Grice e Cavalcanti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del sìnolo degl’amanti – scuola
di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze,
Toscana. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is
surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians
call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but
interesting!” Come
del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo
fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e
nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze,
copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue
beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne.
Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno.
Ritratto di C., in Rime. Figlio di Cavalcante dei C., nacque in una nobile
famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e
che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in
seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini
nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente
posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata
degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli
Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel
Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo
punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si
considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà
un'importante testimonianza attraverso un sonetto. Alighieri, priore di
Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi
delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a
Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La
condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a
causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato
oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu
amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei
che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché
meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i
due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo
ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e
nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina
Commedia e in una novella del Decameron. La sua personalità,
aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli
filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile
figlio di Cavalcante C., nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e
solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella
di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico. Noto per
il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio
(Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione
filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e.
Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata
tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” --
certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di
tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti
radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal
Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due
fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da
Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui
compiuto, diventa un emblema della leggerezza. L'episodio figura anche
nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i
fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi
mistica. La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di
cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti
composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la
ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla
sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si
risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di C. è, nei sonetti, la
presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di Johann
Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato C..
I temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua
canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato
sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale
che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e
l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo
le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano
raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce
che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta,
compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa –
L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che,
destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della
devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da
un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo
dell'amante. Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia
ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei
temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al
contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al
desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di
vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante. C. e un fine filosofo
– scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci
resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente
scritte. Il poetare di C., dal ritmo soave e leggero è di una grande
sapienza retorica. I versi di C. possiedono una fluidità melodica, che
nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato,
dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche. Cavalcanti:
la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).
“Species intelligibilis”, C.laico e le origini della poesia italiana,
Alessandria: Edizioni dell'Orso); C. auctoritas”; C. laico; La felicità: Nuove
prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); C. (Torino, Einaudi); C.: poesia
e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); C.: uno studio sul lessico
lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti,
Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro,. Guido
Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli
italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno,
Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo
Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo C. lo deve essenzialmente
ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la
metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di
“amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”),
conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una
prima importante informazione circa l’essere dell’amore C. ce l’ha già fornita
nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un
accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione,
tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia
di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il
grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste
autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in
altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a C., egli afferma che
l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad
esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste
piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo
(sostanza). Innanzitutto, C. ci dice che l’amore si insedia nella memoria.
Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele,
poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima,
Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non
intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura
che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo
la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo
unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti:
anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le
funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione)
degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i
sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la
terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo
dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per C., appartiene
all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della
sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di
vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di
questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una
sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si
imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima
sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione
della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa
immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa
intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia
aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può
essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il
pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele,
dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è
impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una
parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve
l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra
componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un
esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora
intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi
producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime
nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando,
nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della
donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene
nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e
disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto
della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene
all’anima sensitiva. C. ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima
sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità
insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che
di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico
intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le
facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in
contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli,
affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima
intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di
ciascun uomo. Questa complessa psicologia che C. mutua da Averroè è la base del
suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di
giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e
desiderata dai sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su
quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra
l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali
sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo
Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime
sensitive degli uomini. Quello che C. intende, dunque, è questo: la passione
amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni
dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di
avere raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che
porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne
male”). Ciononostante, C. ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura
(“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni
naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima
sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come
interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario,
anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo
greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad
esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il
compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima
vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione;
pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste
nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. C., dunque, seguendo
Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana
violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai
bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli
animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e
che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un
naturale bisogno della nostra sensualità. sìnolo s. m. [dal gr. σύνολον,
comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio filos., termine
aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n. 1 a), concepita
come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò che porta
all’atto la potenzialità della materia). Alighieri sends out
among the best known Italian poets a sonnet asking interpretation of a
dream. The god of love, so it seemed, had come carrying Beatrice asleep,
and had fed her with Dante's own heart, and had then departed
weeping. Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as
a probable solution of this, and other such distressing visions, a
dose of salts ; the others fell in with Dante's mood and answered
seri- ously. Of their various interpretations that which best
pleased Dante, though not quite satisfied him, was C.’s " And
this," wrote Dante later in the New Life, " was, as it were,
the beginning of the friendship between him and me, when he knew that I
was he who had sent it (the sonnet) to him." C.s
interpretation was in an important particular ambiguous. Love, he wrote,
fed your heart to your lady, seeing that "vostra donna la morte
chedea" To understand this clause as meaning " Death claimed
your lady" is natural, and would make the interpretation
interestingly prophetic; but, whether or not this reading might be
justified symbolically, Dante himself forbids it. For, in spite of his
pleasure in his " first friend's " explanation of the dream, he added:
" The true meaning of this dream was not then seen by any one, but
now it is plain to the simplest." It was easy for him after the
event to read prophecy of Beatrice's death into the dream ; but he
expressly denies to Guido among the rest the prescience. We are
bound, therefore, to take as the interpreter's meaning that there was
malice prepense in the cannibal appetite of the sleeping lady, that
she claimed the death of her servant's heart. No wonder the love
god wept as he carried her off sated ! Irreverent though it
be, one thinks of The Vampire of Kipling. For Guido the gentle Beatrice
was as "the woman who couldn't understand," sucking, asleep, in
a sort of diabolical innocence, the life blood, literally eating the
heart, out of her helpless victim. And Dante, the lover, the victim,
approves the picture ! Of course the gruesomeness of this symbolism
may be explained away as merely a conceitfully emphatic reassertion of
the ancient fancy that a lover's heart is no longer his own, but has
passed into the custody of his mistress. Only, the dream then and its
interpre- tation would indeed be a much ado about nothing. And why, at
so customary a happening, should love weep? In fact, Guido's
thought cuts deeper, and is, I venture to urge, not so remote, in a
sense, from the thought underlying The Vampire. It is The Vampire
uplifted into the more tenuous, yet.no less intense, atmosphere of
mysticism. Before attempting to let in light directly upon this dim
utterance it is expedient to recall certain facts in Guido's life and
personality. " Cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e
intento alio studio " so Guido is introduced into the Florentine
Chronicle of Dino Compagni, who knew him personally. Guido could not have
been much over twenty-five when, at the death of his father, his elder
brother being in orders, he became head and champion of one of the two or
three most powerful and aristocratic families in the republic. For
gen- erations the Cavalcanti had been leaders in the state,
haughtily contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic
inde- pendence against those who were willing to sacrifice this for
the dream of a " Greater Italy " united under a revivified
Emperor of the West. To this great feud and to the lesser local feuds
which grew out of it Guido may be said to have been a predestined, yet
mostly a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his
life long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his
best friend ; it certainly killed him before his time. It
married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene- vento,
when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell with
Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent peace by
marrying together certain sons and daughters of victors and vanquished.
Among the rest C. was wedded, or then more likely betrothed, — for he
could not have been more than fifteen, — to Bice, daughter of the
Ghibelline leader, the Florentine " Coriolanus," Farinata degli
Uberti. Seven years before Farinata had "painted the Arbia red"
with the blood of Florentine Guelphs at Monteaperti; and it had been a
kinsman of Guido who com- manded the Guelphs on that disastrous day. We
do not know how this real " Capulet-Montague " match turned
out, — only that Monna Bice bore children to her husband and outlived him
many years, and that the peace which their union, among others, was
intended to effect did not come to pass. On the contrary the
great Guelph families, in secure possession of the city, soon quarreled,
even connived against each other with the ever-ready Ghibelline exiles,
or with popular dema- gogues, so great was their common jealousy.
Meanwhile, during the distraction of the nobles, the middle classes had
been prosper- ing ; and coming at last to feel their strength and the
weakness of those above them, they rebelled and crushed the
aristocrats. In the first insolence of triumph they excluded the nobles
abso- lutely from public office, but two years later conceded eligibility
to such nobles as would join one of the Arti, or trades unions.
This virtual abdication of caste C. refused to make. In vain good
easy Dino pleaded with him. I am ever singing your praises," he
wrote in a kindly sonnet, " telling folks how wise you are, and
brave and strong, skilled to wield and ward the sword, and how compact
with sifted learning your mind is, and how you can run and leap and
outlast the best. Nor is there lacking you high birth nor wealth ... in
fine, the one thing wanting to give scope to all these gifts and powers
is a mere name. " Ahi! com saresti stato om mercadiere!
" Now almost certainly some generations back the C. had
been in trade, and had made their fortune in trade, but latterly it had
pleased them to entertain a genealogy reaching royally back into Germany
and descending into Italy with Charlemagne's baronage. To traverse this
pleasing legend with the gross title "om merca- diere,"
tradesman, was out of the question: Guido declared himself
irreconcilable. Meanwhile Dante, unfettered by a legend or a
temperament, had accepted the situation even cordially, and was taking
active part in the councils of the new bourgeois regime. That Guido must
have regarded his friend's secession with disgust seems natural. It was
worse than an offense against party; it was an offense against caste. " Uomo
vertudioso in molte cose, se non ch'egli era troppo tenero e
stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido. Fastidious, exclusive, thin-skinned, choleric, Guido was just the
man to feel this consorting of his friend with vulgar political upstarts
incompatible with their own intimacy. And the matter was made worse by
its open denial of their poetic profession of faith in the " cor
gentile." This vulgar folk was that " fango," that human
" mud " of which Guinizelli had written : Fere lo
sole il fango tutto'l giorno, Vile riman . . . how might the
" gentle heart " mix itself with this irredeemable
"mud" and be not defiled? So Guido addressed to his friend a
sonnet at once haughty and tender — like Guido himself: 1 lo vengo
il giorno a te infinite volte e trovoti pensar troppo vilmente :
allor mi dol de la gentil tua mente e d'assai tue virtu che ti son
tolte. Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi la
noiosa gente, di me parlavi si coralemente che tutte le tue rime
avei ricolte. Or non ardisco per la vil tua vita, far
mostramento che tu' dir mi piaccia, ne vengo 'n guisa a te che tu mi
veggi. Se '1 presente sonetto spesso leggi lo spirito noioso
che ti caccia si partira da Panima invilita. 2 1 1 believe that Lamma, in his Questioni Dante sche,
Bologna, is the first to propose this construction of the famous "
reproach." It seems to me the best of all. 2 1 come to
thee infinite times a day And find thee thinking too unworthily :
Then for thy gentle mind it grieveth me, And for thy talents all thus
thrown away. Whether the two friends again came together in life is not
known. The next situation in which we hear of them is tragic. Dante is
sit- ting among his " first friend's " judges ; Guido is
condemned to exile, and goes — in effect — to his death.
Under the new bourgeois rule civic disorders rather increased than
otherwise. Prime mover of discord was the Florentine " Catiline,"
as Dino calls him, Corso Donati. Somewhat ineffectually opposing
his self-seeking machinations were the parvenu Cerchi, powerful
only through wealth and the popularity of their cause. With these
also stood Guido. Hatred, no less than misfortune, makes strange
bed- fellows ; and the hatred between Guido and Corso was intense.
Each had sought the other's life : Corso meanly, by hired assassins ;
Guido openly, in the public street, by his own hand. Violence
followed violence ; the number of factionaries increased, until at last
the city Priors determined to expel the leaders of both parties. Guido
was conspicuous among these leaders ; Dante, as has been said, among
these Priors. The place of exile, Sarzana, proved to be pestilent with
fever ; and although Guido and the Cerchi, less culpable than Corso, were
recalled within the year, it was too late. A few months afterward, Guido died.
" E fu gran dommaggio" wrote Dino. It was a strange
preparation for "gentle and gracious rhymes of love," — this
short, tumultuous, hate-driven career. Yet there is but one direct echo
of the feudist in all Guido's verse, — a sonnet to a kinsman, Nerone C.i.
Nerone had made Florence too To flee the vulgar herd was once thy
way, To bar the many from thine amity ; Of me thou spakest then so
cordially When thou hadst set thy verse in full array. But
now I dare not, so thy life is base, Make manifest that I approve
thine art, Nor come to thee so thou mayst see my face. Yet if
this sonnet thou wilt take to heart, The perverse spirit leading
thee this chase Out of thy soul polluted shall depart. hot for the
rival Buondelmonti, and Guido hails him with ironical deprecation.
Novelle
ti so dire, odi, Nerone, che' Bondelmonti treman di paura,
e tutt* i fiorentin' no li assicura, udendo dir che tu a* cor
di leone. E piu treman di te che d' un dragone veggendo la
tua faccia, ch* e si dura che no la riterria ponte ne mura se non
la tomba del re faraone. De ! com' tu fai grandissimo peccato
si alto sangue voler discacciare, che tutti vanno via sanza
ritegno. Ma ben e ver che ti largar lo pegno, di che potrai V
anima salvare se fossi paziente del mercato. Guido's disdainful temper both piqued and puzzled his townsfolk.
Sacchetti's anecdote of the Florentine small boy who, having slyly nailed
Guido's gown to his bench, then teased him until the irate gentleman
tried — naturally to his discomfiture — to chase him, has 1 News have
I for thee, Nero, in thine ear. They of the Buondelmonte quake with
dread, Nor by all Florence may be comforted, For that thou hast a
lion's heart they hear. And more than any dragon thee they
fear, For looking on thy face they are as dead : Bastion nor
bridge against it stands in stead, Nor less than Pharaoh's grave were
barrier. Marry ! but thou hast done a wicked thing,
Having the heart to scatter such high blood, For without let now
one and all they flee. And 'sooth, a truce-bait too they proffered
thee, So that thy soul might still be with the Good, Hadst but had
stomach for the bargaining. For the first quatrain of this sonnet I
have slightly altered Rossetti's translation. In the rest a mistaken
understanding of the sonnet as if addressed to the pope has misled him. 2
// aVm 53^ its point in a very human satisfaction at the
scorner scorned. Boc- caccio's novella 1 is more significant,
illustrating vividly, if perhaps by a fictitious occurrence only, the
subtle mingling of awe and defi- ance which Guido inspired. Boccaccio's
" character " of Guido is a eulogy. " He was one of the
best thinkers (Joici) in the world and an accomplished lay philosopher
(filosofo naturale), . . . and withal a most engaging, elegant, and
affable gentleman, easily first in what- ever he undertook, and in all
that befitted his rank." This character, together with the mood of
tragic doubt upon which the point of Boccaccio's narrative turns, inevitably,
if tritely, brings to mind Ophelia's character of Hamlet :
The courtier's, soldier's, scholar's eye, tongue, sword ; The
expectancy and rose of the fair state, The glass of fashion and the mould
of form, The observed of all observers. . . . But, if we may
still trust Boccaccio, " that noble and most sovereign reason "
of Guido was also " out of tune and harsh " with scrupulous
doubt ; " so that lost in speculation, he became abstracted from
men. And since he held somewhat to the opinion of the Epicureans,
gossip among the vulgar had it that these speculations of his only went
to establish, if established it might be, that there was no
God." BOCCACCIO (si veda) does not call Guido an atheist ;
that was mere vulgar gossip. He does not even declare him a convinced
Epicurean, one of those who with his own father . . . P anima
col corpo morta fanno. Boccaccio's charge is qualified : " he
held somewhat to the opinion of the Epicureans " {egli alquanto tmea
della opinione degli Epicurj). Dante's commentator, indeed, Benvenuto da
Imola, is more cate- gorical and extreme : " Errorem, quern pater
habebat ex ignorantia, ipse (Guido) conabatur defendere per
scientiam." Benvenuto is even remoter in time, however, than
Boccaccio ; and his phrasing suggests at least a mere perpetuation of
that vulgar gossip which Boccaccio con- temptuously records. But can we
trust Boccaccio's own testimony? At least there is no antecedent
improbability. Skepticism was common, especially in the highly educated
class to which Guido (Decam.) belonged ; and it was not unnatural at any
rate for him to weigh carefully an opinion held by his own father. Again,
there is noth- ing in either his life or writings to indicate an active
faith. Much indeed has been made of his " pilgrimage " to the
shrine of St. James at Compostella; but the mood of this was so little
serious that a pretty face at Toulouse was enough to change his
intention. The ironical sonnet of Muscia of Siena is a hint that his
contemporaries could not take him very seriously as a pious pilgrim; and
Muscia stresses Guido's excuse for breaking his supposed vow that there
was no vow in the case — " non v' era botio" Guido may have
started in a moment of reaction from his doubt — does not doubt itself
imply a wavering will ? He may have left Florence as a matter of
prudence — Corso tried to have him assassinated on the way as it was.
As for his writings, these, considering the intimate theological
associa- tions of the school of Guinizelli, are noticeably barren of
religious feeling or phrase ; and he certainly scandalized the worthy, if
narrow, Orlandi by his jesting sonnet about the thaumaturgic shrine of
"my Lady." The hypothetical confirmation of Guido's skepticism,
on the other hand, in his "disdain for Virgil,,, mentioned by Dante
in his answer to the elder Cavalcanti's question 1 why Dante's
"first friend " had not accompanied him, has beendiscredited
after twenty years of support by its own proposer, D'Ovidio. The passage
is, to be sure, still a moot question ; and D'Ovidio, even in the zeal of
his recanta- tion, still admits the allegorical taking of it to be
plausible as a sec- ondary intention on Dante's part. In any case, even
waiving the confirmation, the tradition of Guido's skepticism is not
impugned ; and in view of the persistent tradition, and of the antecedent
probability in its favor, the burden of disproof would seem to rest on
those who reject the tradition. Meanwhile, I propose to test the
credibility of the tradition by assuming it. If the assumption proves to
be a factor in a coherent and credible interpretation of Guido's poetry,
the credi- bility of the assumption proportionately increases. The
argument is of course a circle, but I think not a vicious circle.
There is also another tradition, which happens likewise to be sub-
sidiary to the same end. As the one tradition charges Guido with unfaith
in religion, so the other charges him with faithlessness in love. i
Inf., X, 60. Hewlett, in his Masque of Dead Florentines, has
seized upon this supposed fickleness of Guido as Guido's char- acteristic
trait. Guido is made to say : My way was best. From lip to
lip I past, from grove to grove : I am like Florence ; they call me Light
o' Love. I am dubious indeed about that literal criticism which
surmises a " family skeleton " in every locked sonnet. Heine
assuredly reckoned without his Scholar when he complained :
Diese Welt glaubt nicht an Flammen, Und sie nimmt's fur
Poesie. When Guido writes a sonnet describing how Love had wounded
him with three arrows, — Beauty, Desire, Hope of Grace, — it is hardly
fair for Rossetti to entitle his own translation He speaks of a third
love of his. Rossetti the scholar should have known better. Of
course Guido is simply copying a conceit from the Romance of the Rose :
the three arrows are three arrows from the eyes of one lady, not of
three ladies. Again, it is almost worse when poor Guido essays a
pretty pastourelle, which is by definition a gallant adventure between a
pass- ing knight and a shepherdess, to discuss the " peccadillo
" in a solemn footnote ! Yet Rossetti, himself a poet, does so.
Nay, Guido's latest learned editor, Signor Rivalta, speaks 1 of his
singing "anche i suoi desideri meno puri e piu umani come nella
ballata : In un boschetto trovai pasturella . . ."
