici, pretesa spiegazione materialistica
della coscienza - come la natura del fenomeno psichico non permetta di
attribuirlo ad un principio materiale unità della coscienza incompatibile con
un ente compost, altri argomenti in favore dell'"esistenza" dell’
anima, obiezione idealistica conilo l’esistenza dell’anima monismo spirituale.
Dell’unione dell’anima col corpo so si possa spiegare il commercio fra due
sostanze se la spiegazione del nesso fra anima e corpo sia più facile
supponendo l'anima materiale - come si spieghino le sensazioni e i movimenti
(sp. volontarii del corpo ammollendo 1'anima di naura soprasscnsiliva. Fin dove
sia conoscibile l’essenza dell'anima. Sede dell’anima nel corpo che senso possa
avere questo quesito organo centrale dell’ anima presenza dell- anima in (ulto
il corpo. (Il Di i/ iieslu seconda parte non si fecero per mancanza rii tempo
se non tre sole lezioni, delle finali si dà qui il sommario. Altre opere:
“Pensiero e conoscenza” (Bologna, Monti); “La coscienza e il meccanismo
interiore. Studi psicologici, Padova, Minerva); “Discussioni gnoseologiche e
note critiche, Venezia, Antonelli); “Elementi di psicologia e logica, ad uso
dei licei, Padova, Tip. Sacchetto); “Percezione e pensiero” (Venezia, Ferrari);
“Percezione e pensiero”; “La percezione interna”; “Il pensiero”; “Intorno alla
conoscibilità dell'io” (Venezia, Officine grafiche di C. Ferrari); “Studi
d'epistemologia, Venezia, C. Ferrari); “Sentire e conoscere, Prato, Collini).
G. Calogero, Enciclopedia Italiana, riferimenti in Sarlo,B., Firenze, Ufficio
della «Rassegna Nazionale» Erminio Troilo, Il pensiero filosofico di Bonatelli,
estratto dagli «Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti»
Venezia, Ferrari. D. oggi, La coscienza e il meccanesimo interiore.B., Ardigò e
Zamboni, Padova, Poligrafo, Calogero, B., in Enciclopedia Italiana, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, BONATELLI, Francesco», in Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Francesco
Bonatelli. Keywords: segno patognomico, period patognomico-periodo
onomatopoieco-periodo caratteristico – patognosis, patognomia, tratto da
Volkmann, “Lehrbuch der Psychologie” astrattio, imagine sensibile, vehicolo di
communicazione, segno, segnante, segnato, ‘fiorinello’; concetto, giudizio;
percezione; comunicazione pathognomica; pathognomia reciproca. logica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bonatelli” – The Swimming-Pool Library. Bonatelli.
Grice
e Bonaventura: la ragione conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Libero
docente e incaricato di psicologia nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze
e assistente di SARLO (vedasi) nel Laboratorio di psicologia sperimentale, dopo
alcuni scritti minori di psicologia e di logica, pubblica un grosso volume su
Le qualità del mondo fisico: studi di filosofia naturale (Firenze, Pubblicazioni
del R. Ist. di St. Sup.), in cui i dati della fisica, della chimica, della
fisiologia non dirò solo che siano largamente utilizzati, ma costituiscono
addirittura la base per la soluzione del problema, se sia o no possibile
spiegare le differenze qualitative tra le diverse energie fisiche riducendole
ad un unico tipo di energia: problema che B. risolve in modo negativo, dimostrando
che la riduzione delle molteplicità qualitative delle energie fisiche ad
un’unica forma nel senso del meccanismo e di taluni indirizzi energetici, è
illusoria. Posteriormente egli ha volto la sua attività più in particolare agli
studi e alle ricerche di psicologia, compiuti, nel laboratorio diretto da Sarlo,
coi metodi rigorosi propri della psicologia moderna; ma la ricerca psicologica
sebbene ha anche, per lui, un valore in sè stessa, come ricerca scientifica, e
un valore sociale, per le sue applicazioni, è stata ed è sempre, nell’economia
dal suo pensiero, il punto di partenza e di appoggio per salire verso la
filosofia. Tra i problemi psicologici, oltre ad alcune questioni di metodo
(come quelle del valore dell’introspezione e delle sue illusioni, a cui è
dedicato il volume intitolato appunto Ricerche sperimentali sulle illusioni
dell'introspezione, Firenze), quello che lo ha più attratto e su cui ha più
lavorato, è il problema della percezione, concepita come elaborazione
intellettuale dei dati sensoriali, e in ispecie della percezione dello spazio e
del tempo: problema che da un lato connette la ricerca psicologica con
concezioni d’importanza fondamentale per la fisica e per la matematica, dall’altra
forma il punto centrale della teoria della conoscenza. Intorno a questo
problema egli lavora da vari anni, sia sottoponendo a revisione critica tutto
il lavoro sinora compiuto sull’argomento, sia compiendo egli stesso ricerche
sperimentali per chiarire quei punti che ancora gli sembrano non abbastanza
illuminati. Alcune di queste ricerche (concernenti l’attività del pensiero
nella percezione tattile dello spazio; i mezzi coi quali si stabilisce e i
limiti entro i quali si contiene l’accordo tra dati spaziali visivi e dati
spaziali tattili; le illusioni ottico-geometriche; l’importanza dei giudizi spaziali
visivi nella psicofisica) sono state già pubblicate in riviste di psicologi; ma
la somma di tutte le ricerche e di tutti gli studi costituisce un grosso volume
— già pronto, ma ancora inedito —, in cui il problema psicologico dello spazio
e del tempo e le conseguenze filosofiche che ne scaturiscono, sono trattati in
tutti loro asp. Enzo
Bonaventura. Bonaventura. Keywords: Grice, The Causal Theory of Perception, The
Philosophy of Perception, The Oxford Seminars with G. J. Warnock. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonaventura”. Bonaventura.
Grice
e Bonavino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della schola
labri -- la scuola italiana – uso di
‘scuola’ per significare ‘maniere’ – scuola italiana -- la filosofia delle
scuole italiane – scuola di Pegli – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Pegli).
Filosofo
genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Pegli, Genova, Liguria. Grice:
“In fact, Bonavino is the same – vide my ‘Personal identity’ – he changed his
name when he ‘lascio l’abito,’ and teaches philosophy – his essays are slightly
rationalistic – he endorsed Thomistic orthodoxy at a later point.’” -- Grice: “I love Bonavino, but not every
Oxonian would – for one, he used a pseudonym, since he was a priest – we cannot
imagine Copleston doing that – or Kenny! As a philosopher he was a
‘rationalist,’ and indeed, the editor of a journal called ‘Reason’ (like my
Carus lectures), as a priet, he was ‘irrationalist.’ – My favourite of his
tracts is his ‘storia della filosofia,’ – which concentrated on Rome (Ancient
Rome, that is) and Croce --!” Nacque in una casa che sorgeva sulla via Aurelia,
successivamente demolita per la costruzione del lungomare. Entra in seminario.
A Bobbio, entra nella congregazione degli oblati di Alfonso Maria de' Liguori,
fondata, in quella stessa città da Gianelli. Venne accolto nella diocesi di Bobbio
da Gianelli il quale lo riteneva persona dotata di ottime qualità. Venne
ordinato sacerdote in tre feste consecutive, dallo stesso Gianelli il quale lo
accolse tra i suoi oblati, da poco fondati in Bobbio alla Madonna dell'Aiuto.
Il vescovo lo costitue vicesuperiore. In tale posizione Bonavino indusse
Gianellio ad irrigidire molto la regola che aveva loro data. Usav con i colleghi
un rigore che essi reputarono intollerabile, tanto che molti ne rimasero
disgustati e parecchi se ne andarono. Qualche suo compagno nota in lui uno
spirito di superbia inoltre in una disputa filosofica, mostra una dottrina
diametralmente opposta a quella di Alfonso Maria de' Liguori, tanto che Gianelli
dovette intervenire per richiamarlo, dicendogli: "se continuate in questa
guisa, voi non potrete recare che gravi dispiaceri alla Chiesa e voglia Iddio
che non diventiate apostata". Dapprima rispose positivamente al richiamo,
ma poi nuovamente ritornò sulle sue posizioni. Attinto dallo spirito giansenista,
tenacemente combattuto da Gianelli e non ancora assopito, sia leggendo opere
spregiudicate sia discorrendo con qualche filosofo ancora seguace di quella
dottrina. Gianelli o chiamò nuovamente a sé e gli chiese paternamente se e vero
quanto gli viene riferito. Audacemente risponde di sì e dice che persiste nel
suo sentimento e che non vi era alcuna speranza che si potesse ricredere. Le
sue parole sono: "No, neppure se mi trovassi innanzi alla bocca di un
cannone e mi si minacciasse di darmi fuoco!" Allora Gianelli dovette cacciarlo
da Bobbio, dubitando della buona riuscita del nuovo istituto. Sube, anche,
l'influenza del positivismo e del criticismo. Venne espulso dalla congregazione
per le sue dottrine che si allontanavano dal probabilismo alfonsiano. A Genova apre una scuola. Partecipa nelle
lotte contro i gesuiti, collaborando alla redazione de “Il gesuita moderno” e e
con due saggi, “I gesuiti” e “Autentiche prove contro i gesuiti”. Vive in prima
persona la rivoluzione condividendo gli
ideali risorgimentali, e stando in contatto, al punto di arrivare alle
polemiche, colli filosofi più rappresentativi di esso. E sospeso a divinis per
la difesa degl’errori del suo Corso di religione all Bernardo, e lascia il
ministero sacerdotale. Us ail nome di Ausonio Franchi, cioè "italiano libero". Su consiglio di Gioberti, verso il quale si
orienta politicamente, si dedica agli studi filosofici. In questo periodo
scrisse “Lla filosofia delle scuole italiane”, ove giustifica la propria
filosofia; “La religione”, “Studi religiosi e filosofici”, “Del sentimento; “Il
razionalismo del popolo”. Trasferitosi a Torino, divenne mazziniano. Fonda “Ragione,
un bimestrale di critica politica e sociale. Si trasferì a Milano dove diresse
La gente latina. Ottenne la cattedra di storia della filosofia a Pavia. Venne
trasferito all'Accademia di Scienze e Lettere di Milano. Membro della loggia massonica
"Insubria" di “rito simbolico italiano”, che con altre, di numero
minore rispetto alle prevalenti di rito scozzese antico e accettato, si
strinsero intorno alla Loggia madre torinese "Ausonia" e si organizzarono
all'obbedienza del Gran Consiglio Simbolico, sorto da un'assemblea tenuta a
Milano. Membro onorario della Loggia "Azione e Fede", di Pisa. Il Gran Consiglio Simbolico ha sede prima a
Torino e poi a Milano e con la sua presidenza si une al Grande Oriente Italiano
con un atto firmato per il Gran Consiglio tra gli altri dallo stesso, che fu
strenuo e auterevole propugnatore della fusione nel nuovo Grande Oriente. In questo periodo scrisse i saggi, “Soria
della filosofia moderna,” “La teoria del giudizio”, “Saggi di critica e
polemica”. Inizia poi un periodo in cui rimise in discussione la propria
attività filosofica. Ciò lo portò a scrivere “L'ultima critica”. Dice di voler
essere la confutazione del paralogismo che mi conduce al razionalismo” ed
esposizione degli argomenti che mi hanno ricondotto prima alla filosofia
d’Aquino e poi alla fede Cristiana. Vive isse l'esperienza della conversione
filosofica e religiosa. Iniziò facendo visita al Santuario di Virgo Potens in
Sestri Ponente, dove è collocata una lapide in ricordo dell'evento. TRA QUESTE
SACRE MURA LA VERGINE POTENTE CON UN PRODIGIO DI MATERNA PIETÀ IL FIERO NEMICO
D'OGNI CRISTIANA RIVELAZIONE AUSONIO FRANCHI TRAMUTA IN CRISTOFORO BONAVINO
RIDONANDO ALLA VERA SCIENZA UNO TRA I PIÙ PROFONDI FILOSOFI DELLA NOSTRA ETÀ
DAL VORTICE DELLA RIVOLUZIONE MISERAMENTE TRAVOLTO PERCHÉ IL RICORDO DI SÌ BEL
TRIONFO DELLA POTENZA DI MARIA SI PERPETUASSE A CONFORTO E A SPERANZA DELLE
FUTURE GENERAZIONI IL COMITATO LIGURE DEI CONGRESSI CATTOLICI.” L'ultima critica venne da lui annunciata a Magnasco. Manifesta, inoltre, l'intenzione
di ritirarsi nel santuario di Rho per confessarsi e riconciliarsi con la
Chiesa. Il saggio fu terminato nel convento carmelitano di Sant'Anna, a Genova.
Ha un buon rapporto con i frati, anche se conduce vita molto ritirata. Dopo il
ritorno alla fede confida che anche negli anni in cui sembrava più lontano
dalla Chiesa cattolica e più imbevuto di positivismo, non aveva mai abbandonato
la pratica quotidiana di recitare tre Ave Maria e non era mai venuto meno al
celibato sacerdotale. Sulla casa natale di Pegli e apposta questa lapide,
trasferita alla piazzetta della Giuggiola al Vico Condino). “Filosofo tra i
primi dell'età nostra a professare il razionalismo più aperto.”Dizionario
biografico degli italiani. B. La storia delle scienze è un portato del
pensiero moderno. Nel suo stesso conceito essa involge un periodo di tempo e un
grado di riflessione, che doveano per condizion di natura mancare agli antichi
romani. Perocchè, prima di poter comporre una storia scientifica, bisogna aver
costituita ed attuata la scienza che dev'esserne la materia. Onde l'epoca, in
cui lo spirito umano in tende alla costruzione del suo sapere, ha
necessariamente da precedere a quella, in cui esso, raccogliendo i monumenti e
idocumenti, le tradizioni e le memorie, ne rintraccia l'origine, ne studia i
progressi, ne descrive le trasformazioni. Quello era il compito assegnato agli
antichi romani; questo era riserbato ai moderni. Ed aBacone si deve, se non la
prima idea, certo l'idea più chiara e distinta, più larga e profonda d'una
storia delle scienze, lettere, ed arti, e dello scopo ch'era in essa da
prefigersi, delle leggi da seguire, dei servigj da rendere, dei frutti da
produrre. Quel Bacone, a cui communemente si attri buisce la gloria di tante
risorme ch'egli non ha mai fatte ne sognate, e di tante scoperte ch'erano già
belle e fatte assai prima di lui, ha non dimeno un gran merito, che pur li
stessi suoi ammiratori non mostrano d'apprezzare abbastanza; ed è quello di
aver proposto il disegno e stabilito il programma di varie scienze nuove, che
non tardarono in effetto ad arricchire il patrimonio intellettuale
dell'umanita. Ora fra le nuove discipline, ch'egli additava ai posteri in forma
di desiderj (desiderata), primeggia la storia letteraria, senza della quale, diceva
egli argutamente, la storia del mondo rassimiglia troppo bene alla statua di
Polifemo privo dell'occhio; giacchè la parte mancante è quella appunto, che
potrebbe ritrarre meglio il carattere ed il genio del personaggio. Vero è, che
in certe scienze particolari, nella giurisprudenza, nella matematica, nella retorica,
nella *filosofia*, sole già darsi un qual che ragguaglio assai magro delle sette
e delle scuole, degli filosofi e dei saggi, delle vicende e degl'incrementi
loro; ma una storia propriamente detta della letteratura, come la concive
Bacone, dove essere ben altra cosa. Essa deve, per usare le sue parole,
rovistare li archivi di tutti I tempi,e indagare quali scienze e quali arti
fiorissero nel mondo, in quali tempi e luoghi fossero più o meno cultivate;
notare con la più minuta esattezza possibile la loro antichità, i progressi, le
migrazioni nelle varie parti della terra; poi la loro declinazione, e il loro risurgimento;
specificare, per rispetto a ciascuna scienza od arte, l'occasione che la fece
inventare; le regole e le tradizioni, secondo le quali venne via via trasmessa;
i metodi e i processi, con cui si esercita; registrare poscia le varie scuole,
in cui si divisero i suoi cultori; le più famose controversie, che occuparono
l'ingegno dei filosofi; le calunnie, a cui la scienza e esposta; li elogj e i
premj, onde viene onorata; indi. care i principali filosofi e i migliori saggi
in ciascun genere; le academie, i collegj, li instituti, tutto quanto insomma
concerne lo stato della letteratura; e massime chè in ciò consiste propriamente
la vita e la bellezza della storia accoppiare li eventi con le loro cagioni, notando
la natura dei paesi e del popolo romano, che mostrarono più o meno di idoneità
alle scienze; le circostanze storiche che tornarono loro propizie o contrarie;
lo zelo, il fanatismo religioso, che vi si immischio; li ostacoli, onde le
leggi attraversarono loro il cammino, e le agevolezze che loro procurarono. Infine
li sforzi generosi, l'energia magnanima, di cui fecero prova i più illustri e
potenti ingegni per migliorarne la condizione e promuoverne l'avanzamento. Nè
il frutto di si mili lavori ha da essere una vana pompa di minuzie erudite, bensì
un ajuto alla sagacia e alla prudenza degli studiosi nella cultura del sapere; poichè
in una storia cosi fatta puo evocarsi quasi per incanto il genio letterario
d'ogni èra passata; osservarsi i movimenti e le perturbazioni, le virtù e i
vizj del mondo intellettuale, non altrimenti che del mondo politico; e
ricavarne ammaestramenti e conforti per un miglior indirizzo futuro. Tal
era, giusta il concetto grandioso di Bacone, l'indole, l'oggetto, e l'officio
d'una storia letteraria in generale. Or applicandolo alla storia della *filosofia*,
che è una porzione rilevantissima di quel gran tutto, convien determinare in
nanzi tratto, entro quali confini essa vada circoscritta; chè al trimenti si
correrebbe rischio o di escluderne certe materie che le appartengono, o di
includervene altre che non le spettano punto, come la teologia. E siccome i
confini della storia d'una scienza sono prestabiliti nel concetto specifico
della scienza stessa; cosi non c'è altra via da circoscrivere ilcampo de'nostri
studj,se non quella di risalire all'idea medesima della filosofia, per
definirne il con tenuto in guisa da comprendere nella sua storia tutte e sole
le materie, che ne fan parle. Ma questa determinazione è più difficile assai di
quel che a prima giunta si crederebbe. V'ha nel concetto della filosofia, come
indica lo stesso nome (amore alla sapienza), un'ampiezza originaria cosi indefinita
e quindi variabile, che se pur ammette certi limiti, lascia sempre al filosofo
una gran latitudine di fissarli a tenore del proprio sistema. Così dopo venticinque
secoli di speculazione filosofica, si desidera ancora una definizione della
filosofia che possa dirsi generalmente accettata da'suoi cultori. Tacio degli
antichi romani, i quali per lo più stando all'interpretazione etimologica del
nome, pigliavano la filosofia in senso latissimo, e comprendevano sotto di essa
ogni specie di scienze. Ma anco tra i moderni, sebbene tanta confusione non
potesse più aver luogo, dac chè varj rami del sapere si sono affatto staccati
dall'albero filosofico, ed hanno costituito altre tante scienze particolari;
pure il concetto definitivo della filosofia non è ancora di commune accordo
stabilito, e ogni scuola lo stabilisce un po'a modo suo. Chi considera la
filosofia sotto l'aspetto meramente *ontologico*, la riguarda come la scienza
dell'ente, la scienza del reale, la scienza dell'assoluto; e perciò nella sua
storia non deve abbracciare fuorchè le prette dottrine speculative,
trascendenti, o metafisiche. Chi all'incontro contempla la filosofia dal lato
puramente *logico* o psicologico, la qualifica per scienza del pensiero, scienza
della ragione, o scienza dello spirito umano; e quindi nella sua storia non
avrebbe da esporre se non le dottrine formali della cognizione. Chi
poi studia la filosofia sotto il rispetto *morale* e sociale, la tiene in conto
di scienza del bene, la scienza della vita, o la scienza dell'umanità; onde
nella sua storia non potrebbe raccogliere fuorchè la dottrina pratiche del
dovere e diritto umano. Egli è manifesto, che simili concetti e definizioni
della filosofia peccano per difetto, in quanto che non comprendono l'intero suo
campo, ma solo alcune parti; talche, ove si pigliassero a guida d'una storia
della filosofia, essa riu scirebbe per necessità parziale, esclusiva, inetta ad
adeguare il suo oggetto e conseguire il suo scopo. Nell'estremo opposto cadono
le scuole, che formandosi un concetto della filosofia più vasto, ma più vago
insieme ed indeterminato, peccano d'eccesso; poichè la confundono con la
scienza in genere, e la sforzano ad entrare nella messa di ogni dottrina, che
per qualche rispetto sieno da qualificarsi d'indole razionale: la sua storia,
in tal caso, deve invadere quasi tutta l'enciclopedia. A scansare questo doppio
errore fa dunque mestieri di allargare il concetto dei primi, e di restringere
quello dei secondi, per poter comprendere nella storia della filosofia tutto il
necessario, che li uni a torto ne escludono, ed escluderne tutto il superfluo,
che li altri v'introducono senza ragione. Ora: se da un lato è assai malagevole
di circoscrivere l'objetto della filosofia mediante una definizione logicamente
rigorosa. Dall'altro però la difficultà vien meno, ove basti determinarlo per
via di semplice classificazione o enumerazione di parti. Perocchè confrontando
insieme i termini varj e disparati, onde le varie scuole concepiscono la filosofia,
apparisce tosto come la ragione del loro contrasto sia una condizione della sua
natura medesima, la quale non è, come quella delle altre scienze particolari, tutta
subjettiva o tutta objettiva, cioè esclusivamente razionale o empirica, ideale
o positiva; ma è mista, e partecipa dell'uno e del l'altro carattere, e tocca
ai due poli opposti della cognizione. Ed invero, la cognizione consiste in quel
rapporto, che scaturisce dal combaciarsi, dal compenetrarsi dei due termini intellettivi:
subjetto conoscente ed objetto conoscibile; e la filosofia ha per officio
principale di investigarne l'indole, le proprietà, le forme, le leggi più
intime e più generali. E siccome le determinazioni di un rapporto non possono
ricavarsi se non dal mutuo riscontro de’ suoi termini costitutivi; cosi la
filosofia dee necessariamente addentrarsi nello studio del subjetto e del
l'objetto della cognizione, per poter giungere ad una teorica universale della
scienza, Ora, in quanto essa scruta la natura del subjetto conoscente, anima,
spirito, intelletto, mente, o Io che dir si voglia, prende forma di scienza
subjetliva; si traduce in *logica*, psicologia, e antropologia; e riesce ad una
dottrina generale del pensiero. Sotto questo solo aspetto la considerano le
scuole, che mostrano di ridurla ad una semplice ideologia. All'incontro, in
quanto essa studia la natura dell'objetto conoscibile, acquista il valore di
scienza objettiva. Ma l'objetto stesso può trattarlo in due modi. O nella sua
massima universalità, come ente in genere; e allora essa diviene una schietta
ontologia, protologia, o metafisica generale: ovvero sotto certe speciali
determinazioni, a cuirispondono le varie parti della *metafisica speciale*;
come di ente *assoluto* o Dio, oggetto della teodicea; di Cosmo o universo, oggetto
della *cosmologia*; di uomo o Umanità, oggetto della morale. All'una o
all'altra soltanlo di coteste parti la restringono le scuole, che intendono di
ridurre il suo campo all’uno o all'altro di simili objetti. Il che spiega
bensi, ma non giustifica punto il loro procedere esclusivo: lo spiega, poichè
assegna la ragione che li muove ad appigliarsi rispettivamente al proprio
metodo; ma non lo giustifica, poichè il considerare un oggetto da un lato solo,
per vero e giusto che sia, non vale mai a conoscerlo intero; e il non
conoscerlo intero implica necessariamente due condizioni, che repugnano troppo
all'indole del sapere scientifico. La prima, che alcune parti dell'oggetto
rimangono fuori della trattazione, e quindi ignote. La seconda, che la
cognizione delle parti stesse trattate e chiarite rimane inadequata,
incompiuta, e quindi più o meno erronea e fallace; onde i giudizi coşi discordi,
e non di rado contrarj circa il valore di un sistema o il carattere di un'epoca:
veri tutti in parte, per quel rispetto Se noi pertanto vogliamo esporre
nella sua integrità propria e specifica la storia della filosofia, dovremo
abbracciare, nel quadro delle varie epoche e de’varj sistemi, due ordini di dottrine
filosofiche: quelle che si riferiscono alla determinazione del subjetto stesso,—
logica, psicologia, antropologia; e quelleche concernono le determinazioni
dell'objetto, in quanto appartiene al regno della speculativa: cioè, o nella
sua universalità assoluta,— ontologia, protologia; o sotto certe forme razionalie
metafisiche di Infinito, di Universo, di Umanità, teodicea, cosmologia, e
morale. Ecco le materie, che direttamente fanno parte della filosofia, e per
conseguente della sua storia. Ma nessuna scienza può dirsi compiutamente
esposla, finchè si considera in sè stessa unicamente, e come segregata da tutte
le altre. L'unità del pensiero da un lato, e dell'universo dall'altro,
stabilisce un cotal nesso intrinseco sra i varj ordini di cognizione, che sono
quasi i rami del grand'albero del sapere: nesso, che fra alcuni ordini più
affini, più omogenei introduce relazioni cosi strette e necessarie, che l'uno
non si potrebbe adequatamente conoscere senza contemplarlo eziandio nelle sue
attinenze con l'altro. Laonde per ciascuna scienza, come per la sua storia,
oltre le materie di sua diretta spettanza, ve n'ha certe altre che indi
rettamente le appartengono, siccome quelle che per una loro particolare ed
essenziale relazione con essa, valgono a meglio rilevare il suo valore e la sua
efficacia, a spiegare le sue evoluzioni e le sue trasformazioni, ad apprezzare
il suo influsso, cosi nello svolgimento teoretico del sapere, come
nell'incremento pratico della civiltà. Questa condizione ha luogo sopratutto
nella filosofia, la quale appunto per il suo carattere di *scienza prima* ed
universale, tocca ai principj supremi della cognizione, e con essi porge li
ultimi fondamenti a tutte le scienze. Non sarebbe difficile quindi a trovarle
qualche attinenza, prossima o remota, con le singole parti dell'intera enciclopedia;
ma volendo pur contenere il tema sotto cui riguardano questa o quello ma tutti in parte falsi, per li altri
rispelti da cui prescindono,e di cui non fanno caso. Primeggia fra esse la *religione*
cattolica, che ha con la filosofia medievale una tal affinità, da scusar quasi
l'errore assai commune di chi le confunde ambedue insieme. Ed infatti,
l'oggetto proprio di ambedue è in sustanza lo stesso; poichè si travagliano del
pari nello studio dell'ente infinito ed assoluto, e delle sue relazioni
metafisiche e morali con l'universo e con l'uomo. Diversificano bensi
profondamente nel metodo, onde ciascuna piglia rispetti vamente a trattarlo:
giacchè l'una procede per via di intuito, di sentimento, d'affetto; l'altra
invece per via di riflessione, d'analisi, e di raziocinio. Quella traduce l’ideale
in un *simbolo*, e questa in una formula. La prima ne fa un dogma di fede, e la
seconda un sistema di scienza. Tuttavia coteste differenze non tolgono punto,
anzi confermano li influssi scambievoli, che l'una deve esercitare nel corso
della storia su l'altra. La religione cattolica sta alla filosofia,come il sentimento
alla ragione; e nella guise medesima che questa prende da quello la materia
prima de'suoi concetti, la filosofia trae dalla religione cattolica il primo
abbozzo de' suoi teoremi. Vediamo infatti dovunque il simbolo cattolico andare
innanzi ai sistema filosofico; e la fede cattolica governare l'uomo prima che
la scienza; e i miti e le leggende pascere la sua fantasia lungo tempo prima
che il suo intelletto li sapia discernere dal reale e dal vero. E quando la
ragione, fatta adulta e robusta, comincia ad aver coscienza di sè ed a provare
il bisogno d'una cognizione più chiara, più pura, e più soda, non può pigliare
d'altronde le mosse che dallo stato mentale, a cui l'uomo è educato dalla sua
fede cattolica instintiva o tradizionale; si che i primi passi della filosofia
non sono altro che tentativo di tradurre una credenza religiose in un concetto
razionale. E siccome in quest'opera di semplice riduzione esso incontra
bentosto difficultà insuperabili, incontra cioè elementi al tutto fantastici e
ribelli ad ogni forma scientifica; cosi la filosofia perde in breve quel
carattere primitivo d'interpretazione del simbolo cattolico o dogma ne'suoi più
rigorosi confini, come mai si potrebbe disconoscere il mutuo vincolo, che lega
intimamente la filosofia con alcune dottrine ed instituzione della Chiesa
cattolica romana, nelle quali la ragione speculativa rinviene o i suoi più
importanti materiali,o le sue più solenni applicazioni religiosi, ed
assume per necessità, verso di essi, quello di critica, di scetticismo, di
negazione. Indi le prime lutte fra la leggenda e la storia, la mitologia e la scienza,
la fede e la ragione; e indi, per legge naturale e quasi organica
deli’intelletto umano, le prime vitlorie della verità schietta e positiva su i
pregiudizj idoleggiati dall'imaginazione o dal cuore. Disfatta però la prima
forma d'un simbolo non è già distrutta l'idea ch'esso adombra e preconizza; nè
tanto meno è eliminata la questione, ch'esso mirava a troncare, se non a risolvere.
La fede della chiesa cattolica è una funzione psicologica cosi con-naturata
all'umanità come la ragione: quella può e dee formare, riformare, e trasformare
il suo simbolo, come questa I suoi sistemi; ma nell'organismo mentale l'una è
cosi irreduttibile e indistruttibile come l'altra. Sotto il Martello della critica
adunque cadono e scompajono la credenza della Bibbia semita, mitologica e
leggendaria, che non rispondono più al grado superiore di cultura, cui un
popolo ha raggiunto; ma danno luogo ad altre credenze meno grossolane e
fantastiche, e più consentanee alle nuove idee, alle nuove dottrine, che la
ragione fa prevalere. E allora, su quei simboli rinovati la filosofia ripiglia
da capo il suo lavoro: in prima teoretico, finchè il pensiero speculativo
armonizza con essi, e cerca solo di interpretarli in guisa da cavarne, un
significato o costrutto razionale; e poscia critico, quando, grazie al
progresso del pensiero e all'incremento del sapere, quell'interpretazione
riesce vana, quell'armonia impossibile. Indi un'altra èra di conflitto, e
un'altra serie di teoriche e di critiche filosofiche, di riforme e di
ricostruzioni religiose, rispondenti ad un periodo superiore dell'educazione
umana. E cotesta vicenda non è cessata, ne cesserà, infino a che l'objetto
ultimo della fede e de’ suoi simboli, della ragione e de'suoi sistemi, che è
l'assoluto, non sia adequatamente conosciuto e compreso; e il subjetto commune di
questi e di quelli, che è l'io, non sia pervenuto a concertare e identificare
tutte le sue facultà o funzioni psicologiche in una si perfetta unità, da cancellare
ogni specie di antagonismo fra il cuore e la mente, fra il senso e
l'intelletto, fra l'imaginativa e il raziocinio, fra quei due elementi, insomma,
uno animale e l'altro divino, che in modo si misterioso e ad un tempo si
manifesto concorrono a costituire l'umanità. E vale a dire, che per quanto a
noi è dato di conghietturare, quel processo del pensiero, svolgentesi in una
serie di azioni e di reazioni tra il dogmatismo della religione e il criticismo
della filosofia, è la sua condizion naturale, e durerà finchè l'uomo sia uomo;
poichè e il dualismo subjettivo dell'io e l'incomprensibilità objettiva dell'assoluto
sono due leggi, che hanno il loro fondamento nella stessa natura umana,
essenzialmente finita e limitata, e come risultante di due forze,
indefinitamente perfettibili e armonizzabili, ma non capaci di acquistare
giammai una perfezione infinita ed un'unità perfetta. Simiglianti, per non dire
identiche, sono le relazioni che ha la filosofia con la poesia, presa nel suo
più ampio significato di arte, e rappresentata nella sua moltiforme varietà dai
varj ge neri della letteratura. La poesia, come la religione, precede alla
metafisica. Nasce anch'essa dal sentimento dell'infinito, che è innato ed
immanente nell'uomo; anch'essa tenta di ritrarre l'Assoluto, e i rapporti che
seco hanno la natura e l'Umanità; e i suoi canti primitivi sono teogonie e
cosmogonie, poco differenti dai libri sacri della Biggia. Anch'essa, come la
religione, traduce l’Assoluto in un Ideale simbolico; ma i simboli religiosi
pigliano bentosto l'aspetto di dogmi rivelati, che s'impongono alla fede;
laddove i simboli poetici serbano il carattere di imagini spontanee, la cui
efficacia risiede nella loro idoneità estetica à soddisfare la fantasia ed il
cuore, senza offendere la ragione. Quindi sotto l'inspirazione religiosa l'Ideale
veste una forma o affatto impersonale, o d'una persona como Gesu cosi posta al
di fuori e al di sopra del mondo, che apparisce al rivelatore stesso come un
Ente sovrintelligibile e sovranaturale; laddove sotto l'inspirazione poetica l'Ideale
tiene sempre dell'umano, del subjettivo, e ritrae della persona stessa dell
poeta, che lo immedesima con sé, mentre s'immedesima con esso.La filosofia
pertanto, nelcorso deila sua storia, s'intreccia col movimento letterario,
quasi come col religioso. Trora pure nei primitivi poemi l'addentellato della
speculazione; incomincia a farne l'esegesi, e poi la critica; e conduce
l'arte a dover creare una nuova forma dell'Ideale,che possa appagare il gusto
di genti più culte, e più avvezze a non iscompagnare il Bello dal Vero. Nascono
cosi e si succedono via via progressivamente le forme letterarie, a quel modo
che i simboli sacri, sotto l'influsso critico della filosofia; la quale,
determinando in modo sempre più razionale il concetto dell'Assoluto, prescrive
all'arte, come alla fede, di effigiare l'Ideale con imagini d'età in età più
pure, più atte a conciliare il sensibile con l'intelligibile, l'intuito con la
riflessione, l'affetto col pensiero. La qual conciliazione tuttavia, per quanto
venga informando l’arte ad un tipo gradualmente più filosofico, non può
togliere via il carattere differenziale, che distingue l'opera poetica dal
sistema speculativo,come due specie di cognizione, che muovono da facultà
diverse, procedono con diverso metodo, e mirano a diverso fine. L'arte è figlia
principalmente dell'intuizione e dell'imaginazione; la filosofia invece,
dell'analisi'e del raziocinio. L'arte riveste le idee di forme sensibili,
fantastiche, dramatiche, le dispone con libera scelta, le connette a suo gusto,
non vincolata ad altre leggi che alle convenienze estetiche, e licenziata ad
abbandonarsi in grad parte all'impeto spontaneo e quasi autonomo
dell'inspirazione, dell'estro, del genio, che agli antichi pareva il soffio
prepotente d'un nume. La filosofia, all'incontro, scevera dalle figure poetiche
il concetto puro, passa l’ imagine sensibile al suo crogiuolo per cavarne le
idee, e con le idee costruisce un sistema regolare, modellato rigorosamente su
i canoni della logica, e ridutto ad unità scientifica mediante quell'intreccio
dialettico di principj, applicazioni, e conseguenze, che è prestabilito
dall'indole stessa del tema, deduttivo o indut ivo, razionale o sperimentale
che sia. La poesia ha per iscopo la rappresentazione del bello; non esclude il
vero, ma neppure il finto; subordina l'uno e l'altro egualmente al suo disegno;
e se ne vale come di mezzi per colorirlo con più di varietà, di vivacità, di
efficacia. La filosofia, all'opposto, ha per oggetto la dimostrazione del vero;
tiene il bello in conto di accessorio, e non di principale; lo tratta da mezzo,
e non da fine; e lo ammette solo in quanto non repugni alle condizioni della
scienza. La sua storia adunque non potrebb'essere compiutamente descritta,
se non avesse riguardo, come allo stato religioso, così allo stato letterario
di ciascun'epoca, per apprezzare equamente liinflussi scambievoli della poesia
su la speculativa e della metafisica su l'arte, e per meglio dilucidare la
legge progressiva che dirige lo spirito umano nello svolgimento armonico delle
sue facultà conoscitive. Se non che, nelle sue attinenze verso della
letteratura, la filosofia procede più all'amichevole che non verso della
teologia; perocchè il simbolismo estetico non pretende mai all'impero dottrinale,
che si arroga il simbolismo teologico; non invoca per sè l'autorità di una
rivelazione divina; non si usurpa nessun privilegio d’infallibilità assoluta: canta,
e non decreta; narra, e non dogmatizza; inventa, instruisce, diletta, commuove,
e non oracoleggia. La filosofia pertanto può scorgere in esso un errore da
emendare, ma non un nemico da combattere; delpari che l'arte può rinvenire
nella filosofia una censura un po'se vera, ma non una guerra dichiarata ed
implacabile. Le religioni adunque, le letterature, e le scienze, come hanno
contribuito per qualche rispetto all'origine ed al progresso della filosofia,
devono parimente fornirci utili sussidi e schiarimenti per la sua storia. Ma
non basta il porre mente alle sue relazioni intrinseche con le varie discipline
d'ordine dottrinale. Essa inoltre ha moltiplici attinenze con quelle
instituzioni d'ordine pratico, che si comprendono sotto il nome di condizioni
politiche e sociali di un'epoca o di una nazione: attinenze estrin seche, è
vero, ma non per ciò men necessarie ad intendere e spiegare levicende storiche
de'suoi sistemi. I quali, per trascendenti che sieno, ritraggono pur sempre
qualche cosa delle cre. Per quello poi che spetta alle attinenze della
filosofia con altre scienze, e particolarmente con le scienze fisiche e naturali,
e massime con quelle loro parti, che trattano dei primi principj delle cose e
delle leggi generali dell'universo, gli è un fatto cosi per sè manifesto e
notorio, che appena è mestieri di accennarlo per sentire la necessità di farne
gran caso in una storia del pensiero filosofico. credenze e delle dottrine, che
predominano nei tempi e nei luoghi, in cui vive il loro autore; siccome questi,
per novatore che sia, non può mai rompere ogni communione intellettuale con la
società, in mezzo a cui è nato, cresciuto, educato; e il suo pensiero,
esplicandosi in un dato ambiente mentale, dee imbe versi più o meno delle idee
communi e prevalenli. I filosofi stessi più originali precorrono bensì per un
verso alla loro generazione, ed anticipano il futuro; ma rimangono, per
l'altro, figli del loro secolo, e raccolgono,e riassumono nel loro genio, in
modo più chiaro, ordinato, e complessivo, tullo quanto v'ha di più eletto, di
più sodo e secondo nel suo sapere. Essi partecipano della vita scientifica di
due età, poichè sono alunni del presente e institutori dell'avvenire. Laonde
ciò che v'ha di nuovo no'loro sistemi, ha sempre il suo germe nello stato intellettuale
de’loro contemporanei; talchè questo è la chiave della genesi di quello. Ora
dello stato intellettuale di un secolo o di un popolo qual documento v'è egli
più reale ed autentico, più vi vente e parlante che la sua costituzione
politica e sociale, e i suoi costume domesticie civili. Nei costume esso incarnai
suoi principj di morale; nella costituzione, i suoi principi di diritto: e con
la notizia de'suoi principj di diritto e di morale si ha la guida sicura per
penetrare nei recessi della sua coscienza e della sua ragione, e per delineare
un quadro fedele delle sue cognizioni. La storia politica e civile dovrà quindi
porgere an ch'essa il suo ajuto alla storia della filosofia; la quale appren
derà tanto meglio a conoscere i grandi filosofi ed a giudi care i loro
grandiosi sistemi, quanto meglio avrà conosciuto i tempi e i luoghi a cui
appartenevano, e le idee e le instituzioni che reggevano le genti, di cui erano
dessi prima discepoli, e poi maestri. Circoscritta in tali termini la materia,
che direttamente e in direttamente spetta alla storia della filosofia, vede
ognuno da sé quanto sia vana e falsa l'accusa di chi la spaccia a dirittura per
un'arida e vuota farraggine di metafisicherie, l'una più astrusa e stravagante
ed incomprensibile dell'altra. Essa è invece il racconto delle più eroiche
lutte e delle più nobili conquiste del ל M acciocchè la contenga di fatto, bisogna dare a
quella materia, che è il corpo della storia, la forma conveniente, che ne sia
l'anima. Chi si contentasse di narrare la vita ed esporre la dottrina di
ciascun filosofo, ma separatamente, a guisa di fatti o eventi diversi,
sconnessi, indipendenti l'uno dall'altro, senza un principio organico che li
coordini, e riduca la loro varietà fenomenica ad un'unità sistematica, e mostri
il perchè ed il come l'uno sia causa dell'altro, e questo effetto di quello: fa
rebbe una cronaca,e non una storia della filosofia.Ilcompito della storia si è
di riprodurre i fatti nel loro intreccio origi nario. E siccome ogni serie di
fatti non è altro che l'atluazione successiva d'una legge naturale, ed ogni
legge della natura si riscontra con un principio della ragione; così il
racconto dei fatti od eventi filosofici non può acquistar il valore di
storia,se non in quanto li riordina, li classifica, li accentra sotto della
legge psicologica, che ne ha determinato l'origine, il processo, e la
trasformazione; di guisa che lo svariato contrasto di afferma zioni e negazioni,
di tesi e antitesi, di teoriche e critiche, o n 15 genio umano nel campo
del pensiero, che sovente,pur troppo ! ebbe a convertirsi in campo di
battaglia. Le questioni, venti late dai sistemi in essa esposti, toccano agli
affetti e ai desi derj più intimi, ai bisogni e agl'interessi più gravi
dell'animo: la cognizione di noi medesimi e delle nostre facultà, del mondo e
delle sue leggi; il criterio del vero e l'amore del bene; l'educazione
dell'intelletto e il persezionamento del cuore; l'os servanza del dovere e la
rivendicazione del diritto; le condizioni della felicità privata e della
prosperità publica; la missione della vita presente e la speranza della futura.
Li autori, ch'essa prende a commentare, sono l'ingegni più potenti e su blimi
ed ardimentosi che vanti l'Umanità: sono propriamente i legislatori del
pensiero e li instauratori dell'incivilimento. Ed infine, per le sue attinenze
con tutte le vicende religiose, let terarie, e scientifiche, con tutte le forme
e le riforme politiche e sociali, essa diviene lo specchio verace della vita
interiore dell'Umanità; onde può dirsi fondatamente, che la Storia della
Filosofia contiene in sustan.za la Filosofia della Storia. E il fondamento
di questa legge d'unità storica non è fitti zio o arbitrario, ma concreto e
positivo, siccome quello che ri posa su la doppia unità del subjetto conoscente
e dell'objetto conoscibile. Il subjetto è lo spirito umano, l'Io; il quale se
per rispetto agl'individui ammette infinite graduazioni e differenze, al pari
d'ogni altro essere, serba pure in riguardo alla specie tutta la unità e
identità di natura, che si osserva in ciascun altro tipo. Quindi,per diverse e
discordanti che sembrino le m a nifestazioni della sua attività individuale,
non escono però mai fuori del limite, che segna la cerchia delle sue funzioni
speci fiche; e vanno tutte comprese sotto certe categorie, le quali pure non
rappresentano altro che certi aspetti o rapporti di un unico principio attivo.
L'objetto poi è ilvero in genere,o quelle specie di vero che formano la materia
della filosofia. Ora che può egli mai concepirsi di cosi identico ed uno, come
il vero in sè stesso e nella sua forma universale ed assoluta? E quanto agli
ordini particolari di verità, che danno luogo alle singole parti della
filosofia, o si tratta dell'Io stesso, qual ente pensante; e allora l'unità
dell'objetto s'immedesima con quella del subjetto, ed è tanto una la
scienza,quanto uno è il pensiero: o si tratta invece di objetti esterni, della
società umana, del mondo, dell’Assoluto; e allora l'unità della scienza ha pure
il suo fondamento nell'unità del principio protologico, cosmologico, e morale,
di cui quelle dottrine sono rispettivamente una m e todica esplicazione. La legge
di unità adunque,che deve infun dere la vita, l'anima, la forma nella storia
della filosofia, sus 16 d'è intessuta la storia della filosofia,
apparisca, non quasi un caos informe e fortuito, ma come un mondo ideale, in
cui i varj sistemi tengon luogo di elementi o forze integranti, che
rappresentano nel loro complesso la moltiforme attività di un principio unico,
del pensiero; e producono col loro antagonismo un'armoniá simile a quella del
mondo reale. Indagare e veri ficare questa legge primitiva, che sotto
l'infinita varietà dei si stemi stabilisce l'unità di un organismo dottrinale,
e dirige la vita interna del pensiero, è dunque l’officio proprio d'una sto ria
della filosofia. A trovarla però occorre sopratutto di saperla
cercare; onde nella storia della filosofia, non altrimenti che in qualsiasi di
sciplina, ha un'importanza capitale il metodo. Or qual è il metodo da seguire
per giungere con maggior sicurezza al nostro scopo? chè v'è anche qui disparità
e contrarietà d'opinioni. In generale, li storici antichi, vale a dire quelli
dei due ultimi secoli scorsi, e dei primi anni del corrente procedevano con
metodo quasi affatto empirico edescrittivo; badavano solo a far la biografia
dei filosofi e il sommario delle loro dottrine, sen z'altro legame che la
successione cronologica, o la parentela etno grafica, o la classificazione
scolastica; raccoglievano la materia dellastoria,ma netrasandavanolaforma.Fra
imoderni,al cuni e de'più rinomati si gettarono nell'estremo opposto, e precut
ă tesero di costruire la storia della filosofiacon metodo specula- láhystal
tivo ed a priori. Costoro, ove mai fossero venuti a capo d'una simile
impresa,avrebbero disegnato una cotal forma idealedella storia, m a vuota di
contenuto reale; avrebbero mostrato ciò che, nel loro concetto, doveva essere
la filosofia, m a non mai cið che fu nella sua realtà; insomma avrebbero
costruita una teorica, ma non già narrata una storia. Perocchè oggetto della
storia sono i fatti; e i fatti si apprendono per via d'esperienza e d'os
servazione, di memorie e di documenti, e non già per opera di deduzioni
dialettiche e di evoluzioni metafisiche. Del resto, la scuola che tentò di
introdurre le costruzioni a priori anche nella storia, obediva necessariamente
al principio cardinale della sua filosofia, che identificando il pensiero con
l'essere, affer m a risolutamente, i fatti e le leggi della storia, della
natura, dell'universo doversi cercare nei fatti e nelle leggi del pensiero
stesso. Ma quando essa volle passare dalla teorica allapratica, e chiarire col
proprio esempio la superlativa bontà del suo m e todo, a che è riuscita? A
null'altro fuorchè a provare lavanità 17 siste non meno nel subjetto che
nell'objetto del pensiero spe culativo. Potrà in qualche caso riuscire
malagevole a scoprirsi e significarsi; potrà eziandio rimanere ancor ignota: m
a sarà per difetto nostro, e non per mancanza sua; e vorrà dire sol tanto, che
non si è ancora trovata, e non già che non esista. delle sue
speculazioni; giacchè tutto quanto v'ha di slorico noi suoi lavori, è attinto
dai monumenti ordinarj, e non fabricato a priori; è ciò che v'ha di
propriamente dedutto a priori, è ipotesi, poesia, romanzo, ogni cosa, fuorchè
storia. Tra l'empirismo degli uni e il trascendentalismo degli altri s'apre
nondimeno una via di mezzo, che è quella indicata dalla ragione, e battuta
dalla scienzaUn metodo non è altro che un mezzo di cognizione: il suo valore è
dunque relativo,e con siste nella sua rispondenza al fine, cui dee servire. L a
sto ria della filosofia consta di due elementi: d'una materia positiva. e d'una
forma razionale; dunque il metodo di studiarla vuol essere misto: positivo,
quanto all'esposizione dei fatti; e razio nale, quanto alla investigazione
delle leggi. A questo metodo si potrebbe meritamente appropriare il nome di
critico; poiche esso è ilsolo,in cui una critica sagace e sapiente riconosca
mantenuti i suoi principj, ed osservate le sue regole. Comunque però si chiami,
esso è quello che noi ci studieremo di se guitare costantemente. Le regole di
questo metodo sono le stesse, che la logica pre scrive generalmente negli studi
storici. Le principali, per quanto spetta in particolare al nostro tema,
saranno. 2.° Equilà nel giudizio delle dottrine; e perciò aver s e m pre
riguardo alle condizioni de'luoghi e de'tempi, in cui vivea l'autore;
apprezzare le sue idee in relazione con quelle d'allora, e non con quelle
d'adesso; discernere accuratamente le veré. Fedeltà nel ragguaglio dei fatti; -
e quindi, anzitutto lasciare a ciascun autore la fisionomia sua propria; non
aggiungere, nè togliere nulla alla sua parola; riferire il suo sistema tal
quale piaque a lui di comporlo, e non come piacerebbe a noi di rifarlo: chè
primo officio della critica si è di non far dire ad alcuno nulla più e nulla
meno di quel ch'egli ha detto: officio, a cui mancano tutte le scuole esclusive
e parziali, che vanno a cercare nella storia della filosofia, non una notizia
del sistema altrui, m a una giustificazione del proprio; e in luogo di farsi
interpreti degli altri, costringono -li altri a farsi loro apologisti.
dalle false; non assolvere queste in grazia di quelle, nè con danpar
quelle in odio di queste; e cosi nell'approvazione come nella riprovazione
procedere con tutto il rigore, non so lamente della logica, ma anche della
giustizia:chè debito della critica si è di esercitare il diritto di lode e di
biasimo come una funzione non meno morale che letteraria: debito,a cui fal
liscono del pari e i panegiristi fanatici e i detrattori arrabiati; poichè li
uni, predisposti a lodar tutto, scambiano la storia in adulazione; e li altri,
prerisoluti a tutto biasimare, conver tono la critica in maldicenza: e questi e
quelli tanto più rei, in quanto che d'ordinario trattasi di giudicare
personaggi, che non partecipano più alle nostre dispute, e non sono più in
grado di difendersi nè dalle cortigianerie de’partigiani,nè dalle calun nie
degli avversarj. Terzo, Cautela nell'assegnazione delle leggi; - e però non in
durre da fatti particolari, nè dedurre da dozioni generali più di quel che
contengano; professare il dubio, dove ragioni pro e contro interdicono la
certezza; é confessare l'ignoranza, dove il difetto di notizie e di documenti
non lascia penetrare alcuna luce di scienza; tener conto dell'elemento
variabile, che la li bertà introduce nella storia; e non ostinarsi a
geometrizzare tutta la vita dell'Umanità, quasi che ilpensiero fosse suggetto
alla regolarità di una combinazione chimica o di una produzione b o tanica;
evitare con egual diligenza l'errore dell'empirismo, che non sa riconoscere
verun nesso causale tra li eventi umani, e rimette la storia in balia del caso;
e l'errore del trascendenta lismo, che vuole incatenare anche i fenómeni
volontarj all'im pero di una fatalità inesorabile, e ragguaglia tutti
liattimorali alla condizione di effetti fisici: che dovere della critica si è
di studiare la natura in sè stessa, e non di foggiarsela a proprio gusto; e
perciò di apprendere da essa le sue leggi, e non di det tare ad essa le
proprie. Ora, che il regno umano non sia inte ramente governato dalle forze
necessarie, a cui obediscono ine Juttabilmente lialtri regni della natura,ed in
quello operi una forza libera,che in questi non ha luogo:eglièun fatto,lacui
sussistenza ci è cosi nota e,certa, come la coscienza di noi stessi. Ben
si potrà disputare dell'essenza, dell'origine, della costitu zione di questa
potenza superiore, che crea il mondo morale; si potrà allargare o restringere
si la cerchia della sua compe tenza nella vita interna ed esterna del pensiero,
e si quella de'suoi rapporti con le altre funzioni della natura umana ed
universa: ma simili questioni, che riguardano la spiegazione teoretica del
fatto, non detraggono punto all'evidenza della sua positiva realtà, nè valgono
a revocare menomamente in dubio l'ingerenza, che spetta alla libertà
nell'andamento delle cose umane. E con la libertà entra nella storia un
principio,ilquale per rispetto agli altri elementi, tutti fatali ed
invariabili,assume ilcarattere di irregolare, anomalo, perturbativo,e dà
origine ad una serie particolare di fenomeni, assai più complessi, poichè ten
gono insieme del necessario e del libero, del fisico e del morale. Questa serie
pertanto, se è determinata per una parte, è indeterminabile per l'altra;
giacchè libertà e predeterminazione sono concetti, che scambievolmente si
escludono. La storia ammette dunque leggi fisse ed immutabili, in quanto essa
procede a tenore di cause fisiche e fatali; e ammette solo divinazioni,
conghietture, probabilità, più o meno plausibili e ragionevoli, m a non leggi
anticipatamente definibili e indecli nabilmente effettuabili, in quanto essa
dipende da cause m o rali e libere.E la sagacia della critica consisterà nel
raccogliere la maggior somma possibile di probabilità induttive, a fine di
trarre dal passato un qualche lume per rischiarare un po' l'avvenire; e non già
nel trascurare tutto ciò che non quadra alla simmetria preconcetta di un
sistema, per procacciarsi la vana soddisfazione di aver compassato ogni cosa
alla stregua del proprio cervello. Egli è quindi manifesto, come dicendo noi,
la storia della filo sofia,presa nell'ampio giro del suo
significato,convertirsi davvero in una filosofia della storia, non sia questa
da intendersi nel senso dogmatico degli aprioristi, secondo i quali applicar la
filo sofia alla storia equivale a trasformare la storia in una cotal metafisica
imaginaria, che fa dell'uomo un concetto astratto e dell'Umanità una formula
matematica. Un tal genere di specu 20 lazione potrà per
avventura intitolarsi ancor filosofia, m a certo non merita punto il nome di
storia; di quella disciplina, cioè, a cui non è lecito di acquistare un
carattere filosofico, fuorchè a palto di non ismettere mai il carattere
storico,che costituisce la sua stessa natura. E poichè, come storia, è una
dottrina es senzialmente positiva e sperimentale, dee 'pure, come filosofia,
serbare la forma medesima,e procedere con metodo sperimenlale e positivo. Essa,
in luogo di narrare i fatti particolari,ad uso della pretta storia descrittiva,
baderà a raccogliere da ciascuna serie di falli leleggi psicologiche,morali,e
sociali,che ne rampollano; m a le raccoglierà con quello stesso metodo
induttivo, onde le varie scienze naturali ricavano dall'osservazione e dalla
classifi cazione dei fenomeni fisici, chimici, fisiologici, le leggi dell'uni
verso. Solo a questa condizione ci sembra possibile di innestare la filosofia
nella storia, e sopratutto di effettuare l'innesto m e diante la storia della
filosofia. Alla quale ritornando ancora per poco, ci resterebbe da chia rirne
brevemente l'importanza, l'utilità, la necessità,così per sè stessa, come per
le sue atlinenze con le altre discipline. Ma bastano a tal uopo, in tesi
generale, li argumenti stessi, che ci valsero a stabilirne la materia,la forma,
ed ilmetodo;giacchè sono ben poche,per fermo, le scienze a pro delle quali si
possa no addurre titoli eguali per provarle importanti, utili,e necessarie. Per
altro, ciò che sarebbe al tutto superfluo sotto il rispetto teoretico ed in
astratto, può di leggieri tornare assai conveniente in qualche caso pratico e
concreto, che da un singolare con corso delle circostanze di tempo e di luogo
riceva un'impronta tutta sua propria. Ed è il caso nostro. Commendare lo studio
della filosofia colà, dove il pensiero filosofico è nel pien vigore del suo
esercizio, e fiorisce sotto tutte le sue forme, e si svolge largamente,
liberamente in tutta la svariata energia delle sue funzioni, saprebbe di
anacronismo o di paradosso. M a oggi, tra noi,- a che dissimularlo?— pon ècosì.
L’ITALIA, che s'ha primato in ogni genere di studj; CHE HA TANTA PARTE AL PROGRESSO DELLA FILOSOFIA per opera
delle scuole della Magna Grecia di CROTONE, GIRGENTI, VELIA, ecc. ; e che al
cadere del medio evo suscitò nel mondo intellettuale quel gran moto del risurgimento,
e con di esso rimise l'Umanità su la via di ogni riforma e di ogni sco- tu
perta: non occupa più da lungo tempo il seggio,che le pareva che assegnato
dalla natura medesima nel regno del sapere. Le cagioni, che le hanno rapita la
corona scientifica, possono ben vie tarci di imputarle a colpa la sua caduta;ma
non già disentire in questa caduta il peso di una tremenda sciagura. Si, la per
dita della libertà, le sette politiche, le persecuzioni religiose, dominazioni
straniere, le tirannidi nostrali, rendono più che sufficiente ragione delle
misere condizioni, a cui venne dannato negli ultimi tre secoli il pensiero
italiano; e spiegano abbastanza come il genio filosofico, perseguitato a morte
in questa regione che parea divenuta sua patria, dovesse emigrare in altre con
trade, e cercare ospitalità presso altre genti, che li avi nostri chiamavano
barbare, e che a noi tocca invece di salutare mae- al stre. Ma spiegare il
fatto non è distruggerlo; e sieno pur evi. di denti, necessarie, irrefragabili
le sue cagioni, sta sempre vero, che nella storia della speculativa moderna
l'Italia non occupa più, dinanzi alla culta Europa, uno de'primi, bensì uno
degli ultimi posti. Ed è tempo oggimai,
che una tanta umiliazione abbia fine. di Per lo passato potevamo sopportarla
senza troppo rossore,come ni una conseguenza fatale dell'oppressione, sotto di
cui il bel paese di gemeva; m a d'ora in poi la cesserebbe di essere una
sventura, e diventerebbe un'ignominia. Perocchè la massima parte delle fo
barriere, che divideano e smembravano l'italica famiglia, sono cancellate; li
spegnitoj, che l'arte o la violenza avea sovrapostizie
all'ingegno,sonocaduti:anche a noi siapre ilgloriosoarringo dei nobili e liberi
studj; e possiamo correrlo anche noi con ge- in nerosa gara e con nuovo e più
fortunato ardore. Sta dunque a noi di dar l'ultima mano a questo prodigioso
rinovamento d'I talia. Il valor militare e il senno civile l'hanno redenta
dalla servitù politica, e la van componendo a nazione indipendente, libera, e
forte; m a questo risurgimento stesso o non sarebbe d u raturo, o rimarrebbe
sterile e vano, ove non avesse il suo de N le a 20 210 zid Sg TO de SE gno
riscontro in una restaurazione scientifica e letteraria, capace et 1 in di redimerla pure della sua minoranza
intellettuale, e di resti On tuirle nel mondo delle idee il luogo
corrispondente a quello, Ta che si è rivendicato nel mondo degli Stati. -a Ed
invero, la vita dei popoli, non altrimenti che degli indi eu vidui, proviene
dal complesso di un doppio ordine di fatti e di re leggi: l'uno fisico, e
l'altro morale, di cui ciascuno risponde ad una serie di forze rispettivamente
analoghe. E nella costituzione le sociale del genere umano egli è fuori di
dubio, che le forze he fisiche vanno subordinate alle forze morali,siccome lo
strumento 10 all'opera, il mezzo al fine. Che se da un lato è verissimo,non
alla ragione il suo impero; o sono esse medesime effello d'un i disordine
morale, produtto dall'ignoranza e dall'errore nelle co; 'scienze, e il loro
rimedio non può venire se non da un grado à superiore di educazione e di
cultura publica, cioè da un pro li gresso intellettuale. L'indipendenza, la
libertà, la grandezza dei popoli hanno dunque il fondamento della loro durata e
la ra B.;dice del loro incremento nelle idee,nelle credenze,nelle opi é nioni,
in cui sono essi allevati;vale a dire,insomma,nelle con je dizioni della loro
vita mentale. Ora l'alimento più sano, più sustanzioso del pensiero non è e
forse la filosofia? Non è dessa lo studio più idoneo ed efficace 0 a svelare, a
combattere,a distruggere i pregiudizj, le supersti tizioni, li errori d'ogni
fatta, che mantengono i popoli nello stato o di fanciullezza, e li conducono
troppo spesso ad esser vittime - infelici e strumenti inconsapevoli di servitù?
Non è dessa il ti a rocinio più sicuro per informare l'intelletto al
riconoscimento.del vero,la ragione al culto della scienza, l'ingegno al gusto a
del bello, l'animo all'annore del bene, la coscienza all'adempi mento del
dovere e al rispetto del diritto, e tutto l'uomo all'e sercizio delle virtù
private e publiche, domestiche e sociali?. Non è dessa la fonte viva, da cui
tutte le altre scienze attin za > sempre quest'ordine naturale reggere in
effetto le sorti delle n a nezioni, e non di rado prevalere la violenza al
diritto e alla giu 1 stizia; dall'altro però non è men vero, che o simili
perturba rizioni sociali sono temporanee, e alla lunga lasciano ripigliare 1,.
e gono i principj, i metodi, i criterj del loro insegnamento? Non
è dessa pertanto, in ogni periodo della storia, la misura più certa del grado
di potenza, di energia, e di fecondità, a cui per venga di mano in mano il pensiero?
