Grice
e Cocconato: l’implicatura conversazionale -- scuola di Torino – filosofia torinese –
filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Coconato – I
used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless
you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato!
He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian
philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato,
as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di
Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della
penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il
suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente
in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora
tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche
ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo
coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il
cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti
della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a
corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la
Curia romana. Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion
pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of
the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il
precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato
cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come
un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire
dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli
agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine,
rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la
fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a
far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione
intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza"
tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi
libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité
contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e
sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali,
storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato
clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e
Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da
un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà
e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a
Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il
sequestro e la confisca dei beni. A Londra pubblica con un discreto
successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione
di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e
radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che,
tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo.
Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della
tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e
all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge
nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di
senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si
inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere
Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il
suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto
individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul
suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni
confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente
nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede,
considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo
cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da
una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari
di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di
una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella
Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio
muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana.
Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega
affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio
vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di
servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente,
incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi
per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le
cose. Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa
intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia
della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La
certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e
dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo
vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio
londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci
giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione,
continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione
continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la
materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel
meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui
ineriscono direttamente movimento e autoregolazione. L'universo è un
mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche
solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni,
rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono
tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si
perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse
parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare
anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita
dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella
materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà
sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta
dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di
lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una
delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità,
nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo
per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame
arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e
disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a
ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non
conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che
temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita
della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà
poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della
vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature?
come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»
Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed
economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi,
Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò
editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite
parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante,
Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo
messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento
di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla
morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero
Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino,
anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto
Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,
Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti
sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in «Rivista Storica
Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e
diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista Storica Italiana»,
Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity Oxford,
Cavallo, Introduzione a Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa,
Ets, Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo:
impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A.
Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante,
Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di
Muscandia», Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in Early
Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others in the
Early Modern Period, ed. by Broomhall and JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite
Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come
uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di
filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono
a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero
come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come
il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese
su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua
filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S.
Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses
Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London.
Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the
Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of
Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of
Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown
in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to
repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his
Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the
Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd
without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa
recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers
and Pamphletsellers of London and Westminster. “A phliosophical [sic]
dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a
friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on
Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III colla
quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui
composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato
Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning
Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by
Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition”
(London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster).
Recueuil de pieces
curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve
Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P.
parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze
Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de
l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a
la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker
Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius
neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la
religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare
les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe
a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda
fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour
rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son
maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la
grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée,
traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion
Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem
epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di
queste opere le notizie e di caratteri più salienti. È edita dal Saraceno,
nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto
immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno)
caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli
alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel
MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a
Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui
abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March,
del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia
fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa
Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed
è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese
sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al
March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile
poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni
di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di
dodici discorsi. Fu edita invece
incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author
gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the
Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al
primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il
Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il
Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours,
Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux
ecc.editi nel Becueil . Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che
questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel
Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due
testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più
salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di
vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima
mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au
lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime
note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza
capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione,
corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato
impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le
notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo.
L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del
testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I
titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i
seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and
Primitive Christians. Discourse III:
The Christian Religion to the Religion of Nature itself. Discourse IV: What
were the Causes of the Corruption of the Christians. Discourse V. Of the
Mischief done to Christianity by the great Number of Churches and
Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are become
Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither the
spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse
VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to
maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them.
Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states.
Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government.
Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as
Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair
should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti
non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses”
come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del
tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del
resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli
delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione,
sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione
l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente
attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed
il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime
edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con
l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor
Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner
la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne.
Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui
l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F***
piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte
de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e
nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de
l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una
seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e
attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione
tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor
Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit
les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur
de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de
vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis
de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel "
Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui
ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye.
Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure
attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie
biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi
de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il
s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal.
Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II, Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne
Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury
che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de
Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et
des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a
Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese
rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che
esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato
solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan
(l'indicazione della bibliografia del B. M. è: " A philosophical
dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A.
Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas
Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe
il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il
traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente
dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza
indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio,
l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un
de ses compagnons " en bon Anglois e sotto il nome di questo traduttore, che si
seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita
dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La
scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE loco
cit. LILIENTHALS loco cit. FREYTAG loco cit. VOGT loco cit. BAUER: op. cit.
loco cit., WAHIUS loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come
semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè
di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours siano stati stampati per la prima volta a
Rotterdam nel " Recueil , e che quindi sino al 1736 i " Discours medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani
del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile
edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima per le ragioni
stesse che giustificano l'edizione) che il nostro si decise a dare alle stampe
i " Discours dopo aver visto che
non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo
stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la
possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione
inglese dei " Discours , la quale messa in confronto con quella di
Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la "
Dedica a Don Carlos (sedizione
Rotterdam) e il " Factum fonte di
preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre
che la Declaration de Vauteur contenente
i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel
suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che
sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. THE AUTHOR' S DECLARATION.
Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will
forgive me for making a short declaration concerning the publication of this
work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL:
Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere
rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg,
Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon. MASCH I Beilriige zur Geschichte
merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK: Cristliche Kirchengeschichte seil
deiReformation - Leipzig SCHLEGELS:
Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un
Amateur citato dal QUERARD. Les
supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen)
afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur
grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien Di questa edizione, probabilmente in foglio o
in 4° grande, (" sur grand papier ) non siamo però riusciti ad averne
traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO
EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis et ante omnia. I do
declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would
be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and as that PRINCE was
then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to
proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd
some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have
methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages
and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more
agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had
nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind
in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour,
shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have
kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour,
occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything
without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is said
in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the Popish
Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and despis'd the
most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other church
whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly charitable,
pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be stiled the
true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive good
Prelates instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book, and
you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were endued.
Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious Tenets of
the Popish Church; for this has been so often done ever since the Reformation,
and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt it. Besides,
Popish Princes little regard at this time wha t is said against
Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like;
as things, which ways affect their
temporal Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe
r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e
they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to
the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon
the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and
this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work.
I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of
some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in
every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age
. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made
use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII
) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in
Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and
that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish
them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know
myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent
Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my
Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII )
And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with
this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha
s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous;
nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to
rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who
labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss
of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond. pag. 1-13; Ediz. Rot. pag.
15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti
sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è qualificato: 0 great and
goodman attribut i c h e mancan o
nell'Ediz. . - manc a la not a sul
ministr o Jurie u ch e si trov a a pag. 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il
Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz. Rot.) è pur e ess o integralment e
riprodotto. Unich e varianti:
pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o "
and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „.
nota, dop o le parol e " universally observed „ " généralement
observées „ ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736: " I
say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great
it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be
obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer
themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true
Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more
make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a
hundred thousand Rabbits could make head against a hungry Lion, that
should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good
Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without
Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet
- Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des
Pensées - Ghap. „. Il Discorso III (Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag.
38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in
Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è quasi del tutto
riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le
gouvernement de leur Eepublique „,
dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui
appresso riproduciamo. But they wer e
never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles,
we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the
Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles
of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion,
and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that
we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus
Ghrist, for that good works ncither justify, nor save; but to him, saith he,
that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith
is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other
hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not amusing
himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without
good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to' understand that
" good works will save us independent of Faith”This Doctrine is highly
just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a
man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel,
covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5.James II, etc. (***) Rom III. 26, 27,
28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that
Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a man to be a
Christian in practice without speculation, than to be a Christian in
speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage,
who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian,
who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio'
he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice
and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to
Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by
building Religion upon various. and different foundations bave caused an
infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian
Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome asunder most
assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible
speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets,
which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same
as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali
ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke
upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find
rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„,
and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond.
pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag.
80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue:
" Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in
operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda
simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates -
Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella
Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag.
129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.):
" See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des
Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant
a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la
parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione
Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164;
Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz.
lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota "
cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz.
lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte
nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo
inglese. By natural right
(ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby
each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary
for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat,
drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of
natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same
manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the
smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the
same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and
by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same
right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the
general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right
extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is
lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God,
whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of
nature is the same with that of every individual who make up that Nature,
without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends
as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it
is a general law for all beings, that each of them in particular shall
perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything
save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual
is, to subsist and act to that end according to the power which nature has
given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of
natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue,
and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is
no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for
every individual has a right to act according to the laws of his constitution
or organization. that is, according as he is determined by nature to such and
such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man
under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason,
or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much
right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that
live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have
conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a
right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according
to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has
a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its
dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the
natural state of man, no man could sin. Rom. It is not then the business
of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire
or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to
live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary,
notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural impulses.
Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to
preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to
the laws of appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and
none of us are more obliged to live according to the rules of good sense,
introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant is to live
according to the nature of an elephant. From whence it follows that, in the
state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things
whatever without exception, because nature has given all to every man, and may
use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by
entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or
endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural
right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his
power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are
not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder
amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has
previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none,
no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves.
Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the
state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy,
and an implacable hatred reign between one species and another. And this would
in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom
consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the
pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a
sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the
same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint
would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain
limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that
every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never
be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must
necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in
this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's
prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that
have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the
Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural
death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's
injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that
lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which feeding
upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir
animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill
not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death
has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a
lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having
ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far
from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and
goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him
immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all
assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows
rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time
in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in
the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the
world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of
humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is
tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the
short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without
ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in
Gulliver's Travels) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how
justly might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the
infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke
of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in
order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death
as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as
the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud
making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise
no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or the
instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so
much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal
order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all
things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and
above all to a man, appears such only because we know things but in part, and
because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we
not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it
preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard
to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our own.
This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good
and evil, which is really to be found in the state of nature. I call “morally
good” any action of an animal tending to the preservation and propagation of
his own individual or his species, for he is then performing their duty, by
aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I
cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in the whole, or
in part contrary to those notions, or sensations that Nature has implanted in
each of them, that they may perceive and know what is proper for their
subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise
Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing on
their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to moral
good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals may
chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion
to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is
Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except
one Species, which is Man. And it was for them se appointed them, because
knowing they had several cavities in their brains fdled with animai spirits,
which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to make them
fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back
from their wandring, has thought lil severely to punisti them, whenever they
swerve from their duty and act agreeably to the false notions with whict that
madnes inspires them, which notions tend to the destruction of their own
individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my self. It is
well known, that ali Animals, except Man, act according to the notions infused
into them by Nature, commonly called Instinct, for instance, knows its proper
food, and the actions to be performed in order to live in health, and
perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing at
first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the
Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in
short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals
perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and
make use of their females, when they have occasion; mor did, or do, any one of
them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was
satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or
make use of their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves
nothing necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their
strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of
Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than
other Animals, their actions shew they have less than the rest of them; some
thro' excessive folly eating and drinking when they are neither hungry, nor
dry, so far as lo bring distemper upon and kill Ihemselves; and forcing
themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to
destroy themselves: Others from a contrary madness, denying themselves meat,
and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume
and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely requires, or
forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral evil, from
whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them their whole
life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is Avarice, which
puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any use of them,
for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself miserable, but
greatly contributes to the misery of others. There is stili another kind of
madness, called ambition, that lords it over Man, which puts most Men upon
depriving themselves of what is really necessary to life, for Ghimeras, that
are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of this last
folly have not stopped there, but produced the greatest disorders amongst Men,
and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has happened, that
some of them thinlcing themselves better than others, have endeavoured to get
above them, appropriate to themselves what belonged to the rest by Naturai
right, and make their companions their slaves. which by the opposition they
have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies
that have taken possession of the minds of Men, and that have in ali times
scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have from time to time
obliged wise Men (who made use of their reason in order to preserve themselves
from falling into that sad and terrible Delirium to which they were liable) to
admonish the rest with a view of reclaiming them from their errore; and those
admonitions had sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving
anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise
Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai right, promised
obedience to them, upon condition that they on their side should always
endeavour to make that Nalion happy. This
was the rise and formation of Aristocratical Government. (Ecliz.) il test o corrispond e esattament e
nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate. - i puntin i di quest a edizione son o son o
sostituiti nell'edizione olandes e " le coeur de Nobles en àrbitraire ou
absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso (Ediz. lond.;
Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced
into Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and
that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince
„. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in
confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente
alla prima parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un
breve riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere
integralmente. Il R. così
comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that
Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to
their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil
Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose
tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority in
one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of
Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning
the Establishment of Religions „. A
dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è dedicata ad una di citazione
Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione
di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler
citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e Livio, il R. procede a citare "
a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit.
1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè
Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il
Gharron: " Ile was Canon and Master of the School of the Church of
Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See
Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è
raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that
lleligion might be subject to the Prince, to Religion „. Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la seconda
parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica differenza è
che la nota a pag. " See in the
life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's
exorbitant authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211
dell'Ediz. di Rotterdam. "
Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è riprodotto
integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della
esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito
del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a
proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro
prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e
quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.
Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal "
Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè infatti
abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736, nè
elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere
presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse
già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale
per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più
possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella
loro lingua originale. Lo scritto "
g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest
proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a
burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the
publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna
differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche
varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione del " Recueil „ della
parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso
dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo
inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. Fu fatta nel 1749 a
Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur
le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma
dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di
Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di
Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo
generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49
a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi
opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of
National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma
dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve
discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „
manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.;
pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Swift, London. (2) Cfr. Dictionary of
national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D op. cit. Col. 1231,
T III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes et pseudonymes, Paris.
commento e la cit. del testo ingl.; pag.
8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „
manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.;
pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces
Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn.
del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.;
pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz.
esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la
nota del testo ingl.;: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27
e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota
2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del
testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota
corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence „ manca quasi
l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca
nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo ingl.;:
l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito
al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal
Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è
confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando
se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale
attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il
Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad
affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un
seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata),
come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736,
facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione
dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che
nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti
potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima
volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè
possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come stralciata
dal volume del 0 Recueil „ stante la appariscente diversità dei caratteri
di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già da quattro anni
almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse trovate fra le
sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico nella capitale
inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per i tipi della
Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti interrogativi che
ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere, per mancanza di
documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra; e questa è
un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del R. Cocconato. [H]
Desideri: fenomenologia degenerativa e strategie di controllo 1. I/epithymia
nella fenomenologia degenerativa Il processo degenerativo che dal
nobile desiderio per il sapere del filosofo giunge infine alla liberazione e
soddisfazione dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da
una prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari modalità
repressive. Queste, e più in generale le strategie paradigmatiche di controllo
del desiderio, sono il nostro oggetto d'indagine privilegiato. La loro analisi
ci condurrà direttamente alla disamina delle molteplici specie di desideri,
alla caratterologia e alle derive psicopatologiche tracciate da Platone nel
libro Vili, nonché alla dinamica dei processi onirici e alla mania disegnate
nel IX. Da ultimo ci soffermeremo sulla contrapposizione strutturale tra
repressione e canalizzazione, parimenti inerente a epithymiai ed eros,
che attraversa il grande dialogo. A monte, Yepithymia platonica è
un moto psichico volto a riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza
di origine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a
convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi 1 sull'intera
questione cfr. qui voi. Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla
"interiorizzazione" della sfera del desiderio cfr. M. VEGETTI,
L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I, Noi
e i Greci, Torino; sul rapporto complessivo psyche-soma, cfr. ROBINSON,
Plato 's Psychology, Toronto LA REPUBBLICA ne
"desiderio". 2 Tale estensione, uno dei cardini metapsicologici della
fenomenologia degenerativa del libro Vili, fa tutt'uno con la diretta
attribuzione ad ogni istanza di una sfera "propria" di desideri
esplicitata nel libro IX: «siccome tre sono le parti della psyche,
triplici mi sembrano anche i piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; e
similmente i desideri e il loro ruolo di comando» (580d6-7). Con ciò la statica
tripartizione delineata nel libro viene calata, retroattivamente,
all'interno della dinamica psico-politica e quindi delle forme
caratteriali disegnata nell'VIII. Più da vicino, l'attribuzione
rende conto del legame tra il governo del logistikon e il desiderio di sapere
del filosofo, il governo dello thymoeide s e il desiderio di onori e
gloria del carattere timocratico, e le tre forme caratteriali dischiuse dal
governo del polimorfo epithymetikon, contenente tre specie di desideri e
piaceri: 1) i «necessari», dei quali «non ci si può liberare», quali fame, sete
ed eros riproduttivo, il cui appagamento è utile e salutare; 2) i «non
necessari», che possono essere «allontanati», la cui soddisfazione non frutta
alcun bene, talvolta anzi un male;
i paranomoi, fuorilegge, perversi e malvagi, sottospecie dei non
necessari, anch'essi allontanabili. Partizione metapsicologica sulla quale poggia
la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico, dominato dai desideri
necessari, nel quale il legittimo desiderio per il denaro degenera in
ossessione; il disinvolto carattere democratico, assediato dalla cangiante
moltitudine dei desideri non necessari; le inquietanti e parzialmente
convergenti figure 2 La convergenza con il nostro
"desiderio" è già attestata in Marsilio Ficino, Sopra il Convito di
Platone, ove Amore è sempre "desiderio di bellezza"; soluzione
che venne a sciogliere, indirettamente, le tensioni tra concupiscentia,
appetitus e desiderium derivate dalle letture scolastiche della metapsicologia
aristotelica: cfr., per es., TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae, 30, 1-4; sulla
revisione dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A.
GRAESER, Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.
22-24. Vm E IX, [H] deYL'erottkos e del tirannico, invasi e
pervasi dai desideri paranomoi? Questa diairesi delle specie del
desiderio, tassonomicamente inerente d& epithymetikon, eccede
euristicamente la catalogazione tipologica su due fronti. Su un versante viene
con 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle specie dei desideri e
il polimorfo epithymetikon, cfr., per es., HELLWIG, Adikia in Platons
'Politela'. Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX, Amsterdam 1980,
pp. 47-50. Ha sostenuto la forte «discrepanza» e «aperta contraddizione»
tra la tripartizione psichica e r«improwisata» diairesi dell'
'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dialogform und Argument. Studien zu Platons
'Politeia', Stuttgart 1997, soprattutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla
possibilità che le forme costituzionali e caratteriali potrebbero essere più
numerose, e che la partizione psichica sia forzatamente modellata su
quella politica. Sebbene sia vero che rimangano delle tensioni nel testo
- soprattutto rispetto al desiderio necessario del carattere oligarchico:
l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata quale
elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithymetikon
stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente i
tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme
"intermedie". Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica
e le cinque forme politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A
motifin Plato's 'Republic', Goteborg. Ferrari, City and Soulin Plato's
'Republic', Sankt Augustin, ha ultimamente sostenuto, di contro a
Andersson, il carattere meramente «analogico», «non causale»
dell'isomorfismo, cfr. soprattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però
l'esclusione della kallipolis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di
fatto, della timocrazia; vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente alcune
tensioni del testo (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la dimensione
dialettica e temporale della dinamica degenerativa. Inoltre, Ferrari è
costretto a eludere interi brani, come 544d, e nello specifico la
dimensione sociale nella quale è calata la degenerazione caratteriale come ove
non considera che il giovane timocratico «esce di casa» etc., e che la
figura paterna risulta infine «sconfitta» perché è collocata in un contesto
etico-politico che osteggia il suo modello psicocaratteriale (549c, 550b);
analoga la questione rispetto al carattere oligarchico (pp. 71-71) ove
Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico ove tace. In breve
ritengo, di contro a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in
una relazione di corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad
ognuno un'autonomia semi-ontologica dal punto di vista descrittivo,
statico, ma che preserva nel templata la possibilità che i
desideri possano essere allontanati o meno, approccio che mostra come la
materia epithymetica sia analizzata ad iniziare dalle strategie di
controllo adottabili nei suoi confronti. E questa la prospettiva
all'interno della quale si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro
fronte, anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veicolati
dalle singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro
soddisfazione gioca rispetto al benessere o al malessere psicofisico
complessivo del soggetto. Questi due fattori, modalità di gestione tese
al contenimento e allontanamento del materiale epithymetico più
pericoloso, insidie e derive psicopatologiche ad esse correlate, sono i
primi due assi sui quali corre la degenerazione che conduce infine alla mania.
Essi trovano la loro unità nel concetto di repressione, dal quale
cominceremo, ripercorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenerazione.
2. Repressione ed esilio Kolazomenai: i desideri possono
essere e talvolta vengono repressi: Fra i piaceri e i
desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere contrari alle leggi.
Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se vengono repressi (kolazomenai)
dalle leggi e dai desideri migliori con l'aiuto della ragione, nel caso
di alcuni uomini si allontanano del tutto oppure restano pochi e deboli,
in altri (restano) più forti e numerosi. La repressione dei
desideri non necessari, ed in particolare di quelli paranomoi, genera una
dislocazione topica, bipartita rispetto alla modalità funzionale,
tripartita quanto alle categorie caratterologiche. contempo
la relazione causale circolare dal punto di vista dinamico-temporale,
dialettico. E IX, [H] 475
L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi «si allontanano
del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito viene ascritto, più
in generale, alla repressione giovanile dei desideri genericamente non
necessari: «si potrebbero allontanare (apallaxeien), se ci si prendesse
cura di farlo fin da giovani. Ancora: se il desiderio non necessario «è
represso ed educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può essere
tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli uomini»
(559b9-10). b) La permanenza: i desideri repressi permangono
esplicitamente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato: 2) in un caso
permangono «pochi e deboli» desideri; condizione che non viene però
contrapposta al loro intero allontanamento: le due forme riguardano la
stessa categoria di persone. Nel terzo caso permangono desideri «più
forti e numerosi sì che viene delineata una seconda categoria di persone.
Per comprendere la dinamica, la forma, la topica e le conseguenze che comporta
l'adozione delle suddette strategie repressive fornisce un contributo
essenziale il brano sulla transizione dal carattere oligarchico a quello
democratico. Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera
il giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita
distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimento del
desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono distrutti {diephtharesan),
altri banditi {exepeson). Abbandonati i desideri banditi al proprio destino,
Platone si con- Analoga la ricostruzione, che coniuga le modalità che
permettono di «abwenden» i desideri non necessari e il «fortdauern» dei
paranomoi attestata dall'analisi dei processi onirici, di VoiGTLÀNDER,
Die Lust und das Gute bei Platon, Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il
conflitto vede ivi schierati su un fronte la specie dei desideri
necessari, "alleati" alla figura paterna, rappresentanti della parte
oligarchica, e la specie dei desideri non necessari, fomentati dalle cattive
compagnie, rappresentanti della parte democratica. LA REPUBBLICA
centra quindi sull'analisi di «altri desideri affini a quelli che sono
stati messi al bando», dei quali scrive, in un passaggio nevralgico, che, in
talune occasioni, «cresciuti di nascosto» (hypotrephomenai), diventano infine
molti e vigorosi. Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di
nascosto, insensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone: esse
«unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla. Essendo tale
proliferazione «nascosta», «segreta», «furtiva» {lathra), 6 siamo di
fronte ad una crescita effettivamente «inconsapevole»: ciò alle spalle di cui
crescono, ciò da cui si nascondono non può essere se non ciò che noi
usualmente indichiamo con l'espressione «coscienza». In breve, sfuggono alla
presa di coscienza. La proliferazione dei desideri non necessari è dunque
in questo caso collocata in un luogo intrapsichico oscuro, nascosto, tenebroso,
al di fuori della sfera cosciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei
desideri paranomoi repressi nel caso in cui restano «forti e
numerosi». L'individuazione e concettualizzazione di processi
psichici pacificamente definibili come «inconsapevoli» è del resto
attestata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove
leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando persone viziose,
ammassino «senza accorgersene {lanthanosin) un'unica grande mole di vizio nelle
loro psychai» e che, al contrario, devono crescere tra «opere belle» così
che la loro «aura», «fin da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li
conduca «all'armonico accordo con la bella ragione. 7 Ed an- Anche HELLWIG
sottolinea come le «Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la
Harmonie psichica e possano poi rafforzarsi «in heimlichem». 7
Jaeger, Paideia, Firenze, parla a questo proposito di «inconscio», così come
Lear, La psicoanalisi e i suoi nemici, Milano, XVIII; il termine «inconscio»
però, in questo caso specifico, non può essere inteso nel senso classico
e ristretto (dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili
alla rimozione. cora ove leggiamo che in certi casi «un'opinione
esce dalla mente» «in modo involontario, come accade in «coloro che
vengono indotti a mutare le loro convinzioni e che se le dimenticano,
perché agli uni il tempo, agli altri il ragionamento, le portano via di
nascosto {exairoumenos lanthanei)». Ora, i suddetti processi repressivi
sono collocati da Platone all'interno di una ben precisa topica
metapsicologica: i desideri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di
nascosto, «hanno infine conquistato l'acropoli della psyche.
L'acropoli raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luogo nel quale
si controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre istanze e le
particolari sfere di desideri ad esse pertinenti possono governare l'individuo.
I conflitti, lo scontro tra sfere di desideri alternativi che segnano
intimamente la psyche hanno quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la
«regale fortezza», penetrare attraverso i «portali» che conducono al
cuore del soggetto, al sé. La repressione che si limita ad
allontanare, ma forse anche a bandire, e comunque esclusivamente a
dislocare topicamente il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora
intendere quale espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa,
resistenza e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata
nel mettere «guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non sono
che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso alla pressione
del materiale pulsionale. Anche qui la politicizzazione platonica della
psyche mostra di non esser solo metafora, ma descrizione, non anatomica o
fisiologica, dei processi psicologici di per se stessi, che divengono
intelligibili, direttamente, in questa dimensione concettuale. Un
ultimo elemento chiave inerente alle strategie repressive, sempre di matrice
psico-politica, è la schiavitù cui sono soggetti i desideri repressi. Una
prima chiara indicazione in tal senso ci è data nella discussione del
carattere oligarchico che letteralmente «rende schiavi», «mette in schiavitù»
i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che riemerge,
in generale, anche ove leggiamo che «bisogna reprimere e mettere in
schiavitù» i «desideri malvagi» (kolazein te kai doulousthai). Vedremo
meglio come anche nell'analisi dei processi onirici la «schiavitù» (douleia),
cui sono soggette le opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga
un ruolo cruciale. Il punto che ora ci preme sottolineare è che la repressione
in taluni casi si configura come un processo seguito da una forma di
controllo radicale, di incatenamento. In conclusione, la
repressione dei desideri, paranomoi ma più in generale non necessari, è
un processo tale per cui essi vengono allontanati, non distrutti; in
alcuni casi essa comporta la loro esplicita permanenza, in catene, al di
fuori della coscienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale,
rinvigorendosi di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo momento,
tentare un attacco alle sue porte. 3. Il ritomo onirico del
represso I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio
del libro IX, «sono quelli che si risvegliano nel sonno,
inaugurando così l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci offre un
contributo tanto stringato quanto sorprendente per la sua modernità,
essenziale nell'architettura metapsicologica complessiva delle strategie
di controllo deH'epithymia nonché ai fini della definizione della specie
dei desideri paranomoi e della deriva psicopatologica complessiva della
fenomenologia degenerativa. II «risveglio»
avviene quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole
e adatto al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di cibo
o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di
aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi. Vi è,
dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon, stimolato fisiologicamente
(cibo e vino), si sfrena e respinge via il sonno; ciò comporta il
sincronico «risveglio» dei suoi desideri; ed una condizione negativa: il
logistikon dorme, perciò non può dominare la parte desiderante. E
associato ad esso anche ciò che è «socievole», 8 probabilmente lo
thymoeides. Il proseguo del brano fa luce su tale stato
psicologico: Sai bene che in un simile stato essa osa fare di tutto, come
sciolta e liberata da ogni freno di vergogna e di ragionevolezza» (571c79).
H sonno del logistikon, l'istanza cui va ascritta la phronesis, e
verosimilmente dello thymoeides, al quale possiamo attribuire, quando è sotto
l'egida della ragione, Yaischyne, viene quindi a rappresentare la
mancanza di quell'attività di resistenza che impedisce la manifestazione
dei desideri repressi. Il fattore quantitativo e la struttura dinamica
delle due precondizioni sono perfettamente convergenti: al «risveglio» indotto
dall'eccitazione della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pressione dei
desideri, segue la loro emersione e soddisfazione permessa dall'inattività
delle forze razionali, morali. Date tali condizioni,
tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina) non la imbarazza
affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi, animali, e commettere qualsiasi
assassinio, e non astenersi da alcun cibo. Quadro «edipico», 9
perversione, aggressività omicida. Questo l'inquietante scenario che si
apre dinanzi agli occhi dell'impotente sognatore. Posto che
l'attività onirica rappresenta la «soddisfazione» «immaginaria» o
«visionaria» di desideri repressi, riprendendo la topica dell'acropoli la loro
appari 8 Su hemeron e thymoeides cfr. JAEGER, A New Greek Word in
Plato's 'Republic', in Scripta Minora, Roma. ' Hanno
richiamato al riguardo l'edipo freudiano, tra gli altri, POPPER, La società
aperta e i suoi nemici, Milano; Kahn, Plato's Theory of Desire, Review of
Metaphysics; GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der Staat, Munchen.
zione e sincronico appagamento potrebbero essere interpretati come
se essi vi penetrassero nottetempo, superando la vigilanza di sentinelle
assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione, anche se solo immaginaria, è
difatti lecito raffigurarsela nell'unico sito nel quale essa sembra poter
realizzarsi. Nel sonno l'acropoli si verrebbe così a configurare come sfera
della coscienza, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri impongono
la visione della loro drammatica rappresentazione, diventando coscienti e
trovando soddisfazione senza però attivare le funzioni psico-motorie. La
ricostruzione di quest'immagine, priva di riferimenti diretti, mira
soltanto a rendere in termini spaziali il fatto che, come emerge senza
incertezze dal testo, il sogno rappresenta il momento privilegiato grazie
al quale è possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e
tenuti in schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11
Platone ha così dischiuso e percorso la «via regia per l'inconscio»
tracciata nel Novecento da Sigmund Freud. A monte, la repressione
platonica si lascia intendere alla luce della rimozione {Verdràngung), o
viceversa, anzitutto perché quest'ultima, che è una forma particolare di
repressione {Unterdrùcken), 12 Cfr. anche VEGLEEIS, Platone e il sogno
della notte, GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia E IL SOGNO D’ENEA, Bari.
La più articolata trattazione platonica di ciò che noi indichiamo con le
espressioni «coscienza» e «autocoscienza» è probabilmente quella di
Filebo 33b-42c. Ivi, utilizzando la metafora del pittore, Platone scrive
che un individuo «vede in qualche modo in se stesso le immagini delle cose
dette o opinate, poi che egli «scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo
della Repubblica, limitato alla percezione di immagini prodotte psichicamente,
pare presupporre una concezione della «coscienza» simile. u
Parlano di desideri allo stato di «latenza» Kahn, e LEAR (n. 7), p. 142.
12 «Ci sono nella vita psichica desideri rimossi. Ci sono non è
inteso storicamente, nel senso che simili desideri sono esistiti e poi
sono stati distrutti; per la teoria della rimozione simili desideri rimossi
esistono ancora, ma contemporaneamente esiste un'inibizione che pesa su
di essi. Il linguaggio COMMENTO Al LIBRI Vm E LX, dal carattere «morale»,
13 tesa a contrastare una sfera di desideri «immorali, incestuosi e perversi, o
di voglie omicide, sadiche», 14 anziché condurre ad «una completa distruzione»
15 dei desideri, si limita al loro «allontanamento» (Entfernung)
dalla coscienza. Questi perciò «permangono» (Fortbesteben) al di là
dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola parola, il rimosso è
vogelfrei, 18 ovvero "bandito", "proscritto", "fuorilegge".
La rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio taglio. Su un fronte,
al rimosso viene normalmente impedito di «scaricarsi nell'azione reale»,
gli viene metaforicamente negato l'accesso alla Festung freudiana, la
«fortezza» dalla quale si colpisce nel giusto quando parla
della "repressione" (Unterdrucken) di tali impulsi.
L'organizzazione psichica, che permette a codesti desideri repressi di
realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei
sogni, in Opere complete, 12 voli., trad. it. Torino; DIE TRAUMDEUTUNG, in
Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999, voi. Il/in, p.
241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste
edizioni). Freud, L'Io e l'Es; cfr. anche Lo., Breve compendio di
psicoanalisi, FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni'.
Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,
p. 201 [FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoanalyse,
voi. XV, p. 98: «eine vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo è
certamente a Id., Il tramonto del complesso edipico; cfr. anche S. Freud,
Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 290. 16 S. FREUD,
Metapsicologia, voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37: «la sua essenza consiste
semplicemente nelPespellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza» [Die
Verdràngung]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es, FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p.
39 [Die Verdràngung, FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300
[Hemmung, Symptom undAngst, voi. XIV, p. 185]. FREUD, Al di là del
principio di piacere. LA REPUBBLICA «domina la motilità». 20
Sull'altro però esso «sopravvive al di fuori» della coscienza godendo del
«privilegio della Exterritorialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio
cosciente può «sviluppare derivati e annodare connessioni», «prolifera
per così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rappresenta
la possibilità del suo sempre possibile «ritorno». 23 Da qui la necessità
di una costante attività di «resistenza» alle soglie della coscienza. In
termini spaziali: espulso un ospite indesiderato si deve «poi far sorvegliare
perennemente la porta da un guardiano giacché altrimenti l'individuo
respinto la forzerebbe». 25 Poste queste premesse, Freud,
ricalcando ancora le orme platoniche, 26 individua nel sogno la via regia
per l'inconscio perché in esso i desideri repressi, approfittando del
cedimento della sorveglianza deU'«Io dormiente», 27 e godendo del
casuale 20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni [Die Traumdeutung, voi. II/III, p. 573].
Riprende questa stessa immagine, accostandola ai conflitti della psyche
platonica, M. Stella. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48
[Hemmung, Symptom und Angst,; cfr. anche Id., Il problema dell'analisi condotta
da non medici, Freud, Metapsicologia,
[Die Verdrdngung]. Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S.
Freud, Metapsicologia, voi. VILT Sul dispendio psichico della resistenza
cfr. per es. S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, SINTOMO
(GRICE) e angoscia. Sulla distinzione tra derivati e rimosso originario,
e tra rimozione originaria e postrimozione, cfr. Id., Metapsicologia, Freud,
Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque
conferenze sulla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi, Cfr. in
questo senso anche KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY,
The Anatomy of the Soul – cf. Grice, THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL,
Oxford; FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Vili E
IX, [H] 483 rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono
talvolta a farsi breccia nelle «porte custodite da resistenze» della coscienza.
29 Non dunque nella Festung, la cui «porta che conduce alla motilità» durante
il sonno viene «chiusa» dal «guardiano», 30 il sogno rappresenta infatti la
«soddisfazione allucinatoria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là dei
meccanismi peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la
censura inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche
per Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino
sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno subito
alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui allude Giocasta
nell'Edipo re». 34 Infine, considerato che il concetto di inconscio
in senso stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente
«ricavato» dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è
per FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id., Introduzione
alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), vMetapsicologia; in Id., Analisi
terminabile e interminabile, voi. XI, p. 509, viene ribadito
«l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei processi di rimozione;
sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L 'interpretazione dei
sogni, Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io; cfr. anche Id.,
Autobiografia, Freud, Il interpretazione dei sogni; al limite ci si può
rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto. Cfr. anche S.