This ballata is the pastourelle in question. Stifl,
waiving such pseudo- revelations of a stethoscopic criticism, there are,
considering the meagerness of Guido\s poetical remains, hints enough
besides the mention of several ladies — Mandetta, Pinella, and by,
inference her whom Dante calls Giovanna — to accept with discretion sober
Guido Orlandi's perhaps malicious insinuation, when he inquires of C.
concerning the nature, the effects, the virtues of Love : Io ne
domando voi, Guido, di lui : odo che molto usate in la sua corte ;
Le Rime di C. Bologna. and even the cruder implication in Orlandi's boast of
his chaster mind : Io per lung' uso disusai lo primo amor
carnale : non tangio nel limo. Reckless feudist, unbeliever, "
light o' love," squire of dames, pro- found thinker, gracious
gentleman — a perplexing motley of a man; it is no wonder that his
poetry, reflecting himself, more easily with its many-faceted light
dazzles rather than illumines the understand- ing. In addition, one has
to contend in his more doctrinal pieces, especially in the famous canzone
of love, with a rigorous scholastic terminology dovetailed into a most
intricate metrical schema, and with a text at the best corrupt. In spots
Guido — as we have him — is as hopeless as Persius; yet we may waive
these and still venture upon a general interpretation. In
general, Guido's love poems hinge upon two parallel but opposite moods, —
a radiant mood of worshipful admiration of his lady, a tragic mood of
despair wrought in him by his love of her. His sight of
her is a rapture, as in the most magnificent of his sonnets, beginning
" Chi e questa che ven ": Chi e questa che ven ch' ogn'
om la mira e fa tremar di chiaritate V a're, e mena seco amor si
che parlare null' omo pote, ma ciascun sospira? O Deo, che
sembra quando li occhi gira dica '1 Amor, ch' i' no '1 savria
contare : cotanto d' umilta donna mi pare, ch' ogn'
altra ver di lei i' la chiam' ira. Non si poria contar la sua
piagenza, ch' a lei s' inchina ogni gentil virtute, e la
beltate per sua dea la mostra. * Non f u si alta gia la mente
nostra e non si pose in noi tanta salute, che propriamente
n' aviam canoscenza. 1 1 Lo! who is this which cometh in men's
eyes And maketh tremulously bright the air, And with her bringeth
love so that none there Might speak aloud, albeit each one sighs
? The sonnet is a superb tribute ; but it is also more. It contains,
as I conceive, the pivotal idea in Guido's philosophy of love, — namely,
in the lines describing his mistress as Lady of Meekness such, that
by compare All others as of Wrath I recognize, (cotanto d* umilta
donna mi pare, ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.)
Ira . . . umilta : wrath . . . meekness — the antithesis dominates
Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the concomitant of
imperfection, of desire ; meekness the concomitant of perfection, of peace.
He, the lover, is therefore in a state of wrath ; she, the lovable, in a
state of meekness, — Quiet she, he passion-rent. The
identification of passionate love with a state of wrath is fun- damental
in Guido's philosophy. It is the germinal idea of the doctrinal canzone
beginning " Donna mi prega." In answer to the query as to
the where and whence of the passion — La ove si posa e chi lo fa
creare — he declares that In quella parte dove sta
memora prende suo stato, si formato come diaffan da lume, —
d'una scuritate la qual da Marte vene e fa dimora. 1 " In that part where memory is love has its being ;
and, even as light enters into an object to make it diaphanous, so there
enters into the Dear God, what seemeth if she turn her eyes
Let Love's self say, for I in no wise dare : Lady of Meekness such, that
by compare All others as of Wrath I recognize. Words might
not body forth her excellence, For unto her inclineth all sweet
merit, Beauty in her hath its divinity. Nor was our
understanding of degree, Nor had abode in us so blest a spirit, As
might thereof have meet intelligence. 1 vv. 15-18. I use here as
elsewhere the edition of Ercole Rival ta, Bologna, 1902. constitution of
love a dark ray from Mars, which abides." Now Dante conceives love
as an emanation from the star of the third heaven, Venus, along a bright
ray : " I say then that this spirit (i.e. of love) comes upon the *
rays of the star ' (i.e. of the third heaven, Venus), because you are to
know that the rays of each heaven are the path whereby their virtue
descends upon things that are here below. And inas- much as rays are no
other than the shining which cometh from the source of the light through
the air even to the thing enlightened, and the light is only in that part
where the star is, because the rest of the heaven is diaphanous (that is
transparent), I say not that this ' spirit/ to wit this thought, cometh
from their heaven in its totality but from their star. Which star, by
reason of nobility in them who move it, is of so great virtue that it has
extreme power upon our souls and upon other affairs of ours," etc. 1
So Dante. Guido, on the other hand, while accepting the notion of love as
an emanation, holds the emanation to be rather from the star of the fifth
heaven, Mars, along a dark ray. The power over the soul of this star is
no less extreme than that of Venus; only it is, in a sense, a power of
darkness rather than of light. It may strike at life itself —
Di sua potenza segue spesso morte. The passion which its influence
excites passes all normal bounds in any case, destroying all healthful
equilibrium : L'esser e quando lo voler e tan to ch' oltra
misura di natura torna: poi non s' adorna di riposo mai. Move
cangiando color riso e pianto e la figura con paura stoma. Finally, — and here we reach the gist of the matter, — the influ-
ence of the choleric planet engenders sighs and fiery wrath in the Conv..
(Wicksteed's translation.) 2 It has its being when the passionate
will Beyond all measure of natural pleasure goes : Then with
repose unblest forever, starts Laughter and tears, aye changing color
still, And on the face leaves pallid trace of woes. lover, impotent
to reach the ever-receding goal of his desire (non fermato
loco): La nova qualita move sospiri e vol ch' om miri
in non fermato loco destandos' ira, la qual manda foco.This
strangely pessimistic reading of love seems to have struck at least one
of Guido's contemporaries with indignant surprise, not only at the
apparent slight upon love, but also at the silence seeming to give assent
of other poets, especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in his Acerba, iii,
1, denies that so sweet a thing as love could emanate from the planet
Mars, seeing that from that planet rather " proceeds violence with
wrath " (procede Vimpeto con Fire) ; wherefore : Errando
scrisse C. . . . qui ben mi sdegna lo tacer di Danti. In
fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of the New Life,
apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of love
Spesse fiate vegnommi a la mente l'oscure qualita ch' Amor mi
dona — and proceeds to describe, though not by this name, just such
a " state of wrath " in himself as Guido believes inseparable
from love. With Dante, of course, the mood is but passing. For him love
is in its essence a beneficent power. For Guido also it might
seem that this tragic wrath of desire is not incurable. There is a power
in meekness to overcome wrath and to subdue wrath also to meekness. And
the meek one is impelled to exercise this power, to confer this boon, by
pity for the one suffering in wrath. It is the failure to follow this
blessed impulse for which Guido reproaches his lady in the octave of
the sonnet beginning " Un amoroso sguardo," when he says that
she is one . . . for whom availeth not Nor grace nor pity nor
the suffering state. . . . (. . . verso cui non vale
Merzede ne pieta ne star soffrente. . . .) 1 The novel state incites to sighs, and makes Man to pursue an
ever-shifting aim, Till in him wrath is kindled, spitting flame.
Meekness, grace, pity, the suffering state of wrath — the terms have a
scriptural sound, and of right ; for they are actually scriptural anal-
ogies applied to love. Precisely this poetical analogy was the innova- tion
of Guinizelli, whom Dante called " father of me and of my
betters," — of which last C. was in Dante's mind first, if not
alone. Before Guinizelli Italian poets had accepted the other analogy of
the troubadours of Provence, which applied to love the canon of feudal
homage. For these the lady of desire was as the haughty baron to whom
they owed servile fealty, and whose inaccessible mood was not of gentle
meekness but of cruel pride, claiming willfully of her vassal perhaps
life itself. But feudalism and its harsh canon of service were alien to
the Italian communes ; Italian poetry built upon an analogy with it must
needs be an affectation. These burgher poets were only play knights;
these frank Tuscan and Lombard girls were only play barons. Affectation,
the pen following not the dicta- tion of the feelings but of hearsay
feelings, — this is the precise charge which Dante, from the standpoint
of the " sweet new style," brings against the older style. 1
But if as free burghers Italians could not really feel the alien mood of
feudal homage, yet as Christian gentle- men they could, and should,
sanctify their love of women with the mood of religious awe. There need
be no affectation in that. Free burghers, they recognized no temporal
overlord, no absolute baron ; Catholics, they did believe in, and might
with sincerity worship, min- istering angels — "donne
angelicate," the meek ones whom, as the Psalmist had declared, the
Lord has beautified with salvation. Guido therefore can no more
worthily praise his mistress than by calling her his " Lady of
Meekness." Indeed, by further analogy he sets her above the angels
themselves; for the Christ himself had said : "Mitis sum et humilis
corde — I am meek and lowly in heart." For him- self, "
passion-rent " in his love, the poet speaks as St. Paul, " we . . . had our conversation
... in the lusts of our flesh, fulfilling the desires of the flesh and of
the mind ; and were by nature the children of wrath (filii irae)"
And the merzede, the "grace," for which he sues — solu- tion of
wrath by the spirit of meekness — is again in accord with Paul's promise
to these very "children of wrath,"
"By grace are ye saved through faith" — faith, that is,
in loving and serving the one divinity as the other. i Purg. This
is pious doctrine indeed for the righting cavalier, skeptic, Love- lace I
have in a measure assumed Guido to be. Is then his love creed also a
pose, worse than the apes of Provence whom Dante exposed, because he thus
adds hypocrisy to affectation ? Well, if so, the same Dante would hardly
have hailed him as "first friend" in life and master after
Guinizelli in poetry, nor have outraged the memory of Beatrice by
associating her in the New Life with Guido's lady Joan. The
solution of the apparent antinomy lies in the meaning for Guido of that
rnerzede, that " grace," the granting of which by ; the lady,
the meek one, might appease the lover, the one in "wrath." The
term itself — Italian merzede or English " grace " — has a
fourfold significance according as it is a function of the lady, of the
lover, or of the reciprocal relationship between them. "Grace"
in her signifies her beatitude, her "meekness"; in him, his "merit"
which through faith and loving service deserves the boon, or
"grace," of her con- descension to redeem him from his
"state of wrath," for which condescension it would be befitting
him to render thanks, "yield graces, — a phrase now obsolete in
English but used by Dante, — render mercede. Of this fourfold intention
of the term the one funda- mentally doubtful is,the " grace "
which is constituted by the act of condescension of the lady : what then
is the grace or boon that the lover asks and hopes ? In other words, what
is the end of desire ? The answer is no mystery. The end of desire
is always possession, in one sense or another, of the thing desired. In
the practical sense possession of the loved one means union, physical or
social, or both, sacramentally recognized, in marriage ; but the
sacrament of marriage allows a more mystical sense, presenting the
ideal, hardly realizable on earth, of a spiritual union which is also a
unity of two in one : The single pure and perfect animal,
The two-cell'd heart beating with one full stroke,
Life. So Tennyson modernly ; but more in accord with the
metaphysical mood of Guido is the old Elizabethan phrasing :
So they loved, as love in twain Had the essence but in one ;
Two distincts, division one: Number there in love was slain.
To the " gentle heart " there is no love but highest love ;
there is no union but perfect union, wherein two shall Be
one, and one another's all. Until the "gentle heart " may
attain to that perfect union its desire is unappeased, its " wrath
" unsubdued. Tennyson premises it for the right marriage; but there
is ever the doubter ready to remark that if such marriages are really
made in heaven, they certainly are kept there. Human sympathy cannot
quite bridge the span between two souls: self remains self; and though
hands meet and lips touch and wills accord, there is always something
deeper still, inexpressible, unreachable. Yes ! in the sea of
life enisled, With echoing straits between us thrown, Dotting the
shoreless watery wild, We mortal millions live alone. In
vain, says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain, "after the
division (of the primeval man-woman in one), the two parts of man, each
desiring his other half, came together, and threw their arms about one
another eager to grow into one. . . ." True, Aristophanes in effect
goes on, Zeus in pity consoled the loneliness of dissevered "
man-woman " by physical union ; but that consolation the "
gentle heart " must forever regard as of itself inadequate and
unworthy. There is indeed a solution. Guinizelli and Dante read
further into the Banquet of Plato — or into the Christian doctrine built
upon that — to where the wise woman of Mantineia reveals the mysteries of
a love extending into a mystic otherworld — at least so Christians
read her teaching — where in the bosom of God all become as one.
There "wrath" is resolved into "meekness"
perfectly. The love of Guinizelli, and of Dante, was the love of
happier men of which Arnold speaks : Of happier men — for
they, at least, Have dream '</ two human hearts might
blend In one, and were through faith released From
isolation without end Prolong'd. But if Guido, even as Arnold,
lacked this faith, doubted this mystic otherworld whither therefore he
might not accompany his first friend to find his Giovanna, as Dante his
Beatrice, perfect in meekness, purged of all wrath, and to learn from her
release hereafter from the dividing flesh, union at last with her spirit
at peace ? — if he was of those, even uncertainly wavered with those,
who F anima col corpo morta f anno ? then indeed for
him, in degree as his desire was ideally exalted, so its grace, its
merzede, became an irony, a tragic paradox. His must be a passionate
loneliness forever teased by an illusion, a phantom mate of its own
conjuring. And
I at least so understand the concluding words of the canzone :
For di colore d'esser e diviso, assiso mezzo scuro luce rade
: for d'onne fraude dice, degno in fede, che solo di
costui nasce mercede. That is, the only love of which grace is born, entire
possession granted, is love of the dim immaterial idea, — " la
figlia della sua tnente, Vamorosa idea" as Leopardi calls it. Ixion
embraces his Cloud. Guido's lady's desirable perfection, her "
meekness," exists not in her, but in his glorified ideal of her,
" bereft " as that is " of color 1 Bereft is (love)
of color of existence, Seated half dark, it bars the light (i.e.
which might make it visible). Without deceit one saith, worthy of
faith, That born of such a love alone is grace. Rivalta's
reading without in would apparently make mezzo adverbial. The commoner reading,
" assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more naturally gives mezzo as
a noun: " seated in a dark medium," etc. The meaning is not substantially
different. The reading in mezzo, however, is more suggestive, as implying
not only the immateriality of the mental fact but also the darkening of
the " medium," i.e. the imagination, by the " Martian
" ray of passion. The assertion of the invisibility of love is in
answer to Orlandi's question restated by C. — " s* omo per veder lo po y
mostrare." Question and answer are alike absurd, however, unless we
understand "love" to mean the object loved, which it may
naturally do ; one's §l love " means both one's passion and one's
lady. of existence." Therefore Guido's mood is essentially one with
Leo- pardi's when the latter exclaims : Solo il mio cor
piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, Alia
guardia seder del mio dolore. 1 Guido has himself described with
quaint " preraphaelite " symbol- ism the process of progressive
detachment of the ideal from the real in the ballata beginning "
Veggio ne gli occhi." Cosa m* avien quand* i' le son
presente ch' i' no la posso a lo 'ntelletto dire : veder mi par de
la sua labbia uscire una si belladonna, che la mente comprender no
la pu6 ; che 'nmantenente ne nasce un* altra di bellezza nova, da
la qual par ch' una Stella si mova e dica: la salute tua e apparita. 2 The imagery here is manifestly in accord with contemporary
pictorial symbolism, in which souls as living manikins issue forth from
the lips of the dead; but the significance of the passage is, I take it,
at one with that of the so-called Platonic " ladder of love "
by which through successive abstractions the pure idea, the intelligible
virtue, is reached. The following stanza in the same ballata again
defines this "virtue" as "meekness," and again
declares it to be merely " intelligible," for di
colore d' esser . . . diviso, assiso mezzo scuro luce rade ;
1 Only my heart pleased me, and with my heart In a communing
without cease absorbed, Still to keep watch and ward o'er my own
smart. 2 Something befalleth me when she is by Which
unto reason can I not make clear: Meseems I see forth through her
lips appear Lady of fairness such that faculty Man hath
not to conceive ; and presently Of this one springs another of new
grace, Who to a star then seemeth to give place, Which
saith: Thy blessedness hath been with thee. only instead of the
metaphysical directness of the canzone, the poet employs the theological
tropes of the dolce stil. La dove questa bella donna
appare s'ode una voce che le ven davanti, e par che d' umilta '1
su' nome canti si dolcemente, che s' P '1 vo' contare sento che '1
su* valor mi fa tremare. E movonsi ne 1' anima sospiri che dicon :
guarda, se tu costei miri vedrai la sua vertu nel ciel salita. 1 And now the tragic note in Guido's is explained. It is
neither the polite fiction, the " pathetic fallacy " of the
Sicilian school, nor yet the quickly passing shadow of this life set
between Dante and the sun of his desire. La tua
magnificenza in me custodi, SI che P anima mia che fatta hai
sana, Piacente a te dal corpo si disnodi. Cosi orai "So I prayed," writes Dante, triumphant in
expectation ; but for those Che 1 'anima col corpo morta fanno,
there could be health of soul neither now nor hereafter. Wherefore
Guido's text in the analysis of his own passion is in all literalness the
words of the Preacher, — " All his days ... he eateth in dark- ness,
and he hath much sorrow and wrath in his sickness." Until 1
There where this gentle lady comes in sight Is heard a voice which
moveth her before And, singing, seemeth that Meekness to adore
Which is her name, so sweetly, that aright I may not tell for trembling
at its might. And then within my soul there gather sighs Which say:
Lo ! unto this one turn thine eyes: Her virtue to heaven wingeth
visibly. 2 Farad., XXXI, 88-91.Guido prays indeed for release
in death, not triumphantly as Dante, but piteously, in the spirit of
Leopardi's words in Amore e Morte: Nova, sola, infinita
Felicita il suo (the lover's) pensier figura : Ma per cagion di lei grave
procella Presentendo in suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in
porto Dinanzi al fier disio, Che gia, rugghiando, intorno intorno
oscura. 1 Poi, quando tutto avvolge La formidabil
possa, E fulmina nel cor Tinvitta cura, Quante volte
implorata Con desiderio intenso, Morte, sei tu dair affanoso amante
! 2 Precisely in this mood Guido invokes death : Morte
gientil, rimedio de' cattivi, merze merze a man giunte ti cheggio
: vienmi a vedere e prendimi, che peggio mi face amor : che mie'
spiriti vivi 1 Not only are Guido and Leopardi saying the same
thing in effect, but even their figures of speech are in accord. There is evident similarity of symbolism between the
soul-darkening storm blast of the one and the soul-darkening Martian ray
of the other ; although doubtless the mediaeval poet may have conceived
his " dark ray " as a real phenomenon. 2 New,
infinite, unique Felicity ... he pictures to his mind : And yet
because of it the wrath of storm Foreboding in his heart, he longs for
calm, Longs for the quiet haven Far from that fierce desire,
Which even now, rumbling, darkens all around.Then, when o'erwhelmeth him
The fury of its might, And in his heart thunders unconquerable
care, How many times he calls In agony of need, Death, upon
thee in his extremity ! son consumati e spenti si, che quivi, dov*
i' stava gioioso, ora mi veggio in parte, lasso, la dov' io
posseggio pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi ancora in piu
di mal s' esser piu puote ; perche tu, morte, ora valer mi puoi di
trarmi de le man di tal nemico. Aime ! lasso quante
volte dico : amor, perche fai mal pur sol a' tuoi come quel
de lo 'nferno che i percuote ? At other times Guido describes
the combat to the death between his " spirits " of life and
love. He enlarges his canvas and, calling to aid a whole dramatis
personae of the various " souls " and "animal spirits"
of scholastic psychology, objectifies his mood into miniature epic and
drama. This mythology of the inner world arose naturally enough to mind
from the ambiguity of the term " spirits," meaning at once
bodily humors and bodiless but personal creatures ; and in Guido's
delicate handling the symbolism is singularly effective. Only by
exaggeration of imitation did it grow stale and ludicrous, meriting the
jibes of Onesto da Bologna at such " sporte piene di 1 Gentle
death, refuge of th' unfortunate, Mercy, mercy with clasp'd hands I
implore : Loo^ down upon me, take me, since more sore Hath been
love's dealing : in so evil state Are brought the spirits of my
life, that late Where I stood joyous, now I stand no more,
But find me where, alas ! I have much store Of pain and grief with
weeping : and my fate Yet wills more woe if more of woe might
be; Wherefore canst thou, death, now avail alone To loose the
clutch of such an enemy. How many times I say, Ah woe is me 1
Love, wherefore only wrongest thou thine own, As he of hell from
his wrings misery ? 3spiriti." The following curiously
rhymed sonnet may illustrate his manner in this kind. L' anima
mia vilment' e sbigotita de la battaglia ch* ell' ave dal
core, che, s T ella sente pur un poco amore piu presso a lui che
non sole, la more. Sta come quella che non a valore, ch' e per
temenza da lo cor partita : e chi vedesse com' ell* e fuggita diria
per certo : questi non a vita. Per gli occhi venne la battaglia in
pria, che ruppe ogni valore immantenente si, che del colpo fu
strutta la mente. Qualunqu* e quei che piu allegrezza sente,
se vedesse li spirti fuggir via, di grande sua pietate piangeria. 1 It transpires then for Guido as for Leopardi that the only
grace, the only boon of peace, to which love leads is death ; and so is
verified 1 The spirit of my life is sore bested By
battle whereof at heart she heareth cry, So, that if but a little
closer by Love than his wont she feeleth, she must die. She is
as one dejected utterly ; The heart she hath deserted in her dread
: And who perceiveth how that she is fled, Saith of a certainty :
This man is dead. First through the eyes swept down the
battle-tide, Which broke incontinently all defense, And by its
wrath wrecked the intelligence. Whoever he that most of joy hath
sense, Yet if he saw the spirits scattered wide, In his excess of
pity must have sighed. %\ the warning of those who came to meet
him when he first entered the court of love : Quando mi
vider, tutti con pietanza dissermi : fatto se' di tal servente che
mai non dei sperare altro che morte. 1 In reality, he knows the
futility of any appeal to his lady for aid. She is indeed the innocent
occasion of his suffering, but of it she is a mere passive spectator,
hardly understanding it, and certainly help- less to relieve it ; and so
Guido himself describes her in the sonnet beginning " S' io prego
questa donna." In the midst of his agony, Allora par che
ne la mente piova una figura di donna pensosa, che vegna per veder
morir lo core. 2 Here then at last we find the
explanation of his interpretation of Dante's sonnet, when he said that
love fed Dante's heart to his lady, vegendo che vostra donna
la morte chedea. She claimed its death not willfully indeed, as the
capricious mistress of Ulrich von Lichtenstein " claimed " his
mutilation, but innocently, unwittingly, in that her beauty was as a
firebrand, her perfection, her " meekness," a goal of
unavailing consuming desire. She is helpless to relieve him, because —
and here is the core of the matter — it is not she, not the real woman,
that he loves, but that idealization of her which exists only in his own
mind — for di colore d' esser e diviso, assiso mezzo
scuro luce rade. Compared with this glorified phantom "nel
ciel (that is, into the intelligible world) salita," the real woman
also is but "ira," wrath and imperfection. So he pines for his
lady of dreams, who thus a 1 When they beheld me, unto me all
cried Pitiful : bondman art thou made of one Such that
for nought else mayst thou look but death. Into my mind then seems it that
there rays a figure of a pensive lady, com- ing to behold my heart
die." ghostly " vampire " feeds upon his human heart ; but
the real woman, " the woman who does not understand," is no
longer of moment to him. She is, as it were, but the nameless model to
his artist mind. When that has drawn from her all that is of fitness for
its master- piece, it straightway leaves her for another otherwise
completing the ideal type. Giovanna passes ; Mandetta arrives.