Nella grand' opera della restaurazione scientifica d'un popolo spetlano dunque
alla filo sofia le prime parti; e sarà quella tanto più pronta,prospera, e
permanente, quanto più vasta e profonda sarà la cultura di questa. Laonde, oggi
che l'Italia, sciolto il voto di tante gene razioni, e raccolto il frutto di
tanti martirj, saluta finalmente l'alba di un'êra nuova, deve insieme provedere
alla sicurezza e stabilità del suo riscatto politico mercè di un rinovamento in
tellettuale e morale, cioè prima e sopra di tutto, filosofico. Del quale poi,
chi potrà mai e chi dovrà pigliarsi il carico precipuo, se non quell'eletta
gioventù che si consacra di pro fessione agli studj? Essa, che ha già pagato
eroicamente il d e bito suo alla patria col valore del braccio, si ricordi che
la p a tria stessa attende da lei altre prove di devozione,più pacifiche e
riposate, ma non meno ardue e magnanime,col valore dell’ ingegno. Essa, che ha
mostrat, fra l’ammirazione e d il plauso del mondo civile, come nel sangue
italiano sia ridesto il ge nio della guerra; s'accinga a provare, con egual
entusiasmo di fede e di sacrificio, come riviva é rifiorisca del pari nell’in
telletto ilaliano il genio della sapienza. E poichè le due grandi e culte
nazioni, che al di là delle Alpi ricingono l'Italia, hanno oggimai dovuto
persuadersi, che al di quà è risurto un popolo degno di star loro a fianco o di
fronte coll'armi; oh ! possano apprendere bentosto, che questo popolo stesso
intende di emu lare le loro glorie, non solo marziali, ma anche scientifiche;
intende di gareggiare con esse, non solo di coraggio e di p o tenza, ma anche
di studio e di sapere; intende che d'ora in nanzi,quando
essedescriverannoilmappamondo filosofico,non abbiano più a dividerlo, con
orgoglio purtroppo da lunga pezza non affatto temerario,in duesoleregioni: Franciae
Germania; ma debbano, buono o mal loro grado, disegnarvi una terza divisione, e
chiamarla Italia. Due parti essenziali del metodo: la
critica, e la teorica. Ordine tenuto dall'Autore nella pu blicazione de' suoi
scritti. Questione preliminare dei rapporti fra la filosofia e la religione.
pag. S 2. Sistema che nega il primo termine del rap porto, cioè la filosofia. -
Dottrina fondamentale del cristianesimo. Spoglia la filosofia d'ogni carattere
di scienza razionale. Circolo vizio Filosofia e cristianesimo son termini, che
si escludono a vicenda S3. Sistema che nega il secondo termine del rap porto,
cioè la religione. Dottrina degli Enci clopedisti. La scuola rivoluzionaria.
Esposizione della teoria di Lemaire, di FERRARIi, di Proudhon, di Feuerbach, di
Marx e Ruge. so. Critica di questo sistema. Vero stato della questione.
Universalità e perpetuità della re ligione. Non se ne può attribuire l'origine
al l'arbitrio degli individui. È un elemento natu rale dell'Umanità.
Testimonianze di 0. Müller, di P. Leroux, e di Lamennais. Objezione di
Proudhon. - Risposta. La religione si tras forma sempre, ma non muore mai.
Confessione di Feuerbach. Giudizio di G. Villeneuve Sistema che confunde i due
termini insieme. Alcuni riducono tutta la religione alla sola mo rale. Dottrina
di Kant, di Saint- Simon, d'altri Riformatori. Critica di tale sistema. -
Necessità d'una dot trina teoretica per la morale. La morale della. carità e
della fratellanza non fu un trovato dell'Evangelio. - Lo han confessato li
scrittori eccle siastici antichi. Documenti. Li Esseni ei Terapeuti. -
Parallelo di Reynaud. - Giudizio di De Potter. La carità e la fratellanza del
cristianesimo sono il rovescio del socialismo. Sentenza di Stern. Altri
immedesimano affatto la religione con la metafisica e la scienza. Esposizione e
critica dei sistemi di Leroux, di Reynaud, di La mennais, e di Comte. Sistema
che separa affatto i due termini l'uno dall'altro. Professione di fede
dell'ecletticismo. Contradizioni di E. Saisset, già ben notate da F. Génin. La
bandiera dell'ecletticismo di sertata. Altre contradizioni di E. Martin. Vani
tentativi per conciliare il razionalismo col sovranaturale. scenza. Conclusioni
che derivano dalla critica di questi sistemi. — Condizioni generali del
problema da risolvere. Significato preciso dei due termini: la religione come
dogmatica, e la filosofia come metafisica. Il rapporto d'unione fra loro è
nell'u nità del loro oggetto. Il rapporto di distinzione non può dedursi che da
una teorica della cono Conoscenza sensibile e razionale. Sensazioni,
imaginazioni, e sentimenti. Per cezioni, credenze, e concetti. Sentimento pri
mitivo dell'Assoluto. — Cognizione razionale, che ne proviene. La credenza,
propria della reli gione. Il concetto, proprio della filosofia. Simboli e
teoriche. Influenza reciproca della filosofia e della religione. Perpetuità di
am bedue. Giudizio di Strauss. Sistemi che mantengono tutti e due i termini; ma
pongono fra essi un rapporto inesatto. Ana lisi critica dei sistemi di Constant,
di Trul di Villeneuve, di Mamiani ROVERE. Filoso fia della religione di Hegel,
esposta da VERA.Varj significati, in cui si prende il razionalismo.
Razionalismo teologico. Dogmatismo. Ontologismo. Idealismo. Il solo sistema,
che il razionalismo escluda, è il dogma tismo. Caratteri positivi e negativi
del razio nalismo. Parte scientifica e parte critica, - lard, Carattere
objettivo della filosofia antica, e subjettivo della moderna. Necessità e
importanza della psi cologia. Classificazione incompleta delle facultà umane. =
Trascuranza del sentimento nelle scuole italiane Classificazione proposta dagli
autori scolastici » Sistema di GALLUPPI (si veda). Sistema del Mancino. Vizio
commune di questi due sistemi Analisi critica della teoria del Poli X -
Esposizione e censura della teoria di GIOBERTI (si veda). Pregio commune di
queste due teorie Analisi dei due sistemi del Rosmini SERBATI. Assurdità e
contradizioni. Rosmini confutato da Rosmini Saggio della sua modestia. Suoi
giudizj in torno alle scuole tedesche, alla filosofia moderna, e al nostro
secolo. — Il calculo degl'interessi mate riali. Come Rosmini intenda la storia
Danni, che recò alla filosofia la negligenza del sentimento. - Principio della
classificazione psi cologica. - Non si può riporre nel subjetto. E ne pure
nell'objetto Se il senso abbia un oggetto. Giochi di pa role del Rosmini.
Contradizioni e sofismi. Il principio della classificazione sta nel rapporto
del subjetto con l'objetto, cioè nella fun zione. La classificazione delle
funzioni deriva > » dai caratteri de' fenomeni conoscitivi, Metodo induttivo
di Bacone. Avvertenze e canoni di Garnier Tradizione filosofica su la divisione
delle facultà in senso e ragione Se fra il sentire e l'intendere passi una
differenza generica, o specifica soltanto. Strane contradizioni di Gioberti e
di Rosmini Non havvi una differenza generica ed essenziale fra il sentire ed il
conoscere. Prova filologica. Valore di certe locuzioni ammesse an che dai
filosofi. Il senso commune. Séguito delle contradizioni di Rosmini. Il buon
senso. Il senso intimo. Sofismi di Rosmini circa la natura della sensazione. Il
senso e l'intelletto si identi ficano nel genere, e si distinguono nella specie.
Dottrina d’AQUINO, e del Poli.. La funzione generica della conoscenza si divide
in due funzioni specifiche: il sentimento e la ragione. Tre serie di fenomeni
del sentimento. Sensazioni. Errore della scuola psicologica francese, Dottrina
di Matthiae. Imaginazioni. Sentimenti. Elemento proprio, ed elemento commune
dei varj modi della conoscenza sensibile. Sono spontanei, immediati, concreti
Tre serie di fenomeni della ragione. Percezioni. Credenze. Concetti. Elemento
proprio ed elemento commune dei varj modi della conoscenza razionale. Sono
riflessi, - mediati, - astrattivi. Assurdità del Rosmini su lo sviluppo cro
nologico della conoscenza. I bambini filosofi. La nipote di venti mesi. Curiosa
confessione Funzioni pra Unità dello spirito umano. Intimo nesso delle funzioni
conoscitive. tiche. Classificazione generale Analogie e differenze tra questo
sistema e quello di Franck, di Garnier, di Lamennais, di Leroux. Elogio e
critica della teoria di A. Martin. La divisione delle facultà in attive e pas
sive è falsa e contradittoria. Li atti attivi, e li atti passivi del Rosmini. È
erronea del pari la di visione in facultà objettive e subjettive. Sofismi del
Rosmini circa la subjettività del sentimento e l'objettività dell'idea. Quali
sieno le conoscenze reali ed oggettive, e quali le suggettive ed astratte.
Dottrina di FERRARI. Antitesi del dogma tismo Objezioni e risposte. Che cosa
sia la verità. S'ella esista in sè stessa, fuori della mente. Paralogismi del
Rosmini. Egli non si prende cura e timore delle conseguenze. · Non ha paura
dell'assurdo. Assurdità e contradizioni della sua teorica delle idee. Caratteri,
che differenziano l'uomo dal l'animale. Della cognizione delle essenze. Come il
Rosmini fa ragionare i moderni. Come ragionino davvero. Storchenau, Dmowski.
Scempiaggini che Rosmini affibbia agli antichi. Conoscere l'essenza d'una cosa,
per lui, vale saperne il nome. Origine delle idee. Confini della scienza umana.
Divisione delle scienze. Due specie diverse di credenza. Elogio di TESTA.
Saggio delle sue dottrine. Kant, Esame della teorica di BIANCHETTI. Şuoi
meriti. Critica delle sue objezioni contro la dottrina del sentimento. -Egli
stabilisce la que stione in termini contradittorj. - Equivoco dell'as soluto.
Se siano più mutabili i sentimenti, o le idee. Certezza della cognizione.
Conseguenze della teoria platonica delle idee. Guida sicura del | l'Umanità è
la natura. In qual senso la verità, la giustizia, e la bellezza sieno assolute.
Cognizione dell'io fenomeno e dell'io sustanza. Qual parte abbia il sentimento
nella morale. L'assoluto formale, e l'assoluto reale. La regola delle azioni.
Applicazione della teoria psicologica alla pedagogia, e alla storia. - Il
sentimento del Vero e la filosofia della conoscenza. Il sentimento del Bello e
la filosofia dell'arte. - Il sentimento del Bene e la filosofia della morale e
del diritto. Il senti mento
dell'Infinito e la filosofia della religione e del l'assoluto. Critica degli
argumentidel Rosmini contro la teorica del sentimento religioso. Se possano
collocarsi tutte le religioni sotto una stessa cate goria. La prova rosminiana
è logicamente un so fisma. Storicamente è una falsità. Dottrine cristiane
anteriori al cristianesimo. Carattere del l'Evangelio. Un filosofo inquisitore.
L'accusa d'empietà. Logica buffonesca di Rosmini SERBATI- Sua storia
dell’empietà. Contradizioni ed assurdità del suo catechismo. Insulti
all'Umanità. Ca lunnie in luogo di ragioni. Verità assoluta e ve rità relativa
della religione. Il Dio vero e il Dio falso. L'infallibilità del dogmatismo.
Rosmini dichiara bestia chi non pensa come lui. Il fondo e le forme della
religione. Chi ammette il senti mento non lascia la via della ragione. La
ragione e il sentimento non sono contrarj. Subjettività della religione.
Trasformazioni dell'idea di Dio. L'uomo ha una religione perchè è uomo. Come
nella dottrina del sentimento vi sia la verità, la certezza, e la morale. I
motivi della fede. Con tradizioni del Rosmini intorno alla natura. Là legge e
l'obbligazione morale. Dove cominci l'im moralità delle religioni. La credenza
non precede il sentimento. Avvertimento ai giovani stu diosi Programma d'un
corso di Filosofia. Il razionalismo e la fede. Distruttore d'ogni fede è il
dogmatismo. Differenze reali e pratiche fra il razionalista e il dogmatico.
Analisi e critica dell'opera di NALLINO. Del Sentimento. Dottrina di C. Lemaire
intorno alla verità. C. Esame di una lettera del vescovo d'Annecy all'Armonia
su l'educazione. Legge storica del progresso, giusta il sistema di Comte e di
Ferrari. E. Inno di Cleanto a Giove tradutto da POMPEI. Dottrina di Franck
intorno alla fede. Teorica del Sovranaturale Introduzione allo studio della
Filosofia. Della formula ideale. Del necessario e del contingente. Dell'intelli
gibile. Della esistenza dei corpi. —Dell’individuazione. Dell' evidenza e della
certezza. Dell'origine delle idee. De' giudizj analitici e sintetici. Della
natura del raziocinio Della universalità scientifica della formula ideale.
-Della matematica. Della logica e della morale. Della co smologia Della
estetica Tavola delle trasformazioni ontologiche della formula ideale,
corrispondenti ai vari stati psicologici dello spirito umano Teorica dei Primi.
Della dialettica La grande innovazione, che GIOBERTI portò nella filosofia, è
quella dei vocaboli e delle locuzioni. Il suo sistema però è sempre il vecchio
dogmatismo della scolastica. -Egli 1 s'era proposto di ricondurre la scienza
ideale alle credenze catoliche e all'obedienza della chiesa, onde l'aveano
sviata; il metodo, il principio, e il criterio della filosofia moderna, e volea
sostituire: I. Come metodo, l'ontologismo al psicologismo. Definizione dei due
metodi. Il psicologismo osserva, e l'on tologismo viola il primo canone di una
buona metodica, che è di procedere dal noto all' ignoto; - parimente il
secondo, che è di camminare dal certo all'incerto. Li miti del psicologismo.
Conseguenze, che il filosofo ne dee tirare. Gioberti ba ragione contro i
psicologisti dogmatici, e noncontro i psicologisti critici. Il processo
psicologico non è ipotetico. L'ontologismo invece non può essere che una
ipotesi. L'uomo di Gioberti, e l'intuito diretto, immediato della creazione.
Come principio, la creazione al panteismo. Che valore debba attribuire la
filosofia al panteismo, ed ai varj sistemi ontologici e cosmogonici. Anche la
creazione, nel sistema di Gioberti, è una ipotesi. - Non la stabilisce su
d'alcuna prova. Tutti i sistemi possono appropriarsi il suo ragionamento.
Gioberti non prova il fatto capi tale del suo sistema, che è la notizia della
creazione nel l'intuito primitivo. Anziquesto fatto medesimo, in virtù de' suoi
principj, non è ammissibile. Scambia la que stione dell'esistenza con quella
del modo. - In luogo di tre termini ne abbiamo un solo. Differenza essenziale
fra l'azione dell'Ente e quella degli esistenti. Il sistema di Gioberti si
risolve o in una contradizione formale, o in un'asserzione gratuita
Comecriterio, il sovranaturale al razionalismo. cosa intenda Gioberti per
sovrintelligenza.-Un commento favoloso di
Mauri. – La sovrintelligenzaèuna facultà contraditioria ed assurda.
Stato della questione fra il razionalismo ed il teologismo. Per la filosofia,
la fede non può esser altro che una maniera di cognizione. La distinzione dei
sovranaturalisti fra la certezza o evi denza estrinseca ed intrinseca non
giova. Il sovrana turale o non è oggetto di conoscenza, o il suo criterio è la
ragione. I fatti sovranaturali, a cui ricorre Gioberti, o non sono fatti, o non
conchiudono punto. La crea zione. La parola. La beatitudine. La rivelazione. Il
sovranaturalismo consiste nel fondare il noto su l'ignoto, o nel dedurre
l'evidente dall' incomprensibile. 329 Una confutazione efficace del
razionalismo non è pos sibile, fuorchè a patto di ammettere due specie diverse
e contrarie di verità e di ragione Come risultato finale, la teologia alla
filosofia. È un corollario. Gioberti stesso lo ha dichiarato in mille luoghi.-
Suamoltiforme definizione della filosofia. Saggio di commenti, con cui Gioberti
laspiega. Anche per lui, come per Rosmini, la filosofia è la serva della
teologia. Il signor Mauri lo nega formalmente; formalmente lo afferma. Egli
vede lucidamente il 'nulla. E mostra d'intendersi cosi bene di teologia, come
di filosofia. Argumento di Gioberti per conciliare il primato della teo logia
con la libertà della scienza. E un controsenso. L'unico principio di ordine nel
regno delle idee e la Gioberti con la sua teorica del magisterio e della regola
autorevole condanna il proprio sistema. Egli non credeva alla filosofia, non
era filosofo. Suoi improbi. E contro Descartes, como rappresentante di essa.
Varie classi d' avversarj. -La critica presente si rife risce ai soli avversarj
delle dottrine filosofiche di Gioberti. Nella questione del metodo, suoi
avversarj naturali do vean essere i psicologisti critici. -Ma'in Italia una
scuola critica non esiste. TOMMASEO. MANCINO.
Mamiani ROVERE. I psicologisti rosminiani. Questione fondamentale tra Gioberti
e Rosmini. La critica di Gioberti distrusse la metafisica del psicologismo. E
la critica de' rosminiani disfece la metafisica dell'on tologismo. Il sistema
di Kant riceve una nuova conferma dal fatto stesso de' suoi detrattori. Lato
comico della controversia fra Gioberti Rosmini. Conclusione, che ne dee trarre
la filosofia e l'Italia. Nella questione del principio, avversarj di Gioberti
avrebbero dovuto essere i panteisti. - Ma nella patria di Giordano Bruno il
panteismo non ha una scuola. Si levarono inyece contro Gioberti i difensori
officiali della creazione, e lo accusarono di panteismo. Mala fede di
questiaccusatori. - Protesta di GIOBERTI- Il panteismo é inevitabile nel
sistema psicologico del dogmatismo. La critica dei teologi era una cavillazione
ed una sofistiche ria. Gioberti non è panteista. Il che però non gli torna a
lode Nella questione del criterio, avversarj di Giobertinon furono i
razionalisti, ma i teologi. E l'accusarono di razionalismo. Favole, che un
frate diede ad intendere a otto vescovi degli Stati Romani. Gioberti ebbe il
torto di prenderle sul serio, Sua protesta. L'accusa non è giustificata dalla
guerra, ch'egli mosse ai gesuiti. Ma in virtù de suoi stessi principj egli non
poteva lagnarsi della sentenza de' teologi L'ordine degli avversarj, eziandio
quanto al risultato ultimo della controversia, apparvorovesciato. Gioberti non
fu combattuto in nome della filosofia. Vera filosofia, nel senso moderno, non
esiste ancora in Italia. Quivi regna tuttora la scolastica. Fu in quella vece
combat tuto dai teologi. E con ragione. - Problema della con ciliazione fra la
ragione e la fede. Soluzione dei razio nalisti, o dei teologi. Gioberti s'era
condannato da sè stesso con la sua professione di fede. Il catolicismo era la
sua religione, e lo trattavada catolico. Opposizione assoluta della fedee della
ragione. 0razionalismo, o teologismo: nessuna via di mezzo. L'esempio di
Gioberti è una conferma di questa verità o di questo fatto Opere postume di
Gioberti. Riforma catolica della chiesa Filosofia della rivelazione - Divisione
del programma. False accuse che Mamiani dà all'età nostra. Egli nega i fatti
più notorj ed evidenti. Afferma, che oggidi la mente umana ha perduta una sua
facultà naturale. Se ella sia diventata inetta a conoscere i sommi principj
Mamiani taccia l'età nostra d'inettitudine a conoscere le dottrine, che ogni
pro fessore insegna, ed ogni studente impara. Anche l'ac cusa di empirismo è
vana. L'influenza dell'empirismo grosso e cieco non esiste. V' ha però un
empirismo no grosso, nè cieco, a cui la scienza rende omaggio. E una volta
Mamiani lo riconosceva anch'egli come il metodo naturale. Testimonianze del
Rinovamento, dell'Onto logia, e dei Dialoghi. Egli ora nega perfino i pro
gressi dell'industria. Per questo rispetto, lo scopo del Ľ Academia è inutile o
dannoso Il titolo dell' Academia. È un idiotismo. A che razza di patrioti possa
piacere, Abuso che Mamiani fa dell'espressioni di filosofia italica, e italiana
- L'antico moderno. Ritratto ch'egli fa di questa filosofia. È
un'amplificazione retorica da declamatore. Che Ma miani 'abbia inventato o
scoperto una nuova storia? Il suo giudizio è falso, o si riferisca alla scuola
pitagorica: Testimonianze diFréret, -Tennemann. Degerando, Ritter, e del
Dizionario delle scienze filosofiche. O s'intenda della scuola eleatica. O
anche delle dot trine de' nostri filosofi riformatori al principio dell' era
moderna. Conseguenze del giudizio di Mamiani intorno all'eccellenza della
filosofia antica. Risposta di Mamiani a Mamiani ROVERE. Discussioni non
filosofiche. Altre, di cui s'accenna il titolo solo o si fa un indice sommario.
Paragone, che Mamiani instituisce fra l'Academia di scienze morali e po litiche,
e la sua. Strana censura dell'Academia fran cese. I difetti del secolo e della
nazione. Se un'A cademia li possa correggere. A chi appartenga questo officio
educativo. Al carattere del secolo e della nazione partecipano paturalmente
l'individui. - E il Genio stesso, Se l'Academia francese dipendesse troppo dal
potere ministrativo. Fondazione Statuto. Soppressione, rinovazione, e stato
attuale. Le moltitudini di Francia. -Mamiani rinfaccia loro ingiustamente la
preoccupazione dei materiali interessi. Che cosa farebbe il Conto della Rovere,
qualora si trovasse nel caso di quello moltitudini, Forma dell'intelligenza
francese. - Mamiani la taccia di poco idonea agli studi speculativi. Falsità o
calun nia. Se moltidell'Instituto seguilino ancoraledottrino superficiali del
secolo andato. L'Academia di Mamiani. Stato personale dei fondatori e socj
primarj. Sono tutti indipendenti d' un nuovo genere: impiegati. -Pro blema,
cheMamiani dovrebbe proporre a 'suoi colleghi. Un elogio degl' Italiani
peggiore d'ogni insulto. Nuove materie di filosofia italica antica. Mamiani ac
cusa di superficialità e leggerezza tutti i fisiologi. E liene per sodezza e
profondità l'ignoto e l'assurdo. Domanda di un illustre scrittore piemontese.
Risposta degna di un casista. - La religione di Mamiani e della sua Academia è
un enigma. - Questione della sovranità e del diritto. Teoria di Mamiani. Li
ottimati. Formula: Dio e la legge. Critica di questa teoria e di questa formula.
Doppio senso del problema intorno alla sovranità. Un fatto di natura, che non
s'è mai effet tuato. Il diploma d'ottimo e di sapiente. Dio e Dio. Anche
Mamiani crede alla favola, che di Tomaso d'A quino fa un dottore della
democrazia. E cita lopu scolo De regimine principum. -Ad ognuno il suo. Analisi
del famoso opuscolo. Mamiani dunque non l'avea letto. Un'impertinenza del
segretario Boccardo. II suo discorso su la filosofia della storia è un tessuto
di contradizioni, d’arzigogoli, e d'assurdità Discussioni che non meritano il
nome di filosofiche. Discorso proemiale di Mamiani. Critica. La censura filosofica che Mamiani fa
dei tedescbi è ingiusta ed assurda. L'esperienzae l'Assoluto. Fede e temerità
dei filosofi tedeschi. Così ne avessero un po' l'ITALIANI. I tilosofi e la
rivoluzione. - I Tedeschi e l'ITALICI. Errori di Mamiani intorno allo
scetticismo. È erro Se debbano querelarsene i savj e li onesti. Quali siano i
suoi confini. Chi reca guasti nelle intelligenze e nei cuori è il dogmatismo, e
non lo scetticismo. Nuova descrizione, che Mamiani fa dello scetticismo. pea.
Mamiani grida allo scetticismo senza conoscerlo. Che cosa dee fare per
circoscrivere la vera signoria dello scetticismo. - Ideo confuse e stravolte
circa la reli gione. L'asserzione di Mamiani, che il secolo torna a religiosità
per impulso di ragione, è un doppio contro senso. Prove che non provano nulla.
La pianta e le radici della fede. Mamiani chiama religione ciò che tutte le
religioni chiamano empietà ed ateismo. Dev'essere un' ironia. La piaga © la
peste dell'epoca nostra è l'ipocrisia di certi scrittori. Sarebbe tempo che
Mamiani ROVERE cessasse dall'equivocazione e dall'anfibologia. E facesse una
professione di fede chiara e precisa. Almeno la gioventù conoscerebbe le sue
guide. Dottrina di Mamiani su la filosofia della storia. Qual mezzo rimanga ad
un popolocorrotto per tornare alla li bertà e alla virtù civile. Il popolo, Le
politiche in stituzioni, - I metodi educativi, L'incremento del sa pere
commune, non pajono a Mamiani una ragione sufficiente. Egli muoveda un'ipotesi
assurda. E da un'enu merazione incompiuta. Donde possa ricavarsi la soluzione
delproblema. -Questione del progresso – Definizione di Mamiani. Sommario del
suo primo discorso. Contradizione fondamentale. Sommario del secondo discorso.
Una conclusione che rovescia le premesse Se Ma miani ammetta, o no, il
progresso, è un mistero. Lo affermae lo nega ad un tempo. Due grandi scoperte di
GARELLI. Un'altra di TORRE. Li applausi dell Academia. L'eletto parto d' un gio
vine e raro ingegno. Altra e più mirabile scoperta di BONGHI. Ê riescito a
capire che i filosofi antichi non erano teologi cristiani. Fuori della chiesa
catolica l'anima catolica non può trovarsi. Concetto ch'egli s'è formato della
filosofia italiana. Le viscere e le croste dei dogmi cristiani. L'estremo della
loro possapza re stauratrice. Bonghi lo hanno già restaurato perfettamente.
Discorso proemiale di BONCOMPAGNI su li officj civili della filosofia. Sommario.
Diritti della ragione. Libertà della filosofia. Libero esame. Lite fra li
ettici e la umana generazione. Origine e causa dello scetticismo. -Eccesso dei dogmatici
edegli scettici. Me todo di combattere lo scetticismo. Se la filosofia moderna
lo posseda. La filosofia e il paganesimo.
Il cristianesimo e la filosofia. Accordo della fede e della ragione.
Torti del secolo Filosofia scozzese e tedesca. La filosofia moderna non ha
finora adempiuto i suoi officj. Speranza fallace di un riposo. Dove si la vera,
sana, ed utile filosofia Critica di questo discorso.. Il figlio degno della
madre. - Il discorso di BONCOPAGNI è un paralogismo. Le premesse confutano la
conclusione. La conclusione rovescia le premesse - Diritti della filosofia
verso il cristia nesimo. Boncompagni dee riformare le premesse, o la
conclusione. L'esempio degl'instauratori della filosofia moderna non prova
nulla. Il metodo italianissimo dei filosofi italici ministri di Stato. Lo
scetticismo è la pie tra d'inciampo anche per Boncompagni. - Cinque affer
mazioni, che son cinquo falsità. Contro di chie di che combattano li scettici.
Di che dubitino. Se ricono scano il progresso del pensiero umano verso la
verità. Che verità e che scienza impugnino. Un altro discorso di Boncompagni su
la libertà d'inse gnamento. Perchè non se no facia l'analisi. Conci liazione
della libertà del pensiero con l'autorità. Tre parole convertite in principi
essenziali alla vita intellet iuale e morale dell'uomo Per Boncompagni la
massima parte degli uomini sono bestie. E l’Inquisizione è un Ufficio veramente
santo. – L'autorità veneranda dei birri. Che risposta e che trattamento
dovrebbe aspettarsi Boncompagni, se i suoi avversarj gli applicassero i suoi
stessi principj Discorso di SPAVENTA su i principj della filosofia pratica di BRUNO.
La prima e l'unica lodė data a chi la meritava. Quel dotto discorso è la
critica e la satira più acerba della
filosofia italica. Sommario. Il proe mio. Fondamento della filosofia pratica.
Forme della moralità e del diritto: la verità. La prudenza. La filosofia. La
legge. La giustizia pupitrice. Il governo. Il lavoro. La religione. Sviluppo
della idea di BRUNO nella storia della filosofia. Spinoza. Kant. Hegel. Il
principio essenziale del cristianesimo. L'identità della natura divina e della
natura umana è un'eresia e non un dogma. I dogmi cristiani della creazione e
del l'incarnazione l'escludono. Il cristianesimo avrebbe regnato per sedici
secoli, senza nè pur esistere. Ne seguirebbe che una religione nasce allorchè
muore. Lo religioni orientali non avrebbero cominciato a trionfare che su la
fine del secolo passato. La rivoluzione francese e il cristianesimo. La
filosofia moderna e la rivoluzione non possono dirsi una realizzazione
dell'Evangelio. - I germi delle idee. Il criterio comparativo delle religioni
non è il germe o la sustanza dell'idea, ma la forma del sentimento. Analogia
del cristianesimo conle religioni antecedenti e con la democrazia moderna. Non
bisogna chiedere, nè attribuire ad un'instituzione ciò ch'essa non è destinata
a dare. Rapporto del razionalismo co ' l cri stianesimo. Legge di successione e
di progresso nella storia delle religioni. - Importanza d'una questione di
parole. Bandiera dell'autorità e della libertà Cicalata di un principe Torella.
E il segretario la chiama elegante. Giunta peggiore della derrata. La
moderazione dei sedicenti moderati. Origine e defini zione del socialismo,
secondo l'onesto e moderato principe TORELLA. Risposta per le rime. Mamiani con
la sua Academia non ha recato nessun vantaggio alla filosofia. Ha fatto grave
torto all'Italia. Patriotismo fanatico ed esaggerato. E un errore nelle
questioni politiche. On assurdo nelle scientifiche. Scambia l'amor della patria
con una vile piacenteria. L'Italia e la filosofia moderna. Il primato
dell'ignoranza. Quale dovrebb’ essere il programma filosofico di un ' Academia,
che volesse meritar bene del l'ITALIA. Ma in Italia non si potrebbe attuare.
Che cosa dovrebbero fare i politici e i filosofi patrioti. Occasione e
argumento dell'opera. Nuova genía di filosofanti. Vanità de' loro sforzi, e
consola zione della filosofia. Se la divisione de' giudizj in analitici e
sintetici fosse già fatta da Aristotele (Rosmini ), V. O d’AQUINO (Balmes), o
da Locke (GALLUPPI) o da Hume (Fischer ). Divario fra la teorica di Hume e di
Kant. Dichiarato da Kant stesso. Due edizioni della Critica della Ragione Pura.
Stato della questione. Valore della formula: A è B; la differenza tra i giudizj
analitici e sintetici non dipende dall'essere contenuto, o no, il predicato nel
subjetto Nè dall'essere identico, o no, il pre dicato co ' l subjetto. I
giudizj: Tutti i corpi sono estesi, e Tutti i corpi sono pesanti, non
differiscono formalmente tra loro. Il giudizio analitico di Kant è il giudizio
categorico in genere, ed il giudizio sintetico è un giudizio impossibile.
Relazioni dei concetti in ordine alla loro estensione e comprensione. Il
concetto di corpo include la nota della gra vità non meno che dell'estensione.
Vale la stessa legge per i giudizj empirici e particolari. Confusione che fa
Kant dell'analisi con la sintesi, e della forma sintetica con la forma
contingente del giudizio. Inesattezza del divario ch'egli stabilisce fra la
cognizione a posteriori, a priori, e pura. – Cognizione propriamente empirica,
propriamente pura, e mista; universalità e necessità del giudizio. quale classe
appartenga il giudizio: Tutti i corpi sono estesi. E della stessa classe è il
giudizio: Tutti i corpi sono pesanti. Erroneo commento che fa a Kant il suo
traduttore italiano. Determi ne del doppio processo intellettuale d'analisi e
sintesi. Carattere differenziale dei giudizj ana litici e sintetici; concetti e
giudizj primi. II carattere analitico e sintetico non può ridursi nè alla mera
conversione de' giudizj, nè ad una semplice diver sità di funzione del subjetto
e del predicato. Due testimonianze di Kant. Importanza della teorica del
giudizio sintetico per la questione dell'ori gine delle idee. Sorte diversa
ch'ebbero le due parti della dottrina kantiana. Officio dell'esperienza ne'
giudizj analitici e sintetici di Kant, III. Nella sintesi empirica e pura.
Valore del giudizio: Tutto ciò che avviene ha la sua causa; e necessità de'
giudizj sintetici a priori in tutte le scienze.Valore de'giudizj matematici: 7
+5 = 12; La linea retta è fra due punti la più breve; Il tutto è eguale a sè
stesso, e maggiore della sua parte. Carattere logico di tali giudizj. Principj
della fisica, E della metafisica. Il mistero de' giudizj sintetici. Il problema
universale della ragione pura: Come sono possibili i giudizj sintetici a
priori? Se da esso dipenda l'esistenza della metafisica COUsil, Seguaci e
spositori di Kant. Prima divisione che fa Cousin del giudizio; medesimezza
logica e psicolo gica delle due specie. Riduzione del giudizio ana litico al
categorico in genere e del sintetico all'im · possibile. Suddivisione del
giudizio sintetico. Errori di Cousin nell'interpretazione de' giudizj: Tutti i
corpi sono pesanti, e Ogni mutamento ha una - Non tutti i giudizj analitici
sono i priori. Due corollarj di Cousin su l'origine delle co gnizioni e su la
natura de' giudizj. Scambio che fa il Testa del giudizio sintetico con
l'empirico e dell' analitico co' l pur'o. Objezione e risposta; confusione del
carattere sperimentale con la contingenza, e del carattere puro con la
necessità. Pos sibilità de'giudizj sintetici a priori; principio di cau salita.
Le definizioni sono giudizj analitici sintetici. Definizioni geometriche e
costruzioni. Definizioni genetiche e concezioni. non Erronea nozione del
giudizio sintetico proposta da GALLUPPI con l'esempio: La nere è fredda.
Erroneo paragone di questo giudizio con l'altro: triangolo ha tre angoli;
assurdità del giudizio sintetico kantiano dimostrata dallo stesso Galluppi. ILa
divisione del giudizio in analitico e sintetico non può desumersi nè dalla
necessità o contingenza della relazione fra su bjetto e predicato, nè
dall'impossibilità o possibilità dell'opposto. Non v'ha differenza per questo
rispetto fra i giudizi empirici e puri. Altro pa ragone fallace tra il giudizio:
La nere è freddo, e Due quantità eguali ad una terza sono eguali fin loro. -
Tolto il predicato, può essere distrutta o no l'idea del subjetto cosi nei
giudizj empirici come nei puri. Erra il Galluppi non meno di Hune nel determi
nare quali sieno i giudizj, di cui è inconcepibile l'op posto. Confunde l '
intelletto speculativo con l'intelletto pratico. Fallacia della sua argumen
tazione contro la possibilità de ' giudizj sintetici a priori. S'aggira in un
circolo vizioso. Necessita fisica e necessità logica, repugnanza assoluta e
repu gnanza ipotetica o relativa. Contingenza del giu dizio; predicati di
qualità e predicati di azione. -Al giudizio sintetico non conviene propriamente
il ca rattere di necessità, Nè il carattere di contin genza. Ed al giudizio
analitico appartiene il ca rattere di necessità, e repugna quello di
contingenza. Fra i concetti di cavallo alato e di monte senza valle non c'è
differenza d'ordine razionale, ma d'ordine imaginativo. Le nozioni di possibi
lità ed impossibilità han valore logico e non fisico. Erronea dottrina di
Galluppi su la natura della definizione, E su ' l divario ch'egli fa tra de
finizione e proposizione e tra idea e segno dell'idea. Li esempj, con cui Vacherot spiega la nozione
kantiana del giudizio analitico e sintetico, valgono a scalzarne il fondamento.
Sua ridu zione di tutti i giudizj analitici in puri e di tutti i sin tetici in
empirici. Merito e difetto della cri tica ch'egli fa del giudizio 7 + 5 = 12. Perspicacia
nell'avvertire il difetto capitale della teorica kantiana e il vero punto della
questione. Erronea tuttavia è la nozione che ha il Rosmini del giudizio
sintetico empirico. - Sua formula del problema dell'ideologia: Come si formino
i concetti; e del giudizio primitivo: Esiste ciò che io sento. Suoi giudizj con
un subjetto -sensazione ed un predicato -idea. Non sono un fatto della.coscienza,
ma un'illu sione del Rosmini; Nè possono dirsi giudizj sintetici. False
supposizioni ch'egli imputa vana mente a Kant. Teorica rosminiana della per
cezione intellettiva de' corpi. Strana distinzione fra subjetto e concetto del
subjetto; E strane conclusioni che Rosmini SERBATI ne trae. I giudizj, con cui egli vuol risolvere il
problema dell'ideologia, non sono nè primitivi, nè sintetici, nè a priori.
Condizioni del problema e della sua soluzione. Nozione del giudizio sintetico,
guasta dalla clau sula ch'esso debba avere per subjetto un'idea sem plice.
Applicazione che ne fa Gioberti ai giu dizj matematici. Valore del giudizio: A
è eguale ad A. Eccezione del giudizio: L'essere è l ' es V. Se la realtà de '
giudizj sintetici a priori di penda dalla struttura dello spirito umano o dalla
sin tesi objettiva del Gioberti. Sua tesi circa i giudizj a priori, tutti
analitici rispetto alla cognizione rifles sere.siva, e tutti sintetici rispetto
alla cognizione intuitiva; Contraria a' suoi principj, in virtù de quali
appartengono all'ordine della riflessione e non dell' in tuito così i giudizj
sintetici come li analitici. Analisi della percezione primitiva fatta dal Reid
e ri fatta da Kant. Spiegazione che dà il GIOBERTI del giudizio primo; mistero
sopra mistero. Sua divisione de' giudizj sintetici a priori in assoluti e re
lativi. Se il problema kantiano sia psicologica mente insolubile. Fallacia
dell' argumentazione giobertiana contro il processo psicologico. Que stione
dell'origine delle idee; differenza tra il fatto e la sua spiegazione Principio della teorica. Divisione che si fa
del giudizio analitico, piena di repugnanze e inefficace contro la teorica
kantiana. Altra divisione del giudizio non meno inesatta. La differenza tra le
due specie non sussiste Nè quanto al carattere di necessità o contingenza, nè
quanto al riferimento dell'idea all'essere attuale o all'eterna possibilità. La
materia attuale e la materia possibile. Sequela di repugnanze, che deriva dalla
classificazione de' giudizj secondo che hanno objetto finito od
infinito.Critica infelice che ROVERE (si veda) fa de' giudizj sintetici a
pricri di Kant con vernenti la matematica E la metafisica. Divisione ch'il
filosofo fa del giudizio e che disfà con li esempj. Fallacia della definizione
dall'accidente. Il carattere di essenzialità o accidentalità del predicato
verso del subjetto è d'ordine logico e rela tivo, non già d' ordine reale ed
assoluto. Si ri duce alla relatività dei concetti di genere e di specie. Il
giudizio sintetico di PEYRETTI è intrinsecanente falso e logicamente
impossibile. Non si può mai negare ciò che si afferma senza contradirsi.
Paralogismi del Peyretti a prova della tesi che tutti i giudizj empirici sono
sintetici; – E della tesi che tutti i giudizj analitici sono puri. Tesi
disdette dalla sua stessa teorica dell'opposizione de' giudizj. Caso di un
predicato non incluso nel subjetto. La teorica dell'analisi e della sintesi,
professata dal Peyretti, mal s'accorda con le sue teo riche dell'apprensione
analitica e sintetica; Del l'affermazione artificiale e naturale; del giudizio
primi tivo o intuitivo, e secondario o razionale; della distinzione intensiva
ed estensiva delle idee. Nozione dell'analisi e della sintesi e teorica della
definizione, con cui il Peyretti s' accosta alla vera idea del giudi-. zio
analitico e sintetico. La divisione anche del giudizio falso in analitico e
sintetico, Fondata in una differenza
affatto arbitraria e fallace tra due giudizj, Che paragonati a dovere fra loro
non differiscono punto Autori da omettersi. Errori circa la forma negativa del
giudizio analitico e sintetico ecirca il carattere spontaneo della sintesi e riflesso
dell'analisi. Critica ch'egli fa della dottrina di Kant su i giudizj sintetici
a priori E delle obje zioni mosse contro di quella dottrina da GALLUPPI E da Rosmini. Teoria ontologica di Toscano,
condannata dal Gioberti E distrutta da gli esempj stessi, con cui il Toscano
crede d'illustrarla. Vanagloria della scuola degli ontologi. Dottrina di ROMANO
su i giudizj necessarj e contingenti; Su la necessità assoluta e condizionale E
su la sintesi e l'analisi. Assimilazione e dissimilazione spontanea tra le
percezioni. Erronea definizione dell'analisi e della sin tesi. Esempj con cui
il Corleo non chiarisce, ma distrugge la sua teorica dell'assimilazione. Della.
sintesi, E dell' analisi. Nesso ch'egli sta bilisce fra l'analisi e la sintesi;
E contempora neità delle due funzioni. Forme principali della cognizione.
Ordine di priorità e posteriorità fra la sintesi e l'analisi. Dottrina del
Corleo su la sintesi riflessa; disdetta da' suoi esempii e da fatti d'
esperienza commune. Differenza che si fa tra il giudizio e la sintesi ed
analisi. Giu dizj che per lui non sono veri giudizj. Censura ch'egli muove alla
maggior parte dei filosofi per aver confuso la sintesi ed analisi riflessa co'l
giudizio. Sua scoperta della conversione de' giudizj empirici in necessarj.
Analisi del giudizio: Ogni corpo è grave; E confronto coʻl suo reciproco: Ogni
grave è corpo. - Correzioni e giunte del Corleo alla teorica kantiana
de'giudizj analitici e sintetici, a priori ed a posteriori. Altra sua scoperta
della priorizzazione de' concetti. Effetti prodigiosi della quinta
percezione e conseguenze davvero nuove
della priorizzazione de'concetti. Critica delle definizioni del giudizio date
da varj filosofi; Da Mill e da Rosmini. Defi nizione che ne dà BARBERA. Sua
teorica del giudizio analitico Identità manifesta ed occulta. Esempio del
quadrato di 13.Teorica del giudizio sintetico. Officio della copula. Esempio
del campanile di Pisa. Teorica della for mazione delle idee. Risoluzione
dell'idea ne'suoi elementi mediante il giudizio. Attributi del su hjetto ideale
e del subjetio reale. Esempio del peso dei corpi. Teorica del giudizio
sintetico a priori. Vocaboli che dinotano l'ignoto. Subjetto ignoto ed
attributi noti. Esempio del yocabolo. Declinazione degli studj logici in
Inghilterra. - Nota di Mill su la questione de'giudizj analitici e sin tetici.
Condizione degli studj logici in Francia. Garnier e Bailly. Dottrina di Re
nouvier intorno al giudizio in genere, al giudizio cate gorico, e al giudizio
analitico e sintetico. Se ogni giudizio sia analitico e sintetico insieme.
Delbouf: sua teorica del giudizio sintetico e dell'ana litico. Confusione ch'egli fa dell'uno con l'altro,
Confermata da' suoi esempj. Una nuova riforina dell'insegnamento filosofico in
Italia. es guaci ed avversarj di Kant in Germania Que stione de’giudizj
analitici e sintetici ripigliata da Mill nella sua critica della Filosofia di
Hamilton. Sue objezioni contro la teorica commune del giu dizio. Teorica sua
propria; divario ch'egli am mette tra il concetto ed il fatto.Relazione tra
giudizi e concetti; come i fatti possano esser materia dei giudizj. Proposizioni
ch'egli trova nei fenomeni esterni; ed elementi o momenti della sua teorica del
giudizio. Giudizj nuovi e giudizj ripetuti; Co pernico e Tolomeo. Attributi che
racchiude il concetto. Attributi impliciti nel senso del nome; teorica della
definizione. Esempio del vocabolo Precisione del linguaggio filosofico di
Stuart Mill nella divisione del giudizio in analitico e sintetico. Objezioni
del Krug alla teorica kantiana; esposizione della teorica sua propria. II.
Contenenza originaria del predicato nel subjetto; astrazione della logica dal
pensiero sintetico. Altre definizioni del giudizio analitico e sintetico.
Relazione del concetto con l'objetto. Esempi che non confermano punto la tesi.
Differenza tra ' giudizj sintetici ed analitici mal fondata dal Krug
nell'opposizione fra objetti determinati e concetti già esistenti; E fra
objetto, idea del l'objetto, e nota della sua idea. Distinzione fra il valore
objettivo e subjettivo de'giudizj, male appli cata. Eposizione che si fa della
teorica, non guari migliore delle altre. Sistema. In luogo di correggere, si
aggrava l'inesattezza che riconosce nelle dottrine altrui. Valore teoretico e
pratico della sua divisione; forme vuote della logica e forme piene della
metafisica. Confusione del giudizio analitico con l'a priori. Teorica di
Twesten e di Braniss. Officio della sintesi e dell'analisi; giudizj
esistenziali ed essenziali; cognizione empirica e razionale; necessità assoluta
e relativa. Brevi e giuste ossservazioni del Troxler su la classifi cazione
kantiana del giudizio. Teorica del Krause: nozione inesatta del giudizio
sintetico, E del l'analitico. Giunta del
Tiberghien. Dottrina del Drobisch intorno al giudizio categorico ed ipotetico.
Classificazione del giudizio analitico e sintetico fondata nell'opposizione
arbitraria fra le note interne ed esterne de concetti. Teorica del Trendelen
burg. Sua critica del sistema kantiano; meca 1 nismo ed organismo, composizione
e sviluppo. Valore materiale e formale del giudizio. Errore del Trendelenburg nel
fare analitici tutti i giudizi positivi, e tanto più i negativi. Divario
essenziale fra il giudizio positivo e negativo. Carattere sin tetico attribuito
erroneamente dal Trendelenburg ad ogni giudizio. Sue variazioni circa la natura
< lel giudizio sintetico.Giudizj sintetici a priori; giudizj tetici ed
esistenziali.Valore sintetico ed analitico de'giudizj tétici. Doppio valore
anche de' giudizj esistenziali. Oscurità e confusione della teorica del
Reinhold. Sistema di Beneke: differenza tra subjetto e predicato del giudizio.
INozione dell'analisi e della sintesi. Contenenza qualitativa e quantitativa
del predi cato nel subjetto. Aumento della cognizione me riante il giudizio,
determinato assai male da Beneke. Critica ch'egli fa della divisione. kantiana:
enigmi sopra enigmi. Applicazione del principio d'iden tità a' giudizj
analitici e sintetici. VNon ogni giudizio sintetico è fittizio. Lacuna nel
sistema del Beneke. Teorica singolare e stravagante della validità del giudizio
esposta dallo Zimmermann. Applicazione non meno strana ch ' egli ne fa al
giudizio analitico e sintetico. Assurdità della sua classi ficazione. Sistema dell' Ulrici: sua tesi dell'iden tità
de'giudizj analitici e sintetici. Ammessa pure la differenza a parole, ma
cancellata in effetto. Critica savia ch'egli avea già fatta della dottrina
kantiana. Nuova teorica dello Zimmermann. Sintesi a priori ed a posteriori. For
mazione di nuovi concetti mediante una nuova osservazione. Soluzione del
problema dei giudizj sin tetici a priori, Fondata in falsi supposti.
Conclusione che rinega il suo principio. Differenza che il Ritter introduce fia
proposizione e giudizio, fra giudizio e concetto, fra concetto e rap
presentazione. Significato de' vocaboli.
Intelligibile diretto e riflesso; valore del vocabolo e della
proposizione. Se le proposizioni analitiche espri mano un solo concetto. V.
Proposizioni analitiche e sintetiche, le quali, secondo il Ritter, non
esprimono giudizj analitici e sintetici. Proposizioni analiti che e abolizione
de giudizj analitici. Bizzarra nozione del giudizio sintetico. Censura che fa
il Ritter de giudizj sintetici a priori di Kant. Va lore objettivo e subjettivo
de concetti; determinazione delle essenze individuali. Note essenziali e neces
sarie, e note accidentali e contingenti dell'individuo. Diversità della forma
analitica de' giudizj neces F 1 sarj e contingenti. Autorità di Platone mal in
vocata dal Ritter. Valore variabile delle sue proposizioni sintetiche;
negazione della scienza. - Teorica dell' Ueberweg. Teorica del Lindner: giunte
alla nozione kantiana de' giudizj analitici e sin tetici.Se campo proprio della
logica sia il giu dizio analitico e non il sintetico. Altre definizioni 1 1 del
Lindner, che sopprimono ogni differenza logica fra i giudizj analitici e
sintetici. Relatività naturale della sintesi e dell'analisi. Questioni da
trattare; criterio e divisione. II. Appli cazione del carattere analitico e
sintetico ai giudizj uni versali, particolari, e singolari. Ai positivi e
negativi. Agli infiniti Ai categorici,
ipo tetici, e disgiuntivi. Riduzione del giudizio ca tegorico in ipotetico, e
dell'ipotetico in disgiuntivo. Modalità de ' giudizj secondo la scuola kantiana
e secondo la scuola peripatetica. Esclusione del carattere sintetico ed
analitico da' giudizj modali. Origine, scopo, fondamenti del criticismo kan
tiano. Suè relazioni con li altri sistemi, e suoi pregi. Suoi difetti: dualismo
fra subjetto ed objetto della cognizione. Unità e dualità ori ginaria della
coscienza; identità e distinzione del su bjetto e dell' objetto. Altre forme
del dualismo kantiano; attinenze della ragione co ' l senso nell' unità dell'
io. Realtà ed objettività, materia e forma della cognizione.Il criticismo
kantiano e il problema capitale della filosofia. Esempio del
principio di causalità. From here both the hot and probably also the cold water
were conducted to the bath tub on the other side of the partition wall.
550 Since this wall between l and 20 is heavily
restored, no remains of the pipes or even openings for them have survived.
Whether these features were removed already in antiquity, either before the
eruption or soon after it by looters or in connection with the excavation is
unknown, due to the lack of reports. In corridor h² two concave
and parallel indentations from two round features such as pipes (diam.
0.04 m, preserved length 1.2 m) run in a north-south direction along the west
wall at a height of 1.1 m with a slight downward incline. The form and
dimension of these indentations indicate that they stem from two parallelly-
placed lead pipes, running along the west wall of the corridor. Since the wall
at both ends of these indentations shows modern repairs, the original length
and the starting and end points can no longer be established. But since the
repair to the south of these indentations covers the back side of the east wall
of kitchen l, it could be very probable that the pipes that made these
indentations came from the boiler in front of the north wall of the kitchen and
left that room through its east wall. The repaired area to the north
corresponds to the rear side of the niche for the schola labrum. To the
north of this 0.95 m wide repaired area of the wall, no indentations can be
found. Thus it seems probable that the supposed pipes led into
caldarium in the niche of the schola labrum to supply
this element of the bath with water as well.Ausonio Franchi. Cristoforo di Giovan Battista Bonavino. Cristoforo Bonavino.
Keywords: la filosofia delle scuole italiane, i due massoni, giudizio,
sentimento, storia della filosofia, storia della filosofia italiana,
risorgimento, rito italiano simbolico, name index in Austonio Franchi’s works. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bonavino” – The Swimming-Pool Library. Bonavino.
Grice
e Bondonio: la ragione conversazionale e il raziocinio conversazionale – scuola
di Roma – filosofia romana – filosofia lazia. filosofia italiana -- Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo
italiano. Roma, Lazio. tw
ro3''2o-!S6i> SULL’IMPORTANZA DEL RAZIOCINIO: STUDIO STORICO-CRITICO
Brignolo. AL MIO INSIGNE MAESTRO VALDARNINI (si veda), PROFESSORE DI FILOSOFIA
A BOLOGNA QUESTO SAGGIO DEDICO IN SEGNO DI VERO AFFETTO E DI PROFONDA
GRATITUDINE. Che un uomo sappia più (l’un altro nasce quasi unicamente (la
questo, che no deduca più conseguenze dell’ago dagli stessi principi. Eosmiki. Il
Lizio nei Primi Analitici da del sillogismo una definizione che si può
applicare cosi al ragionamento deduttivo come all’induttivo, quantunque per
solito lo contrapponesse all’epagoge, vera e propria Induzione. Nel Medio Evo e
nei tempi moderni, presso i filosofi inglesi, prevalge il criterio eh come
espressione esclusiva della ecuzi «he è auel però considerata la natura del raziocinio,
che è quel procedimento della mente con cui essa per' iene a conoscere e ad
affermare la convenienza ° «a npugnK» di due idee mediante una terza idea, 1 *
°, forma (ondamentale di ogni argom^o^S^» poi la sua struttura, esso è la forma
ttp» 4MgJ argomentazione deduttiva. Sotto questo duplice aspetto ci proponiamo
di studiare il sillogismo. Mettendone in rilievo il vero valore, e combattendo
le obiezioni mos- segli da alcuni filosofi. Esporremo prima brevemente le
dottrine espresse dai filosofi di ogni età intorno all’importanza del raziocinio,
senza addentrarci in minute discussioni, accontentandoci di esporre come la
teoria sillogistica siasi costituita, quale importanza le abbiano attribuito i
filosofi posteriori al Lizio, in che modo infine alcuni di essi si siano
ribellati alla dottrina del Lizio, ed altri nell’età moderna abbiano preteso di
rifare e migliorare l’opera del più grande filosofo della Grecia. Esamineremo e
combatteremo poscia le obiezioni mosse contro il raziocinio, per venire quindi
a stabilirne la reale importanza come mezzo efficace all’acquisto di nuove
conoscenze; pregio che non gli può disconoscere se non colui il quale nega le
idee universali ed ogni inferenza da esse. Il Raziocinio in Aristotele. Il raziocinio
ha avuto precedenti? Ecco la domanda che prima si affaccia alla mente di colui
che voglia studiarne un po’addentro la storia. E il pensiero corre spontaneo a
coloro i quali per primi parvero seguire certe norme nei loro ragionamenti,
cioè ai sofisti. Ma ben tosto il LIZIO colla sua opera Hspì .oywuoC vi è?,
È7ray©y?i; (2). Si può muovere dal principio e dalla legge al fatto, o dal
fatto alla legge ed al principio. Nel primo caso si ha il sillogismo vero e
proprio o deduzione. Nel secondo l'induzione: processi opposti fra loro,
sebbene, dice il LIZIO, l’induzione si possa formulare in sillogismi che sono
perciò la forma elementare del ragionamento. Ma in che cosa differisco il sillogismo
del LIZIO dalla divisione dell’ACCADEMIA? È questo un punto da chiarire prima
di procedere alla esposizione della dottrina del LIZIO. Dopo aver esposto il
suo metodo di dimostrazione, il LIZIO dice che la divisione per generi è «
puy.póv 3* f trf P £0v . ewévvj; pcQtóou (3) » cioè del metodo al Apistico, e
serve a scoprire le relazioni delle essenze Arist., Anal. Post.' I. 1S. Arist,
Anal. Pr., II. 03 ’ Arist., Anal. Post., I.~30 fra loro. La divisione ha due
gravi difetti: 1° di supporre in luogo di dimostrare, e di cercare
arbitrariamente una delle due alternative della divisione stessa; 2° di prendere
per medio il termine più generale. Essa è quindi un sillogismo impotente, che
fa non una dimostrazione ma un’ipotesi, e conclude sempre un termine più esteso
di quello che si tratta di concludere. Nelle dimostrazioni regolari si scende
dal termine maggiore al medio, meno esteso. Nella divisione, al contrario, si
prende sempre l’universale per termine medio. Per citare un esempio. Se si deve
PROVARE CHE l’uomo è mortale, la divisione platonica stabilisce prima che ogni
animale è mortale o immortale. Aggiunge, poi, che l'uomo è animale e conclude:
che l'uomo è mortale O immortale » il che NON è punto ciò che si vuole provare.
La divisione ci dice solo in questo caso che l’uomo è mortale O immortale. Che
sia mortale è solo un’IPOTESI, NON già una CONCLUSIONE dimostrata. Oltre di ciò,
“mortale O immortale” è *più esteso* di “mortale” solo. L’errore che falsa il
metodo della divisione è la scelta del termine medio, il quale non può essere
se non una specie del termine maggiore o un attributo della conclusione -- onde
la divisione del genere in specie, non essendo che una parte del metodo
sillogistico, richiede un compimento. Vi è una divisione della specie in
generi, ed una divisione del genere nella specie, e queste due divisioni (1)
Arist. - Anal. Post., IT. 5 e segg. - Ami Post., Aliai. Pr. I. 31. (2) Arist.,
Anal. Pi’., I, 1- frr? ijjr,p m sw A r r?r p poste alcune cose, da esse deriva
qualcosa di diverso da ciò che esse sono. Il sillogismo consta perciò di tre
termini; il medio e due estremi, uno maggiore e l’altro minore. O, se vogliamo,
DUE PREMESSE collegate tra loro in modo da avere in comune il termine medio, e
da farne SEGUIRE PER NECESSITÀ una terza proposizione che vi era inclusa. Il
termine medio poi non ha sempre la stessa relazione verso gli estremi: perocché
o esso è contenuto nel maggiore e comprende il minore (1* figura); o comprende
sotto di sè il maggiore e il minore (2* figura); o infine è compreso sotto il
maggiore e il minore (3“ figura). Onde la 1* figura soltanto è perfetta e vale
tanto per le conclusioni affermative quanto per le negative; la seconda e la
terza per lo contrario sono imperfette, perchè quella conclude solo
negativamente, questa solo particolarmente. IJ_ congegno del Sillogismo è
dunque riposto nel nesso triHe premesse "e ciò che ne segue, e nella
necessità ai tale lega me. Ma poiché vi sarebbe connessione anche se le
premesse fossero false, purché la conclusione nascesse necessariamente da
quelle, così distinse il Sillogismo dalla Dimostrazione o Apodissi, che
richiede la verità delle proposizioni sulle quali si fonda. II vero e proprio
Sillogismo è lo scientifico e dimostrativo, che deduce la conclusione da cause
vere e proprie, e, per valerci delle sue parole, « TsXsiov w.èv oùv [xaXw] t I-
r'i' nix. 7730 Tac 7 JCOV. bsso è la forma per eccellenza del ragionamento, (1)
Arist. — Anal. Pcst., II, 2. il più perfetto istrumento per la scoperta e
l’esposizione della verità, perchè risponde alle condizioni dell'esistenza
reale, esprime il procedimento della natura, che va dal genere alla specie. La
forma del ragionamento ha la sua ragione nel contenuto suo; il Sillogismo
risponde alla natura dell’essere. Il Sillogismo è l’unione di due termini per
mezzo di un terzo; si cerca se un tal predicato conviene o no ad un soggetto.