FREUD, Introduzione alla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni) Cfr., per es., FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 158. 34 Ibidem. Freud
allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice: «Tu non temere le
nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in sogno con la propria
madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella). noi il modello
dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato dal fatto che i
desideri confinati «non possono divenire coscienti perché una certa forza vi si
oppone», 35 esattamente come accade per i desideri repressi platonici tenuti in
schiavitù, possiamo concludere affermando che, di fronte alle
analogie tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono
essere considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci
in senso stretto (dinamico). Difese pre-oniriche La difesa
approntata dall’ACCADEMIA per prevenire l'emersione onirica dei desideri
repressi o se si vuole «rimossi» è così delineata: ci si deve «accostare al
sonno dopo aver tenuto ben desto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere
assopito Yepithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per
cui non resti né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infiFreud, L'Io e
l'Es, voi. Cfr. nello stesso
senso JAEGER; GOULD, Platonic Love, London; Lear; HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the Impersonai Good,
Cambridge; GlGON; MONTONERI, Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in I
filosofi greci e il piacere,Bari; REALE (si veda), Corpo, anima e
salute, Milano. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr.
DODDS, Plato and the Irrational SOUL – cf. Grice --, Journal of Hellenic
Studies; KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY. Di
diversa opinione FERRARI, 'AKRASIA' – cf. H. P. Grice ‘akrasia, incontentia,
weakness of the will -- as Neurosis in Plato's 'Protagoras', Boston Colloquium
in Ancient Philosophy, rispetto a Repubblica; egli rimanda però alla
messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon, che abbiamo visto
essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfruttamento" e non
all'allontanamento, dalla messa in schiavitù dei desideri paranomoi etc. Ho
cercato di affrontare l'intera questione in SOLINAS, Unterdrùckung, Traum und
Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei Freud, Philosophisches
Jahrbuch. ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le visioni
fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi. Rispetto
all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un carattere
asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'emersione del materiale
represso, il suo risveglio rappresenta però un pericolo. Ciò è
verosimilmente dovuto alla sua costitutiva ambivalenza: privo della guida del
logistikon mostra la sua natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg.,
590b); caratteristica che potrebbe suggerire che esso possa contribuire
alla manifestazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere marcatamente
omicida, e che renderebbe conto del legame tra il logistikon ed un vago «ciò
che è socievole». Quanto all' epithymetikon, il rimarcare la
pericolosità del lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un
richiamo alla concezione del desiderio quale soddisfazione di una
mancanza, sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalorata dal fatto che
l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta comprendere oltre alle
sue «gioie» anche i suoi «dolori» (%aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo
all'incubo che trova un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso
si risveglia dal sonno, come i bambini, in preda al terrore»
(330e6-7). Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni
discorsi e ricerche, emerge un'asimmetria funzionale: il sonno
rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e resistenza, il suo
risveglio non comporta però la capacità di svolgere alcuna attività inibente, è
limitata allo svolgimento di funzioni intellettuali interne: «solo in se stesso
nella sua purezza» potrà «venire in contatto con la verità. 38 Attività
che 37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra
tranquillità e qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna
e sogno. 38 Cfr. nello stesso senso anche VEGLERIS.
Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire
una conoscenza non razionale che la ragione deve «interpretare con
non ha, quindi, niente a che fare con l'emersione dei
desideri repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare alla netta distinzione
tra il lavoro intellettuale preconscio svolto nel sonno dall'Io e
l'emersione onirica del rimosso). 39 Platone non afferma del resto
mai la possibilità di un intervento diretto (notturno) del logistikon teso a
calmare o sedare o compiere una qualsiasi operazione tesa ad arginare
eventuali intemperanze delle altre istanze. Il loro assopimento, come viene
ribadito due volte nel proseguo del passo, deve essere perseguito e raggiunto
prima di abbandonarsi al sonno; soltanto dopo aver assolto questo compito
ci si può finalmente concedere il riposo. La non-emersione dei desideri è, dunque,
garantita univocamente da un intervento consapevole, pre-notturno. Le
possibilità di interrelazioni nei processi onirici paiono perciò
significativamente ridotte rispetto a quelle della veglia, tanto da non
contemplare casi di vero e proprio conflitto. Tutt'al più la parte
razionale può essere turbata dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon,
accenno che sembra indicare che essa si limiti a percepire
passivamente, ad assistere impotente alle sue turbolente
manifestazioni. In conclusione, il quadro dei processi onirici è
così articolato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed
allora «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie
alle il ragionamento dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di
Repubblica sono i sogni quali appaiono in Fedone, Critone, Leg.,
Epinomide, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al
riguardo Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze. Cfr., per es., S. FREUD,
L’io e l'Es: un lavoro intellettuale sottile e difficile, che normalmente
richiede una rigorosa meditazione, può essere effettuato in modo
preconscio senza pervenire alla coscienza. Non vi sono dubbi su casi del
genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e Id., Introduzione
alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni): la funzione preconscia svolta
dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma «non ha nulla a che fare
con il lavoro onirico». leggi», ed esso può attivare le sue funzioni
intellettuali; oppure V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son
desti e il logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi. Essendo
l'esito univocamente determinato da un intervento indiretto e consapevole, tale
concezione non ha niente a che fare con la «difesa» di Freud, incentrata
sulla censura onirica, diretta ed inconscia. In Platone, nel sogno, i desideri
repressi o non compaiono affatto o dilagano senza indossare maschera
alcuna. 5. Strategie di controllo e caratteri universali
Ora, poiché leggiamo che proprio chi «si trovi in una condizione di
sanità e moderazione» deve ottemperare alle suddette misure preventive prima di
concedersi il riposo, sì da evitare la manifestazione delle empie visioni, è
necessario che sia presente, anzi incombente il pericolo della loro
comparsa. La ragione metapsicologica fondamentale della precarietà di
ogni forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche rispetto
ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi dei processi
onirici: Però parlando di queste cose siamo andati troppo lontano.
Ma ciò che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche in quei pochi di
noi che sembrano essere del tutto moderati - è senza dubbio
presente una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale, che si
manifesta chiaramente appunto nel sonno. Il sogno
rappresenta, dunque, lo smascheramento delle apparenze, il riconoscimento che
«in ognuno», anche in coloro che più sembrano moderati, nonostante ciò
possa parere inam 40 Cfr. per es. S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi; sulla metafora politica del sogno come
«conquista» e sulla «resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id.,
Compendio di psicoanalisi, voi. missibile, ebbene anche in loro, anzi in
«noi» - Platone qui sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie
di desideri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno». Poiché il
moderato è sicuramente colui che ha operato la migliore repressione, i
desideri paranomoi in lui debbono essere stati «interamente allontanati, non
sono perciò né pochi né deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione
lascia aperta la via alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso pericolo
affiorava del resto nel brano sull'acropoli, ove Platone scriveva che gli
uomini «cari agli dèi», in altri termini i moderati, predispongono la «guardia»
alle porte dell'acropoli. Ta hautou ethe: nel sogno V epithymetikon
soddisfa «i suoi abituali costumi» o «i propri caratteri» (571c7). In
questa definizione sta la chiave che spiega l'incombenza del pericolo: siamo di
fronte ad una «specie di desideri tremenda, selvaggia e illegale» che
costituisce un elemento strutturale dell' 'epithymetikon. Trattandosi di
un'istanza costitutiva e originaria della psyche, la specie epithymetica ad
essa connaturata non può che essere presente in ogni uomo. E universale.
Con ciò Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desideri
paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b56). Del resto i desideri non
necessari bussano alle porte dell'acropoli fin dalla giovane età, come mostrano
i molteplici richiami ad operare una loro repressione ed educazione «fin
da giovani. Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi
e allontanati «esistano» anche nei moderati non significa che il loro
status sia lo stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-moderati.
Con ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressione i cui fili è
giunto il momento di provare a dipanare. Bipartiamo dal carattere
oligarchico. Egli «rende schiavi» i desideri non necessari, in altri
termini essi «vengono tenuti sotto controllo con la forza» (554cl:
katechomenas bia); spiega ancor meglio Platone: il carattere
oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su di sé tiene a
freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo abitano, non perché
li convinca che non vanno nella direzione migliore, né li ammansisca con
un discorso razionale, ma con il peso della necessità e della paura
(554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei oì> TteiOcov ot>8'
finepcòv A,óy(p). La capacità di convinzione e persuasione {peithó) della
sfera razionale è qui direttamente contrapposta alla forza o violenza (bia) di
una repressione che, sebbene nei suoi intenti sia apprezzabile, lodevole
(epieikei), con le catene della schiavitù non risolve il problema. Siamo
di fronte a due modelli di gestione del desiderio alternativi: l'uno
repressivo, negativo, l'altro persuasivo, positivo. 41 Di contro, è
anche vero che Platone discutendo del carattere democratico scrive:
se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desideri
belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e onorare i
primi, reprimere e mettere in schiavitù i secondi, in tutte queste
occasioni scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e di pari
rispetto (561b8-c4). Poiché qui la messa in schiavitù assume un
valore positivo, sembra emergere una contraddizione. In verità però come
il processo di repressione svolto dall'oligarchico è «apprezzabile» nelle
intenzioni, è comunque meglio di niente per un individuo degenerato, così nel
«discorso vero» che deve esser fatto passare nella psyche del giovane
carattere democratico, che è ancora più avanti nel processo di
degenerazione, tanto da non 41 Anche D. Hellwig (n. 3), soprattutto
pp. 147-54, insiste su «die Alternative bia-peitho», ovvero tra
l'atteggiamento che «mit Gewalt unterdriickt» e quello «durch Peitho», non solo
rispetto al carattere ed alla costituzione oligarchica ma nei confronti
dell'intera fenomenologia degenerativa; la Hellwig inoltre riferisce tale
alternativa, ai paradigmi naturalistici di fondo adottati da Platone.
preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe già
sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrastare perlomeno i
suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'adozione della strategia più
drastica: la loro repressione e messa in schiavitù. Del resto, tale
strategia dovrebbe essere l'unica a disposizione dei degenerati caratteri
oligarchico e democratico (e anche del timocratico), nei quali il logistikon,
l'unico in grado di gestire i conflitti in modo «armonico», è ormai «asservito»
42 all' ' epithymetikon (o allo thymoeides. Stringente il parallelismo
semantico e concettuale che si pone a livello politico nell'oligarchia.
Ivi la degenerazione politica e sociale permette la nascita e proliferazione di
«ladri, tagliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della polis
che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la forza» (ove,
èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou). Il circolo della degenerazione, a
livello sia psichico che politico, si avvita su stesso: conflitto e
disarmonia generano elementi conturbanti, laceranti, patogeni, annidati negli
anfratti di psyche e polis, di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è
quella inefficace e patogena, ancorché lodevole, della repressione
violenta. In questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento,
dello sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di
aumentare le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la
schiavitù dei desideri ha carattere esclusivamente negativo: di
incatenamento, espulsione, allontanamento. 43 Sull'armonia psichica
instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua contrapposizione con
la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R. KRAUT, Plato's Comparison of
Just and Unjust Lives, in Hòffe, Platon. Politela,
Berlin. Diversa la questione che si pone rispetto alla kallipolis, ove
Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difende la
necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le direttive
corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate non
pienamente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema ratio,
nell'uno si fa fronte a differenze antropologiche costitutive, tali per
cui l'auspicata armonia sociale trova agli occhi di Platone dei limiti
invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili delle diverse strategie
di controllo dei desideri non necessari emergono allora quattro modelli
paradigmatici (escludendo la loro soddisfazione): due repressivi, uno
misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono «distrutti»; 2) quello
che li «reprime e mette in schiavitù»; 3) quello in cui il desiderio «represso
ed educato» viene «allontanato»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser
«controllato con la forza», è «convinto» e «ammansito». Ciò considerato,
l'indeterminata «repressione» dei desideri paranomoi che conduce al loro intero
allontanamento od alla loro esplicita permanenza in condizione di
schiavitù non è esattamente una medesima operazione repressiva come l'abbiamo
interpretata inizialmente, ma rimanda a due strategie affini ma distinte. La
prima rientra nel modello che «reprime e mette in schiavitù» ed ha
l'esito univoco di spostare e incatenare il desiderio. La seconda rientra nel
modello per cui il desiderio «represso ed educato viene allontanato». Qui la
compresenza di repressione e educazione, sì che il desiderio «allontanato» non
è né pienamente persuaso né brutalmente incatenato, designa un approccio misto,
e spiega l'unificazione in un'unica categoria di persone, i moderati, di
coloro che hanno interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali
permangono ma sono «pochi e deboli». Modalità nella quale potremmo forse
inserire anche quei desideri «banditi» che Platone abbandonava al proprio
destino: in tutti e tre i casi i desideri vengono repressi, non distrutti, ma
si tratta di una repressione per così dire morbida, tendente perlomeno in parte
alla loro «educazione», sì che essi non permangono, in massa, alle
porte dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente repressiva,
di ce viene criticata una modalità di controllo metapsicologica che
adotta, a priori ed unilateralmente, un approccio brutalmente repressivo,
lacerante. 45 Cfr. rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan:
kolazein te hai doulousthai; anche: douloumenos; kolazomene kaipaideuomene apallattesthai;
anche: apallaxeien; bia katechei oupeitho oud'henieron logo. messa in
schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico dei desideri; è questa
la via che conduce prima al democratico, poi' alla mania del
tiranno. In conclusione, l'eventualità che anche nei moderati emergano
oniricamente i desideri paranomoi si lascia intendere come se, piuttosto che
singoli desideri incatenati che premono ininterrottamente alle porte
dell'acropoli, siano gli ethe originari e costitutivi dell' ' epithymetikon a
riuscire talvolta ad approfittare di una certa eccitazione pre-notturna e del
sonno del logistikon per mostrare le strutture universali, esse stesse «inconsce»,
che generano e sospingono in avanti i singoli desideri paranomoi - come
sarà poi per l'Es, non solo per i singoli desideri rimossi, di Freud -, Al di
là di ogni modalità di controllo adottata e adottabile, siano pure le più
persuasive, il sogno mostra che è impossibile sradicare definitivamente la
«specie» dei desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella
«bestia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa
sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in quei
pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». Jaeger scrive che siamo
di fronte alle «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello
stesso senso Kenny [citato da Grice, VOLITING – “INTENTION AND UNCERTAINTY”];
Vegleris; Janke, AAH0ELTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie.
Anche Freud opera del resto una distinzione tra singolo desiderio rimosso
e strutture «istintuali», innate ed «inconsce» dell'Es, cfr. Freud,
Compendio di psicoanalisi; L’uomo Mosè e la religione monoteistica;
Id., Metapsicologia; sulla differenza tra individuo e specie cfr.
Id., Dalla storia di una nevrosi infantile, voi. 47 Cfr., per es.,
S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, tutti gli uomini hanno questi sogni
perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Alcune aggiunte d'insieme alla
Interpretazione dei sogni, I miei rapporti con Popper-Lynkeus; Gould. Sostengono
apertamente l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli altri,
Guthrie, A History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla
realtà: derive psicopatologiche Se ritorniamo alla degenerazione
caratteriale, è facile ora riconoscere come rispetto alle modalità
intrapsichiche di contenimento del desiderio l'approccio univocamente
repressivo alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva
psicopatologica. La rottura dell'armonia intrapsichica, condizione
necessaria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale assicurata dal
governo del logistikon, ha inizio con il carattere timocratico, che
colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides. Se egli non rappresenta ancora
una figura patologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento
si fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il
carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari dell 1 '
epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e mettere in schiavitù gli
altri desideri. Così facendo egli però non risolve ma acuisce la scissione e la
lacerazione intrapsichica: «un simile uomo non potrà dunque esser libero
da conflitti interiori, e non sarà uno ma in un certo senso doppio. In
negativo: «la vera virtù, quella della psyche concorde a armoniosa, fuggirà via
lontano da lui. La stessa strategia repressiva è adottata dal
giovane figlio democratico. Anche lui, dunque, si impegnerà a
governare con la forza quei piaceri che vi insorgono chiamati non; BlRAL,
L’ACCADEMIA e la conoscenza di sé, Bari. KAHN; Klosko, The "Rule" of Reason
in Plato s Psychology, «History of Philosophy Quarterly;VoiGTLÀNDER; Lear, con linguaggio freudiano scrive che
anche nel migliore dei casi nella psiche vi saranno sempre desideri
paranomoi da rendere inoffensivi o da rimuovere. L'approccio duramente
repressivo mostra in questo caso la sua nefasta presenza nell'interazione
psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la persuasione ma con la
forza. Necessari. Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta» èSovcòv),
In questo modo però, se talvolta alcuni desideri vengono distrutti, talaltra
invece proliferano «inconsciamente», rafforzandosi fino alla conquista
dell'acropoli. Saranno allora «i discorsi cialtroni» di cui si fanno
scudo a «chiudere le porte della regale fortezza» a più miti consigli e
ad «esiliare il pudore. 30 Solitamente, tuttavia, superata la lacerante
fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra parzialmente i suoi
desideri e richiama a sé alcuni degli elementi in passato
sconsideratamente «esiliati. Il passo che porta alla mania tirannica,
nell'arbitrario determinismo degenerativo disegnato da Platone, è però
ormai cortissimo: l'Eros tyrannos, che raccoglie intorno a sé
l'intero sciame dei desideri paranomoi, facendosene «capo» e «guida», e
quelle opinioni che gli fanno da «scorta», si liberano definitivamente «dalla
schiavitù», mentre prima, quando egli «si autogovernava in modo
democratico, esse [le opinioni] si liberavano solo in sogno, nel sonno.
51 Le catene della schiavitù sono state spezzate: Ma sotto la
tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vita da desto quello che
raramente gli capitava di essere in sogno, non si asterrà da alcun
tremendo assassinio né da alcun cibo né azione. L'uomo tirannico è
«colui che da sveglio è proprio come l'avevamo descritto nei suoi sogni. Dal
punto di vista della fenomenologia degenerativa questa figura è dunque
dovuta, a livello psicodinamico, al «ritorno» di un represso che scavalca
le barriere oniriche: si transita dall'appagamento oni- [Cfr. anche Lear. La
comparsa dell'uomo democratico è, in linea di principio, il ritorno del
represso nella generazione successiva»; sull'oligarchico. Se sono le
opinioni che si liberano dalla schiavitù, è però l'Eros con i suoi
desideri a riempire di contenuti sia le manifestazioni oniriche sia le
azioni dissolute del tiranno. rico a quello reale dei
desideri repressi, dall'estemporanea rappresentazione della loro soddisfazione
nel teatro dell'immaginazione alla conquista permanente dell'acropoli. L'Eros
«spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni settore della psyche
abitandovi come un tiranno. I rapporti di forza della psyche-polis
vengono nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e scacciare
fuori di sé i desideri e le opinioni oneste. Tirannia che genera
una profonda lacerazione, un'espropriazione della volontà. Il soggetto è in
balìa dei suoi desideri più selvaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha
perso ormai completamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro
inappagabile ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne
cade preda. Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai
suoi desideri e amori. Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il
processo di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico
ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia dell'Eros si
configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale risultato di un
approccio brutalmente repressivo del materiale epithymetico. La
repressione permette difatti la permanenza e il rafforzamento
«inconscio», accertato grazie all'analisi dei processi onirici, dei
desideri repressi, i quali, una volta rinvigoritisi, riescono a penetrare
nell'acropoli, generando stati psicopatologici di lacerazione, frammentazione,
dispersione ed espropriazione maniacale. Dalla nostra prospettiva
psicodinamica è dunque a tale strategia di controllo che deve essere attribuita
la più grave responsabilità della fenomenologia degenerativa. Sul doppio
livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia, cfr. GlGON,
Die Unseligkeit des Tyrannen in ACCADEMIA Staat, “Museum Helveticum”. all:
navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV. L 'altra via: la
canalizzazione ACCADEMIA, LA REPUBBLICA La strategia antitetica alla
repressione è quella della persuasione e educazione del desiderio. L'architrave
metapsicologico sotto il quale si dispiega tale modalità è rappresentato dall'adozione
di un modello pulsionale "idraulico" che assicura all' epithy
mia, e all'eroi-, una intrinseca malleabilità. Uepithymia, anzi le
epithymiai dal punto di vista dinamico si delineano quale forza fluida,
canalizzabile, come emerge limpidamente nei libri: «Sappiamo che quando le
epithymiai di una persona si concentrano con forza in una sola direzione, esse
ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il resto, come una corrente
lì incanalata. Così, prosegue L’ACCADEMIA, in quella persona in cui esse
(le epithymiai) sono rivolte agli studi e a ogni attività simile, esse
riguarderanno, credo, il piacere della psyche per se stessa e
trascureranno i piaceri del corpo», come accade nel philosophos. Se,
allora, si considera non Yepithymia nella sua fenomenica e contingente singolarità,
si tratti di specifici desideri necessari, non necessari e/o paranomoi,
ma le epithymiai nella loro plurale unitarietà, esse risultano essere una
forza energetico-pulsionale unitaria, canalizzabile verso mete diverse,
anche opposte, secondo un modello economico. Anche da qui l'insistere di
Platone, a monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie
di gestione del materiale epithymetico. Questa è la ragione,
dalla nostra prospettiva psicodinamica, con la quale si spiega perché
l'estensione metapsicologica della tripartizione poteva coniugare
esplicitamente, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri e
governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca, «ha» dei
desideri specifici, ma essi possono essere preservati, rinforzati e
quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia intrapsichica
raggiunta dalla singola istanza anche perché le Resp.:
lóonep pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov. COMMENTO AI LIBRI VHI E
epithymiai sono una risorsa unitaria e limitata. Modello rafforzato,
descrittivamente, da una sorta di estremizzazione erotico-caratteriale
operata da Platone: si tratti del filosofo o meno, chi «ama» veramente
una cosa la «ama in tutta la sua forma, come chi «desidera qualcosa la
desidera in tutta la sua forma. Estremismo che conforta la
tipologia caratteriale del libro Vili. L'integrazione tra queste due
dimensioni, psicodinamica e caratterologica, è, infine, rinsaldata
dall'eros: unità di misura comune à tutti i tipi, dal filosofo,
letteralmente erastes della verità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa
contrapposizione strutturale tra repressione e canalizzazione risulta
così radicalizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante scorre
il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i terribili desideri
paranomoi, che trascina il soggetto verso il mare .aperto deìl'adikia;
sul versante opposto si distende l'intensa ma benefica corrente
epithymetica dell'eros filosofico, la sola forza psichica che in virtù
della sua potenza può supportare la lunga navigazione che permette infine
di approdare nel porto sicuro della dikaiosyne. 38 In
conclusione, posta la permanenza di specie di desideri stabili,
indissolubilmente legate alle tre istanze di riferimento, come quella dei
desideri paranomoi, dalle quali non si può mai svincolarsi del tutto, una
parte cospicua del materiale epithymetico, decisivo rispetto agli equilibri o
squilibri dei rapporti 56 Cfr. in questo senso anche J. ANNAS, An
Introduction to Plato's 'Republic', Oxford -Sulla centralità psicologica, etica
e politica dell'eros e la possibilità di una sua «canalizzazione» o
«sublimazione» nella Repubblica ma anche nel Simposio e nel Fedro cfr. M.
VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino, Rimarca la necessità di non
confinare l'eros nella dimensione subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's
'Republic', Toronto «a psychology that confines eros to the sub-rational parts
of the soul most definitely falls short of the truth. LA REPUBBLICA di forza intrapsichici
complessivi, è intrinsecamente trasformabile, manipolabile. E questa l'energia
pulsionale, in gran parte riconducibile all'universo dell'eros, che non è
solo possibile ma doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete,
anziché tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di
annientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E questo
lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi i due approcci
fondamentali, le due strategie basilari di controllo del desiderio adottate da
Platone: repressione versus canalizzazione, violenza versus persuasione,
schiavizzazione versus educazione. È questo il bivio dal quale si può imboccare
la via che conduce all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e
alla giustizia del filosofo, o invece il cammino psicopatologico
che sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo massimamente
ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una massa di
epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dalle catene di quella
schiavitù che le relegava al di là dei confini della coscienza,
sottraendole ad ogni controllo diretto e permettendo così il rafforzamento fino
al massimo grado, e quindi l'esplosione finale del loro devastante
potenziale. Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato. Keywords:
implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Coco: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del mutuale prevalente – il
contratto di carattere mutuale prevalente – scuola di Crotone – scuola
d’Umbriatico – filosofia crotonese – filosofia calabrese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Umbriatico). Filosofo
crotonese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Umbriatico, Crotone,
Calabria. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with
words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a
work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of
the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’,
short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly
fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco
is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define:
so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate –
in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements
for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it
provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a
Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” -- Dal punto di vista sistematico molto vicino
alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.
Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia
Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma.
Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per
aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché
del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa
prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione,
e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni
di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi et Figli); “La filosofia del
diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano,
Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice
penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle
tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione
giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico
sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla
costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi
Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla
pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele
Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa
cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario
Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina,
legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto
pubblico. La giustizia amministrativa, Roma,
Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una
vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di
giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La
giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento
pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli
Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.
La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città
di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del
Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva.
Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Nominato pretore di
Lagonegro. Pretore di Moliterno, assume in seguito le funzioni di sostituto
procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Presidente di
sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia
del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro
applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del Codice Civile e del
Codice di Procedura Civile.Cura vari aspetti della normativa: contratto,
obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti è quella di
riuscire a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la
candidatura in parlamento offertagli dai suoi conterranei della Calabria.
“Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi
passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno contraddistinto come
uomo, come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di
ricerca e di elaborazione teoretica. Sotto il profilo sistematico si accosta
alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni,
nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma
fondamentale. Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la condanna
dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di frammenti
superficialistici. Lo sguardo al pensiero C. ci consente anche di sottolineare
la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice stigmatizzazione della
responsabilità oggettiva nei confronti del singolo. Prende spunto da queste
aberrazioni per sottolineare come all’accanimento contro la condotta
individuale della persona fisica non corrispondesse eguale severità verso gl’atti
illeciti e dannosi della pubblica amministrazione. Scrive “la responsabilità
della pubblica amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al
tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso
ricordare. Dal padre, persona di cultura, ricevette i primi
rudimenti di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno,
successivamente, in taluni suoi saggi filosofici su AQUINO (si veda). Inizia
la carriera giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di
Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore
del Re a Cassino. Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico
di rapporti oltremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali
Pagliano e Calabria della Corte d’Appello di Napoli,
dove vi permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte
d’Appello. Ottenne la nomina a Procuratore Generale del Re presso la
Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità.
Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente
di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale “Il
Tribunale”, pubblicazione mensile edita a Roma, lo saluta a tale nomina.
È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla
quale non disdegna di appartenere, nonostante l’altissimo grado
che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con
quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto
nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lontani della sua felice
unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio
del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale
della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha
ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla funzione
giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni
aggettivazione che non sarebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro
Amico e collaboratore; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le
benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nella
Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per noi
particolarmente caro, di Redattore Capo della Rivista di
Diritto Pubblico. La recente nomina, se indubbiamente costituisce
un nuovo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato, rappresenta però
un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma
l’accoglierà di buon grado, assolvendo anche dal nuovo seggio
presidenziale le delicate funzioni giudiziarie, alle quali porta il valido
contributo della sua competenza, ma soprattutto una grande serenità ed equanimità.
Riguardo ai meriti illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che
il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da solidissima
dottrina e da rigorosissimo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione
costante all’evoluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale
attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura,
ossia dell’organo politico e politico-amministrativo, anche se in base alla
legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva
ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successiva normativa
di attuazione gli diedero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario
civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu
tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni,
perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denominazione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasformata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare
dell’insegnamento di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività
accademica per quel periodo che vide la Scuola annoverare i più bei nomi della
dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base
della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua
eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote
dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore
Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente
riferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali
unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va
dal primo dopoguerra all’ avvento del fascismo, costituisce una
parentesi temporale di efficace e prorompente elaborazione delle basi di
quel diritto del lavoro e sindacale, o “giuslavorismo”, costituendo davvero
una novità assoluta nelle scienze giuridiche del tempo. Così, quando si
verificheranno gravissime crisi socio0economiche che metteranno a rischio
l’assetto della produzione, la politica e i sindacati troveranno i loro punti
d’incontro nel noto Statuto del Lavoratori, una ri-edizione aggiornata
delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi
“giuslavoristi”, tra i quali appunto C. Altro aspetto qualificante del
giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori
preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore anche del
Codice di Procedura Civile, emanato anch’esso, furono chiamate le più
belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa
(il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza
della promulgazione, il Ministro Grandi gli inviò una lettera personale di
ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il codice. Sua vita
coincide con l’immane conflitto mondiale, con la guerra
civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga
del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad
assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e
fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha,
nonostante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista,
sulla base di taluni articoli che aveva scritto su “Il Messaggero” di Perrone,
di commento a leggi e questioni giuridiche di alto livello, ovviamente di
epoca fascista, l’occhiuta Commissione di epurazione, su decine di articoli
scritti in una pluridecennale collaborazione, ne scova qualcuno che suona come
apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la
dirittura morale del magistrato integerrimo, del quale va appena ricordato,
ammesso ve ne fosse bisogno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece
pervenire sollecitazioni per una causa che la interessava. Ebbene, Coco procedette
secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce!
L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni
non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto
che per meriti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente
della Suprema Corte, ne mina rapidamente le condizioni di salute. Negli ultimi
mesi non volle proporre ricorso contro i provvedimenti che lo avevano colpito
e rifiuta cortesemente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che
i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e riconoscenza.
Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristianamente
quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del
Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa
cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli:
societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per
la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita
prevalente. Del Lavoro. Le Società
di Mutuo Soccorso in Italia. Il prof. Gobbi, nel suo pregevole
libro: « Le Società di Mutuo Soccorso » dice che « il nome di Società di
Mutuo soccorso è comunemente assunto da associazioni, le quali hanno per loro
scopo principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre
eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro attività
economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei soci
stessi ». Considerato così il carattere economico-sociale dei
sodalizi muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime
traccie di essi si riscontrino nelle antiche Corporazioni di arti e
mestieri, nelle maestranze, nei Collegi, nelle Università. Queste
associazioni si proponevano scopi di difesa professionale, di
perfezionamento nelle arti esercitate dagli associati ; qualche volta, in
via secondaria, l’esercizio di pratiche religiose; e spesso assumevano
importanza politica di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come
nelle arti della repubblica Fiorentina. Abbiamo però nel nostro
paese esempi di società mutualiste scaturite dal vecchio tronco della
corporazione o del Collegio, o meglio che'di questo possono reputarsi
trasformazione. Così e non altrimenti noi possiamo considerare la Società
fra i falegnami e fabbri di Faenza che fa rimontare la sua origine al
1410; l’altra pure di Faenza fra calzolai ed arti affini che si dice
sorta nel 1474; la Società Veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale del 1454 ;
la Società Calafati del porto di Genova del 1456; la Società dei
Cappellai di Padova del 1530; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi
d’arte di Roma del 1509. Nè diverso giudizio possiamo recare sui
sodalizi che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del decimottavo.
E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena (1610); le due Società
Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra falegnami ed arti affini di
Torino (1636); la Società fra carrozzai, sellai, fabbricanti di Torino (1653);
la Società fra calzolai padroni di Asti (1681); la Società Archimede fra
operai fabbri, meccanici ed affini e fra fabbri ferrai e serraglieri
(proprietari di officina) (1700); la Confraternita Sovvegno fra israeliti
di Padova; le Società Riunite Sovvegni spagnuoli e tedeschi di Venezia;
il Pio Istituto lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino
(1736); la Società Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel
1738, la Unione Pio-Tipografica Italiana di Torino può dirsi la prima che
abbia assunto dalle sue origini e poi meglio perfezionati con successivi
adattamenti, i caratteri del mutuo soccorso. Essa fu approvata con Regie
patenti e poi nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre
1770. E ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo
decimottavo e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica
di Torino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano particolar
menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino del i/54 e la
Società dei Servitori di Faenza T . 1 -^
a s ? c °nda metà del secolo decimottavo sorsero quindi in rippnr, • P
rim ? Società di mutuo soccorso, secondo il concetto moDaese affe[>m are che
di buon'ora si manifestò nel nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev
idenza sociale. Ed è cosa singoconcettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la
evoluzione logica del Sassari dalIe, f orme più semplici di essa
dovrebbe videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della
pre previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi
della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio
auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,
litaria, la quale si esu M, Jl ns P arm io, che è virtù so adatto a
raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova l’organo domestiche,
ed in questa anche nel segreto delle pareti quanto
l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico che l’atto primo
deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare contributo che versa il
socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il fini della mutualità,
rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta alle spese
vofottSie sp t np dei SU01 guadagni risparoccorre per i bisogni della vita 6 6
n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S a m m uta 4,I?5', ’ ec
?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoroprimo dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0
al 1851 società di mutuo soccorso (1). di dii Gl0va
rammentarle dl Bergamo : nel 1810. Pr« ’camnen*»! !’ ls p.
tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni SU Ì“ t ^ municipale Simoiie
Mayr ano. la Pia Unione tessitori in seta areento l a Società di
M. S. fra cap’ aigento e oro di Tonno; nel 1884, la Società Assieme a’gli
altri benefici di ordine politico e 'sociale che la unificazione del
Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche il rapido incremento nelle
Società di mutuo soccorso. Durante il periodo della prima metà del secolo
decimonono solo 48 Società nuove videro la luce, come abbiamo veduto. Al
31 dicembre 1885, cioè dopo 35 anni soltanto, la statistica a quella data
denunzia la esistenza di 4896 Sodalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni,
ne troviamo 6722, con un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di
qual forza siano quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente
statistica, pubblicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della
Previdenza. Le Società di mutuo soccorso italiane, nella loro generalità,
sono associazioni che esercitano in modo prevalente funzioni di
carattere assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo spesso
a queste altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze
economiche e intellettuali e morali dei soci. Fra le funzioni
di carattere assicurativo ha prevalenza in tutte l’assicurazione di un
sussidio in caso di malattia. Spesso vi si aggiungono le spese funerarie in
caso di morte ed un sussidio una volta tanto ai superstiti. I sussidi di
malattia sono commisurati ai contributi, spesso con calcoli empirici,
qualche volta alla stregua di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi
tutte le Societàc he concedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto
al sussidio fissano un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente
chiamasi periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il
sussidio subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1);
tutte le altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi,
e ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24
mesi. Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a
12 mesi: il 76 per 100 del totale. Non tutte le Società concedono
il sussidio dal primo giorno della malattia, sono anzi pocchissime quelle
che lo concedono; le altre fissano un periodo, che chiamono periodo di carenza,
nel quale i soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di carenza è
di ordinario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche Società va
oltre i dieci giorni. orefici ed arti aifiai di Bologna, la
Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel' 1835, la
Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel 1836, la
Società •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M. S. fra
brentatori di Vercelli, la Società di M. S. fra lavoranti guantai,
tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società operaia di
M. S. fra conciatori di Torino; nel 1812, la Società di M. S. fra parrucchieri
di "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e
profumieri di Bologna; nei 1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e
chirurgi della città e provincia di Bologna, la Società fra medici e chirurgi
di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti, medici e
veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo, la Società di
M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei
medici-chirurgi della città e provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S.
fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua provincia, la Società mutua
beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra
calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova; nel 18 - 1 S,
l’Unione operaia patriottica fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S.