Una giovane donna di Tolosa bell' e gentil, d' onesta
leggiadria, tant' e diritta e simigliante cosa, ne'
suoi dolci occhi, de la donna mia, ch' e fatta dentro al cor
desiderosa P anima in guisa, che da lui si svia e vanne a lei
; ma tant* e paurosa, che no le dice di qual donna sia.
Quella la mira nel su* dolce sguardo, ne lo qual face rallegrare
amore, perche v' e dentro la sua donna dritta. Po' torna,
piena di sospir, nel core, ferita a morte d* un tagliente
dardo, che questa donna nel partir li gitta. 1 Plainly it is not of Giovanna, nor of any actual woman,
but of his ideal woman, of whom Giovanna herself was but a reminiscence,
that 1 A lady of Toulouse, young and most fair, Gentle, and
of unwanton joyousness, So is the very image and impress, In her
sweet eyes, of one I name in prayer, That my soul's wish is more
than it can bear : Wherefore it 'scapeth from the heart's
duress And cometh unto her ; yet for distress What lady it obeys
may not declare. She looketh on it with her gentle mien,
Whereunto by the will of love it yearns, Because that lady there it
may perceive. Then to the heart it, full of sighs, returns,
Unto death wounded by an arrow keen, The which this lady loosed when
taking leave. Mandetta reminds him. In her turn Mandetta will pass also.
Then will come Pinella, or another — what does it matter? What cared
Zeuxis for any one of his five Crotonian maidens, once each in her turn
had supplied that particular trait of loveliness which only she, perhaps,
had to offer, but had to offer only ? Mentre ch* alia
belta, ch* i* viddi in prima Apresso V alma, che per gli ochi vede,
L' inmagin dentro crescie, e quella cede Quasi vilmente e senza alcuna
stima. 1 The words are Michelangelo's, but the
idea is in effect Guido's. And it is an idea which, I think, renders
perfectly compatible in him con- stancy in ideal love with inconstancy in
real loves. To keep faith with perfection is to break faith with
imperfection. The love of Guido brooked no compromise. The perfect one
might be unattain- able in this life; perfect union with her, even if
found, might be impossible in this life; there might be no other life
than this so marred by the perpetual " state of wrath " to
which his impossible desire in its impotence doomed him ; yet
nevertheless Guido was willing to be damned for the greater glory of
Love. In conclusion, I would quote a passage from the elegy to
Aspasia of Leopardi, which puts into modern phrasing exactly what I
con- ceive to be Guido's intention, obscured as that is for us by
its scholastic terminology and its mixture of chivalric and
obsolete psychological imagery. Especially I would call attention to
the precisely similar way in which Leopardi, like Guido, combines in
his mood the loftiest idealization of Woman with the most
contemptuous conception of women. So Hamlet insults, even while he
adores. Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's
immortal rebuke, — when he . . . volse i passi suoi per via
non vera, Imagini di ben seguendo false. 1 While to the
beauty, which first drew my gaze, My soul I open, which looketh
through the eyes, The inward image grows, the outward dies In scorn
away, unworthy all of praise. But Dante was saved from ultimate cynicism,
ultimate unfaith, by the promise of perfect union with his ideal in
paradise. That
promise Guido, like Leopardi, rejected. Here is Leopardi's
confession : Raggio divino al mio pensiero apparve, Donna, la
tua belta. Simile effetto Fan la bellezza e i musicali accordi, Ch'
alto mistero d* ignorati Elisi Paion sovente rivelar. Vagheggia II
piagato mortal quindi la figlia Delia sua mente, l'amorosa idea,
Che gran parte d* Olimpo in se racchiude, Tutta al volto, ai costumi,
alia favella Pari alia donna che il rapito amante Vagheggiare ed
amar confuso estima. Or questa egli non gia, ma quella, ancora Nei
corporali amplessi, inchina ed ama. Alfin Perrore e gli scambiati
oggetti Conoscendo, s' adira . (" Sadira /" — " is
wrathful " — Leopardi's very words form a gloss to Guido's. But as little as Guido's is Leopardi's wrath directed against the
real woman, innocent occasion of his illusion and disillu- sion. Leopardi
continues :) e spesso incolpa La donna a torto. A quella eccelsa
imago Sorge di rado il femminile ingegno; E ci6 che inspira ai
generosi amanti La sua stessa belta, donna non pensa, Ne comprender
potria. (" The woman who does not understand "
!) Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto. E
male Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera V uomo ingannato, e
mal richiede Sensi profondi, sconosciuti, e molto Piu che virili,
in chi dell' uomo al tutto Da nature e minor. Che se piu molli E piu
tenui le membra, essa la mente Men capace e men forte anco riceve. 1 So the idealist skeptic of the nineteenth century aligns
himself with the idealist skeptic of the thirteenth, even to that last
truly mediaeval touch — confusio hominis est femina. And, if I have
not somewhere gone off on a tangent, I have described my circle.
Guido's philosophy of love at least fits with the hypothesis of his
skepticism, and a practical consequence of both would be that actual
fickleness of heart to which tradition again bears witness. 1
A ray celestial to my thought appeared, Lady, thy loveliness. Similar
effects Have beauty and those harmonies of music Which the high
mystery of unfathomed heavens Seem ofttimes to illumine. Even so
Enamoured man upon the daughter broods Of his own fancy, the amorous
idea, Which great part of Olympus comprehends, In feature all, in
manner, and in speech Unto the woman like, whom, rapturous man, In
his false lights he seems to see and love. Yet her he doth not, but that
other, even In corporal embracings, crave and love. Until, his
error and the intent transferred Perceiving, he grows wrathful ; and oft
blames With wrong the woman. To that ideal height Rarely indeed the
wit of woman rises ; And that which is in gentle hearts inspired By
her own beauty, woman dreams not of, Nor yet might understand. No room
have those Too straitened foreheads for such thoughts. And fondly
Upon the spirited flashing of that glance Builds the infatuate man, and
fondly seeks Meanings profound, undreamt-of, and much more Than
masculine, in one than man in all By kind inferior. For if more
tender, More delicate of limb, so with a mind Less broad, less vigorous
is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria
dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante
non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo
perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin, co- e holos, tutto. – l’amore come incontro disastroso di due
entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool
Library. Cavalcanti.
Grice e Cavallo: la ragione conversazionale el’implicatura
conversazionale di Frankenstein, homo electricus – la morte di Fedro –
fulminated by one of Giove’s lightnings -- elettrico – scuola i Napoli –
filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli).
Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice:
“I love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the
whole are: the Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore
where Fetonte fell – due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is
what at Oxford we would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once
a chair – it’s very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’
philosophy that still sub-sists, as Heidegger would put it! By using
‘elettricita’ in the feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but
Strawson criticised most!” -- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed
elettricità medicale, compe anche studi relativi ai gas e all'influenza
dell'aria e della luce sulla biologia. Propone numerosi apparecchi
elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità di volare
utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio. Altre opere:
TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si dedica alla filosofia e al
commercio a giudicare da alcuni suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo
come ideatore di esperimenti, inventore e realizzatore di strumenti di
precisione e di apparati sperimentali, anche su commessa, e autore di trattati
sistematici molto valutati per chiarezza, sistematicità e completezza. Si
lo ricorda in particolare per i suoi studi di aeronautica, legati alla
possibilità di usare l’idrogeno come gas portante. E il primo a effettuare
esperimenti sistematici sulle capacità ascensionali dell’idrogeno, gas che era
stato scoperto quindici anni prima da Cavendish. Inizia con bolle di sapone
riempite d’idrogeno, e che per questo salivano in verticale. Prova poi con
involucri di carta, che però si rivelano inadatti perché permeabili al gas, e
infine con vesciche di animali, troppo pesanti per sollevarsi ma in grado di
far misurare una riduzione del peso. Non riusce a trovare un involucro
abbastanza leggero da sollevarsi una volta riempito di gas. Fisico; recatosi
per commercio in Inghilterra, ivi si dedicò a ricerche di fisica e di chimica.
Ha intuito la possibilità del volo per via aerostatica, mediante un pallone
ripieno di gas leggero; eseguì in proposito una serie di ingegnose esperienze
servendosi di bolle di sapone gonfiate con idrogeno. Deve considerarsi il vero
inventore dell'elettroscopio. Fisico e
filosofo naturale italiano. I suoi interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo
di strumenti scientifici, la natura delle "arie" e il volo in
mongolfiera. Membro della Royal Academy of Sciences di Napoli. Presenta tredici
volte di seguito la Lezione Bakeriana della Royal Society di Londra. Nacque a
Napoli, Italia, dove suo padre era un medico. Apporta diversi ingegnosi
miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso citato come l'inventore del “moltiplicatore
di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro tascabile" che usa per
amplificare piccole cariche elettriche per renderle osservabili e misurabili
con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto dalle correnti d'aria da
un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In seguito al lavoro di
Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti sistematici sulla
refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi volatile. Si interessa alle
proprietà fisiche delle "arie" o dei gas e condusse esperimenti sull’aria
infiammabile (idrogeno gassoso). Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà
dell'aria” fece "un esame giudizioso del lavoro contemporaneo",
discutendo sia la teoria del “flogisto” (citado da Grice in “Actions and
events”) di Priestley che le opinioni contrastanti di Lavoisier. Alla Royal
Society venne letto un articolo che descrive il primo tentativo di sollevare in
aria un palloncino pieno di idrogeno. La sua “Storia e pratica
dell'aerostazione” e considerata "una delle prime e migliori opere
sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo secolo". In esso, discute
sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i suoi principi fondamentali. Si
rivolge a un pubblico più generale in questo lavoro, evitando il gergo tecnico
e le prove matematiche, ed era un efficace comunicatore scientifico sia per i
suoi colleghi che per il pubblico in generale. Influenza i pionieri
dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard. Storia e pratica dell'aerostazione,
C. La piastra I, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per
la generazione di idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i
palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno C. pubblicò anche sul
temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti
musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel
clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc. Il memoriale di Coutts, Old St.
Pancras. Il nome di C. è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo
quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino
a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett
Coutts alle molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere:
Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic, tra cui: “Trattato
completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze: Cambiagi); “Teoria e
pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà
dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo
sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato
sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia
naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli
su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un
resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici di C. comunicato da Henley,
FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO
D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI. FIRENZE, CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON
LICENZA DE SUPÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E
CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec. A voi
solo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi nale
ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e di
compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio. Ella è d'uno della vostra nazione,
è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti
gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante Gabinetto, che
avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi brama profittare
delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali. Proſeguite come fate in que queſta Voſtra
generoſa in trapreſa; mentre ſotto i Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più
profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA
Di Caſa Umiliſſimo Servo. Mi ſarei facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo
a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore
della medeſima, della ſtampa che meditavo fare della preſente verſione, anco
per ſentire da ello ſe avea niente da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro.
Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma gellan alle richieſte d'un mio amico ſu
queſto propoſito, gradì molto queſta parte, e traſmeſſe alcune addizioni e
cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come èſtato eſeguito, accompagnati
con una corteſe let tera del tenore ſeguente. Signore. Incluſa in queſta Ella
riceverà una nota di alcune poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO
biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E.
lettricità. La prego fare intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente
che ſono loro molto obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa, e
che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che poſſo. Suo C., Sig. Magellan Nevils
Court Ferter Lane. 1 NEL TRATTATO DI C. SULL' ELETTRICITA'. In vece di è quaſi
tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe.
Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un
corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere. Pag. DEL TRADUTTORE } . Il
paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina
nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto. .
Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi:
Higgins ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello
di ſtagno, perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro
più potentemente, ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di
fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio
meſcolati inſieme. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto
recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo
ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi,
cioè dee dir così, non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag.
335.v.8. Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di
circoſtanze. Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e
LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che
la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati
ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig.
PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità
promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice, e godi di queſta fatica. 1. HL
diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che
comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più
riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare. Eſſo è diviſo in quattro
parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano
anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto,
che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di
quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia. La
prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità; cioè di quelle leggi
naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi
ſono trovate coſtantemente vere, e che non dipendono da veruna ipoteſi. In
queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità, la quale non foſſe
chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca conſeguen za; ma nel tempo medeſimo
ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante, o che ſembraſſe
promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica, non
per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità
della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più
breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la pratica dell' elettricità.
Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi
glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare
la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli
eſperimenti medeſimi, egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari
che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi
dell'elettricità, omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere
altro che i primi in qualche coſa va rjati. Egli niente di meno ha dato un rag
guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero
però meritare che ſene defle notizia. La quarta ed ultima parte contiene un
breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in
conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte
di fi loſofia. Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi
che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to, maancora d'innumerabili
congetture che ha formato intorno a' medeſimi, e intorno ad altri non ancora
ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione. L'autore prende queſt' opportunità
di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe
eſperienze comunicategli, e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha
fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che
ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera. Non è ſembrato neceffario
il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in
queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo; per lo che l'autore ſi è
riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve, o
non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia. Per rendere il trattato
più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo
indice delle materie che meritano maggiore attenzione. Neroduzione pag. Leggi
fondamentali dell'elettricità. Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni
che fono principalmente uſati nelle lettricità. Degli elettrici, e dei
conduttori. Delle due elettricità. Dei differenti metodi di eccitare gli elet
trici. Dell elettricità comunicata Dell' elettricità comunicata agli elettri ci.
Degli elettrici caricati, ovvero della Boccia di Leida '. Dell elettricità
atmosferica go. Vantaggi derivati dall elettricità.. Che contiene un proſpetto
compendioſo del le proprietà principali dell elettrici tà. Teoria
dell'elettricità, Ipoteſi dell' elettricità poſitiva, e negatiVa 126. Della
natura del fluido elettrico Della natura degli elettrici, e dei con duttori...
Del luogo occupato dal fluido elettrico. Elettricità pratica. Dell'apparato
elettrico in generale. Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche ze...
Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico.
Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico, ed il fare
l'eſperien Sperimenti relativi all'attrazione, e re pulſione elettrica
Sperimenti ſulla luce elettrica... Sperimenti colla bottiglia di Leida.
Sperimenti con altri elettrici caricati. Sperimenti ſull' influenza delle punte,
e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere gli edifizj
dagli effetti del fulmine Elettricità medica..Sperimenti fatti con la batteria
elettri Sperimenti promiſcui Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero
degli elettrici caricati. Nuovi
ſperimenti dell' elettricità.. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di
altri ſtrumenti uſati con ello Sperimenti fatti con l' aquilone elettri . co
Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico, e coll' elettrometro per la
prog gia. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per
eſibire l'elettricità perpetua · Sperimenti ſu i colori. Sperimenti promiſcui L
E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni
fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano
l'umana attenzione, e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo
divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan
preſto, e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi
ſecoli d'oblivione. Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono
riſervate ed elenti, le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del
loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo
ride; e ſebbene una volta ſiano ſtate incognite, pure quando la fama ne ha
fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo
declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di
queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra
tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo.
Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua
forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è
ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza
interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in
cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at
tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe.
Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre
relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re
pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama
ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi:
ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola
eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e
ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di
grand'uſo all'igno rante ugualmente che al FILOSOFO, all' opulento ugualmente
che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante
luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua
attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo
ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma
quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, Come cauſa del tuono, del fulmine,
dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui terribili effetti
poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare, allora sì che
reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di contemplare
altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della
ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche
effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto
che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui
nome greco è nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il
Lincurio poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto ſolamente era
tutto cio [E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è
la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae
fione di parlare nel corſo di queſto trattato. ciò che ſi conoſceva ſu tal
ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel qual lungo periodo non
troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna
ſcoperta, e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia, eſſendo
rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert
medico Ingleſe, che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo; ed il quale
a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente
chiamarſi il padre della preſente Elettricità. Offerva egli che la proprietà
d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà
particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che molti altri corpi la poſſeggono
egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie
particolarità, che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono
ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando
benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità,
a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte
ope razioni. Tale fu Bacone, Boyle,
Guericke, Newton, e più di tutti Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati
per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità.
Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza
che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in
preferenza di qualunque altro elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie
apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con
una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Dopo
il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata,
rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei
Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in
riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora
grandemen. te in reputazione. Il Sig. Grey fu il primo dopo queſto periodo d'
oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le
gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da
lui ſi può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell'
Elettricità. Il numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato
dal tempo del Sig. Grey, le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino
al tempo preſente, fono materia realmente degna d'atten zione e meritano
l'ammirazione di qua lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere.
Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza,
legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Priestley,
opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto
ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un
lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio
dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto
oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella
attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono
giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro
attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o
grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro
effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino
all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione
può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in
una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto
della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu.
accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che
ſi chiama boccia di Leida in ventata da Muſchenbroeck. Allora lo ſtudio dell'
Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e invitò alla caſa
degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi
foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filosofico ſpe rimento.