Per risolvere la questione, si va in traccia di un termine medio e lo si
paragona successivamente con ambo i termini, e secondo i rapporti di
convenienza o sconvenienza che presenta.con essi, si conclude alla'convenienza
o sconvenienza dei due termini estremi. Onde il Sillogismo dimostra sempre
alcunché di una cosa, « ó >J.h -z: 7uUoy-.7y.ò; rò zztz rivo; Ss’utvufft Az
rovi pW'j (1) ». Ogni dimostrazione è pertanto un «truUoyt- C \jM s-« 7 T 7
ip.ovaó; (2) » e col semplice Sillogismo è in questa relazione : « ‘h p-sv yà?
wnoywua; rt;, ó criAT.oys'jp.ò; àz où r.y.'jy. x-ooì'.C'-S (o). » Non
occorrendo qui di fare una minuta esposizione della dottrina logica di
Aristotele, sorvoliamo su tutto ciò che si riferisce alla costruzione del
Sillogismo alle sue figure, a’ suoi modi, alla maniera di ridurlo a suoi
elementi ed alle sue forme rigorose (4). noi basta di studiare quei punti della
dottrina dello Staggita, dai quali apparisce qual conto egli facesse de (1)
Arist. Anni. Post., II, 6. (2)
Arist. Anal. Post, I, 2. (!) Cfr. S
l’espo!iz!Òne > fattar!o da B. du ?T den a ^^ t . = ^ « ElemeBta Logict l 2
Ari‘stoteleae »'e specialmente i pavagr. 20-21 e 33-36. X — 14 ! o iaJL
Raziocinio ; e ci fermiamo innanzi lutto sui capitoli nei quali parla della
ricerca del termine medio (1). Ciò che Aristotele dice in essi ci dimostra che
egli riguardava il Raziocinio non solo come un semplice modo di esposizione
formale, ma anche come un istrumento di scoperta. Altrove, nei Topici,
confrontando l’induzione colla deduzione aveva detto: « .Vrt Ss yj :piv è-3ty 5
6 15. > Arist. Topici I, 10. 15 essenziali dagli accidentali, i veri dai
probabili ; prenderli universali, perchè non v’ha Sillogismo senza universali;
l’universalità poi dovrà essere nel soggetto, non nell’attributo. Questa
ricerca non è semplice analisi di linguaggio; e per Aristotele il termine medio
non importa per sè, ma per ciò che rappresenta. I veri termini del Sillogismo
aristotelico non sono, come avverte un illustre critico, « nè le proposizioni,
nè i termini, ma i fatti e le leggi, o meglio, le idee che realizzano negli
individui i progressi della natura in moto verso Dio (1) ». Aristotele conclude
i suoi precetti sulla ricerca del termine medio con queste parole: « -y.~ u.i'i
ò.r/y.’ tz; -spi è/AKSiplzi is-tl jt xpxàoijvxi; » i principi di ogni scienza
non ci possono essere dati che dall’esperienza, ma una volta conosciuti la dimostrazione
sillogistica s’incarica di mostrarne i rapporti. Negli Analitici Primi
Aristotele analizza il Sillogismo in sè, negli Analitici Posteriori ne mostra
l’applicazione alla scienza-e studia in qual modo lo spirito arriva a conoscere
qualche cosa cou certezza. Il primo principio che pone lo Stagirita e che serve
di fondamento all’intiera sua teoria è che ogni apprendimento intellettuale
proviene da una conoscenza anteriore; ce ne possiamo convincere con l’esame dei
metodi che seguono le varie scienze. La Logica procede per Sillogismo e per
Induzione, l'uno partente da principi universali, accordati, l’altra dal
particolare evidente di per se stesso (2). E come 1 Induzione è quella forma di
ragionamento per la quale dall esame (1) Janet e Séailles — Histoire de la
pHlosophie. (2) Arist., Anal. Post., I Cfr. anche Saint-Hilaire, « De la logique
d’Aristote » Voi. I, pag-
277 e segg. o confronto di più casi osservati si sale ad un principio generale,
che comprende non i soli casi osservati ma anche altri i quali hanno con quelli
somiglianze e comunanza, così la Deduzione è qualunque forma di ragionamento
riducibile a quello schema da lui chiamato Sillogismo. Sapere una cosa in modo
vero e stabile, non accidentale e sofistico, è conoscere la causa di questa
cosa, che la fa essere tale quale è senza che possa essere altrimenti: l’unico
mezzo di sapere così le cose è il «zuXXoywy.ò; èmcrryipovarf;. E però la
Dimostrazione deve di necessità partire da principi più cogniti che non sia la
conclusione; devono essere veri, primitivi, immediati, anteriori alla
conclusione e da essi come da causa quella deve dipendere (1). Posto quindi che
la scienza dimostrativa deve discendere da principi necessari e che le cose in
sè sono quelle ' essenzialmente necessarie, ne segue che il Sillogismo
dimostrativo deve derivare da cose in sè. Alla fine degli Analitici Primi
Aristotele si fa a ricercare come si formano neH’intelligenza i principi che
servono di base così alla Dimostrazione come al Sillogismo; o afferma che i
concetti universali non si possono ottenere sillogizzando, ma si acquistano con
l’Induzione- « Il compito di fornire i principi sui quali si fonda la
Deduzione, egli dice, spetta all’osservazione dei fatti particolari che
costituiscono il campo di ricerca di ogni scienza. Così per quel che riguarda
l’astronomia tale compito spetta alle osservazioni astronomiche ; perocché non
si potranno fare deduzioni circa determinati fenomeni celesti, finché essi non
siano stati (1) Arist. Anal. Post., I,
2. (2) Arist. Anal. Post., I, 6. Sì .
_.L . convenientemente analizzati e compresi. Lo stesso vale per tutte le altre
scienze ed arti, nelle quali si potranno presto trovare le dimostrazioni quando
siano stati studiali a dovere i fatti cui esse si riferiscono (1) ». Tale
dottrina egli applicò per quanto si poteva ai tempi suoi nei libri naturali,
politici e morali. Poiché credeva fermamente che non v'è universale senza
Induzione, nò Induzione senza il Senso (2), l'Induzione prepara il Sillogismo,
la cui funzione consiste nel termine medio, scoperto appunto dall’Induzione
(3). E perchè somministri concetti generali e sia vera l'Induzione, che è
preceduta.dal senso, dall'osservazione e dall'esperienza, deve considerare
tutti gli individui di una data specie e ricavarne i caratteri essenziali,
comuni e costanti. L’argomentazione deduttiva poi ha il compito di ridurre ciò
che è incerto al massimo grado di certezza; essa serve ad assicurare della
verità di proposizioni solo probabili, collegandole ad altre sulle quali non si
può sollevare alcun dubbio, allo stesso modo che nelle matematiche si confermano
le proprie asserzioni coi primi principi matematici indiscutibili, di evidenza
immediata. Questa è la dottrina dello Stagirita, con la quale pose e risolse
una delle più grandi questioni, che agitò tutto il Medio Evo e formò l’oggetto
della filosofìa dei secoli XVIII 0 e XIX 0. Da queste poche considerazioni
apparisce chiaramente che la Sillogistica aristotelica è ben lontana dal vuoto Arist.
Anal. Pr„ I, 30. Ed AQUINO (vedasi) più
tardi disse: « Impossibile est speculari universalia absque inductione. » Arist.
— Anal. Post., I, 18 e II, 19. (1) Saint-Hilnire - De la logique d’Aristote. formalismo,
prevalso più tardi in coloro i quali si dissero seguaci del grande filosofo.
Perocché egli ammette che la dipendenza dei concetti espressa nel sillogismo
rispecchia la dipendenza causale della realta; e.quantunque molto oggi occorra
sfrondare dalla sua Sillogistica, rimane però fermo, come osserva giusta?-
mente il Masci, il principio che ogni dimostrazione è dall’uiiiversale, « vi
piv ò-óonc,i' ex toù xafloXoo. » Tutte le specie di prova prendono valore dai
principi, dalle leggi, dagli assiomi, cioè da proposizioni aventi valore
universale; e su di esse si fondano tanto il Sillogismo deduttivo (apodittico),
quanto l’ó èq Ì7raY&>Yvi; du^Xo^w’po;, che Aristotele ammise esplicitamente
nei Primi Analitici e che non avrebbe valore, se non avesse alcun fondamento il
principio di causa. Perciò il procedimento di sussunzione è essenziale nel
Sillogismo, e la figura che lo rappresenta è fondamentale. Soltanto bisogna
tener presente che la sussunzione quantitativa non è la vera, e che sono
legittime tutte le forme di ragionamento che rannodano una conseguenza ad un
principio. Questa è l’importanza attribuita da Aristotele al Sillogismo. Altri
discuta sul valore della sua logica: a noi basta far rilevare che egli non solo
coordinò materiali già esistenti, ma in gran parte anche creò; onde dobbiamo
riconoscergli pienamente il diritto, che si arroga egli stesso, di invocare «
riconoscenza per tutte le scoperte fatte. » È suo vauto l’aver dato la teoria
compiuta del Raziocinio, dettando quelle Arist. Anal. Pr., Masci, Elementi di
filosofia – Logica. Tennemann Storia
della Filosofia. Arist. Elenchi Sopii.,
cap. XXXIII. regole che durano anche oggidì con la costante tradizione di
ventitré secoli; egli conobbe per primo il Sillogismo ipotetico, e, rilevato il
valore dell’Induzione, osservò che in fondo ogni ragionamento conclusivo è
sillogistico, e ridusse a tal forma l’Esempio, l’Obiezione, l’Abduzione.
l'Entimema e l’Induzione stessa, giacché in essa l'illazione è la stessa
premessa •maggiore del Sillogismo deduttivo, e il termine medio è lo stesso
soggetto dell’illazione risoluto nelle sue specie A coloro poi i quali
sostengono che Aristotele ha latto solo della logica applicata, eccettuata la
dottrina delle tre figure, poiché per la Dimostrazione si è occupato del
necessario, che la logica pura non deve conoscere, e pel Sillogismo si è
occupato della modalità delle proposizioni, di cui la logica pura non si deve
interessare, non sappiamo far cosa migliore che ripetere le parole del
Saint-Hilaire: « Ce répoche n’est pas jusie, et l’exemple de Kant qui n a pas
exclu la modalité de sa logique, toute pure qu’elle est, devait ótre un
avvertissement suffìsant. Il est vrai •qu’on blàme Kant
tout aussi bien qu’ Aristote. Mais pourquoi veut - on proscrire la modalité de
la théorie du syllogisme? Parce qu’ elle fait entrer, dit-on, la malière de la
pensée dans un science qui ne devrait, s’enquerir qua des formes. Si ceci etait
exact, il faudrait en effet que la logique s’abstint de toute •recherche sur
les modales, et qu’ elle dit avec M. Hamilton, parodiant une sorte de proverbe
scholastique: -De modali non gustabit logicus. Aristotele intravide del pari la
quarta figura sillogistica. Anal. Pr. I, 8. Il f^azioeinio dopo Aristotele.
Dopo Aristotele la teoria del Raziocinio non andò soggetta a notevoli
cambiamenti; quel che mutò ne fu il senso, perchè la logica andò scostandosi a
poco a poco dalla ontologia per avvicinarsi alla grammatica. Teofrasto, amico
di Aristotele e continuatore dell’opera sua, aggiunse ai quattro modi della
prima figura cinque modi indiretti; più tardi Galeno, a detta di Averroè,
svolse una quarta figura del Sillogismo. Innovazione importante fu il maggiore
sviluppo dato al Raziocinio ipotetico, al quale del resto già aveva alluso lo
stesso Aristotele. Ad ogni modo, Boezio ne attribuì a Teofrasto e ad Eudemo la
scoperta, e a sè il merito di averne dato per primo la teoria (2). Gli Stoici
si occuparono molto della Logica, che ritennero importantissima, sia per
l’educazione dello spirito, sia per la dimostrazione della verità; essi
ridussero però il Sillogismo ad una forma puramente grammaticale, e trattarono
solo dell’apodittico, perdendosi a ricavare dai cinque modi semplici
un’infinità di altri non sera- W « IloXÀo: ciz v.a.'. értpoi jrspaivovrai si;
ù~o6sccco; ou; èn’T/.vltxvGxi ùz~. /.ai /.«0apw;. » Anal. Pi\, I, 33. (2)
Theophrastus vero vir omnium doctrinae capax renani tantum suramas exquiritur;
Eudemus latiorem docendi gra- ditur viam, sed ita ut voluti quaedam seminarla
sparsisse, nullum tamen frugis videatur extulisse proventum ». (Boezio - De
Syllogismo hvpotetico, pag. GOG). plicij come ebbe ad avvertire Cicerone (1).
Gli Scettici infine, con Pirrone di Elide, ammisero che nè con la ragione, nò
coi sensi, ci è dato di conoscere le cose; e siccome non possiamo affermare
alcun predicato di nessuna cosa, ognuna dev’essere indifferente per noi. Qual
conto facessero gli Scettici del Raziocinio apprendiamo dalle Iluppovjìa-.
‘Vjro-ujrwffst; di Sesto Empirico, il quale lo considerò nè più nè meno che un
circolo vizioso. Sia data ad esempio la proposizione « Puomo è animale », dice
egli; l’afl’ermazione è confermata dalle proposizioni singolari per Induzione;
e se si trova un caso solo contrario agli altri, la proposizione universale non
è più vera. Quando pertanto diciamo: « Ogni uomo è animale, Socrate è uomo,
dunque Socrate è animale » e dalla proposizione universale vogliamo derivarne
una particolare, cadiamo in un modo vizioso di prova. L’Induzione poi, afferma
Sesto Empirico, come quella che dai casi particolari vuol giungere
all’universale, è anche più impugnabile: poiché se si percorreranno solo alcuni
casi essa non sarà fondata, potendo benissimo accadere che un caso particolare
lasciato a parte si riscontri poi contrario all’universale; se poi si vorranno
percorrere tutti i particolari si intraprenderà una operazione impossibile,
essendo essi infiniti e non circoscritti entro alcun limite (3). Concludendo,
Sesto Empirico, sia nelle Ipotiposi Pirroniane, sia nell’altra sua opera IT?ò;
p-kQ/i- jA«moó?, sostenne che nessun sillogismo, nè alcuna catena di sillogismi
varrà mai a farci acquistare alcuna Cicerone Topici, Fiorentino, Storia della Filosofia. Sesto
Empirico — Pirroniane Ipotiposi, II - 14. cognizione nuova, e che la Deduzione
non è la forma tipica del ragionamento, ma un artifìcio degno dt sofisti, per
celare altrui la nostra ignoranza. In tal modo Sesto Empirico fu il primo a
levar la voce contro- il valore del Raziocinio: altre e più gravi accuse ad
esso muoveranno i filosofi delle età posteriori. É inutile fermarsi a parlar
degli Eclettici (1), che non produssero nulla dimuovo nella dottrina
sillogistica, nè di Galeno, al quale, come già dicemmo, fu attribuita la
scoperta della 4* figura; nè vale la pena di discorrere di Apuleio e di Boezio,
il quale fu 1 autore della teoria intorno al Sillogismo ipotetico (2). Che cosa
aggiunsero o innovarono gli Scolastici nella teoria del Raziocinio? Il Prantl
osserva che « intuito il Medio Evo non un autore produce da sò un pensiero suo
proprio, ma tutta la coltura di quel tempo è dipendente ed è determinata
dall’ambito del materiale tradizionale che trova (3) ». Per più di cinque
secoli infatti lo studio della sillogistica, tale quale era stato creato da
Aristotele, divenne generale; esso fu coltivato da Arabi e Cristiani. Unico
merito di quell'età fu di avere inventato quella terminologia ingegnosa, che
con l'uso di lettere e di parole facilitò l’apprendimento della Sillogistica.
Michele. Pseilo nel 1020 scrisse un compendio della Logica Aristotelica, il
quale tradotto da Guglielmo Shyreswood e da Pietro Ispano servì come testo alle
scuole di filosofìa dell'Oc- (1) Cfr. a questo proposito Saint-Hilaire « De la
logique d’Aristote, cap. G-10, Voi. ri. *.quod. igitur apud scriptores graecos
perquam rarissimos strictim atque confuse, apud latinos vero nullos reperì *
(De Syllog. hypot., pag. 606). Ob Prantl Storia della filosofia in Occidente.
cidenle. Le surriferite parole del Prantl però non vanno prese in senso troppo
assoluto; chè quantunque la Scolastica abbia seguito in generale la tradizione
e la sapienza filosofica antica, non mancarono però pensatóri i quali tentarono
altre vie, precorrendo in certo qual modo l’avvenire. Il primo e il più grande
fra tutti fu Ruggero Cacone, che levò la voce contro la validità della
Deduzione, e magnificò oltremodo l’Esperienza, tanto che lo si può dire
'il'vero precursore dello sperimentalismo. Egli che esperimentò ed osservò, per
quanto i tempi lo consentivano, scrisse nell’ Opus Maius che « Duo sunt modi
cognoscendi, scilicet per argu mentum et éxperimentum . Argumentum concludit et
facit nos concludere quaestionem, sed non certificat neque removet
dubitationem, ut quiescat animus in intuitu veritatis nisi eam invenit via
expe- rientiae ». E più oltre: « Ciò è manifesto nelle matematiche, dove
potentissima è la dimostrazione. Chi volesse dimostrare, senza esperienza, che
un triangolo è equilatero, egli non sarà pienamente persuaso finché non veda
ciò per esperienza, vale a dire per l’intersezione di due circoli tracciati con
un raggio eguale alla linea data, dalla quale intersezione si conducono due
linee agli estremi della linea data (1) »• Infine: « Sine experientia nihil
sufficienter sciri potest... haec sola scientiarum domina speculativarum. Egli
intraprese la riforma del metodo scientifico, e unendo in felice accordo
l’esperienza col ragionamento, aprì la via ai rinnovatori del metodo
sperimentale com- R. Bacone — Opus Maius, Pars IV, cap. I. Cfr. A. V aldarmm «
Il Metodo Sperimentale da Aristotele a Galileo ». pag. 12. (2) R. Bacone,Op. M.]
prensivo. Perocché Bacone matematico ed astronomo riconobbe l’influsso della
luna sulle maree, intuì l’attrazione universale, ebbe forse l’idea del
cannocchiale, e molte delle moderne scoperte divinò in modo meraviglioso. E se
errori anche volgari, inevitabili in quei tempi, non mancano nelle sue opere,
le divinazioni meravigliose e le importanti scoperte attestano la potenza della
mente di lui, che per tal rispetto può considerarsi come anello mediano che
unisce Aristotele con Leonardo da Vinci, con Francesco Bacone da Verulamio e
con Galileo. Ma le massime dottrine del monaco inglese furono allora soffocate
dall’autorità del dogma e della scuola; prima che potessero farsi strada,
occorreva che da un lato la Riforma, dall’altro il Risorgimento classico
rinnovassero le coscienze e la Scienza. Il Pelrarca ed il Boccaccio furono tra
i primi a scagliarsi contro gli Aristotelici. Il cantore di Laura se la
prendeva in modo speciale con la sillogistica, pur ammirando altamente
l’ingegno sovrano dello Stagirita. « Oh ! costoro, perchè sono tanto diversi
dal loro maestro? » diceva egli parlando dei sillogizzanti filosofi suoi
contemporanei. « Come non ridere, esclamava, di quelle meschine conclusioni,
con le quali cotesti dotti infastidiscono sé e gli altri, e consumano la vita
intera in tali inezie a quella inutili e perciò dannose? » « Se già vecchi, egli
concludeva, non sappiamo ancora staccarci dalla scuola dialettica che ci
divertì da fanciulli, vuol dire che forse ci piacerà ancora andare a cavalcioni
sopra una canna e farci di nuovo d ondolare nella culla dei bambini. (1) » Gli
(1) Petrarca — Epistolae de rebus familiaribus I, G-9 - Traduzione del
Fracassetti.Umanisti della corte dei Medici andarono anche più innanzi:
cercarono di diminuire i meriti e l’autorità dello Stagirita, pretendendo fra
l'altre cose, di trovare in Platone le tre specie di Sillogismo. Lorenzo Valla
nelle sue Dialecticae Disputaliones avvicinò la Logica e la Retorica, e
combattendo Aristotele, gli contrappose Platone, Cicerone, Quintiliano «
Quominus, scriveva egli, ferendi sunt recentes peripatetici qui interdicunt
libertate ab Aristotele dissenfiendi, quasi sophos hic noster philosophus et
quasi nemo hoc antea feceri. Anche Cicerone, aggiunge Valla, da la palma della
filosofia a Platone, « quare, conclude, illis contemplis ac spretis, si quae
sunt, quae quarn in Aristotele melius dici possent, ea tentabo ipse melius
dicere ». Il primo però, che in Logica tentasse la riforma d 1 cui si sentiva
universalmente il bisogno, fu Pietro Ramo, il quale nelle Animadversiones in
Dialecticam Aristotelis, biasimò gli ammiratori esagerati dello . Stagirita, ai
quali, del resto, contrappose 1 esempio stesso del loro maestro, che senza
rispetto alcuno per l’antichità cercava liberamente il vero. Atteggiandosi a
riformatore della Dialettica il Ramo afleimò che bisognava prendere la natura
per guida; ma poi poco coerente a se stesso chiamò il Sillogismo « unica
veritatis exsplorandae via, ed in sostanza alla Logica antica non seppe
contrapporre altro che un miscuglio 1 Retorica attinta alle opere di Cicerone e
di Quintiliano • In Italia Telesio e Campanella intravidero al di là della
Logica il metodo; chè anzi il primo di essi sosteneva nell’opera sua che
bisogna stai e a a e. 1 Valla Dialecticae disputationes - Praetatio.monianza
dei sensi e si propose di guardare solo nei fatti, non in altro e di
riconoscere per fonte unica d'ogni sapere il senso: concepì in sostanza una
Fisica perfettamente induttiva. Così pure in Inghilteria Gilbert per scrutare i
segreti della natura dava il primato all'esperienza, e dalla percezione dei
sensi risaliva alle cause dei fenomeni, ed ai sensi univa l’aiuto della
ragione, necessaria, secondo lui, a far progredire ogni scienza. E da noi
ancora l’illustre filosofo naturalista Andrea Cesalpino faceva il più gran
conto dell’esperienza, e ai vani sillogismi della Scolastica opponeva un metodo
composto di tre processi mentali distinti: l’Induzione, la Divisione e la
Definizione. Ma tutti costoro furono preceduti da un altro uomo dì sommo
ingegno, Leonardo daVinci,ilquale dotalo di straordinaria penetrazione espresse
qua e là nelle sue opere scientifiche sentenze che per la loro profondità
oltrepassano il suo secolo. « L’esprit géome- trique, dice
di lui il Venturi, le guidoit par tout, soit dans l’art d’analyser un objet,
soit dans l’enchàinement du discours, soit dans le soin de généraliser toujours
ses ideés. Per ciò
che si riferiva alle scienze naturali, egli non era mai soddisfatto di una
proposizione, se non l’aveva verificata con l’esperienza; pensava che innanzi
tutto conviene fare qualche esperimento e che nella ricerca dei fenomeni della
natura bisogna osservare il metodo. La natura comincia, e \eio, col
ragionamento, e finisce con l’esperienza; dod a; Telesio Prefazione all’opera De reruin natura mxta propria principia ...Venturi,
Essai sur les ouvrages scientifiques de Vinci, pag. 4. importa; a noi, secondo
Leonardo da Vinci, conviene prendere la via opposta; perchè l’interprete degli
artifici della natura è l'esperienza. Bisogna quindi consultare quest’ultima, e
variarne le circostanze, finché noi ne abbiamo desunte regole generali; esse
poi ci. dirigono nelle ulteriori ricerche. Così scriveva Leonardo da Vinci un
secolo prima di Francesco Bacone. Del resto il metodo del Vinci, come avverte
giustamente il Val- darnini, fu scientifico e comprensivo,nonescludendola
ragione e l’applicazione della matematica nello studio della natura. Egli
riconobbe infatti l’armonia tra l’Esperienza e il Raziocinio, ed affermo
esplicitamente che « Chi si promette dalla sperienza quel che non è- in lei si
discosta dalla ragio. Ma la via per la quale la scienza doveva fare grandi e
così rapidi progressi fu trovata da Galilei,, il sommo nostro scienziato. Prima
ancora del Novum Organum di Bacone, e del Discorso sul metodo di Renato
Cartesio, Galileo praticò largamente il metodo sperimentale induttivo, i cui
punti fondamentali sono dal Magalotti espressi nella Prefazione ai Saggi di
Naturali esperienze dell'Accademia del Cimento.' Essi sono in ordine
progressivo: 1 c somme verità degli assiomi naturali che stanno ne l’anima; 2°
la geometria; 3° l'esperienza; 4 il ragionamento che la guida; 5° il confronto
delle espenenze dei dotti per conoscere da questi, provando e riprovando, la
verità. In tal modo fu novatore rispetto alla filosofia medievale, perchè diede
giance \aore 1) Yaldarniui - ; itaque spes est una », concludeva, « in
inductione vera. Nè basta; chè altrove aggiungeva: « Nullo modo fieri potest,
ut axiomata per argumentationem constituta ad inventionem novorum operum
valeant; quia subtilitas naturae subtilitatem argumentandi multis partibus
superai. Sed axiomata a particularibus rite et ordine abstracta, nova particularia
rursus facile indicant et designant; itaque scientias reddunl activa. Nel* introduzione al De Augmenlis
scientiarum rimproverava alla logica antica di essersi solo occupala del
Raziocinio; e per reazione respingeva assolutamente la dimostrazione
sillogistica. Per tutte queste considerazioni egli lasciava al Raziocinio piena
giurisdizione « in Artes populares et opinabiles, tamen ad Naturam rerum
inductione per omnià, et tam ad maiores propositiones quara ad minores ulimur;
induci Bac. Nov. Org., I Aph 13. Bac. Nov. Org.. I Api» 11 . Bac. Nov. Org., I
Aph 12, (Il Bac. Nov. Org., I Aph U •ó) Bac. Nov. Org.. I Aph, 24.
Bac. De Augmentis scientiarum Disp. part. ctionem censemus eam esse
demonstrandi formam quae sensum tuetur, et Naturarci premit, et operibus
imminet ac fere immiscetur ». Come Aristotele si sforzava di provare che in ogni
moto dei corpi vi è alcunché che sta in quiete, e introduceva elegantemente la
favola di Atlante, il quale diritto sulla persona reggeva il mondo, così,
diceva Bacone, gli uomini desiderano ardentemente di avere un punto che regga i
fluttuanti moti del pensiero, temendo che essi abbiano a precipitare, « nescientes
profecto eurn qui certa nimis propere captaverit, in dubiis finiturum; qui
autem iudicium tempestive cohi- buerit. ad certa perventurum. Riassumendo,
Bacone attribuì al Raziocinio due difetti principali: 1° Esso non permette di
arrivare ai principi, e'anche le sue premesse il più delle volte riposano
sull’Induzione. 2° La Deduzione non è in rapporto con la sottigliezza della
natura, e non può convenire se non alle scienze popolari. Non va però
dimenticato che Bacone non disdegnò in modo assoluto gli assiomi razionali, e
proclamava la necessità di unire il discorso con l’esperienza. « L’uomo, egli
ebbe a dire, ministro e interprete della natura, tanto conosce ed opera, quanto
ebbe osservato nell’ordine di essa, o con 1 e- sperienza o con la ragione. » In
tal guisa presunse di abbattere l’edifizio innalzato di Aristotele col suo
sapiente « opyàvov; » e noi, pur riconoscendo che la Scienza non avrebbe
rapidamente progredito senza l'aiuto poderoso di sommi pensatori i quali, come
il grande filosofo inglese, insegnarono nuove vie, e le aprirono più spaziosi
orizzonti, non possiamo I fi) Bac., De aug. scient.. V. •!.meno di affermare
che Aristotele meritava di esseregiudicato con molto maggior rispetto, e lopeia
sua tenuta in queiralta stima alla quale ha diritto. Difatto per dirla col
Saint-Hilaire, giudicare Aristotele é giudicare lo spirito umano, non solo in
uno dei suoi più illustri rappresentanti, ma in se stesso, poiché con lo
Stagirita facciamo comparire avanti a noi tutto il passato dello spirito umano.
Senonchè v’è una giustificazione alle esagerate invettive di Bacone da
Verulamio contro la sillogistica antica; egli non poteva ribellarsi contro
quella interminabile e immane catena di errori, che a’ suoi tempi si opponeva
ad ogni progresso delle scienze, senza scagliarsi contro il Sillogismo, che per
l’indole sua si era prestato a dare una apparenza di verità e d'indiscutibilità
a tutte le aberrazioni dei tanti pensatori medioevali. E mentre affermava
apertamente ch’egli voleva « reiicere syllogi- smurn », forse riconosceva che
della sillogistica non aveva già abusato l’autore suo, ma i Neoplatonici e più
tardi gli Scolastici, i quali valendosi del Raziocinio avevano diffuso tutti
quegli errori, di cui risentivansi vivi più che mai i danni a’ suoi tempi, in
tutti i rami del sapere. Con Cartesio e Bacone si inizia la filosofia moderna,
poiché entrambi cominciarono con la critica severa del passato, dubitarono
della loro scienza, poi ne divennero certi, fondandola l’uno sul puro pensiero,
l’altro sull’esperienza: quegli si valse a preferenza della Deduzione, questi
dell’Induzione. Cartesio sdegnò ogni sapere- che non fosse trovato dalla
propria riflessione, volle trovare da sé, e il suo punto di appoggio Samt-Hilairo - De la logique d’Avistote.
Preface, pag. XLIfu la coscienza: sottraendo tutto, rimane per lui il pensieio,
onde il famoso . « Cogito ergo sum »; e trovata la vera conoscenza potè poi
dedurne le altre. Tanto egli quanto la sua scuola notarono che la Logica antica
eia troppo complessa, occupava eccessivamente lo spirito, e poteva giovare ad
esporre, non a scoprire la verità, non era in grado di dare principi, e non
serviva ad altro che a parlare verosimilmente di ciò che si ignora. Il metodo
di Cartesio poi, in partieoiar modo, era deduttivo; ma il Sillogismo per lui
serviva ad esporre i risultati di ogni ricerca; lo spirito solo bensì poteva,
secondo lui, scoprire i principi reali, le nature semplici. Onde la Deduzione
cartesiana si occupava solo con, metodo analitico della verità, e non della sua
espressione formale, e tutto subordinava all’intuizione diretta dello spirito.
Appena potè svincolarsi dalla soggezione dei maestri, Cartesio, come narra nel
suo Discorso sul Metodo cessò affatto dagli studi intrapresi, e si diede a
viaggiare, a frequentare persone di diverse condizioni, a raccogliere
esperienze, con l’intento di non cercare più altra scienza se non quella che
poteva trovare in se stesso e nel gran libro del mondo. Il primo
vantaggio ricavatone fu di « ne rien croire trop fermement de ce qui ne m’avoit
été persuadé que par l’exemple et par la coutume. Così si liberò .a poco a poco
degli errori e fece un bel giorno il proposito di studiare se stesso e di
adoperare tutte le. forze dello spirito a cercare le vie che esso deve seguire.
Da giovane aveva appreso la Logica, la Geometria, Cartesio, Discours de la méthode
l’Algebra, tre scienze che dovevano servirgli per il suo disegno. Ma, dopo le
assidue cure da lui poste nel ricercare il vero, si accorse che nella Logica il
Sillogismo e le sue regole servono a spiegare agli altri le cose che si sanno,
non già ad apprenderle. Per di più la Logica antica era, secondo lui, «
si abstrainte à la consideration des figures, quelle ne peut exercer
l’entendement sans fatiguer beaucoups l’imagination. E perchè le molte regole offuscano
la chiarezza di una scienza, ai molti precetti della Logica sostituì queste
quattro regole, alle quali promise di attenersi fedelmente: 1° Non si deve aver
per vera alcuna cosa, se non si riconosce evidentemente tale. Devesi dividere
ciascuna difficoltà per meglio risolverla. Si conducano per ordine i pensieri,
cominciando dagli obbietti più semplici e facili a conoscersi e andando ai più
complessi. 4° Si facciano enumerazioni così intere da essere ben certi di non
aver trascuralo nulla. Concludendo, la logica Cartesiana ripudiò tutte le
artificiosità della Sillogistica antica, esaltò l’uso del- 1 analisi matematica
nella ricerca della verità ; sdegnò occuparsi dell’espressione formale della
verità stessa, e come abbiamo già detto, tutto subordinò all’intuizione
diretta, ed all’attività dello spirito. Nuovi colpi alla validità del
Raziocinio da Locke, nel suo Saggio sull’intendimento umano, nel quale negò che
lo spirito umano apprenda a ragionare con le regole del Sillogismo: il
Raziocinio per lui non è utile a scoprire la falsità di un argomento e non
serve affatto ad accrescere le nostre conoscenze: Cartesio, Disc. de la mét., tutt
al piu è utile come arte di far valere disputando quel po’ di conoscenza che
abbiamo, senza nulla aggiungere. Ed ecco in qual modo pervenne a queste
conclusioni. Nel Saggio citato si propose due fini: 1 di combattere 1 innatismo
delle idee; 2° di dimostrare 3 origine empirica di tutte le nostre conoscenze,
riannodandosi in tal modo alla dottrina di Bacone e combattendo la filosofia
Cartesiana. L'intelletto, pel Locke, è un foglio bianco in cui non sono
caratteri di sorta: ve li scrive sopra il senso, poiché « nihil est in
intellectu quod prius non fuerit in sensu; Le idee poi sono semplici e
complesse; queste ultime sono combinazióni di idee semplici, le quali alla loro
volta nascono dalla sensazione e dalla riflessione. Stabiliti questi punti
fondamentali della sua dottrina, il Locke negò recisamente il valore del
Raziocinio, poiché, secondo lui, esso non aiuta la ragione se non nel mostrare
le relazioni che passano fra le idee di una proposizione; ma anche in ciò l'uso
suo è assai limitato; queste relazioni si scoprirebbero anche senza il suo
soccorso. E quanti sono quegli uomini che, incapaci di formare un Sillogismo,
ragionano tuttavia giustamente ! Del resto è assai dubbio che anche coloro i
quali conoscono l’arte e le regole del Raziocinio se ne servano per ragionare,
essendo tale metodo troppo lento, e correndo la mente umana molto più veloce.
Coloro poi i quali sono penetrati bene addentro nella conoscenza di tali
regole, non sono punto ceni, in virtù di un’argomentazione sillogistica, che la
conclusione discenda dalle premesse; essi fanno una semplice supposizione. Se
il Sillogismo fosse il vero e solo strumento della ragione, e l’unico mezzo di
giungere alle conoscenze, bisognerebbe ammettere che prima di Aristotele non vi
fosse alcuno che conoscesse qualche cosa con la ragione. Questa forma di
argomentazione non porta con sè nè chiarezza nè convinzione; chè essa è
suscettibile del falso come ogni più semplice specie di ragionamento, ed anzi,
come forma artificiosa, è più atta ad imbrogliare la mente che ad istruirla e a
dissiparle attorno le nebbie. Onde, conclude Locke, dobbiamo valerci di qualche
altro mezzo per giungere alla conoscenza, e, con tutto il rispetto allo-
Stagirita, riconoscere che « Dio non è stato cosi poco liberale cogli uomini,
da abbandonarli come semplici creature di due piedi, senza piume e con ugne
lunghe, finché Aristotele non li avesse fatti animali ragionevoli col
Sillogismo. » L’uomo ha la potenza di ragionare e di apprendere le relazioni
delle sue idee. Se dobbiamo quindi scoprire i difetti di un ragionamento, non
abbiamo che da spogliarlo delle idee superflue, le quali mescolate in quelle da
cui dipende la conseguenza sembrano mostrarne, una dove non è ; quindi
confrontare queste idee; e senza tutte le noiose finezze del Sillogismo
scopriremo la loro convenienza o sconvenienza. Queste furono le critiche del
Locke, il quale negò inoltre che il Raziocinio aiuti la mente a fare nuove
scoperte, ed ammise che esso serve tutt’al piò a convincere gli uomini dei loro
errori e dei loro inganni, a disporre le prove che già si conoscono, venendo
sempre dopo la cognizione dalle verità, e a far valere disputando la conoscenza
che si possegga, senza nulla aggiungere. Nel Raziocinio infine scoprì un altro
gravissimo difetto. Ogni ragionamento sillogistico, egli osservò, per essere
concludente deve avere una proposizione generale: or bene parrebbe che noi non
potessimo nè ragionare nè aver conoscenze di cose particolari. Ma ogni
ragionamento, come ogni conoscenza, non verte che sulle idee esistenti nella
mente di ciascun uomo, ognuna delle quali non è che un esistenza particolare; e
le cose sono obbietto delle conoscenze umane in quanto sono conformate a queste
idee particolari che ha l’uomo nella mente. L’universalità consiste in ciò che
le idee particolari, le quali ne sono soggetto, sono tali che ad esse più d’un
caso particolare può essere conforme, e più d’una cosa particolare può essere
da loro rappresentata. Come Giovanni Locke aveva ripreso ed ampliato le
critiche di Bacone alla dottrina sillogistica, così Niccolò Malebranche riprese
le obiezioni di Cartesio. « La logique d’Aristote,
secondo lui, n’est pas de grand usage, a cause qu’ elle occupe trop l’esprit,
et qu’ elle le détourne de l’attention qu' il devroit ap- porter aux sujets qu’
il examine. Le regole
che diede il filosofo per la ricerca della verità sono oltre modo semplici; la
prima è che bisogna sempre conservare l’evidenza nei ragionamenti per scoprire
il vero senza timore di sbagliare; onde noi non dobbiamo ragionare se non su
cose delle quali abbiamo idee chiare e precise, e cominciare dalle cose più
semplici e più facili, ed arrestarci a lungo prima di intraprendere la ricerca
delle più complesse e diffìcili. Il Malebranche sostenne che bisogna comprendere
bene lo stato della questione da risolvere, ed avere idee distinte sui termini
per poterli paragonare, e (1J Locke, Saggio filosofico sull’intelletto umano.
Cfr. anche il Saggio del Locke compendiato dal Winne e tradotto da Soave, Voi.
II, pag. 110-113. (2J Malebranche, De la recerche de la Verité, lib. VI, cap.
1. scoprire i rapporti cercati. Quando poi questi non si scoprono paragonando
le cose immediatamente fra loro, allora bisogna scoprire, con qualche sforzo
della mente, una o più idee che possano servire come di misura comune per
riconoscere per mezzo loro i rapporti che vi sono tra esse. Così il filosofo
francese continuò l’opera del sommo suo connazionale, disconoscendo ogni valore
alla Sillogistica di Aristotele, e tentando di rinnovare la Scienza con l'uso
dell’analisi matematica. Il Malebranche fu imitato e seguito fedelmente dal-
l’Arnauld e dal Nicole, i quali rimproverarono alla Logica aristotelica di
essere in molte parti imbarazzante ed inutile. La Logica di Portoreale che,
come avverte il Cantoni (3), diede l’ultimo tracollo all’Aristotelismo
scolastico, « perchè lo colpì in quella parte che costituiva la maggior sua
forza, cioè nella parte formale », ebbe il merito di essere pei suoi tempi
d’una grande originalità ed arditezza, e di preparare il trionfo della
riflessione personale sui pregiudizi dell’autorità. Giovanni Locke aveva negato
che lo spirito umano apprenda a ragionare con le regole del Sillogismo e che
con esse si acquistino nuove conoscenze; Cartesio d altro lato aveva accusato
la Logica antica di essere tioppo complessa ed aveva sostenuto che il
Raziocinio è metto a scoprire la verità, ed utile solo ad esporle; Guglielmo
Leibniz, pure ammettendo che della Sillo- gistica si f osse fatto un grande
abuso, sorse col Nuovo (2)^nanld nCh T ~ D6, la D rech - de la Veri* lib. VI.
cap. Piefalione àu et ^t-Royal. - Cfr. anche Compayi a.' asU * * L ^“ (') . Cantoni
— Storia della Filosofia, pag. 269 - 260 . Saggio sull'intendimento, a
sostenerne la reale utilità, è da grande filosofo ne fece uno studio veramente
profondo (1). Egli avvertì giustamente che la forma scolastica del Sillogismo
si usa poco e sarebbe troppo lunga ed imbrogliata se la si volesse adoperare
seriamente; ma con tutto ciò riconobbe nel Raziocinio UDa delle più belle
invenzioni dello spirito umano (2). Al Locke, il quale aveva detto che il
Sillogismo non serve che a vedere la connessione delle prove in un solo
esempio, rispondeva che sarebbe ridicolo voler argomentare alla maniera
scolastica nelle deliberazioni a causa della prolissità imbarazzante di quella
forma di ragionamento: non per questo è men vero, che nelle più importanti
deliberazioni della vita una logica severa è necessaria, poiché gli uomini si lasciano
abbagliare dall’eloquenza e dall’autorità, dagli esempi male applicati e dalle
conseguenze fallaci. Sostenne poi che tesservi molti uomini i quali pure
ignorando del tutto le regole della Sillogistica ragionano dirittamente, non
porta già a disconoscere l’utilità del Raziocinio, allo stesso modo che non si
può negare l’utilità della matematica, solo perchè alcuno, senza aver appreso
l’aritmetica, sa fare conti anche difficili. E contro il Locke, il quale aveva
affermato che anche i Raziocini possono diventare sofistici, osservò
giustamente che le loro stesse leggi servono a riconoscerne la falsità: e se il
Sillogismo non vale nè a convincere, nè a (1) Leibniz, Nuovo Saggio
sull’intendimento, lib. VI, cap. I, e lib. IV, cap. 1G., . (2) « C’est ne
espèce da mathéinatique, dice il Leibniz, dont l’importance n’est pas assez
connue; et l'on peut dire qu un ar d’infallibilité y est contenu, pourvu qu’on
sache, et qu on puisse s’en bien servir. » Saggio ecc. lib. IV cap. I. convertire
alcuno, non è già per la sua inettitudine, ma perchè l’abuso delle distinzioni
e dei termini male intesi ne rende l’uso troppo prolisso (1). Infine notò che
solo nella conoscenza intuitiva si vede immediatamente il legame delle idee e
delle verità ; ma la dimostrazione fondata su idee medie è quella che ci dà una
conoscenza ragionata, e ciò perchè il legame dell’idea media con le estreme è
necessaria. Ecco in qual modo Guglielmo Leibniz seppe rivendicare il valore del
Raziocinio, a torto disconosciuto così dagli Empirici, come dai Razionalisti,
che l’avevano preceduto. Ma ben presto un altro filosofo insigne sorse a
riprendere la critica contro la Sillogistica, ed a parlare con disprezzo di
quello che Aristotele aveva considerato come istrumento di cui si serve la
ragione umana nell acquisto delle conoscenze. Contro Aristotele erano insorti
Bacone, Locke, Cartesio; contro il Leibniz si levò il Condillac; più tardi
contro il Kant insorgeranno il Mill e lo Spencer, e mentre i Logici inglesi si
sforzeranno di rifare la Logica aristotelica, in Italia fi Galluppi, il Rosmini
ed il Gioberti sosterranno ancora una volta l’utilità del Raziocinio. Quando il
Voltaire, abbandonata rin£Thilt.err fl ritm-nè (Oeuvres philosophiques a e
Leibniz voi. I., cap. I. avec introd, p. P. Janet, e come già il Montesquieu
aveva divulgato la costituzione inglese, cosi egli, ardente seguace del Locke,,
fece noto ai Francesi il Saggio sull’intendimento- umano, che ebbe tosto non
pochi ammiratori: primo e più grande fra tutti il Condillac. Questi da
principio seguì le traccie del filosofo inglese nel Saggio sull'origine delle
conoscenze umane, e terminò poi nel più schietto sensismo. Nella Logica, nella
quale seppe- imprimere un’orma d’originalità come pochi altri filosofi, parlò
della Sillogistica con grande disprezzo,, e- credette di annientare il valore
del Raziocinio \&r lendosi di questo ragionamento: Ogni giudizio da noi
pronunciato può includerne implicitamente un altro- non espresso; se diciamo ad
esempio che un corpo è- pesante, affermiamo implicitamente che esso cadrà se
non sarà sostenuto (1). Quando perciò un giudizio è contenuto in tal modo in un
altro, si può pronunciare come una derivazione del primo, e dicesi perciò che
ne è la conseguenza. Ciò posto, fare un Raziocinio- non è altro che pronunciare
due giudizi di questa specie; e nei nostri Raziocini come nei giudizi non-
v’hanno se non sensazioni. Il secondo giudizio nel suesposto Raziocinio è
sensibilmente racchiuso nel primo e non v’è bisogno di cercarlo; ma se il
secondo- giudizio non si mostrasse nel primo,, allora farebbe d'uopo cercarlo, cioè
passando dalla cosa nota ai-- l’ignota, si dovrebbe scorrere per una serie di
giudizi intermedi per vederli tutti successivamente contenutigli uni negli
altri, fino a scoprire che il secondo gidizio è una conseguenza del primo. Ogni
ragionamento è un calcolo; non consiste nell’andare dal generale al. ( 1 )
Condillac, Logique, Pait. I, cap. 7- particolare, dal contenente al contenuto,
ma dal medesimo al medesimo, cambiando i segni; suo principio è l’identità, suo
procedimento unico è la sostituzione. 11 tipo di questo genere di ragionamento
è il ragio- nemento algebrico, al quale tutte le altre forme si possono
ridurre. Nè importa obbiettare che così si piocede in Matematica, ove il
Raziocinio si fa per equazioni; giacché avviene lo stesso anche per le altre
scienze: equazioni, giudizi, proposizioni sono la medesima cosa. In ogni
questione scientifica sono contenuti implicitamente i dati, altrimenti essa
sarebbe insolubile; il trovarli è separarli e distinguerli in una espressione
in cui non si trovano che implicitamente; e per sciogliere la questione bisogna
tradurre l’espressione in un’altra, nella quale tutti i dati si mostrano in
maniera esplicita e distinta (1). L’artificio del Raziocinio è dunque lo stesso
in tutte le scienze: come in Matematica si stabilisce la questione traducendola
in néfla „iù * SCie " ze si ‘‘“lisce tradendola è ann i, n^ MeSprmi
°" e: 6 1“^» la questione che uóatri C " e la 5ci °* lie »»n è altro
z '° ne vixz “onTluro'ohe™! “riputo “Si^T 0 ” 6 S 6 " 0 ™ 1 * Particolari,
e non ci ° “ n ° SCenM a—ce che (•) Condillac — Loeiaun p»,.* tt C2; Cond. _
Loo- P 8 '! tt o Cap - 8 ’ tt) yn - n > ca P- 8 - {ó ) 0ona - — Art. do
Denser pL», resto riconosceva altrove che non =; f ’ Cap ' 6 ' 11 Coudillac del
della verità se non unendo in un J T f° gl ' essi nella ricerca unendo in un
solo metodo l’analisi e la sintesi. Onde il Sillogismo, che è il grande
strumento della Sintesi, è perfettamente inutile, e seguire la Sillogistica è
far consistere il ragionamento nella forma del discorso più che nello sviluppo
dellè idee (1). E nulla vi è di più frivolo che questo metodo, perocché non
importa punto la forma del ragionamento:
pag. 48. osserva che non propriamente l’Hamilton ma un altro filosofo,
Giorgio Bentham (1827), riconobbe la necessità di dare al predicato una
quantità uguale a quella del soggetto; perii primo però l’Hamilton riconobbe le
con- seguenze di tale principio e le sistemò definitivamente (1). Emanuele Kant
aveva fatto distinzione tra la forma e la materia della conoscenza; il filosofo
inglese poi diede il nome di pensiero all’elemento formale, considerò il
pensiero come l’opera degli atti dell'in- tendimento, pei quali noi elaboriamo
i materiali fornitici dalle facoltà rappresentative, quindi come confronto,
analisi, sintesi di attributi, nozioni, giudizi, e riguardò la Logica quale
scienza delle leggi del pensiero. Essa, secondo Hamilton, non considera le cose
come esistono in sé, ma solo le forme generali del pensiero, sotto le quali la
mente le conosce, è in sostanza scienza puramente formale, non garantisce nè le
premesse nè la conclusione, ma solo la conseguenza di questa da quelle; e il
Raziocinio è l’affermazione esplicita della verità di una proposizione,
nell’ipotesi chealtre proposizioni, le quali la contengono, siano vere. La
Logica considera non gli atti, ma i prodotti dell’intendimento, e le leggi
fondamentali a cui essa è sottomessa sono tre: di identità, di causalità e del
mezzo escluso, le quali non possono essere negate, perchè altrimenti
bisognerebbe negare anche la possibilità del pensiero. Avendo la Logica per
oggetto a forma del pensiero, (proseguiamo nell’esposizione della dottrina
dell’Hàmilton, quale risulta dai Frammenti di Filosofia tradotti dal Peisse)
per compiere l’opera sua deve poter esprimere totalmente il senso de e nozioni,
Hamilton, Progments de philosophie, farad, par L. Peisse.dei giudizi, dei
ragionamenti che considera, deve poter enunciare nel linguaggio tutto ciò che è
contenuto impiicitaniente nel pensiero. Da quanto si è detto deriva l a teoria
d eila quantità del predicato. Ogni proposizione è composta di un soggetto e di
un predicato, uniti da una copula; noi pensiamo il soggetto con una quantità
determinata e dalla sua quantità risulta quella della proposizione. Ma il
predicato è sempre pensato in maniera quantitativamente indeterminata? Spesso
si esprime senza unirgli un segno preciso di quantità, come in quest’esempio: «
tutti gli uomini sono mortali », senza dire se si intende parlare di tutti i
mortali o solo di qualcuno. Vi sono però casi in cui il linguaggio esprime la quantità
anche del predicalo, come in quesl’altro esempio: « nell’uomo non vi ha di
grande che lo spirito ». Potrebbe quindi nascere il dubbio che vi fossero
eccezioni nel pensiero, come ve ne sono nel linguaggio: per risolvere tale
questione consideriamo l'atto dell'intendimento pel quale uniamo un predicato
ad un soggetto. Una nozione è l’idea dell’insieme degli attributi generali per
cui una pluralità di obbietti individuali coincide; è un tutto puramente ideale
che lo spirito è costretto a formare per classificare nel pensiero e separare
nel linguaggio gli obbietti vari della sua conoscenza. Attribuire un predicato
ad un soggetto è pensare questo obbietto individuale in una nozione data: dire
per es. « l’uomo è animale », è porre la nozione « uomo » sotto la nozione
«animale». Ma per pensare un concetto sotto un altro bisogna conoscere non solo
che l’uno è parte dell’altro, ma anche qual parte ne e; onde il predicato è
pensato sempre e necessaria- 1 mente con una quantità uguale a quella del
soggetto.li linguaggio che bada solo ad esprimere ciò che si pensa, non come si
pensa, non va tanto pel sottile, ma la^ Logica deve enunciare tutto ciò che è IMPLICITAMENTE
[cf. H. P. Grice, IMPLICIT REASONING – Aspects of reasoning – implicature,
explicature] contenuto nel pensiero ed assegnare ai predicati di tutte le
proposizioni una quantità determinata. Venendo poi all'applicazione di questa
teoria, se il predicato è sempre implicitamente pensato e dev'essere espresso
come una quantità determinata, se questa •quantità è uguale a quella del soggetto,
se la proposizione è in ultima analisi un'equazione, ogni ragionamento va da
quantità uguale a quantità uguale, ogni Sillogismo è in fondo una_serie di
equazioni tra ‘membri equivalenti. Non si deve più parlare di maggiore, minore,
termine medio ecc.; il tipo di ogni ragionamento è: A = B; B = C; dunque A = C.
Due sono poi le specie di ragionamento, poiché, se assolutamente •considerati
tutto e parti sono identici, nell’ordine del pensiero si può concepire prima il
tutto per dividerlo nelle sue parti, con una analisi mentale, o prima le parti
per riunirle in un tutto, con una sintesi mentale: si ha così un ragionamento
deduttivo ed uno induttivo. L’Induzione riposa sul principio che ciò che
appartiene alle parti appartiene al tutto, ed ogni ragionamento induttivo si
può mettere in forma sillogistica A è B, X, Y, Z è A ; dunque X, Y, Z è B; la
differenza del Sillogismo ordinario è che nella forma suesposta 1 uno dei
termini della conclusione in luogo di essere un tutto è una enumerazione di
parti: la quale devessere compiuta nell’Induzione formale, mentre nella reale.
non può mai essere (1). Ragionare non è dunque, per concludere, ar rie ~(i;
Liard - Op. Cit., pag. 60-G9 ed Hamilton, op. cit. trare una nozione in
un’altra, ma sostituire in proposizioni date nozioni equivalenti a nozioni
equivalenti; onde tutti i Raziocini riposano sul principio della sostituzione
dei simili, in virtù del quale in ogni proposizione una nozione può essere
sostituita da un’altra equivalente; il ragionamento è, in altri termini, un
atto di confronto o di giudizio mediato, perchè ragionare è riconoscere che due
nozioni sono tra di loro nella relazione di tutto e di parte, ed hanno lo
stesso rapporto con una terza. Questa è la teoria con la quale l’Hamilton
pretese di aver riempito le lacune del sistema aristotelico, e di averlo nel tempo
stesso semplificato e liberato da tutte le regole imbarazzanti ed inutili. Non
ci sembra però che il filosofo inglese abbia per questo riguardo così bene
meritato della logica formale; e quantunque la critica mossagli da Stuart Mill
non sia, a nostro avviso, in tutto fondata, nè priva di esagerazioni, crediamo
tuttavia che egli non vada molto lungi dal vero quando afferma che le nuove
forme introdotte nella Sillogistica non offrono maggior vantaggio delle
antiche; chè anzi vi hanno introdotto ' nuove e serie complicazioni. « Le nuove
forme, dice Mill, noni offrono praticamente alcun vantaggio; v’è poco merito ad
averle inventate, e poco vantaggio a servirsene, al meno che noi le vogliamo
riguardare come un esercizio di ginnastica mentale, utile a rafforzare le
facoltà intellettuali degli scolari. - /l I filosofi inglesi seguaci di Hamilton
si sforzarono Mill, La philosophie de Hamilton (trad. Cattive 8 ’ 493 ‘ ? fr '
anChe Bain * Lo o‘ c l ue deductive ed indu- ct.ve » trad. par G. Compayré,
Voi. I. pag. 129-181 e pag.269-2G6. sempre più di rinnovare la vecchia Logica,
allargando la base della Logica deduttiva, e dando della Deduzione una teoria
generale, che abbracciasse tutti i casi ai quali questo metodo è applicabile. E
se noi volessimo parlare convenientemente di De Morgan, di Booles, di Jevons,
dovremmo estenderci troppo a lungo, e usciremmo dai modesti confini che sin dal
principio abbiamo proposti, al nostro studio. Onde ci limiteremo ad accennare
brevissimamente come ognuno dei tre filosofi nominati svolgesse le idee
dell’Hamilton, rimandando chi fosse desideroso di vedere trattata con ampiezza
e profondità questa materia agli scritti magistrali del Bain e del Liard (1).
Il Morgan, al pari dell’Hamilton, considerò la Logica come una scienza
puramente formale, che nulla ha a vedere con la materia della conoscenza e solo
studia le leggi di azione del pensiero, e non tratta se non delle cose in
relazione col pensiero e di questo in relazione con quelle. Vi ha per lui-
inferenza quando le due premesse sono universali, o quando, una sola essendo
particolare, il termine m e d i o h a
_qu. sperimentali; le seconde sono comprensive di tutto ciò che del creato può
venire a cognizione dell’uomo. Seguace di Galluppi fu invece, per quel che si
rife- ( risce al Raziocinio, il Rosmini, il quale come già nel Nuovo Saggio
erasi proposto il problema della conoscenza, ricercando il punto ove
sensibililà ed intelletto si congiungono insieme per produrla, così nella
Logica combattè Bacone perchè aveva preteso che solo con l’Induzione si
riuscisse a scoprire le verità, contrapponendola al Sillogismo, relegato fra
gli istrumenti vani ed inutili. Il Raziocinio, pel filosofo di Rovereto «
dimostra la precedenza della verità ueH’uomo a lutti i trovaraenti particolari
del pensiero. » Esso ha valore sia nel campo teorico sia nel pratico: perocché
pel primo riguardo bisogna considerare: 1° che solo l’uomo esercitato nelle
inferenze si mantiene coerente nei ragionamenti; 2° che il ragionamento
acquista con l’illazione precisione e chiarezza; 3° che una dottrina non è
ridotta in forma di scienza se non quando essa è ridotta ad un principio del
quale tutto ciò che essa contiene sia una serie di conseguenze le une derivate
dafie altre; 4° che l’inferire le conseguenze da principi conduce alla scoperta
di nuove verità; 5° che le inferenze scoprono nuovi veri non solo nella
dialettica e nella metafisica, ma anche nella fisica. Nel campo 1; Bufalini
-Quesiti sul metodo scientifico. Proemio. Rosi; “T ~ L ° SÌCa N ’ 1002 -
°P->. Secondo il affermai 30 certo ^P^to aveva ragione l’Euler quando
Sillogismo V 6 *-° gni ve “ til dev e essere la conclusione di un Uogismo, le
cui premesse siano indubitabili. pratico poi il Raziocinio è di somma
importanza: perchè l’uomo il quale mostra coerenza nei pensieri e nei
ragionamenti suole essere coerente in atte le sue azioni; perchè anche negli
uffici privati e pubblici il più efficace principio è quello della coerenza,
laddove l'incocrenza rende deboli i governi stessi, e guasta l'esito di ogni
grande impresa. Di queste dottrine si fecero sostenitori anche il Mamiani, il
quale affermò apertamente che il pensiero se non fosse aiutato'dal Raziocinio
non potrebbe in molti casi farsi strada à scoprire attinenze recondite piene di
grande dottrina (1); e Gioberti che, dopo aver sostenuto il progresso
discorsivo essere il successivo conoscimento che l'uomo ha dell’atto creativo e
del progresso cosmico (2), nella Teoria del Sovranaturale scriveva: « Il
progresso che la causa efficiente fa dal principio sino alla fine nello svolgimento
successivo della creazione, corrisponde al processo intellettuale che fa la
mente dai primi principi sino alle ultime conseguenze nella esplicazione successiva
della scienza, e che si Chiama discorso. Per tal guisa il ragionamento
dell’uòmo è parallelo ed analogo col processo della natura, e là logica, ossia
la sillogistica, si riscontra nella cosmologia (3) ». (i; ROVERE (si veda)
afferma cbe l’elemento estrinseco del ragionare importa assai più di quanto si
creda ai giorni nostri, onde' ammonisce che non si deve distruggere l’opera
della Scolastica,, ma ravvivarla con più largo spirito filosofico. (Del
Rinnova-, mento della filosofia antica italiana. Cap. XIII, pag. 110). (2) Gioberti —
Introduzione allo Studio della Filosofia, Voi. Il,' pa. (8) Gioberti — Teorica
del Sovranaturale. Compiuta così rapidamente l'esposizione delle dottrine dei
filosofi intorno al valore del Raziocinio, ci rimane a farne una critica equa e
severa, per poter poi m fine dedurre un giudizio che non pecchi di
esagerazione. Poiché la logica posteriore ad Aristotele non fu, per dirla con
un acuto critico francese, che un - « eco dei filosofi o un’opposizione
impotente contro teorio che si appoggiano sulla verità (1) ». E quel che ò più,
esagerarono i filosofi dell’una e dell altra specie;, gli uni rendendo la
Logica aristotelica un vuoto formalismo e sostenendo il valore del Raziocinio
là ove non dovevano; gli altri combattendolo anche in ciò- in cui non era
impugnabile. Ed in vero, come vedemmo, nel secolo XVI cominciò contro la
Sillogistica di Aristotele un'opposizione fierissima, la quale credette di
abbattere, ma non riuscì che a far vieppiù risplendere la gloria di quell’opera
immortale. Tale movimento contrario allo Stagirita cominciò col Ramo in
Francia, e per mezzo di Bacone e Cartesio continuò fino al Locke, spirito
profondo, il quale seppe per un istante far disprezzare l’opera che per circa
venti secoli aveva istruito lo spirito umano; finché col Coudillac parve che
tutta l'ammirazione per Aristotele fosse svanita affatto, nè si ricordassero i
principi e la storia del - l'Analitica antica, nè più si distinguesse la pura e
genuina dottrina dello Stagirita dai travestimenti che l'età di mezzo le aveva
imposti. Fu vanto del Leibniz 1 aver proclamato che Aristotele non era
irreconciliabile con lo spirito moderno, e l’avere sostenuta la importanza
innegabile del Sillogismo, che egli chiamò una delle più belle invenzioni dello
spirito umano. (1) Saint-Hilaire — De la logique d’Aristote. La reazione del
Leibniz fu continuata dal Kant, •dall’Euler, dal Lambert, seguendo la sentenza
del sommo filosofo di Kónisberg, che alla Logica quale •era stata fissata da
Aristotele nulla v ! era da aggiungere. Poi contro il Alili, il Bain, lo
Spencer, i quali nel giudicare il Sillogismo avevano ripreso le antiche teorie
degli Scettici, insorsero nella stessa Inghilterra 1’Hamilton, il Mor- -san, il
Booles, benché cercassero a torto di semplifi- care un’opera che non ne aveva
bisogno, e riuscissero invece ad imbrogliarla e ad ottenebrarla, e, molto
meglio, in Italia l’utilità del Raziocinio fu sostenuta dai più grandi
pensatori, dal Galluppi al Rosmini, dal Gioberti al Mamiani. Ed a ragione;
poiché la Logica antica non è falsa, bisogna saperla applicar bene: come
avvertiva il nostro grande Galilei; e la scoperta del Sillogismo, vanamente
contestata, porta in se stessa qualche cosa di prodigioso, come osserva
Saint-Hilaire. Rien ne la revèle avant Aristote, scrisse il grande critico francese,
après lui rien ne la peut renverser. Une école de plnlosophie a tentò
inutilement aprés dixhuit siécles, d’en nier la vórité et la valeun ses efforts
impuissants n’out pu prévaloir; 1 esprit philosophique, à l’heure qu ’il est.
vit de nouveau •de la foi aristotélique, et il croit, d’après elle, à des
principos genéraux et indemontrables dans l’intelli- gence, sources de la
démonstration et du syllogisme. Saint-Hilaire, De la logique cl’Aristote. Critica
delle obiezioni mosse eontro il valore del Raziocinio. Le obiezioni mosse da
alcuni filosofi contro il genuino valore del Raziocinio possono dividersi in
due categorie: le prime riguardano il Sillogismo come forma tipica' di ogni
argomentare deduttivo, le seconde lo riguardano come fondamento dcirinduzione:
delle une e delle altre dobbiamo fare una critica breve, ma più che sarà
possibile esatta; e cominciamo senz’altro dalle obiezioni della prima specie.