S. Bonifacio di Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di Pinerolo,
l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione italiana fra lavoranti
del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i
pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli
patentati di Roma Questi dati e i seguenti concernono le Società
riconosciute soltanto, per la quale la statistica ha potuto registrare
notizie più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che concernono 1548
Società soltanto. Nè il sussidio è concesso per tutta la durata della
malattia.Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo termine; ma
nelle altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno,
e il numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120
giorni La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2
per 1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in molte
altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti giorni sia
diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl infortuni del lavoro
tutela oggi in Italia una larga massa di operai, ma non H tutela
tutti: l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie ohe non
applicano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell assicurazione
obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione dei nostri
sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto integratore pei
casi di infortunio. Per quanto concerne la invalidità temporanea il
numero maggiore delle Società (823 su 965) considerano questa agli effetti-del
sussidio come una malattia ordinaria; le altre danno il sussidio in
misura diversa. Piu scarso è il numero delle Società che danno sussidio
in caso d’invahdita permanente (542), e il sussidio per alcune è determinato
sia in un assegno una volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre,
e sono il numero maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè,
secondo la entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor
numero sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di
infortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in misura
determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi o di
pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata.
Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno
valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussidiati, ai
soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli oneri
finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor Per ogni
Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno, per 52 6 casi di
malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una spesa media di
1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia, sussidiati e sono
sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussidiate giornate 18.7; e
per ogni socio esistente sono sussidiate giornate 5.52. Questa media può
rappresentare l’indice di morbosità nei soci delia Società di mutuo
soccorso ed ha grande valore per il migliore ordinamento tecnico di questi
sodalizi, per una più razionale corrispondenza fra i mezzi di cui dispongono e
gli impegni che assumono con la promessa statutaria. La spesa media pei
sussidi di malattia, annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio
esistente. Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i
sussidi per spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono
direttamente alle spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia alle
spese stesse. Non sono infrequenti poi i casi di Società che danno
sussidi alle famiglie dei soci morti sia una volta tanto sia in forma
continuativa. Sono relativamente poche le Società che concedono sussidi
di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100). Nè sono molte le Società che
provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5 per 5 100). Questi
dati si riferiscono a tutte Società delle quali si occupa la statistica
recente. Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società
muiualiste è di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar
vita ad istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa
geniale filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mutualista fu
rilevata ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno studio che, per
conto del Musee Sociale di Parigi venne a fare in Italia delle nostre
Istituzione di previdenza assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri
(1). La statistica recente ne dà una conferma luminosa. Nel quadro
seguente è indicato il numero delle Società di Mutuo Soccorso che
esercitano funzioni cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai soci Magazzini di
consumo Cooperative di lavoro Cooperative di
credito Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia
233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182 23 1 Toscana.
92 58 1 Marche 128 24 1 Umbria. 72 18
Lazio 63 2 . Abruzzi. 82 5
Campania. 150 10 Puglie 1 • 57 7 1 Basilicata.
27 Calabria 47 14 Sicilia. 95 17 Sardegna
15 Regno . .1597 552
5 2 Nella maggior parte dei casi non si tratta di istituzioni
autonome fondate secondo le norme del codice di commercio, ma di i-ami
di attività della stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi
di questa. Le Casse di prestiti sono principalmente dirette al fine
di produrre un maggiore rendimento coi fondi sociali, e quindi si comprende
come esse siano in numero maggiore (il 24.9 per 100). I magazzini di consumo,
che sul totale rappresentano 8 6 per 100 delle Società esistenti,
primeggiano nel Piemonte, dove il 21.3 per 100 delle Società hanno
annesso il magazzino di consumo, e merita particolare mensione quello della
Società Generale operaia di .Torino, reso ancora più forte dalla alleanza
con la Cooperativa di consumo dei ferrovieri. La Prévoyance Sociale
en Italie - Paris, Armand Colin et C.« Editeurs Fra gli scopi accessori delle
nostre Società mutualiste meritano poi particolare mensione quelli
diretti alla istruzione dei soci; le Società vi contribuiscono mediante
biblioteche, scuole serali o festive, scuole di disegno o industriali, ó
pure mediante I’ assegnazione di premi, la provvista dei libri e così
via. Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci
disoccupati^ ed alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di
collocamento; il conferimento di doti alle figlie dei soci; la
costruzione di abitazioni operaie; la concessione dei sussidi alle
famiglie dei soci richiamati sotto le armi. Nei riguardi
della costruzione delle case operaie la legge del 1903 sulle case
popolari contempla in modo particolare le Società di mutuo soccorso,
dando ad esse facoltà di impiegare una parte dei loro fondi in
costruzione di case pei propri soci. La legge vuole soltanto che le
Società, le quali questa impresa intendono assumere, costituiscano una
sezione speciale. E già sotto l’impegno di quella legge parecchie Società
hanno chiesto ed ottenuto 1’ autorizzazione di intraprendere la
costruzione di case Operaie. Un nuovissimo ufficio assunto delle
nostre Società di mutuo soccorso è quello di promuovere la iscrizione,
collettiva o individuale, dei soci alla Cassa Nazionale di providenza per
la invalidità e la vecchiaia degli operai. Contiamo nel
nostro paese Società le quali assicurano pensioni di vecchiaia
tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le due Società, maschile
e femminile, di Cremona. E sonovi Società le quali non pensioni ma
sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai loro soci in misura e
qualità corrispondenti ai fondi disponibili. E siccome le Società
che corrispondono pensioni o sussidi' di vecchiaia ai soci hanno per tale
servizio costituito un fondo speciale alimentato da speciali contributi o
da avanzi di bilancio, la legge institutrice della Cassa Nazionale di
previdenza consente’ a queste Società di versare alla Cassa i fondi così
raccolti e le future contribuzioni, inscrivendo ad essa collettivamente i soci
aventi diritto a pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i più
anziani, qualche maggior favore. Quel precetto della legge è provvido,
contiene un germe che dovrebbe essere sviluppato, fecondato da nuove e
più larghe concessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire organi
intermedi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio di
quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio.
Alcuni credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza
per aumentare gli elementi che fanno fiorire e cementano la solidarietà
mutualista, sia opportuno conservare alle Società di mutuosoccorso il servizio
di pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed altri persuasi che quei
sodalizi non possono coi soli contributi dei b^ C n t rni°HAi I ìr e i+
PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari vorrebbero che una parte
delle risorse assicurate - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse
affluissero a quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene
ordinato servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato Io non posso,
senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate già in pubbliche
conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non occorrono lunghe
considerazioni per dimostrare condannevole la prima. In un paese in cui è
sorto un Istituto, il quale, con mezzi forniti dallo Stato, può
assicurare pensioni di vecchiaia in misura superiore a quella cui possono
provvedere istituzioni o sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai
lavoratori consigliandoli a preferire la cassa pensioni della Società
mutualista cui appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei
soci di un gruppo operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della
fratellanza e della solidarietà. La Società, organo intermedio fra il socio e
la Cassa Nazionale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li
afforza, procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i
fenomeni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che colmano le
lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un momento
turbato. La seconda tesi è pericolosa per le conseguenze cui
condurrebbe: il fatale spezzamento delle forze le quali per dare il
maggiore effetto utile devono convergere in un unico grande e solido
organismo, nel quale soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la
legge così proficua dei grandi numeri. In un sistema
d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella obbligatoria, devono
nécessariamente concorrere i tre elementi: lo Stato, il padrone,
l’operaio, non si può ammettere che, accanto all’Istituto nazionale, il quale
può funzionare e divenire centro potente di attrazione soltanto per la
larghezza dei mezzi che gli si procurano, vivano Istituti privati e diano
gli stessi buoni risultati anche procurando ad essi aiuti speciali e peggio
ancora se questi vengono sottratti all’Istituto Nazionale,
L’esperimento dell’assicurazione libera non può farsi che all’ombra
di un grande Istituto verso il quale convergano le cure assidue dello
Stato, la simpatia delle classi dirigenti, la fiducia dei lavoratori.
La legge operò quindi saviamente quando volle associare alla grande
opera dell’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia degli operai le
forze, le iniziative dei sodalizi mutualisti ; ed il legislatore farà ancora
meglio se aumenterà gli stimoli, con un ben congegnato sistema di premi,
per la iscrizione dei soci della Società di mutuo soccorso.
Intanto sono salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del
grande Istituto adopera presso le nostre Società mutualiste, fu provvido il
pensiero del Ministero di agricoltura, industria e commercio, il quale,
con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a premi in danaro ed in
medaglie d’oro e di argento da conferire a quelle Società di mutuo
soccorso che al 30 giugno del corrente anno dimostreranno di avere contribuito
efficacemente alla iscrizione dei propri soci alla Cassa Nazionale di
previdenza. Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i
primi frutti. Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o
procurato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie
precise di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73
Società hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano
particolare mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto
Fiorentino che ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m.
s. per le operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia
di m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la Società di m. s. di Molfetta.
(Bari) che ne ha inscritto 512. 3.° La legislazione e la
giurisprudenza. Le Società di mutuo soccorso sono regolate in
Italia dalla legge 15 aprile 1886. Questa contempla però soltanto le
Società Operaie. Il legislatore temè che con le forme assai semplici per
il riconoscimento giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della
potestà politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione mutualistica.
le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le Società
composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere il
riconoscimento giuridico con il procedimento escogitato. La formula rigida
della legge è stata però largamente temperata dalla giurisprudenza; la quale ha
ammesso che possa considerarsi operaia una Società costituita in gran
parte da operai. E così si è potuto ammettere anche nelle Società operaie
l’intervento di soci benemeriti, di soci fondatori, che con largo
concorso pecuniario esercitano il benefico ufficio del patronato.
Le Società di mutuo soccorso non composte di operai possono
ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice
civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono
tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la
giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di mutuo soccorso i caratteri
dell’ ente morale. E quindi non ammette che in caso di scioglimento, il
patrimonio sociale possa essere distribuito fra i soci superstiti,jjma
debba essere devoluto a scopi afllni o in opere di beneficenza, e vuole
che le Società di mutuo soccorso nello acquisto di immobili,
nell’accettazione di doni o di legati siano autorizzate con decreto Reale, ai
termini della legge del 1850 che contempla appunto enti morali. a uà,
^aucenena aei j naie Civile, depositando copia autentica dell’atto
costitutivo e statuto. statuto. Le condizioni che la legge
vuole adempiute sono soltanto le seguenti : 1. Le Società devono
proporsi tutti o alcuni dei fini seguenti: assicurar ai soci un
sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavorò o di vecchiaia ;
venir in aiuto alle famiglie dei soci defunti. Possono
inoltre; cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie
; dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro
mestiere ; esercitare altri uffici propri delle istituzioni di
previdenza economica. 2. Gli statuti delle Società devono
determinare espressamente; la sede dèlia Società; i Ani
pei quali è costituita ; le condizioni, la modalità d’ammissione e
di eliminazione dei soci; i doveri che i soci contraggono e i
diritti che ne acquistano ; le norme e le cautele per l’impiego e
la conservazione del patrimonio sociale ; la disciplina alla
cui osservanza è condizionata la validità delle assemblee generali, delle
elezioni e delle deliberazioni; la costituzione della
rappresentanza della Società in giudizio e fuori; le
particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo scioglimento,
la proroga della Società e le modificazioni degli sta-, tuti, sempre che
le medesime non. siano contrarie alle disposizioni della legge. La
concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo soccorso è
quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto all’ esame
estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate. Non si
chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni, di legge
presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la dimostrazione
tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi, non si impone
l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di investimenti. Deve
però avvertirsi che la legge parla di sussidi e dalla discussione
parlamentare risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni,
implicando un regolare servizio di pensioni necessariamente la
dimostrazione di un ordinamento tecnico adatto allo scopo. Nè si può dire che
la facoltà di corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula
della legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni di
previdenza economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale
importanza che non può essere esercitata senza un ordinamento tecnico
preciso, che implica impegni a lunga scadenza e non si può in modo
assoluto ammettere, tenuto conto anche della discussione parlamentare,
che il legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una
. così importante funzione. B la giurisprudenza ha confermato
il pensiero del legislatore ammettendo che occorra una speciale
concessione governativa per' esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di
invalidità; concessione subordinata alla dimostrazione di un
ordinamento tecnico che dia sicurezza per il mantenimento degli impegni
assunti (1). Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per
a concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a
“® Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di
più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può
sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne
meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento
giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si
consideri che si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore
coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale
discriminazione negli scopi, qualche maggiore dettaglio negli Statuti. E nello
stabilire quelle nome il Consiglio della Previdenza si è anche proposto
l’obbiettivo d additarle ad esempio alle Società operaie. La legge chiede
il minimo, e non può quinci escludere che si faccia di più e
meglio. I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di
mutuo soccorso riconosciute sono i seguenti: esenzione dalle
tasse di bollo e registro, conferita alla Società cooperative dell’articolo 228
del codice di commercio; esenzione dalla tassa sulle assicurazioni e dall'
imposta di ricchezza mobile, come all’ articolo 8 della legge 24 agosto
1877, numero 4021; parificazione alle Opere pie per il gratuito
patrocinio, per la esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla
misura dell’imposta di successione o di trasmissione per atti ira soci ;
esenzione da sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti dalle
Società ai soci. Gli obblighi delle Società registrate, come anche
di quelle riconosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del
proprio Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e
nelle comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i
quali sono compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti gratuitamente.
Il Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà buoni consigli per
la migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in guardia il
sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto impiego
dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero esercita nelle
Società registrate, nè esercita ufficio di vigilanza sovra di esse, non potendo
sottoporle ad ispezioni, scioglierne le amministrazioni, nominare Commissari
Regi. Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di
ordine fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti
o inni Il Consiglio di Previdenza non espresse divei del 1897, cosi
concepita « Le Società di mutuo so< lità giuridica ai termini
della legge del 15 aprile - -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie
jn^misuraJìssa e prestabi i una nota al modello di statuto
spirano ad ottenere la personas possono proporsi di assi diretti dello
Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusivamente, o quasi, eccettuate
le non frequenti obblazioni dei benefattori, attingendo le proprie forze alle
contribuzioni dei soci. E ciò, a mio giudizio, costituisce il loro
miglior vanto. Occorre però tener conto degli aiuti di carattere
non continuativo e straordinario che vengono ad esse nei concorsi a premio
e da sussidi speciali conferiti dal Ministero di agricoltura, industria
e commercio. Nel campo dei concorsi a premio meritano
particolare mensione quelli che una volta con alquanta frequenza indiceva
la Cassa di Risparmio di Milano fra le Società di mutuo soccorso meglio
ordinate. Nel 1882 fu bandito un concorso a premio, di lire 3000
(1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero) per il miglior
ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu indetto
un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di cinquecento e con
medaglie di argento o di bronzo a quelle Società operaie di M. S. che avessero
meglio provveduto ad organizzare e garantire un servizio di rendite Vitalizie
ai soci nei casi di inabilità al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente
con apposito fondo sociale, sia mediante l’inscrizione dei soci alla
Cassa Nazionale di previdenza. Ho rammentato più sopra il concorso
a premi del 1905. Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle
Società di mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di
benemerenza. Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del
1882, il Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di
prima Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi
a quelle Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordinamento e
di più lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche con le
scuole e con le biblioteche alla istruzione degli operai. E
frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza ai sodalizi
operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di buon ordinamento e
di costante devozione ai principii della mutualità. Nè sono infrequenti i
sussidi in denaro, non molto larghi data la parità dal fondo all’uopo
stanziato, che il Ministero dà alle Società operaie che più si addimostrano
bisognose di aiuti. A. Lo stato attuale. La recente
statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate dell’ Ispettorato
generale del credito della previdenza, registra la esistenza in Italia al
31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali riconosciute
1548 non riconosciute 4987 Abbiamo veduto più innanzi che la
statistica del 1892 denunziava al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza
di 6722 Società di mutuo soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di
riscontrare un incremento, come erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894,
si constata uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2
- 8 per cento. La diminuzione più notevole si osserva nell’Italia
meridionale e nell’insulare ed in parte della centrale; si giunge sino al
48. 1 per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’
Italia settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che
riuscì notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col
.15.0 per cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle
Società di mutuo soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo
decimonono, andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e
riportammo, a dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del
1894. La dimostrazione riesce più evidente classificando il numero delle
Società per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le
medie seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904: Società
fondate prima del 18*0 % . 1.0 dal
1850 al 1859 2.7 dal 1860 al 1869 10
. 3 dal 1870 al 1879 19 . 2 dal 1880 al 1884 18 . 9 » »
dal 1885 al 1889 14 . 5 dal 1890 al 1894 12 . 6 dal 1896 al 1899 8.7
dal 1900 al 1904 12 . 1 Il decennio più fecondo è stato quello dal
1880 al 1889, con una inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con
21.3; e terzo il decennio 1870-79 con 19 2. Ma l'incremento più rapido si
determina appunto dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai
vari compartimenti è da notare che, mentre nell’Italia settentrionale e
centrale è piccolo il numero delle Società instituite negli ultimi anni,
questo numero è notevole nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome
in queste regioni si riscontra pure la maggior diminuzione delle Società
nel periodo 18951904, si deve concludere che in esse le Società hanno vita più
breve. Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti: Su
100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle sciolte nel
decennio: Piemonte Liguria Lombardia Veneto Emilia.
Toscana Marche Umbria Abruzzi
Campania Puglie. Basilicata
Calabria Sicilia . Sardegna
Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo danno le
Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la Sardegna.
° Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904
sono composte di soli uomini . di sole donne di uomini e donne
se ne ignora la composizione . 5,078 252
1,017 189 Le Società esistenti al 31 dicembre
1904, abbiamo veduto, sono 1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute
con decreto Reale e 1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della
legge 15 aprile 1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano
1156; vi fu quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6
per %• L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società
esistenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri che
la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli e
formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello
esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non le
asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento
incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla
massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto in pregiudizi non
ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori, nella imperfetta
conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica reca,
indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla legge.
Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che esulano dal
campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze trovano
più conveniente esplicazione in altre forme di organizzazioni, che in ben
ordinato reggimento politico hanno diritto di cittadinanza per la legittima
difesa di interessi professionali e per la protezione del lavoro.
Il,numero dei soci aggregati alle Società di mutuo soccorso, secondo le
statistiche alle tre date, risulta nelle cifre seguenti: nel 1885
730,475 nel 1894 - 933,685 nel 1904 926,026 Siccome
però non tutte le Società diedero sulle tre indagini le indicazioni del
numero dei soci, assumendo, per la integrazione, il criterio della media
dei soci per ciascuna Società, si avrebbero le cifre seguenti :
nel 1885 — 760,085 nel 1894 — 956,328 nel 1904 —
953,455 La media dei soci per ogni Società nel 1885 risulta di
153.2, nel 1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 . 9. Il numero
dei soci è aumentato in tutti i compartimenti dell’Italia settentrionale,
escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emilia, nella Toscana, nell'Umbria
e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti gli altri compartimenti. Nel
periodo 1895-1904 il numero medio dei soci è aumentato in Liguria,
Emilia, Campania, Sicilia e Sardegna, si è mantenuto eguale in Lombardia
ed è diminuito negli altri compartimenti. Sopra 100 Società
esistenti al 31 dicembre 1904, la diversa composizione numerica di esse è
indicata dalle cifre seguenti: Sino a 99 soci . — 53 . 6 Con
soci da » » da » » da » » da »
» da » » da b b da 1000 a 1500 — 0 . 5 b b
oltre . 1500 0.3 100 a 199
— 27 . 6 200 a 299 27 . 3 300 a 399 4.5 400 a 499 2.3 500 a 699 1.2 700 a 899 0.8 In complesso, in tutti i
compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se ne ha il 43 . 2 per 100 e la
Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per 100, più della metà delle Società
conta meno di 100 soci; ed in generale un quarto circa delle Società conta un
numero di soci da 100 a 200. La statistica del 1904
discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei 926,026, soci, 849,418 sono
uomini, 76,608 sono donne. Sul movimento economico dqlle Società
di mutuo soccorso si possono fare raffronti con la statistica del 1885; quella
del 1895 non contiene alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati
riferentisi alle due date: Entrata. Spese .
Patrimonio L. 7. L. 14,632.425 .404.205 »
11.790.028 1.200.840 » 72.395.544 Il patrimonio medio per
ciascuna Società, che nel 1885 era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L.
12.-017,85. Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due
tempi non diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come
criterio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti: Con
lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle entrate ed
alle spese. Secondo tali risultati,!che non si possono discostare
molto dalla ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L.
4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218
sul patrimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100. t 9 o^? trata
media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di L. 2,342,43, con un
mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi e con un massimo di L.
3833,27 per le Società della provincia di Roma. La media delle entrate
per ciascun socio è di L. 16 con un Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la
Calabria e un massimo di L. 18,92 per la „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ
- nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre: “SJ on ? dl ®
oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, donazioni ed altro
(patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di entrate nel 1904,1
tre elementi davano le cifre seguenti: Contribuzioni di soci
effettivi .... 68 80 Contributi di soci non effettivi, donazioni,
ecc 7 28 Altre entrate . . y . . . 29 * 47 Il cfflpite inabor
6 di entrata è dovuto, come abbiamo già notato, alle contribuzioni dei soci
effettivi. E la proporzione diventa maggiore quando si consideri che le
altre entrate slno in malsima dei fondi impiegati, i quali alla
loro volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate
1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo Liguria
58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in Si hanno notizie
più particolareggiate sulle entrate delle Società riconosciute ; ma
queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono al 1903. Le
percentuali di queste entrate sono le seguenti: Redditi
patrimoniali Contribuzioni di soci Introiti lordi Redditi
straordinari Rendita di beni immobili ... 1. 69 ( Interessi
attivi.17. 13 (effettivi.38.60 ^ non effettivi.0. 99
l di Magazzini di consumo 27. 58 1 di aziende
sociali.6.85 .7.16 Anche per queste Società, nella media
generale del Regno, il maggiore delle entrate deriva dalle contribuzioni
dei soci effettivi, esclusi però il Piemonte, la Toscana e la Calabria
ove proviene dagli introiti dei magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la
maggior parte delle entrate sono dovute alla assunzione da parte di due
Società di Palermo, quella fra la gente di mare e T altra dei capitani
marittimi, di appalti di carico e scarico di merci. In Lombardia le
contribuzioni dei soci effettivi eguagliano quasi i redditi patrimoniali; ivi
infatti sono le Società più antiche e con patrimonio più rilevante.
Le contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109
nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle Società di
questa regione è minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media
per ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84 e per socio di lire
13. Nelle medie per Società della spesa si va da un minimo di lire 679,30
per le Soc età degli Abruzzi ad un massimo di lire 2925.51 per quelle
della provincia di Roma; il minimo ed il massimo delle spese si
riscontrano quindi nelle stesse regioni nelle quali si hanno il minimo ed
il massimo delle entrate. La spesa per ciascun socio oscilla fra un
minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un massimo di lire 16,51 in
Liguria. Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una
minuta discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due
grandi divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904,
rispettivamente ad ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le
cifre seguenti: spese per sussidi.51.4 altre
spese.29.7 Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto
in Liguria: nelle altre regioni le spese furono inferiori alle entrate.
Nelle Società della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la proporzione
delle altre spese alle entrate è superiore a quella delle spese per
sussidi ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso
ordinamento amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore delle
spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie. Come
per le entrate così per le spese si hanno più minuti ragguagli nelle spese
delle Società riconosciute, erogate durante l’anno 1903. Nelle cifre
seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa Spese di malattia j
f^^se '. ! : Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro Sussidi di
vecchiaia. Soci defunti Altri sussidi l
Onoranze funebri. . ^ Sussidi alle famiglie
19,45 3.01 4,40 10 87 0.75 2.62
1.34 03 ( Magazzini di consumo . < Altre aziende sociali . ’S g ( Altre
spese. Spese di amministrazione Spese straordinarie. .
. Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per cento del
totale delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in Sicilia
ad un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le
regioni, esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese
per sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento nell’Umbria.
In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi di vecchiaia. Le spese pei
magazzini di consumo sono rilevanti nel Piemonte (56.02 per cento), nella
Toscana (43.51 per cento), in Calabria (39.97 per cento). Le spese di
amministrazione variano dall’ 8.02 per cento in Piemonte, al 33.47 in
Basilicata. . 28.78 . 7.05 . 2.6S .
13.14 . 5.91 La sostanza patrimoniale delle Società al 31
dicembre 1902 che come abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata
per Società e per soci e distinta fra Società registrate e Società non
registrate, dà le cifre seguenti: patrimonio medio.
per ciascuna Società Società riconosciuta 24.267,00
Società non riconosciuta 7.887,67 Riconosciute e non
riconosciute 12.017,85 per ciascun Sòcio 123.32
60,16 82,50 È più alta la media nelle Società
riconosciute; e ciò non dimostra che il riconoscimento giuridico sia stato per
quei Sodalizi elemento di singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti
meglio dotati e quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi
della personalità giuridica. Dalla media generale del
patrimonio per Società si discostano, nel massimo la Lombardia con lire
20.655,70, nel minimo la Calabria con lire 4 391,09; gli stessi scarti si
riscontrano nella media del patrimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15
in Calabria. Si hanno i dati della composizione del patrimonio
soltanto per le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre
1903. A quella data il patrimonio delle Società riconosciute ammontava a
lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni stabili L. 3.580.079 10,0
Titoli pubblici e privati 15.239,047 42,6 Mutui e depositi a
risparmio . « 14.648 374 40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9
La misura massima di impieghi in immobili è nelle Società delle
Calabrie ove si ha il 33.5 per cento, il minimo si riscontra in quelle
della Campania col 2.5 per cento. Negli investimenti in titoli pubblici e
privati il massimo è nella provincia romana col 70.3 per cento. Nelle
Marche invece si ha il massimo in mutui e depositi a risparmio con 1’ 81.9
per cento ; la Liguria presenta invece in questi impieghi il minimo col 13.8
per cento. Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società
di mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posseduto. Riferiamo
qui le cifre assolute e proporzionali del numero delle Società per entità
patrimoniale, al 31 dicembre 1904. Numero delle Società che hanno
un patrimonio: Da L. 0 a 999 Cifre assolute
1.517 Su 100 Società 23.6 11 1000 a 4999
2.117 35,3 » 5000 a 9999 9S9 16.5
n 10.000 a 49.999 1.239 20.6 n
50.000 a 99.999 156 2.6 n
100.000 a 249.999 60 1.0 ii 250.000 a
49.1,999 12 0.2 n 500.000 a
1.000.000 5 0.1 Oltre un
milione 4 tu Senza indicazione del patrimonio
535 Di 5999 Società che hanno comunicato 1’ ammontare del loro patrimonio,
solo 81, delle quali 54 riconosciute, hanno un patrimonio superiore a
lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per cento. 11 23.6 per cento delle
Società ha un patrimonio inferiore a lire 1000; il 35 3 per cento un
patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per cento un patrimonio da lire
5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un patrimonio da lire 10.000 a lire
50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio da lire 50.000 a 100.000. Le
federazioni. Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per
il riconoscimento giuridico delle Società composte di non operai è ammessa la
costituzione di consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di
riserva consorziale, per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con
medici e farmacie, per mettere in comune alcuni servizi, o anche alcune
assicurazioni. Si può stringere anche un accordo fra Società non tutte
legalmente riconosciute per esercitare un controllo sui soci sussidiati o
per regolare il passaggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che
cambiano resiTa legge francese del 1898 sulle Società mutualiste consente
la costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna la
propria autonomia, aventi per oggetto principalmente : l’organizzazione
a favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi indicati
nella legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle
condizioni stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione
dei membri effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle
pensioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei
rischi diversi a cui le Società debbano provvedere, specialmente la
fondazione di Casse di pensioni e di assicurazioni comuni a più Società
per le operazioni a lunga scadenza e le malattie di lunga durata; il
servizio del collocamento gratuito. La statistica ufficiale non
registra la esistenza in Italia di Consorzi o d Unioni costituiti per gli
scopi predetti, che hanno alquanta analogia eon quelli indicati nelle
norme. In recenti Congressi regionali di Società di mutuo soccorso fu
deliberata la costituzione di unioni regionali, ma ancora non possiamo
dire se furono costituite e per quali scopi. Nel primo
Congresso nazionale delle Società di mutuo soccorso tenuto a Milano il 29
giugno 1900 fu deliberato «d'organizzare fra m loro tutte le Società
operaie di mutuo soccorso in federazione nazionale, salvo studiare il
modo di organizzarle razionalmente, con a nomma di una Commissione
esecutiva provvisoria », fissando intanto a Hi n^ ta 1 o annUa dl, pre,.
5 per le Societ à aventi non più di 100 soci t pe f <3 £ e i e dl - un
numero superiore; e «di indire un mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle
Società operaie, quelle delle CaLa fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per
un’intesa comune ». con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso
anno 1900, Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen
temente d'indole morale. Società federate ed?,?^ ed - ere . alla tutela
de ^ interessi delle nomico delle classi i a JÌ,!f + lb - U ^ re a
miglioramento morale ed ecoraS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza
». Per aggiungere p ento la Federazione si propone in modo
speciale: previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^
istituti di mutualità, di Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris S°" fare
opera di solidarietà con tutte le li“,QM . de ! lavoratori; e,SC ° P0 .iirftr 1
" t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r slazione che valga a
svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si,f tema completo di legia tutelare le ragioni
deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione, sulle classi
lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano nella m^deUo^
ifm^ 00Ì ^ Società federate, intervenendo mediante
pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e 6 di P revid enza, meZ
SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte
le Soc ietà italiane di siano inspirate ai5? f a „ 08,? ute 0 di fatto -
P^chè videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della pre di iirc
5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata: se hanno da 100
a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10 ài lire 20 se hanno
più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’ 6 «5dfott federa a
e hano diritt0: consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne
esecutiva in ogni circostanza teresse generale- 1 " 81 d<J1
seryizl che la Federazione stabilirà nell’in àana, monitore della 6
P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione ItaCongresso; ^aerazione, ed una
copia degli atti di ogni « d) di ottenere gratuitamente consulti
legali e pareri di indole amministrativa; « e) di valersi del
giornale La Cooperazione Italiana per trattare quelle questioni che si
riferiscono agli interessi della mutualità e della previdenza. Gli
organi della Federazione sono: il Congresso delle Società federate; il
Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti dal Congresso fra i
soci delle Società federate; la Commissione esecutiva composta di nove
membri scelti fra i soci delle Società federate e residenti in Milano; i
Comitati regionali, secondo le circoscrizioni stabilite dalla Commissione
esecutiva; il Collegio dei Sindaci composto di tre sindaci effettivi e due
supplenti, nominati dal Congresso fra i soci delle Società federate
residenti in Milano; le Commissioni di consulenza, di statistica, di
propaganda, ecc. quando ne fosse reclamata la costituzione. La
Federazione ha organizzato tre Congressi nazionali: quello di Milano nel
1900; quello di Reggio Emilia nel 1901; quello di Firenze nel 1904. Le Società
federate sono andate crescendo nei cinque anni 1901-1905 nella
proporzione seguente: 1901 548 1902 573 1903 720 1904 733 1905
745 In un Congresso internazionale e nel chiudere questa relazione la
quale dimostra quale sia la condizione delle organizzazioni mutualiste in
Italia, io non credo che si possano presentare, come epilogo dei fatti
osservati, voti e proposte che abbiano riferimento alle particolari
condizioni delle nostre Mutue ed al loro avvenire. Credo soltanto
possibile esprimere un voto il quale ha necessario legame con la proposta
costituzione di una Federazione internazionale della mutualità, che sarà vanto
di questo III Congresso, poiché, a mio giudizio, una Federazione
internazionale deve trovare il suo principale fondamento nelle
organizzazioni federative nazionali. Ed il voto è il seguente:
Che si promuova in Italia la costituzione di Federazioni od Unioni
regionali di mutuo soccorso, le quali si propongano i fini additati dalle
Norme e meglio specificati dalla legge francese, in quanto siano
applicabili alle particolari condizioni e funzioni delle nostre Società
; Che le Federazioni regionali facciano capo ad una
Federazione Nazionale, la quale, pure esplicando l’azione d’indole morale
che è nel programma dell’attuale Federazione, compia anche alcuni
uffici propri delle federazioni regionali, specialmente quello di
sovvenire i soci dei sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per
ragioni di lavoro o per altre ragioni, si trovino fuori del territorio
nel quale la Federazione regionale esplica la sua azione. Uo
spirito cooperativo. Se il tracollare di tante impresa o società
sorrette da grossi capitali aggiunge nuove pa^ne ai volume delle
nostre afflizioni, è bello invece vedere per virtù popolana sorreggersi liberi
e sicuri nel loro corso anche in Italia i sodalizii dèlia previdenza e*
del mutuo soccorso. Animati nelle loro operazioni dal sentimento della
pietà, e non mossi da studio di soverchio guadagno, finiscono col
raccogliere anche la ricchezza, come premio della loro virtù e col dare
un'alta pro\a di quella verità che gli affari più cauti ed onesti sono
sempre in (in dei conti i più lucrosi. Così queste società nuove di
operai e di piccoli indaslriali, svincolale dai vecchi rancori, amiche
deirordiiie e della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando ed
aiiargaiido i contorni dell' azione, c creando una buona Speranza per
l'avvenire della nostra patria. Fatta Tltalìa, è d'uopo per fare gP italiani
che alle vecchie e cascanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero,
sì sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associazione.
Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai quali nulla di
onesto e di utile pare impossibile, e che nel meditare al proprio,
tornaconto non dimenticano quello degli altri. Occorre che in tutte le
citlà^ d'Italia sorgano e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali
sappiano inlendere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le opere
buono a quello stesso modo, e sto per dire, con quella spensieratezza,
colla quale i più le stemperano nella cascafigine e nelT ozio. E queste qualità
cominciano appunto a ravvivarsi nei gruppi de' nostri cooperatori, le
quali, mef^lio di tanti discorsi accademici che entrano ed escono dalle
orecchie 0 di certi volumi di economia politica, senza lettori, valgono a
provare colla evidenza dei fatti, che la maggiore delle industrie è
l'onestà dei costumi, e che il lavoro e r associazione non accrescono
soltanto la nostra fortuna materiale, ma ben di più» il patrimonio dei
nostri affetti e delle virtù nostre. Di fronte al movimento
d'associazione che si estende da tutte le parti, è. necessario stabilire
i cardini su cui s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell'
associazione. Fino ad oggi te società di commercio e
dMndostrla avevano per unica mira il guadagno di coloro che le dirigevano.