Dal perta del Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti,
di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da
ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo, è quafi incredibile. Le
ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i megliora menti ſopra altri
meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo, ed ora ſi
eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere
tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche: per
altro non è così. Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto
lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita
altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d'
uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte.Of Natural
Philosophy;—~its Name;•—its Objeft —its Axioms; —and the Rules of
Philofophizing. The word FILOSOFIA, though used by ancient authors in senses
somewhat different, does, however, in its most usual acceptation, mean the love
of general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philosophy
treats of the manners, the duties, and the condud of man, considered as a
rational and social beings but the business of natural philosophy, is to colled
the history of the phenomena which take place amongst natural things, viz.
among the bodies of the universes to investigate their causes and effects; and
thence to deduce such natural laws, as may afterwards be applied to a variety
of useful purposes. The word philosophy is of Greek origin. PITAGORA, a learned
Greek, seems to have been the firfl who called himfelf philosopher j viz. a
lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general. Natural
things means all bodies; and the assemblage or fyftem of them all is called the
universe. The word “phenomenon” signifies an appearance, or, in a more enlarged
acceptation, whatever is perceived by our senses. Thus the fall of a stone, the
evaporation of water, the folution of salt in water, a tlafh of lightning, and
fo on; are all phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to
different bodies; for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of
the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c.
therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine the
properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes,
and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a
lover or friend, and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is
derived from the latin mos, or its plural mores, fignifying manners or
behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos,
manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics, phyfology,
and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature,
or gv-T.hr., natural; the fecond is derived from pvair, nature, and >. a
dijeourfe; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is
obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which
has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. “Phenomenon,”
whose plural is “phenomena”, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to
appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will
find in the courfe of this work, an account of the principal properties of
natural bodies, arranged under diftincft heads, with an explanation of their
efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as has been afeertained
by means of reafoning and experience; he will be informed of the principal
hypothefes that have been offered for the explanation of faffs, whofe caufes
have not yet been demonflratively proved; he will find a flatement of the laws
of nature, or of fuch rules as have been deduced from the concurrence of
fimilar facts; and, laftly, he will be inftrudted in the management of
philofophical inflruments, and in the mode of performing the experiments that
may be thought neceffary either for the llluftration of what has been already
afeertained, or for the farther inveftigation of the properties of natural
bodies. We need not fay much with refpect to the end 01 defign of natural
philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages which mankind may
deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very fuperficial examination of
whatever takes place about us. The properties of the air we breathe; the action
and power of our limbs; the light, the found, and other perceptions of our
fenfes; the adcions of the engines that are ufed in hufoandry, navigation,
&c.; the viciffitudes of the feafons, the movements of the celeflial
bodies, and io forth; do all fall under the con fideration of b 2 the 4 Of
Philosophy in general; the philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-.
depends upon them. A very flight acquaintance with the political ftate of the
world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the various branches
of natural philofophy has actually placed the Europeans and their colonies
above the reft of mankind. Their. difcoveries and improvements in aftronomy,
optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts
which depend on thofe and other branches of philofophy, have fupplied them with
innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied their riches, and have
extended their powers to a degree even beyond the expectations of our
predeceffors. The various properties of matter may be divided into two claffes,
viz. the general properties, which belong to all bodies, and the peculiar
properties, or thofe which belong to certain bodies only, exclufively of
others. In the firft part of this work we fhall examine the general properties
of matter. Thofe which belong to certain bodies only, will be treated of in the
l'econd. In the third part we fhall examine the properties of fuch fubftances
as may be called hypothetical; their exiftenee having not yet been
iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our views beyond the
limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements, and other
properties of the celeltial bodies. The and the Rules of Philofophizing. 5 The
fifth, or laft part, will contain feveral detached articles, fuch as the
defeription of feveral additional experiments, machines, &c. which cannot
conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of philofophy,
or the axioms which have been deduced from common and conftant experience, are
fo evident and fo generally known> that it will be fufficient to mention a
few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI. No fubftance, or
nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be annihilated, or
reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit, the propriety
of this axiom; feeing that a great many things appear to be utterly deftroyed
by the action of fire; alfo that water may be caufed to difappear by means of
evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that in thofe cafes the
lubftances are not annihilated; but they are only difperfed, or removed from
one place to another, or they are divided into particles fo minute as to elude
our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the fire, the greateft
part of it difappears, and a few afhes only remain, the weight and bulk of
which does not amount to the hundredth part ot that of the original piece of
wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3 its 6 O/Philosophy
in general; its component fubdances, which the atdion of the fire drives
different ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the light coaly
part either adheres to the chimney or is difperfed through the air, &c. And
if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded together,
(which may in great meafure be done), the fum of their weights would equal the
weight of the original piece of wood. Every effect has, or is produced by, a
caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved with refpedt
to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been conflantly (hewn,
and confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon, or by
any experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as the
axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to the
agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends are
too far re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the
principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention
the rules of philofophizing, which have been formed after mature confideration,
for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead
the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true
and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the
Rules of Philofophizing. We are to admit no more caufes of natural things, than
fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II. Therefore to
the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame caufes. Such
qualities of bodies as are not capable of increafe or decreafe, and which are
found to belong to all bodies within the reach of our experiments, are to be
efteemed the univerfal qualities ol all bodies whatfoever. IV. In experimental
philofophy we are to look upon propofitions colledted by general induction from
phenomena, as accurately or very nearly true, notwithftanding any contrary
hypothefes that may be imagined, till fuch time as other phenomena occur, by
which they either may be corrected, or may be fhewn to be liable to exceptions
With refpeft to the degree of evidence which ought to be expected in natural
philofophy, it is neceifary to remark, that phyficai matters cannot in general
be capable of luch abfolute certainty as the branches of mathematics.—The
propofitions of the latter fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo
very fimple and evident, as to convey perfect convi&ion to the mind; nor
can any of them be denied without a manifeft: abfurdity. But in natural
philofophy we can only fay, that becaufe lome particular effects have been
conflantly produced under certain circumftances; therefore they will moft
likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as
the lame circumftances exifl; and likewife that they do, in all probability,
depend upon thofe circumftances. And this is what vve mean by laias of nature \
as will be more particularly defined in the next chapter. We may, indeed,
affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning upon them, we may ftndtly
demontliate the deduction of certain confequences. But as the demonftration
goes no farther than to prove that luch confequences muft neceflarily follow
the principles which have been afl'urned, the conlequences themfelves can have
no greater degree of certainty than the principles are pofieftedof; fo that
they are true, or falfe, or probable, according as the principles upon which
they depend are true, or faife, or probable. It has been found, for inftance,
that a magnet, when left at liberty, does always direct itfelf to certain parrs
of the world; upon which property the mariner’s compafs has been conftructed;
and it has been likewife obferved, that this directive property of a natural or
artificial magnet, is not obftructed by the interpofition or proximity of gold,
or filver, or glaft, or, in fhort, of any other fubftance, as far as has been
tried, excepting iron and ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as
a principle, it naturally follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s
compafs may be made of any fubftance that may be moft agreeable to the.
workman, or that may beft anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and
the Rules of Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means
fo certain as a geometrical one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be
highly probable; for though all the bodies that have been tried with this view,
iron excepted, have been found not to afifefl the directive property of the
magnet or magnetic needle, yet we are not certain that a body, or fome
combination of bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt
that property. Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to
encourage fcepticilm; my only objedt being to fhew that juft and proper degree
of conviction which ought to be annexed tophyfical knowledge; fo that the
ftudent of this fcience may become neither a blind believer, nor a uielels
fceDtic*. Befides a ftriCt adherence to the abovementioned rules, whoever
withes to make any proficiency in the ftudy of nature, (liould make himfelf
acquainted with the various branches of mathematics, at leaft with the elements
of geometry, arithmetic, trigonometry, and the principal properties of the
conic * Scepticifm or fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient
let of philofopbers, whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain
and incomprehenlible; and that the mind is never to afient to any thing, but to
remain in an absolute date of hefitation and. indifference. The word fceptic is
derived from the Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive.
A General Idea of Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed
depends upon motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate
velocities, powers, weights, times, &c, without a competent degree of
mathematical knowledge; which fcience may in truth be called the language of
nature. Mary Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the
200th anniversary of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its
roots in experiments with electricity on the dead Jamie Doward It is one of the most famous novels of all
time, often cited as the first work of science fiction, with a genesis almost
as well known as its terrifying central character. Mary Shelley’s
Frankenstein: or the Modern Prometheus was published. It was the result of a challenge laid down by
Lord Byron, when Shelley and her lover – later her husband – Byron’s fellow
poet Shelley were holidaying at Lake Geneva in Switzerland. The party had
hoped for good weather, but the eruption of a volcano in the East Indies, the
greatest event of its kind in recorded history, had ushered in three years of
bone-chilling cold that killed crops and cast a shadow across Europe. As they
huddled for warmth around a fire one night, Byron suggested each of them should
write a horror story. For days Shelley suffered writer’s block until she
came up with the idea of a scientist who reanimated a creature stitched
together from body parts, only to be horrified by his success. Some believe
Shelley was inspired by a trip to Germany, where she is thought to have learned
the legend of Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an
alchemist called Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for
experimentation. But it now appears Shelley’s true source of inspiration
for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a
foreword to a new edition of the classic, to be published by Oxford University
Press next month, Nick Groom, of Exeter, sometimes referred to as the “Prof of
Goth”, suggests it was her husband’s fascination with galvanism – chemically
generated electricity – that sparked her imagination. Shelley. Shelley.
Photograph: Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s most cherished
Romantic poets and author of the celebrated sonnet Ozymandias, was fascinated
by science, in particular the creation of electricity. “He was very excited by
galvanic apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would recall that he
would, as she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to make all the
family sit around the dining room table holding hands, and he’d turn up with
some brown paper, a bottle and a wire and they’d all get electrocuted.”
On one occasion Percy even threatened to electrocute the son of his scout at
Oxford. Mary and Percy enjoyed a symbiotic working relationship. She
corrected his proofs and he helped edit Frankenstein. But Groom is clear that
the book was, contrary to what some have argued, Mary’s creation. “The work is
by her and should be attributed to her.” Sent down from Oxford for
co-authoring a pamphlet on atheism, Percy attended anatomy classes for a term
at St Bartholomew’s hospital in London.. “One of the things she would have got
from talking to her husband about laboratories was that they were really filthy
places,” Groom said. “The cadavers would be in a state of advanced putrefaction
when they arrived. These were not antiseptic places full of chaps in white
coats. They were unpleasant. The word filthy turns up a lot in Frankenstein.
There was something really disreputable about medical science, which Mary
Shelley is fascinated in.” She would have been aware of notorious public
experiments involving galvanism. “There was a particularly chilling one in
London when galvanism was used on the body of an executed criminal,” Groom
said. “The very first thing that happened was that the corpse opened its eyes.
A very Frankenstein moment.” At the time Mary was writing, the rights of
animals had become a concern for many of the intelligentsia. “The being that
Victor creates knows he’s not human but still believes that he should have
rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the novel is, do you afford
comparable rights to non-human sentient creatures?” Two centuries on, the
novel continues to shape contemporary thinking, Groom suggested, posing
questions about matters such as artificial intelligence and genetic
modification. But Mary’s astonishing foresight has yet to be fully
recognised. “Her reputation has been overtaken by the films, which have
oversimplified these questions in ways that don’t really reflect the
sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster has none of
the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie, he’s
intelligent and sentient. “People need to see this as a novel for today.
It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which still
concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico,
filosofia naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. Cavallo.
Grice
e Cavour: implicatura conversazionale e ragione conversazionale – scuola di
Torino – filosofia torinese -- filosofia piemontese – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Torino).
Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Camillo Benso, conte
di C. Voce Discussione Leggi Visualizza sorgente Cronologia
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modificata solo da utenti registrati Disambiguazione – "C."
rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi C. (disambigua).
Disambiguazione – "Conte di C." rimanda qui. Se stai cercando la
corazzata, vedi Conte di C. (nave da battaglia). Camillo Benso di C.
Antonio Ciseri, ritratto di Camillo Benso di C., olio su tela, 1859 ca.
Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia Ministro degli affari
esteri Durata mandato MonarcaVittorio Emanuele II Predecessore carica creata
Successore Bettino Ricasoli Presidente del Consiglio dei ministri del Regno di
Sardegna Durata mandato Monarca Vittorio Emanuele II Predecessore Massimo
d'Azeglio Successore Alfonso Ferrero La Marmora Durata mandato Predecessore
Alfonso Ferrero La Marmora SuccessoreSé stesso come Presidente del Consiglio
dei ministri del Regno d'Italia Ministro dell'agricoltura e commercio del Regno
di Sardegna Durata mandato Monarca Vittorio Emanuele II Capo del governo Massimo
d'Azeglio Predecessore Pietro De Rossi Di Santarosa Ministro delle finanze del
Regno di Sardegna Durata mandato Monarca Vittorio Emanuele II Capo del governo
Massimo d'Azeglio Predecessore Giovanni Nigra Successore Luigi Cibrario Sindaco
di Grinzane Durata mandato Deputato del Regno di Sardegna Durata mandato Durata
mandato Legislatura Sito istituzionale Deputato del Regno d'Italia Durata
mandato Legislatura Sito istituzionale Dati generali Suffisso onorifico Conte
di C. Partito politico Destra storica Professione Filosofo, Politico,
imprenditore Firma Firma di Camillo Benso di C. Camillo Paolo Filippo Giulio
Benso, conte di C., di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come
conte di C. o C. (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861), è stato un
politico, patriota e imprenditore italiano. Fu ministro del Regno di
Sardegna dal 1850 al 1852, presidente del Consiglio dei ministri dal 1852 al
1859 e dal 1860 al 1861. Nello stesso 1861, con la proclamazione del Regno
d'Italia, divenne il primo presidente del Consiglio dei ministri del nuovo
Stato e morì ricoprendo tale carica. Fu protagonista del Risorgimento
come sostenitore delle idee liberali, del progresso civile ed economico, della
separazione tra Stato e Chiesa, dei movimenti nazionali e dell'espansionismo
del Regno di Sardegna ai danni dell'Austria e degli stati italiani
preunitari. In economia promosse il libero scambio, i grandi investimenti
industriali (soprattutto in campo ferroviario) e la cooperazione fra pubblico e
privato. In politica sostenne la promulgazione e la difesa dello Statuto
albertino. Capo della cosiddetta Destra storica, siglò un accordo
("Connubio") con la Sinistra, con la quale realizzò diverse riforme.
Contrastò apertamente le idee repubblicane di Giuseppe Mazzini e spesso si
trovò in urto con Giuseppe Garibaldi, della cui azione temeva il potenziale
rivoluzionario. In politica estera coltivò con abilità l'alleanza con la
Francia, grazie alla quale, con la seconda guerra di indipendenza, ottenne
l'espansione territoriale del Regno di Sardegna in Lombardia. Riuscì a gestire
gli eventi politici (sommosse nel Granducato di Toscana, nei ducati di Modena e
Parma e nel Regno delle Due Sicilie) che, assieme all'impresa dei Mille,
portarono alla formazione del Regno d'Italia. Biografia La famiglia e la
giovinezza (fino al 1843) Lo stesso argomento in dettaglio: Benso
(famiglia). Michele Benso di C., padre di Camillo. Il palazzo a
Torino dove nacque C.. Adèle de Sellon (1780-1846), madre di Camillo.
Ritratto giovanile di C..[1] Camillo nacque il 10 agosto 1810 nella Torino
napoleonica. Suo padre, il marchese Michele Benso di C., era collaboratore e
amico del governatore principe Camillo Borghese (marito di Paolina Bonaparte,
sorella di Napoleone I) che fu padrino di battesimo del piccolo Benso al quale
trasmise il nome. La madre del piccolo Camillo, Adèle de Sellon (1780-1846),
sorella del conte Jean-Jacques de Sellon, scrittore, filantropo, collezionista
d'arte, mecenate e pacifista svizzero, apparteneva invece ad una ricca e nobile
famiglia calvinista di Ginevra, che aveva raggiunto un'ottima posizione negli
ambienti borghesi della città svizzera[2]. Aristocratico[N 1], C. in
gioventù frequentò il 5º corso della Regia Accademia Militare di Torino
(conclusosi nel 1825) e nell'inverno 1826-1827, grazie ai corsi della Scuola di
Applicazione del Corpo Reale del Genio, diventò ufficiale del Genio[N 2].
Il giovane si dedicò ben presto, per interessi personali e per educazione
familiare, alla causa del progresso europeo. Fra i suoi ispiratori fu il
filosofo inglese Jeremy Bentham, alle cui dottrine si accostò per la prima
volta nel 1829, nonché Jean-Jacques Rousseau[N 3]. Di Bentham quell'anno lesse
il Traité de législation civile et pénale, in cui il filosofo inglese sostiene
la dottrina dell'utilitarismo, espressa concisamente dal principio: «Misura del
giusto e dell'ingiusto è soltanto la massima felicità del maggior numero».
Un'altra tesi sostenuta da Bentham, secondo cui ogni problema poteva ricondursi
a fatti misurabili, fornì al realismo del giovane C. una base teorica utile
alla sua inclinazione all'analisi matematica[3]. Trasferito nel 1830 a
Genova, l'ufficiale Camillo Benso ebbe modo di conoscere la marchesa Anna
Giustiniani Schiaffino, con la quale avvierà un'importante amicizia
intrattenendo con lei un lungo rapporto epistolare[4]. All'età di
ventidue anni C. venne nominato sindaco di Grinzane, dove la famiglia aveva dei
possedimenti, e ricoprì tale carica fino al 1848[5]. Dal dicembre 1834 iniziò a
viaggiare all'estero studiando lo sviluppo economico di paesi largamente
industrializzati come Francia[6] e Gran Bretagna. In questo contesto culturale,
già a ventidue anni, C. era influenzato dagli ideali risorgimentali e
manifestava nelle sue lettere private il sogno di diventare "primo
ministro del Regno d'Italia".[7] I viaggi di formazione a Parigi e a
Londra Lo stesso argomento in dettaglio: Viaggi di formazione di Camillo
Benso, conte di C.. Accompagnato dall'amico Pietro De Rossi di Santarosa, C. nel
febbraio del 1835 raggiunse Parigi, dove si fermò per quasi due mesi e mezzo:
visitò istituzioni pubbliche di ogni genere e frequentò gli ambienti politici
della Monarchia di Luglio. Partito dalla capitale francese, il 14 maggio 1835
arrivò a Londra dove si interessò di questioni sociali. Durante questo
periodo il giovane Conte sviluppò quella propensione conservatrice che lo
accompagnerà per tutta la vita, ma al tempo stesso sentì fortemente crescere
l'interesse e l'entusiasmo per il progresso dell'industria, per l'economia
politica e per il libero scambio. Di nuovo a Parigi, fra il 1837 e il
1840 frequentò assiduamente la Sorbona e incontrò, oltre a vari intellettuali,
gli esponenti della monarchia di Luigi Filippo della quale conservava una viva
ammirazione. Nel marzo 1841 fondò con degli amici la Società del Whist,
club prestigioso costituito dalla più alta aristocrazia torinese[8]. Da
proprietario terriero a deputato (1843-1850) Fra il ritorno dai viaggi
all'estero nel giugno del 1843 e l'ingresso al governo nell'ottobre del 1850,
C. si dedicò ad una nutrita serie di iniziative nel campo dell'agricoltura,
dell'industria, della finanza e della politica. Gli affari in agricoltura
e nell'industria Importante possidente terriero, C. contribuì, già nel maggio
1842, alla costituzione dell'Associazione agraria che si proponeva di
promuovere le migliori tecniche e politiche agrarie, per mezzo anche di una
Gazzetta che fin dall'agosto 1843 pubblicava un articolo del Conte[9].