La legge principale del Raziocinio è che la maggiore contenga la conclusione:
da essa trae la sua forza il Sillogismo, ad essa si riducono le altre otto
regole riferentisi ai termini ed alle proposizioni. Ebbene, Mill, Erberto [cf.
ERBERTO GRICE] Spencer e tutti gli altri Logici inglesi della loro scuola
affermano che appunto per essere la conclusione contenuta nelle premesse il
Raziocinio è del tutto inutile. Bisogna però intendersi intorno al significato
da darsi alle parole « contenuto nelle premesse. Con tale espressione
intendiamo di dire che la conclusione è contenuta IMPLICITAMENTE – cf. H. P.
Grice, Aspects of reaoning, Implicit reassoning, Implicature, Explicature] nella
maggiore, perchè se vi fosse contenuta « esplicitamente la maggiore sarebbe
particolare e non più universale. Ma è regola del Sillogismo che nulla si può
concludere da due premesse particolari. La conclusione è adunque nota in virtù
del Raziocinio che rende esplicita la notizia prima implicita, o per lo meno,
nei casi in cui la conclusione fosse già nota prima come fatto, eleva la
notizia al grado di scienza. In realtà l’illazione non ha servito a formare le
premesse, e non è vero che una proposizione generale si possa applicare solo ai
casi nei quali è stata verificata; l’esperienza stessa contraddice
l'affermazione, giacché quando affermo: Tutti gli uomini sono mortali, Caio è
uomo, Caio dunque è mortale », il caso di Caio ancora vivente non ha potuto
servire a formare la premessa generale. Talora il Sillogismo anche di
sussunzione può essere ben più diffìcile, potendo essere difficilissimo vedere
se un soggetto si riporta o no ad una classe avente una determinata proprietà,
o la ragione per la quale un soggetto ha o non ha una proprietà qualunque. Naturalmente
la conclusione dev’essere contenuta nelle premesse, e il- Raziocinio è
precisamente l’operazione del pensiero necessaria per dare forma logica
dimostrativa alla contenenza della illazione nelle premesse. Del resto la
maggiore non ha una universalità puramente quantitativa, la quale sarebbe
distrutta da un solo caso particolare contrario, ma è una legge, cioè un
universale quantitativo. L’operazione sillogistica, come fu avvertito
acutamente. non è quindi diversa nel Sillogismo di sussunzione dalla funzione
interpretativa del magistrato che applica la legge al caso speciale, operazione
anche questa non facile e dalla quale si riconosce il valore del giurista.
Senza contare che non tutti i Sillogismi sono e tipo di quello citato da Stuart
Mill; poiché ve ne sono alcuni nei quali non si applica solo una regola
generale ad un caso speciale, ma in cui le due piemessc Masci, Elementi di
filosofia, Logica. sono proposizioni generali, e la conclusione è una
proposizione generale che non può essere provata con Tlnduzione, senza
ricorrere ad esperienze del tutto diverse da quelle dalle quali le premesse
sono state provate. Questo è il ragionamento che ha luogo quando noi veniamo a
conoscere che un dato fenomeno X ha costante relazione con un altro Y, non valendoci
di una generalizzazione ottenuta dall’aver osservato i fatti nei quali si
riscontra la connessione tra X e Y, ma servendoci della conoscenza ehe abbiamo
di una relazione tra X ed un terzo fenomeno Z e tra Y e lo stesso Z. In tal
caso non v’ha dubbio che con la Deduzione perveniamo a nuove cognizioni, a
scoprire cioè certe analogie che la semplice osservazione non ci avrebbe fatto
percepire. E, per concludere, il dire che ciò che si afferma nella conclusione
è già compreso nelle premesse è precisamente un mettere sempre più in luce
l’importanza del Raziocinio, perchè si viene a dire che con esso colui il quale
sapientemente trae le sue deduzioni rende fruttuose le premesse di cui si serve
nel suo ragionamento, al modo stesso che il lavoratore con l’opera indefessa
rende fruttuosa la terra, traendo alla luce i tesori che essa nasconde. Del
resto i Logici inglesi a provare la inutilità del Raziocinio si valgono pei
primi di un Sillogismo vero e proprio: Quel che è conosciuto, essi dicono, non
ha bisogno di essere provato; ma una illazione contenuta nelle prèmesse è nota;
dunque non ha bisogno di essere piovata. Or bene o essi considerano veramente
inutile il Raziocinio, e in tal caso non vediamo la ragione per cui se ne
debbano valere nelle loro dimostrazioni, e specialmente poi in questa; o di
fatto lo erodono giovevole alla ricerca della verità, e non sappiamo perchè
debbano con tanto accanimento disconoscerne a parole il valore. Cosi cade anche
l’obiezione che il sillogismo sia viziato da una petizione di principio, poiché
l’illazione non ha servito a formare la premessa, e la validità di questa è
indipendente da quella dell’altra; obiezione sorta perchè la Logica delle
scuole considerava la maggiore come universale semplicemente quantitativo,
laddove l’universalità della premessa esprime non già una somma, ma una legge.
Se il Sillogismo fosse il rapporto analitico dei concetti, distribuiti secondo
la loro estensione, servirebbe a classificare formalmente i concetti, non già a
scoprire nuovi veri: onde il Raziocinio non è punto un sofisma, come pretese
qualche filosofo. Mill, di fronte alla inconfutabilità di questa verità, cambiò
la teoria del ragionamento in generale e del deduttivo in ispecial modo, e
sostenne che inesso non si procede dal generale al particolare, ma dal
particolare al particolare. Da ogni esperienza, sono press’ a poco le sue
parole, nasce l’aspettativa che il caso futuro sarà simile a quello
sperimentato, e la fede cresce a mano a mano che aumentano le esperienze
accordantisi; la maggiore è un registro abbreviato di inferenze, una
assicurazione che le esperienze passa e singolare a legge e giunga al principio
die il furto deve andare impunito, vede meglio tutta l’enormità
dell’assoluzione. Il Sillogismo poi, secondo Mill,,rj 0 va perché il
ragionamento fondato sulle regole ha maggior evidenza e persuasione di quello
fondato sui precedenti e sugli esempi. Non occorre dopo quello che abbiamo
detto sopra fermarci molto a confutare l'opinione del filosofo inglese: è
chiaro che egli confonde il processo psicologico, il quale va dal particolare
al particolare, col procedimento logico, che ha per ufilcio di dire quando
l’inferenza è legittima: ed è tale quando la maggiore non è un registro di
inferenze ina una vera legge. Onde, concludendo, nel Raziocinio: « Tutti gli
uomini sono mortali: TIZIO (si veda) è uomo; Tizio dunque è mortale, si può
dedurre la mortalità di Tizio quando consta che egli è uomo. Che so la
proposizione generale fosse un semplice registro di inferenza, e una somma dei
particolari osservati, se esprimesse un semplice ricordo del passato, nulla si
potrebbe inferire dei particolari futuri. Ma qual meraviglia se Stuart Mill con
tanto accanimento impugnò il valore del Raziocinio? Egli riguardo alle idee universali
ed al principio di causalità la pensava come Hume [cf. Grice, HUMEIAN NATURE],
il quale non solo negava ogni valore oggettivo all’idea di sostanza come il
Locke, e la realtà delle idee astratte come il Berckeley, ma sosteneva che non
possiamo nò percepire nè dimostrare la causalità, quindi l’ammettiamo per
abito, perchè associamo due fatti che vediamo succedersi costantemente l’uno
all’altro. Un obiezione che a tutta prima potrebbe parer grave fu pure mossa da
alcuni Logici contro il Raziocinio; essi dissero che la sua efficacia sta tutta
nella con- nessione di nostri giudizi, quindi non ci assicura che della loro
coerenza; esso è nè più nè meno di una tecnica delle relazioni dei concetti,
che ha un ufficio secondario nella prova scientifica. Così il Sillogismo viene
concepito alla maniera di Bacone, il quale gli negò ogni valore oggettivo per
sè e lo stimò in tutto subordinata airinduzione, la sola adatta a scoprire i
principi delle scienze. Per ammettere vera e legittima ouest’obiezione
bisognerebbe credere con Pirrone Ene- side. no e LEONZIO (si veda) che la
verità non esiste e che noi non la possiamo conoscere in sè, avendo le nostro
cognizioni valore solo relativo. Colui il quale pertanto no°i sottoscrive allo
scetticismo assoluto, vero suicidio del pensiero, come ben fu definito (1), nè
d aiti a par e si appaga del dommatismo, che ammette il combacia- mento
assoluto tra la mente e la realtà, perchè con- trario ai risultati della
filosofia critica e non consentito dalla ragione e dall'esperienza inuminate,
nè ha fede nel semiscetticisrao Kantiano, giu m ier o »e surriferita degna in
tutto della filosofia dell «neono scibile II vero è che la connessione dei
nostri 0 iud.z non è mera legge formale subiettiva del P^ sie ™;“ a essa deriva
dalla connessione delle cose nel . . a La forma della conoscenza non può stare
d,s 'unto dalla materia; nè il pensiero da un qui tesato; Le nostre cognizioni
non possono essere vere M non sono conformi alla natura deg i o iie, a ’l la il
Baziocinio non deve essere vero solo quanto a la forma, cioè alla °e a dizi, ma
anche per quel che riguarua natura dell’oggetto su cui verte il ragio
ValdarniaL (si veda), Saggi di filosofia teoretica. il Sillogismo assicurandoci
della coerenza dei nostri pensieri ci garantisce che essi sono conformi alla realtà.
Erberlo Spencer ha creduto che manchi un principio- fondamentale, un assioma
sul quale si fondi il valore della Deduzione sillogistica: principio che,
secondo il suo sistema filosofico dovrebbe essere unico, ed avere valore
oggettivo, essere cioè una legge della realtà, non solo del pensiero. Ciò
sarebbe vero se si concepisse la conoscenza come imitazione passiva, copia
della realtà; ma la conoscenza nel suo procedimento logico deve essere
considerata come lavoro di sintesi e di analisi mentale, che passa per una
serie più o meno lunga di nessi ideali per giungere al nesso reale. E
affermando l’intelletto affermiamo la realtà di un ente, capace per sua natura
d’intendere, pensare e cogliere il vero; il pensiero si radica nella realtà e
partecipa dell essere universale: ed infine corre un'intima armonia tra le
leggi formali del pensiero e le leggi reali che governano la natura dell’essere
intelligibile. « Se la conoscenza, osserva giustamente il Masci, è via alla
realtà, se questa via è quella delle forme logiche e specialmente del
ragionamento, il principio di queste non deve dire quale dev'essere la realtà,
ma quale dev'essere il procedimento del pensiero per apprenderla mediatamente,
cioè quando essa è l’oggetto dell’esperienza diretta. Un tale principio non
potrebbe essere un principio della realtà, bensì solo un principio del pensiero
nella ricerca mediata e indiretta della realtà, lo schema di un procedimento
che ha in sè stesso quel carattere di logica evidenza che è criterio di verità.
Masci, Elementi di Filosofia Logica. I Logici non sono d’accordo sul principio
logico formale del Raziocinio, e se Aristotele formò detto principio tanto
sotto il rapporto dell’estensione, quanto, sotto quello del contenuto dei
concetti, la Logica tradizionale lo espresse col « dictum d e omni et de- nullo
», Kant la formulò nel « nota notae est nota rei; repugnans notae repugnat rei
ipsi », altri come- l’Hamilton lo presentarono nella forma dell’eguaglianza
delle parti col tutto, lo stesso Spencer ammise che l’istituzione dell'identico
è il procedimento generale dei raziocinio, e già il nostro CAMPANELLA (si veda)
affermato che la virtù di concludere questo da quello è nel sillogismo per
forza di identità. Ma a dire il vero i principi sui quali si fondala
legittimità dei nostri raziocini, non meno di quella, dei nostri giudizi, sono
i tre che emanano immediatamente dalla nozione di ente: quello di identità, :l
quale, applicato alla quantità, si trasforma nell’assioma il tutto è maggiore
delle parti, ed alla causalità nell’altro non v’ha effetto senza causa; quello
di contraddizione, e quello di mezzo escluso. In fatti come il secondo e il
terzo sono fondamento del sillogismo di seconda figura, cosi il rapporto di
principio ad effetto è il fondamento del raziocinio ipotetico, e pel
disgiuntivo vale il principio dell’alternativa, che è una forma di quello.
Concludendo, questo principio non ò oggettivo ma formale, non è legge della
natura ma del pensiero, non è l’assioma, ma gli assiomi fondamentali del pensare,
i primi ed evidentissimi, che non sono dimostrabili, ma si devono ammettere
come incontrastabili: essi sono la base di ogni ramo della [CAMPANELLA (si
veda), Universalis philosophia. scienza, non essendo essa se non un sistema di
cognizioni dimostrate e dipendenti da un solo principio, o in breve, come vuole
Gioberti l’esplicazione di un principio. Tali assiomi infine non derivano già
dal senso, nè da un intuito primitivo; chè la nostra natura non ha alcuna
determinazione, bensì l’attitudine- a conoscere gl’obbietti, come e quando a
lei si presentano; e come il senso percepisce diretta- mente il sensibile, così
l’intelletto coglie l'intelligibile e in tal modo noipossiamo percepire con le
nostre facoltà l’essere ideale e reale delle cose. Qui cade in acconcio di
rispondere due parole a coloro i quali pur concedendo che il raziocinio serva
all’applicazione dei principi ai casi particolari, mettono fuori di esso I
Induzione inventrice dei principi. Anche nell’Induzione è sempre sottinteso un
principio universale, da cui parte e su cui si appoggia ogni ragionamento
induttivo. L’assioma è il seguente: « Ciò che in una data specie di cose è
sempre avvenuto in un dato modo, avvei rà sempie in questa stessa specie nella
maniera medesima, quando le circostanze siano le stesse; ciò equivale a dire
che la natura è governata da leggi fisse e costanti. Ma, di grazia, donde
deriva questo principio, se non dagli altri di causalità e di sostanza, dai
quali trae tutta la sua forza? Onde l’Induzione considerata sotto questo
rispetto può mettersi sempre in forma di Sillogismo, e può benissimo definirsi
« la funzione della mente per la quale applicando un principio universale ad
alcuni fatti particolari da noi ossei vati, questi generalizziamo con una
proposizione esprimente un principio od una legge generale che Gioberti, Introduzione
allo studio della filosofìa. ooi affermiamo esistere in natura. Del resto uno
dei principi di tutte le nostre conoscenze è il principio di causa, che ha un
valore universale, ideale e reale; ideale appunto perchè è la forma di ogni
conoscenza; reale, perchè nei modi e limiti suoi tutto il mondo ci si svela. Lo
stesso Mill è costretto a riconoscere questi principi supremi razionali, che
sono necessari all’analogia, all’induzione imperfetta e alla deduzione; e,
osserva giustamente il Cantoni, non si può concludere da un particolare ad un
particolare senza ammettere implicitamente come valido il principio generale, e
non si può dare vera, assoluta universalità ad un giudizio senza presupporre i
principi supremi della ragione. Rimane ad esaminare l’ultima delle obiezioni
mosse al Sillogismo, come forma tipica di ogni argomentare deduttivo. Alcuni
Logici, tra cui Cantoni, osservarono che il Sillogismo non corrisponde a tutte
le argomentazioni rigorosamente conclusive. Le regole dei modi di prima figura
sono: la maggiore dev'essere sempre universale, ma può essere affermativa o
negativa; la minore dev’essere sempre affermativa, ma può essere universale o
particolare; la conclusione ha sempre la qualità della maggiore e la quantità
della minore. Se dunque la minore in un Sillogismo di prima figura in tutti i
suoi modi dev’essere affermativa, questo Sillogismo (che cita il Cantoni) «
soltanto gli esseri liheri nelle loro azioni sono responsabili, i pazzi non
sono liberi, dunque i pazzi non sono responsabili, in forza di quel soltanto
conclude Corte, Elementi di filosofia. Cantoni, Elementi di Filosofia. Logica.
PEIRETTI (si veda), Compendio di Logica generale. legittimamente. Non occorre
una lunga discussione per dimostrare che questa obiezione non regge, poiché
quando si dice che la minore dev’essere affermativa, si intende in senso
logico, non già grammaticale; onde nel Raziocinio surriferito la minore è grammaticalmente
negativa, ma logicamente affermativa, che equivale a dire: i pazzi sono non-liberi.
E veniamo ad esaminare le obiezioni mosse contro il Raziocinio come fondamento
dell'Induzione; perocché ad alcuni Filosofi non parve che questa prenda dal
Sillogismo la sua forza, come non era sembrato che ogni specie di
argomentazione deduttiva prendesse da esso la sua chiarezza. Abbiamo già
accennato in breve al principio che governa l’Induzione, ora aggiungiamo che
essa conchiude dai fatti alle cause, dai fenonemi alle leggi, dal particolare
all’universale, in forza della Deduzione stessa, pei seguenti principi
impliciti, che, come avverte acutamente Martini, si collegano in forma di
Sillogismo. Ciò che pur variati gli aggiunti si è osservato essere fenomeno o
legge costante in molti particolari, in circostanze diverse dev’essere effetto
non delle circostanze diverse ma di quello che nei particolari è costante e
comune. Ora ciò che nei molti particolari, nel resto diversi, è solo costanto e
comune è la loro natura. Dunque que fenomeno o legge costante in essi osservata
é effetto della loro natura. Ma ciò che è effetto di alcuna na- tura si ha da
verificare in tutti gli esseri che hanno la natura medesima. Dunque si
verificherà in tutti i particolari della stessa natura, benché non ancora
Firenzo^m diFilosofia - P«MS- 58 (Paravia osservati. » Qui si riduce quella
legge che molti assegnano come fondamento dell’Induzione: le leggi di natura
non mutano, ove per legge di natura si vogliono intendere non solo le leggi
fisiche, ma anche quelle che, fondate sulle realtà, sono regolatrici dell’umano
pensiero e discorso. Così intesa, è questa legge il principio che dà
all'Induzione la forza di produrre certezza scientifica, benché muova dal
particolare contingente. Ciò premesso, ritorniamo all'argomento: la prima delle
obiezioni della seconda specie, òche il sillogismo non sia il tipo ordinario di
ogni nostro ragionamento, e non vi sia necessità che noi ci serviamo sempre di
tal forma. Quando si considerasse del Sillogismo la sola materia,
l’osservazione sarebbe esatta ed avrebbe una certa importanza. Ma se si
considera la legge fondamentale del raziocinio e l’inferenza del particolare
dall’universale si vede che, se si è dispensati dall’e- sprimere sempre il
principio universale che contiene la conclusione, però si è costretti sempre a
suppor- velo almeno implicito, e la stessa Induzione dà luogo alle conclusioni
generali in forza di un sillogismo sottinteso come vedemmo. L'osservazione poi
di coloro i quali affermano che ragionando nessuno adopera la forma
sillogistica, non ha alcun valore, perchè nulla impedisce che la mente possa
nella pratica intuire nessi remoti e sopprimere un certo numero di nessi
intermedi. Allo Spencer, che nei Principi di psicologia afferma esservi
ragionamenti i quali non potrebbero mettersi in forma sillogistica e cita in
proposito alcuni esempi, si deve osservare che egli non doveva accontentarsi di
affermare, ma aveva anche l’obbligo di dimostrare tale impossibilità, la quale
nel fatto é solo relativa ; e del resto solo perchè qualche ragionamento non si
lascia disporre negli schemi sillogistici, non si può perciò rigettare tutto
quanto il sillogismo. A coloro infine i quali affermano che il Raziocinio
deduttivo non forma compiutamente tutti i procedimenti del pensiero nel
ragionare si può osservare che neanche l'Induzione generalizzatrice dello
scienzato non è per lo più prodotto di un discorso pei singoli casi, che spesso
da un solo caso lo scienziato vede le condizioni della validità di una legge,
Che se dal non essere formulalo il ragionamento si dovesse concludere che non
c'è, allora la Logica dovrebbe, come osserva giustamente Masci, cedere il suo
dominio tutto alla Psicologia. La prova segue la scoperta, ma non per questo è
meno necessaria per convertire in sicuro possesso le verità trovate. Mill [cf.
H. P. Grice, “MORE GRICE TO THE MILL”] e Bain osservarono che il Raziocinio é
la riprova dell’Induzione; è un processo di verificazione. Onde fu detto che
Mill non annientò il valore del Sillogismo; ma, di grazia, quando ammette che
esso non serve alla scoperta di alcuna verità, noti viene a disconoscergli ogni
importanza? Un’Induzione dal particolare al generale seguita da una Deduzione,
osserva il filosofo inglese, è una forma in cui possiamo ragionare; ed è
indispensabile porre in forma sillogistica un ragionamento, quando abbiamo
dubbi sulla sua legittimità. Ed anche ciò è vero, perchè ufficio del Raziocinio
è quello di smascherare gli errori dei falsi ragionamenti; ed in tal modo non
solo esso è strumento di scoperta della verità, ma ha anche un [Masci, Logica,
Masci, Logica. compito altamente nobile.se è vero che, come afferma Genovesi, gli
uomini dove non siano aggirati dal falso hanno sempre bastante forza a vedere
le più importanti verità. Bain condivise il parere del Mi 11, sostenendo che uno
dei grandi servigi che rende la forma sillogistica è di analizzare, di mettere
in tutta la loro luce e di presentare ad un esame separato le parti differenti
di una serie o di una catena di ragionamenti. E'sta bene il Raziocinio ha un
reale valore come fondamento dell’Induzione, segue che ne divenga la riprova.
Ma non per questo l’obiezione ha valore universale, perché nelle scienze di
deduzione si danno Sillogismi che sono unica forma di ragionamento possibile,
nè occorre esemplificare, poiché infiniti sono i casi, anche nella sola
Matematica, che confermano quest osservazione. Del resto se in natura noi
vediamo che l’universale contiene il particolare, il Raziocinio non può non
essere il tipo perfetto di ogni argomentazione. Veniamo all'ultima e più
universale obiezione: «il Raziocinio non vale alla scoperta del vero ; esso
serve tntt’ al più a chiarire e ordinare i nostri concetti. Che realmente
compia questo secondo ufficio non vi ha dubbio alcuno, ed anche in ciò consiste
la sua importanza, perchè se i concetti sono oscuri e non si vede la dipendenza
loro non si possono dire scientifici; perocché conoscere scientificamente una
cosa equivale, per dirla con VICO (si veda), a conoscerla ne suoi principi, e
nelle ragioni. È questa un utilità del raziocinio che si può esperimentare
quotidianamente. Ma Genovesi Logica per
i giovanetti. Bain, Logica deduttiva e induttiva. ben piccola sarebbe l’utilità
del raziocinio se si limitasse a ordinare le nostre conoscenze; esso serve pure
a condurre lo spirito all’acquisto di nuova scienza, che ci sarebbe impossibile
acquistare senza il suo aiuto. Su questo punto importantissimo ritorneremo in
seguito, qui basterà che ci fermiamo ad una semplice e brevissima confutazione
dell’obiezione, ripetuta da Logici di tutti i tempi, a cominciare da Sesto
Empirico, per venire Ano a Bacone.e poi giù giù fino a Mill ed alla sua scuola,
che cioè il sillogismo non vale alla scoperta del vero. Prenderemo le mosse da
un. passo della logica di Cantoni, nel quale l’insigne professore dell’Ateneo
di Pavia fa sua la obiezione espressa già in altri termini da Mill e da Baili. Con
la prima figura, egli dice, che da alcuni' è riguardata come la forma
fondamentale e tipica del ragionamento umano, si viene ad affermare di una
specie una proprietà deh suo genere. Ora un ragionamento simile pei"
solito non si usa nè per dimostrare- le proprietà di un oggetto, nè per
discopricele, giacché- solitamente noi Affermiamo che un oggetto appartiene- ad
un dato genere quando vi abbiamo osservato e riscontrato le sue proprietà più
essenziali ; così non è- naturale questo Raziocinio: Gli organici muoiono; gli
animali sono organici, dunque anch’ essi muoiono; perchè tale qualità del
morire si è dovuta riscontrare negli animali prima di dirli organici. Cantoni
va anche più in là quando afferma che « tali Raziocini valgono ancor meno nella
Matematica, la quale nella costruzione stessa dei concetti viene via via
attribuendo- alle specie tutte le proprietà dei loro generi senza [Cantoni, Logica.
bisogno dei Sillogismi. Or bene ciò non ci pare conforme al vero. Lo dimostra
per noi Martini già citato. Nell’esempio surriferito egli osserva a
Cantoni: nSagnosi stesso poi diceva
parlando del Sillogismo che esso et l’argomento delle scienze (Logica, Hegel -
Logica, per « enumerationem simplicem », l’£7:«Ycdy/i 7ravrwv è cosa puerile, e
non esclude la possibilità d’un caso particolare contrario, il quale la
distrugga. Nell’Induzione scientifica l’osservatore dopo aver riscontrato un
numero di casi sufficiente la compie legittimando la conclusione con principi
universali, come la legge di causalità, nella formola di essa, secondo la quale
cause simili in condizioni simili producono effetti simili. Nè l’Induzione
sarebbe possibile senza anticipazione del ragionamento sull’esperienza. Galilei
ci offre bellissimi esempi di questo procedimento: l'osservazione dei fatti
suscitava nell’animo suo un’idea, che era come la presupposta spiegazione di
essi ; su di quella ragionando cercava di ricondurre i fatti stessi come a loro
principio. E così egli procedeva non solo per Induzione ma anche per via di Deduzione;
questa però era sempre provvisoria; ipotetica, perchè ad ogni passo del
ragionamento il filosofo naturalista sentiva il bisogno di riscontrare la
verità dell’ipotesi coi fatti osservati, e di variare quella secondo la natura
di questi: soltanto dopo mature e assidue riflessioni convertiva in tesi la
primitiva deduzione. Giustamente perciò Navi Ile osservava che in ogni ordine di ricerche il
metodo si compone di tre elementi diti; Aristotele Aliai. Pr. Naville, La
logiqué de l’hypothése. v L’hypotliése, dice Naville, intervient dans
l’observation et la verification; 1 observation intervient dans 1* l’hypotése,
dont elle forme le poiut de depart et dans la vérification, dont elle est la
substance. La vérification enfili est inseparable do l’observation qui est son
instrument, et de 1* hypothése qu’elle a pour but de detruire ou de confirmer. La mdthode est dono triple dans
^on unite, et une dans sa triplicité. stinti ma inseparabili: osservazione,
supposizione e verificazione. Gli esempi di Galilei abbondano, ne riferiremo
alcuni fra i più chiari e famosi. Il testo di Aristotele il quale afferma che
la caduta dei corpi è in ragione del loro peso fa dubitare Galileo; egli vede
che i chicchi di grandine muovendo insieme ed essendo di diversa dimensione
arrivano contemporaneamente a terra; ne induce che 1 affermazione dello Stagi
ri ta è falsa. Procedendo più oltre col discorso forma un assioma e suppone che
qualsiasi grave discenda con una velocità, la quale si può alterare senza far
violenza al suo corso naturale. Finalmente stabilisce la legge che gli spazi
percorsi da un grave che cade sono proporzionali ai quadrati dei tempi
impiegati a percorrerli, astrazion fatta dal peso: cerca poi la conferma della
legge nelle osservazioni della discesa dei corpi pel piano inclinato. Ma è
meglio riferire il passo importantissimo del Galilei relativo alla sua
scoperta. Nelle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco, filosofo
'peripoletico, così egli sciiveva. « Resta che io produca le ragioni che oltre
alla esperienza confermano la mia proposizione, sebbene pei assicurare
l’intellplto, dove arriva l’esperienza, non ò necessaria la ragione, la quale
io produrrò si pei vostro beneficio, sì ancora perchè prima fui persuaso dalla
ragione che assicurato dal senso. Io un assioma, da non essere revocato in du
io a nessuno, e supposi qualsivoglia corpo grave discen en e aver nel suo moto
grado di velocità dalla natuia 1 untato ed in maniera prefisso, che volerglielo
alterare col crescere la velocità e diminuirgliela non si potesse fare senza
usargli violenza per ritardargli o concitar^, 1 il detto suo limitato corso
naturale. Formato questo discorso mi figurai colla mente due corpi uguali in
mole ed in peso, quali fossero due mattoni, li quali da una medesima altezza in
un medesimo istante si partissero; questi, non si può dubitare che scenderanno
con pari velocità, cioè colrassegnata loro dalla natura, la quale se da qualche
altro mobile dee loro essere accresciuta, è necessario che questo con velocità
maggiore si muova. Ma se si figureranno i mattoni nello scendere unirsi ed
attaccarsi insieme, quale sarà di loro quello che aggiungendo impeto all’altro
gli raddoppi la velocità, stantechè ella non può essere accresciuta da un
sopravveniente mobile, se con maggior velocità si muove? Conviene quindi
concedere che il composto di due mattoni non alteri la loro prima velocità. Da
ciò Galilei conclude deduttivamente c ìe se due corpi di materia uguale e di
peso diverso cadono con velocità differente, ciò non dipende dalla differenza
di peso ma da quella di forma, la quale fa i eie i mezzo in cui discendono
opponga alla loro caduta una. resistenza differente. La scoperta della legge di
inerzia è dovuta quasi esclusivamente al procedimento deduttivo perchè il
l’imno^« q- iTfi ne r Dlalogo dei massimi sistemi affermò Sent ; ' glUngGrVÌ
S0, COn 'Suzione. Nè tnShll P r 7 DedUZÌ
° ne i! Galilei coprii! ;r d °i d „c' h av r dell ° ( * ™ è “ Olanlsotbbri-
mento « „ a,eva caEUAlrneMe visto l’ingrandi- “ 8geU ' ? fabl,ricat0 “
telescopio^ ritrovai di “n «r P | r Vm, dÌSC ° rS °- Questo ertiselo coarta,Clr
° sol ° 0 dl P"> di uno; di u „ s „| 0 „ pu6 Gol.l», Prose scelte ed
annotile da A. Conti. Cap.VIII. j essere perchè la sua figura è convessa cioè
più grossa nel mezzo che verso gli estremi, o è concava, cioè più f. sottile
nel mezzo, o è compresa tra superficie parallele, ma questo non altera punto gl’oggetti
visibili col crescergli o diminuirgli; la concava gli diminuisce, la convessa
gli accresce bene, ma gli mostra assai indistinti ed abbagliati, dunque un
vetro solo non basta per produrre l’effetto. Passando poi a due e sapendo che
il vetro di superficie parallela non altera niente, come s’è detto, conchiusi
che l’effetto non poteva neanche seguire dall’accoppiamento di questo con
alcuno degli altri due. Onde mi restrinsi a voler esperimentare quel che
facesse la composizione degli altri due, cioè del convesso e del concavo, e
vidi come questo mi dava l'intento ». 11 moto di Venere intorno al sole è da
lui dedotto dal vederla falcata scemare e crescere come la luna . Infine
Galileo dedusse resistenza dei monti e delle profondità della luna, dalle ombre
e dai lumi non meno che dall’orlo smerlato e luminoso della luna che scemava,
apparenze che, secondo lui, escludevano che la luna fosse una sfera liscia e
pulita. E tanta era la sua fiducia nel Raziocinio, che a prò posito di
quest’ultima scoperta egli afferma nel Dialogo dei Massimi sistemi (Giorn.) «
Se 10 0SS1 nella Luna stessa, non credo che io potessi con mano toccar più
chiaramente l’asprezza della sua super eie di quello che io me la scorga ora
con l'apprensione del discorso ». Così egli praticava il metodo sperimen- 1
tale, e laddove Francesco Bacone, il grande suo con temporaneo, non faceva
alcuna scoperta ed acco tì leva Galilei - Dialogo dei Massimi Sistemi., Giorn.
IH Galilei, Dialogo dei Mass. Sisfc.,
Giorn. anche ne’ suoi scritti errori volgari, egli arricchiva la scienza di
sempre nuove e straordinarie scoperte, e guidalo dal suo genio non solo
osservava ma divinava, nè mai trascurava di accompagnare il ragionamento
all'esperienza. Che dire poi del Newton? Induttivamente egli dalle leggi di
Keplero ricavò la legge della gravitazione universale; laddove ragionando
deduttivamente sull’ipotesi che la deviazione della luna dalla tangente fosse
un caso della gravità terrestre, e calcolandone il valore (riconosciuto poi
conforme al vero) trovò l’identità tra la gravità terrestre e l’attrazione
esercitata dalla terra sulla luna Il
Bode dalla legge generale di continuità da lui scoperta nei corpi celesti
argomentò all’esistenza di uno o più pianeti fra Giove e Marte, il che è poi
verificato con la scoperta di Cerere. Pallade, Vesta e Giunone. Leverrier solo
appoggiandosi al calcolo e al Raziocinio vide, prima che fosse scoperto al
telescopio, un lontanissimo pianeta, Nettuno, e ne definì con precisione la
grandezza, la posizione e l’orbita. Il Torricelli infine, quantunque
verificasse che l’aria è pesante coll’invenzione del barometro, già prima di
tale sua invenzione dopo aver osservato alcune qualità sensibili dell’aria
aveva concluso deduttivamente che l’aria doveva essere pesante come tutti gli
altri corpi. A tanto può condurre il Raziocinio spinto alle ultime [Newton
adopero nelle sue dimostrazioni il metodo sintetico di cui avevano dato
l’esempio gli antichi geometri greci, e lo preferì ai metodi analitici allora
seguiti generalmente. Cfr. Rossi I principi Newtoniani della Filosofia
naturale, in Riv. Ital. di fìsosof. sue conseguenze! Perocché la conquista di
così straordinarie verità, quali quelle del Galilei e del Newton acquistate
alla scienza, non si poteva assolutamente fare con semplici procedimenti di
paragone, con generalizzazioni fondate sull’aver scoperto alcune analogie; ben
altre attività della mente si richiedevano a tant’opera! L'Induzione sola
sarebbe stata infruttuosa; si richiedeva anche la Deduzione, ma sapientemente
adoperata; non certo come l’usavano gli antichi, specialmente nello studio dei
fatti naturali. Per i moderni da Galileo in poi la Deduzione ha avuto un grande
valore nel percepire le ultime analogie tra fenomeni in apparenza diversi e non
riducibili alle stesse leggi. Abbiamo detto per i pensatori e scienziati
moderni, perché, come avverte un dotto scrittore in un suo opuscolo, per gli
scienziati antichi spiegare un fenomeno non voleva già dire farne l’analisi o
determinare le leggi della sua produzione, ma ravvicinarlo o identificarlo con
altri più comuni, da loro meglio conosciuti. Dal Raziocinio non pretendevano
altro che questo servizio, laddove esso sapientemente usato, come vedemmo, può
spesso precorrere 1 esperienza, farci spingere le teorie alle loro conseguenze
ultime, farci vedere fino a qual segno una legge renda conto di tutti i
particolari di un dato fatto. Dalle considerazioni da noi esposte e dai
numerosi esempi addotti ci pare si possa concludere che la ricerca induttiva
non è mai compiuta di per sé sola. Il procedimento induttivo e il deduttivo si
integrano a vicenda Vailati Il metodo
deduttivo come strumento di ricerca. Lettura d’introduzione al corso di lezioni
sulla storia della Meccanica, tenuto a Torino (Roux Pressati). come operazioni
inverse, e mentre il primo è la verificazione della legge nel fatto, il secondo
ne è la verificazione. nella teoria, cioè la spiegazione. Le due vie, dice Conti,
continuamente si incrociano. L’un metodo senza l’altro dà nel falso o resta
incompiuto; la Deduzione senza Induzione o forma principi arbitrari e non gli
applica con precisione, o gli applica a caso; l’Induzione senza Deduzione non
ha regole, nè mostra l’attinenza di ragione per cui si va dal noto all’ignoto,
cioè da un principio evidente alla conseguenza. Nè questo è tutto, chè le
stesse verità sperimentali acquistano il più alto grado di certezza quando si
giunga ad applicar loro il calcolo matematico, il quale è il più bell'esempio
di procedimento deduttivo e viene non solo ad ordinarle le verità, ma anche a
dar loro una consistenza che altrimenti sa- sebbe vano sperare, non potendosi
dire ritrovata una verità se è di ancor dubbia esistenza. È inutile parlare
dell’importanza del Raziocinio nelle scienze deduttive in generale, nè vi è
bisogno di ricordare che tanto colui il quale impara le Matematiche, quanto chi
le insegna procedono per via di sillogismo. E vero che, come affermava Bufalini,
le scienze furono povere e superstiziose finché le guidò la filosofia
speculativa, e che solo la filosofia sperimentale fece fare ad esse rapidi e
prodigiosi progressi. Ma non v’è chi non riconosca che i Peripatetici e
specialmente gli ultimi della scuola abusarono del Raziocinio trascurando
l’Induzione. Coi loro metodi non fecero avanzare le scienze fisiche durante
secoli e secoli dal punto in cui le ave- Conti, Storia della filosofia. -vano
condotte i Greci, salvo arditi tentativi di Bacone. Ed invero dai principii che
il sole è più nobile della terra, che il riposo è più nobile del movimento, che
il moto circolare è il più perfetto, che la natura ha orrore del vuoto, non
potevasi trarre alcuna spiegazione di fatti naturali, nè dare alcuna
spiegazione di fatti naturali, nè fare alcuna scoperta. Ma non bisogna però
dimenticare che le scienze giunte allo stadio deduttivo sono di gran lunga più
ricche e meglio costituite di quelle che sono ancora costrette, ogni qualvolta
si presentano nuovi casi, a fare sempre nuove generalizzazioni, in mancanza di
una generalizzazione ultima, atta a ricollegare deduttivamente tutte le sue
parti. L’astronomia ha fatto rapidi progressi ed ha raggiunto quel grado di
perfezione che ora l'adorna in virtù di una sola gcneializznzione, l’attrazione
universale; e cosi la Fisica, pel principio dell’equivalenza delle forze; e la
stessa Chimica moderna non esisterebbe senza l’ipotesi che dicesi teoria
atomica, nè l'Ottica senza quella che la luco sia un movimento ondulatorio. Che
dire poi della Meccanica? Vailati avvertiva giustamente in una sua
pregevolissima Lettura tenuta pochi anni or sono all’Università di Torino, che
le prime esperienze che fecero progredire la Meccanica furono, più che
interrogazioni rivolte alla natura- « veri cimenti a cui l’assoggettavano per
sfidarla quasi a rispondere diversamente da quel che avrebbe dovuto.Talora
pareva che fossero indotti a sperimentare più per convincere gli altri che se
stessi ; poiché i fatti soli potevano scuotere gli increduli. E noi già recammo
parecchi esempi del Galilei, più eloquenti di lunghi discorsi. Vailati. In ogni
scienza ritrovate le leggi semplici incomincia un procedimento inventivo della
Deduzione, che può essere una riduzione od una sintesi. Quantoè rimasta più
indietro laStoria naturale! E ciò perché sebbene la teoria dell’evoluzione sia
una generalizzazione ultima rispetto- alla Biologia, tuttavia non è così certa
nelle sue ipotesi, nè così compiuta nelle sue leggi da potersi affidare al
procedimento deduttivo nelle dimostrazioni e ricerche. Perciò fin quando non si
dimostri che nella cellula germinativa sono tutti gli elementi costitutivi
delle- specie, ed anche i germi del sentire, dell intendere, del volere; fin
quando non cesserà di essere un arcano come da un atto meccanico si passi ad un
atto psichico, la teoria di Darvin e di Spencer potrà allcttare molte menti, -
ma non sarà riconosciuta quale accertata verità scientifica. Onde
l’applicazione della Deduzione alle scienze è desiderabile pel loro progresso;
e tali vantaggi ha posto splendidamente in luce Vailati nel suo scritto già da
noi citato. Uno di questi vantaggi consiste per lui nel reciproco controllo che
le proposizioni legate per mezzo della Deduzione sono poste in grado di
esercitare le une sulle altre, e nel vicendevole appoggio che vengono così a
prestarsi mettendo in certo modo in comune la forza complessiva di tutti i
fatti e di tutte lo verifiche di cui ciascuna di esse dispone. Altro vantaggio
infine è quello che si riferisce « alla capacità che ha la deduzione di
semplificare e facilitare la descrizione e la caratterizzazione dell’andamento
dei fenomeni al cui studio si applica, permettendoci di rappresentare nelle
nostra mente le leggi che li regolano mediante Vailati. un minimo numero di
proposizioni abbracciane ciascuna un insieme, il più possibilmente esteso, di
fatti particolari e casi speciali. Onde apparisce chiaro che il raziocinio è
ben più d’un semplice ordinatore, di un istrumcnto tassonomico che vale a
scoprire nuovi veri in ogni ramo del sapere. Le scienze poi non vanno divise in
due campi, in deduttive e induttive, esclusiva- mente, in quantoche Deduzione e
Induzione, come già vedemmo, si integrano a vicenda in ogni scienza, e si può
parlare tutt’al più della prevalenza di un metodo sull’altro, non mai di
contrasto. Come non è possibile separare l’Analisi dalla Sintesi, perocché se
ogni Analisi nella ricerca ha per fine una Sintesi ogni Sintesi è il
risultamento della composizione di precedenti Analisi; così non si può
disgiungere la deduzione dall’induzione, perchè quella muove o da principi
raggiunti con l’Induzione, o da ipotesi, ossia principi formulati
analogicamente, conforme agli induttivi; e d’altro lato alcuni procedimenti,
coi quali l’Induzione cerca di raggiungerei principi sono deduttivi, come si
vede nel metodo di differenza. Bisogna poi sempre tener presente che in ogni
scienza occorre ad ogni passo la spiegazione la quale in sostanza è una
Deduzione, una riduzione del particolare all’universale, una generalizzazione.
Che più? Tutte le scienze da induttive tendono, come già dicemmo, a diventare
deduttive, ed in’ciù consiste la loro perfezione, sia estensiva sia intensiva.
E, per concludere, in tutte le scienze se si trovano nuove cognizioni di fatti
con l’osservazione esterna ed interna, col ragionamento e con la riflessione si
acquistano nuove VailatL. cognizioni razionali; con 1 Induzione si arriva a
sco_ prire verità generali nei concetti particolari; col Raziocinio si scoprono
le attinenze particolari nelle verità generali e nei principi puri e
sperimentali; ed infine non già il Senso con l’Esperienza e l'Induzione, ma la
Ragione assorge ai principi supremi, li furmola, e li- applica alle stesse
scienze sperimentali. Perocché . i principi generali, di perse stessi, per
dirla con Conti, sono astratti e nulla insegnano, e sono come- tesoro, che,
posseduto non si spende nè si mette in commercio e quindi non serve a nulla.
Onde il metodo- più acconcio per far progredire ogni scienza è il comprensivo,
creato e sapientemente seguito dal nostro’ Galilei. Il vero scienziato deve
partire dai summi principi della ragione, ingiustamente dal Locke, dal
Borckeley e dall'I-Iume considerati infecondi nella scienza- perchè astratti ed
universali. Essi sono indispensabili; al progresso del sapere: indi è
necessaria la Matematica- e specialmente la Geometria, perchè, per dirla con GALILEI
(si veda), l’universo è scritto in lingua matematica, o- i caratteri sono
triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, o in altri termini, i fatti naturali e le
proprietà dei corpi si riducono ad attinenze certe di numero o di spazio;
perchè le leggi di natura si rendono, per la mente nostra, generali e costanti
ove siano sottoposte al calcolo. Viene poscia in campo l'Esperienza, ma questa
deve sempre essere sorretta dal Discorso, nè ad essa lo scienziato deve
affidarsi troppo ciecamente, ricordando le autee parole da Magalotti nel
Proemio ai Sugffi Conti o Sartini Filosofia elementare. Cfr. anche Conti e
Sartini. di Naturali esperienze dell'Accademia del Cimento. Conviene camminare
con molto riguardo, che la troppa fede all’esperienza non ci faccia travedere e
ci inganni, essendoché alle volte prima eh’ ella ci mostri la verità, manifesta
dopo levati quei primi velami delle falsità più palesi, ne fa scorgere certe
apparenze ingannevoli,ch’hanno sembianze di vero [Da ultimo non deve mai
trascurarsi l’autorità scientifica, che giova ed evitare ogni eventuale inganno
delle proprie osservazioni e dei propri ragionamenti. Questo è il vero metodo
scientifico e non altro; esso è gloria nostra, ed ha rinnovalo tutte le scienze
e nuovi trionfi è ancora destinato a riportare pel bene dell’umanità. Non
possiamo chiudere questo nostro breve studio sul Raziocinio senza accennare ad
un altro suo pregio che nessuno vorrà disconoscere, cioè all’efficacia che esso
ha nella formazione del carattere. Poiché il Sillogismo facendo vedere ogni
fatto particolare collegato con un principio generale abitua gli uomini alla
coerenza, che trasportala nelle azioni dicesi carattere. E giustamente osserva
Kant che bisogna operare come se la massima dell'azione dovesse divenire legge
universale della natura. Ma alla dottrina Kantiana sublime nella sua rigidezza,
non sa uniformarsi se non colui il quale, per dirla con Rosmini, si esercita ed
abitua nella coerenza dei pensamenti, enonlasciando sterili in se stessi i
principi ne deduce le ultime conti) Magalotti, Saggi di naturali esperienze
dell’Accademia del Cimento, Proemio e A.
Valdarnini Il metodo sperimentale ecc. Kant,
Fondamenti della Metafisica dei Costumi, e Critica della Ragion Pratica. ' ..
/i\ il rii-attere infatti è 1 abitudine di seguenze - stabilita e di
attenervisi fcrysrs rr^rr ! tondamente del carattere è lord,ne morale e .
dovere, ma perchè possa effettuare, cosinegl uou« come nelle nazioni è
necessario che tutte le nostre hcoltà "li atti della mente, e le libere
operazioni .1 proposito i mezzi e l’intento, fondati sul senUmento è sull’idea
della legge morale e del dovere armonizzino fra loro e siano rivolti al vero e
piu elevato flne della vita umana e della civile società. » E se c vero, come
vuole lo Smiles, che la nobiltà del carattere è quanto vi ha di meglio
nell'umana natura ; se vero che il carattere stesso degli individui e dei
popoli è la forza più potente nel mondo morale, il Raziocinio che fortemente
concorre a formarlo ci rende un altro grande c segnalato servigio. La coscienza
morale poi è complessa: richiede in primo luogo a conoscenza della legge; indi
la coscienza di un fatto volontario reale o intenzionale; infine la constatazione
che l'atto è conforme alla legge o disforme da essa. Onde la coscienza morale
fu da alcuno definita mo to bene: « il giudizio della ragion pratica ultimo
circa i particolari fatti umani, dedotti dagli universali pnn- (1) Rosmini —
Logica, N. 994.,010 (2) Fiorentino
Elementi di Filosofia -olZ. Yaldarnini Elementi di Etica e di diritto, pag* cipì del
costume, » e può considerarsi come la con- f clusione di un Raziocinio la cui
premessa maggiore è data dai primi principi morali, e la minore dalla coscienza
del fatto posto o da porre. j Il nostro lavoro è compiuto: in esso abbiamo
cercato di seguire sempre il vero, senza curarci di attenerci ! più a questo
che a quel sistema filosofico, nè di abbandonarci ad esagerate affermazioni.
Dallo studio dei più grandi scrittori di Logica ci è parso che in generale si
sia trasceso; da alcuni attribuendo al Raziocinio una soverchia importanza che
esso non ha, da altri disconoscendogli ogni valore. Nessuno ha mai potuto nè
potrà in avvenire infirmare validamente l’utilità e le regole del Raziocinio,
che, esposte in antico da Aristotele, furono riferite in ogni età, e dal nostro
Galilei opposte di continuo ai falsi Peripatetici dell’età sua. Ricordiamo
sempre che se le scienze hanno progredito nell’età moderna in modo così
meraviglioso, ciò è stato perchè non il solo metodo autoritario e deduttivo o
lo sperimentale induttivo, ma entrambi felicemente congiunti in accordo
armonico le guidarono nel loro cammino. E rammentiamo ancora che, come ammonisce
molto saviamente Conti, un empirismo senza rigore di ragionamento e senza guida
dei sovrani principi è accozzaglia di fatti, non è scienza, nè troverà mai
leggi universali, com’è l’attrazione del Newton e le Conti, Storia della
Filosofia. oscillazioni del Galilei. Un idealismo senza osservazione dei fatti,
che induca e deduca fuor di quello che essi mostrano, non è altro che tela di
ragno, un soffio la disfà, e ce l’insegna la storia. Nè ciò vale solo pei fatti
esteriori, ma per gli interni altresì; e come 1 tìsici così hanno i filosofi
nel Galilei un maestro sicuro. » Il suo metodo e quello della sua scuola ha
dato alla scienza così splendidi risultati, che i grandi scienziati non lo
abbandonarono più. « Una è la verità; e se la verità ci si palesa dagli
insegnamenti di Galileo, è impossibile che essa stia in insegnamenti
contrari. Paj. 5 6 20 70 88 ■ 105. - 20
linea 23 in luogo (lì irfatfe leggi idi 'os 48 P 22 » delio P della G5 P 15 »
rendono P rendono 07 P 15 » Teoria Teorica 70 P 20 > contenuto P contenuta
71 » 23 p quantitativo qualitativo ■ 75 P 1 » di > dei 75 » 7 p subordinata
subordinalo 77 » 29 9 i pròni P primi 73 > 10- P percepire conoscere 80 » 0
» che > chi 83 P 9 > E sta bene » li sta beile; 93 » 20 P peripotetioo
peripatetico- 90 • 19 » al »■ colhh. Pier Vincenzo Bondonio. Bondonio.
Keywords: raziocinio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bondonio”. Bondonio.
Grice
e Boniolo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’atleta
del vicolo -- le regole e il sudore – filosofia del sudore – scuola di Padova –
filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimmin-Pool Library (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice:
“I like Boniolo; especially that he takes ‘antichita’ seriously – he is right
on the emphasis on ‘argomentare’ but obviously the balance shoud be between
epagoge and diagoge – I would like to see more diagoge! He has
philosophised on other topics, too!” Cresciuto nel Petrarca Basket, debutta in
prima squadra diventando in quell'anno il più giovane giocatore di Serie A.
Giocò con il Petrarca Basket. Presidente. Laureato a Padova, insegna a
Padova, Roma, Milano, e Ferrara. Studia I fondamenti filosofici della
biomedicina e sulle loro implicazioni etiche, in collaborazione con diversi
istituti e fondazioni mediche milanesi. Svolge ricerca in ambito filosofico, in
particolare sulla filosofia della ricerca biomedica e della pratica clinica,
nonché di etica pubblica e individuale. Si è occupato anche di filosofia della
scienza di filosofia della fisica, di storia della filosofia e della fisica
contemporanee. Il suo lavoro è documentato
da saggi pubblicati su riviste. Membro dell'Accademia dei Concordi di
Rovigo. Altre opere: “Mach e Einstein. Spazio e massa gravitante” (Armando
Editore); “Linguaggio, realtà, esperimento” (Piovan); “Metodo e
rappresentazioni del mondo. Per un'altra filosofia della scienza” (Bruno
Mondadori); “Filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Questioni di
filosofia e di metodologia delle scienze sociali” (Borla); Introduzione alla
filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Il limite e il ribelle: etica,
naturalismo, darwinismo” (Cortina);. Argomentare” (Bruno Mondadori); “Individuo
e persona. Tre saggi su chi siamo” (Bompiani); “Strumenti per ragionare: logica
e teoria dell'argomentazione” (Bruno Mondadori); “Il pulpito e la piazza.
Democrazia, deliberazione e scienze della vita” (Cortina); “Le regole e il
sudore. Divagazioni su sport e filosofia” (Raffaello Cortina); “Strumenti per
ragionare” (Pearson Italia spa); “Conoscere per vivere. Istruzioni per
sopravvivere all'ignoranza” (Meltemi); “Filosofia della fisica, Bruno
Mondadori, J. von Neumann, I fondamenti matematici della meccanica quantistica,
Il Poligrafo); Storia e filosofia della scienza. Un possibile scenario
italiano” (Le Scienze); “La legge di natura. Analisi storico-critica di un
concetto” (McGraw Hill); “Laicità. Una geografia delle nostre radici”
(Einaudi); “Filosofia e scienze della vita. Un'analisi dei fondamenti della biologia
e della medicina” (Bruno Mondadori); “Passaggi. Storia ed evoluzione del concetto
di morte cerebrale” (Il Pensiero Scientifico Editore); “Etica alle frontiere
della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole” (Mondadori); Consulenza
etica e decision-making clinico. Per comprendere e agire in epoca di medicina
personalizzata” Pearson Italia spa,.Poincaré, Opere epistemologiche, Mimesis. Mimesis,.
Etica alle frontiere della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole (Mondadori).
Apoxyómenos Apoxyomenos Pio-Clementino Inv1185.jpg Autore Lisippo Data Copia
latina dell'età claudia da un originale bronzeo circa Materialemarmo pentelico
Altezza205 cm UbicazioneMusei Vaticani, Città del Vaticano
Coordinate41°54′24.23″N 12°27′12.65″E L'Apoxyómenos (traslitterazione dal
participio grecoἀποξυόμενος, "colui che si deterge") è una statua
bronzea di Lisippo, databile al 330-320 a.C. circa e oggi nota solo da una
copia marmorea (marmo pentelico) di età claudia del Museo Pio-Clementinonella
Città del Vaticano. Si conoscono inoltre varie copie con varianti.
Dettaglio La testa Storia Modifica La statua bronzea
dell'Apoxyómenos, assieme ad un'altra statua di Lisippo che rappresentava un
leonegiacente, si trovò, in epoca successiva, ad abbellire e ornare le terme di
Agrippa in Roma. Tiberio, affascinato dall'opera, provò a portarla nel suo
palazzosul Palatino, ma dovette poi ricollocarla a posto per le proteste dei
Romani. Una versione marmorea fu rinvenuta nel 1849 nel quartiere romano
Trastevere, nel vicolo delle Palme, che da quel ritrovamento, prese poi il nome
di "vicolo dell'Atleta".Unitamente alla statua furono ritrovate anche
le statue del Toro frammentario e il Cavallo di bronzo. L'opera venne
esposta, quasi subito, nei Musei Vaticani[3] (Città del Vaticano), inizialmente
nella camera del Mercurio, nel cortile ottagonale, quindi fu rimossa e spostata
al Braccio Nuovo. Nel 1924 fece il percorso a ritroso e ritornò nella Camera
dell'Hermes, dove ci fu un nuovo, più accurato restauro effettuato dal Galli.
Questi, tra le altre cose, tolse il dado posto dal Tenerani nella mano destra,
provvide a rifare lo strigile, effettuò la sostituzione di vari perni esistenti
e infine, vi integrò molto accuratamente le dita distese. Nel 1932 la statua
trovò la sua collocazione definitiva nella stanza più propriamente detta
Gabinetto dell'Apoxyómenos. Nel 1994 la scultura fu oggetto di una profonda e
completa opera di pulitura. La statua fin dal suo ritrovamento ebbe
subito una grandissima notorietà mondiale: di essa fu diffuso il calco in
gesso, in numerose copie e in varie parti d'Europa. Una copia del calco, venne
richiesta anche dallo scultore Shakespeare Wood, al quale venne donata, per
essere poi collocata nell'Accademia di Belle Arti di Madras. In tale occasione
e per tale finalità fu realizzata una copia cosiddetta "forma buona",
vale a dire, una particolare matrice in gesso; di questa operazione, rimasero
visibili le tracce fino a quando fu effettuato l'ultimo restauro. Una
variante del tipo dell'Apoxyómenos è il cosiddetto Atleta di Lussino, un
originale bronzeo. Una più simile a quest'ultima, ma con le braccia reggenti un
vaso si trova nella galleria degli Uffizi. Descrizione Modifica
L'Apoxyómenos raffigura un giovane atleta nell'atto di detergersi il corpo con
un raschietto di metallo, che i Greci chiamavano ξύστρα e i Romani strigilis,
in italiano striglia. Era uno strumento dell'epoca, di metallo, ferro o bronzo,
che era usato solo dagli uomini e, principalmente, dagli atleti per pulirsi
dalla polvere, dal sudore e dall'olio in eccesso che veniva spalmato sulla pelle
prima delle gare di lotta.[1] L'atleta è quindi raffigurato in un momento
successivo alla competizione, in un atto che accomuna vincitore e
vinto.[4] La versione dei Musei Vaticani si presume sia stata eseguita in
un'officina romana di buona qualità, pure se, ad una più attenta analisi, resta
qualche piccola imperfezione e decadimento di livello; ne è un particolare
esempio la resa della zona interna del braccio sinistro. La statua risulta
nella sua totalità sostanzialmente completa e tuttora in condizioni molto
buone. Piccoli particolari rovinati si possono riscontrare nella punta del
naso, mancante, diverse scheggiature relative all'orecchio sinistro, ai
capelli, a una delle mascelle e anche allo zigomo sinistro. Esistono due
fratture sul braccio destro; una è situata alla metà circa del bicipite e una
seconda sopra il polso. Il braccio sinistro riporta una frattura alla spalla,
dove si possono anche notare piccole perdite di materiale e una seconda
frattura al polso. Su una vasta zona dell'avambraccio destro sono
evidenti le tracce di leggere corrosioni e di un'antica azione del fuoco. In
una delle mani mancano tutte le dita e si notano fori di perni che risalgono ad
un precedente restauro. Mancano anche il pene e una parte dei genitali
nella zona inferiore. La gamba sinistra rivela una frattura sotto l'anca. La
gamba destra rivela due fratture; sotto la caviglia e sotto il ginocchio.
Stile Modifica Col gesto di portare in avanti le braccia (tesa la destra e
piegata la sinistra), la figura segnò una rottura definitiva con la
tradizionale frontalità dell'arte greca: le statue precedenti avevano infatti
il punto di vista ottimale davanti (un retaggio delle collocazioni dei
simulacri nelle celle dei templi), mentre in questo caso per godere appieno del
soggetto si deve girargli intorno. Con tale innovazione l'opera è considerata
la prima scultura pienamente a tutto tondo dell'arte greca. La figura si
muove ormai nello spazio con una grande naturalezza, con una posizione a
contrapposto che deriva dal Doriforo di Policleto; in questo caso però entrambe
le gambe sostengono l'atleta e la sua figura è leggermente inarcata verso la
sua sinistra, seguendo quel gusto per la dinamica e l'instabilità maturato da
Skopas qualche anno prima. Esso si protende nello spazio con audacia, col peso
caricato sulla gamba sinistra (aiutata da un sostegno a forma di tronco
d'albero) e con una lieve torsione del busto, che spezza irrimediabilmente la
razionalità del chiasmopolicleteo, cosicché i pesi non sono più distribuiti con
simmetria sull'asse mediano. Il corpo dell'opera è percorso da una linea di
forza ondulata e sinuosa, che dà l'impressione allo spettatore che l'opera
possa in qualche modo andargli incontro. Il corpo è snello, con una testa
più piccola del tradizionale 1/8 dell'altezza del canone di Policleto, in modo
da assecondare un'innovativa visione prospettica, che tiene conto del punto di
vista dello spettatore piuttosto che della reale antropometria della figura.
Scrisse a tale proposito Plinio che Lisippo «soleva dire comunemente che essi
[gli scultori a lui precedenti] riproducevano gli uomini come erano, ed egli
invece come all'occhio appaiono essere» (Naturalis Historia).
Apoxyomenos, su museivaticani.va.. ^ Vicolo dell'atleta, su romasegreta.it. . ^
a b Apoxyómenos, su treccani.it, Treccani.
^ a b Lisippo di Scicione: l’Apoxyomenos, su instoria.it. Voci correlate
Lisippo Policleto Scopas Atleta di Lussino Strigile Borrelli, APOXYOMENOS, in
Enciclopedia dell'Arte Antica, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Paolo Moreno,
APOXYOMENOS, in Enciclopedia dell'Arte Antica, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1994. Portale Scultura: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
scultura Ultima modifica 15 giorni fa di Botcrux. Doriforo scultura di
Policleto Atleta di Lussino scultura greca Eros con l'arco Il
contenutoGiovanni Boniolo. Keywords: le regole e il sudore,
sweat, sudore, instrument to oil, and get sweat off, strigila, strigil,
cricket, golf, football. Grice, captain of the football team at Corpus Christi.
His philosophy tutor taught him to play golf. Competed in cricketshire for
Oxfordshire. Founding member of the Demi-Johns, ‘philosopher and cricketer’,
‘cricketer and philosopher’. Sluga learns cricket from Grice. References to
cricket in THE TIMES. ‘rules of games’ – “The conception of values” – rule, “we
don’t like rules, except rules in games and to keep quiet in colleges!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boniolo” – The
Swimming-Pool Library. Boniolo
Grice
e Bonomi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei
quattro elementi – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library-- (Roma).
Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Bonomi is
undoubtedly a Griceian – my favourite is his account of the copula – as in ‘The
wrestlers are good’ – in terms of what Bonomi, after Donato, calls ‘aspetto’ –
S is P, S was P, S will be P, Be P!, and so on – Most of his philosophising is
Griceian, such as his explorations on what he calls ‘the ways of reference,’
‘image’ and ‘name’ in terms of
‘significato,’ and ‘rappresentazione,’ – he is a Griceian in that he
respects ‘la struttura logica’ and leaves whatever does not fit to the
implicaturum!” Insegna a Milano. Nei lavori di filosofia del linguaggio (“Le
vie del riferimento” – Milano, Bompiani – “Universi di discorso” – Milano,
Feltrinelli) concentra il proprio interesse verso il ruolo che l'apparato
concettuale svolge nella determinazione dei contenuti semantici grazie ai quali
ci riferiamo a oggetti ed eventi del mondo circostante. Il suo saggi teoreticamente più impegnativo
(“Eventi mentali”, Milano, Il Saggiatore) tratta invece delle modalità logiche
che sono alla base delle procedure con cui, nel linguaggio, rappresentiamo i
contenuti cognitivi di altri soggetti. Si è poi occupato della struttura
semantica degli universi narrativi, concentrandosi in particolare sul ruolo che
hanno le cosiddette espressioni indicali nel determinare la struttura spazio-temporale
di un testo (“Lo spirito della
narrazione”, Bompiani). Un saggio di
semantica formale è dedicato alla struttura degli enunciati temporali (“Tempo e
linguaggio. Introduzione alla semantica del tempo e dell'aspetto verbale”,
Bruno Mondatori). A metà strada fra realtà autobiografica e immaginazione si
colloca invece la opera narrativa (“Io e Mr Parky”, Bompiani), nella quale si
descrivono i mutamenti che intervengono nella vita di una persona che scopre di
essere affetta da una patologia neurodegenerativa. Altre opere: “Esistenza e
struttura, saggio su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano); “Sintassi e
semantica nella grammatica tras-formazionale” (Milano, Il Saggiatore); “Le
immagini dei nomi” (Milano, Garzanti). “Gli analitici lo fanno meglio. Le
ragioni di un successo crescente anche tra i filosofi italiani cresciuti nella
tradizione continentale, in La Stampa. Scuola di Milano. A DARK and
mysterious art, called Alchemy, which originated with the Arabian
sages about the seventh century, was the parent of the brilliant
and enchanting science of Che- Baistay. Philosophers of the
polemical schools main- tained that Fire, Air, Earth, and Water,
were the Four Elements of Nature; but the disciples of Alchemy
denied the validity of this doctrine, and asserted that Salt, Sulphur,
and Mercury, were the Three Elements, from whose admixture or union
emanated the various productions of the a,nima.l, vegetable, and mineral
kingdoms. Both notions were erroneous, as the sequel will prove, but
that of the alchemists rapidly excited intense interest, because it led
to the performance of curious experiments, and to the observance of
strange phenomena attendant upon the mixture of adds, salts, spirits,
and metala B U im pROMB golci^ ami ieSd findk td hrrfr^
V>f»^^ duit tiie noe afl»adt»iiL of d (ftimdhf fA Salt, Salphur, and
Mercnrr of tl ^/r»#» ii^aS wr/tUd eaaase ite TraBSHntaciija ini
Th^» ffAvht^mt^f therefore, consfcroctei powe fifl f^rrirt^'^^
wvfmUid curious stills^ alembic I'i^.hdn, t^titf'^)tUmf and much costly
and con fillf'Mf^d h^pnmim for extractrug strong acid «nJlM, Mifid
w<ilvt»fif.«, from minerals and earths. A1jI»mI ljy llu^Mo tliny
(jommenced an arduox MhrtH'li llihiHwIuMd. mII Nature, for an
imaginai substance, which they named the Philosopher's stone;
a minute fragment of this miracle of art, when discovered, and thrown
upon molten lead, was destined to alter the proportions of its
three supposed elements, to cleanse it fix)m impurity and dross,
and transmute it into pure and effulgent gold From the laboratories of
Arabia, the principles of this seductive art soon spread over ITALIA, and
all ranks of society joined in wild pursuit of the golden phantom for a
long succession of ages; vain was their incessant toil and labour, it eluded
their anxious grasp, and instead of enjoying riches and splendour, they
invariably languished in poverty and misery. The alchemists,
baffled in the acquisition of metallic treasure, sought after a powerful
liquid for dissolving all things; but this was quickly abandoned,
because an Universal solvent could not be retained in their retorts or
crucibles. Ultiniately they dared to think Immortality within their
reach, and presumptuously endea- voured to prepare a medicine to prevent
the decay of nature, and prolong life to an indefinite extent; but
disease and death were the grim attendants upon the operators, who
trusted to obtain an Elixir of life amidst the poisozi fiimes of the
furnace. Such were the three grand objects of alchern art, and
though abortive in regard to their at:::;^ ticipated results, yet
productive of the good eflFec:of inducing philosophers to descend from
disput^-'^ upon words, to experiments upon things. Accordingly, out
of the vast mass of intricat^^ materials accumulated by the alchemists, a
fe^^' master minds were enabled to select, examin and classify valuable
facts, striking experimentsf^ and wonderful phenomena, which had
been either abandoned or forgotten during the infatuated pursuits now
briefly described. The gradual introduction of metallic pre-
parations into Medicine, as substitutes for the drugs and simples of its
ancient practice, and of others into the arts and manufactures,
conjoined with the publication of essays concerning these and other
experimental facts, eventually drew the attention of civilized society to
the utility of the labours of the philosophers, who engaged upon
the ruins of the once dearly cherished, yet delusive art, and in an
incredibly short time, like the fabled Phoenix of Arabia, Chemistry
soared from the ashes of Alchemy. Chemistiy, guided by accurate
experiment sound theory, has attained its just rank in circle of
the sciences, and has proved the Unate connexion of its beautiful facts
and trines, with the wonderful phenomena of the d, and their great
utility when judiciously applied to the arts of life, in aid of the
wants, orts, and luxuries of mankind. The votary of Chemistry is not
chained to ^Q flaming furnace in fruitless labour after gold, ^or
compelled to invoke witchcraft and magic for the production of an
universal solvent, nor immured in the dark laboratory, amidst
deadly exhalations, to discover the art of prolonging life; no! in
this happy age, the fetters of ignorance and superstition are shattered
by the powerful hand of Truth, and he comes forth with freedom into
the glowing sunlight of Phi- losophy, as the servant and interpreter
of Nature; he looks abroad into the rich and mag- nificent
Universe, calls the delightful scenery all his own, the mountains, the
valleys, the oceans, the rivers, and the sky; through these wide
bounds he is free at will to choose Whate'er bright spoils the florid
earth contains, Whatever the* waters, or the ambient air. All
present him with perfect instances of tb^ consummate wisdom of the
Almighty God, wb created a World so fraught with beauty, and \K their
examination he gains materials for refle^^ tion and research, which, if
properly applied axx* pursued, not only enlighten and adorn, hv
exalt and purify his mind, teaching him to ap preciate the miraculous
workings of an Omid potent and Eternal Power. Chemisfay is the most
instructive and de lightfiil study that can be pursued, because it
i purely a science of Experiment; no anticipatioit can be formed as
to the results which will ensu^ upon the presentation of different
substances U each other. By making experiments with great
attentior and accuracy, and intently studying the results,
philosophers soon discovered the real nature oi the Four Ancient, and the
Three Alchemical Elements; a short account of the conclusiom which
are thus established will furnish a correct notion of the modem meaning
of the term Elements, which will frequently occur during the
present inquiry. Fire is not a peculiar or distinct
principle, but a result of intense attraction between
two i '- or Q^Qpe substancea Air is a mixture of
two S^^QB, called Oxygen and Nitrogen. Earth is a
ooQapound of Oxygen and numerous Metala " ^ter is a compound of
Oxygen and a gas * ^ed Hydrogen. Salt is a compound of
a vapour called Ohio- ^e, and a metal called Sodiimi; but the
com- P^xxents of Sulphur and Mercury are
unknown, "^^lefore these two substances are called Ele-
°^^xits, to denote that they have not been 8*Udysed, and in
this acceptation of the term C^Xygen, Nitrogen, Hydrogen, Metals,
and several ^ther substances, are Elements; altogether
there ^e Fifty -six such Elements: their names are shown in the
following list. Aluminum. A metal thus named from the Latin dt/u/men,
clay. Antdcont. a metal thus named from the Greek am,
agoMisty and imvos, movJc, because several monks were poisoned by its
preparations. Arsenic. A metal thus named from the Qmk
apcrsytKoy, powerful, on aoooont of iti strengA aa a
poison. Bariu^l a metal extracted from Baiyta^ ft heavy
mineral thus named frx>m the Gieekj ^apvs, weight. Bismuth.
A metal said to be thus named byi he German miners, from
wiesarruitte, a Uoomr ing meadow, because of the variegatied
hues of its tarnish. Boron. A non-metallic combustible,
obtained from Borax, a substance so called from the Arabic,
burvJc, brillicmt, Bromink a non-metallic incombustible liquid. Its name
is derived from the Greek, Spufjoi, stench, on account of the
insupportable odour of its vapour. Cadmium. A metal thus
named from the Greek xaSjw.gia, cola/mine, an ore of zinc.
Calcium. A metal thus named from the Latin calx, Ivme. Carbon. A
non-metallic combustible, thus named from the Latin carbo, coaL
Cerium. A metal thus named in honour of the planet Ceres.
Chlorine. A non-metallic incombustible vapour, thus called from the Greek
yO^^pos, green, in aUusion to its colour. HRomuM. A metal
thus named from the Greek XP<»f^oC) colour, on account of the
varied hues which its compounds assume. OBALT. A metal thus
named after Kobold, a sprite or gnome of the German mines. OLUMBIUM. A
metal thus named from its dis- covery in a mineral from CoVwmbia,
DPPER A metal thus named from being ori- ginally wrought in
Cyprus. DDYMITJM. A metal thus named from SiJiz/Aoi, twins, on
account of its resemblance to Lantanum. LUORINK A non-metallic
iminflammable va- pour, extracted from fluor-spa/r, LUCINUM.
A metal extracted from a mineral named Glucina; a term derived from
the Greek yXvKv;, sweet, on account of such taste being
communicated by its compounds. DLD. A metal the etymology of whose
5tiame is uncertain. YDROGEN. A non-metallic inflammable-:
gas, and being an element of water, it is thus called from the
Greek if^cjp, water, t^d yBvcj, to generate. K Bume a
red colour; hence ite name tiOM ' the Greek ^ dSw», a
rose. Selenium. A non-metallic inflammable ela ment, thus named in
honour of the moOE from the Greek atMvn, the nwon. SrucRTM. A metal
thus named from the Latin SlLTXB. A metfd, ihe oii^ of whose name
is obecnra. SoDiuiL A metal obtained from the ashes oJ
a plant called the solaola «m2a. StbontiuU. a metal extracted from
a minera] discoTersd at j%vn<Ja«. Sdlphdb. a non-metaUio
cnmbustible, whoBC name is probably of Arabic eztntct^on.
Tbxlukium. a metal thus named in honour o: the Earth, from the
Latin TeUAia, the earth. Thobintju. a metal thus named in honour o:
the Saxon deitj Thor. Tin. a metal, the origin of whose name is
t matter of doubt TiTANiUH. A metal thus named in honour
o: the Tita/ns of heathen mythology, TtraGSTENUM. A metal
thus named from th< Swedish word tUTigaten, heavy-stone,
fron which it was extracted. ^Hanium. a metal thus named in honour
of the planet Uranus, ^Akadium. a metal thus najned in honour
of Vcmadis, a Scandinavian deity. TTranjM. A metal extracted
from a mineral found at Ytterby. ZlKa A metal supposed to be
thus named from the Grerman zi/nJcen, ruiUa. ZmcoKTCTM. A
metal obtained from a gem called zircoon, by the Cingalese, in
allu- sion to its four-cornered shape. By far the greater
number of the above host of elements have been elicited by chemical
analysis; very few are presented absolutely pure by Nature. The
Elements may be thus classed: L Forty-four Metals, Aluminum,
Antimony, Arsenic, Barium, Bismuth, Cadmium, Calcium, Cerium,
Chromium, Cobalt, Columbium, Cop- per, Didymium, Glucinum, Gold, Iridium,
Iron, Lantanum, Lead, Lithium, Magnesium, Manganesium. Mercury,
Molybdenum, Nickel, Osmium, Palladium, Platinum, Potassium, Rhodium, Silicium,
Silver, Sodium, Strontium, Tel- lurium, Thorinum, Tin, Titanium,
Tungstenmn, Cnac^rcoL TjoimSizsl. YmrmB Zsnc, and 1 IL Tla^ie
Gaae&. HrdrQeoL Qo?ai. v IIL Two Vapcrais. CIjctom* awi FhuHin
V. fSx NoEHiXfcetallic s^aA^ Baran. Cuboi l^/ijlx*^;
Pb</«]>lKAi2£, Selfiimmi. zuA Solphur. Tl^ H*JpporteirE fA
combosdon are BromiiM CJU^^riuLtf;; FliK/nne, Iodine, and QxygtoL
Ti><<:; O/tnlHutibl^s are. Boron. CarlMMi, H]
dr'>g<^^ Vhf^hfjmu^ Selenium, and Snlphm: It miitst fie
particularly remembered that tli (itM^mhA doe« not affirm these
suhstances to I Um^ Ai/fmif^f or AWJute Elements of Xature ou
iiit', ^yyutrary, }kh d^r/^ms it extremely probabl tliiit th'ry rrjAy
}>^5 aiialysed or decomposed i the ^y;ijr«-r; of time, but until this
be effectei he «tyl<?« them Elements for convenience <
diw'.'ijwjion, and as a confession of the limits < hiii aiialyti/;al
skilL Tlie (yliemist investigatf^js the habitudes <
tlies^i KlefrK^itH, dis^^^ivers how they combine 1 form (Join(>oijndH,
and how these combine t form I)oubl(} compounds; he ascertains th
Weight in which tliesc Primary and Secondary combinations ensue, and how
the elements of all known compounds may be separated; he determines
the laws which preside over all these changes, and studies to apply such
know- ledge to the interpretation of natural pheno- mena, and to
useful purposes in the arts of life. Throughout these extensive
researches the Chemist depends entirely upon Experiment; and the
marvels which it reveals are referrible to the exertion of a power which
promotes union between elements and compounds, even though their
natures be strongly opposed. This power is called Chemical
Attraction, Attraction of Composition, or Chemical Affinity, the
latter term being used in a figurative sense, to suggest the idea of
peculiar attachments between different substances, under the influ-
ence of which they combine so that their indi- vidual characters are
totally changed and disguised. Thus, the Elements Hydrogen and
Oxygen, are gases viewless as air, the one combustible, the other
incombustible, and they are opposed in other respects, but they have
mutual affinity, and combine to form the liquid Compound called Water. Quattro
elementi Lingua Segui Modifica Il riferimento a quattro elementi (aria, acqua,
terra e fuoco) è comune a tutte le cosmogonie. Tanto l'Oriente quanto
l'Occidente hanno concepito una stretta connessione tra il microcosmo umano e
il macrocosmo naturale. Dall'equilibrio degli elementi dipendeva la vita della
specie umana e la sopravvivenza del cosmo: l'universo ordinato, sorto dal caos,
era governato da personificazioni divinizzate dei quattro elementi. Tiziano
Concerto campestre, Parigi, Museo del Louvre La donna alla fonte è una
personificazione dell'Acqua. Il suonatore di liuto rappresenta il Fuoco. L'uomo
con i capelli scompigliati dal vento simboleggia l'Aria. La donna di spalle
raffigura la Terra. Storia del concetto in Occidente. Uno dei sette sapienti,
Talete di Mileto, indica nell'acqua il principio di ogni cosa, Eraclito nel
fuoco, i sacerdoti magi nell'acqua e nel fuoco, Euripide nell'aria e nella
terra. Pitagora in verità, Empedocle, Epicarmo e altri filosofi della natura
sostennero che gli elementi primordiali sono quattro, aria fuoco terra acqua. VITRUVIO,
De architectura) Nella tradizione ellenica gli elementi sono quattro: il fuoco
(Fire symbol (alchemical).svg), la terra (Earth symbol (alchemical).svg),
l'aria (Air symbol (alchemical).svg), e l'acqua (Water symbol
(alchemical).svg). Rappresentano nella filosofia greca, nell'aritmetica,
nella geometria, nella medicina, nella psicologia, nell'alchimia, nella
chimica, nell'astrologia e nella religione i regni del cosmo, in cui tutte le
cose esistono e consistono. Empedocle Modifica Platone sembra che si
riferisca agli elementi con il termine stoicheia, rifacendosi alla loro origine
presocratica. Essi infatti si trovano già elencati dal filosofo ionico
Anassimene di Mileto e poi da Empedocle di GIRGENTI, il primo a proporre
quattro elementi che chiama rizòmata (rizoma al plurale) "radici" di
tutte le cose, immutabili ed eterne. «Empedocle occupa un posto a parte
nella storia della filosofia presocratica. Se si prescinde da quella figura
poco conosciuta e per qualche verso mitica che è Pitagora, egli appare in
effetti il primo autore dell'Antichità a voler riunire contemporaneamente in un
solo e medesimo sistema concezioni filosofiche e credenze religiose. nessun
pensatore prima di lui aveva inserito all'interno di un quadro filosofico questa
corrente di idee mistiche delle quali si troverà più tardi l'eco nelle
iscrizioni funerarie dell'Italia meridionale e nei dialoghi di Platone: per
Empedocle, infatti, come per gli anonimi autori delle iscrizioni funerarie,
l'uomo, essendo di origine divina, non raggiungerà la vera felicità che dopo la
morte, quando si riunirà alla compagnia degli dèi.» Afferma Empedocle di
GIRGENTI. Conosci innanzitutto la quadruplice radice Di tutte le cose:
Zeus è il fuoco luminoso, Era madre della vita, e poi Idoneo, Nesti infine,
alle cui sorgenti i mortali bevono. Secondo una interpretazione Empedocle
indicherebbe Zeus, il dio della luce celeste come il Fuoco, Era, la sposa di
Zeus è l'Aria, Edoneo (Ade), il dio degli inferi, la Terra e infine Nesti
(Persefone), l'Acqua. Secondo altri interpreti i quattro elementi
designerebbero divinità diverse: il fuoco (Ade), l'aria(Zeus), la terra (Era) e
l'acqua (Nesti-Persefone). L'unione di tali radici determina la nascita
delle cose e la loro separazione, la morte. Si tratta perciò di apparenti
nascite e apparenti morti, dal momento che l'Essere (le radici) non si crea e
non si distrugge, ma è soltanto in continua trasformazione.
L'aggregazione e la disgregazione delle radici sono determinate dalle due forze
cosmiche e divine Amore e Discordia (o Odio), secondo un processo ciclico
eterno. In una prima fase, tutti gli elementi e le due forze cosmiche sono
riunite in un Tutto omogeneo, nello Sfero, il regno dove predomina l'Amore. Ad
un certo punto, sotto l'azione della Discordia, inizia una progressiva
separazione delle radici. L'azione della Discordia, non è ancora distruttiva,
dal momento che le si oppone la forza dell'Amore, in un equilibrio variabile
che determina la nascita e la morte delle cose, e con esse quindi il nostro
mondo. Quando poi la Discordia prende il sopravvento sull'Amore, e ne annulla
l'influenza, si giunge al Caos, dove regna la Discordia e dove è la
dissoluzione di tutta la materia. A tal punto il ciclo continua grazie ad un
nuovo intervento dell'Amore che riporta il mondo alla condizione intermedia in
cui le due forze cosmiche si trovano in nuovo equilibrio che dà nuovamente vita
al mondo. Infine, quando l'Amore si impone ancora totalmente sulla Discordia si
ritorna alla condizione iniziale dello Sfero. Da qui il ciclo ricomincia.
Il processo che porta alla formazione del mondo è quindi una progressiva
aggregazione delle radici. Tale unione, lungi dall'avere un benché minimo
carattere finalistico, è assolutamente casuale. E tale casualità si evidenzia a
proposito degli esseri viventi. All'inizio infatti le radici si uniscono a
formare arti e membra separati, che solo in seguito si uniranno, sempre
casualmente tra di loro. Nascono così mostri di ogni specie (come ad esempio il
Minotauro), che, dice GIRGENTI quasi anticipando Darwin, sono scomparsi solo
perché una selezione naturale favorisce alcune forme di vita rispetto ad altre,
meglio organizzate e perciò più adatte alla sopravvivenza. Le IV radici
sono anche alla base della gnoseologia di Empedocle. Egli infatti sostenne che
i processi della percezione sensibile (modificata dagli oggetti esterni) e
della conoscenza razionale fossero possibili solo in quanto esisteva una
identità di struttura fisica e metafisica tra il soggetto conoscente, ossia
l'uomo, e l'oggetto conosciuto, ossia gli enti della natura. Sia l'uomo che gli
enti erano formati da analoghe mescolanze quantitative delle quattro radici ed
erano mossi dalle medesime forze attrattive e repulsive. Questa omogeneità
rendeva possibile il processo della conoscenza umana, che si basava dunque sul
criterio del simile, tesi esattamente opposta a quella di Anassagora: l'uomo
conosceva le cose perché esse erano simili a lui. Infatti così affermò
Empedocle: «noi conosciamo la terra con la terra, l'acqua con l'acqua, il fuoco
con il fuoco, l'amore con l'amore e l'odio con l'odio. Ad ognuno di essi
Platone associò nel Timeo uno dei solidi platonici: il tetraedro al fuoco, il
cubo alla terra, l'ottaedro all'aria, l'icosaedro all'acqua. A questi IV
elementi Aristotele ne aggiungerà un V: la quintessenz che egli chiama etere e
che costituisce la materia delle sfere celesti. Per Pitagora di CROTONE la
successione aritmetica dei primi IV numeri naturali, geometricamente disposti in un tetrakys – argomento -- secondo un
triangolo equilatero di lato quattro, ossia in modo da formare una piramide,
aveva anche un significato simbolico: a ogni livello della tetraktys
corrisponde uno dei quattro elementi. Rappresentazione della tetraktys a
piramide. Livello I: Il punto superiore: l'Unità fondamentale, la compiutezza,
la totalità, il Fuoco. Livello II. I due punti: la dualità, gli opposti
complementari, il femminile e il maschile, l'Aria. Livello III. I tre punti: la
misura dello spazio e del tempo, la dinamica della vita, la creazione,
l'Acqua Livello IV. I quattro punti: la materialità, gli elementi
strutturali, la Terra La medicina e la psicologia ippocratiche Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Teoria
umorale. I quattro elementi della filosofia antica, base per lo sviluppo
della teoria umorale. Ippocrate di Coo elabora la teoria umorale, che
rappresenta nell'Occidente il più antico tentativo di fornire un'eziologia per
le malattie e una classificazione per i tipi psicologici e somatici.
Secondo Empedocle, ogni radice possiede una coppia di attributi: il fuoco è caldo
e secco; l'acqua fredda e umida; la terra fredda e secca; l'aria calda e umida.
Ippocrate tentò di applicare tale teoria alla natura umana definendo l'esistenza
di quattro umori base, ossia bile nera, bile gialla, flegma e sangue (umore
rosso): il fuoco corrisponderebbe alla bile gialla; la terra alla bile
nera (o melancolia, in greco Melàine Chole); l'aria al sangue; l'acqua al
flegma. Il buon funzionamento dell'organismo dipenderebbe dall'equilibrio degli
elementi, mentre il prevalere dell'uno o dell'altro causerebbe la
malattia. A questi elementi e umori corrispondono quattro temperamenti,
pertanto la teoria ippocratica è anche una teoria della personalità. La
predisposizione all'eccesso di uno dei quattro umori definirebbe un carattere
psicologico e insieme una costituzione fisica: il malinconico, con
eccesso di bile nera, è magro, debole, pallido, avaro, triste; il collerico,
con eccesso di bile gialla, è magro, asciutto, di bel colore, irascibile,
permaloso, furbo, generoso e superbo; il flemmatico, con eccesso di flegma, è
grasso, lento, pigro e sciocco; il tipo sanguigno, con eccesso di sangue, è
rubicondo, gioviale, allegro, goloso e dedito ad una sessualità giocosa. Secondo
i racconti mitologici e folcloristici, ogni elemento sarebbe inoltre animato da
un suo specifico spirito elementare, detto anche «elementale», che Paracelso
riteneva realmente operante dentro di essi, dedicando loro un trattato, il
Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris, così suddividendoli:
le Salamandre che sono gli elementali del fuoco; le Ondine gli elementali
dell'acqua; le Silfidi gli elementali dell'aria; gli Gnomi gli elementali della
terra. L'etere, il pémpton stoichêion, 'quinto elemento e un elemento che,
secondo Aristotele, si anda a sommare agli altri IV: il fuoco, l'acqua, la
terra, e l'aria. Secondo gli alchimisti, l'etere sarebbe il composto
principale della pietra filosofale, fungendo da matrice o materia prima degli
altri elementi. La storia dell'etere inizia con Aristotele, secondo il quale
era l'essenza del mondo celeste, diversa dalle quattro essenze (o elementi) di
cui si riteneva composto il mondo terrestre: terra, aria, fuoco e acqua.
Aristotele credeva che l'etere fosse eterno, immutabile, senza peso e
trasparente. Proprio per l'eternità e l'immutabilità dell'etere, il cosmo era
un luogo immutabile, in contrapposizione alla Terra sublunare, luogo di
cambiamento. Lo stesso concetto venne espresso alcuni secoli più tardi da
PACIOLI (si veda), neoplatonico, che coinvolge anche le strutture matematiche e
geometriche. Secondo PACIOLI (si veda), infatti, il cielo, il quinto elemento,
aveva la forma di un dodecaedro, struttura perfetta secondo lo studioso. Successivamente
gli alchimisti medievali indicarono con l'etere o quintessenza la forza vitale
dei corpi, una sorta di elisir di lunga vita: Quella cosa che muta i metalli in
oro possiede altre virtù straordinarie: come, ad esempio, conservare la salute umana
integra sino alla morte e di non lasciar passare la morte (se non dopo due o
trecento anni). Anzi, chi la sapesse usare potrebbe rendersi immortale. Questo
lapisnon è certamente nient'altro che seme di vita, gheriglio e quintessenza
dell'intero universo, da cui gli animali, le piante, i metalli e gli stessi
elementi traggono sostanza.» (Komensky, da Labirinto del mondo e paradiso
del cuore) I chimici supposero che la quintessenza non fosse altro se non un
elisir ottenuto dalla quinta distillazione degli elementi; da questa ultima
accezione la quintessenza ha anche assunto un significato più ampio di
caratteristica fondamentale di una sostanza o, più in generale, di una branca
del sapere. La raffigurazione dei quattro elementi (da sinistra) terra,
acqua, aria e fuoco, con le sfere alla base rappresentanti i simboli
dell'alchimia. La chimica Stato della materia. Secondo ODIFREDDI, i IV
elementi concreti: cioè terra, acqua, aria e fuoco, oggi noi [li] associamo
rispettivamente agli stati solido, liquido e gassoso della materia, e
all'energia che permette di trasmutare uno nell'altro (ad esempio, il ghiaccio
in acqua, e l'acqua in vapore). I quattro elementi in fisica sono associati
agli stati solido (terra), liquido (acqua), gassoso (aria) e plasma(fuoco),
quest'ultimo definito il "quarto stato" della materia, estende il
concetto di fuoco, considerato gas ionizzato della categoria dei plasmi
terrestri, come anche i fulmini e le aurore, nell'universo costituisce più del
99% della materia conosciuta: il plasma è infatti la sostanza di cui sono
composte tutte le stelle e le nebulose. L'astrologia Modifica I
segni zodiacali suddivisi in base al loro elemento: terra, fuoco, aria, acqua
Segno zodiacalee Triplicità. Nell'astrologia occidentale i segni sono divisi
in: segni di fuoco (Ariete, Leone, Sagittario) segni di terra (Toro,
Vergine, Capricorno) segni d'aria (Gemelli, Bilancia, Aquario) segni d'acqua
(Cancro, Scorpione, Pesci) In tal modo essi formano complessivamente le quattro
triplicità. La rappresentazione
simbolica del microcosmo e del macrocosmo si ritrova nell'antico segno del
pentacoloche combina cioè in un unico segno tutta la creazione, ovvero
l'insieme di processi su cui si basa il cosmo. Le cinque punte del pentagramma
interno simboleggiano i cinque elementi metafisici dell'acqua, dell'aria, del
fuoco, della terra e dello spirito. Questi cinque elementi sintetizzerebbero i
gruppi in cui si organizzano tutte le forze elementali, spiritiche e divine
dell'universo. Il rapporto tra i vari elementi rappresentati all'interno
del pentacolo è ritenuto una riproduzione in miniatura dei processi su cui si
basa il cosmo. Questo processo inizia dall'elemento dello spirito, il quale si
manifesta dando origine a tutto ciò che esiste. La creazione si verifica
partendo dalla divinità e scendendo verso la punta in basso a destra,
simboleggiante l'acqua, ovvero la fonte primaria e sostentatrice della vita
sulla Terra. Dall'acqua ebbero origine le primissime forme elementari di vita,
le quali poi evolsero con il passare dei millenni staccandosi dall'elemento
primordiale. Dall'acqua il processo creativo risale verso l'aria, la quale
rappresenta le forme di vita sufficientemente evolute da potersi organizzare da
sole, prendendo coscienza del proprio sé. Questi esseri, dalla loro innocenza
originaria, si evolvono e si organizzano moralmente e tecnologicamente,
procedendo lungo la linea orizzontale verso la terra a destra. La terra
simboleggia il massimo grado di evoluzione che un'epoca può supportare, quando
questo diviene troppo ingente avvengono delle ricadute, sotto vari punti di
vista, ma innanzitutto sotto il profilo spirituale. L'essere si allontana dallo
spirito, degradando verso il basso, il fuoco, simboleggiante l'apice della
degenerazione. In seguito alla depressione avviene però sempre una ripresa, un
ritorno alle origini, in questo caso allo spirito, l'essere umano riscopre la
spiritualità. Nella tradizione ebraica è ampia la letteratura sui quattro
elementi di cui se ne riportano tanto la simbologia tanto le corrispondenze
nella Creazione. Ricordando anche il testo di El'azar da Worms Il segreto
dell'Opera della Creazione, oltre allo Zohar, il testo più importante che ne
tratta l'argomentazione secondo l'interpretazione mistica ebraica è il Sefer Yetzirah,
la cui sapienza risale ad Avraham: questo testo argomenta il confronto tra le
Sefirot, i quattro elementi, le lettere ebraiche, i pianeti, i segni zodiacali,
i mesi e le parti del corpo umano. Se ne discute anche in altri testi di
Qabbalah ed è tra i principali oggetti di studio del percorso esoterico ebraico
definito Ma'asseh Bereshit, lo Studio dell'Opera della Creazione. Si ritiene
che il mondo sia stato creato con la Torah le cui parole sono formate da
lettere ebraiche che, permutate, sono il riferimento della Sapienza divina da
cui sorse la parola di Dio al fine di creare ogni cosa esistente. Derivando dal
significato delle lettere la loro corrispondenza con le creature e le create è
così possibile avvicinarsi alla sapienza della Qabbalah che permette di
cogliere il significato segreto proprio di esse. Lo Zohar afferma che i
quattro elementi fuoco, acqua, aria e terra corrispondono ai quattro metalli:
oro, rame, argento e ferro; un'ulteriore corrispondenza è quella del Nord, del
Sud, dell'Est e dell'Ovest. Dopo averne descritto i rapporti, lo Zohar continua
l'esposizione ammettendo che, come si contano così 12 elementi, si possono
contare 12 pietre preziose corrispondenti alle dodici tribù d'Israele, cosa
confermata poi dalle fattezze degli Urim e Tummim. Importante anche il
confronto con i quattro venti. I quattro elementi, uniti nel corpo
vivente, con la morte si separano. Con lo studio della Torah l'uomo si
eleva al di sopra dei quattro elementi dominandoli anche nel proprio corpo e
talvolta, in questo, si collega alle quattro figure metaforiche della
Merkavah Cristianesimo Modifica Il profeta Elia, di José de Ribera.
Secondo il primo libro dei Re, Elia sul monte Oreb « [...] entrò in una
caverna per passarvi la notte, quand'ecco il Signore gli disse: «Che fai qui,
Elia?». [...] Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del
Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da
spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era
nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel
terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco.
Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. (1Re 19, 9.11-12, su
laparola.net. Per l'esegesi biblica di Carlo Maria Martini,
«Al versetto [11 e] 12 abbiamo i quattro segni: vento, terremoto, fuoco,
mormorio di un vento leggero. Non si dice che il Signore fosse in quest'ultimo
ma si nega che fosse nei primi tre. È un passo ricchissimo di simboli che rimandano
a tante altre pagine bibliche, un passo oscuro perché non riusciamo bene a
capirlo: Jahvé era o non era nel mormorio di un vento leggero? E perché
altrove, nella Scrittura, Dio è nel fuoco mentre qui non lo è? Sempre per
Martini, Anche nel Nuovo Testamento troviamo i primi tre segni del
racconto di Elia: "rombo, come di vento che si abbatte gagliardo",
"lingue come di fuoco", quando ebbero terminato la preghiera, il
luogo in cui erano radunati tremò, e tutti furono pieni di Spirito santo. Il
vento, il fuoco, il terremoto sono simboli ben noti in tutta la Scrittura;
hanno significato la presenza del Signore sul Sinai, nel cammino del deserto, e
sono stati ripresi dai Salmi. Non troviamo però il vento leggero. Ciò significa
che, tanto per l'ebraismo quanto per il cristianesimo, è dubbio che le
manifestazioni relative almeno ai primi tre dei quattro elementi costituiscano
una teofania, sia per Mosè ed Elia sul Sinai/Oreb sia per la Pentecoste. Letteratura
apocalitticaUso del termine. Pensiero orientale Pensiero hinduista Il pancha
mahabhuta, o "cinque grandi elementi", nell'Hinduismo sono:
khsiti o bhumi (terra) ap o jala (acqua) agni o tejas (fuoco) marut o pavan
(aria o vento) byom o akasha (etere). Gli hindu credono che Dio usò l'aakasha
per creare i restanti quattro elementi, e che la conoscenza dell'uomo sia
nell'archivio akashiko. Pensiero del buddhismo antico Modifica Nella
letteratura Pali, i mahabhuta ("grandi elementi") o catudhatu
("quattro elementi") sono terra, acqua, fuoco e aria. Nel primo buddhismo,
erano alla base per la comprensione della sofferenza, e per la liberazione
dell'uomo dalla sofferenza. Gli insegnamenti del Buddha riguardanti i
quattro elementi li raggruppano come base delle reali sensazioni, più che un
pensieri filosofici. Gli elementi erano quindi intensi come
"caratteristiche" o "proprietà" di varie sensazioni:
la coesione era una proprietà dell'acqua. la solidità e l'inerzia erano
proprietà della terra. l'espansione e la vibrazione erano proprietà dell'aria.
il calore era una proprietà del fuoco. I suoi insegnamenti dicono che ogni cosa
è composta da otto tipi di 'kalapas', il cui gruppo principale è composto dai
quattro elementi, mentre il gruppo secondario è composto da colore, odore,
gusto e alimento, derivati dai primi quattro elementi. Gli insegnamenti
del Buddha precedono quelli dei quattro elementi nella filosofia greca. Questo
può essere spiegato perché furono inviati 60 arhat nel mondo conosciuto al
tempo per diffondere i suoi insegnamenti.
Il pensiero tradizione giapponese usa cinque elementi chiamati 五大, go dai,
letteralmente, cinque grandi. Gli elementi sono: terra, che rappresenta
le cose solide acqua, che rappresenta le cose liquide fuoco, che rappresenta le
cose distrutte aria, che rappresenta le cose mobili vuoto, che rappresenta le
cose che non sono nella vita quotidiana. Pensiero cinese Lo stesso argomento in
dettaglio: Xing. Si ritiene che anche la filosofia tradizionale cinesecontenga
degli «elementi» come nella filosofia grecaclassica: nel taoismo infatti sono
presi in considerazione tre termini affini a quelli occidentali, l'acqua il
fuoco e la terra, più altri due, il legno e il metallo, per un totale di
cinque, wu xing in cinese, sebbene più che di elementi si tratti di fasi in
movimento all'interno di un ciclo, come spiega Cheng: «La traduzione
convenzionalmente adottata di wuxing con "Cinque Elementi" presenta
innanzitutto l'inconveniente di non rendere conto dell'aspetto dinamico della
parola xing 行, camminare, "andare",
"agire"). Inoltre non vi è qui nulla in comune con i quattro elementi
o radici costitutivi dell'universo - fuoco, acqua, terra, aria - individuati da
Empedocle nel V secolo a.C., ma sembrano essere originariamente concepiti in
una prospettiva essenzialmente funzionale, più come processi che come sostanze.
(Cheng, Storia del pensiero cinese) Si tratta a ogni modo di distinzioni
storicamente poco accettate, ad esempio i mongoli hanno accolto nel novero
degli elementi sia quelli cinesi che quelli occidentali. Analogie tra i due sistemi
sono rinvenibili nel fatto che l'elemento cinese del legno si avvicina
maggiormente al concetto occidentale dell'aria, poiché entrambi corrispondono
alle qualità del punto cardinale est, della primavera, dell'infanzia e della
crescita, mentre il metallo sembra inglobato nelle proprietà occidentali della
terra, quali l'ovest, l'autunno e il declino. La terra in Cina occupa
propriamente il centro della rosa dei venti, ed è più che altro la matrice
degli altri quattro elementi, come in Occidente lo è la prima materia o etere. La
peculiarità della concezione cinese consiste semmai nel carattere trasmutatorio
dei suoi cinque elementi, da intendere come forze attive o facoltà dinamiche. La
loro origine si perde nella preistoria cinese ed è difficilmente ricostruibile.
La prima descrizione delle caratteristiche dei Wuxing la troviamo nello Shujing
(«Classico della Storia»): «L'acqua consiste nel bagnare e nello scorrere
in basso; il fuoco consiste nel bruciare e nell'andare in alto; il legno
consiste nell'essere curvo o diritto; il metallo consiste nel piegarsi e nel
modificarsi; la terra consiste nel provvedere alla semina e al raccolto. Ciò
che bagna e scorre in basso produce il salato, ciò che brucia e va in alto
produce l'amaro; ciò che è curvo o diritto produce l'acido; ciò che si piega e
si modifica produce l'acre; ciò che provvede alla semina e al raccolto produce
il dolce. (Shu-ching, Il grande progetto) Questi Cinque Agenti sono in
relazione tra di loro e danno vita a molte altre serie di cinque combinazioni
complementari ai Wuxing stessi: i punti cardinali ed il centro, le note
musicali, i colori, i cereali, le sensazioni, ecc. Sempre nello Shujing, nella
sezione detta "Grande Norma" si fanno seguire ai Wuxing Cinque
Funzioni: «Poi è quella delle Cinque Funzioni. La prima è il
comportamento personale; la seconda è la parola; la terza la visione; la quarta
l'udito; la quinta il pensiero. Il comportamento personale deve essere
decoroso, la parola ordinata; la visione chiara; l'udito distinto; il pensiero
profondo. il decoro dà solennità, e l'ordine dà regolarità, la chiarezza dà
intelligenza, la distinzione dà deliberazione; la profondità dà saggezza. (Shu-ching,
La grande norma. Rappresentazione dei due cicli: in verde quello generativo che
procede in senso orario dal padre al figlio (in rosso quello inverso di
riduzione o impoverimento); ed in blu le linee dirette del ciclo di controllo
con cui il nonno inibisce il nipote. I cinque pianeti maggiori del nostro
sistema sono associati e prendono il modo degli elementi: Venere è oro
(metallo), Giove è legno, Mercurio è acqua, Marteè fuoco e Saturno è terra. In
aggiunta, la Lunarappresenta lo Yin e il Sole lo Yang. Lo Yin, lo Yang e
i cinque elementi sono temi ricorrenti dello I Ching, il più antico testo
classico cinese, che descrive la cosmologia e filosofia cinese. La
dottrina delle cinque fasi descrive due cicli di equilibrio, uno generativo e
creativo (生, shēng), e l'altro dominante e
distruttivo, 克, kè. Generativo il legno alimenta
il fuoco il fuoco crea la terra (cenere) la terra genera il metallo il metallo
raccoglie l'acqua l'acqua nutre il legno Distruttivo il legno divide la terra
la terra assorbe l'acqua l'acqua spegne il fuoco il fuoco scioglie il metallo
il metallo abbatte il legno Gli elementi nella cultura di massa. I regista
francese Luc Besson ha girato il film di fantascienza Il quinto elemento.
La Walt Disney Company Italia ha prodotto dei racconti a fumetti e una serie di
film a cartoni animati (W.I.T.C.H.) ideati da Elisabetta Gnone dove le
protagoniste incarnano i poteri degli elementi naturali. Sempre nei
fumetti, i superpoteri dei Fantastici 4, supereroi della casa editrice Marvel
Comics, sono basati sui quattro elementi naturali. I Gormiti sono basati
sugli elementi naturali e hanno poteri collegati ad essi. La rock band
italiana dei Litfiba negli anni novanta ha pubblicato 4 album che compongono la
tetralogia degl’elementi", dedicando un disco ad ogni elemento naturale:
El Diablo (rappresentante il "fuoco"), Terremoto (la
"terra"), Spirito (l'"aria") e Mondi Sommersi
(l'"acqua"). Marson, Archetipi di territorio, Alinea Editrice, Battistini, Simboli e Allegorie, Milano,
Electa, O' Brien, Empedocle in Il sapere greco. Dizionario critico, Torino,
Einaudi, Empedocle, I presocratici, Gallimard, Kingsley, Misteri e magia nella
filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore,
Tinaglia, Pensiero primario NPT, Lampi di stampa, Mariucci, Il Sapere degli
Antichi Greci, SteetLib, Empedocle, Reale, Per una nuova interpretazione di
Platone, Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. L'avventura della logica da
Parmenide ad Amartya Sen, Milano, Longanesi, Milano, TEA, Corinne Morel,
Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze, Firenze, Giunti Editore,
Sala, Gabriele Cappellato, Viaggio matematico nell'arte e nell'architettura,
ed. Franco Angeli, Geymonat, Gianni Micheli, Corrado Mangione, Storia del
pensiero filosofico e scientifico, Volume 1, Garzanti, Paracelso, Liber de
nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus, trad. it.
in Paracelso, Scritti alchemici e magici, Phoenix, Genova Magee, Hegel e la
tradizione ermetica, Mediterranee, Puliafito, Feng Shui: armonia dei luoghi,
Hoepli, Abbri, Le terre, l'acqua, le arie. La rivoluzione chimica del Settecento,
Bologna, il Mulino, Rogoff, Ed., IEEE Transactions on Plasma Science, Agrippa,
Of Occult Philosophy, su esotericarchives, trad. French, The Key of Solomon, Mathers. Spagnoli, Cabala e Antroposofia, NaturaSofia,
Martini, Il dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Casale Monferrato,
Piemme, Cf. Atti At 2, 2-3, su laparola, Cf. Atti, su laparola.net.. Martini, Bertagni, La teoria indù dei cinque
elementi - Da Studi sull'Induismo (René Guénon) ^ Anne Cheng, Storia del
pensiero cinese, Vol I, Dalle origini allo studio del mistero, Einaudi, Walters,
Il libro completo dell'astrologia cinese, Gremese, Walters, Puliafito, Feng
Shui: armonia dei luoghi, Puliafito, Leonardo, La Filosofia Cinese, Da Confucio
a Mao Tse-tung, Biblioteca Universale Rizzoli, Leonardo, La Filosofia Cinese,
Da Confucio a Mao Tse-tung, Biblioteca Universale Rizzoli, Yu-lan, Storia della
filosofia cinese, confucianesimo, taoismo, buddismo, Mondadori, Cles, Rigotti,
Schiera, Aria, terra, acqua, fuoco: i quattro elementi e le loro metafore,
Bologna, Il Mulino. Portale Antropologia Portale
Astrologia Portale Bibbia Portale Filosofia
Portale Mitologia Portale Religioni Fuoco (elemento) uno dei
quattro elementi classici Terra (elemento) uno dei quattro elementi
tradizionali Wu Xing. Andrea Bonomi. Keywords: i quattro elementi, “minimal use of
transformations” (Grice), chronological logic, time-relative identity, The
Grice-Myro theory of identity, A. N. Prior, Chomsky, ways of reference,
referring, existence and structure, imagery and naming, universe of discourse,
mental event, psychological inter-subjectivity, indicale, Grice on embedeed
psychological attitudes Operator, Addressee, Sender, propositional content. I
want you to know that p, Iinform you that p, I want you to want to do p, I
force you to do P, etc. Symbols in “Aspects of Reason”, Op1 Op2 Op3 Op4
judicative volitive indicative informative intentional imperative interrogative
reflective inquisitive reflective Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonomi” – The
Swimming-Pool Library. Bonomi.
Grice
e Bontadini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale neo-classica
–de-ellenizante –I nazionalisti romani – Appio – scuola di Milano – filosofia
milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Milano). Filosofo
milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I
would call Bontadini a Griceian; first, he likes sports, like I do; second he
is a neo-classical (as I am) and a anti-anti-metaphysicist, as I am!” -- “Se Dio non ci fosse, il mondo sarebbe
contraddittorio» (G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza).
Esponente di spicco del movimento neotomista, che ebbe presso Milano uno dei
suoi più importanti punti di riferimento e diffusione. Iscrittosi presso Milano
quando essa aveva iniziato le sue attività, ma non era ancora riconosciuta dal
governo italiano, egli fu il terzo laureato assoluto dell'ateneo, presso il
quale fu poi professore di filosofia teoretica. Ha insegnato anche presso
l'Urbino, Milano e Pavia. Pur rifacendosi alla metafisica classica, quella
aristotelica e tomistica, Bontadini si dichiara "neoclassico"
intendendo evidenziare il nuovo ruolo che quell'antica metafisica può svolgere
nella filosofia contemporanea. Egli infatti definisce se stesso come «un
metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno». Rifacendosi alla
filosofia idealistica ne apprezza soprattutto la «verità metodologica» che ha
evidenziato il ruolo della coscienza, del cogito cartesiano, nel cogliere il
significato dell'essere pur considerandolo come altro, diverso dalla
soggettività della coscienza stessa, realizzando cioè una identità tra il
soggetto e l'oggetto, tra l'intelletto e la sensibilità che riporta in luce
l'antica teoria parmenidea dell'identità di Essere e Pensiero. Un
Parmenide, quello di Bontadini, che non esclude la constatazione del divenire,
da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà, dall'altro. Due
protocolli che fanno capo rispettivamente ai due piloni del fondamento:
l'esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due
protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del
titolo di verità sono verità, però, che
in quanto prese nell'antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si
trovano a dover lottare contro un'imputazione di falsità. Giacché l'esperienza
oppugna la verità del logo e il logo quella dell'esperienza». Il sapere
Una nuova concezione del sapere è alla base del pensiero di Bontadini che ne
ribadisce l'origine nell'esperienza che però va intesa non più come risultato
delle operazioni della ragione (razionalismo) o come ricezione passiva dei dati
empirici (empirismo), ma come "presenza": mentre la gnoseologia
contemporanea continua a concepirla nell'ambito di un dualismo dell'essere e
del conoscere, correlando così il problema metafisico a quello del conoscere e
facendo nascere la questione, di difficile soluzione, di quale correlazione
possa esserci tra il pensiero e la realtà. Ma ogni qual volta si
considera ciò che si ritiene sia "al di là" del pensiero, questo
inevitabilmente è nel pensiero, appartiene al pensiero stesso. Quindi
ogni esperienza come presenza è assoluta, perché non costruita, ed è totale,
poiché ogni singolo fatto empirico fa parte di essa. L'unità
dell'esperienza Si arriva quindi alla concezione di "unità
dell'esperienza" dove tra l'esperienza e il pensiero si sviluppa quel
rapporto di circolarità che costituisce il sapere. Ma secondo l'insegnamento
di Parmenide l'essenza dell'esperienza è il divenire che si presenta come
contraddittorio nella sua realtà di essere e di esistere inteso come opposto al
non essere. Come può il sapere allora basarsi su una struttura
contraddittoria di essere e divenire? «Il divenire si presenta cioè
contraddittorio; anzi come la stessa incarnazione della contraddittorietà
(l'identificarsi del positivo e del negativo), come la smentita alla suprema e
immediata identità: l'essere è. La soluzione in Dio creatore «L'ente, che è
temporale in quanto empirico, è eterno in quanto divino». La
contraddizione insita nel divenire cioè può essere superata nell'esistenza di
Dio creatore. La contraddizione del divenire è superata con la dottrina della
creazione, in quanto quella identificazione dell'essere e del non essere, che
riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione
dell'Essere, di Colui che crea dal non essere l'essere. Ma l'essere poi
non ricade, divenendo, nel nulla? Non si può, risponde Bontadini, pensare
assurdamente che l'essere sia distrutto dal nulla ma il mondo creato da Dio è
diverso da Lui ma insieme coincide nella sua creazione non alterando la sua
essenziale immutabilità. Severino, traendo le conclusioni dalla concezione
del suo maestro Bontadini in un saggio
pubblicato su la Rivista di filosofia neo-scolastica dal titolo “Ritornare a
Parmenide” elimina ogni differenza tra l'immutabilità di Dio e quella del mondo
soggetto al divenire per cui ogni cosa è eterna come è eterno Dio.
Rispose con toni duramente ironici Bontadini in un articolo dal titolo“Sozein
ta fainomena”. Io mi chiesi con quale barba si trovi, nel mondo dell'essere, il
mio alter ego immutabile. Giacché, da quando ero matricola venendo fino ad
oggi, di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte
sono immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio
corpoquello fissato per l'eternitàper fare posto a tutte. Ribadì quindi la sua
concezione del principio di creazione che permette di superare la
contraddittorietà del divenire tramite l'azione creatrice di Di, «in quanto
quella identificazione dell'essere e del non-essere, che riscontriamo
nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'essere (azione
indiveniente dell'essere indiveniente). Altre opere: “Saggio di una metafisica
dell'esperienza” (Milano, Vita e pensiero); “Studi sull'idealismo” (Urbino, Argalia);
“Dall'attualismo al problematicismo. Studi sulla filosofia italiana
contemporanea” (Brescia, Scuola); “Studi sulla filosofia dell'età cartesiana” (Brescia,
La scuola); “Dal problematicismo alla metafisica. Nuovi studi sulla filosofia
italiana contemporanea, Milano, Marzorati); “Indagini di struttura sul
gnoseologismo moderno” (Brescia, La scuola); Il compito della metafisica”
(Milano, Fratelli Bocca); “Studi di filosofia moderna, Brescia, La scuola); “Conversazioni
di metafisica” (Milano, Vita e pensiero); Metafisica e de-ellenizzazione”
(Milano, Vita e pensiero); “Appunti di filosofia, Milano, Vita e pensiero), “Metafisica
e de-ellenizzazione”; “Sull'aspetto dialettico della dimostrazione
dell'esistenza di Dio”. Espulso per le sue posizioni filosofiche dalla Cattolica
di Milano. Sembra qui tornare il Deus sive Natura di Spinoza. “Sozein ta
fainomena”. Dal diveniente all'immutabile. Studio sul pensiero di Gustavo
Bontadini, prefazione di Emanuele Severino, Venezia: Cafoscarina,. Bontadini e
la metafisica. L'Essere è Persona.
Riflessioni su ontologia e antropologia filosofica in Gustavo Bontadini,
Orthotes, Napoli-Salerno. Francesco Saccardi, Metafisica e parmenidismo. Il
contributo della filosofia neoclassica, Orthotes, Napoli-Salerno. Dizionario di
filosofia. SIEKE. APPIO. Historische disöertation, welche... ^M vi
"^r. eingereicht hat. Marburg, Thesis. Marburg. APPIVS CLAVDIUS
CÆCVS CENSOR. HisTORiscFiE Dissertation, WELCHE ZUR ErLAKGUXG DER
DoCTüRWÜRDE BEI DER Philosophischen Facultät DER KÖNIGLICHEN
Universität Marburg EINGEREICHT HAT -- SIEKE. MARBURG. Der Censor APPIO ist schon den Alten ein Problem gewesen.
Die Quellenberichte, welche uns vorliegen, geben uns keineswegs ein
einheitliches und übereinstimmendes Bild; wir werden vielmehr zwischen
den einzelnen Gewährsmännern sowohl in Bezug auf die Thatsachen, als auch
auf das Urteil über den Censor und seine politische Wirksamkeit die
grössten Unterschiede und Widersprüche finden. Von den alten
Autoren haben sich, wie das natürlich ist, die Differenzen auf die
neueren Forscher übertragen. In diesem Widerstreit der
Meinungen galt es für mich, eine feste Grundlage für alle Erörterungen zu
finden. Und diese glaube ich in dem Satze sehen zu müssen, dass der
Bericht Diodors über die Censur der älteste, reinste und beste ist,
welcher uns überliefert ist. Von diesem Berichte müssen wir bei jeder
einzelnen Frage ausgehen, ihn überall zu Grunde legen. Von keinem neueren
Forscher scheint mir dieser quellenkritische Grundsatz konsequent
durchgeführt zu sein. Dies zu versuchen, ist die Aufgabe der
folgenden Abhandlung. Amtsantritt und Amtsdauer des Censors App.
Claudius. Die Quellen, aus denen fast allein die Kenntnis von
der Censur des APPIO und überhaupt seiner Persönlichkeit und politischen
Wirksamkeit fliesst, sind Diodor und LIVIO. Verschiedener zu-
fälliger Erwähnungen des Censors bei anderen Schriftstellern sowie seines
Elogiums (Corp. Inscr. lat.), welches die Ämterlaufbahn giebt, werden wir
im Gange der Darstellung zu gedenken haben. Ich stelle die Berichte
der beiden Hauptquellen im Zusammenhang voraus. Diod. lautet:
'Ev dt "Fotfifi xartx lomov tot iviamov ri^n^rai; «Aovto xai rovTViv
o eteQOi: '^titiio^ K'/Mudiog inmoov l%on' tov avvctiixoyTa yUvxiov
Ilkuriiov tio'A/m nur ^GTituiiav vo/ulfiMv ixivf^ae, xat n^onov fih to
xaloö^ttrov ^'ATiTtiOvvÖMQ and atadiiov oydoi-xoma xmi-yayfv dg rijv
'Piofn;v xai TiolXd Tiov dt]/iWaio)r xQ^Jf^ckm' eig lavrr^r n]v
xazaaxevfjv dvi^kcjasv av€v doyitiatog rijc; aiyxh'^iov. fif-uc dt ravta
lijg a^'avTOv xh^&eiat^g ''AnTiiag oöov rd 7cktov fitQOi; d^oig
areQeoig xartarQwaev and 'Pio/iit^g f^x^i^ Kanvi^g ovroi: tov
öiaöTrjltiaTOi; aradiviv Tiltiown'*' i^dnon' rovi; /.dv vnsQtxovTai;
öiaüxcci^fag roug dt (paQayyviöfig ?} xoilovg dvalrifi^iaaiv d^iohlyotg
iSiocooccg xaravi^hoatv dnaöag rag ör^liwalag n()oa6dovgy auzod de
juvi^juelov d&dvarov xaTehnev dg xoivrjv evx{)j]aTiav
cpiloTifiT^d^eig' xatejiii^t dt xai rijv auyxh]TOv ov tovg evyevslg xai
nQOtxovTag xdig a'^uofiaac 7i()ogyiid<pcov ^lovovg, uig r^v si^oS, dlkd
nollovg xai rtov d7iBXtvd^i{)iov vlovg dvt^u^B^ i(f olg ßaQtojg tfSQOv oi
xavx^o/nevoi Tijg eoyeveiag* edioxe dt Toig noUTaig xai ti]y t^ovalav
onoi TiQoaiQoh'TO rifii^- aaa^ar ro dt okov dQclt' rtOrjaavQiafutvov
xax" avrov TiaQa rolg iTiKpavtatdioig rdv <p^dvov i^txhve rd
Tt^oaxomHy^iöi tiov dllojv Tiohtviv dvTiiay^ia xaTaoxevd^on' rjj rwv
svyevdjv dkko- TQiozr^Tt TTJv 7ia(td lioY nokhov evvoiav xai xaid fitv
T?jv tiov Innkiiv doxijtiaaiav ovdevdg dcfsü.eTO rdv 'innov, xard dt
r?}v TcJv avvtdQtJv xatayQaipi]}' oudtva tiov ddo^ovvTon' avyxh]TixLov
t^tßakevj onti) j}y td^og noielv rolg rifirjaJg, a^' oi fih vnaTOi did
TOV (fO^drov xa) duc rd ßovltotha Tolg tniffareOTaTOig x«- ()U€Gi)^ai
oimy/or n)v Oüyyh]TOv ov ti)v vrid toütov xaraleyelöav, dlld T}]v und
Ttr7v n()oyty€V7^^itru)v tifirjiör xcaayqacptlöav o dt di^jiwg jOiTOig
fitv dvTi7T()dTTiov, Tift dt ^AnnUi* ov/ii(pikoTt jitovuti'og Xia f/;r
nor dcoytTtor 7ii)oay('tyt]r ßtßcucoaai ßov?,6fitrog dyo()dvofior tiktio
trg tniifartaititag dyoi>avoftiag vidv dnelevd^iiiov rralov 0/Mßiov,
og n^onog ' FiD^ialuv TavTrjg Trjg di)xrjg f-V<7« naiodg vh'
dtdov'/.tixoTog.ddt^'AnniogzijgdQyrjg dno/.v&e}g xai tov andTijg
avyxlrjtovip^ovov 8vkaßr;^€lg nQoaenoiijO^r^ rvcpkdg elvai xai xar oixiav
ejAeivsv. LIVIO: Et censura clara eo anno APPIO et C. Plautii fuit,
memoriae tarnen felicioris ad posteros nomen Appi, quod viam munivit et
aquam in urbem duxit, eaqüe unus perfecit, quia ob infamem atque
invidiosam senatus lectionem verecundia victus collega magistratu se
abdicaverat: APPIO iam inde antiquitus insitam pertinaciam familiae
gerendo solus censuram obtinuit Itaque consules, qui eum annum
secuti sunt, C. Junius Bubulcus tertium et Q. Aemilius Barbula
iterum, initio anni questi apud populum deformatum ordinem prava
lectione senatus, qua potiores aliquot lectis praeteriti essent,
negaverunt eam lectionem se, quae sine recti pravique discrimine ad gratiam et
libidinem facta esset, observaturos, et senatum extemplo citaverunt eo
ordine, qui ante censores App. Claudium et C. Plautium
fuerat. Permulti iam anni erant, cum inter patricioa magistratus
tribunosque nulla certamina fuerant, cum ex ea familia, cui velut fato
lis cum tribunis et plebe erat, certamen oritur. APPIO (si veda) CLAUDIO
censor circumactis decem et octo mansibus, quod Æmilia lege finitum censuræ
spatium temporis erat, cum C. Plautius collega eius magistratu se
abdicasset, nulla vi compelli, ut abdicaret, potuit. P. Sempronius
erat tribunus plebis, qui finiendae censuræ intra legitimum tempus
actionem susceperat, non populärem magis quam iustam nee in vulgus quam
optimo cuique gratiorem (Schluss): Haec taliaque cum dixisset,
prendi censorem et in vincula duci iussit. adprobantibus sex
tribunis actionem collegae tres appellanti APPIO (si veda) CLAUDIO
auxilio fuerunt, summaque invidia omnium solus censuram gessit. APPIO
censorem petisse consulatum, comitiaque eius ab L. Furio tribuno plebis
interpellata, donec se censura abdicarit, in quibusdam annalibus invenio.
creatus consul, Ceterum Flavium dixerat aedilem fore nsis
factio, APPIO (si veda) CLAUDIO censura vires nacta, qui senatum primus
libertinorum filiis lectis inquinaverat et, posteaquam eam lectionem nemo
ratam habiiit, nee in curia adeptus erat, quas petierat opes urbanas,
humilibus per omnes tribus divisis forum et campum corrupit ex eo
tempore in duas partes discessit civitas: aliud integer populus fautor et
cultor bonorum, aliud forensis factio tenebat, donec Q. Fabius et P.
Decius censores facti, et Fabius, simul concordiae causa, simul ne humillimorum
in manu comitia essent, omnem forensem turbam excretam in quattuor tribus
coniecit urbanasque eas appellavit. adeoque eam rem acceptam gratis
animis fcrunt, ut Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac
ordinum temperatione pareret Diodor berichtet die Wahl des APPIO zum
Censor zu Ol. Er erzahlt, man habe
in diesem Jahre den APPIO und Lucius (sie!) Plautius zu Censoren
gewählt. Es ist dies das Jahr der Varronischen Zählung oder das
Jahr v. Chr., das Jahr der Consuln Q.
Fabius und C. Marcius (Diod.). Zugleich erzählt er an dieser Stelle
alles, was er von der Censur zu berichten hat; nur noch einmal erwähnt er
späterhin den App. Claudius, nämlich als
Consul des Jahres Ol. 118 d. i. des Jahres aer. V. V.
Chr. Livius, welcher die Nachrichten über den Censor annalistisch
zersplittert, setzt den Amtsantritt der Censoren App. Claudius und Gaius
(!) Plautius unter das Consulat des M., 1 TL 44* Ä6r. VÄrr.