Questo guadagno talvolta eccessivo, aveva per motore l'egoismo, c
per mezzi i tranelli, la speculazione e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo
mezzi così odiosi hanno fatto colossali e scandalose fortune con
desolazione c rovina di una falange di creduloni e di delusi. Le società
cooperative hanno invece per ragione la fraternità, per principio
l'eguaglianza, per mezzi l'onore, la probità e il lavoro dei cooperatori
associati ; e per ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione dà aispiaiTo
d' associazione. r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè
stesso ciò che gli appartiene, ed a ciascun cooperatore accorda la
facoltà di aver parte air amministrazione delle cose comuni. Còsi la
cooperazione sorretta dall' intelligenza, vi* vificata dair amor fraterno,
rivela air uomo T arcano della sua forza e della sua potenza. Ma peicliè
giunga agli sperati e (Te ili senza deviare dai principii che sono fondamenlo
di ogni rigenerazione sociale, si addomanda ai cooperatori vigilanza
attiva e studiosa, saggezza, aniiegazione e virtù; nè, per evitare gli scogli
contro cui ruppero tanti, cessino di tenersi in guardia contro i funesti
allctlamenli, i desiderii ambiziosi, le passioni egoistiche e gelose.
Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi contengono i germi di discordia e
di dissoluzione che bisogna sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto
allo socielà cooperative formate lìnora in Italia, mentre dobbiamo
conoscere la devozione, il disinteresse dei loro fondatori ed aderenti e
i risultati abbastanza felici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da
superare, converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno sbandite tutte
quelle mezze misure che conducono facilmente air aborto. Si ha
bisogno di uscire al più presto dalie vecchie abitudini, dai sistemi
restrittiyi, e rendersi p^puasi che un progresso non è realmente buono se
non m quanto possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T
anima della cooperazionc, come d'ogni giustizia; che il genio
cooperativo nel suo oggetto, nel suo scopo e nelle sue conseguenze
sociali, ha una missione immensa da compiere, e che deve penetrare come il
sole, tanlo nelle campagne quanto nelle grandi città. Ma perchè le
società di credito e di produzione possano agire senza ostacoli deesi sgombrare
il terreno dell' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate
alle campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza
cogli operai. Per togliere dallo stato precario e dalla miseria, ove si
trovano, lutti questi campagnoli che disertano la gleba per cercarsi
lavoro nelle manifatture » bisognenibbe procurare la loro emancipazione
col mclterli anch'essi in grado di partecipare alla propriclà
territoriale per mozzo delle associazioni cooperative. Al che condurrebbero
quando si formassero de' sodalizii agricoli c industriali, abbastanza
potenti per oHrirc un asilo a coloro che non hanno una via aperta alla
loro aUivilà. Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero
al riparo dalia concorrensa industriaJi superflui, poiché ove le società
cooperative non propagassero ia loro azione nelle campagne, e restassero
nelle sole pitià, subirebbero i maggiori disinganni. Ed oltre a
questa concorrenza dannosa, aggiunge quella che i lavoratori si fanno fra
essi e che forma reggette dMndebite lagnanze. E infatti coltivatori,
affitjtaìuoli, proprielarii si lamentano troppo spesso dr questa
concorrenza che, a detto loro, impedisce di vendere i frulli del campo e
del lavoro a buon prezzo, e non pensano intanto che la concorrenza de''
produttori coi prezzi moderali suscita un'altra concorrenza, quella de'
consumatori; non pensano che se essi hanno quelle vanghe, quelle zappe,
quei martelli, quelle seghe a buon patio, e appunto per la concorrenza
delle fucine che procura a minor prezzo il ferro di che hanno bisogno per
gli isirumenti de' tgro mestieri ; che è la concorrenza dei tessitori e
de" granaiuoli che fa comperare ad essi con modici valori il vestito e il
nutrimento, e tutto quanto entra nei bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio
si rompe anche la concorrenza diviene dannosa; le braccia divelle dai
campi e intrecciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia che
è il supremo beneficio d^ogni sociale interesse > ed è appunto un gran
prezzo dell’opera il far in modo che ì campagnoli restino nelle campagne,
nò depongano la marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio.
La concorrenza è ìm gran motore delle attività umane, e trova la
sua perpetua alimentazione nelP interesse individuale. Essa non e che il
risultato dello sforzo che fa ciascuno pel proprio interesse, e porta poi
come ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio
deir esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli uni e degli
altri promana il vantaggio di lutti; nè permeile ad' alcuno di predominare a
scapito degli altri, è una compensazione che ci facciamo a vicenda.
Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pagherebbero tutto ad una
esorbitanza di prezzi, e senza la concorrenza clie i consomatori si fanno
tutto cadrebbe a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più
sollecitato alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne
trae l’emulazione « che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per
Fattività deir uomo, e ne sorregge ne^ suoi lavori la meditazione e i sudori
per trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale intento, e trovare
nuovi processi di produzione più economica e più abbondante per
accorciare il tempo e conseguire Y esito migliore, e per soggiogare
le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la forza deir
uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa far
meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti; egli sa che il
consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora meglio, e al
venditore che spaccia a minor prezzo; e chi invoca misure restrittive,
chi domanda ai governi la proibizione d' introdurre merci forestiere,
attenta alla liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a suo profitto
la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stranieri. Ha quando l’equilibrio
delle classi si rompe allora la concorrenza conduce diviato alla ruina. E
pur troppo vediamo i giovani campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro
condizione sospìnti a quella delP artigiano delle città, perchè a questo
la giornata si paga più cara che ad essi, ed ogni sabato esce
dall'officina col suo salario alla mano. Queste braccia divelle dai campi
e iuirecciate agli ordigni degli opificii tolgono le larghe emanazioni
di quella occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò l'uomo
«uila terra. Eppure l uomo della campagna quando pensa all'artiere della
città, dice: in (jual minor conto siamo ' noi tenuti! S'inganna esso a
partito; nessuno tiene in minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è
necessario che i contadini il sappiano, che abbiano ànch'essi le loro
istituzioni da cui sieno allettati, e che le provvide virtù camminino fra
i popoli agricoli » sotto i tetti di paglia, tra i novali e i vigneti, e
che la vanga e il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio
ed al telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa,
impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra,
giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto,
corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di
procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione,
sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico,
unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo
soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente,
contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo,
considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco”
– The Swimming-Pool Library. Coco
Grice e Codronchi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto -- giochi
d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto
comunitario – scuola d’Imola – scuola di Bologna – filosofia bolgnese –
filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo
bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Imola, Bologna,
Emilia-Romagna. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were
not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see
conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do
confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’
approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the
reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for
‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously
– perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the
subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk
about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract
bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the
‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that
‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la
laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In
seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con
Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue
saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità
l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di
contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto
tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato
nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato
sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel
quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una
legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was
attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk
exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels
outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my
stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer
help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become
stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you
are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit,
characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative
transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting
a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in
conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the
other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even
if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each
party should, for the time being, identify himself with the transitory
conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should
be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding
(which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being
equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties
are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start
doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI
D'AZZARDO. C. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER
GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO
LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI
TOSCANA &c. &c. et c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che
sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per
fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea
bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati
tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il
vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la
felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi
all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non
sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio,
penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose
beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali
desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi
forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di
arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi
necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha
voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo
stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore;
acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi
della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e
l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende
talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un
piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in
un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e
sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i
grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i
lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato.
Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano
per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore
medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo
contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi
avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro
contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in
cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini,
che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da
esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta
al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori
che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla
polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia
solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il
moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il
negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a
preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro
sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo
contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati,
o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render
giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in
tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che
arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre
vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica
politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte
a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi
veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione
chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il
certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme
fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr
nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce
dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil
cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una
sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su
di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al
contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia
possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura,
più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne
determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia.
Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un
diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei
separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte
(cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel
medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i
contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta
per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza
incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che
avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio.
L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della
cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata
la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del
contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno
nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che
l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E
se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real
prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere
un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per
conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello
per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad
una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo
tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza,
che gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior
precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone
per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si
parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi
l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti
osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a
dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello
o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità
che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per
cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per
nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo
più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò
ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i
o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più
stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che
io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra
parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di
estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore
secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento
rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che
gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera
tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e
senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto*
del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’
contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire
la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10
bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione
dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una
speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi
favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della
umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una
speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei
sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario
che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio*
del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del
valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà,
che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto
all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità
del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola
infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando
in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se
si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore
estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente*
l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza
di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato
numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri.
In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e
la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza
necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo
caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e
quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle
speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o
reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto
aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà
l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio,
come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei
contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si
lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per
quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo
rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero
dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e
de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il
paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così
dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente
corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i
prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri
ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che
per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente,
qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i
veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che
convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la
natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino
una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi
li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e
dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di
fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre
fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e
quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo.
Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del
contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle
ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero
determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la
natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla
ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra
cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e
dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è
quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione
di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze
incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie,
conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire
ſull'oggetto del 1 4 13 contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali
poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei
caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è
ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e
dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non
potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione,
e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre
paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che
ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura
trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei
diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di
trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la
maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto,
e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed
aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima
claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo
Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il
numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori,
e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi
ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi
favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto
gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una
curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente
aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi
calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati
ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in
quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi
del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e
dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a
queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una
ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di
certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà
più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per
ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione
comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente,
non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che
non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura
un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea
ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero,
che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue
per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel
tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè
meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono
neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei
giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di
meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi
pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di
azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne'
contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura
diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore
di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il
premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo.
Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo,
che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe
perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali
dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il
premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective
porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il
quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che
ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi,
ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che
così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui
s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile
divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e
del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti
i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere
pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli
attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un
fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo
che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che
preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e
alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco
è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto
certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di
altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per
l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice
delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente
ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i
giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe
manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora
il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell'
oggetto; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei
giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il
totaledepoſito.Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli
uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente
ſe fi conſiderino i caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei
giocatori; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque.
E' queſta una evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco,
per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente
ma da quelli ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno
ſempre rela tivi, e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente
la natura del gioco di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei
caſi favorevoli a un giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di
rettamente, ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il
numero dei finiſtri, altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei
favorevoli all'avverſario. Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte
due fomme fono eguali: dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il
canone della ſtabilita proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi
favorevoli ai finiſtri. Da ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di
incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di
accidenti; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi
quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco,
nella guiſa di ſopra accennata; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto
il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed
eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione
quella che egli conferiſce nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il
premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli
più volte, o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto,
che dalla natura, e dalle leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole
delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo
ſomma maggiore. Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata,
che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più
favorevoli combinazioni, in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e
l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per
ſe alcuna forte di gioco, è più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare
gli opportuni termini della noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei
giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o
di eſporla diverſa. Nel primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la
natura del gioco, e le leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il
numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni
nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi
quelle condi zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto
quello dei contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella
dell'altro, o al contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera
che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una
ſol volta, ſiccome ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole,
converrà, che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la
proporzione reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da
entrambi i giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco,
converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero
dei caſi favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e
relativamente al noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il
gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti
tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta
proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla
prima apparenza, ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do
fi voglia più volte ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte
dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente,
egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6.
per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà
chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in
queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima
faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi
di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei
giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà
che non reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una
determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero
dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco,
ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le
ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il
Corollario del Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il
banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima
carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono
l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi
medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata
dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei
favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda
più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione
che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema
del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di
condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga
di laſciarla ſempre in pericolo. Il puntatore per lo contrario può voltar le
ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna, che tenta in vano di placare; o aven
dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua
volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari
giocatori, delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed
eſauſto, ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna; le
altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere
fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i
vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale,
e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri
ſco. E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime,
eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il
gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere, come par
certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è
mol to notabile in iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo.
Non voglio perd omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la
ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta femplice, cominciando dalla
ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due
delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per
100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei
pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24.
carte, allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze
che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a
). Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare
la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per
ottenerla, o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto
de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che
fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il
vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite
fi fanno, onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29
effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte
proporzioni fra il prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai
annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente
dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una
certa fatalità luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure,
alle dotte occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali
recano sì di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una
carta di gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia
di molti infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la
ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno
oneſte, e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di
troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon;
Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur foit bon, On commence paretre dupe,
On finit par etre fripon. E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato
ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus,
e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i
medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di
orrore la miſera condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però
e nel gioco, e in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per
rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo
affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o
oppoſti alle provide leggi, e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra
ſpecie di contratti d'azzardo, che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri;
cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla
ſperanza, che eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data
ſomma di denaro. Troppo ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è
facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire
che non vi è forſe contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più
ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti
formano il ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di
calcolo è baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro
può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo
favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la
probabilità di gua dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal
promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia
di queſto gioco, non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e
perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima
quella convenzione, che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento
proverebbe troppo in genere di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun
vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e
la difeſa di infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di
quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro
ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come
generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori, come ſe foſſe un
gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito. Più ſolida
difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del
lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può
eſigere ragionevolmente un riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a
rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia
ridotto. Troppo anche più enorme era la diſugua glianza, prima che con lo
ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori; condizione però,
che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto. Quì però fa
d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte, e
limitate dalla prima ſuperficie delle coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto
conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto; altro è il dire che
un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo
affatto, e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati.
Il lotto può conſiderarſi come un tributo, che viene impoſto a chi
ſpontaneamente con fente di pagarlo; cangiandoſi così in vantag gioſo al
pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato. Non ſi può
deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio
ſguardo della for te; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che
ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro, che azzardi,
può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia, o pur
talora dilatare i confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco tal volta un
nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti ſi affollano
a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga
di (a) Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno un grado di
valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne
chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro.
Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa
delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia privato
e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali,
o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può
darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran quantità, fia
una piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia
ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran
numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado
di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia
conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante,
formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo
la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe non baſta,
come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a render
qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto gioco
tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le ſperanze. 35
quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza
medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli occhi
loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il più
freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo,
e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto
oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge
leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri
ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed
eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente, accid
non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico
vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla
loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo,
e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento
però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1fi
attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico,
di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono
per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che
hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo
che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto
amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti
nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte,
ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine
dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri
ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in
Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome
ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha
ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di
ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme
di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come
nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte,
perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a
quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual
prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri
relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più
vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de
dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non
ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro
che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi
impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di
Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati
così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata
regolata l'economia di queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato
mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma
ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a
ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome
chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le
qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in
un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri
neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo
eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto
medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla
regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere
pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio
dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono
vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini
chiamavaſi olla fortunae. In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di
Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad
eſſer miniſtra della ſua beneficenza. Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa
fra quelli che giocano alla lotteria, e allora ſe il premio non è denaro ma un
altra coſa qualunque che abbia prezzo, ſi giuſtifica più facilmente, giuſta
l'opinione del Barbeirac, la notata diſuguaglianza: e l'economo del gioco può
vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio, ma
ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua,
e il diſpendio, quando ve n'abbia. Queſti lotti fi riducono, dice il citato au
tore ad una ſpecie di compra, che ſi fa in comune, a condizione che la ſorte
decida a chi debba appartenere la coſa comprata. Se ſiavi adunque
dell'alterazione nella propor zione, ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe
comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che
ciaſcuno tra 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli
parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno
fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor quantità di
viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi
potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario
prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in
ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli
poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di
paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del
gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le
ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una
compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra
proporzione, giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di compra della
ſperanza, ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per
conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in
verun modo alterare. Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente
a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice
l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo,
e come la deci fione, o l'oracolo della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti
di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono
ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli; e la forte s'interrogava, o col
gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna: e ai caratteri,
ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che
ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte,
e di a ſcoltarne gli oracoli. E' incredibile poi quan iti, e quanto gravi
affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità. Baſta leggere gli
autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che
parlano diffuſamente delle forti Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale
Epico Greco, nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto, e il furore
dell'indomito Achille, ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la
fola innocente cagione della rovina delle più floride città, e della
deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario, aprendo i libri della
divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man
fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che
pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe.
Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce fari, credette di averne avuto un
preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo,
aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio, s'incontrò in quel tratto,
ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo, e
preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu
Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi
eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì
parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili
delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle
medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una
coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non
vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi
ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè
affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi
all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è giudicato favorito dalla me
deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo
padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia
lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non
v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto
una condizione tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e
vario evento della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i
concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che
vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i
numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno
degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra
i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la
ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo
può dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di
quello degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome
all' urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto
contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in
cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de
poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e ſi 45 è detto, che uno depoſitando
maggior por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe.
L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti
avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole
dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo
dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte
ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la
proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è
parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar
tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi
acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione.
Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto
evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le
varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo
dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa
applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota
della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le
ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di
tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti
contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la
forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente
nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto
neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola
ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che
ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La
prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono
fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui
dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate
leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del
Mondo. La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle
vicende, ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente,
e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e
ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni
argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco
ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali
è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della natura, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che
non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego
lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da
prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e
le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un
politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la
ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi
ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è
quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo
ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni
l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien
potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le
idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli
occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o
tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di
coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei
rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti
altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che
noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero
eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta
regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il
vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza
dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe
che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione,
e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo
co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca
confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è
dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi
fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu
che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta
comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che
alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale
ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un
evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo
accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni.
Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in
quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto
argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a
ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a
ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti
nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le
varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi
potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto
quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto
ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è
una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà
arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la
certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di
una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo?
Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella
della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno
hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali
ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non quelle
volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se così è,
e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne verrà per
conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì
vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no da chi
oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne po
tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai
arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza. Tra= laſcio di oſſervare
che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed
eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe
sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi
ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che
fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante
maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate
ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre
volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle
ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno
conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono
ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei
ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno
può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e
tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo
averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e
la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero
l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi
in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e
l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva,
che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di
queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo
riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente
fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità
che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di
poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro. 55 babilità
e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui
non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia
mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale
ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime
oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli
che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della
irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di
verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque
per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto
moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe
ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi
poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la
ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è
compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in
infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render
certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi
della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre
cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi
deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il
caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di
azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la
maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa
certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi
gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a
portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le
coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal
gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che
ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla
ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo
hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne
riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro
vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le
quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma
perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha
propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di
molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in
eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi
fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie
concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che
un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una
libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre
un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che
ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi
in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il
ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota
influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante
che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro
babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e
confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer
dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero
l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in
qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te
generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti
ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà
vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle
umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che
pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non
ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi
debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle
ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien
fiſſare due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda
mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza
fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine
vago, e che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon
tare. Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che
imitatrice della legge la vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l'
uguaglianza a preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime
deveſi attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che
nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello
ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la
queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e
ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che
recano, o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti,
che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e
al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi
elementi, e poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio
invigorito, circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati
da tali contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo
ſpirito, e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo
rifleflo. In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta
ugua glianza di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro
forte. Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad
entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il
diſcapito, potendo ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di
loro arrivare; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud
ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta
uguaglianza, perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto,
perchè oltrepaſſano certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano
moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della
ſeconda claſſe. Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che
eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti
neri, quante più eſtrazioni fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la
conoſcen za del rapporto che hanno fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni
ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile
che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento, tanto più ſi po tranno
attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano, e farà meno irragionevole l'in
duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello.
Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di
un'evento, e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per
formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un
qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte;
poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no
egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle
ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a
queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata
l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a
riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio,
o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata
mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1
Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano
fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e
fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del
loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e
gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti
a tirarne quel profitto, che il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover
eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori.
Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione
che furono diſteſi negli anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni
1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein
cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni, la prima
delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze,
e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua
ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli
ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie.
La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci
che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede
l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell'
aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi
dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza
del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa
gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il
loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono
all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di commercio fu
introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie, ma non
nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o appartenenti
affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola
eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa
della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni caratteri. Anche in queſta
ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora
quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo
che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto,
purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti. Per ridurre pertanto in
qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta
regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo
con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto, che ne
forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo
della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera deter 66
minazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli,
agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno
di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in un altra; la qualità
del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli
Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi con queſte confon
derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle
cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella libera
determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno mediatamente.
La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei marinari e dei piloti:
il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei
pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici
armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti
della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali.
67 i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è
impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà
molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione
di mo vimenti, e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che
operano per una mera libera determinazione, che per qualunque congettura la più
apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul
momento abbandonarſi, per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia
metralmente oppoſta, e contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non
preterirſi giammai in queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna
cauſa, o fiſica, o morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare
l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e
quella non meno che hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto
alle fiſiche. Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente
è combi nata, o temperata colle altre. e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano
queſte cagioni, e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga
ſperienza. In queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte
quelle combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder
la nave, nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili
violenze, la confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e
frequenti oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze
ſiaſi perduta la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine;
la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe
conde ſi tiene per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la
proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza
che paſſa fra i contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo
appartengono. Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini
ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il
numero; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga
ſperienza ſi ſono oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri
pof ſibili, i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in
proporzione di no tati. La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più
ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto
numero di palle bianche e nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore
ſi può fiffare la proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione.
In una parola, nei primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto
anche ciò che può determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti
perfettamente delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la
propor zione ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze
preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti
i dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare
tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione
da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo
il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi
entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre
naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha
queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per
la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com
poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole,
non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca
loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far
conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la
prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato
naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche
ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei
quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza
della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi
dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e
ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi
dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche
piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però
che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione
di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi
può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali
contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione
nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi
potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72
più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli
aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi?
Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni
degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a
ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi
otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi
che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi
accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto
ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri
nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo
giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio
dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è
il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all'
aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga
all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il
contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare
all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato
non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa
la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo
alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal
contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della
ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende
il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe
aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe
nonoſtante fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto
può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa
che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora
quantunque 74 l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare
la mercede, qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è
in caſo di pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb
be avuta ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita
mercede. In queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario
all'umanità, poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che
neppur ridonda in proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato
il caſo del ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al
carattere di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che
l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e
ſiniſtro. Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità,
deſi dera che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il
contratto. Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella
perdita di una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che
ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che
ſuccede mol te volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di
un carattere egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle
aſſicurate merci, ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a
vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato
promet te. Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra
un sì variabile ac cidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente
queſta varietà di combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto
valore? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha
per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente
adattarſi alle merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei
magazzini, o in altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un
fatal accidente, e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di
queſto contratto. Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un
turbine procellofo che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la
vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e
alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di
tal fatta, che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di
divinazio ne, ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con
la ſorte, ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo
e colla maggiore ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno
intereſſante, e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi
vitalizio. Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì
varie combinazioni che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri
inanimati; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed
hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo
tempo sì prezioſo dono del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in
bilancia con un tenuiſſimo guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo inte
77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa
il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello
che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con
tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di
ſangue o di amicizia, o che non curando le veci dell' uno, o dell' altra, non
hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei
biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che
ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno
all'inopia, e allo ſqual lore. Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e
penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a
chi trovandoſi in un'età cadente, accom pagnata per lo più da una infaufta dote
di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi,
rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne
perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi
carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di
fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di
quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita
ecceſſiva af forbiſca il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che
egli ne ha ritratti. Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di
anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il
fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo
ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro.
Ecco lo ſpirito di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la
neceſſaria uguaglianza, e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario
riflettere, che sborſato il ca pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag
giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo nume ro di anni, per il corſo dei quali
ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria
uguaglierà il capita 6 79 le. Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro
di ſopravivere un tal corſo d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de
terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro
di vivere un determinato numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni
dei contraenti, è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità
di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno
ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual
probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima.
Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio, conviene eſaminare quanto
abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per eſempio mille, all'età di
quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno
ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime, dà un numero, che ſi chiama
l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba
ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra,
quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un
determinato numero d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi
che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che
vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà
mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media. Ecco dunque,
come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza
può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente
ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma del capitale più
le rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare
alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro
contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa
vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata
ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà
eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando
tal ſomma fino al termine del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito
per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a
diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più
ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie
il capitale diſtribuito per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in
queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu
mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la
probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi
in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi
di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli
eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca
divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di
commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più
farà facile in queſto contratto fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a
claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età. Qualità di
profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima, eligono ſeparate
oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i
quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che le abbreviano; e i ſecondi,
nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai
primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la
parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite
vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro
cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come quello che paga l'annua
rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae; dovrà a
proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto
però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo
che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo
della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata proporzione;
ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza del frutto della
rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie cangiato in forte
fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera,
e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi, non ſi
cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza
fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per eſempio A, e una di lei
porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B, ſarà la ſerie delle annue
rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il
frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola. (C + B ) A,(B ) A (C
(C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B)
À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84
rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il
capitale col frutto; il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il
terzo il capitale col tri plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto
del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel
caſo dell'ultima ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi
cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e
ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore
della ricercata differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj
ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi
favorevoli, altro non s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità
di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il
numero di quelle che ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien
compoſta talora da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte
no tato; e che la vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali, fa
di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza
delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei
quali ſi notino la naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana;
poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti
vantaggioſi con tratti; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle
aſpettative dei contraenti. Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun
medico regiſtraſſe privatamente le qualità, e gli accidenti dellemalattie che
egli tratta; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato, che egli libera,
o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in
ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne
molte formate da indotti oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè
l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle
eſſenziali, rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione
all'altrui errore, o irri fleſſione. 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai
rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice
S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte
tavole forſe la più eccel lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e
provincie, è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza
nelle vicende dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e
moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le
annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra.
Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre
nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di
curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre
con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche,
ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla
luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo
corſo d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo
Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è
tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei
noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente.
Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari,
ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome
dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di
rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi,
che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa.
Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto
chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma
di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi
prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che
l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una
ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella
è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre
sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il
padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno
prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata
ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita.
Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino
alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così
ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo
della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma
sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par
ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi
favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89
bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una
famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla
deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo
di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi
obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto
della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della
vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab
baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che
riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della
vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli
altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian
nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del
reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno
importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1
1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo.
Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo
inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in
ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò
il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che
appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col
padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo
capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua
claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la
Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva
35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole
di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite
coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della
tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le
ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo
per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche
ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre.
Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in
oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee,
il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi
durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione
che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine. 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito
dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate
le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua
opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il
far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro
poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti
d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè
ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato
l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre
di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi
dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà
armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed
anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione,
allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli
ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus De l'etoile qui me domine; Il me reſte
encore cent ecus Que je vais mettre a la Tontine: O la charmante invention !
Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages, Sans avoir fatiguè la cour de mes hom
mages, Je ferai ſur l'etat, et j'aurai penſion. Così cantò un elegante
Poeta Franceſe in tendendo così di far la ſatira delle tontine; e pare di fatto
che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto
ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così gli altri contratti del genere di
cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al
ben dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di
denaro, ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti
cittadini, le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di
queſte pen 94. fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti
opportuni, per fare un eſame regolato dell'età, e delle circoſtanze di quelli
che doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni, e con i neceſſari
regolamentipreveni re gl ' inganni, che in queſto articolo intereſ fante
poteſſero deludere le pubbliche vedute. 1 1 1 1. 1 Per eſaminare i contratti
della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i
contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e
in parte alla ſperienza del paſſato, e a cir coſtanze incerte e di numero
indeterminato, ſi ripigli l'eſempio dell'urna, nella quale ab biavi un
determinato numero, per eſempio di go. palle. Se la ſperanza dell'eſito felice
è affidata all'eſtrazione di una palla; per la natura di tal contratto, o gioco
che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai
ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà il mu mero dei
caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del
buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è
affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra, e
l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ; il numero dei caſi
favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1,
la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma
coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe,
come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere. Di fatti la
probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del
contratto certe, e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza, ed
oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di
p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe, la
quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m; 112 Non è neceſſario che io
offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p, non 96 dimeno non è
ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di quello che ne eſca un'al tra. E
queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi
trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle, ſicco
rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due,
eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa
frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle. A queſto eſempio ſi poſſono
ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto, e di quelli che
ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce
del volubil dado, ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la
triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze, in
moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal
frequenza con una vera cauſa da cui derivi, non potranno giam mai meritare che
le abbia in viſta, chi ra 97 giona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e
vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe a queſte riguardo, molti di quei contratti,
che nella prima claſſe ho eſa minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma
io per le indicate ragioni, a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico
i mede ſimi appartenere. Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono
doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora
approverebbero la mia diviſio ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi
derata in modo che può, ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non
appa riſca la ſopra indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni
ſia grande, e i riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito
della ſperanza, ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di
oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta
terza claſſe, e la diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei
quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in
parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti
del gioco, e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del
premio deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola
avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del
gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza
delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di
combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli
artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi
l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano
miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle
dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per
appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re
lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe
appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro
l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua
glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi
ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi
appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in
parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però
poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito
medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei
giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de
durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite
ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è
variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a
nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza
l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità
neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di
mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed
indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni
fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro
frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in
ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi
miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze
incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar
profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere,
imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e
alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al
loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton
capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i
piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di
cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con
eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e
l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto
eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e
dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi
riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza,
e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e
potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i
progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano
nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in
qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore
riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia
quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva,
ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina
zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte
l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date
condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere
il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi
favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte
dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà
diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli,
e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel
Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la regola di
ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in 103 ciaſcuno
a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe io voleſſi
ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e in quelli
della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi
dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure
del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di
offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non
omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli
uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla
ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque
claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi
Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro
babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli,
queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che
ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di
fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in
alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per
eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è
applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte
per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia della
moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità,
durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa: che non è in natura, che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e
coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi
raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro
babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone
accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto
queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo,
la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando
queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto
diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la
ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili,
quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono
ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura.
Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque
arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? 1 106 1
Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non
ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte.
Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di
probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi
dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente
poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io
dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per
queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di
fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le
combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria
una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe
pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un
infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere
offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade,
ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le
facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il
caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia,
a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò
non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato )
che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad
un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi
raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per
dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme
ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè
vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno,
che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro
diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A
non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro
diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe
combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia
palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè
croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto
prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due
coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite
diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni
delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure
ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi
che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle,
ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto.
Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la
infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a
ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine
fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo
ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così
dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti
getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non
così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili
fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici
adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove
nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che
la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare
mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità
che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia.
110 1 La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo
in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e
riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle
medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe
ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero
due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in
aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non
ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere
tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle
addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe
tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a
colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello
ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle
diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola
Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi
combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo
poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per
infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio
è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto,
che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun
riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo
alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere
la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce
ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due
tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33,
niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure
il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente
poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo,
che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei
pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro,
alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo?
perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre,
ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà
poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la
moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta
fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a
quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni
dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte
l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non
le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente
impoſſibili al ſolo caſo; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente
variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le
diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i
tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane
tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti;
cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi
della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di
uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la
differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne
di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo
ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di
lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono
della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non
col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare
la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert
degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due
rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal
giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per
mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più
ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata
dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è
di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con
vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non
vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno
più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420
anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata
media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di
32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20
Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe
fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che
riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi
denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra.
Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe
ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica
poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere
rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei
caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di
fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe
fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi
contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno
fiſicamente poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte
le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina
zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la
ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due
eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che
con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo
diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando
il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o
aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale
combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto
difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni
medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti
principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e moltiſſime in
numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini. Ma
trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici diverſi, e
tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che l'altra
delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più ſopra ſi è
offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e coſtituzioni
dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con ſultati nel
primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a
formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior numero di uomini
avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini;
benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file 1 b 3
118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il
ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà
quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello degli altri che ſi
rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano
a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco. Ma chi
sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che vedendo gettarall'aria una
moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſi mo, o anche
infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia? Varie poſſono
eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può gettare a una gran de
altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta; con tale direzione che
la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo faccia obliquo; oppure in
modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare in ma niera che ſomigli
quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo. Fermiamoci ad
eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà, che laſciandola in tal
modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite volte, non vi è
ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della
faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme ſcoprimento, la inten de
egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli altri caſi? Se la intende in
queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo or dine della natura renda
impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non la intende in queſto caſo,
come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere
più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig. d'Alembert, che anzi egli
intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto, che un non sò quale fatal
ordine della natu ra,potrebbe cagionare la preteſa variazione. Che ſe pure ſi
trattaſſe degli altri caſi, dico che nonoſtante la variabilità delle combina
zionidell'impeto,dell'altezza, della direzio ne; queſte non poſſono valutarſi
in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli
effetti di queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due; o lo
ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e
combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come
peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan
doſi di rapporto, o di diverſa conſociazione di parti, ognun vede, che ogni
variazione influiſce a produrre un effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la
diverſità negli effetti; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel
caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri
guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti
eſempi, ſo no anch'eſſe infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come
nuova cauſa; nel caſo della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime
combinazioni di forza, altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo
effetto; potendoſi anche dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande,
ſi man tenga l'iſteſſa direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè
grande; l'iſteſſo im 1 1 pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto.
Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano
con quello della moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella
combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta; verità che
ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me
deſime ce lo fanno conoſcere,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo
probabile, e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità; dal
che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi
neſſuna probabilità del buon eſito appariſca, per poterne formare la propor
zione.. Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile un
continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta, le oſſervazioni, e non
altro, poſſono moſtrarlo; quelle oſſer vazioni io dico, che io medeſimo ho
prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di
azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert
non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità, che anzi in qual che caſo ſe
ne poſſono tirare delle conſeguen ze, che lo conferinano. Chi gettando un dado
intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta,
quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma
vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre
l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6,
arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla
prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero
che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di
queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia
impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì;
impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert.
Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo,
e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime
ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre
più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il
mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia
in un articolo per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante.