Impegnatissimo nell'attività di gestione soprattutto della sua tenuta di Leri,
C. nell'autunno 1843, grazie alla collaborazione di Giacinto Corio, iniziò
un'attività di miglioramenti nei settori dell'allevamento del bestiame, dei
concimi e delle macchine agricole. In sette anni (dal 1843 al 1850) la sua produzione
di riso, frumento e latte crebbe sensibilmente, e quella di mais addirittura
risultò triplicata[10]. Ad integrare le
innovazioni della produzione agricola, Camillo Benso intraprese anche delle
iniziative di carattere industriale con risultati più o meno buoni. Fra le
iniziative più importanti, la partecipazione alla costituzione della Società
anonima dei molini anglo-americani di Collegno nel 1850, di cui il Conte
divenne successivamente il maggiore azionista e che ebbe dopo l'unità
d'Italiauna posizione di primo piano nel Paese[11]. Le estese relazioni d'affari a Torino,
Chivasso e Genova e soprattutto l'amicizia dei banchieri De La Rüe[N 4],
consentirono inoltre a C. di operare in un mercato più ampio rispetto a quello
usuale degli agricoltori piemontesi cogliendo importanti opportunità di
guadagno. Nell'anno 1847, ad esempio, realizzò introiti assai cospicui
approfittando del pessimo raccolto di cereali in tutta Europa che diede luogo
ad un aumento della richiesta spingendo i prezzi a livelli inconsueti[12]. Lo sviluppo delle idee politiche La linea ferroviaria Torino-Genova nel 1854. C.
attribuì alle ferrovie un'importanza decisiva nello sviluppo del progresso
civile e del movimento nazionale. Oltre ai suoi interventi sulla Gazzetta della
Associazione agraria, C. in quegli anni si dedicò alla scrittura di alcuni
saggi sui progressi dell'industrializzazione e del libero scambio in Gran
Bretagna, e sugli effetti che ne sarebbero derivati sull'economia e sulla
società italiana[13]. Principalmente C.
esaltava le ferrovie come strumento di progresso civile al quale, piuttosto che
alle sommosse, era affidata la causa nazionale. Egli a tale proposito mise in
rilievo l'importanza che avrebbero avuto due linee ferroviarie: una
Torino-Venezia e una Torino-Ancona[14].
Senza alcun bisogno di una rivoluzione, il progresso della civiltà
cristiana e lo sviluppo dei lumisarebbero sfociati, secondo il conte, in una
crisi politica che l'Italia era chiamata a sfruttare[15]. Camillo Benso aveva infatti fede nel progresso
che era soprattutto intellettuale e morale, poiché risorsa della dignità e
della capacità creativa dell'uomo. A tale convinzione si accompagnava l'altra
che la libertà economica è causa di interesse generale, destinata a favorire
tutte le classi sociali. Sullo sfondo di questi due principi emergeva il valore
della nazionalità[16]: «La storia di
tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di
intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia
fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua
nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente
in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni
più umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di
vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità» (C., Chemins de fer, 1846, da Romeo, pp. 137,
141) .
A favore dello Statuto e della guerra del 1848 Lo stesso argomento in dettaglio: Statuto albertino
e Prima guerra d'indipendenza italiana .
C. a 31 anni, nel 1841.[17] La
battaglia di Pastrengo. Nel 1848 C. sostenne la guerra contro l'Austria come
soluzione al pericolo rivoluzionario che minacciava il Piemonte. Nel 1847 C.
fece la sua comparsa ufficiale sulla scena politica come fondatore, assieme al
cattolico liberale Cesare Balbo, del periodico Il Risorgimento, di cui assunse
la direzione. Il giornale, costituitosi grazie ad un ammorbidimento della
censura di re Carlo Alberto, si schierò più apertamente di tutti gli altri, nel
gennaio del 1848, a favore di una costituzione[18]. La presa di posizione, che era anche di C.,
si rimarcò con la caduta in Francia (24 febbraio 1848) della cosiddetta
Monarchia di luglio, con la quale crollava il riferimento politico del Conte in
Europa. In questa atmosfera, il 4 marzo
1848, Carlo Alberto promulgò lo Statuto albertino. Questa "costituzione
breve" deluse gran parte dell'opinione pubblica liberale, ma non C. che
annunciò un'importante legge elettorale per la quale era stata nominata una
commissione, presieduta da Cesare Balbo, e della quale anche lui faceva parte.
Tale legge, poi approvata, con qualche adeguamento rimase in vigore fino alla
riforma elettorale del Regno d'Italia del 1882[19]. Con la repubblica in Francia, la rivoluzione
a Viennae Berlino, l'insurrezione a Milano e il sollevamento del patriottismo
in Piemonte e Liguria, C., temendo che il regime costituzionale potesse
diventare vittima dei rivoluzionari se non avesse agito, si pose in testa al
movimento interventista incitando il Re ad entrare in guerra contro l'Austria e
ricompattare l'opinione pubblica[N 5][20].
Il 23 marzo 1848, Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria. Dopo i
successi iniziali, l'andamento del conflitto mutò e la vecchia aristocrazia
militare del regno fu esposta a dure critiche. Alle prime sconfitte piemontesi C.
chiese che si risalisse ai colpevoli che avevano tradito le prove di valore dei
semplici soldati. La deprecata condotta della guerra spinse allora alla convinzione
che il Piemonte non sarebbe stato al sicuro fino a quando i poteri dello Stato
non fossero stati controllati da uomini di fede liberale[21][N 6]. Deputato al Parlamento Subalpino Il 27 aprile
1848 ci furono le prime elezioni del nuovo regime costituzionale. C., forte
della sua attività di giornalista politico, si candidò alla Camera dei deputati
e fu eletto nelle elezioni suppletive del 26 giugno. Fece il suo ingresso alla
Camera (Palazzo Carignano) prendendo posto nei banchi di destra il 30 giugno
1848[22]. Fedele agli interessi
piemontesi, che egli vedeva minacciati dalle forze radicali genovesi e
lombarde, C. fu oppositore sia dell'esecutivo di Cesare Balbo, sia di quello
successivo del milanese Gabrio Casati. Tuttavia, quando, a seguito della
sconfitta di Custoza, il governo Casati chiese i pieni poteri, C. si pronunciò
in suo favore. Ciò non evitò però l'abbandono di Milano agli austriaci e
l'armistizio Salasco del 9 agosto 1848[23].
Al termine di questa prima fase della guerra, il governo di Cesare di
Sostegno e il successivo di Ettore di San Martino imboccarono la strada della
diplomazia. Entrambi furono appoggiati da C. che criticò aspramente Gioberti
ancora risoluto a combattere l'Austria. Nel suo primo grande discorso
parlamentare, Camillo Benso, il 20 ottobre 1848 si pronunciò infatti per il
rinvio delle ostilità, confidando nella mediazione diplomatica della Gran Bretagna,
gelosa della nascente potenza germanica e quindi favorevole alla causa
italiana. Con l'appoggio di C. la linea moderata del governo San Martino passò,
anche se il debole esecutivo su un argomento minore rassegnò le dimissioni il 3
dicembre 1848[24]. Nell'impossibilità di
formare una diversa compagine ministeriale, re Carlo Alberto diede l'incarico a
Gioberti, il cui governo (insediatosi il 15 dicembre 1848) C. considerò di
"pura sinistra". A discapito del Conte arrivarono anche le elezioni
del 22 gennaio 1849, al cui ballottaggio fu sconfitto da Giovanni Ignazio
Pansoya. Lo schieramento politico vincitore era tuttavia troppo eterogeneo per
affrontare la difficile situazione del Paese, sospeso ancora fra pace e guerra,
e Gioberti dovette dimettersi il 21 febbraio 1849[25]. Cambiando radicalmente politica di fronte
alla crisi rivoluzionaria di cui ravvisava ancora il pericolo, C. si pronunciò
per una ripresa delle ostilità contro l'Austria. La sconfitta di Novara (23
marzo 1849) dovette precipitarlo nuovamente nello sconforto[26]. Capo della maggioranza parlamentare Il re di Sardegna Vittorio Emanuele II, di
cui C. condivise le prime iniziative politiche.
Massimo d'Azeglio fu presidente del Consiglio del ministro C..[27] La
grave sconfitta piemontese portò, il 23 marzo 1849, all'abdicazione di Carlo
Alberto a favore del figlio Vittorio Emanuele. Costui, aperto avversario della
politica paterna di alleanze con la sinistra, sostituì il governo dei
democratici (che chiedevano la guerra a oltranza) con un esecutivo presieduto
dal generale Gabriele de Launay. Tale governo, che fu salutato con favore da C.
e che riprese il controllo di Genova insorta contro la monarchia, fu sostituito
(7 maggio 1849) dal primo governo di Massimo d'Azeglio. Di questo nuovo
presidente del Consiglio Il Risorgimento fece sua la visione del Piemonte come
roccaforte della libertà italiana[28].
Le elezioni del 15 luglio 1849 portarono, tuttavia, ad una nuova, benché
debole, maggioranza dei democratici. C. fu rieletto, ma D'Azeglio convinse
Vittorio Emanuele II a sciogliere la Camera dei deputati e il 20 novembre 1849
il Re emanò il proclama di Moncalieri, con cui invitava il suo popolo ad
eleggere candidati moderati che non fossero a favore di una nuova guerra. Il 9
dicembre fu rieletta l'assemblea che, finalmente, espresse un voto schiacciante
a favore della pace. Fra gli eletti figurava di nuovo C. che, nel collegio di
Torino I, ottenne 307 voti contro i 98 dell'avversario[29][30]. In quel periodo Camillo Benso si mise in
evidenza anche per le sue doti di abile operatore finanziario. Ebbe infatti una
parte di primo piano nella fusione della Banca di Genova e della nascente Banca
di Torino, che diede vita alla Banca Nazionale degli Stati Sardi[31]. Dopo il successo elettorale del dicembre 1849
C. divenne una delle figure dominanti dell'ambiente politico piemontese e gli
venne riconosciuta la funzione di guida della maggioranza moderata che si era
costituita. Forte di questa posizione
sostenne che fosse arrivato il tempo delle riforme, favorite dallo Statuto
albertino che aveva creato reali prospettive di progresso. Si sarebbe potuto
innanzitutto staccare il Piemonte dal fronte cattolico-reazionario che
trionfava nel resto d'Italia[32]. A tale scopo il primo passo fu la
promulgazione delle cosiddette leggi Siccardi (9 aprile e 5 giugno 1850) che
abolirono vari privilegi del clero nel Regno di Sardegna e con le quali si aprì
una fase di scontri con la Santa Sede, con episodi gravi sia da parte di
D'Azeglio sia da parte di papa Pio IX. Fra questi ultimi ci fu il rifiuto di
impartire l'estrema unzione all'amico di C., Pietro di Santarosa, morto il 5
agosto 1850. A seguito di questo rifiuto C. per reazione ottenne l'espulsione
da Torino dell'Ordine dei Servi di Maria, nel quale militava il sacerdote che
si era rifiutato di impartire il sacramento, influenzando probabilmente anche
la decisione di arresto dell'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni[33]. Ministro del Regno di Sardegna
(1850-1852) C. intorno al 1850. L'Italia al tempo in cui C. ebbe il suo primo
incarico governativo, nel 1850. Con la morte dell'amico Santarosa, che
ricopriva la carica di ministro dell'Agricoltura e del Commercio, C., forte
della parte di primo piano assunta nella battaglia anticlericale e della sua
riconosciuta competenza tecnica, fu designato come naturale successore del
ministro scomparso. La decisione di
nominare C. ministro dell'Agricoltura e del Commercio fu presa dal presidente
del Consiglio D'Azeglio, convinto da alcuni deputati, assieme a Vittorio Emanuele
II, che fu incoraggiato in tal senso da Alfonso La Marmora. Il Conte prestò
così giuramento l'11 ottobre 1850[34].
Ministro dell'Agricoltura e del commercio Fra i primi incarichi
sostenuti da Camillo Benso ci furono una circolare ai sindaci sulla graduale
introduzione della libera panificazione [35] e il rinnovo del trattato
commerciale con la Francia, improntato all'insegna del libero commercio[N 7][N
8]. L'accordo, che non fu
particolarmente vantaggioso per il Piemonte, dovette essere sostenuto da motivazioni
politiche per essere approvato, benché C. ribadisse che ogni riduzione doganale
fosse di per sé un beneficio[36][N 9].
Affrontata la materia dei trattati di commercio, il Conte diede anche
l'avvio ai negoziati con il Belgio e la Gran Bretagna. Con entrambi i Paesi
ottenne e concesse estese facilitazioni doganali. I due trattati, conclusi il
24 gennaio e il 27 febbraio 1851rispettivamente, furono il primo atto di vero
liberismo commerciale compiuto da C.[37][N 10].
Questi due accordi, per i quali il Conte ottenne un largo successo
parlamentare, aprirono la strada ad una riforma generale dei dazi la cui legge
fu promulgata il 14 luglio 1851. Intanto nuovi trattati commerciali erano stati
firmati, fra marzo e giugno, con la Grecia, le città anseatiche, l'Unione
doganale tedesca, la Svizzera e i Paesi Bassi. Con 114 voti favorevoli e 23
contrari, la Camera approvò perfino un trattato analogo con l'Austria,
concludendo quella prima fase della politica doganale di C. che realizzava per
il Piemonte il passaggio dal protezionismo al libero scambio[38]. Nello stesso periodo a C. fu affidato anche
l'incarico di ministro della Marina e, come in situazioni analoghe, egli si
distinse per le sue idee innovative entrando in contrasto con gli alti
ufficiali di tendenze reazionarie che si opponevano finanche all'introduzione
della navigazione a vapore. D'altro canto la truppa era molto indisciplinata e
l'intenzione di C. sarebbe stata quella di far diventare la Marina sarda un
corpo di professionisti come quella del Regno delle Due Sicilie[39]. Ministro delle Finanze Intanto, già dal 19
aprile 1851, C. aveva sostituito Giovanni Nigra al Ministero delle Finanze,
conservando tutti gli altri incarichi. Il Conte, durante la delicata fase del
dibattito parlamentare per l'approvazione dei trattati commerciali con Gran
Bretagna e Belgio, aveva annunciato di lasciare il governo se non si fosse
abbandonata l'abitudine di affidare ad un deputato (in questo caso Nigra)
l'incarico delle Finanze. C'erano stati per questo gravi dissensi fra D'Azeglio
e C. che, alla fine, aveva ottenuto il ministero[40]. D'altra parte il governo di Torino aveva
disperato bisogno di liquidi, principalmente per pagare le indennità imposte
dagli austriaci dopo la prima guerra di indipendenza e C., per la sua abilità e
i suoi contatti sembrava l'uomo giusto per gestire la delicata situazione. Il
Regno di Sardegna era già fortemente indebitato con i Rothschild dalla cui
dipendenza il conte voleva sottrarre il Paese e, dopo alcuni tentativi falliti
con la Bank of Baring, C. ottenne un importante prestito dalla più piccola Bank
of Hambro[41]. Assieme a questo del
prestito (3,6 milioni di sterline), Camillo Benso ottenne vari altri risultati.
Riuscì a chiarire e sintetizzare la situazione effettiva del bilancio statale
che, per quanto precaria, apparve migliore rispetto a quanto si pensasse; fece
approvare su tutti gli enti morali laici ed ecclesiasticiun'unica imposta del
4% del reddito annuo; ottenne l'imposta delle successioni; dispose per
l'aumento di capitale della Banca Nazionale degli Stati Sardiaumentandone
l'obbligo delle anticipazioni allo Stato e avviò la collaborazione tra finanza
pubblica e iniziativa privata[42]. A
tale riguardo accolse, nell'agosto 1851, le proposte di aziende britanniche per
la realizzazione delle linee ferroviarie Torino-Susa e Torino-Novara, i cui
progetti divennero legge il 14 giugno e l'11 luglio 1852 rispettivamente.
Concesse all'armatore Raffaele Rubattino la linea di navigazione sovvenzionata
fra Genova e la Sardegna, e a gruppi genovesi l'esercizio di miniere e saline
in Sardegna. Fino a promuovere grandi progetti come l'istituzione a Genova
della Compagnia Transatlantica o come la fondazione della società Ansaldo,
futura fabbrica di locomotive a vapore[43].
L'alleanza con il Centrosinistra
Lo stesso argomento in dettaglio: Connubio. Urbano Rattazzi, alleato politico di C. nel
cosiddetto “connubio”. Spinto ormai dal desiderio di raggiungere la carica di
capo del governo e insofferente per la politica di d'Azeglio di alleanza con la
destra clericale, C. all'inizio del 1852 ebbe l'idea di stringere un'intesa, il
cosiddetto “connubio”, con il Centrosinistra di Urbano Rattazzi. Costui, con i
voti convergenti dei deputati guidati da C. e di quelli del Centrosinistra,
ottenne, l'11 maggio 1852, la presidenza della Camera del Parlamento
Subalpino. Il presidente del Consiglio
D'Azeglio, contrario come Vittorio Emanuele II alla manovra politica di C.,
diede le dimissioni, ottenendo puntualmente il reincarico dal re. Il governo
che ne scaturì il 21 maggio 1852, assai debole, non comprendeva più C. che
D'Azeglio aveva sostituito con Luigi Cibrario.
Il Conte non si scoraggiò e, in preparazione della ripresa della lotta
politica, partì per un viaggio in Europa. Al suo ritorno a Torino, appoggiato
dagli uomini del "connubio" che rappresentavano ormai il più moderno
liberalismo del Piemonte, forte di un ampio consenso, diveniva il 4 novembre
1852 per la prima volta Presidente del Consiglio dei ministri. In Gran Bretagna e Francia (1852) Prima della
sua definitiva affermazione, come abbiamo visto, C. partì da Torino il 26
giugno 1852 per un periodo di esperienze all'estero. L'8 luglio era a Londra,
dove si interessò ai più recenti progressi dell'industria prendendo contatti
con uomini d'affari, agricoltori e industriali, e visitando impianti e arsenali.
Rimase nella capitale britannica fino al 5 agosto[44] e partì poi per un
viaggio nel Galles; nell'Inghilterra settentrionale, di cui visitò i distretti
manifatturieri, e in Scozia[45]. A Londra e nelle loro residenze di campagna
ebbe vari incontri con esponenti politici britannici. Vide il ministro degli
Esteri Malmesbury, Palmerston, Clarendon, Disraeli, Cobden, Lansdowne e
Gladstone[46]. Colpito dalla grandezza
imperiale della Gran Bretagna, C. proseguì il viaggio e passò La Manica alla
volta di Parigi, dove giunse il 29 agosto 1852. Nella capitale francese Luigi
Napoleone era presidente della Seconda Repubblica, alla quale darà poi fine
proclamandosi (2 dicembre 1852) imperatore.
L'attenzione del conte, raggiunto a Parigi dall'alleato Rattazzi, si
concentrò sulla nuova classe dirigente francese, con la quale prese contatti.
Entrambi si recarono dal nuovo ministro degli Esteri Drouyn de Lhuys e il 5
settembre pranzarono con il principe presidente Luigi Napoleone traendone già
buone impressioni e grandi auspici per il futuro dell'Italia[47]. C. ripartì per Torino giungendovi il 16
ottobre 1852, dopo un'assenza di oltre tre mesi. Il primo governo C. (1852-1855) Lo stesso argomento in dettaglio: Governo C.
I. C. divenne per la prima volta
presidente del Consiglio il 4 novembre 1852.[48] Il banchiere francese James Mayer de
Rothschild con cui C. trattò diverse volte prestiti per il Piemonte. Dopo pochi
giorni dal ritorno di C. a Torino, il 22 ottobre 1852, d'Azeglio, a capo di un
debole esecutivo che aveva scelto di continuare una politica anticlericale,
diede le dimissioni. Vittorio Emanuele
II, su suggerimento di La Marmora, chiese a C. di formare un nuovo governo, a
condizione che il Conte negoziasse con lo Stato Pontificio le questioni rimaste
aperte, prima fra tutte quella dell'introduzione in Piemonte del matrimonio
civile. C. rispose che non avrebbe potuto cedere di fronte al Papa e indicò in
Cesare Balbo il successore di D'Azeglio. Balbo non trovò l'accordo con
l'esponente di destra Revel e il Re fu costretto a tornare da C.. Costui
accettò allora di formare il nuovo governo il 2 novembre 1852, promettendo di
far seguire alla legge del matrimonio civile il suo normale percorso parlamentare
(senza porre cioè la fiducia)[N 11]
Costituito il suo primo governo due giorni dopo, C. si adoperò con
passione a favore del matrimonio civile che però fu respinto al
Senatocostringendo il Conte a rinunciarvi.