Valerius und P. Decius (IX, 29), d. h. m das Jahr 312 v. chr. Zum
Jahre ^ berichtet er, dass App. Claudius nach Verlauf von IS Monaten,
welches nach der lex Aemilia die gesetzmässige Dauer der Censur war, sein Amt
nicht niedergelegt, sondern es, obwohl sein College C. Plautius abgedankt
habe, bis zur Bewerbung um das Consulat 1. J. -^ fortgeführt habe (IX,
42, 3). Es besteht also im chronologischen Ansatz der Censur
zwischen Diodor und Livius eine Differenz von zwei Jahren. Die neueren
Forscher schliessen sich sämtlicii, olnie die Differenz zu erörtern, dem
Livius an (vgl. Xiebuhr, K. G. Mommsen, R. G. R. Forsch, Wir w^erden jedoch den
Ansatz Diodors als den richtigen erkennen. Schon das allgemeine
Quellenverhältnis der beiden Autoren, ihr Wert und ihre Glaubwürdigkeit,
wird bei der Entscheidung der Frage von Bedeutung sein. Es ist eine
seit Niebuhr feststehende Thatsache, dass die bei Diodor erhaltenen
Berichte über die ältere römische Ge- schichte eine weit bessere und
glaubwürdigere Tradition sind als die livianisclien (Xiebuhr, R. G.
Kissen, Rhein. Museum XXV, 27; vgl. dagegen Schwegler, R. G. 11, 22. III,
199). Während diese von Fälschungen völlig durchsetzt sind, bis in das
geringste Detail durch die Tendenz rhetorischer Ausschmückung und
Erweiterung und patriotischer Verherrlichung entstellt sind und infolge
dessen eine sehr trübe Quelle bieten, so weisen die Berichte Diodors, so
wenig ihrer sind, und so knapp und lücken- haft diese wenigen auch sind
(vgl. jNFommsen, R. Forsch. Chron. Niebuhr, R. G. Volquardsen, Quelle Diodors
11) eine fast reine und unver- fälschte Tradition auf. Die
Quelle, aus der Diodor geschöpft hat, reicht eben in relativ alte Zeit
hinauf. Freilich lä^st sich sein Gewährsmann nicht mit Bestimmtheit
nachweisen ; es ist nicht erwiesen, dass Fabius, der älteste römische,
noch griechisch schreibende Annalist, Diodors Quelle sei (Petavius,
Doctr. Tempi. Lib. IX, C. 55. Wesseling zu Diodor XI, 1. Xiebuhr, R. G.
II 192 A. 629 if., wo aber das 13, und 14. Buch Diodors
ausgenommen ist. Mommsen, Chron. 221. R. Forsch. Fabius und Diodor." Vgl.
dagegen Schwegler, R. Gesch. Peter, Zur Kritik der Quellen der ältesten
römischen Geschichte, 118 f. Nitzsch, Rom. Annalistik, 227. Niese,
Hermes XIII, 412 f. Thouret, Fleckeisens Jahrbücher, Splb. 1880. Meyer,
Rhein. Museum); es ist leere Hypothese, dass Diodor aus der angeblich
ältesten Redaktion der römischen Annalen, welche der Schützling und
Parteigenosse unseres App. Claudius, derÄdil Gn.Flavius, bewerkstelligt
haben soll, geschöpft habe (Nitzsch, R. Annalistik, 229 if. ; vgl.
Momnisen, Chronol. R. G. I, 467. R. Forsch. Schwegler, R. G.); ebenso
hypothetisch ist die Behauptung, dass L. Piso, ein Annalist aus der
Grachenzeit, Diodors Quelle sei (Clason, Heidelberger Jahrbücher 1872 S.
35. R. G. I, 17. Klimke, Diodor und die röm. Annalistik. Colni,
Philologus 1883. S. 1 bis 22; vgl. Mommsen, R. Forsch. 11, 338 A); ganz
in der Luft aber schwebt die neueste Ansetzuug Matzats, der in L.
Cincius Alimentus, neben Fabius dem ältesten römischen Annalisten,
Diodors Gewährsmann sieht (Matzat, R. Chronol.; vgl. Niese, Piniol. Anzeiger
1884 S. 554 f.). Aber wenn auch alle diese Versuche, die Quelle Diodors
mit Sicherheit zu ermitteln, misslungen sind, so ist dieselbe dennoch in
relativ alte Zeit hinaufzusetzen (vgl. Rhein. Museum 37, 617). Dagegen
gehören die Quellen des Livius fast nur der sullanischen und
nachsullanischen Zeit oder sogar der cicero- nischen und augusteischen
an, wo der Fälschungs- und Aus- schmückungsprozess der Annalistik in
vollem Gange war. Zuweilen nennt Livius zwar ältere Gewährsmänner, den Fabius,
Cincius, Piso; aber sehr wahrscheinlich hat er diese nur aus zweiter Hand
benutzt oder höchstens an dieser oder jener Stelle kurz eingesehen.
Meistens nennt Livius als Gewährsmänner Namen wie Lic. Macer, Val. Antias,
Aelius Tubero, von deren ersterem es z. B. feststeht, dass er ein
Geschichts- fälscher im verwegensten Sinne des Wortes war (Mommsen,
R. Forsch. I, 1 ff. II, 315 f. Seeck, Kalendertafeln der Pon- tifices S.
42 ff.). Alle Fälschungen darf man freilich nicht diesen Männern
zuschreiben, es giebt Anhaltspunkte, dass die Ausschmückung der Annalen
selbst zu Ciceros Zeiten fort- geführt wurde (Niese, Observationes de
annalibus Romanis^ Marburg 1885 L 13). Im einzelnen lassen sich die
livianischen Berichte nicht auf bestimmte Quellen zurückführen. Man
hat ^s zwar, wie für die 3., 4. und 5. Dekade (Nissen, Kritische
Untersuchungen über die Quellen der 4. und 5. Dekade des Livius. Böttcher, Quellen des Livius im 21. und 22.
Buch), «o auch für die 1. Dekade zu thun versucht (Nitzsch, Röm.
Annalistik; Clason, R. G.); aber die Mittel, die man dabei -angewandt
hat, leisten keine Bürgschaft für die Wahrheit der Resultate (vgl. Peter,
Zur Kriiik der Quellen S. ü ff. Mommsen, R. Forsch). Das dargelegte
Quellenverhältnis zwischen Diodor und Livius, wonach Diodor eine weit
ältere und getreuere Ueber- lieferung giebt als LIVIO, lässt sich für die
Kriegsgeschichte, Verfassungsgeschichte sowie auch für die Zeitrechnung
und die Fasten, auf denen die Chronologie beruht,
nachweisen. Mommsen hat an schlagenden Beispielen die Güte der
diodo- rischen Tradition gegenüber der sonstigen, namentlich der
livianifcchcn, nachgewiesen (R. Forsch. II, 222 fl'.). Zwei der
Mommsenschen Beispiele betreffen die Fasten (die Consuln des Jahres 433,
die Consulartribunenliste a. a. O.). Selbst bei chronologischen
Einzelan?ätzen ist derjenige Diodors, wenn €r von dem des Livius
abweicht, immer der richtige. Gerade in der Zeit des sog. zweiten
Samnterkrieges, in welche die Censur unseres App. Claudius fällt, können
wir mehrfach bei Livius Verschiebungen von Ereignissen um mehrere
Jahre finden, so berichtet Livius den Waffenstillstand des Jahres 320 zu
318 (IX, 20 vgl. Rhein. Museum 25, 34;, so setzt er den Anfang des
Etruskerkrieges schon ins Jahr 312 (LIVIO, Diodor Fleckeisens
Jahrb. Splb.). Das allgenn'ine QuellenverhälMiis, wie wir es
dargestellt haben, weist darmif hin. 'lass wii in Betreff des
Zeitansatzes der Censur unseres Ajjp. Claudius bei Livius eine
Verschie- bung anzunehmen und dem Diodor zu folgen haben werden. Zudem lassen sich hierfür eine Reihe von sachlichen Gründen
geltend machen. Zunächst ist zu erwähnen, dass sich in des Livius eigener
Erzählung Spuren von der ünwahrscheinkeit seines Ansatzes finden. Wenn
nämlich Livius den Amts- antritt des Censors in das Jahr 312 setzt
und zum Jahre 310 berichtet, dass die 18 Monate, in welchen App.
Claudius nach der lex Aemilia gesetz- mässiger Censor war, abgelaufen
seien, so folgt daraus, dass sich die 18 ]\Ionate auf ;> Jahre
erstreckt liätten, und dass App. Claudius seine
Censur in der zweiten Hälfte des Jahres 312 angetreten habe. Nun aber ist
nach allem, Avas wir von diesen Verhätnissen wissen, ziemlich sicher,
dass die Censoren gewöhnlich kurz nach dem Amtsansritt der ihre Wahl
leitenden Oberbeamten, der Consuln, d. i., um hier nur eine
allgemeine Bestimmung zu geben, im Frühjahr gewählt wurden
i]\Iommsen, Str. II, 324 ff.)? sodass also die 18 Monate jedes Mal
schon im nächsten Jahre abliefen. Eine Erstreckung der Censur über
3 Jahre ist nirgends bezeugt, vielfach aber ist überliefert, dass das
Lustrum, der Abschluss der censorischen Thätigkeit, im folgenden Jahre
stattfand (De Boor, fasti censorii S. 9., LIVIO De Boor, S. 10,
Liv. X, 47, 2. i. J. 209. De Boor S. 15, Liv. XXVII, 36, 6 cf. 11, 7 u.
s. w.). So wird auch die Censu des App. Claudius, solange sie rechtmässig
war, t^ich nicht über 3 Jahre erstreckt haben. Vielmehr wird durch diese
Angabe des Livius sein chronologischer Ansatz sehr unwahr- scheinlich
gemaclit. De Boor (fasti censorii) hat die zwischen Diodor
und Livius bestehende Differenz zu Gunsten des livianischen An-
satzes so auszugleichen versucht, da^s er annimmt, Diodor habe die Censur
deswegen zum Jahre 310 behandelt, weil er unter diesem Jahre in seiner Quelle
die wichtigsten Ereignisse der Censur, die Zwietracht des App. Claudius
mit seinem Collegßn C. Plautius und die Uebertretung des über die
Dauer der Censur gegebenen Gesetzes (lex Aemilia) von Seiten des App.
Claudius, berichtet gefunden hätte. Diese Annahme hebt aber einerseits
nicht das Bedenken, welches über die Ausdehnung der Censur oben geltend
gemacht ist, und dann widerspricht sie direkt den Worten Diodors,
dessen Bericht so beginnt: tv <)t ' Pv'tiii] zcaa rovrov iny
triavrov /444 \ ^ f ',' t f " # 1f -J Tiiirini^ hi/.inro y.ca
lovntv o fTfooc, ^iTTcrio^ hhxv- tho^ etc. — Man könnte nun
für den livianischen Ansatz anführen, dass sowohl die Capitolinischen
Fasten, als auch Frontin und Cassiodor mit Livius übereinstimmen. Frontin (de aquis 5) und Cassiodor setzen die Censur unter das
Consulat des M. Valerius und P. Decius d. h. in das Jahr 312. Aber
dies hat unserer Ansicht nach absolut keine Bedeutung; denn die
gesamte nachlivianische Geschichtschreibung über die römische Republik
ruht auf den Schultern des Livius, alle Historikei*^ nach Livius
gebrauchen ihn als Gewährsmann, so haben auch sor.der Zweifel Frontin und
Cassiodor diese chronologische Angabe aus Livius geschöpft.
Von grösserer Bedeutung schon könnte es sein, dass die
Capitolinischen Fasten gleichfalls mit Livius übereinstimmen, indem sie
berichten (C. J. L, I, 432 z. J. ^, De Boor, a. a. O. S. 8), dass im Jahre 312 App. Claudius und C. Plautius das 2ß.
Lustrum gefeiert hätten. Es pflegen nämlich die Capitolinischen Fasten
zum Antrittsjahr der Censoren die Lustration zu berichten, obwohl das
Lustrum doch als Schluss- akt der censorischen Thätigkeit gegen Ende der
Censur, also im 2. Jahre der Censur, abgehalten wurde (Mommsen, Str.
11^ 326 A.). Aber auch diese Uebereinstimmung des Livius mit
den Capitolinischen Fasten kann nichts für den livianischen Ansatz
beweisen. Es ist zwar sicher, dass die Fasten des Livius^ obwohl die
Capitolinischen Fasten, als Livius schrieb, schon auf dem Forum standen
(Mommsen, R. Forsch), doch von den letzteren unabhängig sind, und dass
zwischen beiden die grundsätzlichen Differenzen bestehen, welche
überhaupt die Fasten der Jahrtafel (Fasti Capitolini, Chronograph v.
J. 354, Idatius, Paschalchronik) von denen der Chroniken <Diodor,
Dionys, Livius, Cassiodor) trennen, deren wesent- lichste die ist, dass
die Jahrtafel die sog. 4 Diktatorenjahre <v. Chr.) der chronologischen
Aus- gleichung wegen eingefügt hat, während die Chroniken
-dieselben weder nennen noch zählen (Mommsen, R. Chronol. 110 ff.). Aber
ebenso sicher ist, dass die Capitolinischen Fasten, wie die gesamte
Jahrtafel, aus keiner besseren und früheren Quelle geflossen sind als die
des Livius, während <iie Fasten und die Chronologie des Diodor auf
derselben guten, alten Quelle beruhen, aus denen seine Berichte ge-
flossen sind (vgl. Rhein. Museum). Es giebt eine Menge Beispiele dafür,
dass, während Livius und die €apitolinisclien Fasten gefälschte oder
entstellte Fasten und falsche Chronologie haben, Diodor die echten Fasten
bewahrt und die richtige Chronologie giebt (vgl. Mommsen, R. Forsch
II, 222 u. passim). Deshalb geben wir auch hier dem diodorischen
Ansatz den Vorzug. Es bedarf noch der Untersuchung, wie derselbe in
die Reihe der Lustren und Censoren, die uns, obzwar nicht von
'Quellen ersten Ranges überliefert ist, passt. Die Vorgänger des App. Claudius in der Censur traten ihr Amt i. J.
318 an. Darin stimmen die Capitolinischen Fasten mit Diodor und
Livius überein (C. J. L. I, 432 z. J. ^f, Diod. XIX, 10 Liv. IX, 20,
5). Wenn die beiden letzten dies auch nicht ausdrücklich sagen, so
berichten sie doch, dass in diesem Jahre die Tribus Falerna und Ufentina
neu eingerichtet seien. Die Neueinrichtung der Tribus
war aber ein censorisches Geschäft (LIVIO, cf. Mommsen, Str. II,
361 m. A. 1.) Zwischen dem Amtsantritt, und füglich auch dem Lustrum,
dieser Censoren und demjenigen des App. Claudius und C. Plautius lagen
demnach, wenn wir dem Livius und den Capitolinischen Fasten folgen, 6 Jahre
(318—312); wenn wir mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius
ins Jahr 310 setzen, 8 Jahre (318—310). Die nächsten Censoren, M.
Valerius und C. Junius, wurden im Jahre 307 gewählt <fasti Capit. C.
J. L. I, 432 z. J. ^J^ Liv. IX, 43,25). Das Lustrurn des App. Claudius
und C. Plautius ist also nach Livius vierjährig (312—307), nach Diodor
zweijährig; das Jahr 309 ist nämlich als Diktatorenjahr nicht zu
berechnen^ Die Nachfolger in der Censur, Q. Fabius u. P.
Decius, bind nach dem Zeugniss des Livius (IX, 46, 13,) und der Ca-
pitolinischen Fasten ((J. J. L. z. J. ~) i. J. 304 gewählt; efv liegen
also zwischen ihrem Amtsantritt und dem ihrer Vor- gänger drei Jahre. Das
Lustrum des Q. Fabius^ u. P. Decius war dreijährig; die folgenden
Censoren traten nämlich ihr Amt i. J. 300 an, wie ^loramsen aus den
Resten der Capitolinischen Fasten eruiert hat (C.,1. L. I, 566 z.
J. ~) ; das Jahr 303 ist dabei als Diktatorenjahr nicht zu rechnen.
Schon aus dieser Reihe der Lustren, welche dem des- App. Claudius
und C. Plautius unmittelbar vorangingen und folgten, geht hervor, dass
das Lustrum kein bestimmter Zeit- raum damals gewesen sein kann. In der
späteren Zeit, seit dem hannibalischen Kriege, wurde als regelmässige
Frist des- Lustrums 5 Jahre festgesetzt und es ist lange so
durchgeführt worden (De Boor, fasti censorii S. 15 — 20), bis die
beginnende Revolution das Institut erschütterte und bald ganz
zerstörte (Mommsen, Chronol. 161. Str. II, 318). In der früheren
Zeit waren die Lustrenintervalle ganz imbestimmt ; es werden Lustren von
3, 4, 5 und mehr Jahren überliefert (De Boor, a. a. 0. S. 1 14), ja eins wird ausdrücklich als
siebzehn- jährig bezeichnet (Dionys XI, 63). Eine solche Unregel^
mässigkeit kann doch offenbar nicht erklärt werden, wenn man nicht für
die frühere Zeit auf die Annahme des Lustrums^ als einer festen Zeitfrist
verzichtet; falsch ist es, wenn Mommsen meint, das Lustrum sei, wie die
griechische Olym- piade, ursprünglich ein vierjähriger Zeitraum gewesen,
aber es sei dies nur als Minimaldauer festgesetzt worden (Chronol.
158. Str. II, 316): es sind ja doch mehrere dreijährige Lustren sicher
bezeugt ; unbewiesen ist ferner, wenn De Boor als anfängliche
Minimaldauer des Lustrums drei Jahre ansetzt (a. a. 0. S. 43 f.).
Die Dauer des Lustrums war ohne Zweifel von der all- gemeinen Lage des
Staates abhängig, je nach den Bedürfnissen war das Lustrum länger oder
kürzer. Für mehrere Lustren ist es bezeugt, dass sich ihre Kürze aus der
Lage der Zeit erklärt z. B. für die des Jahres 89 u. 92 v. Chr. (vgl.
Rhein. Museum 25, 487). Da nun das Lustrum ursprünglich kein
fester Zeitraum war, so widerspricht dem die Annahme des
appianischen Lustrums als eines zweijährigen (310—307) nicht, obgleich
kein anderes von solcher Kürze nachweisbar ist. Diese aber erklärt sich
aus den Zeitverhältnissen von selbst : Die Patrizier waren durch die
Anordnungen des Censors App. Claudius, seine senatus lectio und
Tribusänderung, hart getroffen und suchten so schnell als möglich
dieselben zu nichte zu machen (s. unten, vgl. Niebuhr, R. G. III, 374.
Mommsen, Chronol.). Deshalb wählten sie schon zwei Jahre nach dem
Amtsantritt des App. Claudius, also gleich im Jahre nach des Appius
Lustration, i. J. 307, neue Censoren, den M. Valerius u. C. Junius. Da
aber diese Censoren nichts erreichen konnten — wir wissen nicht, aus
welcher Ursache, da von ihrer Amtsführung nichts überliefert ist (Liv., VALERIO
MASSIMO) — so wurden schon nach weiteren drei Jahren, i. J. 304, neue
Censoren in den Personen des Q. Fabius u. P. Decius gewählt, welche
alsbald die Tribus- verteilung des App. Claudius rückgängig machten
oder wenigstens umänderten (s. unten). Auch die anstössige Senats-
liste des App. Claudius (s. unten) wurde von den Patriziern sogleich
umgestossen, u. zwar sofort von den Consuln des folgenden Jahres. Dies
waren, wenn wir, wie es richtig ist, mit Diodor den Amtsantritt des App.
Claudius in das Jahr 310 setzen — das Jahr 309 ist Diktatorenjahr —
die Consuln d. J. 308, Q. Fabius u. P. Decius (Diod., LIVIO). Also haben,
wenn wir der guten Quelle Diodors folgen, dieselben Männer, welche als
Censoren i. J. 304 die Tribusänderung des App. Claudius rückgängig gemacht haben,^ als Consuln i. J. 308 die
Senalsliste des App. Claudius umgestossen. Und es ist diese Thatsache in sich
sehr wahr- scheinlich: denn nachdem die ersten Nachfolger des App.
Claudius in der Censur die Abschaffung der Tribusänderung des App.
Claudius nicht hatten erreichen können, ist es sehr natürlich, dass die
Patrizier nun die Männer, welche schon als Consuln so energisch gegen die
Neuerungen des App. Claudius vorgegangen waren, zu Censoren
wählten. Dies von der Kritik hergestellte Zusammentreffen
scheint mir unsere Ansiclit, dass Diodors chronologischer Ansatz
der richtige sei, wesentlich zu stützen. In den Quellen des
Livius ist also die Censur von 310 auf 312 verschoben: der Grund dieser
Verschiebung hängt mit der Ansiclit des Livius über die Amtsdauer des APPIO
zusammen, worüber wir nun zu sprechen haben. Die Censur ist nach der Ueberlieferung (Liv. IV, 8, Dion. XI, 63,
Zonaras VII, 19, Val. Max IV, 13, Frontin, de aquis 5) bei ihrer
Einsetzung (443 v. Chr.) als fünfjährige Magistratur bestimmt worden. Die
lex Aemilia d. J. 434 V. Chr. soll sie dann auf 18 Monate beschränkt
haben (Liv.). Wahrscheinlich aber ist sie überhaupt erst i. J. 434 V.
Chr. eingesetzt worden u. von Anfang an auf 18 Mo- nate beschränkt
gewesen (Mommsen, Chronol., Str. II, 322, vgl. dagegen Rhein. Museum 25,
480 ff.). Die angeführte lex Aemilia nun hat APPIO, so
erzählt Livius, eigenmächtig übertreten, indem er nach Ver- lauf von 18
Monaten sich das Amt selbst prorogierte (LIVIO). Betrachten wir die
Angaben des Livius hierüber, so müssen wir zunächst das Resultat
einer Mommsenschen Abhandlung berücksichtigen: „Die patrizischen
Claudier" (Rom. Forsch.). Mommsen hat darin nachgewiesen, dass in
den jüngeren römischen Annalen, bei Livius u. Dionysius u. bei den aus
diesen schöpfenden Sueton u. Tacitus alle Glieder der alten und
hochadligen gens Claudia eine ähnliche oder dieselbe Rolle spielen, indem
sie sämtlich vom höchsten Adelstolz und höchster Feindseligkeit gegen
die Plebs beseelt sind. Nicht bloss wird dies häufig von der geiiB
Claudia im allgemeinen ausgesagt (gens superbissima in plebem Romanam LIVIO),
sondern man lässt alle Claudier, welche auf dem politischen Schauplatz
auftreten, harte Kämpfe mit der Plebs und den Volkstribunen auskämpfen.
Ja, es^ kehren sogar häufig Reden von Claudiern gegen die Plebs
oder umgekehrt claudierfeindliche Reden von Volkstribunen wieder,
worin sich offenbar die Erfindung ausdrückt. Dass Livius oder Dionysius
die Erfinder seien, wird Niemand annehmen. Mommsen meint, die Fälschung
sei in politischer Tendenz ge- schehen, ein wütender Claudierfeind zur
Zeit der Bürger- kriege habe die Annalen in solch claudierfeindlichem
Smne gefälscht: und zwar sei dies L. Macer gewesen. Die letzte
Behauptung ist völlig unbewiesen, und was die Erfindung selbst angeht, so
glaube ich nicht, dass sie in politischer Tendenz geschehen ist ; sie
scheint vielmehr aus der rlietorischen Strömung, welche die römische
Geschichtschreibung beherrscht, geflossen. Man suchte nach allen Mitteln,
die Erzählung ausschmückend zu erweitern, und wie so vieles in den
Annalen, z. B. die meisten Schlachtberichte, nach feststehenden
Mustern erzählt wurde, so wurden, da vielleicht ein Claudier ein
adelstolzer Junker war, alle Claudier schablonenhaft als Volks- feinde
behandelt. Dieselbe Rolle ist nun auch unserm Censor
übertragen, was wir zunäclist und besonders aus der Erzählung von
der ungesetzlichen Fortführung der Censur ersehen. Livius be-
richtet hierüber zuerst, App. Claudius, heisst es da, vollendete die
Bauten allein, weil sein College C. Plautius aus Scham über die ruchlose
und gehässige Senatsliste ab- dankte, während Appius mit dem alten
Claudiertrotze die Censur weiterführte. Daraus muss geschlossen werden,
dass C. Plautius abgedankt habe, ohne die senatus lectio zu
billigen, oder wenigstens gleich nach ihrer Vollendung. Da aber die
Censoren die senatus lectio kurz nach dem Amts- antritt vornahmen
(Mommsen, Str. II, 3i)6, Lange, Alter- thümer, Willems, le senat de la
republique Romaine), was auch nach der Ordnung der Erzählung bei Diodor
und Livius in der Censur des App. Claudius ge- schehen zu sein scheint,
so müsste C. Plautius vor Ablauf der 18 Monate abgedankt haben (vgl.
Weissenborn, Livius zu IX, 29, 7. Willems, a. a. 0. I, 186). Dies hat
schon Frontin (de aquis) aus Livius' Worten gefolgert; er sagt: sed
quia is (Plautius) intra annum et sex menses deceptus a collega . . .
abdicavit se censura. Aber an einer späteren Stelle sagt Livius selbst,
dass C. Plautius nach Verlauf von 18 Monaten vom Amte abgetreten sei.
Er widerspricht sich also ausdrücklich. Von dem Verhältnis des App.
Claudius zu seinem Collegen wissen wir nur, dass letzterer alles that
oder thun musste, was Appius wollte (Diodor a. a. O. : VTitjxoov f/wv tov
avvcc()xovTCi Aevy.iov nkavTiov)^ also eine untergeordnete Rolle spielte.
Er hätte ja die senatus lectio durch seinen Widerspruch vernichten
können. An das Verliältnis des App. Claudius zu C. Plautius hat die
Fälschung des Livius offenbar angeknüpft. Sie ist gemacht, um den Censor,
den Claudier, als ungesetzlich handelnden Mann darzustellen, dass er
gegen das Gesetz der Collegialität (Mommsen, Str. IT, 312) die Censur
allein fortgeführt habe. Aber damit begnügte sich der Fälscher noch
nicht. Er erdichtete auch noch eine Fortführung des Amtes über die
gesetzmässige Dauer hinaus. „Viele Jahre, so beginnt Livius hierüber zu
erzählen, waren schon vergangen, seit zwischen den patrizischen
Magistraten und den Volkstribunen keine Streitigkeiten stattgefunden
hatten, als aus der Familie, quae velut fatalis ad lites cum tribunis ac
plebe erat, sich ein Kampf erhob. App. Claudius konnte nach Ablauf
der gesetzmässigen Frist der Censur nicht bewogen werden, sein Amt
niederzulegen. Der Volkstribun P. Sempronius übernahm die Aufgabe, ihn
zur Abdankung zu zwingen. Livius setzt selbst hinzu, dass diese actio
ebenso populär als gerecht und auch dem Volke angenehm gewesen sei, w^ie
den Optimaten; dennoch rechnet er sie zu den Streitigkeiten, welche
den Claudiern mit der Plebs und ihren Tribunen gleichsam vom
Schicksal beschieden gewesen seien. Der Tribun Sempronius erinnerte nun
den Ap]). Claudius ener-iscli an die lex Aemilia. Dieser erwiderte, dnss
dies Gesetz nur für die beim Erlass desselben amtierenden Censoren
bindend gewesen wäre, während alle danach gewählten Censoren und also
auch er selbst nicht von ihm betroffen würden ; denn, sagt er, id
quod postremum popuhis iussisset, ius ratumque esse. Wie
sophistisch dieses Zwölftafelgcsetz hier angewandt wird, liegt auf der
Hand. Eine rechtliche Begründung für die Amtsverlängernng, die dem App.
Claudius in den l\lund gelegt werden könnte, fehlt völlig; aber darauf
kam es auch den Fälschern nicht an, sie wollten eben den Claudier als
einen jedes Gesetz verachtenden Mann darstellen. Alsdann lä&st
Livius den Tribun Sempronius eine längere Rede lialten, in welcher der gens
Claudia ein langes Sündenregister vorgehalten ^'ird. Es kehren, wie
erwähnt, solche claudier- feindliche Reden oder auch Reden von Claudiern
gegen die Plebs sehr häufig bei Livius wieder (vgl. II, 56, 57. IV,
48. Y 3 — 6. VI, 40, 41 u. a.) u. sie stehen sämtlich auf dem-
selben Niveau, d. h. sie sind sämtlich erdichtet, entstanden aus dem
rhetorischen Bedürfnis der Annalisten ihre Erzählung auszuschmücken.
Dennoch, so erzählt Livius weiter, stehen dem App. Claudius sechs
Volkstribunen bei, und er führt summa invidia omnium ordinum die Censur
allein w^elter. Die inneren Unwahrscheinlichkeiten, die wir in
diesem Berichte dargelegt haben, machen uns sehr misstrauisch gegen
denselben. Dazu kommt aber noch eine ganze Reihe von Gründen, durch
welche der ganze Bericht als völlig un- historisch erwiesen wird.
Zunächst ergeben sich einige aus Livius selbst. Wenn Livius den Tribun
Sempronius sagen lässt: „Satis est aut diem aut mensem censurae
adicere? triennium, inquit, et sex menses ultra quam licet Aemilia
lege censuram et solus geram% so folgt daraus, dass Livius annimmt, APPIO
habe das Amt fünf Jahre beibehalten wollen, und da er ausser einer
Andeutung (s. unten) nichts weiter hierüber sagt, so scheint er auch
anzunehmen, App. Claudius habe dies durchgeführt.
Der Verfasser von „de viris illustribus" hat dies offenbar aus der
Angabe des Livius gefolgert, wenn er sagt: censuram solus omnium
quinquen- nis obtinuit. Von der Abdankung des Censors sagt Livius
selbst nichts, er führt nur eine Version an, dass nämlich Appius Claudius
noch als Censor sich um das Consulat ])eworben hätte, aber vom Tribun L.
Furius ge- zwungen sei, die Censur niederzulegen, und dann zum
Consul gewählt sei: Livius scheint sich dieser Version
anzuschliessen. Danach hat also App. Claudius seine Censur am Ende d.
J. 308 niedergelegt; das konnten die Annalisten nicht ändern, weil
307 neue Censoren und Appius Claudius selbst für dieses Jahr als Consul
in den Magistratsfasten verzeichnet waren. Nun liegen
nach den Capitolinischen Fasten zwischen 312 und 307 zwar 5 Jahre, nicht
aber so bei Livius, da er ja das Diktatorenjahr 309 nicht kennt und
zählt: seine An- sicht, App. Claudius habe die Censur 5 Jahre hindurch
be- hauptet, wird also durch seine eignen Angaben widerlegt.
Dass App. Claudius sich noch als Censor um das Con- sulat beworber
habe, ist eine Erfindung eines Annalisten, der dem Censor ausser den
genannten Ungesetzlichkeiten noch ^as Streben nach der Cumulierung zweier
hoher Amter an- dichtete, um ihn noch schärfer als Verächter aller
Gesetze darzustellen. Bei dieser ganzen Erdichtung von der
gewaltsamen Proro- gation der Censur durch App. Claudius hat man ohne
Zweifel nach Analogie dessen verfahren, was von dem Ahnen unseres
Oensors, dem Decemvirn gleichen Kamens, überliefert ist, der decemvir in
annum creatus, altero anno se ipse creavit, tertio nee a se nee ab ullo
creatus fasces et imperium obtinuit (LIVIO). Nach unserer Ansicht
ist demnach der Bericht des Livius über die gesetzwidrige
Amtsverlängerung des Censors von Anfang bis Ende erfunden. Dafür spricht
ausser der oben gegebenen Kritik des Berichtes . entscheidend folgende
Er- w^ägung : App. Claudius hat nach der guten Nachricht Diodors
i. J. 310 die Censur angetreten, wir Laben das als historisch
nachgewiesen. Am Ende des Jahres 308 muss er aber ab- gedankt haben,
einmal weil 307 neue Censoren in den Ma- gistratslisten erscheinen (Liv.
IX, 43, 25. C. J. L. I, 432 z. J. ^), und dann weil App. Claudius selbst
i. J. 307 zum Con- 307 ' ' sul gewählt wurde (Diod. XX,
45. Liv. IX, 42, 3. C. J. L. I, 432 z. J. ^). Zwischen
310 und 307 liegen aber nur zwei Jahre, also kann die Censur kaum länger
als 18 Monate gedauert haben. Dennoch halten die meisten neueren
Forscher, obwohl sie zugeben, dass in der Erzählung des Livius Vieles
er- dichtet und übertrieben sei, an der Annahme der Prorogation,
der Censur fest. Ja Niebuhr (R. G.), Lange (Alterth. I, 85 ff.), Siebert
(Appius Claudius S. 67 ff.) u. a. folgen dem Livius fast in dem ganzen,
offenbar erfundenen Detail, dass er die Censur 5 Jahre habe beibehalten
wollen, dass er das Con- sulat der Censur habe cumulieren wollen u.
a. Nur stellen sie, wovon nichts überliefert ist, eine Hypo-
these über den Zweck der Amtsfortführung auf. App. Clau- dius, meinen
sie, habe sich deshalb sein Amt verlängert, um seine grossartigen Bauten
zu Ende zu führen, und damit keinem andern die Ehre der Vollendung zufalle.
Mommsen schliesst sich dieser Hypothese an, nur ver- mutet er, es
sei keine ungesetzliche Prorogation gewesen. Es bestand nämlich in der
That die Einrichtung, dass die Censur, wenn 18 Monate nicht genügten,
prorogiert wurde „ad opera, quae censores locassent, probanda et ad sarta
tecta exigenda^' (LIVIO, cf. Mommsen, Str. II, 324 m. Anm. 1, 2.).
Es sei nun, wenn man alles Incriminieren und Moti- vieren, welches den
Claudiererzählungen anzuhaften pflege, ausscheide, sehr wahrscheinlich,
dass auch des App. Claudius Amtsverlängerung nur eine solche
gesetzmässige Prorogation sei (ähnlich Madvig, Verfassung und
Verwaltung. Herzog, Geschichte und System l, 273). Aber dagegen ist
zu sagen, dass grade die Ungesetzlichkeit in dem Berichte
<ias Wesentliche ist, dann, dass die kolossalen Bauten,
die des Censors Namen tragen, auch schliesslich in vier oder fünf
Jahren nicht vollendet werden konnten, woran schon Niebuhr erinnert (R.
G.). Ausserdem ist wohl bei einer solchen gesetzmässigen Prorogation (ex
instituto) immer beiden Censoren das Amt verlängert, weil, wie
Mommsen selbst sagt, (Str. II, 312 m. Anm, 6), das Prinzip der
CoUe- gialität bei der Censur mit besonderer Strenge gehandhabt
wurde. Und wenn nun Mommsen dennoch meint (a. a. 0.), dass die
appianische Prorogation diesem Prinzip nicht wider- streite, so scheint
mir das keineswegs ein bindender Schluss zu sein. Endlich liegen, was das
Entscheidende ist, zwischen dem Amtsantritt des App. Claudius und dem
seiner Nach- folger überhaupt nur zwei Jahre (310 — 307 s. oben);
die Censur kann ihm also kaum, jedenfalls nicht 4 oder 5 Jahre
prorogiert sein. Wiederholen wir kurz unsere Resultate: App.
Claudius trat seine Censur i. J. 310 v. Chr. an und behielt sie ganz
gesetzmässig 18 Monate lang mit seinem Collegen C. Plautius, der ihm
völlig zu Willen war {vTir/.oog), Wir kommen nun zu den Thaten des
Censors. Cap. 2. Die Bauthätigkeit des App. Claudius.
Eine Hauptseite der censorischen Thätigkeit war die Re- gulierung
der Gemeindeeinnahmen (mit Ausnahme der persön- lichen, directen
Vermögenssteuer, des Tributums) und der Ge- meindeausgaben.
Nach der römischen Finanzpraxis wurden die indirecten
Staatseinnahmen von jeglichem ertragsfähigen Staatsgut (Zölle,
Gemeindeland, Ausbeutung von Flüssen, Seen, Bergwerken u.a.) nicht direct
vom Staate erhoben, sondern an einzelne Unter- nehmer zur Ausnutzung
gegen eine bestimmte Entrichtung an die Staatskasse verpachtet.
Ebenso Hess der Staat die Lieferungen, die er brauchte, und die
Arbeiten, die er vornehmen Hess, an Private verdingen (locare opera
publica od. sarta tecta od. ultro tributa). 99
Die Censoren waren es, welche mit diesen Verpachtungen beider Art
betraut waren. Aber sie standen dabei unter der Oberaufsicht des Senates.
Neue Zölle konnten sie z. B. nur mit Bewilligung des Senates anordnen,
der Senat konnte cen- sorische Verpachtungen rückgängig machen, die
Pachtsumme ^rmässigen u. a. Bei vielen Ausgabeposten
wurde den Censoren nicht bloss die Verdingung, sondern auch die
Überwachung, Leitung und schliessliche Übernahme der Arbeit übertragen
(Polyb. 6,
17 Liv. 42, 3 faciendum oder reficiendum curare C. J. L. I,.
p. 177, n. 605). Dies geschah namentlich bei den öfFentlichen
Bauten, bei Reparaturen (z. B. des Circus Liv. 41, 27, der Mauern
Liv. 6, 32, der Strassen Liv. 29, 37. 41, 47,
Wasserleitungen, Frontin. aq. 95 u. a.) wie bei Neubauten (z. B. bei
Tempeln, Basiliken, Theatern, Brücken, Heerstrassen, u. a.). Nach
dieser Seite hin wird die censorische Competenz gradezu als Fürsorge für
die Bauten aufgefasst. Aber auch hierbei waren sie vom Senat abhängig.
Vor allem musste der Senat die- Gelder verwilligen; nur wenn und insoweit
es der Senat ge- stattete, konnten die Censoren das aerarium in
Anspruch nehmen,, und zwar durch Vermittlung der Quästoren, welche als
Ver- walter der Staatskasse die Gelder einnahmen und auszahlten.
Der Senat bewilligte den Censoren eine Bauschsumme (pe- cunia decreta
Liv. 39, 44. Polyb. G), jedoch als certa pe- cunia, und zwar gewöhnlich
eine gewisse Quote der Staats- einnahmen (vectigal annuum Liv. 40, 46.
44, 16). Was die Censoren im einzelnen damit anfangen wollten, war ihre
Sache. Inwieweit sie darin vom Senat abhängig waren, ob sie z. B.
zu Neubauten die Einwilligung des Senates einholen mussten (cf. Liv. 36,
36), lässt sich nicht bestimmen. Soviel musste ich im allgemeinen
über diese Seite des censorischen Amtes vorausschicken, um die Thätigkeit
des- App. Claudius in dieser Hinsicht richtig zu würdigen.
Die Censur des App. Claudius ist nämlich die erste, bei der uns
dies censorische Geschäft in der Überlieferung entgegeniritt, und APPIO nacht
von dieser Seite semes Amtes in so grossartiger und zugleich von der
gewöhnlichen und späteren Handhabung dieses Rechtes verschiedentlich
in so abweichender Art Gebrauch, wie es kaum wieder ge-
schehen ist. . Über die Bauthätigkeit des Censors App.
Claudius sind ausser den Notizen bei Diodor und Livius noch die
Angaben des S. Julius Frontinus in seiner Schrift „de aquis Romae"
zu benutzen. Ohne Zweifel beruhen die Angaben Frontins, der unter
dem Kaiser Nerva 97 n. Chr. curator aquarum war (Fronün 1. c.
Einleitung), auf eigener Erfahrung und Anschauung. Ausführ- lich und klar
beschreibt er auch die aqua Appia, berichtet, wo- her sie kommt, wie lang
sie ist, welchen Weg sie nimmt etc. Was er sonst über die Censur des App.
Claudius beibringt, ist offenbar aus den Hvianischen ähnlichen Quellen
geschöpft. Auch Diodors Angaben sind relativ ausführlich, und mit
Recht nimmt Mommsen an, dass der vielgereiste Verfasser (Diodor 1,
4) hier aus eigener Anschauung spricht (Mommsen, Rom. Forsch. II,
284 A. 90). LIVIO berührt die Bauten des Appius nur ganz kurz; doch
ist bemerkenswert, dass er, während er im allgemeinen sowohl in dem
Sachlichen als in der Beurteilung sehr von Diodor abweicht, im Lobe der
Bauthätigkeit des Censors mit ihm übereinstimmt. Er sagt (IX, 29,6): et
censura clara eo anno App. Claudii et C. Plautii fuit, memoriae
tamen felicioris apud posteros quod viam munivit et aquam in urbem
duxit, und bei Diodor heisst es: caror d^ ^nriiehn' c^Jcaarov Die
Bauwerke, welche des App. Claudius Censur ver- ewigen, sind die
Wasserleitung und die Heerstrasse, welche beide seinen Namen tragen, die
via und aqua Appia. Es war nämlich das Recht des bauleitenden
Beamten, den öffentlichen Gebäuden, natürlich mit Ausnahme der
Tempel, seinen Namen beizulegen; seit App. Claudius ist dies wenig-
stens zumeist geschehen, und es scheint sein Beispiel dies Recht
hervorgebracht zu haben, da sich vor ihm keine solche Fälle nachweisen
lassen. Die grossartigen Bauwerke der Republik in der Stadt Rom sind fast
alle nach ihren Erbauern genannt, die mit wenigen Ausnahmen Censoren sind
(Beispiele : basilica Porcia, Aemilia-Fulvia, Sempronia; circus
Flaminius. Die Erbauer der Bauten ausserhalb Roms sind nicht
Censoren, ausgenommen von zwei Heerstrassen, der via Appia
und Flaminia). Die aqua Appia ist der älteste und erste
Trinkwasser- aquadukt Roms, deren es später so viele gab. Bis zur
Zeit des Appius hatte man sich mit dem Wasser mehrerer Quellen und
Brunnen (Frontin I, 4: putei, worunter auch Cisternen bejrriften werden
können. Kiebuhr, R. G. III, 359 A. 24) begnügt, ja man hatte Tiberwasser
getrunken (Frontin a. a. O.j. Der Ruhm, die Quellen gefunden zu haben,
aus denen die aqua Appia gespeist wurde, wird dem Collegen des
Appius, L. Plautius, zugeschrieben, der deshalb den Beinamen Venox
(von Vena) erhalten haben soll (Frontin I, 5. Fasti Capit.
C. J. L. I, 432 ad a. 442: qui in hoc honore Venox appel- latus est). Das
Bedenken Drumanns, dass dies Cognomen nicht von vena abgeleitet sei, da
hiervon besser Venosus ge- bildet werde, sondern mit dem häufig in der
gens Plautia wiederkehrenden Cognomen Venno oder Veno (vgl. Liv.
VIII, 19, IX, 20) identisch sei, scheint in der That begründet. Die
Quellen, welche diese etymologische Ableitung geben, leisten nicht
hinlänglich Gewähr für die Richtigkeit derselben ; es scheint nur ein
Versuch der Erklärung des Cognomens zu sem, wie wir von dem des Appius
selbst mehrere finden werden. Den Lauf der aqua Appia beschreibt Frontin
(I, 5) fol- gendermaassen : Concipitur Appia in agro Lucullano via
Prae- nestina inter milliarium septimum et octavum deverticulo
sinis- trorsus passuum septingentorum octoginta; ductus eius habet
longitudinem a capite usque ad Salinas, qui locus est ad por- tam
Tergeminam, passuum undecim millium centum nonaginta: ex eo rivus est
subterraneus — offenbar absichtlich unter- irdisch, damit das Wasser
nicht abgeschnitten würde (Niebuhr, R. G.) — passuum undecim millium
centum triginta : supra terram substructio et opus arcuatum proximum
portam Capenam — ein Mauerwerk, welches wahrscheinlich die sog. XII
portae bildete (vgl. Siebert, APPIO S. 63). Jungitur ei ad Spem
veterem in confinio hortorum Torquatianorum ramus Augustae ab Augusto in
supple- mentum eius additus hie via Praenestina ad milliarium
sextum deverticulo sinistrorsus passuum nongentorum octoginta proxime viam
Collatiam accipit fontem, cuius ductus usque ad Gemellos efficit rivo
subterraneo passuum sex millia tre- centos sexaginta. Incipit distribui
Appia imo Publica clivo ad portam Trigeminam (Frontin, de aq. I, 5. cf. Kiebuhr, R. G. III, 356 ff\ Siebert, App. Claud. S. 62
f. Becker, Handbuch I, 702. Jordan, Topogr. der Stadt Rom I, 456.
<jf. „Auetor de viris illustr." 34, der die aqua „Anienem'^
nennt, was oifenbar ein Schreibfehler ist. Eutrop II, 4 nennt sie „aqua
Claudia", die erst von Kaiser Claudius ausge- führt ist).
Wie Frontin angiebt (s. oben) hatte man in dem Thal zwischen dem
Caelius und Aventinus ein Mauerwerk von nur 60 Schritt nötig; daraus
zieht Kiebuhr mit Recht den Schluss, dass die Gänge nicht eben sehr tief
gelegt waren (R. G. III, 361). Die aqua Appia war von
den 9 Wasserleitungen, die €s zur Zeit des Kaisers Claudius gab, die
zweitniedrigste (Siebert a. a. O. 62). Sie konnte daher nur den
niedrigsten Stadtteilen, der Vorstadt, dem Circus, dem Velabrum,
dem Vicus Tuscus, vielleicht noch der Subura, Wasser zuführen und
selbst diesen kaum in ausreichendem Maasse (Kiebuhr, R. G. III,
361). Das grössere der Bauwerke des Censors ist jene Heer- strasse,
welche gleichfalls seinen Kamen trägt. Es scheint aber nicht die älteste
ihrer Gattung zu sein ; bei der via Latina und Salaria weist der Käme auf
höheres Alter hin, (Kiebuhr, R. G. III, 359). Die späteren
Heeresstrassen, welche in Italien censorische Bauten (Flaminia, Aemilia),
in den v" r . -a i. "a > < 4 4 ~ 26 Provinzen
und im cisalpinisclien Gallien consularisclie Baute» sind (Aemilia in
Gallia cisalpina, Postmnia ebenda, Doniitia in iS^arbonensis u. a.), sind
alle nach ihren Erbauern genannt;, die via Appia wäre also die erste, bei
der dies geschehen ist, sodass also allgemein das Beispiel des App.
Claudius das Recht der Eponymie für die bauleitenden Beamten
hervor- gebracht zu haben scheint. Es führte die via A])i)ia
an der ]\[eeresküste entlang durch die Städte Terracina, Fuudi, lAIola
bis nach Capua. Durch die pomptinischcn Sümpfe hat erst Trajan die
Strasse gebaut. App. Claudius hat durch dieselben wahrscheinlich,
nur einen Damm gelegt, während man als lleeresstrasse durch die Sümpfe
von Velitrae nach Terracina damals die- via Setina benutzte (Niebuhr, R.
G.). Diodor berichtet, dass App. Claudius die via Appia von-
Rom bis Capua mehr als 1000 Schritte weit zum grössten Teil mit festen
Steinen gepflastert habe (//^o/c; ateoeolg- yxalöTQOJüev), Nissen
(Pompejanische Studien S. 519) meint, dies sei nicht recht: Diodor und
seine Gewährsmänner hätten ihre eigene Zeit vor Augen, wenn sie von
der Pllasterung der via Appia sprächen (ebenso der Verfasser von
„de viris illustribus" 34 und Procop, bell. got. I, 14). Denn erst
i. J. 29G sei die erste Strecke der via Latina saxo quadrato
(Peperinplatten, Kiebuhr, Nissen, a. a. O.) gepflastert, und zwar eine
semita von der porta Ca- pena bis zum Marstempel, so berichte LIVIO..
Dann hätten i. J. 293 die curulischen Aedilen die Chaussee von dort
bis nach Bovillae silice (Lavapolygonen, s. Niebuhr und Nissea a. a. 0.)
zu pflastern fortgefahren (Liv. X, 47). ]\lir scheint aber durch diese
Notizen des Livius das Zeugnis Diodors noch nicht aufgehoben zu werden.
Es ist zwar zuzugeben,, dass App. Claudius die Chaussee nicht schon mit
der Kunst und in der herrlichen Weise gepflastert habe, wie die
römi- schen Heerstrassen später gepflastert wurden. Aber der Aus-
druck Diodors {yMCtocQtoü'F — bedecken, bestreuen) braucht o-ar nicht von
einer eigentlichen Pflasterung verstanden zu werden; und dann sagt Diodor
auch nur, dass Appius de» grösseren Tlieil (n> 'ixUmy uioog) der
Strasseso ausgeführt habe. Worin die wesentliche Arbeit beim Bau dieser
Chaussee bestand, sagt Diodor mit deutlichen Worten: 7('7r rorrtüv
riwg fdr v7ie()tyoviic^ (hanyMif^as, tov^ (>^ ijcyir/ytodets K y.inhw^
<}vah;ufia(JLV u'^io/jr/oii: fif/rRr^W.c yaniW/AOüF etc... Dass das
Terrain, über welches die Strasse führen sollte, ge- ebnet wurde, Anhöhen
abgetragen und Thäler ausgefüllt wurden, dass der Grundbau solid und bequem
hergestellt wurde, darin bestand zunächst die Hauptarbeit, darin das
Ver- dienst des App. Claudius. Deshalb konnte er mit Repht die
Heerstrasse als sein Werk betrachten, und derselben sein Name beigelegt
werden. Keineswegs aber kann sie App. Clau- dius schon ganz in der
grossartigen Weise vollendet haben,, in der sie später den Namen regina
viarum erhielt. Mitten in den pomptinischcn Sümpfen, unmittelbar an
der via legte App. Claudius das forum Api)ii an, das jetzt noch als
Foro Appio existiert (vgl. IMommsen, U. Forsch., Niebuhr, 11. G. HL 358. Lange,
Alterth. II, 87). Hier scheint er sich selbst eine statua diademata
gesetzt zu haben,. woraus das Gerücht entstanden ist, dass er sich
Italien per clientelas habe unterwerfen wollen. Denn was Sueton (Tib. 2>
über einen gewissen Claudius Drusus sagt, bezieht sich, wie Mommsen
überzeugend dargethan hat (R. Forsch. II, 305 ff. vgl. Niebuhr, R. G. HI,
355 ff. und Strebe, xM. L. Drusus, Diss. Marburg 1889), auf unsern App.
Claudius. Diodor setzt beim Bericht über die aqua Appia hinzu
r xcd TioUix TOJV dj;iioouov yorjuucor fig icwn.r T/;r yMiaüxevy-
ccn-hoaev avev d(r/itcaü^ zi^g ücyyhpov; und weiter unten beim Bericht
über die via Appia: xtaco7;/.oKJ6v c^tJüc^c,- 7«^* (5';.«o<^'W
nooooöov^ Wir bemerkten, dass in späterer Zeit die Censoren. in Bezug auf
ihre Ausgaben ganz vom Senat abhängig waren^ indem ihnen eine pecunia
certa angewiesen wurde. Wenn nun Diodor sagt, dass App. Claudius die
Staatsgelder urfir düyftcnog Tr^s; övyyli[iov verwandt habe, so kann er
entweder me'i'nen, dass zur Zeit des Appius lür die censorischen
Aus- -jviibcii tlas ^)uyitlc iP^^ ar/yli\inv noch nicht nötig gewosen
sei, oder, was nilher liegt, dass APPIO venuüge seiner energischen
Persönlichkeit sicli von der Abhängigkeit vom Senate in seinen
Geldausgabcn zum öftcntlichen Nutzen trei- gemaclit habe. Jedenfalls
folgt aus der Thatsache, das App. •Claudius das öoyficc des Senates ganz
übergehen konnte, die weitere, dass die Grenze der Befugnis des Senats
und des Zensors bei den Staatsausgaben nicht gesetzlich scharf gezoecen
war, und dass das Schalten der Censoren zu dieser Zeit freier war als
später. Ein drittes Bauwerk, welches App. Claudius ausführte,
ist der Tempel der Bellona d. i. der griechischen 'Evvu) (Liv. X, 19.
Ovid, fasti, 6, 203. C. J. L. I, 287: Elogium des Appius Claudius); es
fällt dies aber erst in seine spätere Lebenszeit. Ap]-). Claudius ist es
aber entgegen der Mommsenschen An- nahme (K. Forsch. I, 308) nicht
gewesen, der in diesem Tempel die Ahnenbilder seiner Vorfahren autgestellt hat
(vergl. Starck, Verhandlungen der dtsch. rhilologenversammlung zu
Tübingen, Lpz..). Auf diese Fragen jedoch brauche ich, da sie sich nicht auf
die Ccnsur beziehen, füglich nicht einzugehen. Jn der
gewaltigen Bautliätigkcit drückt sich sehr prägnant •der politische
Charakter dos Ccnsors und seine politischen Ten- denzen aus. „Er warf^',
sagt ]\Ionnnscn treifend, „das veraltete Bauernsystem des Si)arschatzsammeln
bei Seite und lelirtc seine ]\Iitbüvger die ölfentlichen jNIittel in
würdiger V\Visc zu gebrauchen'' (R.- G.). App. Claudius war, wie wir
bei allen seinen politischen Maassnahmen sehen werden, ein De-
mokrat, und zwar förderte er besonders die Verkehrsinteressen, die der
städtischen Bevölkerung; dazu passt vortrefflich, dass wir ihn als
Beförderer des griechischen Einflusses in Kom kennen lernen, was sich
sclion in dem Bau eines Tempels zu Ehren einer rein griechischen Gottheit
ausdrückt. Vortrefflich passt zu solchen politischen Tendenzen
die Bauthätigkeit des App. Claudius .und die Richtung, in der er
.sie entfaltete. Cap. 3. Die Senatsliste und die Rittermusterung
des App. Claudius. Die senatus lectio des App. Claudius ist die
erste, über •welche uns etwas Bestimmtes überliefert ist. Es ist
dcshalb- von liohem Wert, dass wir grade über sie den Bericht eines
80 alten und bewährten Autors, wie ihn Diodor benutzt hat,, besitzen.
Schon zur Zeit des App. Claudius, das sagt Diodor deutlich, war es Sitte
{i}v tO-o^), die euyerelg und u^uoftuöt nqohyfivieg in den Senat
zuzuschreiben {7Toni:'/ou(fetr). Von- dieser Gewohnheit nun, erzählt
Diodor, sei App. Claudius in- sofern abgewichen, als er nicht bloss diese
hinzuschrieb,- sondern auch viele Freigelassenensöhne darunter
niischte- (avtfu^e jToAAotv ycd ich' dTiF?.8i)0^t()0)v tiovi;),
Livius erzählt zwar zu dem Jahre der Censur selbst nur, dass die
senatus lectio infamis und invidiosa gewesen sei, dass^ sie sine recli
pravique discrimine geschehen sei, dabei potiores- aliquot übergangen
seien. Offenbar berichteten seine Quellen an dieser Stelle nichts
Spezielles von der Senatsliste; und diese hatten die Wahl von
Libertinensöhnen in den Senat ohne Zweifel übergangen, weil eine solche
Maassregel dem hocharistokratischen Charakter, welchen sie dem App.
Clau- dius beilegen, widers])rochcn hätte. Livius selbst aber fügt
an einer späteren Stelle, die, wie wir darthun werden, aus einer anderen
und besseren Quelle geschö])ft ist, hinzu,, dass App. Claudius den Senat
zuerst durch Libertinensöhne befleckt habe. Auch von anderen
Geschichtschreibern wird die senatus lectio des App. Claudius erwähnt.
Sueton sagt im Leben des Claudius (24) : (Claudius imperator) Appium
Caecum censorem generis sui proauctorem libertinorum tilios in senatum
adlegisse docuit, ignarus temporibus Appii et deinceps ali- quamdiu
libertinos dictos non ipsos qui manu mitterentur sed ingenuos ex his
pracreatos. Aus welcher Quelle Sueton diese Nachricht hat,
wisse» wir nicht; manche neuere Forscher halten sie für richtig; sie cineu
also, dass u,>tcr libcrtini ursi,rü,.glich nicht Frei- gelassene, d.
h. ge^-esene Sklaven, sondern deren ^öhne verstanden seien (Momnisen, Str. I,
387 f. m. Ann,. Madvg, \ erf. u Verhalt. I, 137. Siel.crt, Ap,.. Claud.
23 ft. A\ os.senborn. zu Liv IX, 4C, 1 u. 10). Mommsen, der frülier auch
diese Ansicht vertrat, hat neuerdings seine Meinung etwas geändert
(Str III 422 m. Anm. 2 u. 3). In späterer Zeit hicssen libcrtini
diejenigen, welche Servituten, servierunt oder manu missi .sunt. Wenn nun
Sucton sagt, früher seien als l.bevt.n. die Sühne solcher Freigelassenen
bezeichnet, so schen.t er zu meinen, dass die Freigelassenen selbst
liberti genannt seien.. Dies ist aber sprachlich unmöglich, was durch die
Analogien divus - divinus, masculus - masculinus bewiesen wird (W
lUenis, le sönat, I, 184,n. A. 3). Ausserdem widerspricht einer
solchen Annahme der feststehende Unter-schicd der beiden Be- zeichnungen
: beide bez-eichnen nämlich allein den gewesenen Sklaven, nur dass bei
libertinus derselbe nach seiner allge- meinen bürgerlichen Stellung, bei
libertus aber nach dem Verhältniss zu seinem Herrn verstanden wird
(Mommsen, Str. III, 423). . c . A So kann also die
Stelle Suetons nicht gefasst werden. Ernesti meint, Sueton wolle
sagen, zur Zeit des App. Claudius seien nicht bloss die Freigelassenen,
sondern auch ihre Sühne libcrtini genannt. Diese Interpretation setzt
allerdings eine ungenaue Ausdrucksweisc bei Sueton voraus; aber sie
kann ja richtig sein, obwohl auch dies noch unbewiesen bleibt. Es ist
ohne jeden Zweifel, dass alle andern Schriftsteller unter libcrtini nur
die Freigelassenen, und zwar für alle Zeiten, verstehen. Alle beziehen
die senatus lectio unseres Censors auf die Söhne gewesener Sklaven.
Diodor nennt die von App. Claudius in den Senat Aufgenommenen
c}Tre).i'^ii>iov wotv, und von dem i. J. 304 zum curulischen Aedil
gewählten An- lönger unseres Censors, dem Cn. Flavius, sagt er direkt,
er sei der Sohn eines gewesenen Sklaven gewesen (rr«ro<.,- «»
dsdov/.suxöms). Hiermit stimmen alle andern Gewährsmänner überein: Livius
(IX, 46), der Kaiser Claudius (Sueton 1. c), TACITO (si veda) (ann.),
Plutarch (Pomp.). Wir werden -also mit diesen Autoren annehmen müssen,
dass Söhne von Freigelassenen, niclit Enkel, wie Sueton meint, von App. Clau- <lius in den Senat aufgenommen seien. Wertlos
ist die Angabe des Verfassers von „de viris illustribus" (34), dass
App. Claudius Libertinen selbst in den Senat aufgenommen habe.
Die Freigelassenen selbst wie ihre Söhne waren eben, ^a sie mit dem
Makel der Knechtschaft behaftet waren, ob- Äwar nicht durch Gesetz,
sondern nur durch das Herkommen Tom Senat wie von der l\Iagistratur
ausgeschlossen (Mommsen, Str. l, 459 f.)» während die Enkel der
Freigelassenen zu allen Zeiten zu den ingenui gehört haben (Mommsen, Str.
III, 422), und von den plebejischen
Geschlechtern, deren Glieder im Senat sassen, stammen sicher manche von
Libertinen ab (Willems, le s^nat, I, 188). Indem nun App. Claudius
I.iber- tinensöhne in den Senat wählte, warf er den
staatsrechtlichen Usus, wonach sie vom Senat und von der Magistratur
aus- geschlossen waren, um. Und dies ist der Grund, weshalb die
senatus lectio unseres Censors für so schimpf lieh galt und den Adel aufs
äusserste erbitterte (Diod. 1. c. : i(p' olg ßaQtvf^ i'(feQOV oi
yMVXiouaroi 7a/> Fvyeveiai;). Il2in hat nun die von App.