Codronchi. (NrcoLA), na cque in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al
casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii
delle amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con
pub blico saggio nelle materie di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti
gli anni 16, potè dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali era egli
peritissimo, essere ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime,
illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti
delibati dalla scuola non fal libile degli antichi esemplari, com formò la
scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore
dell'animo: nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma
applicato (insegnatore monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de
giureconsulti) gli tolse di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per
tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare
alcuni componi menti i quali resi pubblici con le stampe trovarono grazia e
lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui
accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di
lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di
Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen
tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra
saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde
le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in
fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e
castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove nel
Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti;
282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che lo Zappi infioriva le
soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della cro ce di Santo
Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di cui fu socio si mostrò
erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto passato per le caro
vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spi rito del
Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre
carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli conferì la carica di
ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intor no a che
compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per fer mo di essere fatto
di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il Codronchi una eloquente e
dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo
de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che fu
pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi del quale uscì nel
seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo di Saggio sui
contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista
e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo
dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia ma e facile
si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa pere di lui
alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25 novembre
1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual tempo venne
ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri, cui il
Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di amicizia
tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri proposto al re
intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che leg gesi negli
opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove egli da
maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega
consigliere Codronchi proposto, quando a questo fine per sovrano volere eb be a
recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da
maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il
provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e
pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio:
imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di
sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a
maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di
quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa
regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a
Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798: e con essa lei tornò al suo
impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse
tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non
comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere
del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma
salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a
quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il
conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e
delizia: e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile
istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di
bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso;
e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè
mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe
providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della
vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della
quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena
calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed
alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della
acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per
la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono
congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re,
integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages of any text-book on mercantile
law will hardly deny that CONTRACT is the handmaid if not actually
the child of Trade. Merchants and bankers must have what soldiers
and farmers seldom need, the means of making and enforcing various
agreements with ease and certainty. Thus, turning to the special
case before us, we should expect to find that WHEN ROME IS IN HER INFANCY and
when her free inhabitants busied themselves chiefly with tillage
and with petty warfare, their rules of sale, loan, suretyship, were few
and clumsy. Villages do not contain lawyers, and even in tdwns hucksters
do not employ them. Poverty of Contract was in fact a striking
feature of the early Roman Law, and can be readily understood in the
light of the rule just stated. The explanation given by Sir Henry
Maine is doubtless true, but does not seem altogether adequate. He
points out 1 that the Roman household consisted of many families under the rule
of a 1 Ancient Law, p. 312. B. E. 1 2 paternal autocrat,
so that few freemen had what we should call legal capacity, and consequently
there arose few occasions for Contract. This may indeed account for
the non-existence of Agency, but not for that of all other contractual
forms. For if the households had been trading instead of farming
corporations, they must necessarily have been more richly provided in
this respect. The fact that their commerce was trivial, if it existed at
all, alone accounts completely for the insignificance of Contract in
their early Law. The origin of Contract as a feature of social
life was therefore simultaneous with the birth of Trade and
requires no further explanation. It is with the origin and history of its
individual forms that the following pages have to deal. As ROMAN
CIVILISATION progresses we find Commerce extending and Contract growing
steadily to be more complex and more flexible. Before the end of the
Roman Republic the rudimentary modes of agreement which sufficed
for the requirements of a semi-barbarous people have been almost wholly
transformed into the elaborate system f of Contract preserved for us
in the fragments of the Antonine jurists. At the most remote period
concerning which statements of reasonable accuracy can be made, and
which for convenience we may call the Regal Period, we can distinguish
three ways of securing the fulfilment of a promise. The promise
could be enforced either by the person interested, or by the gods, or by the community. When however we speak
of enforcement, we must not think of what is now called specific
performance, a conception unknown to primitive Law. The only kind of
enforcement then possible was to make punish- ment the alternative of
performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society
just emerging from barbarism, was doubtless the most ancient protection
to promises, since we find it to have been not only the mode by
which the anger of the individual was expressed, but also one of the
authorised means employed by the gods or the community to signify their
displeasure. This rough form of justice fell within the domain of
Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to
punish the delinquent, whenever religion or custom had been violated. But
as people grew more civilized and the nation larger, self-help must
have proved a difficult and therefore inade- quate remedy. Accordingly
its scope was by degrees narrowed, and at last with the introduction of
surer methods it became wholly obsolete. Religious Law, as
administered by the priests, the representatives of the gods, was
another powerful agency for the support of promises. A violation of
Fides, the sacred bond formed between the parties to an agreement, was an
act of impiety which laid a burden on the conscience of the delin-
quent and may even have entailed religious disabili- ties. Fides was of
the essence of every compact, but there were certain cases in which its
violation was punished with exceptional severity. If an agreement
had been solemnly made in the presence of the gods, its breach was
punishable as an act of gross sacrilege. III. The third
agency for the protection of promises was legal in our sense of the word.
It consisted of penalties imposed upon bad faith by the laws of the
nation, the rules of the gens, or the by-laws of the guild to which the
delinquent belonged. What the sanction was in each case we are left
to conjecture. It may have been public disgrace, or exclusion from the
guild, or the paying of a fine. And as some promises might be
strength- ened by an appeal to the gods, so might others by an
invocation of the people as witnesses. Agreements then might be of
three kinds corresponding to the three kinds of sanction. They might
consist of an entirely formless compact, (2) a solemn appeal to the gods,
or (3) a solemn appeal to the people. A formless compact is called pactum
in the language of the twelve Tables. It was merely a distinct
understanding between parties who trusted to each other's word, and in
the infancy of Law it must have been the kind of agreement most
generally used in the ordinary business of life. Such agreements are
doubtless the oldest of all, since it is almost impossible to conceive of
a time when men did not barter acts and promises as freely as they
bartered goods and without the accompani- ment of any ceremony. Compacts
of this sort were protected by the universal respect for Fides, and
their violation may perhaps have been visited with penalties by the guild
or by the gens. But intensely religious as the early Romans were, there
must have been cases in which conscience was too weak a barrier
against fraud, and slight penalties were ineffectual. Fear of the gods
had to be reinforced by the fear of man, and self-help was the
remedy which naturally suggested itself. In the twelve Tables
pactum appears in a negative shape, as a compact by performing which
retaliation or a law-suit could be avoided 1 . If this compact was
broken the offended party pursued his remedy. Similarly where a positive
pactum was violated, the injured person must have had the option of
chastising 1 GELLIO. zx. 1. 14. Auct. ad Her. n. 13. 20. the
delinquent. His revenge might take the form of personal violence, seizure
of the other's goods, or the retention of a pawn already in his
possession. He could choose his own mode of punishment, but if his
adversary proved too strong for him, he doubtless had to go unavenged ;
whereas if the broken agree- ment belonged to either of the other
classes, the injured party had the whole support of the priesthood
or the community at his back, and thus was certain of obtaining
satisfaction. It is therefore plain that though formless agreements
contained the germ of Contract, they could not have produced a true law
of Contract, because by their very nature they lacked binding force.
Their sanction depended on the caprice of individuals, whereas the
essence of Contract is that the breach of an agreement is punishable in a
particular way. A further element was needed, and this was supplied
by the invocation of higher powers. II. At what period the feshion
was introduced of confirming promises by an appeal to the gods it
would be idle to guess. Originally, it seems, the plain meaning of such
appeals is alone considered, and their form is of no importance. But, under
the influence of custom or of the priesthood, they assume by degrees a formal
character, and it is thus that we find them in our earliest
authorities. Since religion and law – [“as H. L. A. Hart so well knows,
since he is a jew” – H. P. Grice] -- are both at first the monopoly of
the priestly order, and since the religious forms of promise have their
counterpart in the customs of Greece and other primitive
peoples, whereas the secular form is PECULIARLY Roman, the religious
form is evidently the older, and formal contract therefore has a religious
origin. Fides being a divine thing, the most natural means of
confirming a promise is to place it under divine protection. This may be
accomplished in two ways, by ius iurandum, or by sponsio -- each of
which is a solemn, Austinian-type performative declaration placing the
promise or agreement under the guardianship of the god, notably GIOVE. Each
form has a curious history, and as this is are the earliest specimen of a
contract, we should discuss them, and we might! Another method, and one
peculiar to the Romans, which naturally suggests itself for the
protection of agreements, is to perform the whole transaction in view of other
people. This publicity ensures the fairness of the agreement, and places
its existence beyond Cartesian – or Berkeleyian -- dispute. If the transaction is
essentially a public matter, such as the official sale of some public
land, or the giving out of a public contract, no formality seems ever to
have been required, so that even a formless agreement in in that
case is binding. The same validity may be secured for a private
contract, by having it publicly witnessed, and the nexum is but one
application of this principle. In testamentary law – “How my father,
Herbert Grice, inherited the property on the High Way of Halborne” – Grice -- it
seems probable that the public will in comitiis calatis is also
formless, whereas in private the testator may only give effect to his
will by formally saying to his fellow-citizens testimonium mihi
perhibetote. Thus the two elements which turned a bare agreement
into a contract were religion and publicity. The naked agreements (pacta)
need not concern us, since their validity as contracts never
received complete recognition. But it will be the object of the
following pages to show how agreements grew into contracts by being
invested with a religious or public dignity, and to trace the subsequent
process by which this outward clothing was slowly cast off.
Formalism was the only means by which Contract could have risen to an
established position, but when that position was folly attained we shall
find Contract discarding forms and returning to the state of bare
agreement from which it had sprung. Ivsivrandvm is derived by some
from Iouisiurandum 1, which merely indicates that Jupiter was the god by
whom men generally swore. To make an oath was to call upon some god
to witness the integrity of the swearer, and to punish him if he
swerved from it. This appears from the wording of the oath in LIVIO,
where SCIPIONE says: Si sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime,
domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and from the
oath upon the Iuppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus, where
a man throws down a flint and says : " Si sciens /alio, turn
me Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc
lapidem" A promise accompanied by an oath was simply a unilateral
contract under religious sanction. And it would seem that the oath was in
fact used for purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the
oath was proved by the language of the XII Tables to have been in
former times the most binding form of promise ; and since an oath was
still morally binding 1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii.Off. ni.
31. 111.in the time of CICERONE, though it had then no legal force, the
point of his remark must be that in earlier times the oath was legally
binding also. From Dionysius we know that the altar of ERCOLE (called ARA
MASSIMA) was a place at which solemn compacts (ovvdfjtcai) were often
made 1, while Plautus and Cicero inform us that such compacts were
solemnized by grasping the altar and taking an oath 2 . It would seem
probable that the gods were consulted by the taking of auspices before
an oath was made. Cicero says that even in private affairs the
ancients used to take no step without asking the advice of the gods 8 ;
and we may safely conjecture that whenever a god was called upon to
witness a solemn promise, he was first enquired of, so that he might have
the option of refusing his assent by giving unfavourable auspices. The
terms of the oath were known as concepta uerba, at least in the
later Republic, and like the other forms of the period they were strictly
construed 4 . Periuriv/m did not mean then, as now, false swearing. It
meant the breach of an oath 5, the commission of any act at
variance with the uerha concepta There is some dispute as to what were the
exact consequences of such a breach. Voigt 7 thinks that it merely
entailed excommunication from religious rites, but Danz 8 is clearly
right in maintaining that its consequences in early times were far more
serious ; 1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36.
90. 8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13. 6 i.e. 8ciem
fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4. 6 Off. in. 29. 108. 7
Ius Nat. in. 229. 8 Ram. RG. n. § 149. they amounted in fact
to complete outlawry. Cicero says that the sacratae leges of the
ancients confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex was one
which declared the transgressor to be sacer (i.e. a victim devoted) to
some particular god 1, and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius
2 and in the XII Tables 8 was the epithet of condem- nation applied
to the undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it seems
highly probable that the breaker of an oath became sacer, and that
his punishment, as CICERONE hints, was usually death. The formula of an
oath given by Polybius 6 is more comprehensive than that given by
Paulus Diaconus, for in it the swearer prays that, if he should
transgress, he may forfeit not onry the religious but also the civil
rights of his countrymen. This shows that the oath-breaker was an
utter outcast; in fact, as the gods could not always execute vengeance in
person, what they did was to withdraw their protection from the
offender and leave him tolhe punishment of his fellow-men. The drawbacks
to this method of contract were the same as those of the old English Law,
which made hanging the penalty for a slight theft ; the penalty was
likely to be out of all proportion to the injury inflicted by a breach of
the promise. So awful indeed was it, that no promise of an ordinary
kind could well be given in such a dangerous form, and consequently
the oath was not available for the 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae.
2 Fest. p. 230, s.u. plorare. 8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9.
22. B in. 25. 6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common
affairs of daily life. The use of the oath therefore disappeared with the
rise of other forms of binding agreement, the severity of whose
remedies was proportionate to the rights which had been violated;
while at the same time the breaking of an oath came to be considered as a
moral, instead of a legal, offence, and by the end of the Republic
entailed nothing more serious than disgrace (dedecus). In one instance
only did the legal force of the oath survive. As late as the days of
Justinian^ the services due to patrons by their freedmen were still
promised under oath 1 . But the penalty for the neglect of those services
had changed with the development of the law. At and before the time
of the XII Tables, the freedman who neglected his patron, like the
patron who injured his freedman 2, no doubt became sacer, and was an
outlaw fleeing for his life, as we are told by DIONISIO. But in
classical times the heavy religious penalty had disappeared, and the
iurisiurandi obligatio was en- forced by a special praetorian action, the
actio operarum*. By the time of Ulpian the effects of the iurata
operarum promissio seem indeed to have been identical with those of the
operarum stipu- latio*, though the forms of the two were still
quite distinct. We may then summarise as follows our
knowledge as to this primitive mode of contract : The form
was a verbal declaration on the part of the promisor, couched in a solemn
and carefully 1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n.
10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10. 1 worded 1
formula (concepta tierba), wherein he called upon the gods {testari
deos)*, to behold his good faith and to punish him for a breach of
it. The sanction was the withdrawal of divine protection, so
that the delinquent was exposed to death at the hand of any man who chose
to slay him. The mode of release, if any, does not appear.
In classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly
anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae
promissae and operae iuratae. Art. 2. Sponsio. Though the
point is contested by high authority, yet it scarcely admits of a
doubt that there existed from very early times another form, known
as sponsio, by which agreements could be made under religious sanction.
This method, as Danz has pointed out, was originally connected with
the preceding one. It was derived from the stern and solemn compact made
under an oath to the gods. But Danz goes too far when he identifies
the two, and states that sponsio was but another name for the sworn
promise 4 . The stages through which the sponsio seems to have passed
tell a different story. The word is closely connected with
airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a pouring out of wine 8,
quite distinct from the con- vivial \ocfirf or libatio 6, so that "
libation " is not its proper equivalent. The other derivation given
by 1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. 2 Plant. Rud. 5. 2. 52. * 46
Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz, p. 106. 8 Festus p. 329 s.u.
spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. p. 464, note o.
Varro 1 and Verrius 2 from sports, the will, whence according to
Girtanner 8 sponsio must have meant a declaration of the will, savours
somewhat too strongly of classical etymology. I. This pouring
out of wine, as Leist 4 has shown, was in the Homeric age a constant
accom- paniment to the conclusion of a sworn compact of alliance
(optcia iriara) between friendly nations. The sacrificial wine seems
originally to have added force to the oath by symbolising the blood
which would be spilt if the gods were insulted by a breach of that
oath. In this then its original form sponsio was nothing more than an
accessory piece of ceremonial. The second stage was brought about by the
omission of the oath and by the use of wine-pouring alone as the
principal ceremony in making less important agreements of a private
nature. In the Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is
customary at betrothals 5, and comparison shows that the marriage
ceremonies of the Romans, in connec- tion with which we find sponsio and
sponsalia applied to the betrothal and sponsa to the bride 6, were
very like those of other Aryan communities 7 . We may therefore
clearly infer that at Rome also there was a time when the pouring out of
wine was a part of the marriage-contract; and thus our derivation of
the word receives independent confirmation. III. In the third
and last stage sponsio meant 1 L. L. vi. 7. 69. 2 Festus, «. u.
spondere. 8 Stip. p. 84. 4 Greco-It. B. G. § 60. 8 Leist, AlUAr. I. Civ.
p. 448. 8 Gell. iv. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. 7 Leist, loc.
ciu nothing more than a particular form of promise,
and it is easy to see how this came about. At first the verbal
promise took its name from the ceremony of wine-pouring which gave to it
binding force ; but in course of time this ceremony was left out as
taken for granted, and then the promise alone, provided words of
style were correctly used, still retained its old uses and its old name.
Sponsio from being a ceremonial act became a form of words. Such
was the final stage of its development. The importance
attached to the use of the words spondesne ?, spondeo in preference to
all others 1 thus becomes clear. Spondesne ? spondeo originally
meant " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do
so promise," just as we say, "I give you my oath,"
when we do not dream of actually taking one. Another peculiarity of
sponsio, noticed though not explained by GAIO 2, was the fact that it
could be used in one exceptional case to make a binding agreement
between Romans and aliens, namely, at the conclusion of a treaty. Gaius
expresses surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice
of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early formalities of an
international compact (op/cia mard), it was natural that the word spondeo
should survive on such occasions, even after the oath and the wine-
pouring had long since vanished. Sponsio being then a religious act
and subse- quently a religious formula, its sanctity was doubtless
protected by the pontiffs with suitable penalties. What these penalties
were we cannot hope to know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94.
though clearly they were the forerunners of the penal sponsio
tertiae partis of the later procedure. Varro 1 informs us that, besides
being used at be- trothals the sponsio was employed in money
(pecu/nia) transactions. If pecunia includes more than money we may
well suppose that cattle and other forms of property, which could be
designated by number and not by weight, were capable of being promised
in this manner. Indeed it is by no means unlikely 2 that nexum was
at one time the proper form for a loan of money by weight, while sponsio
was the proper form for a loan of coined money (pecunia nwmerata).
The making of a sponsio for a sum of money was at all events the
distinguishing feature of the afibio per sponsionem, and though we
cannot now enter upon the disputed history of that action, its
antiquity will hardly be denied. The account here given of the
origin and early history of the sponsio is so different from the
views taken by many excellent authorities that we must examine
their theories in order to see why they appear untenable. One great class
of commentators have held that the sponsio is not a primitive
institu- tion, but was introduced at a date subsequent to the XII
TABVLAE. The adherents of this theory are afraid of admitting the
existence, at so early a period, of a form of contract so convenient and
flexible as the sponsio, and they also attach great weight to the
fact that no mention of sponsio occurs in our fragments of the XII
Tables. While it would doubtless be an anachronism to ascribe to the
early 1 L. L. vi. 7. 70. a Karsten, Stip. p. 42. J sponsio
the actionability and breadth of scope which it had in later times, still
it may very well have been sanctioned by religious law, in ways of
which nothing can be known unless the pontifical Commentaries of Papirius
1 should some day be discovered. As to the silence of the XII Tables on
this subject, we are told by Pomponius that they were intended to
define and reform the law rather than to serve as a comprehensive code 2
. Therefore they may well have passed over a subject like sponsio
which was already regulated by the priesthood. Or, if they did mention
it, their provisions on the subject may have been lost, like the
provisions as to iusiurandum, which' we know of only through a
casual remark of CICERONE’s. 8 . The early date here attributed to
the sponsio cannot therefore be disproved by any such negative
evidence. Let us see how the case stands with regard to the question of
origin. (a) The theory best known in England, owing to its
support by Sir H. Maine, is that sponsio was a simplified form of neocum,
in which the ceremonial had fallen away and the nuncupatio had alone
been left 4 . This explanation is now so utterly obsolete that it
is not worth refuting, especially since Mr Hunter's exhaustive criticism
5 . One fact which in itself is utterly fatal to such a theory is that
the nuncupatio was an assertion requiring no reply 6, i Dion.
in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4. 8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p.
326. 5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n. 24. B. E.
2 whereas the essential thing about the sponsio was a
question coupled with an answer. (6) Voigt follows Girtanner in
maintaining that spondere signified originally " to declare one's
will," and he vaguely ascribes the use of sponsiones in the
making of agreements to an ancient custom existing at Borne as well as in
Latium 1 . He agrees with the view here expressed that the sponsio
was known prior to the XII Tables, but thinks that before the XII
Tables it was neither a contract (which is strictly true if by contract
we mean an agreement enforceable by action), nor an act in the law,
and that its use as a contract began in the fourth century as a result of
Latin influence 2 . In another place 8 he expresses the opinion that its
introduction as a contract was due to legislation, and most probably to
the Lex Silia. The objections to this view are that the etymology is
probably wrong, and that the inference drawn as to the original
meaning of spondere iuvolves us in serious difficulties. An expression of
the will can be made by a formless declaration as well as by a formal
one. And if a formless agreement be a sponsio, as it must be if
sponsio means any declaration of the will, how are we to explain the
formal importance attaching to the use of the particular words "
spon- desne ? spondeo." (3) This view ignores the religious
nature of the sponsio, which I have endeavoured to establish, and (4) it
forgets that sponsio, being part of the marriage ceremonial, one of the
first subjects 1 Rom. RG. i. p. 42. 2 16. p. 43. 8 Ius
Nat. §§ 33-4. to be regulated by the laws of Romulus 1, is
most probably one of the oldest Roman institutions. Again (5), as
Esmarch has observed 2, the legislative origin of the sponsio is a very
rash hypothesis. We only know that the Lex Silia introduced an
improved procedure for matters which were already actionable, and
had a new formal contract been created by such a definite act we should
almost certainly have been informed of this by the classical writers.
(c) Danz also derives sponsio from sports, the will; but he takes
spondere to mean sua sponte iurare, and thinks that the original sponsio
was exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more than an oath
of a particular kind 3 . . His chief argu- ment for this view is to be
found in PAOLO DIACONO, who gives consponsor = coniurator. But why
need we suppose that Paulus meant more than to give a synonym ? in
which case it by no means follows that spondere = iurare. For such a
statement as that we have absolutely no authority. Moreover, as we
saw above, iusiurandum was a one-sided declaration on the part of
the promisor only. How then could the sponsio, consisting as it did of
question and answer, have sprung from such a source ? especially
since the iusiurandum, though no longer armed with a legal
sanction, was still used as late as the days of Plautus alongside of the
sponsio and in complete contrast to it ? Girtanner, in his reply to
the "Sacrale Schutz" of Danz 4, maintains that sponsio had
nothing 1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R.
W. n. 516. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die
Sponsio, p. 4 fif. 2—2 9 to do with
an oath, but was a simple declaration of the individual will, and that
stipulatio had its origin in the respect paid to Fides. This view
however is even less supported by evidence than that of Danz.
Arguing again from analogy Girtanner thinks that, as the Roman people
regulated its affairs by expressing its will publicly in the
Comitia, so we may conjecture that individuals could validly
express their will in private affairs, in other words could make a
binding sponsio. But this, as well as being a wrong analogy, is a
misapprehension of a leading principle of early Law. For, as we have
seen, no agreement resting simply upon the will of the parties (i.e.
pactum) was valid without some outward stamp being affixed to it, in the
shape of approval expressed by the gods or by the people. In the
language of the more modern law, we may say that such approval, tacit or
explicit, religious or secular, was the original causa ciuilis which
dis- tinguished contractus from pactiones. Now a popular vote in
the Comitia bore the stamp of public approval as plainly as did the
nexum. But the sponsio, requiring no witnesses, was clearly not
endorsed by the people ; therefore the endorsement which it needed in
order to become a contractus iuris cvuilis must have been of a religious
nature, and that such was the case appears plainly if we admit that
sponsio originated in a religious cere- monial such as I have
described. To recapitulate the view here given, we may
conclude that sponsio was a primordial institution 1 See
Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291. of the Roman and
Latin peoples, which grew into its later form through three stages, It is
originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of
alliance or of peace made under an oath to the gods. (b) Next it became a
sacrifice used as an appeal to the gods in compacts not made under oath
such as betrothals. Just as iusiurandum for many purposes was
sufficient without the pouring out of wine, so for other purposes sponsio
came to be sufficient without the oath, Lastly it becomes a verbal
formula, expressed in language IMPLYING the accompaniment of a
wine-sacrifice, but at the making of which no sacrifice was ever actually
performed. In this final stage, which continued as late as the days of
Justi- nian, Its form was a question put by the
promisee, and an answer given by the promisor, each using the verb
spondere. Filiam mihi spondesne? Spondeo? Centum dari spondes? Spondeo. Throughout
its history this is a form which Roman citizens alone may use, in which
fact we clearly see religious exclusiveness and a further proof of
religious origin. Why they use question and answer rather than plain
statement is a minor point the origin of which no theory – except
Grice’s-- has yet accounted for. The most plausible conjecture seems to
be that the recapitulation by the promisee was intended to secure
the complete understanding by the promisor of the exact nature of his
promise. Its sanction in the early period of which we are
treating was doubtless imposed by the priests, but owing to our almost
complete ignorance of the pontifical law we cannot tell what that
sanction was. Having now examined the ways in which an
agreement could be made binding under religious sanction, let us see how
binding agreements could be made with the approval of the
community. There is reason to believe that this secular class of
contracts is less ancient than the religious class, because nexum and
mancipium were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and
sponsio are found, as Leist has shown, in other Aryan civilizations.
Nexvm. There is no more disputed subject in the whole history of Roman Law than
the origin and development of this one contract. Yet the facts are
simple, and though we cannot be sure that every detail is accurate, we
have enough information to see clearly what the transaction was like
as a whole. We know that it was a negotium per aes et libram, a
weighing of raw copper or other commodity measured by weight in the
presence of witnesses 2 ; that the commodity so weighed was a loan
8 ; and that default in the repayment of a loan thus made exposed the
borrower to bondage 4 and savage punishment at the hands of the lender.
We know also that it existed as a loan before the XII Tables, for
it is mentioned in them as something quite different from mancipium. To
assert, as Bech- mann does, that since nexum included conveyance
as 1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt. pp. 435-443. 2 Gai.
in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L. 7. 105. 4
Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, E. R. L. § 22. well as loan "
mancipiumque " must therefore be an interpolation into the text of
the XII Tables 1, is an arbitrary and unnecessary conjecture. The
etymology of nexwm, and of mancipium shows that they were distinct
conceptions. Mancipium implies the transfer of mami8, ownership ; nexum
implies the making of a bond (cf. nectere, to bind), the precise
equivalent of obligatio in the later law. It is true that both
nexwm and mancipium required the use of copper and scales, to measure in
one case the price, in the other the amount of the loan. But this
coincidence by no means proves that the two transactions were
identical. A modern deed is used both for leases and for conveyances of
real property, yet that would be a strange argument to prove that a lease
and a conveyance were originally the same thing. Here however we
are met by a difficulty. If, as some hold 8 and as I have tried to prove,
we must regard mancipium as an institution of prehistoric times
distinct from the purely contractual nexwm, how are we to explain the
fact that nexwm is used by Cicero 8 and by other classical writers 4 as
equi- valent to mancipium, or as a general term signifying omne
quod per aes et libram geritur, whether a loan, a will, or a conveyance ?
Now first we must notice the fact that neamm had at any rate not always
been synonymous with mancipium, for if it had been so, there could
have been no doubt in the minds of 1 Kauf f p. 130. * Mommsen,
Hist. 1. 11. p. 162 n. * ad Fam. 7. 30 ; de Or. 3. 40; Top. 5. 28;
Parad. 5. 1. 35. ; pro Mwr. 2. 4 Boethius lib. 3 ad Top. 5.
28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u. nexwm ; Manilim in Varro, L. L. 7.
105. Scaeuola and Varro that a res nexa was the same thing
as a res mamipata. This Scaeuola and Varro both deny, and we must
remember that Mucius Scaeuola was the Papinian of his day. Manilius 1
on the other hand, struck perhaps by the likeness in form of the
obsolete nexum to other still existing negotia per aes et libram, seems
to have made nexum into a generic term for this whole class of
trans- actions. In this he was followed by Gallus Aelius 2 . The
new and wider meaning, given by them to that which was a technical term
at the period of the XII Tables, apparently became general in
literature, partly for the very reason that nexum no longer had an
actual existence, partly because need liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in
matters which had nothing to do with the original nexum, namely in
the release of judgment-debts and of legacies per damnationem*. One
peculiarity men- tioned by Gaius in the release of such legacies
seems altogether fatal to the theory that mandpium was but a species of
the genus nexum. Gaius says that nexi liberatio could be used only for
legacies of things measured by weight. Such things were the sole
objects of the true nexum, whereas res maricipi included land and cattle.
Therefore if mancipiwm were only a species of nexum we should
certainly find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,
but this, as Gaius shows, was not the case. The view that nexum was
the parent gestum per 1 Varro, L. L. vu. 105. a Festus, p. 165, s.
u. nexum. 3 Gai. iii. 173-5. aes et
libram, and that mancipium was the name given later to one particular
form of nexum, is worth examining at some length, because it is
widely accepted 1, and because it fundamentally affects our opinion
concerning the early history of an important contract. Bechmarm 2 thinks
it more reasonable to suppose that nexum narrowed from a general to
a specific conception. But it is scarcely conceivable that nexum
should have had the vague generic meaning of quodcumque per aes et libram
geritur* when it was still a living mode of contract, and the
technical meaning of obligatio per aes et libram when such a contractual
form no longer existed. What seems far more likely is that nexum had
a technical meaning until it ceased to be practised subsequently to
the Lex Poetilia, and that its loose meaning was introduced in the later
Bepublic, partly to denote the binding force of any contract 4,
partly as a convenient expression for any transaction per aes et
libram\ Even in Cicero we find the word nexum used chiefly with a view to
elegance of style 8 in places where mandpatio would have been a
clumsy word and where 7 there could be no doubt as to the real meaning.
But when Cicero is writing history, he uses nexum in its old technical
sense and actually tells us that it had become obsolete 8 . 1
See Bechmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22. 2 .16. p. 181.
•
Varro, I. c. — Festus, *. u. nexum. 4 Cf. "nexu uetu&ti
" in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7. 5 Cic. de
Or. in. 40. 159. 6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5.
28. 7 As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2.
34 and cf. Liu. mi. 28. 1. Rejecting then as
untenable the notion that nexum denoted a variety of transactions, let
us see how it originated. The most obvious way of lending corn or
copper or any other ponderable commodity, was to weigh it out to the
borrower, who would naturally at the same time specify by word of
mouth the terms on which he accepted the loan. In order to make the
transaction binding, an obvious precaution would be to call in
witnesses, or if the transaction took place, as it most likely
would, in the market-place, the mere publicity of the loan would be
enough. Thus it was, we may believe, that a nexurn was originally made.
It was a formless agreement necessarily accompanied by the act of
weighing and made under public super- vision. It dealt only with
commodities which could be measured with the scales and weights, and
did not recognize the distinction between res mancipi and res nee
mancipi, — a strong argument that nescum and mandpium were, as above
said, totally distinct affairs. Its sanction lay in the acts of
violence which the creditor might see fit to commit against the debtor,
if payment was not performed according to the terms of his agreement.
Personal violence was regulated by the XII Tables, in the rules of
manus iniectio, but before that time it is safe to conjecture that any
form of retaliation against the person or property of the debtor was
freely allowed. The fixing of the number of witnesses at five 1,
which we find also in rnancipium, . is the only modification of nexum
that we know of prior to 1 Gai. hi. 174. .
the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change was one of the
reforms of Seruius Tullius, and that the five witnesses, by representing
the five classes of the Servian ceruma, personified the whole
people. This is a mere conjecture, but a very plausible one. For we
are told by Dionysius 8 that Seruius made fifty enactments on the subject
of Contract and Crime, and in another passage of the same author 8,
we find an analogous case of a law which forbade the exposure of a child
except with the approval of five witnesses. But here a question has been
raised as to what the witnesses did. The correct answer, I believe,
is that given by Bechmann 4, who maintains that the witnesses approved
the transaction as a whole, and vouched for its being properly and
fairly performed. Huschke, on the other hand, claims that the
function of the witnesses was to superintend the weighing of the copper,
and that before the intro- duction of coined money some such public
supervision was necessary in order to convert the raw copper into a
lawful medium of exchange 5 . This view is part of Huschke's theory, that
neacum had two marked peculiarities: (1) it was a legal act per-
formed under public authority, and it was the recognised mode of
measuring out copper money by weight. The first part of Huschke's
theory may be accepted without reserve, but the second part seems
quite untenable. We have no evidence to show that nexum was confined to
loans of money or of 1 Akt, i. 22 ff. a iv. 13. » ii. 15.
4 Kauf. Nexum, p. 16 ff. copper. Indeed we gather from a passage of CICERONE
(si veda) that far, corn, may have been the earliest object of
nexum 1, while GAIO (si veda) states that anything measurable by weight
could be dealt with by neari solvtio. No inference in favour of Huschke's
theory may be drawn from the name negotium per cms et libram, for
this phrase obviously dates from the more recent times when the ceremony
had only a formal signifi- cance, and when the aes (ravduscvlum) was
merely struck against the scales. If then we reject the second part
of Huschke's theory, and admit, as we certainly should, that nexum could
deal with any ponderable commodity, it is evident that his whole
view as to the function of the witnesses must collapse also. The very
notion of turning copper from merchandise into legal tender is far too
subtle to have ever occurred to the minds of the early Romans. As
Bechmann 8 rightly remarks, the original object of the State in making
coin was not to create an authorised medium of exchange, but simply
to warrant the weight and fineness of the medium most generally used. The
view of Buschke seems therefore a complete anachronism. There is
also another interpretation of neawm radically different from the one
here advocated, and formerly given by some authorities 4, but which
has few if any supporters among modern jurists. This, view was founded
upon a loosely expressed remark of Varro's in which nexus is defined
as CICERONE (si veda) de Leg. Agr. n. 30. 83. 2 in. 175. 8 Kauf. 4
See Sell, Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in Danz, Rom.
RG. n. 25. a freeman who gives himself into slavery for a debt which
he owes The inference drawn from this remark was that the debtor's body,
not the creditor's money, was the object of nexwm, and that a
debtor who sold himself by mancipium as a pledge for the repayment
of a loan was said to make a nexum. Such a theory does not however
harmonize with the facts. The evidence is entirely opposed to it,
for Varro's statement, as will be seen later on, admits of quite
another meaning. Neither nexum nor mancipium is ever found practised by a man
upon his own person. Nor could nexum have applied to a debtors
person, for the idea of treating a debtor like a res mancipi or like a
thing quod pondere numero constat, is absurd. Again, if nexum =
mancipium, the conveyance of the debtors body as a pledge must have
taken effect as soon as the money was lent, therefore (1) by thus
becoming nexus he must have been in mancipio long before a default could
occur, which is too strange to be believed, and (2) being in
mancipio he must have been capite deminutus*, which Quintilian expressly
states that no nexal debtor ever was 4 . Clearly then mancipium was under
no circumstances a factor in nexum. Thus it would seem that the
theory which regards nexum as a loan of raw copper or other goods
measurable by weight, is the one beset with fewest difficulties. Such
goods correspond pretty nearly to what in the later law were called res
fungibiles. VARRONE
(si veda), L. L. nexum inire, Liu. vn. Paul. Diao. u. deminutus. Decl. The borrower was not required to return the
very same thing, but an equal quantity of the same kind of thing.
And this explains why neanim, the first genuine contract of the Roman
Law, should have received such ample protection. A tool or a beast
of burden could be lent with but little risk, for either could be
easily identified ; but the loan of corn or of metal would have been
attended with very great risk, had not the law been careful to ensure
the publicity of every such transaction. lusiurandum or sponsio
might no doubt have been used for making loans, but they both lacked .
the great advantage of accurate measurement, which neanim owed to
its public character. It was the presence of witnesses which raised
neanim from a formless loan into a contract of loan. This
general sketch of the original neanim is all that can be given with
certainty. The details of the picture cannot be filled in, unless we draw
upon our imagination. We do not know what verbal agreement passed between
the borrower and the lender, though it is fairly certain that
payment of interest on the loan might be made a part of the
contract. We cannot even be quite sure whether the scale-holder
(libripens) was an official, as some have suggested, or a mere
assistant. Our description of the contract may then be briefly
recapitulated as follows: The form consisted of the weighing out
and delivery to the borrower of goods measurable by weight, in the
presence of witnesses, (five in number, probably since the time of Seruius
Tullius), whose attendance ensured the proper performance of the
ceremony. The ownership of the particular goods passed to the borrower,
who was merely bound to return an equal quantity of the same kind of
goods, but the terms of each contract were approximately fixed by a
verbal agreement uttered at the time. The sanction consisted of the
violent measures which the creditor might choose to take against a
defaulting debtor. Before the XII Tables there seems to have been no
limit to the creditor's power of punishment. Any violence against the
debtor was approved by custom and justified by the noto- riety of
the transaction, so that self-help was more easily exercised and probably
more severe in the case of nexum than in that of any other
agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony pre- cisely
similar to that of the nexum itself, the amount of the loan being weighed
and delivered to the lender, in presence of witnesses. We have now
examined three methods by which a binding promise could be made in
the earliest period of the Roman Law. The next question which
confronts us is whether there existed at that time any other method. The
other forms of contract, besides those already described, which are
found existing at the period of the XII Tables, were fiducia, lex
mancipi, uadimonium, and dotis dictio. Did any of these have their origin
before this time ? Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we
shall see, owed its existence to an important provision Gai. in.