Intanto il movimento repubblicano che faceva capo a Giuseppe Mazzini non
smetteva di preoccupare C.: il 6 febbraio 1853 una sommossa scoppiò contro gli
austriaci a Milano e il conte, temendo l'allargarsi del fenomeno al Piemonte,
fece arrestare diversi mazziniani (fra cui Francesco Crispi). Tale decisione
gli attirò l'ostilità della Sinistra, specie quando gli austriaci lo
ringraziarono per gli arresti[49].
Quando però, il 13 febbraio, il governo di Vienna stabilì la confisca
delle proprietà dei rifugiati lombardi in Piemonte, C. protestò energicamente,
richiamando l'ambasciatore sardo. Le
riforme della finanza e della giustizia Obiettivo principale del primo governo C.
fu la restaurazione finanziaria del Paese. Per raggiungere il pareggio il conte
prese varie iniziative: innanzi tutto fu costretto a ricorrere ai banchieri
Rothschildpoi, richiamandosi al sistema francese, sostituì alla dichiarazione
dei redditi l'accertamento giudiziario, fece massicci interventi nel settore
delle concessioni demaniali e dei servizi pubblici, e riprese la politica dello
sviluppo degli istituti di credito[50].
D'altro canto il governo effettuò grandi investimenti nel settore delle
ferrovie, proprio quando, grazie alla riforma doganale, le esportazioni stavano
avendo un aumento considerevole. Ci furono tuttavia notevoli resistenze ad
introdurre nuove imposte fondiarie e, in generale, nuove tasse che colpissero
il ceto di cui era composto il parlamento[51].
C., in effetti, non riuscì mai a realizzare le condizioni politiche che
consentissero una base finanziaria adeguata alle sue iniziative[52]. Il 19 dicembre 1853, si parlò di "quasi
restaurate finanze", benché la situazione fosse più seria di quanto
annunciato, anche per la crisi internazionale che precedette la guerra di
Crimea. C. di conseguenza si accordò ancora con i Rothschild per un prestito,
ma riuscì anche a collocare presso il pubblico dei risparmiatori, con un netto
successo politico e finanziario, una buona parte del debito contratto[53]. A Camillo Benso d'altronde non mancava il
consenso politico. Alle elezioni dell'8 dicembre 1853 furono eletti 130
candidati dell'area governativa, 52 della Sinistra e 22 della Destra.
Nonostante ciò, per replicare all'elezione di importanti politici avversari[54]
il Conte sviluppò un'offensiva politica sull'ordinamento giudiziario che la
crisi economica non gli permetteva di concentrare altrove. Fu deciso, anche per
recuperare parte della Sinistra, di riprendere la politica
anticlericale[55]. A tale riguardo il
ministro della Giustizia Urbano Rattazzi, all'apertura della V legislatura
presentò una proposta di legge sulla modifica del codice penale. Il nucleo
della proposta consisteva in nuove pene previste per i sacerdoti che, abusando
del loro ministero, avessero censurato le leggi e le istituzioni dello Stato.
La norma fu approvata alla Camera a larga maggioranza (raccogliendo molti voti
a Sinistra) e, con maggiore difficoltà, anche al Senato[56]. Furono successivamente adottate modifiche
anche al codice di procedura penale e fu ultimato il percorso per
l'approvazione del codice di procedura civile[57]. L'intervento nella guerra di Crimea Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra di
Crimea. Con la Battaglia della Cernaia
il corpo di spedizione piemontese, voluto da C., si distinse nella guerra di
Crimea e consentì di porre la questione italiana a livello europeo. Nel 1853 si
sviluppò una crisi europea scaturita da una disputa religiosa fra la Francia e
la Russia sul controllo dei luoghi santi nel territorio dell'Impero ottomano.
L'atteggiamento russo provocò l'ostilità anche del governo inglese che
sospettava che lo Zar volesse conquistare Costantinopoli e interrompere la via
terrestre per l'India britannica. Il 1º
novembre 1853 la Russia dichiarò guerra all'Impero ottomano, che aveva
accettato la linea francese, aprendo quella che sarà chiamata la guerra di
Crimea. Conseguentemente, il 28 marzo 1854 la Gran Bretagna e la Francia
dichiararono guerra alla Russia. La questione, per le opportunità politiche che
potevano presentarsi, cominciò ad interessare C.. Egli infatti, nell'aprile
1854, rispose alle richieste dell'ambasciatore inglese James Hudson affermando
che il Regno di Sardegna sarebbe intervenuto nella guerra se anche l'Austria
avesse attaccato la Russia, di modo da non esporre il Piemonte all'esercito
asburgico[58]. La soddisfazione degli
inglesi fu evidente, ma per tutta l'estate del 1854 l'Austria rimase neutrale.
Infine, il 29 novembre 1854, il ministro degli Esteri britannico Clarendon
scrisse ad Hudson chiedendogli di fare di tutto per assicurarsi un corpo di
spedizione piemontese. Un incitamento superfluo, poiché C. era già arrivato
alla conclusione che le richieste inglesi e quelle francesi, queste ultime
fatte all'inizio della crisi a Vittorio Emanuele II, dovevano essere
soddisfatte. Il Conte decise quindi per l'intervento sollevando le perplessità
del ministro della Guerra La Marmora e del ministro degli Esteri Giuseppe
Dabormida che si dimise[59]. Assumendo
anche la carica di ministro degli Esteri, C., il 26 gennaio 1855, firmò
l'adesione finale del Regno di Sardegna al trattato anglo-francese. Il Piemonte
avrebbe fornito 15.000 uomini e le potenze alleate avrebbero garantito
l'integrità del Regno di Sardegna da un eventuale attacco austriaco. Il 4 marzo
1855, C. dichiarò guerra alla Russia[N 12] e il 25 aprile il contingente
piemontese salpò da La Spezia per la Crimea dove arrivò ai primi di maggio. Il
Piemonte avrebbe raccolto i benefici della spedizione con la seconda guerra di
indipendenza, quattro anni dopo. La
legge sui conventi: la Crisi Calabiana
Lo stesso argomento in dettaglio: Crisi Calabiana. Papa Pio IX scomunicò C. dopo l'approvazione
della Legge sui conventi.[60] Con l'intento di avvicinarsi alla Sinistra e
ostacolare la Destra conservatrice che andava guadagnando terreno a causa della
crisi economica, il governo C. il 28 novembre 1854 presentò alla Camera la
legge sui conventi. La norma, nell'ottica del liberalismo anticlericale,
prevedeva la soppressione degli ordini religiosi non dediti all'insegnamento o
all'assistenza dei malati. Durante il dibattito parlamentare vennero attaccati,
anche da C., soprattutto gli ordini mendicanti come nocivi alla moralità del
Paese e contrari alla moderna etica del lavoro.
La forte maggioranza alla Camera del Conte dovette affrontare
l'opposizione del clero, del Re e soprattutto del Senato che in prima istanza
bocciò la legge. C. allora si dimise (27 aprile 1855) aprendo una crisi
politica chiamata crisi Calabianadal nome del vescovo di Casale Luigi Nazari di
Calabiana, senatore e avversario del progetto di legge. Il secondo governo C. (1855-1859) Lo stesso argomento in dettaglio: Governo C.
II. La legge sui conventi: l'approvazione
Lo stesso argomento in dettaglio: Crisi Calabiana. Dopo qualche giorno
dalle dimissioni, vista l'impossibilità a formare un nuovo esecutivo, il 4
maggio 1855, C. fu reintegrato dal Re nella carica di presidente del Consiglio.
Al termine di giorni di discussioni nei quali C. ribadì che «la società attuale
ha per base economica il lavoro»[61], la legge fu approvata con un emendamento
che lasciava i religiosi nei conventi fino all'estinzione naturale delle loro
comunità. A seguito dell'approvazione della legge sui conventi, il 26 luglio
1855 papa Pio IX emanò la scomunica contro coloro che avevano proposto,
approvato e ratificato il provvedimento, C. e Vittorio Emanuele II
compresi. Il Congresso di Parigi e la
politica estera successiva Lo stesso
argomento in dettaglio: Congresso di Parigi.
Il Congresso di Parigi. Il primo delegato a sinistra è C.. L'ultimo a
destra è l'ambasciatore piemontese Villamarina.[62] L'uniforme che C. indossò al Congresso di
Parigi.[N 13] La guerra di Crimea, vittoriosa per gli alleati, ebbe fine nel
1856 con il Congresso di Parigi al quale partecipò anche l'Austria. C. non ottenne compensi territoriali per la
partecipazione al conflitto, ma una seduta fu dedicata espressamente a
discutere il problema italiano. In questa occasione, l'8 aprile, il ministro
degli Esteri britannico Clarendon attaccò pesantemente la politica illiberale
sia dello Stato Pontificio, sia del Regno delle due Sicilie, sollevando le
proteste del ministro austriaco Buol.
Ben più moderato, lo stesso giorno, fu il successivo intervento di C.,
incentrato sulla denuncia della permanenza delle truppe austriache nella
Romagna pontificia[63]. Fatto sta che
per la prima volta la questione italiana venne considerata a livello europeo
come una situazione che richiedeva modifiche a fronte di legittime rimostranze
della popolazione. Fra Gran Bretagna,
Francia e Piemonte i rapporti si confermarono ottimi. Tornato a Torino, per
l'esito ottenuto a Parigi, C., il 29 aprile 1856, ottenne la più alta
onorificenza concessa da Casa Savoia: il collare dell'Annunziata[64]. Quello
stesso congresso, tuttavia, avrebbe portato il Conte a prendere importanti
decisioni, tali da dover fare una scelta: con la Francia o con la Gran
Bretagna. Si aprì infatti, a seguito
delle decisioni di Parigi, la questione dei due Principati danubiani. La
Moldaviae la Valacchia secondo Gran Bretagna, Austria e Turchia avrebbero
dovuto rimanere divise e sotto il controllo ottomano. Per Francia, Prussia e
Russia, invece, si sarebbero dovute unire (nella futura Romania) e costituirsi
come Stato indipendente. Quest'ultimo particolare richiamò l'attenzione di C. e
il Regno di Sardegna, con l'ambasciatore Villamarina, si schierò per
l'unificazione[N 14][65]. La reazione
della Gran Bretagna contro la posizione assunta dal Piemonte fu molto aspra. Ma
C. aveva già deciso: fra il dinamismo della politica francese e il
conservatorismo di quella britannica, il Conte aveva scelto la Francia. D'altra parte l'Austria andava sempre più
isolandosi[65][N 15] e a consolidare il fenomeno contribuì un episodio che il
Conte seppe sfruttare. Il 10 febbraio 1857 il governo di Vienna accusò la
stampa piemontese di fomentare la rivolta contro l'Austria e il governo C. di
correità. Il conte respinse ogni accusa e il 22 marzo Buol richiamò il suo
ambasciatore, seguito il giorno dopo da un'analoga misura del Piemonte. Accadde
così che l'Austria elevò una questione di stampa a motivo della rottura delle
relazioni con il piccolo Regno di Sardegna, esponendosi ai giudizi negativi di
tutta la diplomazia europea, compresa quella inglese, mentre in Italia si
animavano maggiormente le simpatie per il Piemonte[66]. Il miglioramento dell'economia e il calo dei
consensi A partire dal 1855 si registrò un miglioramento delle condizioni
economiche del Piemonte, grazie al buon raccolto cerealicolo e alla riduzione
del deficit della bilancia commerciale. Incoraggiato da questi risultati, C.
rilanciò la politica ferroviaria dando il via, tra l'altro, nel 1857, ai lavori
del traforo del Fréjus[67]. Il 16 luglio
1857 venne dichiarata anticipatamente la chiusura della V Legislatura, in una
situazione che, nonostante il miglioramento dell'economia, si presentava
sfavorevole a C.. Si era diffuso, infatti, un malcontento generato
dall'accresciuto carico fiscale, dai sacrifici fatti per la guerra di Crimea e
dalla mobilitazione antigovernativa del mondo cattolico. Il risultato fu che
alle elezioni del 15 novembre 1857 il centro liberale di C. conquistò 90 seggi
(rispetto ai 130 della precedente legislatura), la destra 75 (rispetto ai 22) e
la sinistra 21 (rispetto ai 52). Il successo clericale superò le più
pessimistiche previsioni di area governativa. C. decise tuttavia di rimanere al
suo posto, mentre la stampa liberale si scagliava contro la destra denunciando
pressioni improprie del clerosugli elettori. Ci fu per questo una verifica
parlamentare e per alcuni seggi assegnati vennero ripetute le elezioni. La
tendenza si invertì: il centro liberale passò a 105 seggi e la destra a
60[68]. Lo scossone politico provocò
comunque il sacrificio di Rattazzi, in precedenza passato agli Interni. Costui,
soprattutto, era inviso alla Francia per non essere riuscito ad arrestare
Mazzini giudicato pericoloso per la vita di Napoleone III. Rattazzi il 13
gennaio 1858 si dimise e C. assunse l'interimdell'Interno[69]. I piani contro l'Austria e l'annessione della
Lombardia Lo stesso argomento in
dettaglio: Accordi di Plombières, Alleanza sardo-francese, Seconda guerra
d'indipendenza italiana e Armistizio di Villafranca. L'imperatore Napoleone III di Francia e C.
provocarono l'Austria riuscendo a far scoppiare la guerra del 1859.[70] La satira piemontese riconosceva nella
Francia un'antagonista del Piemonte nel controllo della penisola. In questa
vignetta che si rifà a I promessi sposi Don Abbondio è C., Renzo è il Piemonte,
Lucia è l'Italia e Don Rodrigo è Napoleone III.[71] Suscitata l'attenzione
sull'Italia con il Congresso di Parigi, per sfruttarla a fini politici si
rivelò necessario l'appoggio della Francia di Napoleone III. Costui,
conservatore in politica interna, era sostenitore di una politica estera di
grandezza. Dopo una lunga serie di
trattative, funestate dall'attentato di Felice Orsini allo stesso imperatore
dei francesi, si arrivò, nel luglio 1858, agli accordi segreti di Plombières
fra C. e Napoleone III. Tale intesa
verbale prevedeva che, dopo una guerra che si auspicava vittoriosa contro
l'Austria, la penisola italiana sarebbe stata divisa in quattro stati
principali legati in una confederazione presieduta dal papa: il Regno dell'Alta
Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele II; il Regno dell'Italia centrale;
lo Stato Pontificio limitato a Roma e al territorio circostante; e il Regno
delle Due Sicilie. Firenze e Napoli, avvenimenti locali permettendo, sarebbero
passate nella sfera d'influenza francese[72].
Gli accordi di Plombières furono ratificati l'anno successivo
dall'alleanza sardo-francese, secondo la quale in caso di attacco militare
provocato da Vienna, la Francia sarebbe intervenuta in difesa del Regno di
Sardegna con il compito di liberare dal dominio austriaco il Lombardo-Veneto e
cederlo al Piemonte. In compenso la Francia avrebbe ricevuto i territori di
Nizza e della Savoia, quest'ultima origine della dinastia sabauda e, come tale,
cara a Vittorio Emanuele II. Dopo la
firma dell'alleanza, C. escogitò una serie di provocazioni militari al confine
con l'Austria che, allarmata, gli lanciò un ultimatum chiedendogli di
smobilitare l'esercito. Il Conte rifiutò e l'Austria aprì le ostilità contro il
Piemonte il 26 aprile 1859, facendo scattare le condizioni dell'alleanza
sardo-francese. Era la seconda guerra di indipendenza. Ma i movimenti minacciosi dell'esercito
prussianoconvinsero Napoleone III, quasi con un atto unilaterale, a firmare un
armistizio con l'Austria a Villafranca l'11 luglio 1859, poi ratificato dalla
Pace di Zurigo, stipulata l'11 novembre. Le clausole del trattato prevedevano
che a Vittorio Emanuele II sarebbe andata la sola Lombardia e che per il resto
tutto sarebbe tornato come prima. C.,
deluso e amareggiato dalle condizioni dell'armistizio, dopo accese discussioni
con Napoleone III e Vittorio Emanuele, decise di dare le dimissioni da
presidente del Consiglio, provocando la caduta del governo da lui guidato il 12
luglio 1859[73]. Il terzo governo C.
(1860-1861) Lo stesso argomento in
dettaglio: Governo C. III. Nizza e Savoia per Modena, Parma, Romagna e
Toscana Alfonso La Marmora non riuscì a
risolvere la situazione di stallo internazionale del 1860 e il Re fu costretto
a richiamare C.. Già durante la guerra i governi e le forze armate dei piccoli
Stati italiani dell'Italia centro-settentrionale e della Romagna pontificia
abbandonarono i loro posti e dovunque si installarono autorità provvisorie
filo-sabaude. Dopo la Pace di Zurigo, tuttavia, si giunse ad una fase di
stallo, poiché i governi provvisori si rifiutavano di restituire il potere ai
vecchi regnanti (così come previsto dal trattato di pace) e il governo di La
Marmora non aveva il coraggio di proclamare le annessioni dei territori al
Regno di Sardegna. Il 22 dicembre 1859 Vittorio Emanuele II si rassegnò, così,
a richiamare C. che nel frattempo aveva ispirato la creazione del partito di
Unione Liberale. Il Conte, rientrato
alla presidenza del Consiglio dei Ministri il 21 gennaio 1860, si trovò in
breve di fronte ad una proposta francese di soluzione della questione dei
territori liberati: annessione al Piemonte dei ducati di Parma e Modena,
controllo sabaudo della Romagna pontificia, regno separato in Toscana sotto la
guida di un esponente di Casa Savoia e cessione di Nizza e Savoia alla Francia.
In caso di rifiuto della proposta il Piemonte avrebbe dovuto affrontare da solo
la situazione di fronte all'Austria, "a suo rischio e
pericolo"[74]. Rispetto agli
accordi dell'alleanza sardo-francesequesta proposta di soluzione sostituiva per
il Piemonte l'annessione del Veneto che non si era potuto liberare
dall'occupazione austriaca. Stabilita, di fatto, l'annessione di Parma, Modena
e Romagna, C., forte dell'appoggio della Gran Bretagna, sfidò la Francia sulla
Toscana, organizzando delle votazioni locali sull'alternativa fra l'unione al
Piemonte e la formazione di un nuovo Stato. Il plebiscito si tenne l'11 e il 12
marzo 1860, con risultati che legittimarono l'annessione della Toscana al Regno
di Sardegna[75]. Il governo francese
reagì con grande irritazione sollecitando la cessione della Savoia e di Nizza
che avvenne con la firma del Trattato di Torino il 24 marzo 1860. In cambio di
queste due province il Regno di Sardegna acquisì, oltre alla Lombardia, anche
l'attuale Emilia-Romagna e la Toscana trasformandosi in una nazione assai più
omogenea. Di fronte all'Impresa dei
Mille C. diffidò dell'Impresa dei Mille
che considerava foriera di rivoluzione e dannosa per i rapporti con la
Francia.[76] C. era al corrente che la Sinistra non aveva abbandonato l'idea di
una spedizione in Italia meridionale e che Garibaldi, circondato da personaggi
repubblicani e rivoluzionari, era in contatto a tale scopo con Vittorio
Emanuele II. Il Conte considerava rischiosa l'iniziativa alla quale si sarebbe
decisamente opposto, ma il suo prestigio era stato scosso dalla cessione di
Nizza e Savoia e non si sentiva abbastanza forte[77]. C. riuscì, comunque, attraverso Giuseppe La
Farina a seguire le fasi preparatorie dell'Impresa dei Mille, la cui partenza
da Quarto fu meticolosamente sorvegliata dalle autorità piemontesi. Ad alcune
voci sulle intenzioni di Garibaldi di sbarcare nello Stato Pontificio, il
Conte, preoccupatissimo per la eventuale reazione della Francia, alleata del
Papa, dispose il 10 maggio 1860 l'invio di una nave nelle acque della Toscana
"per arrestarvi Garibaldi"[78].