Claudius in den Senat auf- genommenen Libertinensöhne näher bestimmen zu
können ge- glaubt. Willems meint, es seien solche Libertinensöhne
ge- wesen, welche seit dem .1. 318 v. Chr. Volkstribunen gewesen
.seien (le senat, I, 185 m. Anm. 5). In dieses Jahr ungefähr setzt nämlich
Willems die lex Ovinia, durch welche bestimmt wurde, dass optimus quisque
ex omni ordine — d. h. nach Willems omni ordine magistratuum et curulium
et plebeiorum in den Senat gewählt werden sollte. Nach diesem
Gesetze * hätten, meint Willems, nicht bloss gewesene Consuln,
Prätoren, <>urulische Aedilen, sondern auch Volkstribunen und
plebejische Aedilen gewählt werden müssen. Dass die von App. Claudius in
den Senat gewählten Libertinensöhne gewesene Volkstribunen seien, glaubt
Willems daraus folgern zu können, dass zu diesem Amte welches zehn
Männer jedes Mal zusammen bekleideten, d,e L.bertmensohne leichteren
Zutritt hatten als zu irgend einem andern Wir wissen niehts darüber, dass
in dieser Zeit schon em L.ber- tinensohn zum Volkstribunat gelangt sei;
L. Macer L.v IX, 46, 3), dessen Zeugnis sehr wenig gilt, überliefert
allem dass Cn. Fiavius vor seiner Aedilität (i. J. 304) sclK,n
Volkstnbun gewesen sei. Es ist dies aber sehr unwahrschemhch, da
vor ier Tribusänderung des App. Claudius das St.mmrecht d r
niedri-en Bürger in den Tributcomitien wenig Gewicht hatte (s.
unten).,. ^, xj„„;i Wie hypothetisch dieser Schluss ist, liegt auf
der Hand.. Und dass überhaupt die gewesenen Tribunen hätten in der.
Senat gewählt werden müssen, ist nichts als Vemmtung. Willems behauptet
es nach seiner Auslegung der lex Ovinia. Ich habe mich auf diese Frage,
weil sie memem Ziele fern liegt, nicht einzulassen, will nur erwähnen,
dass m der lex Ovinia unter omnis ordo, aus dem optimus quisque m den
Se- „at gewählt werden sollte, nicht omnes ordines magis ra uum et
curulium et plebeiorum (Willems a. a. OO, auch nicht blos. ordines
magistratuum curulium (Lange, R. Alterth. I, «U de plebiscito Ovinio et
Atinio. Progr. 7 ff.) zu vers eben sind sondern dass die Worte am
einfachsten und natürlichsten als der gesamte Bürgerstand zu fassen sind
(Hotmann, der rom. Senat S 7 ff., Becker, Handbuch, II, 2, 300 .Herzog
Gesch. u. System 1,882 f. Mommsen, Str. H, 39o, 397 -• Anm^ 1). Die
senatus lectio des App. Claudius war nicht bloss wecen der Aufnahme von
Libertinensöhnen anstössig, sondern auch deshalb, weil App. Claudius
nicht, wie es die Censoren zu thun hatten, die anrüchigen Senatoren
ausstiess (Diod. 1. c. o,]J^m rc.> döo^ocvTcov avyy2rjry.ä^v tS^ßale),
Beachten wir aber den Grund, welchen Diodor für diese Maassregel
angiebt: Weil App. Claudius, sagt er, sich bei den Patriziern
äusserst verhasst gemacht habe, so mied er es, bei irgend einem an-
dern Bürger anzustossen, und in dieser Absicht unterliess er auch die
Reinigung der Senatsliste von anrüchigen Personen VeOTUTOL^ TÜV (fd^üVOV^
i^l'xklVF TO TlQOOXÜTlTeiVTlVt liOV tikXcüV tioXltwv xai xaia rtiv
riov owtö^icüv xarayQatfr^v ovdh'ct etc. Diod. 1. c). In
demselben Gedanken nahm er auch bei der Rittermusterung (equitum
recognitio oder census) keinem sein Ritterpferd (Diod. : xa) xara Trjv
tcüv ltitifhov doxLf.iaolav ovdh'a difFiXero Tov 'iTtJiov), Es ist dies
die einzige Notiz, welche wir über die Rittermusterung des App. Claudius haben.
Sein Auftreten dabei steht aber im Einklang mit seiner politischen
Stellung, die Diodor mit den Worten bezeichnet: ccvTiTayf^a xaxaaxF
vciCiov Die Senatsliste unseres Censors ist aber bald wieder
um- gestossen worden. Die Consuln beriefen, so erzählt Diodor, aus
Hass und zugleich um sich dem Adel gefällig zu zeigen, den Senat nach der
früheren Liste, {sid^" ol fih v^raTot did zov (fMvov xal did to
ßovkEöd^ai rolg sTiKpavsaTaTOic; /«(»/Led^ar övvijyov irjv GvyxXr^cov
etc. Diod. 1. c.) Damit stimmt Livius über ein (IX, 30, 1,2):
Consules negaverunt eam lectionem observaturos esse et senatum ex-
templo citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium et C.
Plautium fuerat. Diodor erzählt die Zurückweisung der appianischen
Senats- liste zu demselben Jahr, wo App. Claudius sein Amt antrat
(310 V. Chr.). Daraus darf man aber nicht schliessen, dass es von
den Consuln dieses selbigen Jahres geschehen sei. Das war nicht der
Fall, nicht sowohl, weil Livius, der den Amtsantritt des App. Claudius in
das Jahr 312 setzt, die Zurückweisung der Senatsliste zum folgenden Jahr
311 erzählt und den Con- suln d. J., C. Jun. Bubulcus und P. Aem.
Barbula, zuschreibt, als deshalb, weil die Censoren nach den Consuln und
zwar unter ihrem Vorsitz gewählt wurden, im ersten Jahr der Cen-
sur also immer der Senat schon in der früheren Ordnung zu- sammen
getreten war (Mommsen, Str. II, 396). Und diese Annahme widerstreitet dem
Diodor keineswegs, da er öfters Ereignisse, die sich auf mehrere Jahre
verteilen, zusammen erzählt, wofür die Erzählung der Gallierkriege (Diod.
XIV, 113 ff) ein klares Beispiel giebt. Diodor deutet d,es an
unserer Stelle klar genug an, indem er die Zurückwe.sung der Senatsliste
zugleich mit der ebenfalls nieht m das Jahr 310 .gehörenden Wahl des Cn.
Flavius zum Aedden am Schlüsse seines Berichtes erzählt und mit dra
anknüpft. Wenn wir nun mit Diodor den Amtsantritt des App.
Claudius h. d. J. 310 setzen, so müssen -- J"-'™-: ^^^JJ die
Senatsliste von den Consuln des Jahres 308 -oO.» ^ em Diktatorenjahr -
umgestossen ist. D.ese waren (f 1 abms und P Decius (Diod. XX, 37). Es
sind d.es dieselben Manner, welche als Censoren i. J. 304 die
Tribusänderung des App. Claudius rückgär>gig machten (s. unten). Wir
sähe,, m d.esem von der Kritik hergestellten Zusammentreften emen
kratt.gen Beweis für die Richtigkeit des chronologischen Ansatzes
Aus den Angaben Diodors folgt, dass schon die Vor- gänger des App.
Claudius und C. Plautius in der Censur eine lenatsliste aufgestellt haben;
er sagt ausdrücklich, dass die Consuln den Senat berufen hätten o*^ ir:v
vm> tinnov y.ara- }a^^8lmv dl/M t^v vn.) u^n' .r^oy. /fr^7'^ rrn-
xt//yo>r yaia^'oaifeiaar. Diese unzweideutige Angabe scheint mir
ent- scheidend für eine weitere Streitfrage, welche sich an die
Senatsliste des App. Claudius knüpft. Es ist nämhch die An- Sicht
aufgestellt worden, dass die senatus lectio des App. Claudius überhaupt
die erste censorische sei, und dass die lex Ovinia, welche das Amt der Senatswahl
von den Consuln auf die Censoren übertragen hat, im Jahre der Censur
des App. Claudius oder kurz vorher gegeben worden sei. Die lex
Ovinia ist uns von Festus an einer etwas verderbten stelle überliefert
(ed. Müller: praete riti senatores quondam in opprobrio non erant,
quod ut reges sibi legebant sublege- bantque, quos in consilis publico
haberent, ita post exactos eos consules quoque et tribuni militum c. p.
coniunctissimos sibi quosque patriciorum et deinde plebeiorum legebant,
donec Ovinia tribunicia intervenit, qua sanctum est, ut censores
ex omni ordine optimum quemque legerent, quo factum est, ut >qui
praeteriti essent et loco moti haberentur ignominiosi"). Über die
vielen Streitfragen in Bezug auf dies Plebiscit vgl. Hofman, der röm.
Senat S. 3 if. Willems, le senat, 153 ff. u. a. Uns geht nur die Frage
nach der Datierung an. Dieselbe ist nicht überliefert. Man
bringt nun die lex Ovinia in engen Zusammenhang mit der senatus lectio
des App. Claudius (Mommsen, Str. II, 395 m. A. 1. Willems, le senat, I,
185 ff.). Es gebe, so meint man, kein anderes Beispiel dafür, dass eine
censorische senatus lectio von den Consuln umgestossen sei. Und
wenn die Censoren schon lange diese Befugniss gehabt hätten, so
hätten die Consuln nicht gewagt, die appianische Senatsliste zu ignorieren.
Wenn man dagegen annehme, dass App. Clau- dius und C. Plautius zum ersten
Male als Censoren den Senat zusammengesetzt haben, so erkläre es sich
leicht, dass die Consuln, zu deren Amtskreis bis dahin die Senatswahl
gehörte, die Liste des App. Claudius hätten umstossen können, zumal
dieselbe gegen Gesetz und Herkommen Verstössen habe. Es ist diese
Deduction reine Hypothese; von unsern Quellen w^ird als Grund der
Verwerfung der appianischen senatus lectio ganz allein ihre
Ungesetzlichkeit oder vielmehr ihr Verstoss gegen das Herkommen angegeben
; und es scheint dies zur Erklärung auch völlig zu genügen.
Zudem sagt ja Diodor mit klaren Worten, dass schon die früheren
Censoren den Senat gewählt hätten, und diesem •bestimmten und guten
Zeugnis glaube ich mehr Gewicht bei- legen zu müssen als den unbestimmten
Worten des Livius (IX, 33 senatum citaverunt eo ordine qui ante censores
App. Claudium et C. Plautium fuerat). Wir werden also den Er- lass
der lex Ovinia jedenfalls vor das Jahr 318, wo die Amts- vorgänger des
App. Claudius Censoren wurden, setzen. Ge- nauer dem Datum nachzuforschen
ist nicht meine Aufgabe. Allerdings können wir in der Umstossung
der appiani- schen senatus lectio von Seiten der Consuln noch einen
Nach- klang eines ehemals senatorischen Rechtes bemerken. Die
Consuln vom J. 308 werden sich bei ihrer That ohne Zweifel darauf berufen
haben, dass die Senatswahl ursprünglich ein consularisches Recht
war. Was ist nun von der Senatsliste unseres Censors zu ur-
teilen? Welche politische Absicht verfolgte er bei der Ein- wahl von
Libertinensöhnen? Auch hierüber bestehen die grössten Differenzen
zwischen den neueren Forschern. Nie- buhr (R. G. III, 344 ff".) und
mehrere Anhänger (Lange, R. Alterth. Herzog, Gesch. u. Syst.
Siebert, App. Claudius) halten an dem Grundcharakter fest, welcher der
Politik des App. Claudius von Livius bei- gelegt wird, d. h. sie
meinen, App. Claudius sei ein strammer Aristokrat gewesen und habe nur
die hohe und höchste No- bilität mit allen seinen censorischen
Maassregeln fördern wollen. Diesem politischen Charakter widerspricht nun
off'enbar die senatus lectio, durch welche die niedrigste
Bevölkerungsklasse der Libertinen begünstigt wurde, sowie auch die
Tribusänderung des App. Claudius. Auf eigenthümliche Weise
suchen die ge- nannten Forscher diesen Widerspruch zu lösen. Der Adel,
so führt Niebuhr aus, und also auch der Senat zerfalle damals in
zwei Klassen, die patrizische Kobilität, welche schon sehr ab- genommen
habe, und die plebejische Nobilität, welche jene zu überflügeln drohe.
App. Claudius nun, selbst aus einem alt- und hochadligen Geschlecht
stammend, habe seine ganze poli- tische Thätigkeit in den Dienst des
alten patrizischen Adels gestellt und den plebejischen Adel herabdrücken
wollen. Dies erkenne man aus seinen späteren Thaten: J. J. 299 v.
Chr. habe er gegen die lex Ogulnia gestimmt (LIVIO (si veda)), als
Kandidat für das Consulat (LIVIO (si veda)) i. J. 295 und als interrex
(Cic. Brutus XIV, 55) habe er mit aller Macht da- nach gestrebt, dass die
Patrizier die beiden Consulnstellen wieder erlangten (Niebuhr, R. G.
353). Durch die Aufnahme von Libertinensöhnen in den Senat, dessen
grösster Teil schon damals dem plebejischen Adel angehört habe, habe er
diesen nur insultieren und sich dafür rächen wollen, dass er bis
jetzt, eben durch die Verhinderung des plebejischen Adels,
noch nicht zum Consulat gelangt sei (R. G. III, 345). Andere
fingieren eine sog. „Coalitionspartei" (Siebert, a. a. O. 45), deren
Ziel gewesen sei, eine enge Verbindung zwischen der patrizischen und
plebejischen Nobilität im politischen Leben herzustellen. Gegen diese sei
besonders die politische Thätig- keit unseres Censors gerichtet gewesen.
Um sie herabzu- drücken, habe er die Libertinensöhne in den Senat
aufge- nommen, damit sie die Zahl der Anhänger der alten Nobilität
vergrössern sollten. Die UnWahrscheinlichkeit steht dieser Ansicht
an der Stirn geschrieben. Sie könnte sich allein stützen auf zwei
Angaben des Livius, wo dieser den App. Claudius nach seiner Censur
altpatrizische Standesvorrechte vertreten lässt. Dass diese aber
Dichtungen sind, erfunden nach der bekannten Claudier- schablone, werden
wir in anderm Zusammenhange nachweisen (s. unten). Wir fassen die
politische Bedeutung der Senats- liste in dem positiven Sinne, dass App.
Claudius Libertinen- söhne in den Senat aufnahm, weil er das
libertinische Element und überhaupt die niederen Volksschichten
begünstigte und in ihren politischen Rechten fördern wollte. Die
Demagogie, die sich in der appianischen senatus lectio, wie in der
ge- sammten censorischen Thätigkeit ausdrückt, ist in dem Berichte
Diodors klar gesagt, was selbst die Gegner zugeben müssen {Siebert, a. a.
0. 21). C a p. 4. Die Tribusänderung des App. Claudius und
ihre Verwerfung durch die Censoren d. J. 304 v. Chr., Q. Fabius und P.
Decius. Die Änderung, welche App. Claudius mit der Tribus-
ordnung vornahm, gilt allgemein als die wichtigste und ein- schneidendste
seiner censorischen Maassregeln. Sie wurde schon von den zweiten
Nachfolgern des App. Claudius und O. Plautius, den Censoren Q. Fabius und
P. Decius d. J. 304 V. Chr., umgestossen; daher ist diese Censur
in den Rahmen unserer Betrachtung mit hinein zu ziehen. Über
die Tribusänderung des App. Claudius liegen un& drei Berichte vor :
Diodor XX, 36. Livius IX, 46. Plutarch, Popl. 7. Die Gegenmassregel des
Fabius erwähnen: Liv. IX^ 46. Val. Max. II, 2, 9 und der Auetor de viris
illustribus 32^ von denen die beiden letzten Angaben wertlos sind.
Diese Berichte sind aber weder hinlänglich ausführlich und klar,
noch stimmen sie so überein, dass sie, aus einander ergänzt, ein genaues
und deutliches Bild von des Appius Claudius Tribusänderung geben. Zudem
wissen wir im übrigen vom Wesen der Tribus, ihrer Bedeutung und
praktischen Ver- wendung im Staat äusserst wenig. Es kann daher
nicht Wunder nehmen, dass dies Edikt des App. Claudius von seiner
gesamten censorischen Thätigkeit am meisten umstritten ist. Vieles
freilich, was von den Gelehrten zur Begründung ihrer Ansichten über die
Tribusänderung des App. Claudius vor- gebracht wird, ist lediglich
Vermutung; und wenn derselben auch bei der Knappheit der Überlieferung
Raum gegeben wird, so scheint mir doch das, was vermutet und aus
der Überlieferung gefolgert wird, von dem, was wirklich unzwei-
deutig überliefert wird, streng geschieden werden zu müssen. In Bezug auf
die Überlieferung unseres Gegenstandes ist die Grundfrage, welchem
Berichte wir das Hauptgewicht beilegen sollen, ob dem diodorischen oder
dem livianischen. Nach unsern Erörterungen im ersten Kapitel über den
Wert und das Verhältnis der beiden Quellen ist die Frage für uns
schon dahin entschieden, dass wir von Diodors Berichte auszugehen
und ihn zu Grunde zu legen haben. Wenn seine Angabe auch äusserst kurz
ist, so werden w^ir doch finden, dass sie, genau und wortgetreu
ausgelegt, das Edikt des Censors über die Tribusänderung in der knappsten
Weise, vielleicht mit den Worten des Ediktes selbst, richtig wiedergiebt,
ohne frei- lich seine Bedeutung oder Wirkung auch nur zu berühren.
Den Bericht des Livius glauben wir zur Ergänzung heran- ziehen zu dürfen,
wir haben Gründe dafür, dass er da, wo er von der Tribusänderung des App.
Claudius und ihrer Ver- werfung durch Q. Fabius spricht, aus einer
besseren Quelle schöpft, als sein hauptsächlicher Gewährsmann dieses
ganzen Abschnittes ist (s. unten), und wir werden sehen, dass seine
Angaben in Bezug auf die Wirkung der appianischen Tribus- änderung mit
den Schlüssen, die wir aus Diodors Worten ziehen müssen, wohl
übereinstimmen; daher werden wir auch seinen Angaben über die Censur des
Fabius, wo er die einzige Quelle ist, und w^elche er offenbor von
demselben Gewährs- mann hat, in gewissem Grade Vertrauen entgegen
bringen. Erörtern wir zunächst kurz, was wir von der Tribus-
ordnung vor der Censur des App. Claudius, ihrem Wesen und ihrer Bedeutung
weissen, weil dies notwendig zum Ver- ständnis der appianischen Änderung
ist. Die Tribus sind von Haus aus lokale Bezirke. Das be-
weisen viele Quellenbelege (Dionys IV, 14. Liv. I, 43. Verrius Flaccus b.
Gellius XVIII, 7. Laelius Felix b. Gelhus XV, 27), die ich in anderm
Zusammenhang, wo ich erörtere, wie die lokale Grundlage der Tribusordnung
zu fassen ist, behandeln werde. Das beweisen vor allem die Namen
der einzelnen Tribus. Zunächst haben die 4 städtischen Tribus
örtliche Namen: Die Sucusana von der Sucusa (Subura) (Jordan, Topogr. v.
Rom I, 185 f. 199), die Esquilina vom mons Esquilinus (Jordan I, 183 f.),
die Palatina vom mons Palatium (Jordan, I, 182 f.), die Collina vom
collis sc. Qui- rinalis (Jordan, I, 180 f.). Alsdann ist die lokale
Grundlage evident für alle in historischer Zeit seit 389 errichteten
Tribus, deren Namen von Seeen, Flüssen, Städten ge- nommen sind oder
sonstigen örtlichen Ursprungs sind (vgl. Moramsen, Str. III, 171 A. 1—8.
172 A. 1—9. Kubit- schek, de Rom. tribuum origine et propagatione bei
Be- handlung der einzelnen Tribus). Wenn die ältesten sechszehn
Tribus auch nach alten patrizischen Geschlechtern genannt sind, so gilt
für sie dennoch dasselbe örtliche Prinzip: es wird z. B. neben der Tribus
Pupinia der ager Pupinius ge- nannt (s. Kubitschek a. a. O. S. 10).
Grotefend vermutet, dass erst i. J. 495 mit der Tribus Crustumina
die Lokaltribus ein- gerichtet sei (Imp, Rom. trib. descr. S. 3). Aber
dem ist entgegen zu halten, dass doch die tribus urbanae, welche
nach der Überlieferung zuerst geschaffen sind, schon Namen ört-
lichen Ursprungs tragen. Die Benennung von 16 Tribus nach
patrizischen Ge- schlechtern erklärt man so, dass die Tribus von der
gens, deren Grundbesitz der Tribusbezirk umfasste, den Namen er-
halten habe (Mommsen, Str. III, 168). Das die Geschlechter im frühesten
Gemeindeleben Roms von grosser Bedeutung gewesen sind, ist ohne Zweifel,
und es kann leicht sein, dass, als das damals noch kleine römische Gebiet
in Tribus zerlegt wurde, die einzelnen Tribus nach den Geschlechtern
genannt wurden, deren Grundbesitz hauptsächlich den Tribusbezirk
bildete. Aber es kann ja auch möglich sein, dass die gentilizischen
Namen erst später erfunden sind. Genug, der Grundsatz, dass die Tribus
ursprünglich Territorialbezirke sind, wird allgemein anerkannt. Nur ist
man uneinig, in welcher Weise die lokale Grundlage der Tribus zu fassen
ist. Damit hängen aufs engste die verschiedenen
Ansichten von der Tribusänderung des App. Claudius zusammen.
Mommsen fasst die lokale Grundlage der Tribus in eigen- tümlichem
Sinne, er meint, dass die Tribuseinteilung anfangs nur eine Einteilung
des römischen Privatgrundbesitzes (ager privatus) gewesen sei (Rom. Trib. 17, 151 ff. Rom. Forsch.). „Die Tribus, sagt er bei der neuesten
und ausführ- lichsten Auseinandersetzung dieser seiner Ansicht (Rom.
Staatsr. III, 164), kommt nur dem Grundstück zu, welches im quiri-
tischen Eigentum steht oder stehen kann. Die Einzeichnung von
Grundstücken in die Tribus ist nicht Folge der Grenz - erweiterung,
sondern der Ausdehnung des Privateigentums, mag diese nun erfolgen durcii
die Adsignation von Gemeinde- land an römische Bürger, wohin namentlich
die Gründung der Bürgerkolonien gehört, oder durch Aufnahme von
Halb- bürger- oder Nichtbürgergemeinden in das
Vollbürgerrecht." Der ursprüngliche Privatbodenbesitz ist nach Mommsens
Ansicht der an Haus und Garten (Str. III, 24). Dann wurde das personale
Eigentum ex iure Quiritium auf den Orundbesitz überhaupt übertragen, was
dasselbe ist als die Erstreckung der Tribus von der Stadt auf die Flur
(Str.). Demnach hat sich die Tribuseinteilung anfangs (bei der Giündung
durch Servius TuUius) nur auf die Stadt bezogen (Str. III, 166) und ist
erst, als die Flur quiritisches Eigentum ward, auf sie bezogen worden.
Diese Übertragung ivird ausgedrückt durch die Einrichtung der 16 ältesten
Tribus, ivelche ihre Namen von den Geschlechtern, deren Grundbesitz
sie umfassten, erhielten: die Flur war ja Anfangs lediglich
Geschlechtsbesitz und zerfiel in Geschlechtsäcker, deren Auf- teilung
eben die Einrichtung der ältesten ländlichen Tribus bedeutet (Str. III,
168, 170). Aus der Bodentribus ist die personale abgeleitet ; und
da «ich die Bodentribus anfangs nur auf den ager privatus bezog, so
folgt für Mommsen daraus, dass ursprünglich nur die Römer die Tribus
hatten, welche am ager privatus ex iure <5uiritium partizipierten d.
h. anfangs standen nur die An- sässigen (adsidui-adsidentes, locupletes =
qui in loco sunt) in den Tribus, einerlei ob dies Patrizier oder Plebejer
waren (Rom. Forsch. I, 151 f. 154. Rom. Trib. 151 ff. Str. II, ^71
f. Str. III, 182 ff.). Der Besitzer von Privatgrund- stücken stand in der
Tribus, in welcher sein Grundstück lag ; und mit dem Grundstück ist die
personale Tribus von dem jedesmaligen Besitzer gewonnen und verloren
worden. Die Personaltribus ist also wandelbar (Str.), während die
Bodentribus unwandelbar ist, indem das einer Tribus zuge- schriebene
Grundstück späterhin nicht in eine andere über- tragen werden kann (Str.
II, 371; III, 162). Die Tribus in personaler Hinsicht umfassen also
die ge- samte Bürgerschaft, Patrizier wie Plebejer, welche am ager
privatus partizipieren. Aber dies ist keineswegs die Gesamt- bürgerschaft
(R. Str. III, 182. R. Forsch. 154). Alle nicht ansässigen Bürger stehen
eben ausserhalb der Tribus.Die personale Tribus ist nun der Inbegriff aller
Pflichten ' und Rechte, welche dem Bürger aus der Bodentribus er-
wachsen ; sie ist das Zeichen desjenigen Bürgers, der zur Be- steuerung
und Aushebung fähig ist und das Stimmrecht be- sitzt. Steuer-, Heer- und
Stimmordnung beruhen auf der Tribusordnung, sodass die Tribulen, d. h.
die Ansässigen, und nur diese, nach Tribus diesen ihren Pflichten und
Rechten nachkamen. Was zunächst die Kriegspflicht imd das Stimm- |
recht betrifft, so gilt für beides die Tribus als Qualifikation^ nur mit
dem Unterschied, dass diese schlechthin an den Grund- besitz,
Dienstpflicht und Stimmrecht dagegen an einen Minimal- satz von
Grundbesitz geknüpft ist (III, 247). Denn wenn auch die 5 Abstufungen,
welche König Servius in Heer- und Stimmordnung geschaffen hat, in
Geldansätzen überliefert sind^ so sind diese doch anfangs vermutlich in
Landmaass aus- gedrückt (s. Gründe Mommsens Str. III, 247): die 1.
Klasse hat den Besitz einer Hufe (wahrscheinlich c. 20 iugera) und
die vier niederen den Besitz einer Dreiviertel-, Halb- Viertel- und
Kleinstelle (c. 20 jug.) erfordert, während Eigentümer von kleinerem
Grundbesitz nicht zu den Grund- besitzern gezählt sind (Str.). Innerhalb
dieser Grenze war die Bürgerschaft, von den Censoren in Centurien
formiert und zwar nach dem Prinzip der gleichmässigen Verteilung
der Tribulen einer jeden Tribus in sämtliche Centurien, zu Waflendienst
und Abstimmung berechtigt. Die Nichtgrund- besitzer und Vermögenslosen
gehörten in eine Zusatzcenturie (accensi velati), deren Stimmrecht aber
bei ihrer Masse illu- sorisch war (Str. III, 284), und die zwar in der
Ordnung des exercitus centuriatus ihre Stelle hatten, aber vom
Waffendienst ausgeschlossen waren (Str. III, 281, 82). Zwischen der
Heer- und Stimmordnung einerseits und der Steuerordnung anderer-
seits bestehen nach Mommsen keine inneren Beziehungen (III, 230). In
älterer Zeit ist nur Grund und Boden und das, was wesentlicher
Bestandteil der Ackerwirtschaft ist (Sklaven, Zug- und Lastvieh),
steuerpflichtig. Indessen gilt dies nur für die Grundbesitzer, d. h. die
Tribulen. Ihnen entgegengesetzt sind die Aerarier „die
Steuerpflichtigen" im eminenten Sinn, diesehaben nämlich nach Mommsen von
Haus aus Steuern vonL sämtlichen Mobiliarvermögen entrichtet, während
sie, wie wir erwähnten, in Heer- und Stimmordnung nur scheinbar
berück-^ sichtigt waren. Späterhin, es scheint ziemlich früh, setzt
Mommsen hinzu, wurde das tributum allgemein, also auch für die
Grundbesitzer, zur Vermögenssteuer; so war also der Gegensatz zwischen
Grundbesitzern (= Tribulen) und Arariern in Frage gestellt (Str. II, 262
ff.). Unmittelbar hieran knüpft Mommsen seine Ansicht über die
Tribusänderung des Censors Appius Claudius. Bleiben wir zunächst
hier stehen. Wir haben das System Mommsens von dem Wesen und der
ursprünglichen Bedeutung der Tribus kurz in seinem Zusammenhang dargelegt, um
zu zeigen, wie der Grundgedanke des Systems, dass der Grund- besitz
ursprünglich das Requisit für den römischen Vollbürger gewesen ist, zwar
consequent, aber zu sehr schematisch und doktrinär durchgeführt ist, und
um nun unsere Kritik der Mommsenschen Ansicht anzureihen und unsere
eigene ab- weichende Ansicht zu entwickeln. In den späteren
Zeiten der römischen Geschichte, seit dem Bundesgenossenkrieg, war der
lokale Zusammenhang der Tribus, welcher bei einer Bodeneinteilung
jedenfalls ur- sprünglich vorauszusetzen ist, völlig zerstört. Nach dem
ge- nannten Kriege, durch welchen die meisten bisher bundes-
genössischen italischen Städte und Staaten das römische Vollbürgerrecht
und damit die Tribus erlangten, verteilte man die neuen
Vollbürgergemeinden in die bestehenden 35 Tribus, sodass nun die
einzelnen Tribus, lokal gefasst, aus zerstückelten, über ganz Italien
verbreiteten Landcomplexen bestanden. Eine Zusammenstellung der zu den
einzelnen Tribus gehörigen Ge- meindeterritorien ergiebt die Italia
tributim descripta (CICERONE (si veda), de pet. cons. 8, 30), welche
Grotefend mustergültig, soweit es möglich, rekonstruiert hat („Imperium
Romanum tributim descriptum" Hannover 1863 vgl. Kubitschek, de
Romanarum tribuum origine et propagatione. Abhdl. des arch. -
epigr^ Seminars. Wien 1882). Schon in Italien schrieb man grössere
Territorien einer bestimmten Tribus zu (wie z. B. Calabrien der Fabia,
Campanien der Falerna, u. a. vgl. Kubitschek) *, und in der Kaiserzeit, als der
Zuwachs des römischen Gebietes immer grösser wurde, pflegte man oft ganze
Länder- massen einzelnen Tribus einzuverleiben (so wurden die neuen
Vollbürgergemeinden von Spanien der Quirina und Galeria, die von Gallia
Narbonensis der Voltinia zugeteilt vgl. Kubit- schek S. 199).
Indem eine Gemeinde in das Vollbürgerrecht aufge- ] nommen wurde,
wurden alle in ihr heimatsberechtigten frei- gebornen Bürger einer
bestimmten Tribus zugewiesen. Sie ist also der Ausdruck der Zugehörigkeit
1. zur communis patria Roma und 2. zur Sonderheimat, der domus (origo)
und der aus dieser Zugehörigkeit erwachsenden politischen Pflichten
und Rechte; sie ist das Zeichen der Heimatsberechtigung in einer
römischen Vollbürgergemeinde. Es ist dies inschriftlich so ausgedrückt
und sehr vielfach belegt, dass hinter den Namen die Bezeichnung der
Ingenuität, der Tribus und des Heimatsortes gesetzt wird. (Z. B.: L. Cornelius. L. F. Vel. Secundinus. Aquileia. Grotefend.)
Die Qualifikation für die Tribus ist die Ingenuität: Jeder Freigeborne in
einer neuen Vollbürgergemeinde erhält die Tribus seiner Heimat und
damit eine persönliche und erbliche Rcchtsqualität, die nicht durch
Adoption (Grotefend) noch durch den In- <iolat, selbst wenn der
Übergesiedelte zu Magistratswürden in,€einem neuen Wohnort gelangte (Grotefend
21), affiziert wurde. Kur bei Aussendung einer römischen Colonie
(colonia <5ivium Romanorum) mussten die Ausgesandten ihre ange-
stammte Tribus mit der Tribus der Colonie vertauschen (Grotefend).
In der Auff'assung dieser Bedeutung der jüngeren Tribus, wie wir
sie hauptsächlich aus den Inschriften kennen, herrscht im allgemeinen
Übereinstimmung (Grotefend. Vorbemerkungen. Mommsen, R. Forsch. I, 151
fl". R. Str.). Mommsen, der als Qualifikation für die Tribus älterer
Form den Grundbesitz annimmt, giebt nun selbst zu, dass die spätere
Tribus vom Grundbesitz unabhängig gewesen sei. Er hat
also die Pflicht zu erklären, wie und wann sich diese radikale
Veränderung im Wesen der Tribus vollzogen haty. dass aus der Tribus,
welche das Zeichen der Ansässig- keit ist, die Tribus geworden ist,
welche die origo, die Heimatsberechtigung in einer Vollbürgergemeinde
ausdrückt. Staatsrecht II, 341 A. 2 nennt er dieselbe eine ebenso
bekannte und sichere wie in ihrer Entstehung schwierig zu erklärende
Umgestaltung. Er giebt zu, dass über das Auf- kommen der theoretisch wie
praktisch gleich tief einschneiden- den Änderung nichts berichtet werde
(Str. III, 781). Aber sie stimme so vollkommen mit der Tendenz des
Bundes- genossenkriegs, dass sie mit voller Sicherheit auf ihn
zurück- geführt werden könne. Er beschreibt dann die Änderungen^
welche seit Einführung des neuen Prinzips mit den Tribus- verhältnissen
in lokaler und personaler Hinsicht vorgenommen sein müssten (Str.). Was
die Stadt Rom selbst angehe, so sei auch für ihre Bürger, die füglich
keine Sonder- heimat und also keine Ortsangehörigkeit hätten, irgend
einmal durch Gesetz die Tribus als eine persönliche und erbliche
vom Grundbesitz unabhängige Rechtsqualität fixiert worden, sodass jeder
Bürger diejenige Tribus, die er infolge seines dermaligen Grundbesitzes
eben inne hatte, als persönliche über- kam und auf seine Nachkommen
vererbte (R. Forsch. I, 153). Die Patrizier hätten sich die Tribus selbst
gewählt bei dem Eintreten der neuen Ordnung: daher komme es, dass
zwei der ältesten Patriziergeschlechter, die Aemilier und Manlier,
in der Palatina erschienen, die ihrem Adelstolz durch diese Tribus des
königlichen Rom hätten Ausdruck geben wollen. (Str.) Die
Auff'assung Mommsens von der lokalen Grundlage der Tribus ist also die,
dass dieselbe sich anfangs auf den ager privatus Romanus, und personal
auf die Ansässigen bezogen habe, später dagegen auf das Territorium einer
Vollbürger- gemeinde und personal auf alle freigeborne in diesem
Territorium Heimatsbereclitigten ; die Entwicklung vom ersten zum letzten
Prinzip liabe sich im Bundesgenossenkrieg vollzogen. Abgesehen davon,
dass die jüngere und ältere Tribus nach dieser Auffassung nicht die
geringste Verwandtschaft mit ein- ander haben, sondern etwas ganz und gar
Fremdes, Verschiedenes, ja Entgegengesetztes ausdrücken, würde es doch
äusserst merkwürdig sein, wenn eine solche gänzliche Um- wandlung der
rechtlichen Bedeutung der Tribus auch nicht die geringste litterarische
Spur hinterlassen hätte, zumal sie doch in ziemlich später Zeit geschehen
sein soll. Und dass «ie absolut unbezeugt ist, muss Mommsen selbst
zugeben. Die Erklärung einer solchen radikalen Umwandlung
fehlt zudem bei Mommsen völlig. Denn was er über die allmäh- liche
Einwirkung der Ortsangehörigkeit auf die Personaltribus (Str. III, 779
f.) und über das Verhältnis beider (Str. III, 782 ff.) sagt, wird man
doch nicht als Erklärung gelten lassen können. Es erheben sich aber überhaupt
gegen eine solche Umwandlung der Tribus die gewichtigsten Bedenken.
Zu- nächst wäre, vorausgesetzt einmal, dass aus der Tribus der
Grundsässigkeit die des Territoriums einer Vollbürgergemeinde entstanden
sei, der Zweck einer solchen Umwandlung absolut nicht abzusehen. Bei der
Aufnahme einer Vollbürgergemeinde wies man die gesamten Bürger derselben,
einerlei ob Grund- besitzer oder nicht, einer bestimmten Tribus zu.
Warum zeichnete man denn z. B. bei der Aufnahme Tusculums nicht
bloss den ager Tusculanus und die Eigentümer an demselben in die
papirische Tribus? So wäre ja das alte Prinzip ge- wahrt worden. Ein
weiterer Widerspruch ist folgender: Auf die Stadt Rom selbst ist das neue
Prinzip nicht vom Anfang seines Aufkommens an bezogen worden: denn aus
der Zunahme der Vollbürgergemeinden hat es sich ja erst entwickelt.
Wenn also für Rom noch die alte Ordnung bestand, d. h. nach
Mommsen, wenn nur die Grundbesitzer in den ländlichen Tribus standen,
während die nicht Grundansässigen in den 4 tribus urbanae
zusammengedrängt waren, so standen die Bürger einer Vollbürgergemeinde
sämtlich in einer ländlichen Tribus, sodass z. B. ein nichtansässiger
Tuskulaner vor dem nichtansässigen Römer ein Vorrecht hatte, indem jener
in der Papiria stand, dieser aber in eine der städtischen Tribus
ge- hörte. Welches Missverhältnis dies bei dem Dignitätsunter-
:schiede der tribus urbanae und rusticae (s. unten) gewesen wäre, liegt
auf der Hand. Der entscheidende Grund ergiebt sich aus folgender
Er- wägung : Dass die Tribus der späteren Form vom Grundbesitz
unabhängig ist, giebt auch Mommsen zu. Kun aber bezieht sich die
Hauptquellenstelle (CICERONE (si veda), pro Flacco), auf welche Mommsen
seinen Grundsatz, dass die Tribus - Distrikte des ager privatus Romanus
seien, stützt (Mommsen, Str. II, 360 mit A. 2 u. 3. Rom. Trib. 3), auf
die Zeit Ciceros, wo, auch nach Mommsen, die neue Tribusordnung schon
bestand. Wenn
Cicero den Decianus fragt: sintne ista praedia censui censendo ... in qua
tribu denique ista praedia censuisti? fio geht doch daraus
mit Evidenz hervor, dass noch damals der Grundbesitz in der Tribus stand.
Und dass er dies stets sethan hat and der Grundbesitz stets für die
Tribus von Be- deutung gewesen ist, werden wir in anderm
Zusammenhang erörtern. Keinesfalls aber kann die angeführte Stelle
dazu benutzt werden, um die Ansicht, dass die Tribus sich ur-
sprünglich lediglich auf den ager privatus bezogen habe, zu
stützen. Alle diese Erwägungen führen zu dem Resultate, dass
eine Entwicklung, wie sie Mommsen annimmt, von einer Tribus, welche die
Grundansässigkeit ausdrückte, zu einer solchen, welche, vom Grundbesitz
unabhängig, die Zugehörigkeit zu einer Vollbürgergemeinde bezeichnete,
nicht stattgefunden haben kann. Da nun das Wesen der späteren Tribus
fest- steht, so muss die Mommsensche Auffassung von der ursprüng-
lichen Tribus falsch sein. Und in der That ist der Satz, dass die
Tribus sich ur- sprünglich lediglich auf den Grundbesitz b^ogen habe,
den Mommsen freilich stets als quellenmässig belegt bezeichnet
und in seinen Consequenzen darlegt, gänzlich unbewiesen. Zunächst ist
scharf zu betonen, dass er keineswegs in dei> Quellen bezeugt ist und
ledighch eine kühne Hypothese ist.,| Nirgends findet sich bei den alten
Autoren, so oft sie auch die Tribuseinteilung erwähnen, eine Angabe, dass
die An- sässigkeit die Grundbedingung für das Stehen in der Tribute
sei. Und es wäre dies doch sehr zu verwundern, wenn ein so klares Prinzip
so scharf durchgeführt wäre, wie ea Mommsen annimmt, zumal dasselbe,
wenigstens für die tribu& rusticae, bis in die späte historisch helle
Zeit gegolten haben soll. Welches war aber die lokale
Grundlage der Tribusord- nung? Was sagen die Alten darüber? Unserer
Ansicht nach war die Tribuseinteilung eine geographische
Distriktseinteilung des gesamten römischen Gebietes, eine nackte
Zerlegung in Bezirke, und zwar war sie von Haus aus dazu bestimmt,
eine Volks einteilung zu sein mit dem Zwecke, im Staatsleben praktisch
verwandt zu werden. Die Tribus wurde also vom Lokal auf die Person
übertragen und zwar, wie das natürlich ist, in der Weise, dass alle, die
in dem Bezirke einer Tribus wohnten, dieser Tribus angehörten, um in ihr
ihre politischem Pflichten und Rechte zu erfüllen. Das Domizil
bestimmte also ursprünglich die Tribus. Eine Reihe direkter
Quellenbelege lassen sich für diese unsere Auffassung geltend machen.
Wenn Laelius Felix (b. Gellius XV, 27) die Tributcomitien so definiert,
dass in ihnen ex regionibus et locis abgestimmt würde, so kann das-
nicht anders aufgefasst werden, als dass nach Bezirken und Wohnsitzen
abgestimmt werde. Mit regiones meint er offen- bar die lokalen
Tribusbezirke, nach denen geordnet die Bürger- schaft abstimme, und mit
loca die Wohnsitze der Einzelnen. Durchaus müsste, wenn der Grundbesitz
das notwendige Re- quisit für das Stehen in der Tribus also das Stimmen
in den Tributcomitien wäre, dies possessorische Prinzip in einer
De* finition der Tributcomitien ausgedrückt sein. Dionys erwälint
direkt die Beziehung zwischen Tribus und Domizil. Nacli ihm (IV, 14)
richtete König Servius die Tribus ein rjf-jnom^ Hfiyxcoij^^
dTrodf-i'^ca^' ()ruuo()ic{^ vjü'Tre(i ül/.iuY {-'yMüH}^ üiy.rl ;
ausserdem lässt Dionys (IV, 14) den König Servius demjenigen, der in eine
bestimmte Tribus eingeschrieben sei, verbieten '/Mitßari-ti' uh^ku
oiy.rüiv. Wenn diese Angaben auch keineswegs im einzelnen zu
glauben sind, so folgt doch daraus, dass Dionys meint, der Wohnort habe
die Zugehörigkeit zur Tribus bestimmt. Und das ist unserer Ansicht nach
sicher der Fall gewesen. Wenn Avir in diesem Sinne die lokale
Grundlage der Tribus auflassen, lässt sich das, was uns vom
Verhältnis der Tribulen unter einander überliefert ist, sehr einfach
und. natürlich erklären. Es was ein nachbarlicher Geist, so wird
uns mehrfach berichtet, der sie verband. Freilich wäre dies ja auch
denkbar, wenn die Tribus nur die Grundbesitzer um- fasst hätten. Aber es
ist mehrfach bezeugt, dass grade zwischen den niederen und höheren
Tribulen einer Tribus dies Nahver- hältnis bestand (der geringe Mann wird
von seinem vornehmen Tribusgenossen zu Tisch gezogen Horaz ep. I, 13, 15
und beschenkt Sueton, Aug. 4 und anderes; vgl. Mommsen, Str. III,
197 f.). Es war das gemeinsame Interesse des Wohnbezirks (Cic. pro Roscio
IG, 47: tribules vel vicinos meos), welches die Tribulen mit einander
verband (so z. B. wie die Censoren i. J. 204 in einigen Tribus den
Salzpreis erhöhten). Und dies weist eben darauf hin, dass die
Tribus rein lokale Bezirke sind. Wie viel leichter
lassen sich bei dieser Auffassung der lokalen Grundlage der Tribus die
anderen Quellenstellen ver- stehen, welche die Lokalität der Tribus
erwähnen! Die Worte des Livius (I, 4o): (Servius Tullius) quadrifariam
urbe divisa regionibus collibusque partes eas tribus appellavit sind
doch, meine ich, viel naturgemässer so auszulegen, dass S. Tullius
das gesamte Stadtgebiet in vier rein lokale Bezirke teilte, als so, dass
der im Stadtgebiet gelegene ager privatus in vier Tribus zerlest sei.
Dasselbe gilt von dem Ausdruck des Dionys, dass S. Tullius die Stadt in 4
to.-ax«, <fcm zerlegt habe. Dionys sagt selbst, wie er
ro.-r,.o,aufgefasst wissen will, und auch Livius hat nach den ob.gen
Worten die lokale Bedeutung der Tribus nicht anders aufgetasst.
Schliess- lich führe ich noch die Erklärung der Tribus an, welche
Verrius Flaccus (b. Gellius XVIII, 7) giebt: tribus d.c. et pro loco et
pro iure et pro hominibus. Auch hier ist locus einfach und natürlich als
Wohnort zu fassen. Wenn also Mommsens Anschauung von dem Wesen der Tnbus
einer- seits auf einer gezwungenen Quelleninterpretation beruht, so
erheben sich anderseits dagegen auch viele sachliche Be- Der
Tribule. d. h. nach Mommsen der Grundbesitzer, hat diejenige persönliche
Tribus, in deren lokalem Bezirk sein Grundbesitz lag. Wie aber war es,
wenn Jemand in mehreren Tribusbezirkcn Grundstücke besass? Persönlich
konnte doch Jeder nur in einer Tribus stehen (Mommsen, Str. 111,
1»^), und in der Steuerrolle konnte Jeder nur einmal seinen Platz finden
In einem solchen Falle, vermutet Mommsen, habe die Wahl der
Personaltribus und die EinSchätzungssumme vom Censor besthumt werden
müssen. Die Willkür, die in einer solchen Sachlage liegt, giebt Mommsen
selbst zu (11, d7 J t.;. So hätte es also Grundstücke gegeben, deren
Tribus sich nicht auf den Eigentümer übertrug. Dasselbe trat
ein, wenn Personen, die nicht Bürger sein konnten, - etwa Frauen oder
Ausländer - römischen ager privatus erwarben. Auch dann sei, meint
Mommsen (Str. 111 18;]) die Übertragung der Bodentribus auf die Personen
tort- gcfallen, so dass also für die Tribus in diesem Falle der Um-
stand, dass Jemand nicht aktiver römischer Bürger sein konnte, wichtiger
war als der Grundbesitz. Wie sich gegen die Auffassung des Tribulen
Bedenken erheben, so auch' gegen die des Nichttribulen, des
Arariers. Die Annahme, es seien die Ärarier eine den Tribulen
absolut entgegengesetzte Bürgerklasse, sie seien ohne Stimmrecht
und Heerespflicht und nur stärker besteuert, ist lediglich Hypo-
these ; sie beruht allein auf der häufig wiederkehrenden Formel der
censorischen nota „tribu movere et aerarium facere". Aus derselben
geht allerdings hervor, dass das aerarium facere häutig mit tribu movere
verbunden war, aber nicht, dass es identisch ist. Dies kann es vielmehr
nicht gewesen sein. Das folgt deutlich aus einem Bericht des LIVIO (si
veda), wo er erzählt, der Censor M. Livius habe 34 Tribus zu Arariern
gemacht (Liv.). Da nach Mommsen tribu movere in späterer Zeit gleich
einer Versetzung in die tribus urbanae ist, so müssten also damals
alle Tribulen in die städtischen Tribus versetzt sein, was Unsinn
ist. Tribu movere kann nicht dasselbe sein wie aerarium facere ; dazu stimmt,
dass letzteres mehrfach allein genannt wird (LIVIO (si veda0, IL
Gellius). Wer Ärarier war, brauchte noch nicht tribu motus zu sein ; das
folgt gleich- falls aus dem angeführten Bericht des Livius. Der
tribu motus war aber immer aerarius: also ist der eine Begriff
weiter als der andere. Tribu movere heisst die Tribus ändern lassen
(Liv. 45, 15 : tribu movere nihil aliud est quam mutare iubere
tribum). Was dies für Nachteile mit sich brachte, wissen wir
absolut nicht. Die Ärarier aber sind nichts als eine Art
Strafklasse, die höher besteuert war. Livius deutet die Art dieser
will- kürlichen Straf besteuerung an, wenn er berichtet (IV, 24),
Mam. Aemilius sei zum aerarius octuplicato censu gemacht, d. h. zum
Ärarier unter Erhöhung seiner Steuerpflicht um das Achtfache (vgl.
Soltau, Volksversamml., Madvig, Verf. u. Verw.). Hiermit ist der absolute
Gegensatz auf- gehoben, welchen Mommsen zwischen Tribulen und
Arariern annimmt, als seien alle Ärarier Nichttribulen. Das
Resultat dieser Erörterungen besteht darin, dass die Mommsensche Theorie
von der Tribusordnung, als sei sie an- fangs lediglich eine Einteilung
des ager privatus, und als ständen nur die Grundbesitzer in den Tribus,
nicht recht sein kann. Die lokale Grundlage besteht vielmehr, wie wir
aus den Quellen gefolgert haben und jetzt noch weiter
erörternd beweisen werden, darin, dass die Tribuseinteilung eine
einfache geographische Distriktseinteilung des gesamten römischen
Ge- bietes war. Diese lokale Grundlage ist stets dieselbe geblieben:
deutlich lässt sie sich noch in der späten Zeit erkennen, wo Mommsen einen
völligen Umschwung im Wesen der Tribus annimmt. Denn nachdem man zu dem
Grundsatz ge- kommen war, keine neuen Tribusbezirke mehr
einzurichten, konnte man füglich das angegebene lokale Prinzip nur
wahren, wenn man das ganze Gebiet einer neuen Vollbürgergemeinde
einer der bestehenden Tribus zuwies. Und so geschah es: nach demselben
einfachen lokalen Prinzip, nach welchem das gesamte römische Gebiet in
Tribusbezirke zerlegt war, schrieb man die späteren neuen
Vollbürgerterritorien einem jener Ur- bezirke zu. Nur der örtliche
Zusammenhang, welcher für die Urbezirke bestand, ward dadurch aufgehoben
; das war aber eine notwendige Folge davon, dass man keine neue Bezirke
seit d. J. 241 v. Chr. stiftete. Es liegt nicht in meinem Plane, zu
erörtern, aus welchen Gründen man zu diesem Grundsatz kam, die Zahl der
Tribus nicht mehr zu vermehren, noch auch, nach welchen Prinzipien man
später die neuen Vollbürgerterritorien an die einzelnen Tribus verteilte.
Darin dass man bei der Neuaufnahme einer Vollbürgergemeinde ihr
ganzes Territorium einer Tribus zuschrieb, zeigt sich dasselbe lokale
Prinzip, welches wir von Anfang an anzunehmen haben. Von dem Lokal wurde die Tribus auf die Person übertragen. In späterer
Zeit gehörte derjenige zum Verbände einer Voll- bürgergemeinde, also in
die Tribus dieser Gemeinde, der in ihrem Territorium heimatsberechtigt
war. Dass die Heimats- berechtigung in der Regel mit dem Domizil
zusammenfiel, liegt in der Natur der Sache; aber es ist ausdrücklich
be- zeugt, dass solche, welche in andere Städte übersiedelten, die
Tribus ihrer Heimat behielten (Mommsen, R. Forsch.). In früherer Zeit war in dieser Hinsicht das Domizil ent-
scheidend. Wer in dem Bezirke einer Tribus wohnte, hatte persönlich diese
Tribus, und mit dem Wechsel des Wohn- sitzes ward auch die Tribus
gewechselt. Die Personaltribu& ist also auch nach unsrer Ansicht
wandelbar. IMit diesen Unterschieden der Personaltribus in späterer und
früherer Zeit, werden wir sehen, hängt das Edikt des App. Claudius
eng zusammen. Die lokale Grundlage der Tribus in dem Sinne,
wie wir entwickelt haben, nimmt schon Niebuhr an (R. G.). Wenn wir
auch in allem andern, was er über die Tribus und ihre ursprüngliche
Bedeutung annimmt, ihm widersprechen müssen, so hat er doch das lokale
Prinzip, auf dem die Tribusordnung beruht, richtig erkannt, dass sie
nämlich eine einfache Distriktseinteilung ist und in persönlicher
Hinsicht alle in dem Distrikte einer Tribus Wohnenden umfasst. Von
Niemanden ist diese Ansicht angenommen, nur Clason (Kritische
Erörterungen über den röm. Staat.) vertritt sie, leitet sie aber weder
beweisend ab, noch verfolgt er ihre Consequenzen in der politischen
Verwendung der Tribusord- nung. Die Übertragung der Tribus vom Lokal auf
die Per- son geschah in der Weise, dass, grade wie später die Per-
sonen, welche dem Territorium einer Vollbürgergemeinde an- gehörten, der
Tribus derselben zugeschrieben wurden, auch früher die Tribus auf die Personen,
welche ihrem Bezirke an- gehörten, übertragen wurde. Doch war dazu eine
bestimmte Qualifikation notwendig. Diese war in späterer Zeit die
In- genuität. Wann dies Prinzip aufgekommen, habe ich nicht zu
erörtern; es scheint erst sehr spät (Mommsen, R. Staatsr. III, 439 ff.j.
In früherer Zeit und ursprünglich bestand diese Grenze nicht. Vielmehr
haben ursprünglich alle in dem Be- zirke einer Tribus wohnenden römischen
Bürger auch personal diese Tribus gehabt. Die Qualifikation für die
Personaltribus war also ursprünglich das Bürgerrecht, und zwar das
Bürger- recht schlechthin und unbeschränkt. Die Ansicht
Niebuhrs (R. G. I, 457 f.), dass ursprüng- lich nur die Plebejer in den
Tribus gestanden hätten, wird schon dadurch widerlegt, dass die 16
ältesten ländlichen Tribus ^atrizische Geschlechtsnamen tragen. Die
Schriftsteller bezeichnen ausdrücklich die 35 Tribu» als identisch mit
dem ganzen römischen Volke (z. B. CICERO (si veda), de leg.: populus fuse
in tribus convocatus und viele andere Stellen), und nirgends schliessen
sie einen Teil der Gesamt- bevölkerung aus, was bei der Annahme einer
distriktartigen Einteilung des gesamten Gebietes sehr erklärlich und
natur- gemäss ist. Selbst die Freigelassenen haben
ursprünglich in den Tribus gestanden. Denn wenn Dionys und Zonaras
über- liefern, dass S. Tullius den Libertinen das Bürgerrecht ge-
geben habe und sie in die Tribus (Zon. VII, 9), und zwar in die 4 tribus
urbanae (Dion. IV, 22) aufgenommen habe, so besagt dies jedenfalls soviel,
dass das römische Staatsrecht, indem es die Tribus der Freigelassenen auf
S. Tullius, den mythischen Urheber des römischen Verfassungslebens,
zurück- führt, keine Zeit kannte, wo die Freigelassenen nicht in
den Tribus gestanden hätten. Die Freigelassenen haben ja von Haus
aus das Bürgerrecht, wenn auch ein zurückgesetztes. Und da sie deshalb
dem Staate gegenüber Pflichten und Rechte, wenn auch in geringerem Masse,
hatten, so mussten sie auch in den Abteilungen der Bürgerschaft Platz
linden, welche dazu bestimmt waren, damit die Bürgerschaft nach
ihnen ihren Pflichten und Rechten dem Staate gegenüber ge- nüge (vgl.
über die Tribus der Libertinen Becker, Hdb. II, 1, 96 ff. Madvig, Verf.
u. Verw. I, 203. Clason, App. Claud.). In der
politischen Bedeutung nämlich liegt das weitere wesentliche Moment der
Bedeutung der Tribusordnung. Sie ist dazu geschaffen, und dieser Zweck
ist ihr von Haus aus eigentümlich, dass sie im Staatsleben praktisch zu
politisch- administrativen Zwecken verwandt werde. Denn was hätte
eine solche geographische Distriktseinteilung für einen Wert, wenn sie
nicht von Anfang an dazu bestimmt gewesen wäre, eine Volkseinteilung zu
sein, dass die Bürgerschaft, nach diesen Distrikten geordnet, ihren
politischen Pflichten und Rechten nachkomme? Die Tribusordnung ist von
Anfang an die Voraussetzung der Steuerordnung, Heerordnung und
Stimm- ordnung. Die Alten selbst betrachten diese politisch - admi-
nistrative Verwendung der Tribus als ihren Zweck. Dionys sagt vom König
Servius (IV, 14) : Ta^ y.cauyoaifd^ tlov oya- Tivncov ycci nc^
Fi^7ii>a§F.i^ n^n' y^njicktov rag yivofihag etg ra oroaTiomyi} vmi rag
aUag /of/c.,-, ag ^yaorov ^'ösi toj y.oivco Tiuolyeiv, inyÄTi yard rag
iQflg cfr/Mg rag yerimg, (k tcqoteqov, cWm 'xard rag rhra^ag rag romy^g
rag v(f' kwnw diarayßeiaag tTCOulro. Dasselbe ergiebt sich aus den
Etymologien, welche von dem Worte tribus gegeben werden. VARRONE (si
veda) (d. 1. 1.) sagt: tributum dictum a tribubus quod ea pecunia, quae
populo imperata erat, tributim a singulis pro portione census exigebatur,
und Livius umgekehrt: (Servius) partes urbis tribus appellavit, ut ego
arbitror, a tributo. Diese Ety- mologien haben selbstverständlich als
solche keinen Wert; sie beweisen nur, dass sich die Schriftsteller die
Steuerordnung und die Tribuseinteilung als unzertrennlich dachten; ebenso
haben auch ohne Zweifel Heer- und Stimmordnung von Anfang an auf
der Tribusordnung beruht. Ich kann, wenn ich die politische
Bedeutung der ur- sprünglichen Tribus darlegen will, selbstverständlich
nicht alle die einzelnen Fragen, die zum Teil äusserst schwierig
sind, und über die noch lange nicht die Akten geschlossen sind,
sowie über die politischen und administrativen Institute, bei denen die
Tribuseinteilung praktisch verwandt worden ist, handeln : ich habe mich
lediglich darauf zu beschränken, dar- zulegen, in welchem Verhältnis die
Tribus zu Steuer-, Heer- und Stimmordnung stehen. Der Akt, welcher eine
allgemeine Zählung der Bürger bezweckte, um nach ihren eidlichen
Aus- sagen über ihre Verhältnisse ihre Bürgerpflichten und Bürger^
rechte zu bestimmen, ist der Census, die Schätzung (vgl. Mommsen, Str. H,
333 ff". Madwig, Verf. u. Verw. I,^ 399 ff".). Diese nun beruht
unmittelbar und allein auf der Tribusein- teilung. Denn tributim mussten
alle römischen Bürger auf dem Marsfelde vor dem Censor erscheinen und
ihre eidlichen Angaben über Namen, Alter, Vermögen machen. (Dionys.).
Darin dass beim Census durchaus alle Bürger mcldungspfliclitig waren
(Ladungsbefehl b. Varro 1. 1. 6, 86: omnes
Quirites, Liv. 1, 44: lex de incensis etc. Cic. pro Cluent. 34. Dion. IV,
15), und dies tributim geschah, sehe ich einen neuen Fingerzeig dafür,
dass die Tribus auch alle Bürger umtasst haben: von einer Schätzung, die
nicht tributim geschehen wäre, erfahren wir absolut nichts. Momm-
sen hilft sich, indem er für seine ausser der Tribus stehenden Ärarier
eine besondere Schätzung, welche derjenigen der Tribulen folgte, annimmt
(Str. II, 343). Auf dem Census beruht zunächst die Bestimmung des
Tributum, der direkten Vermögenssteuer (Mommsen, Str. III, 228. Madvig,
Verf. u. Verw. II, 387 f.). Der Bürger musste sein Vermögen de-
klarieren, und der Censor hatte es abzuschätzen zum Zweck der
Besteuerung. Als steuerpflichtig werden die verschieden- sten Gegenstände
bezeichnet (cf. Mommsen, Str. II, 363 m. A. 1). Das hauptsächlichste
steuerpflichtige Objekt ist, zumal vor dem Aufkommen der Geldwirtschaft,
der Grundbesitz: m Grundbesitz hat Anfangs wohl allein, wie das
natürlich ist und allgemein angenommen wird, der Pwcichtum
bestanden, und auch später ist dies vielfach der Fall gewesen. Da
nun die o-esamte Schätzung und also auch die Deklarierung des
steuerfähigen Vermögens tributim geschah, so musste auch der Grundbesitz
tributim zum Zweck der Besteuerung ab- geschätzt werden d. h., wenn man
will, auch der ager pri- vatus stand in der Tribus. Es ist dabei
natürlich, dass an- fangs, wo die Personaltribus an das Domizil gebunden
war, dies in der Tribus geschah, in dessen Bezirk der Grund-
besitzer wohnte, mochte sein Grund])esitz oder Teile desselben auch in
den Bezirken andrer Tribus liegen. So allein, glaube ich, können die
Quellenstellen, die von agri censui censendo oder der Tribus von
Grundstücken sprechen, ausgelegt werden. (Festus,
epit. p. 58. Cic. pro Flacco). Dies ist das Verhältnis von tribus und
ager privatus, welches, wie Cic. pro Flacco 32, 79 beweist, stets so
geblieben. Auf dem Census beruht ferner die gesamte sog.
servianische Klasseneinteilung und Centurienverfassung. Da der Census
nach Tribus geschah, so folgt, dass zwischen Tribus- einteilung und der
Centurienverfassung ein Zusammenhang be- stehen muss. Für die sog.
reformierte Centurienverfassung, welche seit der Mitte des dritten
vorchristlichen Jahrhunderts bestand (vgl. Mommsen, Str. III, 280), steht
das Verhältnis ziemlich fest, schon seit Pantagathus (vgl. die neusten
Ab- weichungen Mommsens vom bekannten Schema Str.). Aber damit habe ich
mich nicht zu befassen. Auch für die ältere sog. servianische
Centurienverfassung ist ein Verhältnis zur Tribusordnung anzunehmen,
wenngleich nichts <lavon überliefert ist. Mommsen hat das
wahrscheinliche Ver- hältnis nachgewiesen (Trib. Str.). Sein
Resultat ist dies, dass das leitende Prinzip bei der Centuriation ^die
gleichmässige Verteilung der Tribulen einer jeden Tribus in sämtliche
Centurien, also die Zusammensetzung einer jeden Centurie aus gleich
vielen Tribulen aller Tribus" gewesen sei. Aber mehr als approximativ
hätte diese Gleichmässigkeit im besten Falle nicht sein können. Ganz so
wie Mommsen das Prinzip der Centuriation annimmt, kann es unmögUch
gegolten haben. Denn wenn eine jede Centurie aus gleich vielen
Tribulen aller Tribus zusammengesetzt worden wäre, so würde dadurch vorausgesetzt,
dass in jedem Tribusbezirk gleich viel Bürger einer jeden Censusklasse
gewohnt hätten, dass also alle Tribus an Kopfzahl und Vermögen sich
einander gleich gewesen wären, was, selbst approximativ, unmöglich der
Fall gewesen sein kann, wie Polyb. VI, 20 (s. unten die Inter-
pietation) beweist. Das Prinzip der gleichmässigen
Centuriation ist wohl nur auf die Angehörigen einer Tribus von gleichem
Census zu beziehen, sodass die in einer Tribus wohnenden Bürger mit
gleichem Census in die Centurien ihrer Censusklasse gleich- massig
verteilt wurden. Und selbst so eingeschränkt, kann das Prinzip keineswegs
als Gesetz gegolten haben, sondern ist vielfach, wie Mommsen sehr
wahrscheinlich macht (Str.), der Machtvollkommenheit der Censoren überlassen :
vielleicht sind auch noch andere Dinge bei der Centuriation berücksichtigt (s.
unten). Für die nicht klassischen Tribulen d. h. die Bürger, deren Census
den Satz der untersten Klasse nicht erreichte, kam die Centuriation
überhaupt nicht in Frage ; sie standen in einer Zusatzcenturie. Wenn sich
auch kein be- stimmtes Verhältnis zwischen der Tribusordnung und
der älteren Centurienverfassung nachweisen lässt, so müssen sie
doch in notwendigem Zusammenhang stehen ; es folgt die& eben schon
daraus, dass die Centurienordnung auf dem Census^ und dieser auf den
Tribus beruht. Direkt auf der Tribusordnung ruhten die
Tributcomitien, Sie waren diejenige Volksversammlung, in welcher
unmittelbar nach Tribus, Mann für Mann, viritim, ohne Rücksicht auf
Census oder Unterschied des Standes und der Stellung ab- gestimmt wurde
(Dionys VII, 59 Cic. de leg. III, 19 Liv. 39,^ 15 u. a.). Wir
haben das Wesen der Tribus dahin festgestellt, das» sie lediglich
einfache, lokale Bezirke sind, dass alle römischen Bürger, welche in dem
Bezirke einer Tribus wohnen, auch persönlich dieser Tribus angehören, und
zwar, um in derselben . ihre politischen Pflichten und Rechte auszuüben.