174. \.t of that code. As to the origin of uadirnonium, we
cannot be certain, but judging from a passage in Gellius 1 we are almost
forced to the conclusion that uadimonium also was a creation of the
XII Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V
asses et taliones...omnisque ilia XII Tabhlarum antiquitas." We know that twenty-five asses was the fine imposed by the XII
Tables for cutting down another man's tree, therefore it would seem from
the context that uades had also been introduced by that code. The
point cannot be settled, but since the XII Tables were at any rate the
first enactments on the subject of which anything is known, we may
discuss uadimonium in treating of the next period. The only contract of
which the remote antiquity is beyond dispute is the dotis dictio. DOTIS
DICTIO. Dionysius 8 informs us that in the earliest times a dowry was
given with daughters on their marriage, and that if the father
could not afford this expense his clients were bound to contribute. Hence
it is clear not only that dos existed from very early times, but that
custom even in remote antiquity had fenced it about with strict
rules. From Ulpian 8 we know that dos could be bestowed either by dotis
dictio, dotis promissio, or dotis datio. The promissio is a promise by
stipulation, and the datio was the transfer by mancipation or tradition
of the property constituting the dowry ; so that these two are easy to
understand. But dotis dictio is an obscure subject. It is difficult to
know whence it acquired its binding force as a contract, 1
xvi. 10. 8. 2 ii. 10. 8 Reg. since in form it was unlike all other
contracts with which we are acquainted. Its antiquity is evidenced
not only by this peculiarity of form, but 9,lso by a passage in the
Theodosian Code which speaks of dotis dictio as conforming with the
ancient law 1 . An illustration occurs in Terence, where the father
says, "Dos, Pamphile, est decern talenta" and Pamphilus, the
future son-in-law, replies, "Accipio"; but we need not conclude
that the transaction was always formal, for the above Code 8, in
permitting the use of any form, seems rather to be restating the old law
than making a new enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian
4 and by Gaius 5, was that dotis dictio could be validly used only
by the bride, by her father or cognates on the fathers side, or by a
debtor of the bride acting with her authority. Dictio is a significant
word, for Ulpian 6 distinguishes between dictum and promis- sum,
the former, he says, being a mere statement, the latter a binding promise.
This distinction should doubtless be applied in the present case, since
dotis dictio and dotis promissio were clearly different. The
following theories seem to be erroneous : Von Meykow 7 holds that dictio
was adopted as a form of promise instead of sponsio for this family
affair of dos, in order not to hurt the feelings of the bride and of her
kinsmen by appearing to question their bona fides. That theory would be a
plausible explanation, if dictio could ever have meant a 1 C.
Th. 3. 12. 3. 2 And Reg. Epit.Dig. Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.
B. E. 3 promise, but from what Ulpian says, this can hardly be
admitted. (6) Bechmann 1, again, connects dotis dictio with
the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter. The dos, he
thinks, was promised by a sponsio made at the betrothal, so that the
peculiar form known as dotis dictio was originally nothing more than
the specification of a dowry already promised. The dotis dictio
would therefore have been at first a mere pactum adiectum, which was made
actionable in later times, while still preserving its ancient form.
The objection to this theory is tKat it lacks evidence : indeed the only
passage (that of Terence) in which dotis dictio is presented to us with a
context goes to show that this contract was in no way connected
with the act of betrothal. (c) Another explanation is given by
Czylharz, ie. that dotis dictio was a formal contract. His view is
based on the scholia attached to the passage of Terence, which say of the
bridegroom's answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non
esset." Czylharz therefore looks upon the contract as an
inverted stipulation. The offer of a promise was made by the promisor,
and when accepted by the promisee became a contract. Though such a
process is quite in harmony with modern notions of Contract, it
would have been a complete anomaly at Rome. And we cannot believe that,
if acceptance by the promisee had been a necessary part of the
dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he
has been so careful to impress Rom. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. a Z.f. R.
G. vn. 243. upon us that the dotis dictio could be made nulla
interrogatione praecedente. Thus the view of Czylharz besides being in
itself improbable is almost entirely unsupported by evidence. Even
the scholiast on Terence need not necessarily mean that ‘accipio’ is
an indispensable part of the transaction. He may merely have meant that the
bride- groom at this juncture could decline the proffered dos if he
chose, and this interpretation is borne out by Iulianus 1 and Marcellus 8,
who give formulae of dotis dictio without any words of acceptance. A
satisfactory solution of the problem seems to have been found by Danz. He
looks upon dos as having been due from the father or male
ascendants of the bride as an officium pietatis 4, and quotes passages
from the classical writers in which they speak of refusing to dower a
sister or a daughter as a most shameful thing 5 . The source of the
obligation lay in this relationship to the bride, not in any binding
effect of the dotis dictio itself. But in order that the obligation
might be actionable its amount had to be fixed, and this was just
what the dictio accomplished. It was an acknowledgment of the debt which
custom had decreed that the bride's family must pay to the
bridegroom. In this respect the dos was precisely analogous to the debt
of service which a freedman owed as an offidum to his patron, and which
he acknowledged by the iurata operarumpromissio. The dos and the
operae were both officio, pietatis, but 1 23 Dig. 3. 44. 2 23 Dig.
3. 59. 3 Rom. RO. I. 163.Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin.; Oic. Quint. it became
customary to specify their nature and their quantity. In the one case
this was done by an oath, in the other by a simple declaration, and
in both cases the law gave an action to protect these anomalous
forms of agreement. What kind of action could be brought on a dotis
dictio is not known. Voigt 1 states it to have been an actio dictae
dotis, for which he even gives the formula, but formula and action are
alike purely conjectural. We can only infer that the dotis dictio was
action- able since it constituted a valid contract. How or when
this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz' theory, and
one not mentioned by him, is that it explains the capacity of the
three classes of persons by whom alone dotis dictio could be performed.
(1) The father and male ascendants of the bride were bound to provide a
dos under penalty of ignominia; the bride, if sui iuris, was bound
to contribute to the support of her husband's household for exactly the
same reason; and a debtor of the bride was bound to carry out her
orders with respect to her assets in his possession, and supposing her whole
fortune to have con- sisted of a debt due to her, it is evident
that a dotis dictio by the debtor was the only way in which this
fortune could be settled as a dos at all. Thus the hypothesis that the
dos was a debt morally due from the father of the bride, or from
the bride herself, whenever a marriage took place, completely explains
the curious limitation with 1 XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 8
CICERONE (si veda), Top. FORM OF D0TI8 DICTIO. 37 regard to the
parties who could perform dotis dictio. The nature of the transaction may
then be summarized as follows : Its form was an oral
declaration on the part of the bride's father or male cognates, of
the bride herself, or of a debtor of the bride, setting forth the
nature and amount of the property which he or she meant to bestow as
dowry, and spoken in the presence of the bridegroom. Land as well
as moveables could be settled in this manner No particular formula is
necessary. The bridegroom might, if he liked, express himself satisfied
with the dos so specified ; but his acceptance does not seem to
have been an essential feature of the proceeding. Most probably he did
not have to speak at all. Its sanction does not appear, though we
may be sure that there was some action to compel perform- ance of
the promise. This action, whatever it may have been, could of course be
brought by the bride's husband against the maker of the dotis
dictio. Perhaps in the earliest times the sanction was a purely
religious one. Art. 6. Now that we have seen the various ways
in which a binding contract could be made in the earliest period of Roman
history, we may con- sider briefly the general characteristics of that
primi- tive contractual system. The first striking point is that
all the contracts hitherto mentioned are unilateral: the promisor alone
was bound, and he was not entitled, in virtue of the contract,
to any counterperformance on the part of the promisee. Gai. Ep. The
second point is that the consent of the parties was not sufficient to
bind them. Over and above that consent the agreement between them
was required to bear the stamp of popular or divine approval. Even
in dotis dictio, as we have just seen, a simple declaration uttered by
the promisor was invested with the force of a contract merely
because the substance of that declaration was a transfer of
property approved and required by public opinion. Thirdly we notice that
the intention of the con- tracting parties was verbally expressed, but
that the language employed was not originally of any impor- tance
(except in the one case of sponsio), provided the intention was clearly
conveyed. We must therefore modify the statement so commonly made that
the earliest known contracts were couched in a particular form of
words. For how did each of these particular forms originate and acquire
the shape in which we afterwards find it ? By having long been
used to express agreements which were binding though their language
was informal, and by having thus gradually obtained a technical
significance. Conse- quently the formal stage was not the earliest
stage of Contract. The most primitive contract of all was not an
agreement clothed with a form, but an agree- ment clothed with the
approval of Church or State. Nicola Codronchi. Keywords: Su i contratti
e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico,
contratto empirico, contratto misto, concordato puo essere informale o formale.
tre tipi di concordi formali nell’eta regale, il giuramento per giove, il
sponsio (il vino come simbolo del sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento
per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi in natura. Solo il ‘nesso’ e secular
– e chiede o necessita la presenza della comunita come testificatore – e una
forma tipicamente romana e consequentemente piu tard ache le forme religiose
che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si manifesta nel templo publico –
ara maxima per Ercole – e invoca la regola del primo re Romolo, contratti
bilaterali, forma dialogica, A esprime la proposizione e B risponde assentendo
alla comprehension e all’accettazione di p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Codronchi” – The Swimming-Pool Library. Codronchi.
Grie e Colazza: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – scuola di
Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into
‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much
different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito
agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle
dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro
con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di
concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la
«via del pensiero cosciente». Altre
opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni
Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur. A strong anthroposophical influence came from C.
and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group,
which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute
spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si
protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA
DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu
consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da
tenere sempre presente come guida.
L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo
dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti
estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui
siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere
alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare
che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso,
che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile,
se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la
pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente
quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi. Si dice che è importantissimo cominciare
sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto
di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti
i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo
gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi.
Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla,
visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente
tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra
cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare
e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di
natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie
nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una
diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo
prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio
dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere di
qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo
fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna
sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e
sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL
TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti
dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il
sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine
percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è
un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il riconoscere
in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione
con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un
seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre
interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme,
sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi.
Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è
in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale
manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di
crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione:
radice, fusto, fogliame, fiori, frutto.
Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa
manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente
delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva
è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo
vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e
percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad
esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita,
dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà
in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di
piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la
vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare
una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa
immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme,
realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella
sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il
modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo
di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo
contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un
evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti
di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi
quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale
sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare
obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno
diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da
evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso
immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una
specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita,
distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del
mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un
naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono
l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa
paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente
spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare,
come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce
solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI.
Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità
del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso
particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose:
si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se
si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo,
casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi
antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La
mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo
fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico,
avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate
come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema
osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli
come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale
moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza
sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema
circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro
del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si
percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema
nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la
percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi
interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come “attaccati”
al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo
esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto,
odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare
la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere
cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un
organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia
delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci
permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente
dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi,
per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su
ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero
serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa
viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso,
rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi
dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza
di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere
con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di
non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche.
Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa
assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il
buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve
significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto
ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione
luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi
senza risultati nella disciplina. La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza
rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi
un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi
riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento,
in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste
condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista,
trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori.
Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via
giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano
purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza,
a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva,
l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di
avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva,
paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla
collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza
del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé:
dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei
rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una
barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio:
positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto
dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in
mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il
manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera
così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia:
si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre
chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e
se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale
libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE
ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre
chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da
purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute
del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del
discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o
di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con
chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a
tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui
partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi
un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di
separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente
ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire
un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli
altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti
hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del
pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche
operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante
ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo
nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi
dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il
corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un
arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il
rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è
mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o
fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o
di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e
allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e
che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri
fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare
l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la
vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti
condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo
che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra
descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per
porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa
perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o
ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre
pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie
terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti
orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico
stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da
innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale.
Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo
fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale
si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene
grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a
due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che
appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni
di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”,
sul capo. In un lontano passato, i fiori
di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente
solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano,
cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici
(cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta
sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della
preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta
principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso
delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale
centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri
Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto,
ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più
fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare
l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un
discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento; ogni gesto e atto deve essere sempre in piena
coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare
concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la
giustezza delle proprie aspirazioni; imparare
ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare
tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non
ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL
LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle
“forme”. Come gli altri, anche questo
centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono
sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un
oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così
dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in
modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire
correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e
correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo
delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli
istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in
modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi
inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della
Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre
a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le
determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei
motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori
altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre
far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli
o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica
dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che
ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose
da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità,
equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere
le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina
certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un
buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente
importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con
un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici
PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri
le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della
testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono
congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di
rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un
centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore
condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto
stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà
venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di
concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella
testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione.
RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il
vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi
fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA
INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie
di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per
qualche cosa. E’ relativamente facile
contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però
realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella
vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo
l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo
può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente.
L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è
di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di
sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o
di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui
generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate.
Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di
fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego. Si ha la percezione che tutto che era la
nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro
dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo
astrale. Il praticare esercizi in modo
non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida
base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme
ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e
anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al
risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare
nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante
la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di
sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà
portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la
stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione
indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione,
meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in
meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno
senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero
scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza.
Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere
degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza.
LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il
discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione
delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi
spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare:
divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e
indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel
proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può
sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un
estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del
Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il
mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E
L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in
modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve
distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui. Il fatto di poter dominare le reazioni e i
sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché
le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si
deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al
discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo
spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà
prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di
moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma
per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi
superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali.
Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno
a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato
pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano
della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi
direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo
eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si
avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente
visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano
diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si
era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro
essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti
interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si
presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima
esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al
cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi
raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità
nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie
limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo
essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento
inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO.
Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai
potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando
per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria
figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo
all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il
nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le
cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare
in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la
responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a
questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento
del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni
mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion
di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura. Il coraggio di affrontare il guardiano è
contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie
mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore,
rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore
resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile
e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in
modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere
figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento
dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel
nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto
la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi.
Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere
liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per
prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si
comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si
sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE
GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel
quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che
condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel
quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il
riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che
ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere
nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno
la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a
quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale,
viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo
spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai” a
Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente.
Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza
e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno
incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo
sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento
spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni
pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo
quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori
e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé
la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la
soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza
fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio
karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano
si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al
godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale
tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giardino
di Maturità, chiamano certi antichi saggi il luogo, in cui pone
piede l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo
quei saggi in quel giardino non ci sarebbe fiore, che non recasse il suo
frutto, non uovo, che non portasse .a maturità la vita in esso
germinante. Ma come oscure e- pericolose vengono al tempo stesso
descritte le vie che menano alla «= Porta Stretta », la quale appunto
chiude quel giardino. Si assicura, però, che quell'oscurità diviene più chiara
del sole e che quei pericoli non hanno potere contro le forze di
cui ferve l'anima di colui, al quale queste vie sono mostrate con
provvida mano da un “mistico” da un “niziato.” Tutto ciò come puerile
concezione di un' epoca, in cui nulla si sapeva delle scienze dei giorni
nostri, viene ripudiato dall’ i/luminato, che crede di saper distinguere
fra i vaneggiamenti di una fantasia brancolante e le
ponderate vedute d'un intelletto “ scier- “i So ca | oggi
tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di coteste
concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti dei È,
suoi contemporanei un sorriso, se. non di di : ll sprezzo, per lo meno di
compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono I
alcuni che, come quegli antichi saggi, parMAS lano del « rondo dell'anima, e
della “ pa“N Cuina 7a dello spirito ». Costoro vengono riputati | fe AMA
ì È 3 | persone che parlano di un mondo immagifa nario, figurato loro
soltanto dalla propria » Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che
essi, LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto i tanto grandiosi
risultati, grazie alla pura e i, now austera logica, vadano brancolando
come ebbranco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno la li
sicurezza, perchè non si attengono a ciò È che esiste “ positivamente,,.Ora,
che cosa dicono questi edbri stessi i a codesti contradittori ? Quando si
sentono f arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito il
diritto di parlare di sè, allora dalle loro È labbra si odono
uscire le parole seguenti : È “ Noi comprendiamo benissimo voi,
‘che dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo che molti di voi
sono persone da bene, che senza riserva si pongono al servizio del
Vero e del Buono; ma sappiamo altresì che Bee a), jr er => voi
non ci potete capire, fin tanto che pensate come appunto pensate. Sulle cose,
delle quali noi abbiamo da ragionare, potremo diiscorrere con voî,
soltanto quando vi sarete presi voi stessi la pena di apprendere il linguaggio
nostro. Dopo questa nostra dichiarazione molti di voi, certo, non
vorranno più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno di aver
riconosciuto che al farneticamento della nostra fantasia si accoppia in
noi anche un immedicabile orgoglio. Noi però comprendiamo voi anche in
siffatta affermazione e sappiamo al tempo stesso che dobbiamo essere non
già superbi, ma modesti. Per incitarvi a tentare di entrare nel nostro
ordine di idee non ci resta che una cosa da dire: Credeteci, noi non
riconosciamo un vero diritto di parlare delle nostre conoscenze se non a colui,
il quale sia capace di sentire con voi ciò che vi costringe alle vostre
asserzioni, e che conosca a fondo la forza, la potenza convincente e la
portata della vostra scienza. Colui che non reca in sè la sicura
consapevolezza di poter pensare ponderatamente, scientifica mente,
come l’ astronomo o il botanico 0 lo zoologo più obbiettivo, costui in
fatto di vita spirituale, di conoscenze mistiche do9 e =
e Re vrebbe contentarsi di apprendere, e non già volere
insegnare. Ma non ci si frain‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti, non
di studiosi, Studioso di misticismo può: divenire chiunque, giacchè nell’ anima
di ogni persona si trovano le facoltà, i poteri presaghi,
che si schiudono al ‘Vero. Il Mistico dovrebbe parlare in modo comprensibile,
anche pei più indotti; e a coloro, ai quali, secondo il grado del loro
intendimento, egli non potrebbe dire un centesimo della verità, ne
dirà ‘solo un millesimo. Costoro oggi riconoscono questa millesima parte
; domani riconosceranno la centesima. Tutti possono essere “
sfudiosi,, ma “ insegnante,, non dovrebbe voler diventare nessuno,
che sia incapace di assoggettarsi alla disciplina del più austero
intelletto e della scienza' più severa. Sono veri insegnanti di
misticismo soltanto coloro che sono stati precedentemente rigidi cultori
della scienza, e che sanno perciò che cosa viga nella scienza.
Anche il vero mistico ritiene visionario, inebriato, chiunque non
sia capace di deporre in qualunque momento il solenne paludamento del
mistico per indossare la modesta tunica del fisico, del chimico, del
botanico “e dello zoologo », sitori ;' con la massima modestia
li assicura ‘che intende il loro linguaggio e che non si
arrogherebbe il diritto di essere un mistico, se si sapesse ignaro del
loro linguaggio. Allora, però, egli può anche aggiungere di saf |pere, e di
saperlo come si sanno i fatti della Ù vita esteriore, che, qualora i suoi
Opposi® \tori imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi
oppositori. Egli sa que sto come chiunque, il quale abbia studiato
chimica, sa che, date certe condizioni, dall'ossigeno e dall' idrogeno si forma
l' acqua. Che Platone non volesse ammettere ai gradi
superiori della sapienza nessuno che > mon conoscesse la
geometria, non significa «già che egli facesse suoi alunni soltanto i
li Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppoA 9
U L dotti in geometria, ma significa che quei suoi
alunni dovevano essersi educati alla severa, rigida, ed esatta investigazione,
prima che venissero loro schiusi gli arcani della vita spirituale.
Una tale esigenza ci appari sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo
che nelle regioni trascendentali viene meno l'elemento di fatto, a cui si
saggia e corregge ad ogni piè sospinto l' investigazione ordinaria del
mondo. Se il botanico si forma “concetti erronei, subito i suoi sensi lo
illu n conci Da (UR IZA minano circa il suo
errore. Tra lui e il mistico corre il rapporto stesso che intercede fra
chi cammina su strada piana e chi ascende una montagna: il primo può
cadere a terra, ma solo in casi eccezionali potrà causarsi la morte
; all’ altro, invece, questo pericolo sta sempre dinanzi, E certamente
nessuno che non abbia imparato a camminare può ascendere una
montagna. Poichè ; fatti spirituali non correggono i concetti allo stesso
modo che li correggono i fatti del mondo esteriore, un pensare
rigorosissimo e degno della massima attendibilità è un ovvio presupposto
per l'investigatore mistico. Quando ci si dà tutti a pensieri
siffatti, si riconosce che cosa intendevano dire quegli antichi saggi,
allorchè parlavano dei pericoli che minacciano chi voglia penetrare negli
arcani del mondo. Se alcuno si appressa a questi arcani con mente indisciplinata,
essi determinano nella sua anima deplorevoli disordini. Divengono pericolosi
come una bomba di dinamite nelle mani di un fanciullo. Perciò da
ogni investigatore mistico si esige rigorosamente che la normalità del suo
pensare, di tutta, anzi, la sua vita psichica, abbia saggiato le proprie
forze SE E attorno a problemi gravi e spinosi, prima
che egli si appressi ai compiti più elevati. Valga ciò come accenno a
quel che il mistico intenda dire, quando parla dei primi gradi della
Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di starsi SUI
Mrfica| più alti gradi della cultura moderna, stimano che sano pensare e
misticismo siano due termini incolta sano che una illuminata
educazione scientifica debba estirpare dall'individuo qualunque |
tendenza mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali tendenze
chi conosca gli impor» tantissimi risultati della moderna scienza na|
turale. Se avesse ragione chi la pensa così, | si dovrebbe allora, certo,
concedere che la Mistica non abbia nel nostro tempo se non |
piccola probabilità di trovare accesso alle anime dei nostri
contemporanei; giacchè nes«suno, il quale abbia intendimento dei bisogni
spirituali di questa nostra età, può dubitare che siano pienamente giustificati
i trionfi della scienza naturale già conseguiti. e ancora da
conseguire in avvenire. Biso- vi MER Na bilmefite antitetici.
Essi pen- K pate ticolar modo incomprensibile che abbia an)
"fi LI Peli so Naturalistici
itreprimibili do u + Con una certa tr ‘ zione cotesti
insoddisfatti <j O Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui
le” oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino Copiosa vena IÒ, di
cui il loro Cuore ha bj. Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale!
Si In contatto con e Sa costoro sentono | Propria Crescere; ivi tr
aNo ciò che ] uomo | eve incessanternente ce vino! D’
rcare: l’ali Ta parte, Però, essi sj Petere ;l ito diate
a monito: « Bj ‘formarvi, mediante Ja cie rale,
un pen | non vj chiappanuvole vai monito,
l’anima loro sj inaridisce, econdita, . tò, in fondo all’ an
ogni individuo Verità, e i che grande maestra dell’uomo è
la ] mande AIR Chi potrebbe non
dare, per intimo consenso, ragione al Goethe, allorchè dice che
dagli errori e dalle disarmonie degli uomini egli si ritira sempre
con rinnovato contento, rivolgendosi alle eterne necessità della natura? E chi
potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le
quali il grande poeta descrive i sentimenti che lo
assalirono in una solitaria meditazione sulle ferree leggi, secondo le
quali la natura forma le montagne? Seduto su di un’ alta e
nuda vetta, e spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione,
io posso dirmi: “ qui tu poggi immediatamente su di un suolo, che
‘arriva fin giù ai più profondi strati della terra.
In_questo istante, in cui le eterne forze di attrazione e di movimento
della terra quasi direttamente agiscono su di me, in cui più
presso a me aliano e mi avvolgono gli influssi del cielo, vengo
come sospinto a drizzare l'animo mio a studi più alti sulla
natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa cima nuda volgo lo
sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia schiudere l'anima
propria unicamente ai più primordiali, più antichi e più profondi sentimenti
del vero. Sì, egli può dire a se stesso: SONG). pe
Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, immediatamente eretto sul punto più
basso della creazione, offro sacrifizio all'Essere di tutti gli
esseri. E' pur naturale che questa disposizione d'animo, per cui si resta
reverenti dinanzi alla grande istruttrice Natura, si trasferisca
sulla scienza ‘che ne discorre. Non deve esistere antinomia fra i
sentimenti che pervadono l'anima, quando essa si approssima alle “
austere e profondissime verità primordiali, circa la vita
spirituale, e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si posa
sull'attività costruttrice della natura. Manca forse intelletto al
mistico per cotesta armonia della natura coi sentimenti più sacri
all'anima umana? Tutt'altro; giacchè al di sopra dell’altare, sul quale
il vero mistico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può
spingersi l'indagine umana, stette scritto a lettere di fuoco fiammante,
come legge. suprema: Natura è la grande guida al divino, e la
conscia ricerca umana delle fonti del Vero deve seguire le orme
della sua recondita, volontà. Se i Mistici seguono questa loro
norma suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussistere fra le vie loro e
quelle su cui camminano gli investigatori della Natura. E tanto
meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in un'epoca, che
tanto deve alla scienza naturale. Per intendere bene quest’ ordine
di de occorre domandarci: “ In che, dune ue consistere l’ accordo
fra la Scienza*fi Lie e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,
aversi un'antitesi? Ebbene, l'accordo non può venir cercato | se non nel
fatto che le rappresentazioni che ci facciamo intorno alla entità
dell’ uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in| torno agli altri
esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e nella
vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di “ ordine retto da leggi,.
L Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si volesse vedere nell’uomo un
essere di specie "completamente diversa dalle creature naturali.
Coloro che vogliono un' antitesi in tal senso si sbigottirono fortemente
quando, più di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley,
informandosi allo spirito stesso della scienza naturale moderna, sulla base
della somipigliante struttura anatomica, concluse la stretta parentela
fra l’uomo e gli animali supeori con queste parole: “ Possiamo prendere in
esame un sistema di organi qualsiasi; l'esame comparativo di essi nella
serie delle scimie ci conduce sempre a questo me- È desimo
risultato: che le diversità anatomiche, per le quali l’uomo è distinto dal gorilla
e dallo scimpanzè, non sono tanto grandi quanto quelle che separano il
gorilla dalle altre scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però,
sbigottire solamente quando la si riferisca in modo errato all’
essezza dell'uomo. Certo ne può. facilmente rampollare il pensiero: “ Ma
come è vicino, dunque, l’uomo alle bestie |, Questa stretta affinità non
suscita però nel mistico nessuna preoccupazione, giacchè per lui ne balza
subito anche l' altro pensiero: | “A quali fini superiori, però, possono
ser\vire gli organi che ritrovansi nelle bestie, allorchè sono
trasformati in organi umani! Il mistico sa che l'occulta volontà della natura
muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra
forma gli-organi animali. Egli segue le sicure orme della natura e
ne continua l'operato. Per lui i l'opera della natura non è punto
terminata con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene un fido
discepolo della natura per il fatto appunto di portarne l’opera a
maggiore al 1 toi tezza. La natura lo ha portato fino
al pensare e al sentire umano; egli, però, non prende questo pensare e
questo sentire come qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende
capaci di attività superiori. Avviene per opera della sua volontà ciò,
che nell'ambiente naturale esteriore avviene indipendentemente da essa.
Gli occhi, come sono ora in lui, attestano che gli organi visivi sono
capaci di ben altro ufficio di quello che compiono «® ©» nelle
scimie. Così l’ occhio può venir trastormato. Le facoltà psichiche del
mistico evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto,
nello stesso rapporto in cui sono gli occhi umani rispetto a quelli
delle scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende tende
l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel misura, in cui l’animale
può intendere il, mote pensare dell’uomo. E come alla creatura non
pensante si schiuderebbe tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè
la facoltà del pensare, così il mistico, dopo lo sviluppo delle sue
facoltà superiori acquista la visione di un altro mondo. In questo “
altro mondo,, egli è “ iniziato,. Chi_non di- Re »Yiene Mistico
rinnega la natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha prodotto
senza di lui con la propria volontà occulta. Per di mati
Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI | Peg) AM e? lug las }
"El n fe fest NL Los ; mid : ni gd ed deli è y villa mM ni
collo i fiat 1a CA di (ANI it pece iò egli si pone in contrasto con
la natura, «giacchè questa trasmuta continuamente le
proprie forme: dal vecchio essa crea eterna mente il nuovo. Ora,
chi, conformemente %@. alla moderna scienza naturale, crede a que sta
trasmutazione, crede a questa evoluzione n) e, ciò nonostante, non
vuole trasmutare se esso, costui riconosce, sì, la natura, ma
A; nella sua propria vita si pone in contradi &l-zione con essa.
Non si deve soltanto ricenoscere l'evoluzione, si seno ivato Non si
limitino, dunque, le facoltà della nostra vita ;, col tener
conto esclusivamente della nostra ‘ parentela con gli altri esseri.
A chi per edu cazione mistica diviene un fido alunno della
natura, si schiude il senso per la superiore evoluzione.
A proposito di questi cenni sulla Mistica e sulla /riziazione
molti diranno: Ma che ci giova questo discorrere di facoltà a
noi sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre deremo !,.
Nessuno, però, può dare a un altro cosa che questi rifiuti. E il
più delle volte ciò che incontrano i nostri mistici è .
un brusco rifiuto. Al presente essi non pos sono fare. molto .di più che
raccontare le loro cognizioni mistiche a quelli che vo gliono
prestare ascolto. Ciò, naturalmente n nt x IE RAIPAT cn
potima tl C j Pa ENTI OT le ero
Art 1 er? che, I,, a . = ì” \ wr / a) i e. e 7
pederntdt hern ci tCAns4- 1 È à a tutta prima un
volersela cavare col RE ce raccontare che cosa c'è in America a chi
ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci!,,. Ma pare, non è realmente una
scappatoja, perchè i processi dello spirito sono diversi da. quelli
fisici Molto tempo prima che l'uomo sia in grado di fissare la verità
im piena luce, egli ha la possibilità di intravederla, e di accoglierla
nel suo sentimento. E questo sentimento stesso è una forza, che lo
può condurre più avanti. E' questa una fase per cui è necessario passare
Chi segue con ricettivo abbandono la narrazione del Mistico, già
calca il sentiero che mena alle verità superiori. Solo l'
Iniziatof'comprende completamente l’Iniziato: ma angie per vero
rende anche il non iniZiato ricettivo alle parole del Mistico. E questa
sua ricettività è strumento con. cui egli lavora a schiudere i propri organi
mistici. Ciò che prima-, mente occorre è che si abbia questo senso
| della possibilità di conoscenze superiori: al- | lorà not si
passa più incurantemente accanto alle persone che di queste conoscenze
superiori tengono parola. E' stato già detto che anche al
presente ci sono persone che si adoperano a rinnovare la vita
mistica. Up irene Kona diteou@ crt u pe
ud) fasi cl fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale
tri rautwews i E Qui vi voglio intrattenere di due
esempi di tal genere, cioè del libro “ // Cristianesimo esoterico, (o i
Misteri minori),,, di Annie Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati »
el geniale pensatore e poeta francese Edoardo Schuré (2). Ambedue
queste opere gettano luce sulla natura della così detta
Iniziazione. Annie Besant, mostra come il Cristianesimo debba
venire compreso quale risultato di codesta Iniziazione. Edoardo Schuré
tratteggia le figure dei massimi duci spirituali della umanità,
fondandosi sulla convinzione che le grandi confessioni religiose e le
grandi filosofie cosmologiche da quei duci dispen sate all'umanità,
celano verità eferne, che si possono cercare e re soltanto in
quelle dottrine filosofiche e religiose. Ambedue queste opere trovano la
propria giustificazione unicamente nel campo del Misticismo. Esse
traggono la loro origine da quella corrente spirituale dei tempi
nostri, che è destinata ad elevare l'umanità da un incivilimento
puramente esteriore all'altezza Traduzione Italiana di D. e O. Calvari,
Roma, 1904, (2) Traduzione Italiana edita da G. Laterza,
Bari, suh Tor ella Vea dii Conti | RA fOdeth4, nu pori?
IU) di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il “pensiero
scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente.
La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito
col.negarlo, e che | non si contr lle leogi naturali col_cerre Treo © x
iii dpi uelle spirituali. Non si designeranno iù i Mistici come
oscurantisti, giacchè si saprà che soltanto pei loro avversari il
campo di cui essi ragionano è oscuro. E non s'irriderà più l'
Iniziazione, come i non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla
2 gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94
imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta L'indagine
implica la necessità di adem- ' 3 piere a certe condizioni
preliminari. Queste P** ic; condizioni per l'aspirante mistico non
consistono, naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo esteriore, bensì
na osservanza di un determinato orientamento della..vita si- È ‘
chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe verità, le
quali non contemplano ciò che è FARA, ma ciò, di, A cui, secondo le
parole de Goethe “ ib.tran-\ itori v Bi n_simbolo ». In_s sid | oe
alla esistenza umana giacciono capacità,su- | CRA i GIONO CA
\periori, come il frutto giace.in grembo al fiore. E perciò nessuna
creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia UT E E I ipa ln
Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P even ord
LISI (NE presumere di dire che “ nel suo mondo vi i è
qualche cosa di esauriente, di compiuto ». Il Se un uonio ha tanta
presunzione, assomii glia al verme che ritiene_come orizzonte i | della
esistenza il mondo dei suoi sensi. Li Giardino di maturità »
Chiamasi quel IR luogo, dove divengono palesi gli arcani del mondo.