Il generale invece puntò a Sud e dopo il suo sbarco a Marsala (11 maggio
1860) C. lo fece raggiungere e controllare (per quanto possibile) da La Farina.
In campo internazionale, intanto, alcune potenze straniere, intuendo la
complicità di Vittorio Emanuele II nell'impresa, protestarono con il governo di
Torino che poté affrontare con una certa tranquillità la situazione data la
grave crisi finanziaria dell'Austria, in cui era anche ripresa la rivoluzione
ungherese[79]. Napoleone III, d'altra
parte, si attivò subito nel ruolo di mediatore e, per la pace fra garibaldini
ed esercito napoletano, propose a C. l'autonomia della Sicilia, la
promulgazione della costituzione a Napoli e a Palermo e l'alleanza fra Regno di
Sardegna e Regno delle due Sicilie. Immediatamente il regime borbonico si
adeguò alla proposta francese instaurando un governo liberale e proclamando la
costituzione. Tale situazione mise in grave difficoltà C. per il quale
l'alleanza era irrealizzabile. Nello stesso tempo non poteva scontentare
Francia e Gran Bretagna che premevano almeno per una tregua. Il governo piemontese decise allora che il Re
avrebbe inviato un messaggio a Garibaldi con il quale gli si intimava di non
attraversare lo stretto di Messina. Il 22 luglio 1860 Vittorio Emanuele II
inviò sì la lettera voluta da C., ma la fece seguire da un messaggio personale
nel quale smentiva la lettera ufficiale[80].
Garibaldi a Napoli L'arrivo di
Giuseppe Garibaldi a Napoli (7 settembre 1860). Evento che C. tentò di
prevenire organizzando una sommossa filo piemontese che fallì. Il 6 agosto 1860
il conte di C. informò i delegati del Regno delle due Sicilie del rifiuto di
Garibaldi di concedere la tregua dichiarando esauriti i mezzi di conciliazione
e rinviando ad un futuro incerto i negoziati per l'alleanza. Negli stessi giorni il Conte, nel timore di
far precipitare i rapporti con la Francia, sventò una spedizione militare di
Mazzini che dalla Toscana doveva muovere contro lo Stato Pontificio. A seguito
di questi avvenimenti, C. si preparò a fare tutti i suoi sforzi per impedire
che il movimento per l'unità d'Italia diventasse rivoluzionario. In questa
ottica cercò, nonostante il parere sfavorevole del suo ambasciatore a Napoli
Villamarina, di prevenire Garibaldi nella capitale borbonica organizzando una
spedizione clandestina di armi per una rivolta filopiemontese che non si poté
realizzare. Garibaldi entrò trionfalmente a Napoli il 7 settembre 1860 fugando,
per l'amicizia che serbava a Vittorio Emanuele II, i timori di C.[81]. L'invasione piemontese di Marche e
Umbria L'Italia alla morte di C., nel
1861. Fallito il progetto di un successo dei moderati a Napoli, il Conte per
ridare a Casa Savoia una parte attiva nel movimento nazionale, decise
l'invasione delle Marche e dell'Umbria pontificie. Ciò avrebbe allontanato il
pericolo di un'avanzata di Garibaldi su Roma. Bisognava però preparare
Napoleone III agli avvenimenti e convincerlo che l'invasione piemontese dello
Stato Pontificio sarebbe stato il male minore. Per la delicata missione
diplomatica il Conte scelse Farini e Cialdini. L'incontro fra costoro e
l'imperatore francese avvenne a Chambéry il 28 agosto 1860, ma su ciò che in
quel colloquio si disse resta molta incertezza e sul consenso francese,
riportato dalla tesi italiana, è possibile che si sia determinato un equivoco.
In buona sostanza Napoleone III tollerò l'invasione piemontese delle Marche e
dell'Umbria cercando di rovesciare sul governo di Torino l'impopolarità di
un'azione controrivoluzionaria. E appunto questo era ciò che C. voleva evitare.
Le truppe piemontesi non si dovevano scontrare con Garibaldi in marcia su Roma,
ma prevenirlo e fermarlo con un intervento giustificabile in nome della causa
nazionale italiana. Anche il timore di un attacco austriaco al Piemonte, tuttavia,
fece precipitare gli eventi e C. intimò allo Stato pontificio di licenziare i
militari stranieri con un ultimatum a cui seguì l'11 settembre, prima ancora
che giungesse la risposta negativa del cardinale Antonelli, la violazione dei
confini dello Stato della Chiesa. La Francia ufficialmente reagì in difesa del
Papa, e anche lo zar Alessandro II ritirò il suo rappresentante a Torino, ma
non ci furono effetti pratici[82].
Intanto la crisi con Garibaldi si era improvvisamente aggravata, poiché
quest'ultimo aveva proclamato il 10 che avrebbe consegnato al Re i territori da
lui conquistati solo dopo aver occupato Roma. L'annuncio aveva anche ottenuto
il plauso di Mazzini. Ma il successo piemontese nella battaglia di
Castelfidardo contro i pontifici del 18 e il conferimento al governo di un
prestito di 150 milioni per le spese militari, ridiedero forza e fiducia a C.,
mentre Garibaldi, pur vittorioso nella battaglia del Volturno, esauriva la sua
spinta verso Roma[83]. L'annessione del
Sud, delle Marche e dell'Umbria A questo punto, il "prodittatore"
Giorgio Pallavicino Trivulzio, venendo incontro ai desideri del Conte, indisse
a Napoli il plebiscito per l'annessione immediata al Regno sabaudo, seguito da
una stessa iniziativa del suo omologo Antonio Mordini a Palermo. Le votazioni
si tennero il 21 ottobre 1860, sancendo l'unione del Regno delle due Sicilie a
quello di Sardegna. All'inizio dello
stesso mese di ottobre C. si era così espresso: «Non sarà l'ultimo titolo di gloria per
l'Italia d'aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà
all'indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali d'un Cromwell, ma
svincolandosi dall'assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo
rivoluzionario […]. Ritornare […] alle dittature rivoluzionarie d'uno o più,
sarebbe uccidere sul nascere la libertà legale che vogliamo inseparabile dalla
indipendenza della nazione» (C., 2
ottobre 1860.Romeo, p. 489) Il 4 e il 5
novembre 1860 anche in Umbria e nelle Marche si votava e si decideva per
l'unione allo Stato sabaudo. I rapporti
fra Stato e Chiesa Fermati i disegni di Garibaldi su Roma, a C. restava ora il
problema di decidere su cosa fare di ciò che rimaneva dello Stato Pontificio
(approssimativamente il Lazio attuale), tenendo conto che un attacco a Roma
sarebbe stato fatale per le relazioni con la Francia. Il progetto del Conte, avviato dal novembre
1860 e perseguito fino alla sua morte, fu quello di proporre al Papa la
rinuncia al potere temporale in cambio della rinuncia da parte dello Stato al
corrispettivo, ovvero il giurisdizionalismo. Si sarebbe perciò adottato il
principio di "Libera Chiesa in libero Stato"[84][85], celebre motto
pronunciato nel discorso del 27 marzo 1861 sebbene già coniato in precedenza da
Charles de Montalembert[86], ma le trattative naufragarono sulla fondamentale
intransigenza di Pio IX. Il governo C.
del Regno d'Italia (1861) Lo stesso
argomento in dettaglio: Governo C. IV. C.
nel 1861 Giuseppe Garibaldi ebbe uno
scontro nel 1861 con C. per la decisione di quest'ultimo di sciogliere
l'Esercito meridionale Dal 27 gennaio al 3 febbraio 1861 si tennero le elezioni
per il primo Parlamento italiano unitario. Oltre 300 dei 443 seggi della nuova
Camera andarono alla maggioranza governativa. L'opposizione ne conquistò un
centinaio, ma fra loro non comparivano rappresentanti della Destra, poiché i
clericali avevano aderito all'invito di non eleggere e di non farsi eleggere in
un Parlamento che aveva leso i diritti del pontefice. Il 18 febbraio venne inaugurata la nuova
sessione, nella quale sedettero per la prima volta rappresentanti piemontesi,
lombardi, siciliani, toscani, emiliani, romagnoli e napoletani insieme. Il 17
marzo il Parlamento proclamò il Regno d'Italia e Vittorio Emanuele II suo
re. Il 22 marzo C. veniva confermato
alla guida del governo, dopo che il Re aveva dovuto rinunciare a Ricasoli. Il
Conte, che tenne per sé anche gli Esteri e la Marina, il 25 affermò in
parlamento che Roma sarebbe dovuta diventare capitale d'Italia. Lo scontro con Garibaldi L'episodio più
tumultuoso della vita politica di C., se si esclude l'incidente con Vittorio
Emanuele II dopo l'armistizio di Villafranca, fu il suo scontro con Garibaldi
dell'aprile 1861. Oggetto del
contendere: l'esercito di volontari garibaldini del Sud, del quale C. volle
evitare il trasferimento al nord nel timore che venisse influenzato dai
radicali. Il 16 gennaio 1861 fu quindi decretato lo scioglimento dell'Esercito
meridionale. Su questa decisione, che provocò le vibrate proteste del
comandante del Corpo Giuseppe Sirtori, C. fu irremovibile[88]. In difesa del suo esercito, il 18 aprile 1861
Garibaldi pronunciò un memorabile discorso alla Camera, accusando «la fredda e
nemica mano di questo Ministero [C.]» di aver voluto provocare una «guerra
fratricida». Il Conte reagì con violenza, chiedendo, invano, al presidente
della Camera Rattazzi di richiamare all'ordine il generale. La seduta fu
sospesa e Nino Bixio tentò nei giorni successivi una riconciliazione, che non
si compì mai del tutto[88]. Gli ultimi
giorni I funerali di C. a Torino Santena: tomba del conte di C. Il 29 maggio
1861 C. ebbe un malore, attribuito dal suo medico curante a una delle crisi
malariche che lo colpivano periodicamente da quando - in gioventù - aveva
contratto la malaria nelle risaie di famiglia del vercellese. In questa
occasione tutte le cure praticate non ebbero effetto, tanto che il 5 giugno
venne fatto chiamare un sacerdote francescano suo amico, padre Giacomo da
Poirino[89], al secolo Luigi Marocco (1808-1885)[90], parroco di Santa Maria
degli Angeli, chiesa nella quale si sarebbero poi svolte le esequie[91][92].
Costui, come gli aveva promesso già da cinque anni, lo confessò e gli
somministrò l'estrema unzione, ignorando sia la scomunica, che il conte aveva
subito nel 1855, sia il fatto che C. non aveva ritrattato le sue scelte
anticlericali[89]. Per questo motivo padre Giacomo, dopo aver riferito i fatti
alle autorità religiose, fu richiamato a Roma, gli fu tolta la parrocchia e gli
fu interdetto l'esercizio del ministero della confessione, al quale venne però
riammesso nel 1881 da papa Leone XIII[93]. La nipote Giuseppina Alfieri di
Sostegno ha tramandato che, sul letto di morte, alla vista del confessore, C.
abbia pronunciato le parole: «Frate, frate, libera chiesa in libero
Stato!»[94][95] Subito dopo il colloquio
con padre Giacomo, C. chiese di parlare con Luigi Carlo Farini, al quale, come
rivela la nipote Giuseppina, confidò a futura memoria: «Mi ha confessato ed ho
ricevuto l'assoluzione, più tardi mi comunicherò. Voglio che si sappia; voglio
che il buon popolo di Torino sappia che io muoio da buon cristiano. Sono
tranquillo e non ho mai fatto male a nessuno»[96]. Nel 2011 è stata ritrovata una missiva di
padre Giacomo a Pio IX, nella quale il frate racconta che C. aveva dichiarato
che «intendeva di morire da vero e sincero cattolico». Per cui il confessore,
«incalzato dalla gravità del male che a gran passi il portava a morte», la
mattina del 5 giugno concesse il sacramento. Scrisse anche che «nel corso della
sua gravissima malattia», C. «era ad intervalli soggetto ad alienazione di
mente». Il frate chiude quindi la lettera di scuse ribadendo di «aver fatto,
quanto era in sé, il suo officio»[97].
Verso le nove giunse al suo capezzale il Re. Nonostante la febbre, il
Conte riconobbe Vittorio Emanuele, ma tuttavia non riuscì ad articolare un
discorso molto coerente: «Oh sire! Io ho molte cose da comunicare a Vostra
Maestà, molte carte da mostrarle: ma son troppo ammalato; mi sarà impossibile
di recarmi a visitare la Vostra Maestà; ma io le manderò Farini domani, che le
parlerà di tutto in particolare. Vostra Maestà ha ella ricevuta da Parigi la
lettera che aspettava? L'Imperatore è molto buono per noi ora, sì, molto buono.
E i nostri poveri Napoletani così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto
ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli.
Sire, sì, sì, si lavi, si lavi! Niente stato d'assedio, nessun mezzo di governo
assoluto. Tutti sono buoni a governare con lo stato d'assedio [...] Garibaldi è
un galantuomo, io non gli voglio alcun male. Egli vuole andare a Roma e a
Venezia, e anch'io: nessuno ne ha più fretta di noi. Quanto all'Istria e al
Tirolo è un'altra cosa. Sarà il lavoro di un'altra generazione. Noi abbiamo
fatto abbastanza noialtri: abbiamo fatto l'Italia, sì l'Italia, e la cosa
va...»[98][99] Secondo l'amico
Michelangelo Castelli, le ultime parole del Conte furono: «L'Italia è fatta -
tutto è salvo», così come le intese al capezzale Luigi Carlo Farini. Il 6
giugno 1861, a meno di tre mesi dalla proclamazione del Regno d'Italia, C.
moriva così a Torino nel palazzo di famiglia. La sua fine suscitò immenso
cordoglio, anche perché del tutto inattesa, e ai funerali vi fu straordinaria
partecipazione[100]. A C. succedette
come presidente del Consiglio Bettino Ricasoli.
In memoria di C. La moneta da 2
euro commemorativa emessa in occasione del 200º anniversario della nascita Banconota uruguayana del 1887 raffigurante C.
e Garibaldi C. nell'agiografia postunitaria dall'anno della sua morte fu
ritenuto il "Padre della Patria" da un illustre personaggio come
Giuseppe Verdi, che lo definì "il vero padre della patria"[101] e dal
politico liberale, senatore del Regno, Nicomede Bianchi, che lo definì "il
buono e generoso padre della patria nascente"[102]. Il Conte è stato ricordato in vari modi. Due
città italiane hanno aggiunto il suo nome a quello originario: Grinzane C., di
cui Camillo Benso fu sindaco, e Sogliano C. per celebrare l'unità nazionale.
Gli sono state dedicate innumerevoli vie e piazze e numerose statue. Diverse le targhe ricordo, anche al di fuori
dei confini italiani, come ad esempio quella posta a San Bernardino (frazione
di Mesocco, nel Cantone dei Grigioni), che ricorda il passaggio dello statista
il 27 luglio 1858, dopo gli accordi di Plombières con Napoleone III. Nel 2010, in occasione del 200º anniversario
della sua nascita, è stata coniata dalla zecca italiana una moneta da 2 euro
commemorativa che lo raffigura. La tomba
di C. si trova a Santena e consiste in un semplice loculo posto nella cripta
sotto la cappella di famiglia nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo; l'accesso
avviene tuttavia dall'esterno della chiesa (piazza Visconti Venosta, su cui si
affaccia anche la facciata secondaria della Villa C.). Lo statista è sepolto
per sua espressa volontà accanto all'amato nipote Augusto Benso di C., figlio
di suo fratello Gustavo e morto a 20 anni nella battaglia di Goito. La cripta è
stata dichiarata monumento nazionale nel 1911.
La nave da battaglia Conte di C. e la portaerei C. (C 550) sono state
così chiamate in suo onore. A C. furono
dedicate delle caramelle di liquirizia aromatizzate alla violetta: le
cosiddette sénateurs. Lo storico Caffè
Confetteria Al Bicerin dal 1763ricorda C. come suo cliente fidato (uno dei
tavolini al suo interno viene segnalato come abituale del conte). Ancona Ancona Firenze Firenze Livorno Livorno
Milano Milano Novara Novara Roma Roma Torino Torino Vercelli Vercelli Verona
Verona Padova Padova Controversie Il conflitto con Mazzini Giuseppe Mazzini, di cui C. combatteva le
idee repubblicane. Giuseppe Mazzini, che dopo la sua attività cospirativa degli
anni 1827-1830 fu esiliato dal governo piemontese a Ginevra, fu uno strenuo
oppositore della guerra di Crimea, che costò un'ingente perdita di soldati.
Egli rivolse un appello ai militari in partenza per il conflitto: «Quindicimila tra voi stanno per essere
deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Voi non
avrete onore di battaglie. Morrete, senza gloria, senza aureola, di splendidi
fatti da tramandarsi per voi, conforto ultimo ai vostri cari. Morrete per colpa
di governi e capi stranieri. Per servire un falso disegno straniero, l'ossa
vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane, né
alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra. Per questo io vi
chiamo, col dolore dell'anima, "deportati".» (Giuseppe Mazzini[103]) Quando nel 1858, Napoleone III scampò
all'attentato teso da Felice Orsini e Giovanni Andrea Pieri, il governo di
Torino incolpò Mazzini (C. lo avrebbe definito «il capo di un'orda di fanatici
assassini»[104] oltreché «un nemico pericoloso quanto l'Austria»[105]), poiché
i due attentatori avevano militato nel suo Partito d'Azione. Secondo Denis Mack Smith, C. aveva in passato
finanziato i due rivoluzionari a causa della loro rottura con Mazzini e, dopo
l'attentato a Napoleone III e la conseguente condanna dei due, alla vedova di
Orsini fu assicurata una pensione[106]. C. al riguardo fece anche pressioni
politiche sulla magistratura per far giudicare e condannare la stampa
radicale[107]. Egli, inoltre, favorì
l'agenzia Stefani con fondi segreti sebbene lo Statuto vietasse privilegi e
monopoli ai privati[108]. Così l'agenzia Stefani, forte delle solide relazioni
con C. divenne, secondo il saggista Gigi Di Fiore, un fondamentale strumento
governativo per il controllo mediatico nel Regno di Sardegna[109]. Mazzini, intanto, oltre ad aver condannato il
gesto di Orsini e Pieri, espose un attacco nei confronti del primo ministro,
pubblicato sul giornale L'Italia del Popolo:
«Voi avete inaugurato in Piemonte un fatale dualismo, avete corrotto la
nostra gioventù, sostituendo una politica di menzogne e di artifici alla serena
politica di colui che desidera risorgere. Tra voi e noi, signore, un abisso ci
separa. Noi rappresentiamo l'Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione
monarchica. Noi desideriamo soprattutto l'unità nazionale, voi l'ingrandimento
territoriale» (Giuseppe Mazzini[110]) Risorgimento Il ruolo di C. durante il
Risorgimento ha suscitato varie dispute. Sebbene sia considerato uno dei padri
della patria assieme a Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Mazzini, il Conte
inizialmente non riteneva fosse possibile unire tutta l'Italia soprattutto per
l'ostacolo rappresentato dallo Stato Pontificio e dunque puntava solamente ad
allargare i confini del regno dei Savoia nel nord Italia (lo stesso Mazzini lo
accusava di non promuovere una politica chiaramente volta all'unificazione di
tutta la penisola)[110]. Nella cultura
di massa Nelo Risi, Patria mia. Camillo Benso di C., Rai, 1961, documentario
(successivamente trasmesso da Rai Storia il 10 agosto 2010). Piero Schivazappa,
Vita di C., sceneggiato su sceneggiatura di Giorgio Prosperi (1967). Maricla
Boggio, C., l'amore e l'Opera Incompiuta, (2011, testo teatrale). Onorificenze
Camillo Benso di C. Camillo Paolo
Filippo Giulio Benso, conte di C., di Cellarengo e di Isolabella Conte di
Cellarengo e di Isolabella Conte dei marchesi di C. Stemma Nome completo
Camillo Paolo Filippo Giulio Nascita Torino, 10 agosto 1810 Morte Torino, 6
giugno 1861 Luogo di sepoltura Castello C. di Santena Dinastia Benso Padre
Michele Benso di C. Madre Adele di Sellon d'Allaman Religione Cattolicesimo C.
ottenne numerose onorificenze, anche straniere. Si riportano quelle di cui si è
a conoscenza da fonti attendibili[111]:
Cavaliere dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata - nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata —
29 aprile 1856 Cavaliere di gran croce dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
- nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro — 26 marzo 1853 Cavaliere dell'Ordine civile di Savoia - nastrino
per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine civile di Savoia Cavaliere
dell'Ordine imperiale di Sant'Alessandr Nevskij (Russia) - nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine imperiale di Sant'Alessandr Nevskij
(Russia) Cavaliere di gran croce dell'Ordine della Legion d'onore (Francia) -
nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine della
Legion d'onore (Francia) Cavaliere dell'Ordine di Carlo III (Spagna) - nastrino
per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine di Carlo III (Spagna) Cavaliere di
gran croce dell'Ordine di Leopoldo (Belgio) - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere di gran croce dell'Ordine di Leopoldo (Belgio) Cavaliere di gran
croce dell'Ordine del Salvatore (Grecia) - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere di gran croce dell'Ordine del Salvatore (Grecia) Cavaliere di I
classe dell'Ordine di Medjidié (Impero Ottomano) - nastrino per uniforme
ordinaria Cavaliere di I classe dell'Ordine di Medjidié (Impero Ottomano)
Cavaliere di gran croce dell'Ordine Reale Guelfo (Gran Bretagna e Hannover) -
nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine Reale
Guelfo (Gran Bretagna e Hannover) Cavaliere di grande stella dell'Ordine del
leone e del sole (Persia) - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di grande
stella dell'Ordine del leone e del sole (Persia) Tavola genealogica di
sintesi Lo stesso argomento in
dettaglio: Benso_(famiglia) § Armoriale.