So können wir zur Erörterung der Tribusänderung des App. Claudius
übergehen. Wir gehen aus von der besten Überlieferung
Diodors. Wenngleich seine Angabe äusserst knapp ist und vielleicht
mehrfache Auslegung zulassen könnte, so glaube ich doch,, dass sie,
wortgetreu aufgefasst, klar, deutlich und wahr ist. Diodor sagt (XX, 36):
i^dioite rolg Tio/Ajai^ ij]v e^ovaiav otiol TiQoaiQolvTO xif.uaaal>ca
d. h. er gab den Bürgern die Erlaub- nis, sich schätzen zu lassen, wo d.
h. in welcher Tribus sie wollten. Mit Recht hat Dindorf die Worte, welche
in einigen Handschriften folgen: 'Acd iv unoia Tig ßov/.8Tai cpv/,fi
TccTzea- d^ai gestrichen, da sie dasselbe bedeuten wie die
vorhergehen- den. Wenn Siebert (App. Caudius S. 50) die Worte otiol
tt^^o- aiQolvTO TifojaaaS^ta auf die Klassen bezieht, während die
folgenden iv oTioia iig ßauXerat (fvXfi TaTTeoO^at nach seiner
'i!- Meinung die Tribus bezeichnen, so ist die Tautologie, die
in dem Zusatz läge, noch nicht aufgehoben, weil, wer in der Tribus
stand, auch nach dem Census in die Klassen aufge- nommen werden musste;
zudem widerspricht Sieberts Auslegung den Worten Diodors; denn er -giebt selbst
zu, das& der Census bei der Bestimmung der Klasse massgebend war
: die Bürger konnten sich also die Klasse nicht wählen {7i()oaL~
QohTo), sondern der Censor hatte sie nach dem Census in die bestimmte
Klasse zu setzen. Noch willkürlicher ist der Versuch Gerlachs
(„Griechischer Einfluss in Rom" Basel 1872. S. 36 ff. 40), die Worte
iv OTioirf rtg ßovkeTai (fvl^ Tcareoü^ca als echt zu erweisen.
Appius Claudius gab nach Diodors Worten den Bürgern die Erlaubnis,
sich in der Tribus, in welcher sie wollten^ schätzen zu lassen. Der Ton
liegt auf den Worten oTiot TiQOaiQoh'TO, und es folgt aus ihnen, dass vor
App. Claudius die Bürger sich nicht in jeder beliebigen Tribus schätzen
lassen durften, sondern, so fahren wir nach unseren obigen Erörte-
rungen fort, in der Tribus, in deren lokalem Bezirke sie wohnten. Es
stimmt dies so genau und klar zusammen, dass Diodors Worte nicht anders
ausgelegt werden können, wenn man ihnen nicht Gewalt anthun will. Diodor
bezieht die Ände- rung, die Appius Claudius mit den Tribus vornahm,
zunächst auf die Schätzung {jL^irfiaad^ai)', da aber auf dem
Census^. der eben nach den Tribus vorgenommen wurde, Steuer-^ Heer-
und Stimmordnung, wie wir sahen, beruhte, so musste das Edikt des App.
Claudius natürlich und notwendig auf alle diese Verhältnisse
zurückwirken. Die Änderung des App. Claudius bestand also darin, dass er
die Personal- tribus von dem Wohnsitz löste, dass er den Zwang be-
seitigte, nach welchem der römische Bürger für die Aus- übung seiner
politischen Pflichten und Rechte an den Bezirk seines Wohnortes geknüpft
war; an Stelle des früheren Domizilzwangs für die Ausübung der
Bürgerpflichten und Bürgerrechte setzte App. Claudius also die
Freizügigkeit. Absoluter Domizilzwang hat wohl nie bestanden, obwohl
dies Dionys vom König Servius einführen lässt (IV, 14); also ist
wohl auch Tribuswechsel gestattet gewesen: aber vor Appius <^laudius
konnte letzterer nur die Folge des ersteren sein, nur wer sein Domizil in
einen andern Tribusbezirk verlegte, erhielt auch personal diese andere
Tribus und kam in ihr seinen politischen Obliegenheiten nach. Seit der
Censur des App. Claudius konnte jeder Bürger in jeder beliebigen
Tribus sich schätzen lassen und seinen politischen Pflichten und
Rechten nachkommen, jeder im Bezirk einer städtischen Tribus wohnende
Bürger in jeder beliebigen städtischen und länd- lichen und
umgekehrt. Den Zweck, welchen App. Claudius mit seinem Edikte
verfolgte, seine Wirkung und Bedeutung werden wir, soweit und was sich
darüber festsetzen lässt, unten erörtern; sehen war zunächst, w^as die
anderen Berichte über die Tribusände- rung des App. Claudius sagen.
Livius übergeht in dem Jahre, in welches er die Censur <les App.
Claudius setzt, die Tribusänderung desselben vöUig. Ohne Bedenken kann
man annehmen, dass seine Quelle, der «r an dieser Stelle folgt,
gleichfalls davon schwieg. Und es scheint dies bei dem Standpunkt, den
die Quellen des Livius dem App. Claudius und überhaupt der gens Appia
gegenüber einnehmen, nicht wunderbar. In anderm Zusammenhang haben
wir bereits erwähnt, dass der gens Claudia in der späteren römischen
Annalistik eine merkwürdige, durchweg erkennbare Rolle angedichtet ist:
alle Appii Claudii werden seit Livius und besonders von ihm als
ultraconservative Vertreter des Adelsregimentes dargestellt. Nach
demselben Schema ist auch unser Censor geschildert (9, 34). Es hätte nun
die Massregel der Tribusänderung, welche, wie wir noch genauer
betrachten -werden, durchaus demagogisch ist, mit dem politischen
Charakter, den die spätere Annalistik dem App. Claudius beilegt,
keineswegs übereingestimmt: so überging man dieselbe eben. Zu einem
späteren Jahre jedoch, dem Jahre der Adilität des €n. Flavius (304),
berührt Livius kurz die Tribusänderung des App. Claudius, und es ist
höchst wahrscheinlich, dass er an dieser Stelle (9, 4G von ceterum bis
Schluss) aus einer andern, und zwar bessern, Quelle geschöpft hat. Er
berichtet nämlich in diesem Kapitel (9, 46) zunächst die Wahl des
Cn. Flavius zum Ädilen, alsdann dessen Amtsführung und kehrt schliesslich
mit ceterum wieder zur Wahl zurück, um noch neues Detail über dieselbe
beizubringen. Es ist dies offenbar ein Compositionsfehler, der sich am
besten so erklärt,. dass man annimmt, Livius habe nach Abschluss seiner
Er- zählung in einer neuen Quellle andere Angaben gefunden über die
Wahl des Cn. Flavius, die er nun anhangsweise bei- fügte (cf. Seeck,
Kalendertafel der Pontifices). Dass diese Quelle eine bessere ist als
die, welcher Livius sonst über App. Claudius folgt, geht daraus hervor,
dass er die Massregeln des App. Claudius erwähnt, welche als dema-
gogische dem ihm sonst von Livius beigelegten politischen Charakter
widersprechen, und das Demagogische derselben sogar ohne Hehl
ausdrückt. Es heisst bei Livius a. a. 0.: Ceterum Flavium
dixerat aedilem forensis factio Appii Claudii censura vires nacta,
qui senatum primus libertinorum filiis lectis inquinaverat et postea-
quam eam lectionem nemo ratam habuit nee in curia adeptus erat quas
petierat opes urbanas humilibus per omnes tribus divisis forum et campum
corrupit. Den Gedanken, dass App. Claudius, weil er nach dem Scheitern
seiner senatus lectio nicht die erstrebten opes urbanas erreicht hatte,
dies nun durch seine Tribusänderung bezweckt habe, werfen wir weg: es
ist offenbar eine causale Verbindung der beiden Massregeln, die
Livius selbst hergestellt hat, und die aus der allgemeinen Auffassung des
Livius von dem politischen Streben des App. Claudius geflossen ist. Nach
Livius besteht die Tribusände- rung des App. Claudius darin, dass
derselbe die humiles über alle Tribus verbreitet habe und so die
Tributcomitien (forum) und die Centuriatcomitien (campum sc. Martium)
verschlechtert, heruntergebracht habe. Unter humiles
versteht Livius nie eine bestimmte Bürger- klasse, es ist bei ihm nur der
Gegensatz von nobilis, potens opuleritus, bedeutet also im allgemeinen niedrig,
an Geburt, Stand oder Macht und Vermögen (cf. Siebert). Zuweilen
versteht Livius darunter auch die ärmeren Plebejer. Und ein solcher allgemeiner
Begriff, den Livius stets mit humilis verbindet und daher sicher
auch hier, passt vortrefflich zu unserer Auffassung von des App.
Claudius Tribusänderung. Es ist naturgemäss anzunehmen, dass die
Bewohner der Stadt Rom dichter zusammenwohnten als die des
umliegenden flachen Landes, ferner dass die Stadtbewohner zum
grössten Teil zu den mittleren und unteren Volksschichten gehörten,
seien es Kaufleute, Handwerker oder ein sonstiges städtisches \ Gewerbe
Treibende. Zu den Reichen werden die Stadtbe- i wohner in ihrer grossen
Masse nicht zählen können, zumal in ältester Zeit nicht, wo der
Grundbesitz der alleinige Reich- tum war. Dabei ist nicht ausgeschlossen,
dass reiche Grund- besitzer in der Stadt wohnten und umgekehrt
Nichtgrund- besitzer auf dem Lande, wie für die spätere Zeit der
Repu- blik es vielfach bezeugt ist, dass Grundbesitzer in der Stadt
wohnten (s. unten). Ihrer grossen ]\Iasse nach waren aber die Städter
einmal dichter zusammengedrängt und dann ärmer als die Masse der
Landbewohner. Zur Ausübung ihrer poli- tischen Pflichten und Rechte waren
sie nun an die Tribus ihres Wohnplatzes gebunden, und es ist nicht
zweifelhaft, dass sie in diesem d. h. ni den tribus urbanae von
jeher das Übergewicht gehabt haben. Aber es standen den städ-
tischen Tribus von jeher eine grössere Anzahl ländlicher gegenüber, in
denen ohne Zweifel die Reicheren und Reichsten die Überzahl ausmachten.
Zur Zeit des App. Clau- dius standen 21 ländliche gegen die 4 städtischen
Tribus. Vermöge der Überzahl der Bezirke der ländlichen Tribulen
hatte diese also stets, vor allem in den Tributcomitien, die Oberhand,
während das Stimmrecht der ärmeren und ärmsten Tribulen, die in der Stadt
zusammengedrängt waren, ziemlich illusorisch war, da nur die Abstimmung
der 4 tribus urbanae precLde Macht in den Comitien m we chen d-
Kopfzahl entschied, zu erlangen, sich über d.e l^^^^f ^ Jj \^ ;;;„
breiteten und so vern,öge ihrer Masse '" -«1^ "/ J" „meisten
ländlichen Tribus das Übergewicht -lang -Und dies sagt ia eben Livius mit
nicht misszuverstehenden Worten (ipp C humilibus per on,nes tribus
divisis forun, corrup.t . Ltht so leicht erklärbar ist der Zusatz des
Livius, dass durch JSicht so leiciii. Stimmrecht in den
Centuriatcomitien diese Massregel auch das Stimmrecht m ae
verschlechtert sei (eampum sc. Martmm corrupit). Denn de Erklärung
Clasons, -'»^r campus se. d^ u. .eine ländliche Tribus, unter forum d.e
S;-";-J '^;;. comitien zu verstehen, wird doch schon aus dern g'-f
J^^J fällig weil darin eine Tautologie läge, mdem das Ubei gewicht
Tln gesamten Tributcomitien dasjenige - /-.-f"/;^ Tribusbezirken voraussetzt.
Wenn bei der Centunafon das Szt dir gleichmässigen Verteilung der
TrlbtUen em. jeden Tribus auf alle Centurien Gesetz gewesen wäre, so
hatten schon n; Claudius die hunüles auf die Centurien der d.em^.us
entsprechenden Klasse gleichmässig verteil --d- ^^Tg Aber dass dem nicht
so gewesen ist, wird d-h die Wnkun des appianischen Ediktes bewiesen.
Liyius sagt, dass durch die Verteilung der humiles auf alle Tribus auch
das Stimm thl il den Lturiatcomitien verschlechtert worden sei ;
als gewannen die humiles, indem sie sich auf alle T"bus zer
Eeuten, auch mehr Geltung in den C-turi^-—,. je mehr Tribus sie -;^
VklTsiorl^Tu: aTf t langten sie auch von da aus. Ls kann sicn
u letzte höchstens vorletzte Censusklasse beziehen, da de dltber
Stehenden wohl nicht mehr zu den humiles gezahlt werden können. So
liegt hier das Verhältnis zwisciien Tribus und Cen- turien; aber wie es
zu erklären ist, ist mir unmöglich zu finden. Die ]\[achtvollkommenheit
der Censoren, die dies zu regeln hatte, genügt auf keinen Fall zur
Erklärung (vgl. Mommsen, Str.). Sei ihm, wie es wolle, wir dürfen
dem Livius glauben, dass die Wirkung des appianischen Ediktes sich nichi
bloss auf die Tribut-, sondern auch auf die Centuriatcomitien geäussert
hat. Aber damit hören auch unsere Nachrichten über die
Wirkung des Ediktes auf. Ob es und welchen Einfluss es auf Steuererhebung
und Aushebung geübt hat, ist kaum zu er- mitteln. Die Zahl der Steuer-
und aushebungspÜichtigen Bürger wurde durch dasselbe nicht vergrössert,
sondern es trat durch die Massregel nur eine andere Verteilung der
Tribulen über die Tribus ein. Also trat wohl eine Veränderung der
Tribulen- anzahl in den meisten Tribus ein, indem sich viele Bürger
nicht in ihrer Heimattribus sondern in einer andern schätzen Hessen; aber
das Gesamtresultat der Aushebung und Steuer- erhebung musste, da die Zahl
der zu beiden Verpflichteten nicht vermehrt wurde, füglich dasselbe
bleiben. Das Edikt hatte wesentlich nur die oben ausgeführte, von Livius
über- lieferte politische Wirkung, dass es durch die Freistellung der
Tribuswahl das Stimmrecht der humiles verbesserte. Und wenn hierin der
hauptsächlichste, wenn nicht ehizige, Zweck des Censors selbst beim
Erlassen des Ediktes bestanden hat, so stimmt dies vortrefflich mit
seinem gesamten politischen Charakter. Er war Neuerer und Demagog,
begünstigte die niederen Volksschichten und besonders die städtische
Be- völkerung. Ohne Zweifel ist der
Samniterkrieg, der ja unter der Censur des App. Claudius geführt wurde,
auf die demokratische Massregel von Einfluss gewesen. Die W^ehr-
kraft des römischen Volkes musste in diesen Jahren aufs höchste gespannt
werden, und da die unteren Schichten die meisten Krieger stellten, so war
es zeitgemäss, wenn unser volksfreundlicher Censor deren politischen
Rechte förderte. Die Tribusänderung des App. Claudius ist sehr
wohl denkbar mit der alleinigen Wirkung auf die Comitien, be-
sonders die Tributcomitien. Alles, was sonst von neueren Gelehrten über
die Wirkung der appianischen Massregel auf Steuerordnung und Aushebung aufgestellt
ist, ist unbeglaubigt; besonders gilt dies von Mommsens Ausführungen, die
aller- dings consequent mit seiner Ansicht über das ursprüngliche
Wesen der Tribus und die Tribusänderung- des App. Clau- dius
zusammenhängen. Anfangs steuerten nach Mommsen die Tribulen d. h. die
Grundbesitzer nur vom Grundbesitz, während die Ararier von jeher vom
ganzen Vermögen steuerten. Bald aber ward auch für die Tribulen aus der
Grund- steuer eine Vermögenssteuer. Und hieran consequent an-
knüpfend, verband App. Claudius die persönliche Tribus statt mit dem
Grundbesitz mit dem Vermögensbesitz schlecht- hin oder vielmehr mit dem
Bürgerrecht, indem er die Ararier in die Tribus aufnahm, sie also den
Tribulen gleichstellte (Str. II, 375). In Folge des Ediktes, dass sich
jeder Bürger, in welcher Tribus er wolle, schätzen lassen dürfe,
konnte^ während früher nur der Ansässige in der Tribus seines
Grund- besitzes gestanden hatte, jetzt sowohl der Ansässige in eine
andere als auch der Nichtansässige, der bisher ausserhalb der Tribus
gestanden hatte, in jede beliebige Tribus eintreten. Die natürliche
Wirkung des Erlasses sei die gewesen, dass sich die besitzlose, in Rom
zusammengedrängte Menge über alle Tribus verteilt habe (Rom. Trib.) : es habe sich diese Wirkung geäussert auf Stimm-, Heer-
und Steuerordnung, in Bezug auf die erstere sowohl in den Tribut- als den
Cen- turiatcomitien. Für die Tributcomitien sei es klar, ebenso für
die (Centuriatcomitien, da jeder, der in die Tribus neu aufgenommen
werde, auch in die Centurien gelangen müsse je nach dem Census. (Rom.
Trib. Str.). Da nun die Centurien sowohl dem Zwecke der Abstimmung
als dem des lleerdienstes dienten, so hätten die Nichtansässigen
seit App. Claudius auch ihre Stellung in der Wehrordnung. Nur sei das
letztere an einen Minimalsatz von Vermögen ge- knüpft. Dieses, das
ursprünglich, wie alle Censussätze, in Bodenmass ausgedrückt sei, könne in
der Epoche des App. Claudius nur in schweren Ass angesetzt sein, grade
wie die gesamten Censussätze (40,000, 30,000, 20,000, 10,000, 4400 Ass,
letzteres der Miniraalsatz. Str) In Bezug auf die Steuerordnung sei
durch die Censur des Appius der Vermögensbesitz schlechthin auch für
die Tribulen d. h. die Grundbesitzer als Objekt der Besteuerung
festgesetzt worden (Str. III. 249). Grade dieser Punkt ist 1^ geeignet,
um mit der Kritik der Mommsenschen Ansicht ein- zusetzen. Mommsen macht
nämlich selbst den Zusatz, dass die Censur des App. Claudius nicht wohl
denkbar sei, wenn nicht damals schon das Tributum allgemein zur
Ver- mögenssteuer geworden wäre, d. h. wenn nicht damals schon auch
die grundsässigen Leute vom ganzen Vermögen gesteuert hätten (Str. II,
363 A. 4). Appius Claudius habe nur die Consequenz daraus gezogen, indem
er die Ärarier auch an Rechten den Tribulen gleichstellte. Mommsen
erkennt also an, dass der faktische Gegensatz, der nach seiner
Ansicht zwischen Ärariern und Tribulen bestand, dass jene vom
ganzen Vermögen steuerten, diese nur vom Grundbesitz und also die
bessere Steuerklasse waren, schon vor der Censur des Appius Claudius
aufgehoben sei. Mindestens müsste man doch beides als gleichzeitig
ansetzen; denn die Gleichstellung in den Pflichten gegenüber dem Staate
hätte doch naturgemäss die Gleichstellung in den Rechten zur notwendigen
und sofortigen Folge gehabt. Aber überiiaupt steht
diese Ansicht von der Tribusände- rung des App. Claudius auf schwachen
Füssen. Wie ge- zwungen ist zunächst die Interpretation der
Quellenstellen, wenn man sie in Mommsens Sinne auflassen will. Sagt
denn Diodor oder Livius ein Wort oder liegt in ihren Notizen auch
nur eine Andeutung, dass die Massregel des App. Claudius in der
Neuaufnahme von Nichttribulen bestanden hätten? Vv'arum hätten diese
Schriftsteller, wenn sie die appianische Massregel so aufFassten, wie
Mommsen meint, nicht deutlich gesagt, dass App. Claudius viele bisherige
Nichttribulen in <lie Tribus aufnahm und dann allen Tribulen das Recht
gab, «ich in einer beliebigen Tribus schätzen zu lassen? Diodor und
Livius selbst können also die Massregel unmöglich in Mommsens Sinne
gefasst haben, denn sonst hätten sie ja, müsste man annehmen, das
Wesentliche derselben, die Neu- aufnahme bisheriger Nichttribulen, nicht
gesagt. Nein! Beide sprechen nur von einer anderen Verteilung der Tribulen.
Es hängt diese Ansicht Mommsens, die von vielen Seiten, nur hier und da
mit nebensächlichen Abweichungen vertreten wird (Niebuhr R. G. I, 477,
ITI, 346 f. 349 — 52. Alterth. 70, 98, ist darin Mommsens Vorgänger, hat
die Ansicht nur nicht im einzelnen so genau ausgeführt. Herzog,
Gesch. und System I, 269 fl*. Ihne, Rom. Gesch. I, 366 fl*. u. a.)
eng zusammen mit seiner Auflassung vom ursprünglichen Wesen der
Tribusordnung, die wir oben widerlegt zu haben glauben. Wie
unwahrscheinlich ist es, um den oben ausgeführten Grün- den noch eine
hierhin gehörende Erwägung vom historischen Standpunkt aus hinzuzufügen,
dass eine ganze Bevölkerungs- klasse mit einem Male in die Rechte der
Vollbürger eingesetzt sei. Denn es umfassten
doch nach Mommsen die Ararier d. h. die Nichtgrundbesitzer die ganze
gewerbetreibende und die „ganze in Rom zusammengedrängte besitzlose
Menge" (R. Trib. 153), deren Gesamtzahl doch sehr gross gewesen
sein muss, da sie durch die Verteilung auf alle Tribus in der
Mehrzahl der Tribus die Majorität erlangt hat, sodass sie z. B. die noch
nicht dagewesene Wahl eines Libertinensohnes zum Curulaedilen durchsetzen
konnte. Diese Nichtgrund- besitzer müssen demnach nach Mommsen, da doch
Centuriat- und Tributcomitien den populus („die patriizisch -
plebejische Bürgerschaft") ausmachen, bis auf App. Claudius aus
dem Begrifl* des populus ausgeschieden werden. Die ganze grosse
Bevölkerungsklasse der Nichtansässigen lebte also Jahrhunderte lang bis
zum Jahre 310 v. Chr. ohne jede Teilnahme an den politischen Rechten der
Bürger lediglich als Steuerzahler. Und nirgends wird von einem Versuche
dieser grossen Be- ^ölkerungsklasse, sich die politischen
Vollbürgerrechte zu erringen, berichtet, wie es doch die plebs gethan hat. Erst
da& Machtedikt eines Schatzungsbeamten setzte sie in die Voll-
bürgerrechte ein. Ziehen wir hinzu, dass nirgends in unser» Quellen weder
von einer ursprünglichen Ausschliessung der Nichtgrundbesitzer aus den
Tribus, d. h. den VoUbürgerrechten^ noch von einer Neu aufnähme derselben
durch Appius Clau- dius auch nur eine Andeutung gemacht wird, so kann
man wohl das gesamte System Mommsens als hinfällig bezeichnen,
zumal wenn dessen Consequenzen, wie wir bei der Erörterung, der Censur
des Fabius darthun werden, bestimmten, von Quellen ersten Ranges
überlieferten Thatsachen widersprechen. Ausser Diodor imd Livius erwähnen
noch einige alte Autoren die Tribusänderung des App. Claudius:
Plutarch,. Popl. 7. Val. Max. II, 2, 9. Valerius Maximus hat, wie
man auf den ersten BHck erkennt, aus Livius geschöpft und kann, da er
nichts neues beibringt, übergangen werden. Plu- tarch sagt a. a. O. :
(Ova/Joio^) rov Orndlxior t.iJ>}](pioc(ro ngviTOv tmekevd^eimv
ty,elr<n' tv 'Piöur yeviO&ai TToUxr.v xal (fl^etv ifjijffov I]
ijOv'/MiTO (f>(ita()iH :TO(K;rfiit;0ivTa. Tol^; dt aklot^
ccTislecdiooii; oipf- y.ca uem riolvv yomov tiovoiav Diese Stelle
ist der Ausgangspunkt für die von manchen Neueren, in einigen
Variationen, vertretene Ansicht, dass die Massregel des App. Claudius
sich lediglich auf die Frei- gelassenen bezogen habe, indem man meint,
der präciseren Angabe Plutarchs über die vom appianischen Edikt
Betroffenen vor den ungenaueren des Diodor und Livius den Vorzug geben
zu dürfen. Madvig lässt die Freigelassenen mit der übrigen
besitz- losen hauptstädtischen Einwohnermasse von Anfang an auf die
4 tribus urbanae beschränkt sein (Verf. u. Verw. 1, 202 f.),. während die
übrigen Bürger je nach der Lage ihres Grund- besitzes in die Tribus eingezeichnet
wären. In den städtischen Tribus hätten die Libertinen seit Ser- vius
Tullius, wie Dionys überliefere, das Stimm recht gehabt. Zwar sei diese Beschränkung: in und wieder durchbrochen, aber immer
wieder zur Geltung gekommen und habe bestanden, so lange es Volksversamm-
lungen gegeben habe. Die erste Aufhebung dieser Beschrän- kung sei eben
das Edikt des App. Claudius, welches den Freigelassenen den Zutritt zu
allen Tribus gestattet habe. Siebert fasst den Begrift der Leute,
auf welche sich das Edikt des App. Claudius bezogen habe, noch enger.
Er meint, es seien davon nur die grundsässigen Libertinen
betroifen; das Prinzip der Ansässigkeit für die ländlichen Tribus
habe der Censor nicht aufgehoben, sondern nur die grundsässigen
Libertinen den ingenui gleichgestellt, indem er sie und ihre ISöhne,
welche beide mit den nichtansässigen Freigelassenen und nichtansässigen
Freigebornen bisher auf die städtischen Tribus eingeschränkt waren (S. 23
ff.), in die ländlichen Tribus aufnahm, und zwar in diejenige, in welcher
sie ansässig waren ; in Folge dessen habe er sie auch in die Klassen und
Cen- turien aufgenommen, während sie vorher von diesen ausge-
schlossen waren und in der letzten Zusatzcenturie gestimmt hatten. In
diesem Sinne interpretiert Siebert in äusserst gezwungener Weise die Angaben
aller Autoren über App. -Claudius (l. c. S. 50 ff.). Ausgehend von der
Auffassung ;Niebuhrs über den politischen Charakter des App.
Claudius als eines streng patrizischen Politikers bringt nun Siebert die
Tribusändrung in der Weise mit den angeblich patrizischen Tendenzen in
Einklang, dass er annimmt, App. Claudius habe die Libertinen begünstigt,
um sich auf sie gegen die plebejische Nobilität und die Coalitionspartei,
deren Ziel die Verbindung er patrizischen und plebejischen Nobilität
gewesen sei, zu stützen. Nach Lange sind unter den
humiles, welche das Edikt <les Censors betraf, sowohl die
nichtansässigen Freigeborenen als die gesamten Freigelassenen, einerlei
ob ansässig oder nicht, zu verstehen. Diese habe App. Claudius, wenn sie
es wünschten, in die Tribus des Landes eingezeichnet. Das Prinzip
der Grundsässigkeit sei also für die Tribus aufgehoben nicht aber für die
discriptio classium et centuriarum. Diese sei von App. Claudius' Edikt
nur insofern berührt, als die^ ansässigen Freigelassenen auch in die
Klassen und Cen- turien gelangt seien (Lange, Altert.). Soltau,
nach dessen Ansicht das Prinzip der Grundsässigkeit zur Zeit der
Decemvirn durchbrochen ist (Entstehung u. Zusammensetzung der altröm.
Volksversammlungen S. 477 ff.) lässt den App. Claudius nur die Libertinen
in die Tribus aufnehmen (a. a, O. 404 ff. 606). Diesen
Ansichten gegenüber muss zunächst die Frage aufgeworfen werden, ob der
einzige Plutarch, der für gewöhn- lich seine Nachrichten über römische
Geschichte aus späten» Quellen schöpft, das Gewicht hätte, dem Diodor und
Livius vorgezogen zu werden. Letztere können nämlich sicher nicht
die Tribusändrung des App. Claudius allein auf die Frei- gelassenen
bezogen haben. Denn es wäre doch wahrlich wunderbar, wenn sie diese
allein als vom appianischen Edikt betroffen angenommen hätten und sich
dabei so unbestimmt ausgedrückt hätten (Diodor: ol Tiollxm. Liv.
humiles), während sie doch bei der senatus lectio des Censors die von
Appius in den Senat Aufgenommenen ganz bestimmt als Libertinen -
söhne bezeichnen. Aber sagt denn Plutarch wirklich, das& sich die
Tribusändrung des Censors allein auf die Freigelassenen, bezogen habe?
Vindicius, so berichtet er, erhielt zur Be- lohnung von Valerius
Poplicola das Bürgerrecht und die Erlaubnis, sich eine Tribus, welcher er
angehören wolle, zu wählen ; daran knüpft er die Bemerkung : col^ (U
ttlloi^ dne- ^evd^'ciioig e^ovoiar ffi/^ipou ör^(.it(yioytov vöioi^e
^'ATiTTiot^, Das kaim doch nicht heissen, dass App. Claudius den
Freigelassenen^ das Bürgerrecht gegeben habe, da dies doch noch mehr
als das Stimmrecht umfasst, sondern es bezieht sich auf das, was-
Plutarch vom Stimmrecht des Vindicius gesagt hat; Plutarch meint also
ohne Zweifel, dass App. Claudius den Libertinen dasselbe Stimmrecht
gegeben habe, wie Valerius dem Vin- dicius, d. h. das Recht, die Stimme
in der Tribus, in welchei?. sie wollen, abzugeben. Und so gefasst
enthalten die Worte Plutarchs offenbar Wahrheit. Denn dass die
Freigelassenen zum grössten Teile von städtischem Gewerbe lebten und
unter den humiles urbam eine grosse, wenn nicht die grösste, Anzahl
ausmachten, ist an sich schon wahrscheinlicli und folgt auch daraus, dass
eme der wichtigsten Wirkungen der appianischen Tribusänderung die
Wahl eines Libertinensoimes zur curulischen Aeddität gewesen ist (s.
unten), dass also die vom appianischen Edikt Betroffenen vom
libertinischen Element dominiert wurden. Aber allein können die
Freigelassenen nicht diejenigen gewesen sein, auf welche sich das Edikt
bezog. Das sagt kein Schriftsteller, selbst Plutarch nicht, und es wird
be- sonders dadurch bewiesen, dass erst im 6. Jahrhundert der Stadt
ein rechtlicher Unterschied zwischen libertini und ingenui festgesetzt
wurde, indem um das Jahr 220 v. Chr. die liberum auf die 4 tribus urbanae
beschränkt wurden (Liv. Ep. 20. cf. Mommsen, Str. III, 436 ff Madvig,
Verf. und Verw. I, 203 f.). Auch Mommsen lässt die Freigelassenen nur
einen Teil derer sein, auf welche sich die Massregel des App.
Claudius bezog, und zwar hätten sie unter den Bürgern, denen sie
vor allem zum Vorteil gereichte, an Zahl besonders hervorgeragt.
Die Libertinen, meint er (R. Trib., Str.), hätten unter den nicht
grundsässigen ohne Zweifel die erste Stelle eingenommen, weil es ihnen
bei „der noch ungebrochenen Erbgutsqualität ^ unmöglich, wenngleich nicht
verboten, ge- wesen sei, Grundbesitz zu erwerben. Deshalb hätte die
That des Appius, die Aufhebung des Prinzipes der Grundsässigkeit
für die Personaltribus, allenfalls als Verleihung des Stimm- rechtes an
die Freigelassenen bezeichnet werden können, wie es Plutarch thue. Es
hängt diese Ansicht, wie man sieht, eng mit der allgemeinen Auffassung
Mommsens von der Tribus- ändrung des App. Claudius zusammen.
Recapitulieren wir kurz unsere Resultate: Die Tribus- ändrung war
eine lokale Distriktseinteilung, sie war von Haus aus dazu bestimmt, eine
politische Volkseinteilujig zu sein, d. h. sie hatte den Zweck, dass die
Bürger nach ihr geordnet ihre Ptlichten und Rechte gegenüber dem Staate
erfüllten. Sie umfasste daher die gesamte Bürgerschaft (mit
P]inschluss der Freigelassenen): die Tribus in personaler Beziehung
be- zeichnete also das Bürgerrecht schlechtliin. Der Bürger war in
Bezug auf die Ausübung der Rechte, welche ihm die Tribus gewährte, an die
Tribus seines Wohnortes gebunden. Diesen Domizilszwang für die
Tribusordnung hob App. Claudius auf. Es hatte dies die natürliche
Wirkung, dass sich die in der Stadt zusammengedrängte Masse der niedrigen
Volksschichten über alle Tribus verbreiteten, um einen ihrer Kopfzahl
ent- sprechenden Einfluss in den einzelnen Tribus zu gewinnen; sie
erhielten so' in den Tributcomitien die Oberhand und auch in den
Centuriatcomitien gewannen sie grössere Geltung. Es haben sich
Spuren in der Überlieferung erhalten, dass die humiles von ihrem neuen
Rechte, in jede beliebige Tribus eintreten zu dürfen, ausgiebig und
leidenschaftlich Gebrauch gemacht haben, vielleicht dass sie sich planmässig
über die einzelnen Tribusbezirke verteilt haben, um in möglichst
vielen oder allen Tribus vermöge ihrer Kopfzald — und diese muss
gross gewesen sein die Majorität zu erlangen. Livius sagt: ex eo tempore (vgl.
Weissenborn z. d. St.: seit der Censur des Appius Claudius) in duas
partes discessit civitas: aliud integer populus fautor et cultor bonorum,
aliud forensis factio tenebat, doncc etc. ; es sind hier unter der
forensis factio die Leiter der Bewegung zu verstehen, welche bezweckte,
auf Grund der appianischen Tribusänderung die humiles möglichst
planmässig über die Tribus zu verteilen, um ihnen in den meisten Tribus
die Majorität zu verschaffen, während der integer populus diejenigen
bezeichnet, welchen nichts daran lag oder liegen wollte, dass die humiles
so in ihren Rechten gefördert wurden, und welche sich daher an der
Bewegung nicht beteiligten. Die humiles, zu deren Nutzen A.pp. Claudius
sein Edikt der Tribusändrung erlassen hat, scheinen also ihr neues Recht
energisch benutzt zu haben. Einen grossen Erfolg erreichten sie
sechs Jahre nach dem Erlass des Ediktes: sie setzten nämlich in den
Tributcomitien ciie Wahl eines Libertinensohnes, des Cn. Flavius, zum
curu- lischen Aedilen durch. Dass diese Wahl mit der Censur des
App. Claudius zusammenhängt, ist sicher bezeugt (s. unten). Diodor
sagt a. a. O.: o di- drjuo^ TOthoig f-dv dvTi7TQdTT0)v (d. i. rolg
iTiKpaveOTcnoig) t(;7 di- ^Atttiui) o i luf i /.OTijiiObuerog y.a) t/]v tlov
dtoyerolr TFQOayioyj]}' ßsßcatoaai ßoch^ievog^ dyn^aroiwr eilezo ^rjg
tTiKfarearFnag ccyooavoiiiag vlor uTte/.rvd^H^no FvaTov 0l(xßiov etc. ;
und Livius : ceterum Flavium dixerat aedilem forensis factio App. Claudii
censura vires nacta. Die Nobilität hatte zwar sogleich im folgenden Jahr
nach der Abdankung des App. Claudius (d. i. im J. 307) neue
Censoren, M. Valerius und C. Junius, gewähl t, offenbar so schnell, um
die Tribusändrung des App. Claudius rückgängig zu machen. Aber diese
erreichten nichts, wir wissen nicht, warum. Kach sehr kurzem Lustrum,
drei Jahren, wählten sie nun zwei Männer zu Censoren, welche schon als
Consuln d. J. 308 energisch gegen eine Neuerung des App. Claudius
vor- gegangen waren, den Q. Fabius und P. Decius. Diesen gelang es auch, die Tribusändrung des App. Clau- dius
umzustossen. Über die Censur des Q. Fabius und P. Decius ist
allein der Bericht des Livius (IX, 46) von Wert. Wir haben er-
örtert, dass der Abschnitt, in welchem Livius hiervon berichtet (IX, 46
von ceterum bis Schluss), aus einer andern und besseren Quelle geschöpft
ist. Valerius Maximus (II, 2, 9) kann, weil er den Livius benutzt hat und
nichts neues bei- bringt, bei Seite gelassen werden ; ganz wertlos ist
wegen ihrer Nachlässigkeit die Angabe des Auetor de viris illustribus
32: censor libertinos tribubus amovit. Es heisst bei Livius
a. a. O. : Fabius simul concordiae causa simul, ne humillimorum in manu
comitia essent, omnem forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit
urbanas- que eas appellavit; adeoque eam rem acceptam gratis animis
ferunt, ut Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac ordinum
temperatione pareret. Dieser Bericht wird von den Forschern je nach
ihrem verschiedenen Standpunkt, den sie der Massregel des App^
Claudius gegenüber einnehmen, ausgelegt. Mommsen nimmt an, dass Fabius
für die seitdem sogenannten ländliclien Tribu» den Zustand wieder
eingeführt habe, der vor Appius war, d. h. dass für sie ländlicher
Grundbesitz wieder das Requisit wurde. Die vier städtischen dagegen, in
deren lokalem Be- reich die forensis turba domiziliert war, habe er den
nicht ansässigen Bürgern überlassen und habe sie, die nicht minder
ländliche gewesen waren, deshalb die städtisclien genannt. (R. Trib.
154.) Von Ansässigen seien vermutlich mir die nicht zahlreichen
Hausbesitzer ohne Landbesitz in den städti- schen Tribus geblieben (Str.
III, 186). Dass so in den Tribut-^ comitien das Übergewicht der
ansässigen Bürger w^ieder her- gestellt wurde, sei klar; und dafür, dass
die Nichtansässigen sich nicht aus den vier städtischen Tribus über alle
Centurien verbreiteten, habe die Machtvollkommenheit der Censoren sorgen
müssen. (R. Trib. 155. Str. III, 184 f. 269 f.).
Es steht und fällt diese Ansicht mit der Auffassung vom Wesen der
Tribus und der Änderung, die App. Claudius damit vornahm. Aber gerade an
dieser Stelle erheben sich noch einige gewichtige Bedenken, welche das
ganze Mommsensche System treffen. Mommsen meint, dass in den
städtischen Tribus nur Nichtansässige und höchstens w^enige städtische
Hausbesitzer, also zumeist die ärmeren und ärmsten Bürger, ständen.
Es müssen aber in ihnen Bürger aller Censusklassen gestanden haben.
Das geht deutlich aus dem Ausliebungsbericht des Polybius hervor. Von der
Aushebung sind nach Polybius überhaupt au.sgeschlossen die Libertinen und
alle, deren Census 4000 Ass nicht erreichte. Nach dem Berichte des
Polybius werden nun die einzelnen Tribus nach dem Loose vorgerufen imd
dann für 4 Legionen je 4 und 4 ausgewählt. Da die Dienstpflicht und die
Ausrüstung sich nach dem Census abstufte, so muss innerhalb der einzelnen
Tribus die Aushebung nach den Censusklassen stattgefunden haben. Also
müssen doch alle Censusklassen in allen Tribus vertreten sein, also
auch in den städtischen (vgl. Niese, Göttinger gelehrte Anzeigen).
Auch in den städtischen Tribus müssen demnach die höchsten
Censusklassen vertreten gewesen sein. Für die spätere Zeit ist dies
wirklich nachgewiesen. Senatoren erscheinen mehrfach in städtischen
Tribus: Ein Aemilier (C. J. L.), ein Manlier (C. J. L.), ein Nummier (C.
J. L.) in der Palatina, ein Sestius (Bull, de corr. Hellen.), ein
Coponius (Josephus, Archäol.), ein Matius^ (C. J. L.), welches sämtlich
Senatoren sind (vgL Mommsen Str. III, 788 f. Niese, Gott. Gel. Anz. a. a.
O.). Mommsen übersieht dies freilich nicht, er weiss es auch zu
erklären: In der späteren Zeit, so sagt er, sei die Bedeutung^ der Tribus
ganz anders geworden, und zwar seit dem Sozial- krieg ; sie habe seitdem
eine persönliche und vom Grundbesitz unabhängige, nur die origo d. h. die
Heimatsberechtigung in einer Vollbürgergemeinde ausdrückende
Rechtsqualität be- zeichnet. Auch auf Rom selbst sei diese neue
Bedeutung^ übertragen; und als dies geschehen sei, da hätte sich
ein jeder seine Tribus wählen können oder seine frühere behalten
können. So seien die genannten Patrizier in die städtischen gelangt: und
die altadligen Manlier und AemiHer hätten füg- lich ihrem Adelstolz durch
die Wahl der Tribus des könig- lichen Rom Ausdruck geben wollen (Str.
III, 789). Die Un- wahrscheinlichkeit steht dieser Erklärung an der
Stirn geschrieben. Wozu nimmt man eine solche Wandlung in der
Bedeutung der Tribus an, die so künstlich erklärt werden muss, und die zu
dem ganz und gar unbezeugt ist. Nach unserer Ansicht erklärt sich der
Umstand, dass später auch die ersten Censusklassen in den städtischen
Tribus vertreten sind, einfach so, dass sie auch in früherer Zeit und von
Anfang: an darin haben stehen dürfen und gestanden haben.
Diejenigen Forscher, welche die Tribusändrung des App^ Claudius
allein auf die Libertinen beziehen, müssen dasselbe^ auch von der
Massregel des Fabius behaupten; sie meinem also, dass die Libertinen von
Fabius auf die 4 städtischen Tribus beschränkt seien. Auf die einzehien
Variationen dieser Ansicht (Madvig, Verf. u. Verw. Lange, Altert.
Siebert, App. Claud.) und ihre Widerlegung brauche ich nicht einzugehen, nachdem
wir nachgewiesen, dass des Appius Massregel nicht allein die Libertinen
betroffen haben kann. Wie nun hat Q. Fabius die
Tribuaiindrung des App. Claudius rückgängig gemacl\t? Die
wichtigste und den Optimaten so unangenehme Wirkung des appianischen
Edikts war die gewesen, dass die urbani Jiumiles sich über alle Tribus
verteilten und besonders die Abstimmungen der Tributcomitien völlig in
ihre Gewalt be- kamen. Diese Wirkung musste nun ausgeglichen
werden. Und Fabius bewirkte dies dadurch, dass er den humiles nicht
mehr alle Tribus, sondern nur eine kleine Anzahl frei Hess. Omnem
forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit urbanasque eas
appellavit, sagt Livius. Fabius schied also die forensis turba, die
humiles aus, d. h. er schied sie aus <ler Zahl der übrigen Tribulen
und den Gesetzen, welche für diese galten, aus, nahm ihnen das Recht,
sich in jeder beliebigen Tribus zu schätzen, und beschränkte sie auf vier
Tribus, und zwar, wie sich das natürlich ergab, auf die ihres Wohnsitzes,
die städtischen. Der Domizilszwang für die Ausübung der Rechte, welche
mit der Tribus verbunden waren, blieb nach wie vor aufgehoben. Nur auf
die humiles bezog sich das Edikt des Fabius, während für alle andern
Bürger die An- ordnung des App. Claudius auch weiterhin zu Rechte
bestand, sodass sich dieselben also in jeder beliebigen ländlichen
oder städtischen Tribus schätzen lassen konnten, welches letztere aber
kaum vorgekommen ist, da es wertlos war. Die Massregel bezweckte nur das
Übergewicht der humiles urbani ^u brechen, welches diese nach dem Edikt
des App. Claudius vermöge ihrer Kopfzahl in den Tributcomitien erlangt
hatten, und dies wurde dadurch erreicht, dass den humiles die vier
«tädtischen Bezirke angewiesen wurden, in welchen sie allein ihre
politischen Rechte ausüben durften. Innerhalb derselben wird dem
Einzelnen die Wahl der Tribus überlassen sein^ sodass also auch für sie
nicht wieder der alte Domizilszwang für die Ausübung der politischen
Rechte eingesetzt wurde. Das Edikt des Fabius bezog sich demnach
ledighch auf die humiles urbani, deren Vorteil App. Claudius mit
seiner Tribusänderung bezweckt hatte. Aber Fabius kann unmög- lich
als die, welche sein Edikt betraf, nur ganz unbestimmt die humiles
genannt haben, er muss eine bestimmte Grenze gezogen haben für die,
welche in der Folge nur in den städtischen Tribus ihre politischen Rechte
ausüben durften. Es ist darüber nichts überliefert. Kahe liegt die
Vermutung^ dass die Beschränkung sich auf diejenigen bezog, welche
den Minimalcensus nicht erreichten. Doch ist das eine blosse
Vermutung. Wenn Livius sagt: urbanas eas appellavit, so heisst
das nicht, dass diese Tribus vorher noch nicht bestanden hätten^
oder dass die Bezeichnung tribus urbanae von Fabius er- funden wäre. Da
aber jetzt durch ein Gesetz der in der Stadt wohnenden niederen
Volksmasse die vier städtischen Tribus speziell angewiesen wurden, so
verband sich mit dem Begriff der tribus urbanae seitdem der Begriff der
geringer geachteten Tribus gegenüber den rusticae; und so scheint
Livius den obigen Ausdruck zu fassen: Fabius habe die Tribus urbanae
zuerst so in dem geringschätzigen Sinn ge- nannt. Damit ist nicht
ausgeschlossen, dass nicht Patrizier oder sonstige reiche Grundbesitzer
in den städtischen Tribut nach Fabius stehen konnten. Gestattet war es
nach unserer Auffassung der Massregel des Fabius, und es ist nach
den angeführten Beispielen sicher. Vielleicht sind es solche,
welche in der Stadt wohnten und es vorzogen, ihre politischen Rechte am
Wohnort zu üben oder aus einem andern Grund. Wie durch die
Massregel des Fabius das Uebergewicht der humiles in den Tributcomitien
gebrochen wurde, ist klar. Aber auch in weniger Centurien müssen sie verteilt
sein, da. "sie in weniger Tribus standen. Doch dies ist
eben ein völlig unbekannter Punkt (s. oben). Die Bedeutung und der
Zweck der Massregel des Fabius lag darin, dass sie das Uebergewiclit der
humiles in den meisten Tribus brach. Und dies war eine grosse
That, seitdem dieselben schon sechs Jahre lang ihr neues Recht, sich in
allen Tribus schätzen zu lassen, gebraucht hatten. Fabius erhielt davon den Namen des Grossen (Liv. a. a. O.).
Cap. 5. Sonstiges über den Censor App. Claudius Caecus
und Schlussurteil. Der Neuerungssinn unseres Censors hat sich
auch auf andern Gebieten bethätigt. Ich erwähne kurz, dass er sich
auch mit litterarischen Dingen, Eloquenz, Poesie, Grammatik,
Orthographie, befasst haben soll (Cic. Tusc., Priscian, Dig. 1, 2, 36. Hart.
Cap. 1, 3, 261. vgl. Mommsen, Rom. Forsch.). Alsdann habe ich
zwei Anordnungen des App. Claudius über sakrale Dinge zu nennen. Die
erste ist die Austreibung der Pfeifergilde aus dem Tempel des Jupiter. Livius (X,
30) erzählt diese heitere Geschichte genauer (vgl. Censorin. d. d.
n. 12. OVIDIO (si veda), fasti, Val. Max. II, 5, 4);
man kann aber nicht wissen, in wie weit sie historisch ist (vgl.
Mommsen, R. Forsch. Lange, Alterth. II, 78). Eine zweite Änderung des
App. Claudius im Götterkult ist die Uebertragung des Herkuleskult von der
gens der Potitier auf Gemeindesklaven (LIVIO (si veda) cf. Festus, VARRONE
(si veda), L. L., Val. Max., Macrob. Saturn.). Historisch scheint daran die
Uebernahme des Her- kuleskult von Seiten des Staates zu sein, der ihn
dann durch Staatssklaven ausüben Hess (Preller, Mjthol. 651.
Marquardt, Staatsalterth. Niebuhr, III, 362. Schwegler, R. G.). Mit
der Potitierlegende steht in unserer Ueberlieferung unseres Censors
Beiname Caecus im Zusammenhang. Die Götter seien durch jene Massregel
erzürnt, erzählt Livius <^IX, 29), und hätten ihn einige Jahre nach
seiner Censur mit Blindheit geschlagen. Daher habe er seinen Beinamen
er- halten. Aber diese Annahme wird schon dadurch widerlegt, •dass
App. Claudius in den Fasten noch zwei Mal, i. J., als Consul erscheint (Diod.).
Es ist diese Erzählung ohne Zweifel nur ein Versuch, das Cognomen
zu erklären, der aber durch die angegebene Thatsache als falsch
"bewiesen wird; denn was CICERO (si veda) (Tusc. disp.) sagt, APPIO
(si veda) CLAUDIO habe sich, obwohl er blind gewesen sei, keinem Amte
entzogen, ist doch nicht zu glauben. Ein eben- so zu beurteilender
Erklärungsversuch des Beinamens ist die Nachricht Diodors, dass App.
Claudius ^iji; di)yf^g diioi.v^tig xal lor icTTO r/;s' avyy.hWov
ifih'.vov ev'Ucßr.^rt)^ tc oo^- tTTOirOrj TV(fi/Mg elvai y.u) xar^
oiy.iar iiietrer. In Diodors eignen Fasten erscheint App. Claudius i. J.
307 bereits wieder als Consul (Nitzsch, Rom. Annal. Mommsen, Forsch.).
Die natürlichste Erklärung des Beinamens ist die, dass man annimmt,
App. Claudius sei im Alter erblindet; einige Autoren melden dies (Liv.
ep., CICERONE (si veda) de senect., Plut. Pyrrh. 18. Appian, Samn. X, 2.
Dionys.); und viele neuere Forscher folgen ihnen (vgl. dagegen
Mommsen, R. Forsch.). Sicher nachweisen lässt es sich nicht, denn
in den ältesten Annal en ist es nicht überliefert. Das geht daraus
hervor, dass der alte Gewährsmann Diodors eine so falsche und merkwürdige
Erklärung des Beinamens geben konnte. Die Aemter, welche App.
Claudius ausser der Censur bekleidet hat, führt sein Elogium (C. J. L. I,
S. 287 N. XXVIII) auf, welches auch einige Thaten berichtet. Es lautet: Appius Claudius C. F. Caecus Censor. cos. bis dict.
interrex III. Pr. II. aed. cur. IL Q. Tr. mil. III complura oppida de
Samnitibus cepit, Sabinorum et Tuscorum exercitum fudit, pacem iieri cum Pyrrho
prohibuit, in censura viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit, aedem
Bellonae facit. Ich komme nun zu einer wichtigeren Frage, zur
Erörte- rung des Zusammenhangs der Censur des APPIO mit der Ädihtät
des Cn. Flavius im J. 304 (über die Schwierig, keiten des chronologischen
Ansatzes der Adilität vgl. Liv. IX. 46. PLINIO (si veda), n. h. Mommsen,
Chron. Matzat, Chron. I, "266. Seeck, Kalendertafeln f. Soltau,
Prolegomena zu einer röm. Chron. 4 ff.). Cn. Flavius war der Sohn
eines Freigelassenen (Diod: TiuT{id^ (oy ()8dov'/.evy,(hü^). Als solcher ist er zuerst zu einem curulischen Amte gelangt. Bald
scheint dies öfter vorge- kommen zu sein ; in einem Briefe Philipps V.
von Makedonien an die Larisäer (Hermes) heisst es, dass die Römer
im Unterschiede von den Griechen die freigelassenen Sklaven zum
Bürgerrecht und zu den Amtern zulassen. Cn.
Flavius verdankte seine Wahl der Tribusänderung des App. Clau-
dius. Die curulischen Adilen wurden in den Tributcomitien gcAvählt, was
bei dieser Gelegenheit zuerst erwähnt wird (Pisa b. Gellius VII, 9.
Livius IX, 40, 1 — 2, der aus Piso wört- lich geschöpft hat). Wir haben
erörtert, dass durch die appia- nische Tribusänderung die niederen
Bevölkerungsklassen das Übergewicht in den Tributcomitien erhalten haben,
sodass sie einen solchen Erfolg, wie die Wahl eines
Libertinensohnes^ zum curulischen Ädilen, erzielen konnten. Diodor und
Livius erwähnen klar genug den Zusammenhang der Tribusänderung des
App. Claudius mit der Wahl des Cn. Flavius zum Ädilen (Diod.: o ()i-
()/;/i()s" f^;^ \i7i7iUi) oi\u(fi'/.OTtfiouf.i€vOi; xui Ttjv
diayev(^)i' 7r{iüir/vr/i]r ßeßati'lGai ßou/.uuerOi^ cr/OQm'ojnor eilfjo
etc. Liv: ceterum Flavium dixerat aedilem forensis factio Appii Claudii
censura vires nacta). App. Claudius und Cn. Flavius haben überhaupt
wahrscheinlich in nähern Be- ziehungen zu einander gestanden. Eine
Nachricht lässt den Flavius vor seiner Aedilität Schreiber des App.
Claudius sein (Plin. a. -a. O.j. Cn. Flavius führte sein Amt ganz im
Sinne seines Meisters, des App. Claudius. Das beweisen seine
Thaten, auf die ich aber nicht einzugehen habe. Die Forscher
shid sich noch nicht einig darüber (vgl. LIVIO (si veda), CICERONE (si
veda) pro Murena, PLINIO. n. h., Mommsen, Röm. Forsch.
Seeck, Kalendertafeln). Ohne Zweifel ist, dass die Thaten des Cn. Flavius
den- selben demokratischen Neuerungssinn zeigen als diejenigen des
App. Claudius. Über App. Claudius hat schon der gute
Gewährsmann Diodors dieses Urteil, tioIICc toIv TtaT^ycliov voiiliicor
ly.ivr^ae. sagt Diodor von unserm Censor. Dem gegenüber haben
einige Notizen jüngerer Autoren, woraus folgen würde, dass App. Claudius
speziell hocharistokratische Tendenzen in seiner Po- litik verfolgt habe,
kein Gewicht. Die Nachrichten des LIVIO (si veda), App. Claudius habe i.
J. 299 die lex Ogulnia, wonach vier Pontifices und fünf Augurn aus der
Plebs hinzugewählt werden sollten, mit allen Mitteln zu vereiteln
gesucht, er habe als Kandidat für das Konsulat (nach CICERONE (si veda).
Brut. als interrex, was er i. J. 399 (LIVIO (si veda)) war,) die
zweite Konsulstelle den Patriziern zurückzugewinnen versucht, diese
Nachrichten sind, was Mommsen (R. Forsch.) dar- gethan hat, erfunden: wer
wird es glauben, dass ein Mann wie App. Claudius, nachdem er als Censor
die niederen Volks- schichten mit seinen Massnahmen begünstigt hat, nun
einige Jahre später extrem aristokratische Tendenzen verfolgen
konnte? Offenbar sind diese Nachrichten erfunden nach dem Schema,
nach welchem alle Claudier als Volksfeinde in der jüngeren Annalistik
dargestellt sind. Unserer Ansicht nach war unser Censor ein demo-
kratischer Neuerer, ein Urteil, welches schon, wie gesagt, der
Gewährsmann Diodors gehabt hat. Er begünstigte und förderte die niedrigen
und niedrigsten Volksschichten, be- sonders die städtische
Bevölkerung^klasse, den Handelsstand und das in ihm am meisten vertretene
libertinische Element. Dazu passt vortreff'lich, dass wir ihn als
Beförderer des griechischen Einflusses kennen lernen; und schliesslich
lässt sich in diesem Zusammenhange recht klar sein letztes politisclies
Auftreten, seine bekannte Senatsrede gegen den Gresandten des Pyrrlms,
verstehen. Nur in dieser Auffassung lässt sich ein harmonisclies Bild von
dem politischen Charakter unseres Censors, von seinen politischen
Absichten und Zielen herstellen. Lebenslauf. I Icli, Theodor
Ludwig Carl Sieke, Solin des Volksschulllehrers Friedrich Sieke zu Marburg, bin
geboren zu Mengringhausen im Fürstentum Waldeck; Ich bekenne mich zur
evangelischen Confession. Die erste Ausbildung erhielt ich von meinem
Vater, trat Ostern in die Quarta des
Marburger Gymnasiums, welches icli Ostern mit dem Zeugniss der Reife
verliess. Ich bezog als- dann die Universität Marburg, um mich dem
Studium der '^eschichte, germanischen und klassischen Piiilologie
zu idmen. Ich hörte Vorlesungen bei den Herren Professoren Bergmann,
Birt, Caesar, Cohen, Fischer, Justi, Koch, -enz, Lucae, Niese,
Varrentrapp, Schmidt, beteiligte mich nehrere Semester an den Uebungen
der historischen Semi- liare, des althistorischen unter Leitung des Herrn
Professor Niese, des neuhistorischen unter Leitung der Herren
Professoren nz und Varrentrapp, war Mitglied des germanistischen
Semi-lars des Herrn Professor Lucae und wohnte den pliilo- Bophischen
Uebungen des Herrn Professor Bergmann bei. fm Sommer-Semester besuchte
ich die Universität Berlin md hörte dort Vorlesungen bei den Herren
Professoren Delbrück, Kiepert, Koser, Roediger, Scherer, v.
Treitschke md Zeller. Allen diesen Herren spreche ich an dieser
Stelle meinen iefsten Dank aus, besonders den Herren Professoren Niese
and Varrentrapp. I>ruck von Gebrüder Gotthelft in Casael. Gustavo
Bontadini. Keywords: la neoclassica, neoclassico come concetto contradittorio o
ironico -- storia della filosofia, storia della filosofia italiana, de-ellenizzazione”,
appio primo filosofo romano in lingua Latina -- “conversazioni metafisiche”,
“conversazione metafisica”, “gnoseologia”, “gnoseologismo”, “problematicismo”,
“metafisica dell’esperienza”, ens, essential, l’essere, essere, verbo, nome,
sostantivo, copula, parmenideismo, severino, la porta di Velia, Grice Vx, x izz
x. Grice, RAA, Reductio ad absurdum. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bontadini” – The Swimming-Pool Library. Bontadini.
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