Per accedere a tal luogo bisogna tI che l’individuo stesso. tenda la sua
volontà AU x al raggiungimento della propria maturità. Ù"
qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da te È, È quse: Vle 1 gusci
del tuo essere quotidiano, e svegli | see $ ÎN te la vita
intima nascosta, se vuoi enn trare per la Porta stretta Nel “ Giardino È di maturità,. TAR
Come molti uomini insigni, anche il p Goethe espresse numerose verità
dalla profonda vena del suo intuito, enunciandole non già in diffusi e
circostanziati discorsi, bensì in brevi e spesso enigmatici
accenni. sr Uno di tali accenni è in questo periodo: dg “ Nelle
opere dell’ uomo, come in quelle n e della Natura, sono le intenzioni,
che meri / tano specialmente la nostra attenzione,,. E' questo
un aforisma che verrà compreso in tutta Ia sua profondità quando lo Î si
applichi ai più importanti fenomeni della vita spirituale umana. Giacchè,
come possiamo acquistarci senso e comprensione per le azioni di un
singolo individuo soltanto quando ne veniamo a conoscere le_intenzioni,
così ci accade anche per la storia dell'intiero genere umano. Ma che abisso
intercede fra l' osservazione degli atti che si svolgono palesemente alla
luce del giorno, e il riconoscimento delle intenzioni che giacciono nelle
regioni occulte dell'anima! Si può essere addirittura rudimentali quanto
a intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere
tuttavia capaci di osser varne le azioni; ma bisognerà avere almeno
un po' delle sue qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si
vuole penetrarne le intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo
! agire rimane un arcano, un enigma, alla cui soluzione ci manca la
chiave, Non accade diversamente con i grandi fatti della storia
spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son lì aperti davanti agli
occhi dello storico; ma le intenzioni giacciono in profondità molto
recondite. In queste profondità deve penefrare colui, che vuol procurarsi la
chiave per la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’azione giacerà
tanto più profondamente recondita, quanto più questa azione avrà importanza e
quanto più ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della
vita quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma non può essere
così, naturalmente, di azioni, la cui portata abbraccia una serie di
secoli. Chi a ciò pon mente giunge a presentire che cosa siano i
Misteri: giacchè in cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei
grandi fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il mondo intero
nella loro portata. E coloro che conoscono queste intenzioni e
posseno con ciò conferire alle proprie azioni stesse \ quel peso
che le rende realmente efficaci per lunga serie di secoli, sono gli
/niziati. Solo chi nella storia del mondo scorge unicamente una
mèra successione di casi fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri
e degli Iniziati. In tal caso non c'è che da attendere che un uomo
siffatto si ponga un bel giorno a studiare con occhio amorevole i
fatti della storia. Allora un po’ per volta albeggerà al suo sguardo un
significato, un nesso, ed egli finirà per non più considerare Tortuiti
quei fatti storici, come non considera automa un individuo che veda muoversi ed
agire. Giungerà così nella sua investigazione là, donde gli Iniziati
dirigono il progresso umano, secondo le conoscenze the sono avvolte
nell'ombra dei Misteri. AA vila AATZzat fer, i 40 dad x x £
> it hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri
parlano i testi religiosi di tutti i tempi. E ad essi vengono
condotti coloro, che non si fermano alla vita estrinseca dei fondatori
delle varie religioni, nè alle vicende storiche del propagamento
delle loro dottrine; ma che, invece, cercano di elevarsi_alle
intenzioni di quei fondatori di | religioni. Non dovrebbe eccitare
stupore il fatto che queste intenzioni rimangano avvolte in arcana
oscurità e vengano comunicate soltanto a degli eletti entro le scuole di
sapienza, che sono appunto i Misteri; giacchè si fa opera saggia solo
quando a un individuo si comunica ciò che egli può capire, o, con
altre parole, quando gli si comunica qualcosa, soltanto quando egli
si sia messo in condizione di capirla. Per compiere azioni che abbiano
peso e valore occorre possedere un’alta sapienza, e per appropriarsi un'alta
sapienza bisogna passare per un periodo lungo e arduo di preparazione.
Così avviene nei Misteri. L’ evoluzione spirituale dell'umanità procede
innanzi per opera delle varie religioni e cosmologie. Chi coopera a
questa evoluzione mette in movimento le forze spirituali degli uomini.
Bisogna che egli conosca le leggi da cui dipende questo movimento,
DE: pri come deve conoscere le leggi della chimica chi
vuol mescolare le sostanze con effettuale risultato. Néi Misteri vengono
insegnate le . leggi supreme della vita spirituale; viene insegnata la
chimica dell'anima. E bisogna cercare di penetrare nella natura di
queste leggi, se si vogliono sorprendere, o anche solo
presentire, i moventi che stanno alla i A base delle azioni dei grandi
Istruttori della umanità. All'unisono con tutti coloro che
cercano di schiudersi per tale visione gli occhi spi rituali,
Annie Besant parla nel suo libro « 7/ Cristianesimo esoterico, (0 I
Misteri mino ré) », di un “ lato occulto delle religioni, A lea
Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane 1% simo, del così detto suo
contenuto esoterico, ne. essa luminosamente si addentra e trascina.
d il lettore nell'intimo della questione relativa sperato! scopo
delle religioni. ‘a questo pro- | Posito l'autrice così scrive. Esse ven gono
date al mondo da uomini più saggi delle masse etniche, alle quali
le religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo Vedi
pure «Il Cristianesimo come fattore mistico » di Rudolf Steiner. (Deposito
presso l'Ed. Bem- 7 porad, Firenze). Lolo scrullo du fevomeri sia
Pe i Dul th h Ha DI ire eSleeml J > Uibftsore »
Sé Lap de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.
Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino
agli individui e avere influenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î
tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione potrebbe
venire rappresentata come una scala ascendente di gradi, su ognuno asLelo
api dei quali si trovano uomini. I massimamente evoluti
stanno di un gran tratto più su dei meno evoluti, sia in intelligenza che
in ca- A rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4 ..
comprendere egualmente che quella di agire. } E' perciò vano dare a tutti
ii medesimo in- FE segnamento religioso; quel che gioverebbe
all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil all'uomo ottuso, laddove
ciò che leverebbe e in estasi il santo lascerebbe del tutto indif-
Ì ferente il delinquente...2 LE La religione deve essere graduata
con l’e- = voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI UGANB:
Es. Chr.): ; Il modo, dunque, in cui il maestro di religione parla a
uomini di grado evolutivo i . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e
(1 . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N | gere. Per
riuscirvi bisogna che egli stesso | porti nell'anima propria il nocciolo
della sa- "i | pienza, per mezzo della quale egli ha da
START. agire; e il modo come egli porta in sè questo nocciolo deve essere
tale da renderlo capace di parlare ad ognuno secondo la sua
comprensione. Perciò chi studia i discorsi degli Istruttori religiosi dal
loro lato esteriore, conosce soltanto un lato e precisamente quello più
estrinseco della loro sapienza. Acutamente accenna a questi fatti Edoardo
Schuré nel suo libro sui “ Grandi Iniziati,. Ivi egli descrive i grandi
Maestri di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora,
Platone, Gesù, da quello investigatore intuitivo, da quel nobile
artista dei pensiero, da quell'anima satura di profondo sentimento
religioso ch’ egli è. Così nell'introduzione al libro egli espone il
suo. modo di vedere : Tutte le grandi religioni hanno una storia
esteriore ed una interiore; l'una visibile, l'altra nascosta. Per istoria
esteriore sono da intendersi i dogmi et i miti pubblicamente ©
insegnati nei fémpli e nelle” scuole, riconosciuti nei culti e nelle
superstizioni popolari. Per istoria interiore è da intendersi la
scienza profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire dei grandi
Iniziati, profeti o riformatori che hanno istituite, sorrette e propagate
le religioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si legge
dovunque, si svolge alla vista di tutti, ma non per questo è meno
oscura, complicata, contradittoria. La se‘conda, che io chiamo la tradizione
esote- |, rica, o dottrina dei misteri, è difficilissima € Î a
districare dai veli che l’avvolgono. Essa infatti si svolge nei penetrali
dei templi, nelle segrete confraternite, e i suoi drammi più
appassionanti hanno intieramente per iscena l’anima dei grandi profeti,
che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè confidato ‘a nessun
discepolo le proprie crisi più acute, o le proprie estasi più
paradisiache. Questa seconda storia vuole essere indovinata, ma non
appena si è scorta, apparisce luminosa, organica, sempre in armonia con
se stessa. Potrebbe essere anche chiamata la storia della religione
eterna e universale. In essa le cose mostrano il loro rovescio e la coscienza
umana il suo diritto, mentre la storia non ne offre che il faticoso rovescio.
In SD questa seconda storia cogliamo il punto ge-N netico della
religione e della filosofia, che si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse
9/8, per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T} unto è
costituito dalle verità trascendenti. N vi troviamo la causa, l'origine e
il fine del tene prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della RES
1; RARO provvidenza mediante i suoi agenti terrestri.,,
Questi “ messaggeri terreni, lavorano nell'officina
Spiritualistica, nel laboratorio spiritualistico della umanità. Ciò che li
abilita a questo lavoro sono le leggi imperiture della chimica
spirituale ed i processi chimici spirituali che esse operano: vale a dire i
grandi prodotti intellettuali e morali della storia del mondo. Ma
ciò che fluisce dalle loro labbra è soltanto simbolo, immagine della
sapienza superiore dimorante nella profondità delle loro anime,
immagini e simboli proporzionati all'intendimento di coloro, che ad essi
porgono orecchio. Soltanto a coloro che adempiono alle condizioni, che
garantiscono la comprensione e il “ reffo uso » della sapienza superiore,
questa può venire dischiusa. E allora. nella Iniziazione mistica
sentono l'immediato contatto coi primordiali motivi spirituali, con
le potenze genitrici della esistenza. Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto
compenetrato di siffatti sentimenti: Clemente Alessandrino, lo scrittore
cristiano del 2° e 3° secolo della nostra èra, il quale prima del
suo battesimo fu un “ Misto,, ossia A EE un alunno dei
Misteri, esalta questi con le seguenti parole : O veramente santi
Misteri! O purissima luce! Una face viene portata dinnanzi a me
allorquando rimiro il Cielo e Dio; io sono santificato, allorchè ricevo
la consacrazione. Gli arcani però .me li rivela lo spirito primordiale e
suggella in me l’Iniziato con l'illuminazione; iniziato nella Fede
mi presenta al Tutt'Uno, affinchè io vega ser= bato in grembo
all’eternità. Tali sono le cerimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu
vuoi, fatti iniziare tu pure, e con le forze spirituali dell'esistenza tu
chiuderai la santa carola attorno all’ increato, all'imperituro, al
tutt'uno spirito dei mondi, e la favella che a te dal Cosmo viene
inspirata intonerà gl'inni di lode a questo Tutt'Uno,.. Si comprende
la descrizione che fa Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli
Iniziati devono parlare di sè come lo fa Clemente Alessandrino con le parole
suriferite: “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto
di quella vetusta contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad
esempio | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare
nei Misteri dai maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri
Mithriaci dei Per. IDO. JIA siani, i Misteri Orfici e quelli
Bacchici, e i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Grecia, i Misteri di
Samotracia, della Scizia, della Caldea, sono universalmente noti, almeno
di nome, come le parole d'uso familiare. Persino nella forma estremamente attenuata
dei Misteri eleusini il loro valore viene altamente magnificato dai più
eminenti uomini della Grecia, come Pindaro, Sofocle, Isocrate,
Platone e Plutarco,,. (1). E nei Misteri non si mira soltanto all’
ampliamento del sapere, alla sola spiegazione di cose ignorate, ma
alla elevazione di tutta la natura umana, di modo ch’ essa si compenetri di
quella “sacra disposizione iniziatica, che pone in grado di comprendere
le fonti e principi del Cosmo. Il mistico non solo conosce le cose
superiori, ina oltre a ciò la sua propria natura si fonde con esse.
Egli deve quindi essere preparato al fine di potere accogliere come si
deve le fonti di ogni vita che in lui affluiscono. Appunto nel nostro
tempo, in cui si vuol riconoscere come attendibile soltanto ciò che è
scientifico in senso materiale, diviene difficile il credere che,
circa le cose supreme, quello, che imV. Esot. Chr. pag. 21, a
porta veramente è una disposizione d° animo. Per tal modo si fa della
cognizione un fatto intimo dell'anima umana: e tale essa è per il
Mistico. Si dica a qualcuno la soluzione di tutti gli enigmi del
mondo: Il Mistico troverà sempre che una siffatta esposizione è
vuota risonanza, che sfiora l'orecchio e svanisce, se |’ anima non. è
stata prima preparata ed innalzata ad un livello superiore ; egli
troverà che il sentimento non ne resta affatto toccato, se non è staîc disposto
a sentire l'accoglimenio della sapienza come un “ Sacramento,. Solo chi
intende ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’ alto della quale
discendono certe espressioni del Mistico, come quelle di Filone: «
Sovente, allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4% reità_e
rientro in me, distogliendomi dal mondo esteriore, e penetro dentro me
stesso, . scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono certo di
essermi internato nella parte migliore di me; metto in attività la vita
vera, sono unito col divino e in lui fondato, e conseguo la forza
di trasferirmi nel mondo trascendentale. Quando, poi, da codesta
contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo riposo nell’ elemento
spirituale del mondo, discendo nuovamente alla consueta formazione di
pensieri, allora mi domando come potè avvenire che l’ anima mia si
impigliasse nel vivere quotidiano, posto che la sua patria è pur quella
dove testè mi sono soffermato ! Chi sa quale grado di purificazione del
sentimento e della funzione intellettiva sia necessario per arrivare a
sentire così conosce anche le ragioni per cui la sapienza mistica, la
sapienza consacrata non può essere oggetto della vita consueta
quotidiana, nè dell’ insegnamento ordinario, nè dei documenti della
storia esteriore; e perchè essa stia chiusa nell'anima dei divini
messaggeri e debba costituire, come dice Schurè, il riservato oggetto
della iniziazione in fratellanze appartate. Ma, quantunque questa
immediata comprensione della verità rimanga un fatto d’ insegnamento
del tutto intimo, pure tutti gli uomini partecipano dei benefici della
sapienza. Come i benefici delle ferrovie elettriche ricadono su
tutta la popolazione, pur restando monopolio degli elettrotecnici
la conoscenza delle. leggi Pe così avviene, quanto ai frutti, ella
efficacia e della sapienza dei Misteri, E come il beneficio delle
cognizioni tecni che si traduce nelle istituzioni esteriori della
civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si esprime e distribuisce nel
contenuto spirituale della vita dell'umanità: cioè nei suoi miti,
nei concetti informatori delle sue credenze e delle sue religioni, nel
suo mondo di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì nelle sue
idee di morale e di diritto, e da ultimo anche nella sua attività
artistica, nelle sue scienze e nelle sue filosofie. Il Mistico
mostra «che la sapienza più profonda della umanità è la radice di tutti
questi vari contenuti della vita, rendendosi ben conto che essi tutti
possono trovare la loro vera spiegazione soltanto in quella
sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che un uomo può avere la
fede seriza possedere eru Izione,, ma al tempo stesso proclama essere
impossibile che un uomo senza sapienza comprenda gli oggetti che
vengono spiegati nella fede, (v. Besant, Esot. christ.). Ogni
Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che tra i due non
può esistere contraddizione j ma anche alla Mistica egli può fare
riconoscere valore unicamente sulla base della vera scienza. Anche di ciò
parla Clemente. Alcuni che si ritengono favoriti da natura, non desiderano di
occuparsi nè di filosofia, nè di logica; anzi essi non desiderano di studiare e
imparare la scienza naturale; essi richiedono nuda fede soltanto. Io, pertanto,
chiamo dotto veramente colui che tutto mette a contributo per la
verità, così che traendo dalla geometria e dalla musica, dalla grammatica
o dalla filosofia stessa, ciò che è utile, difende la fede da ogni
assalto. Quanto è necessario per chi desidera partecipare dei poteri di Dio il
trattare filosoficamente soggetti intellettuali! Lo gnostico (Mistico) si vale
del rami dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es.
Chr.). Chi ha colto questo profondo accordo della Fede col Sapere si
trova costretto a rilevare sempre di nuovo una caratteristica peculiarità della
nostra civiltà moderna, la quale ha invece scavato un abisso tra Fede
e Scienza. E. Schurè accenna a questo abisso fin dai
periodi introduttivi del suo libro : “Il peggior male del nostro
tempo è il mostrarsi la Scienza e la Religione come due forze
nemiche e irreducibili. Infermità intellettuale questa tanto più
perniciosa in quanto che deriva dall'alto e furtivamente s'
infiltra, ma sicuramente, in tutte le membra, come un veleno sottile che si
respiri nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritelligenza diviene a
lungo andare infermità dell'anima e in conseguenza un male sociale.
“« Fintanto che il Cristianesimo non fece che affermare
ingenuamente la fede cristiana in seno a una Europa ancor semibarbara,
come era nel medio evo, esso fu la più grande delle forze morali, e
ha plasmato l’anima dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza
sperimentale, apertamente ricostituitasi nel secolo 16°, non fece che
rivendicare i legittimi diritti della ragione e l’ illimitata sua
libertà, essa fu la più grande tra le forze intellettuali; essa ha
cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari catene, e fornito
la mente umana di fondamenta incrollabili,,. Non meno energicamente
Annie Besant accenna a questa peculiarità della civiltà spirituale
moderna. Per ognuno che studi l’ultimo immediato quarantennio del secolo
passato è chiaro che persone meditative e morali sono in gran
numero esulate dalle chiesé perchè gl’ insegnamenti che vi ricevevano urtavano,
offendevano la loro intelligenza e il loro senso morale. E'
vano pretendere che l’agnosticismo così ue. largamente diffuso in questi
tempi abbia ra: dice solo nella mancanza di moralità o in È; una
deliberata involuzione della mente. ChiunA que attentamente studi gli esposti
fenomeni, ammetterà che uomini di forte intelletto sono stati
allontanati dal seno del Cristianesimo per via della rude goffaggine
delle idee religiose loro presentate, delle contradizioni negli
insegnamenti delle varie autorità, nelle vedute circa Dio, l'uomo e
l’universo, idee n che nessun intelletto colto e metodicamente ;
disciplinato potrebbe di leggeri accettare ». a (A. B. Cris,
esot.). Alla domanda: “ Che cosa è da farsi in questa
direzione ?, Annie Besant risponde inspirandosi alla veduta che anche la
radice del Cristianesimo giace in una sapienza occulta e che la Fede
deve, quindi, per susI sistere risospingersi a questa radice: “ Se
il Cristianesimo vuol continuare a vi i co vere, deve ricuperare il
sapere che ha e riad | vere la propria Mise € l propri insegnasd cculti; deve
di nuovo erigersi come. un istruttore autorevole di verità
spirituali, ma rivestito della sola autorità meritevole. Me, ù
Mes di essere alquanto apprezzata, l' autorità, cicè, della
conoscenza. Se questi insegnamenti ‘verranno recuperati, la loro
influenza sarà subito constatabile nelle più ampie e più profonde
vedute che si avranno circa la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci
ed impacci, saranno riconosciuti subito quali parziali presentimenti di
realtà fondamentali. In primo luogo il Cristianesimo esoterico riapparirà
nel /uogo santo, nel Tempio, così che tutti i capaci di riceverlo possano
seguirne le linee di pensiero palese, e secondariamente il Cristianesimo
occulto ridiscenderà nell'adito celato dietro la Cortina che custodisce
il « Sancta Sanctorum, in cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A.
B. Es. Chris.). Mediante il senso della vista l'uomo percepisce la
natura con cento e cento sfumature di luce è di colore. Sono i raggi
della luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne determinano
gli aspetti cromatici variamente sfumati. Sebbene per tal fatto la
percezione della luce solare sia una funzione abituale dell'occhio,
tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a luce:
Sole; esso viene accecato dal contatto immediato, diretto, dei raggi solari.
Ciò che ‘ 0° néi suoi effetti è adeguato al compito
quotidiano dell'occhio, dà occasione a una sofferenza, quando, come causa in
sè, colpisce l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giusto modo questa
immagine alla vita spirituale dell'uomo, comprende perchè “ coloro che
sanno » parlano di “ pericoli» della Iniziazione ai Misteri. Cotesti
pericoli esistono innegabilmente; se non che, chi ne parla non va preso
alla lettera, interpretando la parola « pericoli,, nel senso usuale.
La intelligenza e la ragione umana sono tanto poco assuefatte a
riconoscere le fonti del vero nel complesso totale del mondo,
quanto poco è capace l'occhio di fissare direttamente il Sole. Come
l'occhio sente a sè rispondenti gli effetti delia luce, così intelletto.
e ragione sentono a sè rispondenti gli effetti della sapienza
eterna nei fenomeni della natura e nel decorso della storia degli uomini.
Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla sorgente stessa della
luce, così l'intelligenza umana” vigne meno dinanzi alle fonti primordiali
della sapienza. Questo umano intendimento nel subito arretra, rinuncia. Or bisogna
assimilare nel debito modo ciò che allora succede nell’ uomo, al fatto
dell’ abbacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer: Poichè
l'uomo è assuefatto a scorgere nella Natura e nell'attività dello spirito
soltanto il riflesso della Verità, e non questa immediatamente, egli
viene meno di fronte alla verità stessa, quando questa gli si
presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che
quotidianamente I prnia, l'uomo sente le manifestazioni della sapienza
superiore come illusioni, come costruzioni di una fantasiosità irreale:
esse non gli possono dire nulla, sono per lui come forme aeree che
svaniscono quando egli le vuole afferrare, così come è solito afferrare
gli oggetti della realtà consueta. Questa lo avvince a sè con mille
lacci; ciò che essa gli può promettere egli lo conosce, lo ha imparato ad
apprezzare in mille modi. Chi qui vede giustamente, comprende che cosa
intendano dire le leggende religiose quando parlano del Tentatore,
che promette tutte le magnificenze di guesto mondo a coloro, i quali vogliono
intraprendere il sentiero della illuminazione superiore. Se noh è risvegliata
in. loro la forza di resistere a cotesto Tentatore, essi cadono
inesorabilmente in sua balia. Con ciò si accenna a quel che s'intende per
“ pericoli della soglia,, che occorre varcare, se si vuole calcare il “
sentiero, della sapienza. Niuno può giungere a questo sentiero se non
intende valersi dell’ occhio spirituale, dell'intelletto e della ragione,
diversamente da come vengono adoperati) nella vita quotidiana. L'uomo
deve porre il piede sulla soglia come un trasmutato, come "°°
uno, il cni°occhio spirituale è stato rafforzato; ed è singolarmente difficile
nell’ età nostra attuale rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè
appunto dalla nostra scienza esso viene rivolto o a.ciò che è
concreto li tangibile. Per compiere le sue conquiste nel campo
delle forze naturali esteriori que-, sta scienza dovè rendere quest'occhio
cieco alle potenze spirituali dell’esistenza. Non si fraintenda
tutto ciò, prendendolo per un rimprovero! Chi vuol comprendere il
mec-\l canismo di un orologio non ha certo biso» i} gno di risalire
con l'indagine fino ai pen-/! ). sieri dell’ inventore dell’
orologio ; egli può mM bene attenersi a quanto ha imparato
dalla [RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo
stesso meccanismo. a nessuno può com preridere come le forze e le
cose che coo perano nell’ orologio siano state originaria mente
combinate, se non va in traccia dello | spirito che le ha combinate
e non indaga le ragioni per cui esse sono state così comf frze
Tmnon © SEXI ma ) fe | fa meda; meo N el Mm NK ke -- bt
re e € o’ uc gi Riti fet rextore9
Lo fel #0 A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a È Logan
Foe. SP RTTO el ppartnzs ti dae binate. Il naturalista può
comprendere giustamente la Natura solo se in lei stessa ri- le cerca
anzitutto le forze con cui essa opera. Se afferma che queste si sono combinate
| ® cudl da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat di
pensare che un orologio si sia congegnato da sè. S izione-è non il A | lo
spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo alla cieca me/le cose stesse.
Superstizioso è, non colui che cerca l'inventore dell’ orolo gio,
ma colui che nell’orologio stesso immagina ‘uno spirito, il quale manda avanti
Î le lancette. Soltanto quando in questo modo || sî fraintendono
coloro che vanno in traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si
può metterli in un fascio con quelli che a buon diritto sono accusati
di superstizione e che cen altrettanto buon diritto vengono oggi
riguardati come turbapace, perchè compromettono i “ benefizi, che la nostra
coltura scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio velato da.
preconcetti saprà a chi si vuol alludere nelle due categorie
citate). Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d accesso alla
visione superiore, se vuole riu i " scire ad avanzare, deve essere
provvisto della 2 sN forza che mena ad avvertire il Reale là
dov@mnn l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x
i T] x > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti
Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A in x gono soltanto fantasticaggine ed
illusione. Giacchè il perenne e l'eterno sono appunto, là, dgye
all'occhio rivolto soltanto al transi* torio e temporaneo altro non
appare che fantasticaggine ed illusione. Nessun utile, dunque,
risentirà un uomo che venga condotto dinnanzi alla sorgente della eterna sapienza
colgalo corredo.della.sua intelligenza rdinaria. Perciò nei Misteri, il
primo grado d Iniziazione non consiste nell'impartire un nuovo
sapere intellettuale, ma nella completa trasmutazione delle forze
conoscitive dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo Scuré
descrive nei suoi “ Grandi Iniziati, il cammino di chi tende al “ Sapere,
mediante i Misteri: ALE « L’ iniziazione era a leaneno r, le
di futfo l'essere umano ad ascenlere le vette vertiginose dello spirito, dall'alto
delle quali si può dominare la vita. E più innanzi egli dice: Per giungere
a questa padronanza l’uomo ha bisogno di una totale rifusione del proprio
essere fisico, morale e intellettuale. Orbene, questa rifusione non è possibile
se non mediante |’ esercizio simultaneo della volontà, dell’intuito
e del raziocinio. Mercè il loro completo accordo l’ uomo può svi
} ;) I Fapiecinia TX. iNalonta Ponso ;
I he sli luppare le proprie facoltà fino a limiti indefinibili.
L’ anima ha sensi assopiti ; l' iniziazione li risveglia. Mercè uno studio profondo
e un'applicazione costante l’uomo può mettersi in rapporto cosciente con le
forze occulte dell'universo. Con uno sforzo porentoso egli puo
raggiungere la percezione spirituale diretta, schiudersi i sentieri
che portano. all’olt a, al superfisico, e divenire capace di regolarvisi.
oltanto allora può dire di aver vinto il destino e di esSersi conquistato
fin da quaggiù la propria tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato
può vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a dire veggente
e formatore di anime. Infatti soltanto colui, che comanda a se
stesso può comandare agli altri, e soltanto chi è libero può
liberare ». (Opera cit.). La missione dei Misteri va
intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro primo grado.
‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della produzione di nuove
forze | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,
ivenire un altro, prima di venir condotto al Sole spirituale, alla
sorgente della sapienza. Colui, le cui forze non sono temprate allorchè
pone il piede sulla “ Soglia,,, non sente la realtà dell’eterne. potenze
spirituali, (}. che quivi gli si fanno incontro. In luogo di —
entrare in rapporto con_un mondo superiore egli ricade nel mondo inferiore. À
questo pericolo trovasi esposto chi va in cerca delle sorgenti della
sapienza. Se egli soccombe, allora ha temporaneamente ucciso in sè
l'eterno germe. Questo era per l'innanzi dormente in lui, ma, pur così dormente,
era tuttavia ciò che nobilitava la passeggera, inferiore natura e la
trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo viveva con questo
rudimento di spiritualità superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.iniziazione
quel latente rudimento JÉne. distrutto. All'individuo non resta che
l'istinto di vivere nel transitorio, di yivere «Soltanto pel
regno di guesto mondo. Per il fatto di. avere sentito come_illusorio il “
divino spirituale,, egli divinizza il « sensibile_materiale,. In tal modo,
sulla “ Soglia,, può andare perduto per l'individuo il suo più
prezioso tesoro, la sua parte immortale. Questo è il pericolo analogo all’
accecamento dell'occhio nella similitudine su riferita. E'
ovvio che coloro, cui nei misteri incombeva l'ufficio d’iniziatori, erano per
pro- .Wei Rito fonda consapevolezza della propria responsabilità,
estremamente esigenti verso i discepoli, giacchè tali esigenze dovevano
servire a temprare nel senso indicato le loro forze spirituali. E.
Schuré descrive la scala gra duale della Iniziazion ‘a_praticata I
riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.) e-la sua descrizione
è tutta improntata di geniale senso d’arte e di mistica profondità.
Mi appoggerò appunto ad essa per parlare di quei gradi iniziatici.
Erano ammessi all’Iniziazione soltanto coloro che offrivano sicurezza di
riuscita per la costituzione appropriata della loro natura
intellettuale, morale e spirituale. Per costoro cominciava allora il
periodo della « Preparazione,. Per molti anni essi diventavano
itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno sf crede autorizzato a
giudicare e criticare mon appena abbia appreso qualche cosa, 0,
torse anche più sovente, quando non ha ancora imparato nulla, non è punto
facile rendere simpatica l’idea" quel lungo uditorato. All'uditore era
imposto il più assoluto silenzio, inteso non nel senso esteriore di
‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di | astinenza da
qualsiasi critica, STdoveva Accogliere del tutto spregiudicatamente l’istru
due crilica PESTO, gp zione, senza turbare questa
spregiudicatezza con una prematura analisi critica. Il saggio
sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un certo tempo non_.era loro
Jlecito..criticare, giacchè il sapere che ricevevano era appunto
ciò che occorreva per renderli maturi all critica. Come è possibile che
impari vera[mente chi vuole immediatamente criticare \{ quel che
apprende? Con questo metodo di ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno
reso maggio a una massima, che sola può fare ascendere i gradini
della conoscenza. Chi ha percorso la via della conoscenza lo sa.
Egli non può che sentire pietà per coloro, che si creano intoppi su tale
strada coi loro giudizi prematuri e con le loro critiche. Il nostro
tempo è tutto pieno di questo_immaturo spirito di critica: basta osservare intorno
a noi ciò che i nostri oratori dicono e ciò che i nostri scrittori
scrivono.,Se vi fosse ai tempi nostri solo un pò di spirito
pitagorico, resterebbero. inespressi più dei nove decimi di quanto vien
detto e altrettanto rimarrebbe non stampato di quanto vien pubblicato.
Oggidì, chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è appiccicato in
testa un paio d'idee, si crede autorizzato a sputar sentenze e giudizi
sui sel RARI TESE, soggetti più essenziali. Invece un tale diritto
spetta soltanto a chi abbia imparato a contenere per anni il suo giudizio
e a porgere ascolto spregiudicat ea quanto i savi dell'umanità hanno
detto. “ Esaminate tutto e tenetevi il meglio,, è una fallace norma
dell'anima di chi non è maturo per esaminare. Il nostro giudizio non vale
proprio nulla, nulla affatto di fronte alla Verità, fin tanto che non lo
abbiamo fatto esaminare dalla verità stessa. Invece di dire. Io esamino tutto e
voglio tenermi il meglio, molti dovrebbero dire. Io voglio fare esaminare
me stesso dalla Verità, e quando io sia sufficientemente buono per
essa, allora ch' essa mi prenda! Chi non si è esercitato per anni ad
adattare, a inalveare la propria vita in questo illimitato abbandono al
giudizio delle sagge guide della umanità, non arriverà mai a formulare
giudizi che siano più che fumo e vacua risonanza. Pa Una norma
siffatta è certamente invisa in questo nostro tempo “ illuminato,, in
cui dominano la pubblica criticaglia, e lo spirito gazzettaio ; invece
gli uditori pitagorici si attenevano appunto a cotesta norma. Raggiunta
la voluta maturità, l' uditore vedeva | 4 iena: acli
Neggiunto per lui il giorno d'oro col quale cominciavano le rivelazioni
sull'essenza della natura e dello spirito umano. A poco a poco i
gli si fa comprendere la zomìa [“I am a zoologist – a philosophical zoologist”
– Grice], le leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1 Voglia
afferrare questa romia col non raffinato intelletto ordinario non ne comprende
nulla. Goethe una volta accennò a questo. Allorchè nel SUO VIAGGIO PER
L’ITALIA e per la Sicilia si era dato con tutta lena allo studio delle
piante, e si era formato quelle sue vedute tanto citate ma tanto poco
comprese sulla pianta archetipa, scrive in Germania che avrebbe
voluto fare un viaggio in India, non per scoprire qualche cosa di
nuovo, bensi per guardare a Suo..modo_.il già scoperto. Quel che importa,
appunto, non è il conoscere le leggi messe in luce dalla botanica “
intellettuale vi bensi il penetrare coll’aiuto di queste
leggi nell’intima essenza della vita vegetale. Si fica essere un
erudito professore di botanica e non capir nulla di questa vita vegetale. |
nostri scienziati hauno veramente delle strane idee a questo proposito.
Essi o credono che, in genere, non si possa penetrare nell'intimo della
natura, o affermano che la nosira indagine non è ancora fanto avanzata.
Essi non sospettano che con questa indagine mediante i sensi e l'intelletto
possono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico le nostre cognizioni, ma
che per investigare (| « interno,, è, invece, necessaria una maniera di
pensare tutta diversa da quella che essi mettono in pratica. Non vogliono
saperne dell’inventore dell'orologio mentre studiano l'orologio alla stregua
dei principi della fisica. Poichè non possono trovare nell'orologio nessuno
spiritello che spinge avanti le lancette, o negano lo spirito, che ha
congegnato le ruote, o asseriscono che esso è inaccessibile all’umana conoscenza,
0 del tutto o fino ad oggi. Chi parla dello spirito della Natura
viene accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è colpa sua
se gli accusatori non sentono in ciò altro che parole! I discepoli pitagorici,
al secondo grado della loro istruzione, venivano introdotti nelloSpirito
della Natura. Soltanto: dopo RARO al questo grado,
potevano venir condotti alla “« grande Iniziazione ». A questo punto erano
maturi per accogliere in sè i “ Segreti della esistenza»; il loro
occhio spirituale era ormai sufficientemente vigoroso; oramai non
apprendevano più a conoscere soltanto lo spirito delia nai tura, ma anche
le intenzioni di questo spii rito. Da questo punto in poi non sì può più
i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma soltanto per via
d'immagini, giacchè il no(a stro linguaggio è tutto adeguato
all'intelletto e non ha parola adatta alla conoscenza superiore, di cui
qui ci occupiamo. In questo È senso va inteso pure quanto segue.
Prima di ogni altra cosa l'individuo apprendeva a spingere lo sguardo
oltre la propria esistenza personale. Da ciò traeva l' esperienza che quella
sua vita era la ripetiiS . zione di vite anteriori a un nuovo gradino
dell'esistenza. Si poteva convincere che quel i che è lecito chiamare
anima, nel giusto senso della parola, si rincarna ripetutamente, e
che le capacità, le vicende e le azioni della Me sua vita presente erano
da interpretarsi come effetti di cause reperibili in quelle sue
vite antecedenti. Egli si rendeva anche conto che i fatti e gli
eventi di quella sua vita presente dovevano produrre i loro effetti in
esistenze 1 avvenire. i ; Su ciò bastino qui questi pochi
cenni, da perchè ho intenzione di parlare in altro
luogo esaurientemente delle grandi leggi della rincorporazione, e
della legge cosmica, ovvero, in altre parole, della rincarnazione, e del Karma.