Bernardino *? †? Pompilio[112] *?
†1624 Silvio *? †1624 Michelantonio *1600 †1655 Bernardino *? †? Zenobia *?
†? Maurizio Pompilio Conte di Cellarengo
e Isolabella 1635 †? Paolo Giacinto Signore di C. *1637†1712 Ludovico
Percivalle *1647 †1685 Giuseppe
Filippo Signore di C. *1648 †1719 Carlo Ottavio *? †1724 Michele Antonio III
Marchese di C. *1707 †1774 Giuseppe Filippo IV Marchese di C. *1741 †1807 Michele
V Marchese di C. *1781 †1850 Gustavo VI Marchese di C. *1806 †1864 Camillo
Paolo Conte di C. *1810†1861 Augusto *1828 †1848 Giuseppina *1831 †1888 ⚭ Carlo Alfieri di Sostegno *1827
†1897 Ainardo VII Marchese di C. *1833†1875 Maria Luisa *1852 †1920 ⚭ Emilio Visconti Venosta *1829 †1914
Adele *1857 †1937 Paola *1877†1886 Carlo *1879†1942 Francesco *1880 †1898 Enrico
*1883 †1945 Giovanni *1887†1947 Note Esplicative ^ Il titolo di conte
attribuito al C. era un titolo di cortesia, all'uso francese. Questo sistema
concedeva al primogenito il titolo immediatamente inferiore a quello del
titolare capofamiglia, al secondogenito quello ancora inferiore e così via a
scalare. In questo caso, quando morì il padre di Camillo (il marchese Michele)
al suo primo figlio (Gustavo) andò il titolo di marchese e al suo secondogenito
(Camillo) quello di conte. Alla morte del fratello Gustavo, Camillo avrebbe
ereditato il titolo di marchese. Morì invece prima di Gustavo. Forum "I
Nostri Avi", su iagiforum.info. URL consultato il 28 maggio 2013. ^ Al
termine del suo tirocinio militare presentò una memoria dal titolo Esposizione
compita dell'origine, teoria, pratica, ed effetti del tiro di rimbalzo tanto su
terra che sull'acqua. Cfr. Dalle Regie scuole teoriche e pratiche di
Artiglieria e Fortificazione alla Scola d'applicazione di Artiglieria e Genio,
Scuola di applicazione delle armi di Artiglieria e Genio, Torino, 1939. ^
"Dal momento in cui mi trovai in condizione di poter leggere da me stesso
i libri di Rousseau, ho sentito per lui la più viva ammirazione. È a mio
giudizio l'uomo che più ha cercato di rialzare la dignità umana, spesso
avvilita nella società dei secoli trascorsi. La sua voce eloquente ha più di
ogni altra contribuito a fissarmi nel partito del progresso e della
emancipazione sociale. L'Emilesoprattutto mi è sempre piaciuto per la giustezza
delle idee e la forza della logica. (Citato in Italo de Feo, C.: l'uomo e
l'opera, A. Mondadori, 1969, pp. 49-50) ^ I De La Rüe erano originari di
Lessines ma appartenevano ad un'antica famiglia nobile di Ginevra dove
occupavano una posizione eminente nell'aristocrazia locale già nel XVI e XVII
secolo. Fra il XVIII e il XIX secolo due membri della famiglia, Antoine e Jean,
si trasferirono a Genova. Ad essi si deve la fondazione della banca De La Rüe
frères. C., arrivato a Genova nel 1830, strinse amicizia con i figli di Jean:
David-Julien, Hippolyte ed Émile. Quest'ultimo dopo il 1850 fu l'unico a
dirigere la banca (divenuta la De La Rüe C.) e fu il riferimento
dell'imprenditore C.. Cfr. Romeo, p. 26. ^ C. in un articolo scrisse: «L'ora
suprema per la monarchia sarda è suonata, l'ora delle forti deliberazioni,
l'ora dalla quale dipendono i fati degli imperii, le sorti dei popoli» ^ La
guerra colpì C. anche personalmente, poiché nella Battaglia di Goito il figlio
del fratello Gustavo, il marchese Augusto di C., rimase ucciso a soli 21 anni.
Il colpo fu molto duro per il Conte, che per il nipote nutriva un affetto
paterno. Prova ne fu che conservò la sua divisa insanguinata per tutta la vita.
Cfr. Hearder, C., Bari, 2000, pag. 67. ^ Furono accordati a Parigi riduzioni
sui dazi per l'importazione in Piemonte di vini e articoli di moda; ottenendo
in cambio il mantenimento dei vantaggi per l'esportazione in Francia del
bestiame sardo, del riso e della frutta fresca. ^ Le trattative, iniziate già
prima dell’avvento di C. al governo, furono difficili per i negoziatori
piemontesi. Posti nell’alternativa tra l’accettazione di un trattato per vari
rispetti poco favorevole e il ritorno al regime precedente a quello convenuto
nel 1843, essi ammisero restrizioni alla reciprocità nei diritti di navigazione
allora stabilita (e che ora veniva limitata alla navigazione diretta tra i
porti dei due Stati), a Parigi accordarono riduzioni sui dazi che colpivano
l’importazione francese di vini e acquaviti, porcellane e articoli di moda
ottenendo in cambio il mantenimento del regime di favore per l’ingresso nel
territorio francese del bestiame sardo (a eccezione della frontiera savoiarda,
donde si temeva l’afflusso in Francia di bestiame svizzero), e riduzioni sul
riso e la frutta fresca. Non riuscirono però a strappare alcuna concessione
sull’olio d'oliva, di grande importanza soprattutto per le regioni produttrici
ed esportatrici della Riviera di Ponente; e dovettero in pari tempo accettare
una convenzione sulla proprietà letteraria che era nettamente favorevole a un
paese esportatore di idee e di libri come la Francia. Rosario Romeo, C. e il
suo tempo 1842-1854, p. 206-207. ^ Le industrie esportatrici come la seta non
ponevano alcun problema di protezione, mentre quelle della lana, della canapa e
del lino sembravano abbastanza sviluppate da resistere anche con una protezione
considerevolmente ridotta. Invece, si prevedevano reclami contro le riduzioni
daziarie da parte della industria del cotone, la meno naturale di tutte in
quanto dipendente tutta da materie prime provenienti dall'estero e si escludeva
ogni competitività per la siderurgia, possibile in Piemonte solo con una
protezione elevatissima. Per le lavorazioni meccaniche si prevedeva un dazio
medio del 25%, giudicando inesistete qualunque settore non riuscisse a
sopravvivere alla concorrenza con una tale protezione. Eliminati presso che
interamente i dazi alla esportazione – anche in casi come quello degli stracci
che l’industria della carta, sviluppata specialmente in Liguria, utilizzava
come materia prima – il governo assunse un atteggiamento nettamente contrario
alla protezione anche in fatto di industria zuccheriera, rifiutando di cedere
alle insistenti richieste degli interessati per una riduzione ulteriore del
dazio sugli zuccheri non raffinati, in vista di uno sviluppo della industria
nazionale della raffinazione, che neppure il regime eccezionale di favore
stabilito dopo il 1830 era riuscito ad attivare. In agricoltura ci si orientò
verso il mantenimento della moderata protezione esistente sui cereali, godendo
già di un vantaggio da valutarsi a non meno del 10% sovra le spese di
trasporto, anticipazioni di fondi ecc. in confronto alle importazioni
dall’estero. Rosario Romeo, C. e il suo tempo 1842-1854, p. 207. ^ In cambio di
estese facilitazioni a vantaggio dei prodotti agricoli, dei sali e dei marmi
piemontesi, si concessero al Belgio importanti agevolazioni (parallelamente
concesse all’Inghilterra) per le sue manifatture, esplicitamente rinunciando
alla protezione degli zuccherifici e della siderurgia (soprattutto ligure, che
per C. non aveva avvenire), e manifestando invece la fiducia che le industrie
tessili, compresa quella del cotone, ricavassero nuovi impulsi al loro sviluppo
e ammodernamento dalla più attiva concorrenza belga. Rosario Romeo, C. e il suo
tempo 1842-1854, p. 208. Il conte aveva previsto che, dopo i trattati con il
Belgio e con l’Inghilterra, la Francia avrebbe chiesto il trattamento della
nazione più favorita e per correndo il rischio di nuove concessioni senza
corrispettivo alla potente vicina doveva valere il carattere oneroso, sia pure
apparente, ch’egli aveva voluto dare alle concessioni fatte alla Gran Bretagna.
Ma nei nuovi negoziati, richiesti da parte francese, la Sardegna riuscì solo a
ottenere qualche concessione sulle esportazioni di bestiame minuto e di frutta
e dovette anche concedere nuove agevolazioni sulle sete e sui libri. Rosario
Romeo, C. e il suo tempo 1842-1854, p. 209. ^ Secondo Chiala, quando La Marmora
propose a Vittorio Emanuele la nomina di C. a Presidente del Consiglio, il Re avrebbe
risposto in piemontese: «Ca guarda, General, che côl lì a j butarà tutii con't
le congie a'nt l'aria» ("Guardi Generale, che quello lì butterà tutti con
le gambe all'aria"). Secondo Ferdinando Martini, che lo seppe da
Minghetti, la risposta del Sovrano sarebbe stata ancora più colorita: «E va
bin, coma ch'aa veulo lor. Ma ch'aa stago sicur che col lì an poch temp an lo
fica an't el prònio a tuti!» ("E va bene, come vogliono loro. Ma stiamo
sicuri che quello lì in poco tempo lo mette nel culo a tutti!") cfr. Indro
Montanelli, L'Italia unita, Bur, 26 November 2015, ISBN 9788858682722. ^ C. per
l'apertura delle ostilità colse il pretesto che la Russia durante la prima
guerra di indipendenza aveva rotto le relazioni con il Regno di Sardegna (al
tempo la Russia intratteneva rapporti migliori con l'Austria) e che lo Zar
Nicola I aveva rifiutato, nel 1849, di riconoscere l'ascesa al trono di
Vittorio Emanuele II. Cfr. Hearder, C., Bari, 2000, pag. 102. ^ L'uniforme è
esposta nel Museo del Risorgimento di Torino. Con spadino, feluca, placca e
fascia da Cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, cotone, velluto,
acciaio, madreperla, ottone, cuoio, piume di struzzo, argento, argento dorato,
smalto e gros di seta. ^ Il Piemonte, assieme alla Francia, chiese anche
l'annullamento delle elezioni tenutesi in Moldavia nel luglio 1857 che, con
risultati definiti inattendibili, avevano avuto un esito sfavorevole all'unione
dei due principati. ^ L'Austria con la guerra di Crimea aveva perso l'amicizia
della Russia e vedeva allontanarsi la Prussia che era alla ricerca di maggiore
autonomia, mentre la tiepida amicizia della Gran Bretagna non poteva bilanciare
la situazione. Bibliografiche ^ Disegno dell'inglese William Brockedon. ^
Romeo, pp. 3-4. ^ Romeo, p. 32. ^ Romeo, pp. 25-26. ^ Hearder, C., Bari, 2000,
pag. 26. ^ Giuseppe Talamo, La formazione di C.: la rivoluzione di luglio e i
primi anni Trenta, in Nuova antologia, APR - GIU, 2010 p=45. ^ AA. VV., C. nel
150° anniversario dell’Unità, Gangemi Editore SpA, novembre 2011, p. 45, ISBN
9788849272703. ^ Federico Navire, Torino come centro di sviluppo culturale: un
contributo agli studi della civiltà italiana, Francoforte, Peter Lang, 2009, p.
337, ISBN 978-3-631-59130-7. ^ Romeo, pp. 102-103. ^ Romeo, pp. 112, 114-115,
118. ^ Romeo, pp. 118-121. ^ Romeo, p. 121. ^ Romeo, p. 131. ^ Romeo, p. 137. ^
Romeo, p. 139. ^ Romeo, pp. 140-141. ^ Dipinto di Paolo Bozzini (1815-1892). ^
Romeo, pp. 149-150. ^ Romeo, pp. 157-158. ^ Romeo, p. 159. ^ Romeo, pp.
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Romeo, pp. 171-172. ^ Romeo, pp. 172-173. ^ Ritratto di Francesco Hayez del
1860. ^ Romeo, pp. 174-176. ^ Hearder, C., Bari, 2000, pag. 69. ^ Romeo, pp.
175-176, 179. ^ Romeo, pp. 177-178. ^ Romeo, p. 186. ^ Romeo, pp. 186-187. ^
Romeo, pp. 188-189. ^ Rosario Romeo, C. e il suo tempo 1842-1854, p. 204. ^
Romeo, p. 191. ^ Romeo, p. 192. ^ Romeo, pp. 193-194. ^ Hearder, C., Bari,
2000, pag. 70. ^ Romeo, pp. 195-196. ^ Hearder, C., Bari, 2000, pagg. 71-72. ^
Romeo, pp. 197, 201-202. ^ Romeo, pp. 202-203. ^ Da Londra effettuò escursioni
a Oxford, Woolwich e Portsmouth. ^ Nel viaggio toccò Manchester, Liverpool,
Sheffield, Hull, Edimburgo, Glasgow e le Highlands. ^ Romeo, p. 223. ^ Romeo,
pp. 224-225. ^ Dipinto di Michele Gordigiani ^ Hearder, C., Bari, 2000, pag.
81. ^ Romeo, pp. 233, 235-236, 238. ^ Romeo, pp. 240, 244-245, 252. ^ Romeo, p.
245. ^ Romeo, pp. 248-249. ^ Valerio, Brofferio, Pareto a Sinistra e Solaro
della Margarita a Destra. ^ Romeo, p. 259. ^ Romeo, pp. 259-260. ^ Romeo, p.
261. ^ Hearder, C., Bari, 2000, pagg. 94-96. ^ Hearder, C., Bari, 2000, pagg.
85, 99, 100. ^ Ritratto di George Peter Alexander Healy ^ Romeo, p. 300. ^
Dipinto di Édouard Louis Dubufe. ^ Romeo, p. 327. ^ Romeo, p. 337. Romeo, pp. 347-348. ^ Romeo, pp. 352-354. ^
Romeo, pp. 360-362. ^ Romeo, pp. 366-368, 370. ^ Romeo, pp. 355, 371. ^ Dipinto
di Adolphe Yvon. ^ Vignetta di Francesco Redenti (1820-1876) del gennaio 1857
apparsa sul giornale torinese Il Fischietto. ^ AA.VV, Storia delle relazioni
internazionali, Monduzzi, Bologna, 2004, pagg. 45-46. ^ Romeo, pp. 431-432. ^
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^ Romeo, pp. 468-469. ^ Romeo, pp. 470-473. ^ Romeo, pp. 474, 476. ^ C. e la
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«Fa specie pensarlo, ma nelle vene di Camillo C., propugnatore della laicità
dello Stato, scorreva lo stesso sangue di un campione della Controriforma
cattolica!» ^ Camillo Benso, Discorso del 27 Marzo 1861 - Camillo Benso di C.,
su camilloC..com, 27 marzo 1861. URL consultato il 28 giugno 2021. «noi siamo
pronti a proclamare nell'Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero
Stato. I vostri amici di buona fede riconoscono come noi l'evidenza,
riconoscono cioè che il potere temporale quale è non può esistere.» ^ Libera
Chiesa in libero Stato nell'Enciclopedia Treccani, su treccani.it. URL
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indici), nel cui primo volume, alle pp. 160–164, sono riportati, a cura di
Giuseppe Talamo, gli scritti del Conte e la bibliografia su di lui fino al
1969. L'opera è stata aggiornata per il periodo 1970-2001 con altri 3 volumi
più uno di indici nel 2003-2005. A C. sono dedicate le pp. 307–310 a cura di
Sergio La Salvia. Carteggio, scritti,
discorsi Camillo Benso conte di C. (a cura della Commissione Nazionale per la
pubblicazione dei carteggi del Conte di C.), Epistolario, 18 volumi, Olschki,
Firenze, 1970-2008 (varie edizioni di alcuni volumi). Camillo Benso di C.,
Autoritratto. Lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di Adriano Viarengo,
prefazione di Giuseppe Galasso, Classici moderni Mondadori, Milano, 2010, ISBN
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Mursia, Milano, 2012. ISBN 978-88-425-4886-7. Rosario Romeo, C. e il suo tempo
(3 voll. in 4 tomi: C. e il suo tempo 1810-1842, ISBN 978-88-420-9876-8; C. e
il suo tempo 1842-1854, ISBN 978-88-420-9877-5; C. e il suo tempo 1842-1861,
ISBN 978-88-420-9878-2) Laterza, Bari, 1969-1984. Ristampa 2012. Rosario Romeo,
Vita di C., Roma-Bari, Laterza, 1998, ISBN 88-420-7491-8. Riassunto del
precedente. Ristampa 2004. Giuseppe Talamo C., La Navicella, Roma, 1992.
Ristampa presso Gangemi, Roma, 2010, ISBN 978-88-492-1997-5. Adriano Viarengo, C.,
Salerno editrice, Roma, 2010. ISBN 978-88-8402-682-8. Altri testi Marziano
Bernardi, Torino – Storia e arte, Torino, Editori Fratelli Pozzo, 1975
Annabella Cabiati, C.. Fece l'Italia, visse con ragione, amò con passione,
Edizioni Anordest, Treviso, 2010 ISBN 978-88-96742-03-7. Rinaldo Caddeo,
Camillo di C.. In: Epistolario di Carlo Cattaneo. Gaspero Barbèra Editore,
Firenze 1949, pp. 220, 354, 483. Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia! Storia
controcorrente del Risorgimento, Piemme, Milano, 2003 ISBN 88-384-7040-5. Gigi
Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia: fatti e misfatti del Risorgimento,
Rizzoli, Milano, 2007 ISBN 88-17-01846-5. Camilla Salvago Raggi, Donna di
passione. Un amore giovanile di C., Viennepierre, Milano, 2007. Aldo Servidio,
L'imbroglio nazionale: unità e unificazione dell'Italia (1860-2000), Guida,
Napoli, 2000 ISBN 88-7188-489-2. Giovanni Maria Staffieri, Il conte di C. nel
Ticino e un discorso mai pronunciato, in Il Cantonetto, Anno LVII-LVIII,
N2-3-4, Lugano, agosto 2011, Fontana Edizioni SA, Pregassona 2011, pp. 75–82.
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Benso, count di C., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
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