Queste verità potevano divenir convinzioni per il discepolo dei Misteri, come
è verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; perchè al terzo grado il
discepolo era a ciò maturo. Ma anche a questo grado si può avere un
giudizio completamente sicuro su queste conoscenze, unicamente perchè si
è ormai acquistata la capacità di comprenderne giustamente il
significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto si criticano tali
concetti ;, ma ciò che viene criticato in realtà sono soltanto le
arbitrarie, concezioni dei critici stessi, che non hanno alcuna
importanza. Del resto, però, si deve anche pienamente convenire che pure
molti seguaci della idea della rincarnazione non hanno di essa
concetti migliori di quelli dei suoi oppositori. Non tutti coloro che
oggi difendono queste dottrine, le comprendono veramente. Anche tra
questi difensori ce ne sono molti che sono troppo scansafatiche 0
troppo.... consci di sè per apprendere in silenzio prima di far da
insegnanti. 0° Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teosofia Scienza occulta e i minori Azione del Karma. Rincarnazione e
Karma come leggi naturali. Ora, se non forse presso i Pitagorici, c'era,
però, in altri Misteri, dopo la grande « Iniziazione rivelatoria,, il
grado della vera iniziazione mistica. In essa non soltanto
l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere conscio veniva esteso oltre
l'immediata personalità dello individuo. Per essa il discepolo non
diveniva soltanto un sapiente, soltanto un veggente. Egli ormai non
percepiva l'essenza delle cose, ma la viveva con esse. Molto arduo
è dare una idea di ciò, di cui qui si tratta. Il veggente non ha soltanto
la sensazione degli oggetti, bensì sente regoli oggetti stessi, trasferendosi
nel loro interno; egli non pensa circa la natura, bensì esce di se
medesimo e s'interna, pensando, re//a natura. (E' questo un procedimento
noto al Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi dei sensi
astrali. L'uomo intellettuale non bada ai veggenti: essi debbono esser
per lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece, ha senso per le
loro doti, li ascolta con pio rispetto, giacchè sente parlare in loro non
più una persona umana, bensì la stessa Saggezza vivente. Essi hanno
fatto olocausto delle Cfr. dello stesso autore: Come si acquista conoscenza
dei mondi trascendentali v. EA proprie inclinazioni,
simpatie, opinioni personali per poter prestare la propria bocca
all’eterno Verbo, mediante il quale furono fatte tutte le cose. Giacchè
dove parla ancora l'opinione umana, dove campeggiano ancora
inclinazioni’e interessi, ivi tace la sapienza eterna. E quando
questa giunge all'orecchio di coloro che non ‘hanno ancora
sentimento per essa, appare loro soltanto come personale parola umana,
per quanto in essa possa chiudersi una forza divina. Ma dai veggenti
stessi, gli uomini ‘potrebbero imparare ad ascoltare, giacchè il veggente
fa tacere la sua umana personalità quando a lui parla la voce della Verità. Il
suo giudizio tace, i suoi interessi, le sue inclinazioni gli stanno
dinanzi altrettanto insignificanti quanto il tavolino che ha davanti a
sè: egli è tutto assorto nel| l'ascoltazione interiore. Solo il veggente
ascenderà al grado successivo, che gli antichi chiamavano del teurgo e
che nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui
si opera una “ completa riversione, delle facoltà umane. Forze che, di
solito, affluiscono nell'individuo da/ di fuori, ora si effondono da /uîi. In
certi campi, nei quali 5 RS a l’uomo è soltanto un servitore,
diviene un dominatore colui, le cui facoltà sono trasmutate. E poichè
solo il veggente è in grado di giudicare la portata e la maniera “a
d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà Ti in possesso senza aver
raggiunta la purità del veggente, ne farà mal uso. E questa do «
sapienza senza purità,, è possibile a causa w di un cencatenamento di
circostanze, di cui <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla Iniziazione
superiore, a proposito dei Pitagorici, E. Schuré ha il seguente
magnifico passo : 1 i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toccato la
cima della iniziazione antica. Da dr questa vetta la terra apparisce come
im- cf ersa nell'ombra, come un astro morente. Di lì si schiudono le
prospettive sideree e eri dispiega nel suo meraviglioso complesso. Le *
Scegatao ii a n 1 la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo.
Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era l’assorbire VITA
l'individuo nella contemplazione o nell'estasi. È le regioni
incommensurabili del Cosmo, li UH aveva tuffati negli abissi
dell'invisibile. I veri pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più
forti e meglio temprati pei cimenti della vita. I, Il Maestro
aveva condotto i discepoli per iniziati dovevano ritornare sulla terra da
quei î =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza doveva
seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua, giacchè
ora per il discepolo si trattava di far discendere la verità nelle profonde
latebre dell’ esser suo, e di porla in azione nella pratica della
vita. Per raggiungere questo scopo ideale occorre secondo Pitagora
riunire tre perfezioni: avere realmente la verità nell’intelletto, la
virtù nell'animo, la purezza nel corpo. Un'igiene sapiente, una regolata
continenza dovevano serbare al corpo là purezza che si richiedeva
non come scopo, ma come mezzo. Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e
quasi un imbratto nel corpo astrale, vivente | organismo dell’ anima, e
per conseguenza anche nello spirito. A questa altezza l'individuo diviene
un adepto, e, se possiede bastante energia, entra in possesso di
facoltà e di poteri novelli. Si schiudono i sensi interni animici, e la
volontà si riversa radiosa negli altri sensi.... (vedi Schuré).
Di tutto ciò che l'uomo compie prima di raggiungere questo grado,
le cause sono da ricercare in regioni a lui completamente sconosciute. Lo
sguardo del teurgo, invece, | spazia in coteste regioni, e “ in
perfetta consapevolezza, egli irradia da sè quanto nell'uomo dorme
di solito “ inconsciamente, nelle più profonde latebre dell'anima, Egli
trovasi a faccia a faccia con la sua Guida, che per l’innanzi lo aveva
diretto invisibilmente da tergo. Col sussidio di siffatti pensieri si
dovrebbero leggere periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di
sapienza chiamato il Mundakopanishad: Quando il veggente vede l'aureo
Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui grembo è Brahman, allora il savi
o, dopo che ha gettato via merito e demerito, raggiunge immacolato
l'unione suprema ». Alle vette, dunque, che vengono così con-.
quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la mistica fede nella fulgida
forza di codeste vette gli conferisce la capacità di trapassare.
alcuni dei nebulosi veli che nascondono la. vera natura delle grandi
Guide dell'Umani tà. Ciò lo rende capace di descriverli, questi grandi iniziati,:
Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora di CROTONE, Platone e Gesù.
A grado a grado da coteste Guide sono state irraggiate nell'umanità le
forze a_ seconda della maturità raggiunta dal genere umano nelle
diverse epoche. Rama condusse alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete
ne misero le chiavi nelle mani di al«cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora
additarono l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il Sancta
Sanctorum, l'intimo sacro penetrale. Sarebbe sciupare tutto il singolare
incanto del libro dello Schuré il volerne raccontare il contenuto, nel quale,
così com'è ognuno dovrebbe profondarsi da sè. Ed, Schurè accenna al
fatto che pel tramite del Fondatore del Cristianesimo le forze della
sapienza dei Misteri sono state riversate nelle vene spirituali dell’
umanità in forma tale, che le orecchie dell’ umanità hanno potuto
udirla. E anche in questo terreno la verità deve essere cercata pei sentieri
che E. Schurè ci presenta. La forza. che s' irradia dalla personalità di
Gesù, è forza vivente nei cuori di tutti coloro, che la lasciano
fluire in sè stessi. Comprendere la vivente Parola che in questa forza
agi| sce, può solo colui che se ne procaccia la chiave, mercè la
comprensione della sapienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per quanto è
possibile, il fondamento Besant col suo cristianesimo esoterico. E' questo
un libro, per mezzo del quale l'occulto | significato delle parole
bibliche si svela al lettore che tutto vi si abbandona, Sg
VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai no. stri giorni.
L'umanità era in condizione del F tutto diversa dall’odierna, quando
ricevè l’Evangelo, l'annunzio gioioso. Oggidì l’intelletto ha ben altro
allenamento che non ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’uomo ‘può
trasmutare in vita propria la forza vivente della parola palese soltanto
se riesce ad afferrare cotesta forza mediante la propria facoltà
ragionante. Ma ciò che è vero, resta $ vero eternamente, anche se il modo
come i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso i dei tempi. Che
oggi l’ intelletto e il raziocinio facciano valere i propri diritti è una
necessità ; chi conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E
perciò egli dà oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è stato
dato ad altre forze dell'anima. Da que sta e da nessun’ altra cognizione
dovrebbe scaturire l'attività del vero teosofo, e così vuole essere
interpretato il “« Cristianesimo esoterico, di Besant. Il teosofo
sa che nel Cristianesimo c'è la Verità, e sa altresì che Gesù, nel quale
s'incarnò il Cristo, non è un “ Duce di morti, bensi un Duce di vivi,. Il
teosofo intende la grande parola del Maestro. Io sono con voi tutti
i giorni, sino alla fine,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS te,
non a quella dei ragguagli storici, si rivolge anzitutto chi, come A. Besant,
vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che la “ Parola vivente, ancora oggi,,
annunzia all'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò che poi proietta
la sua luce sul racconto evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore
della Parola è rimasto qui fino ad oggi e può dirci come dobbiamo
intendere la lettera dei ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi discorsi.
“Le buone novelle » debbono essere intese “ esotericamente cioè,
bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza vivente, che
imprime su di esse il sigillo di . Gò che è “ Santo,,. E poichè
l'intelletto e il razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà
d’oggi, bisogna ch’essi vengano liberati dai lacci dell’ intendimento
puramente sensistico, della comprensione meramente “ positiva, della
realtà. L'intelletto stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel
mare che lo riempie di vera religiosità, giacchè non è esatto che
l’assennato intelletto non valga che a distruggere le “ illusioni,
di cui il sentimento religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo
dell'intelletto abbagliato e inceppato dai successi riportati nella
nozione ALI: 000 e nel dominio delle forze puramente materiali
della natura. Gli uomini del presente e con essi i nostri fisici, i
nostri biologi e i nostri storici, si credono Ziberi nel loro mondo
intellettuale unicamente edificato sul fatto positivo. In Verità essi
vivono sotto l’azione di una Suggestione dominante su tutto.
Liberi, fino a un certo punto, potreste diventare voi fisici, biologi e storici
di oggi, se voleste riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di
materie e di forze del mondo, di sforia umana e di evoluzione della
civiltà, non sono altro che « sugge\stioni collettive,. Un giorno vi cadrà
la benda dagli.occhi, e allora soltanto sperimeénterete fino a qual punto
è verità e non errore quel che voi pensate dell'elettricità e della luce,
della evoluzione animale ed umana; giacchè, notate bene, anche i teosofi
riguardano le vostre asserzioni non come errori, ma come verità. Infatti
anche la vostra interpretazione della natura è per loro una “ professione
di fede », e quando essi dicono “ di volere cercare il nucleò della verità in
tutte le religioni,, fanno ciò non solo riguardo a Buddha, Mosè e
Cristo, ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed Hickel, ay (
(A E opere come queile citate di Schuré e di Besant
sono destinate a togliervi la benda dagli occhi, debbono insegnarvi
a veder chiaro nelle “ vostre suggestioni ». Conseguentemente, in
libri siffatti quel che importa non è tanto il loro contenuto letterale,
quanto le occulte forze che mossero la penna dei loro autori e che si
trasfondono nelle vene dei lettori, così che questi vengono tutti pervasi
da un nuovo “ senso della verità ». 1 lettori che subiscono il giusto
effetto di tali libri ricevono sotto un certo rispetto una /riziazione di
tipo, diremo così, intellettuale. Chi a questa frase mon arriccia il
naso, come alla asserzione di un miracolo, chi è in grado di
scorgervi, invece, qualche cosa di più che una vacua frase, potrà anche
comprendere, come — libri siffatti gli vengano presentati non già
per allettarlo a fare una delle solite letture, ma con l’altra ben
diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati
scritti, debbono suscitare in lui forze dormenti, anche se a tutta prima
coteste forze possano essere soltanto quelle dell'arimia intellettiva.
Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera Iniziazione, che non passi per l'
intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori, evitando
di passare per l' intelletto, mon capisce nulla dei “ segni dei | tempi,
e non può far altro che porre sugsa gestioni nuove al posto delle
antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday
mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were
into initiation!” Giovanni Colazza.
Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione
nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio
di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la
reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione
del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Colecchi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Pescocostanzo
–filosofia aquilese – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Pescocostanzo).
Filosofo aquilese. Filosofo abruzzese. Filosofo
italiano. Pescocostanzo, L’Aquila, Abruzzo. Grice: “What I love about Colecchi
is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad
Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua
tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia
Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica
alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di
conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato
in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi
allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito
principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo
kantiano in Italia. Altre opere: “Se la
sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La
legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della
ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se
nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li
giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del
raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio
misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e
quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una
logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un
rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di
filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza
del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia,
Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi
al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti
della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti,
Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C.
filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese
di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al
Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed
educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in
«Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la
Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G.
Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia
della filosofia italiana, III, Torino; F.
Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche,
Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi
vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta
italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua
romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora,
perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza
nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la
sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane
nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee
rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la
sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre
scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per
conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa
filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto
universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre
delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma,
si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella
storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del
medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di
tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per
ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia,
tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto,
a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale,
educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione
de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il
senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le
ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia
positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del
poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con
la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati,
di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi
ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e
delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione
che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO,
pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a
poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle
lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il
dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo
si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a
Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua
Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà
de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del
Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala,
va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e
non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo
nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra
l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza
per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della
strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della
sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità
dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii
intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre,
che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render
l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che
sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor
militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque,
considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e
trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga
dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone
l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo
le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla
virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant
-- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto
regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe;
ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità
privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è
labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione;
ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è
cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un
corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari,
con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre
detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la
legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose
che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina
provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa
spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere
socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio
per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione*
di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un
padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti
– l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e
Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice
ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione
geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della
giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone.
L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression
aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta
giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro --
-- ed ba luogo in ogni società eguale.
Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital L'occasione poi, per la
quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide,
trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente
ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non
fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco
Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del
bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli
uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale.
qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice
hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale:
conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita
al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose
talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del
giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La
prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della
la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la
libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La
tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che
gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio
della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e
oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma
venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la
schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose
del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine
di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la
sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle
utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi,
non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non
esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che
nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo.
Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare
a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale
primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto
naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario
è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto
dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle
viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della
legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla
legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la
mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per
altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della
legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori,
per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir
non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè
data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta
al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione
non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che
tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono
patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero,
e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto
delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo,
si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano,
con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta
risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco
fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore,
conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine
in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il
creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia.
Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede
il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di
Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale
diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in
istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti
questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO,
v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico
diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente
materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che
è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo
ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente
tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto
interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia
di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il
membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si
esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran
parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. Sollo queste forme
di governo lulla si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della
stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il
padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal
nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo
naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto
e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del
genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i
di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il
padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del
proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo,
un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere
sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale,
che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a
garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità
riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i
cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a
Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della
famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di
vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado
disinteressata. Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei
quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di
solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e
fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile
ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri
popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace,
alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano.
L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il
perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar
con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle
soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare
anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si
manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che
propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la
legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà
ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma
perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è
subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo
all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che
cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche
è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera
le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire,
lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro
però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal
diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano
sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in
democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più
secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a
rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale
diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di
quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è
l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune
di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè
facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione.
Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute,
la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la
sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni
nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion
con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la
legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO, chiama diritto civile comu. de il
diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO, ove define il diritto civile, dice:
Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si
serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e
ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo
spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la
tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune
costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero,
secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI, la regia, e la
libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE, con che
venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo, la
gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia
risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero arbitrio
di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza
de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore,
il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come
vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con
l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento
colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si
può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da
quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta
allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere
risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë
parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni
stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose
corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma
sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da GAIO DIRITTO COMUNE a tutti i popoli,
altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che
torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge
stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è
necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora
che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza
si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello
stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o
secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si
conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si
cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano.
Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi.
Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla
legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può
darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO
distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione,
questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più
della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani
governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera
elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione.
Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le
diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità
oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più
prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e che
non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del
l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e
la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di
essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto
de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente
consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri,
a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale
scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro
indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su
di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato
il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui
reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che
gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere,
perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo
stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri
in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa
non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono
di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la
società già era, quando il governo non era ancora. La libertà del diritto, dice VICO, fuprim a ch e
si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione
de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque
tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana
mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in
cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la
massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di
Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale
verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che
rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di
spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro
idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità
tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle
verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in
una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso
e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni
persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che
che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due
sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano
mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre
elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza
morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente con la morale. All natios bostna viSing to derive merit from the splendonr of their
original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy anpply the defect with
fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought DESCENDED FROM THE
GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry. Mueas, the Bon of Veona
AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey, after'11MU17 adventures
and dangers, atrived octet a in Italy, where Aeneas was kindly received
by Latinus, king of the latins, who gave him his daughter Lavinia in marriage.
Italy was then, as it is now, divided into a number of small states,
independent of each other, and consequntly subject to frequent contentions
among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is the first who
opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia himself. A war
ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus sfadn. In
consequence of this, Aeneas built a city, which was eded Lavimnm,
in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against
Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and
died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son, succeeds to
the kingdom, and to him Silvius, a second son, ^lom be had by lAvioia. It would be tedious
and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that
followed, and of whom we know little mtae than the names. It
will be sufficient to say, that the
sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years
in the family, and that Numitor, the
fifteenth from Aeneas, is the last king
of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi
of the kingdom in consequence of his father's
will, had abrpther named Amnlius, to whom are
left the treasures which had been brought from Troy. As riches but too
generally prev^ against right, Amolins made use of his wealth
to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess himself of the kingdom,
ot content with the crime of usurpation, he added
that of murder also. Nnmitor's sons first
fell a sacrifice to his suspicions, and to remove all apprehensions
of being one day distorbed in his ill-gotten power, he caused Rhea Silvia, his
brother's only daughter, to become a vestal
virgin, which office obliging her to perpetual celibacy, made him
less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however, are
all frustrated in the event; for Rhea
Silvia, going to fetch wator frqip a Qeighbopring
grove, was met and ravished by a man, whom, pei^tqw to
palliate her offence, she avers to be MARTE, the god of war. Whoever
this lover of hers was, whether some person
had deceived her by assuming so great a name, or
Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain
it is, that, in due time she was broug:lit to bed of two boys, who were
no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is
condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated
their chasti^, and the twins are ordered to be flung into tbe riverTiber.It
happens, however, at the time this
rigorous sentence was put into eieculion,
that the river had more than usually
overflowed its banks, so that the place where the children
are thrown, being at a distance from thei main cnirent, the water is
too shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they
continued without harm; and that no
part of their
preservatioD might want
its wonders, we are told,
that they were for some time suckled there by a wolf, until Fanstulos, the
king's herdsman, finding
ihem exposed, brought them
home to Acca
Laurentia, his wife,
who brought them up
as her own. Some,
however, will have
it; tiiat tbe nurse's
name was Lupa, which gaya rise
to the stoijr
vt their being
nouriihed by a
wolf; but it
is needless to
vfad Do,l,,-cdtyS oirt a
iwglH MBpg«b«ba% fian
'venevntB vbtfe die
vkote « omgrowB with
ftUe. Boraoloa and
Bemna, Ae twins
thtu strangely prcwcved.
Memed eariy to
diacover afai)iti«i uid
desiret above the
me«i- noH of
thor aapposed origiiuL
The ahepkenl's life
be^an to di^leaae
them, aod fnaa
tending the flock,
or hantiag wild
beasts, they soon
tnmed their strength
agsinst the robben lonnd the eonntry, whom they efien
atfipt of their [daader to share it among their
feUew-shepherds. In one of
these ezcmnons it
was that Remus is
taken priaoner by Nvmttor's
berdsmen, who bring him before the
king, and aoensed
him of the
very crime which he bad ao t^tea attempted to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^ informed 1^
FaiiBtaliu of his real birth, was
not remisa in
assembling ft munber
of hia fbllow^epherds, in
order to resooe
bis brother from
posoD, and foroe the kingdtmi from tbe
bands of tbe nsnrper.
Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe
near the place by different ways, while
Beniiis with eqnal
vigilaooe gm&ed npon
tbe dtiuua within. AmalioB, tfans
beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to thinkof for bit seoiuity, was,daring hia amasenent
and distraotion, taken
and daio, while Numitor who had been deposed forty-two years,
recognised bis grandscns, and is restored to the throne. Nnmitor
being tints in
qvet posiewion of
the kingdom, hot
grandaou resolred to
bnild a eify
npoo those hills whoe they had
formerly lived as aheiriierda. The
king had too
many oUigations to
them not to approve their des^;
he appointed tbem
lands, and gave
pennisnoB to .snoh
of hia subjects
a» thoo proper to
settie in their
new colony. Many
of the neil^draariiig shejdierda
also, and sncb
as were fond
of change, lepabed
to the intended
dty, and prepared
to raise. For the more
speedy oarrybg on this work, the
people were divided into two parts, each of whioh, it was
sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what was
designed fi» an
advantage proved nearly fatal
to this infimt
oolony: it gives birth to two factions, one preferring Romulus, the
other Remus,who themselves arenot agreed
upon the spot where the city shonld stand. To terminate this difference, they
are recommended by the kingto take an omen from the flight of birds; and that
be, whose ome should be most favoorable^
afaonld in all
reepeots direct die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both
take their stations npon
diffra«nt hilk. To Remus
appear six vultures,
to Romulus, twice
that number, to
ttwt each party
thongfat itielf viotoriovi,
the one tiaviog
the *first* omen,
the other the
most nnmeroiu. Tbifl
prodnoed a contest,
whitdi ended ui a batde, wherein Bemoa is slain, and it is even said, that he was kiUed by his
brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city wbU,
itrack him dead upon tbe
qrat, at the same time proKssio^, that nooe shonld
ever inanlt his walla withim punity.
Romoltu, being now sole
coHunuider, and eighteen yean of age,
b^an the fonndation of acity, that was one day to give laws to the
woild. It was called Rorne after the uaaie of the founder, and bnilt npon the
Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was at first almost square, oontaining «bont a
tlwiisand houss. It was near a mile in compass,
and commanded a small territory
ranod it of
about eight miles over.
However, smallas it
appears, it was,
ootwithstandiiy, vone inhabited;
and the first
method made uae
of to increase
its numbers vaa
the opemng a
sanctosry for all
male&otors, slaves, aod
snch as wm«
desirons of novelty.
These came in great multitudes, and
cootibated to increase
the number of our
legtslatoi'B new subjects. To
have a just
idea ther^re of Rome in its infant stale,
we have only to
iwsgine a coUec-
tion o( cottages,
sairotinded by a
feeble wall, rather
built to serve as a military
retreat, than for the
purposes of civil
>o- cie^, rather filled
with a tnmoltuoas
and vicious rabble,
thaD with subjects
bred to obedience and
control.We have only to conceive men bred to rapine,
Iwing in a
place that merelj seemed calculated for
the security of
plonder; and yet,
to our astonishment, we shall
soon find this
tumulbioas coocouise unit>
ingin the strictest
bonds of sode^;
this lawless rabble putting OB the most sincere regard for
religion; end, thouf^
composed of the
dr^s of mankind,
setting examples, to all
the worid, of valour
and riitne. Doiii,,ih,. WWLOU
SoARGB mm tbe
city rnsed abore iti
&niid«tioB. vhen Hs
rade mhalulsBtB hegaa
to tfauik of
gmag some fonn
to their. MoslitBtioii. Their first
object was to
unite lifoer^ and
empire; to fonn
a kiod of mixed monncby,
by irfaicfa all
power vw to
be dividad between
the prince and
the peopte. Bo- nlna, by an act of great geoeromtf, left them
at liberty to dwose whom they wonld for dieir king, and
tliey in gnrtitiide
eoBcmred to elect their founder;
be was accordingly acknowledged as
chief of dieir religion, sovereign magistrate of
Rorne, md geoeral of Ae army. Beside a guard to attend his person,
it was agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT, armed with axes tied
op in a
bnadle of rods, who were to serve
as execntioners of the law,
and to impress hii new subjeots
with an idea of his authority. Yet
stUl tUa aKiboriQr
was ondw very great restriotii»ig, as
his whole power
CMisisted in caQing
the THE SENATEsenate
togedier, in assembling
the peo tMibstont
and fierce as the
first Romans, it was wise
to enforce obedience t
&6 most reqnidte
dnty. lie first care of the
new-created king is to attend
to the interests
of religion, and to endeavour to hnmantse
his subjects, by the notion
of other
rewards and pnnishnients than diose
of hnman law. The precise form of their
worship is nn- known; bat
die greatest part of
the religion of
that age con- siMed
in a firm
relianoe upon Ae
credit of their soothsi^ers,
irito fvetended, from observations
on the flight of
birds and the
entrails of beasts,
to direct the
present, and to
dive into fntmrity. This pioos
fhrad, wbich first uvse
from ignorance, soon became
a most usefnl
machine in the hands
of government. Romnlns, by
an express law,
commanded, that no
election should be
made, no enterprise undertaken,
witfa- flat first
conaolting die soothsayers. With equal
wisdom he ordained, that no new
divinities should be
introdoced into pnhlic
worship, that the
priesthood should continue
for fif, and that Aone shonM be
elected into it before
the age of
fifty. He fort>ade
them to mix fable witb
the masteries of
their reUgion; And,
timt they mi^t
be quaKfied to teach others, he ordered
Aat tiiey should
be tiie iHstoriographns of
tiie times; so
tiia^ while instructed
by priests Bk^ these,
the people cordd never
degenerate into total
barbarity. Of his other
laws we have
but few fragments remmnii. In these, however, we
learn, that wives
were forbid, upon
any pretext whatsoever,
to separate from tbeir husbands;
wUle, on the contrary,
the husbaod was empowered to repudiate the wife, and even
to put her
to death with
the consent of hef retatioQB,
in case she was detected in
adultery, in attempting to
poison, in making
false keys,. or even of having drunk too much
vine. His laws between children and
their parents w«'e
yet sdll more severe;
the father had
entire power over his
offspring, both of
fortune and fife;
he conid ell
them or imprison
them at any
time of their
lives, or in any ttations to which they
were arrived. The father
might expose his
clnldren, if bom
witii any deformities, having previoasly eommunicated bis
intentions to his five
next of kindred. Our lawgiver seemed moze
kind even to
his enemies, for his subjectswere
prt^hited from killing
them after they
bad surren- dM«d,
m even from
sdling them: his
ambition only aiaied at
.,Coo many endeaToiiTs
to inoraase bia
BnbjeotBi aad m
mmy Inra to
r^nlate them, he
next gave ordeis to ascertna
tbeir numbers. Tbb
whole amoanled bat
to three tbooMnd
foot, and about as many
bnndred horsemen, capable
of beari^ arms. These,
therdbre were divided
equally into three tribes, and to each
he asiigaed a
different part of
the taty. Each of
these tribes were
sabdivided into ten
cmin or compame,
consiBting of an hundred men
each, with a
oentnrioB to command
it, a priest
c^ed curio to
perform the sacrifioes,
and two of the
principal inhatntants,
called duumviri, to
distribute jnstioe. Aocordijigly to the
number of ooriv he
divides the lands into
thirty parts, reserving
one portion for
public uses, and
another for religiaus ceremonies. Tbo «m- phaty
and fingality of
tha times will
be best iindeistood
by observing, that
dach citizen had not id>ove
two ictea of ground
for his owB
subsistence. Of the
horsemen mentioned above,
dtere were chosen ten
from eei^ curia;
tfaey were particularly
appointed to fi^t
round the person
of the king;
of them hU
gaud was composed, and from tbeir
alacrity in battle, or
fhuB the >ame
of their first commander, ^ey
were called ceUrat,
a word equivalent to our light horsemen. A goremmcot thus
wisely instituted, it may be suppoaed, nduced numbers
to come and
live under it: each day added to
its strength, maltitudes
flocked in from
all the adjacent
towns, and it
only seemed to
waqt women to
ascertain its duration. In
this exiaeiatx, Romulus,
by the advice
of the senate, sent deputies among the Sabines, his
neighbours, entreatingtheir alliance,
and upon these terms-
ofiering to cement the
most strict confederacy
with them. The
Sabines, who were then considered as the
moat warlike people of
Italy, r^ected the proposition with disdain, and
some even added
raillery to the
refusal, demanding, that
as he had opened
a sanctuary for
fugitive slaves, why he
had not also opened
another for prostitute
women. Tbis answer quickly
raised the indignation of
the Rpmans; and the king, in
order to gratify
their resentaient, while
he at the
same time should
people hb ci^,
resolved to obtain
by force what
was denied to intrea^. For this
purpose he proclaimed
a feast, in
honour of N^tane,
diron^ut all the
nMghboitring villagea, and made
the meet KAPB OF
THK BABINBS. t mmgaiAMat
pnftamtkmi for it
Tbets feuta wen
guan^ preceded by
sacrifices, and ended in shows of
wreeden, ^ft- diaton, and
chariot-^onrses. The Salnnes, as he
had expected, were among the
foremost who came
to be spectalon^
fannging their wives
and daughters with
them to share t^
pkasore of the
sight. The inhabitants
also of maaj
of tht ueig^hoariDg
to^os came, who were
received by the
RomaM with marks
of the most cordial hospitality. lo the mean
time the games began, and
while the strangers
were most intent
upon the spectacle,
a number of the
Roman yonth rushed
la mnoag them
wiUi drawn swords
seized the yotingedt
and meet beaatilid
women, and earned them off
by violence., In
vain the parents
protested against this
bre&cfa of hospitali^;
in vain the
virgins themselves at
first opposed the
attempts of th^
raviBfaers; perseverance and
caresses obtained those
&• TOWS which
timidi^ at firstdenied: so that
the betrayera, frma
being objects of aversion,
soon became partners
of their dearest
affections. But however the afiront might have been botne by them, it
was not
BO easily pnt up by
their parents; a bloody
war ei^ sued. The
cities of Cenioa, Antemna,
and Cnutuminm, wen
the &at who
resolved to revenge
the common cause,
which the Salnses
seemed too dilatory
in pursuing. These,
by making aeparate inroads,
becamea more easy
conquest to Romulus,
who first ovothrew
the Ceoinenses, slew
dieir king Acron
in sio combat, -and made an
offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the spot
where the capitol
was afterwards built
The Antemnates and
Crustuminians shared the
same. fate; their
armies were overthrowu, and their cities takes. The
conqueror, however, made the
most merciful use
of las victny;
for instead (rf destroying their towns,
or lessemi^l tbent
nnmbeis, he only
placed colonies of Romana
in them, to. serve
as a frontier to repress
more distant invasions.Tattos, king
of Cures, a
Sabine city, was
the last, althou^
the most formidable who undertook to cevuige the
disgrace his country
had suffered. He
entered the Roman
territoriea at the head of twenty-five thousand men| and not content with
a superiority of
forces, he added
stratagem also. Tarpeia, who was
daughter to the
commander of. the
Cajutolme hill, happened to
&11 into his hands, as
she went without
4>e walls of
the city to
fetch water. Upon her he
prevailed, by meant
of hrga pttuSaet,
to bebrajr aae
of the ^^ates
to his army.
Tlie i«<irwd she
eagdgei for was
vfaat the soldiers
wore on their
atteB, by vfaich
the meaot their bracelets. They,
however, cotber miataking^
her meaning, or
wiUing to panish
her peifidy, ttvew
tlieir bncklera upon
her as they
entered, and crushed
ber to death beneath them. The
Sabines, being thus possessed of
the Capitoline, had the advantage
of continning the
War at tbeir
pleasure; and for
some time only
slight enconnters passed
between them. At
length, however, the
tedionsness of this
contest began to
weary out both
parties, so that
each wished, but neither would stoop to
sue for peace.
The desire of
peace ofteii gives
vigour to measures
in war ; wherefore
boUt sides resolving
to terminate their
doubts by a
detMsive action, a general engagement ensued, which
was renewed for
several days, with
almost equal success.
They both fon^t
for all that
was vEduable in
life, and neither
could think of
submitting: it was in the
valley between the Capitoline
and Qui- rinal
hills, that the
last engagement was
fought between the
Romans and the
Sabines. The engem«it
became general, and
the slaughter prod^ioua,
when the attention
of both sides
was suddenly turned from the scene of
horror before them,
to (mother infinitely
more striking. The Sabine women,
who h^
been carried off by the
Romans, were seen
with their hair loose
and iheir ornaments
neglected, fiying in
between tbe combatants, regardless of their own
danger, and with
loud outcries only
solicitous for that
of their parents,
their husbands, and
their cUIdren. "
If," cped ihey,
" you are
resolved upon daughter,
turn your atma
upon us, since
we only are
the cause <tf your
animosity. If any must die,
let it be
us; since if
oar parents orour
husbands faU, we
must be equally
miserable in being
the surviving cause."
A spectacle so
moving could not
be resisted by
the combatants; both
sides for a
wtiile, as if by
mutual impulse, let fall their
weapons, and beheld
the distress -
in silent wnazement
The tears and
entreaties of thdr
wives and daughters
at length prevaUed;
an accommodation ensued,
by which it
was' agreed, that
Romulus and Tatius should
t«ign jointly in Rome, with equal power and
prerogative; diat an
bailed Sabines should
be admitted into
the senate; that
the city should
still retain its
farmer name, but
that As citizens
should bctdled Qnirites,
after Cures, the
principal town of
the Sabines; and that both nations being thus united. 11
•aoh of the
Sabtees u i^ose
it shoiM be
sdnAted to Bniad
eDJoy all the
privilegea of citizens
oi Rome. llaH
erery •torm, vhich
seemed to threateo
this growing empire,
only served to
increase itvigour. That army,
wfaich in die
mondug had resolved
upon its destruction,
came in the
evetlin^ with j(^
to be enrolled
uiDoag the number
of its ctttzens.
RomfoloB saw his
dominions and his
sul^ects increased by
more then half
in the space of
a few hours; and, as if fortune meant every way to assist his
greatness, Tatins, his
partner in the
govem- ment, was
killed about five
years after by
the Lavinians, for
having protected some
servants of his,
who had plundered
them and slain
their ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw
himself sole monarch of Rome. Rome being
greatly strengthened by
this new acquisition
of power, began
to grow formidable
to her neighbours ;
and it -aiay be supposed, that pretexts
for war were
not wanting, when
prompted by jealousy
on their ride,
and by ambition on
that of the
Romans. Fidena and
Cameria, two oe^hbonring
cities, were stibdoed
and tAken. Veii also, one of the most power Ail states
of Etruria, shared nearly the same fate;
after two fierce engagements tiiey
sued ftM* a
peace and a
league, which was granted upon
giving np the seventh part of tbev dominions, their salt-pits near the river,
and hostages for greater security.
Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From
being contented with those limits which had been wisely fixed to his power he began to affect absolute sway, and
to govern those laws, to which he had himself formerly professed implicit
obedience. The senate was particularly displeased at his
conduct, finding themselves
only used as
instrom^its to ratify
the rigour of his commands. We are not told the precise manner which
they made use of to get rid of the
tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise;
otiters that he disappeared while reviewing
his army: eertain
it is, that
from the secrecy
of the fact,
and the concealment of the body, tbey took occasion
to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they
oonld not bear as a king, tbey were
contented to worship as a god: Romnlns
reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad a temple
built to turn under the name
of Quirinus, one of the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be had
appeared to hm, and desired to be isTtAed by that tide. We see little more in
the obaraeter of this princ, than vhat mi^t be expected in andk an a^, great
temperance and great valour, wbich
generally make np
the catalt^e of
sar^^e virtues. Howeva,
the
gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates
in u an adnuration of tiie founder, viftoat mnch raamimng'
hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy
enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico,
as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and
perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!”
-- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore,
Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima,
first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il
kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario
kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio
necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno,
Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di
Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto,
la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la
rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di
Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la
virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia
distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression
arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di
Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo,
padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima
universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il
vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione
sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero
arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione,
l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di
equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia,
Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto
sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res
pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato
dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali,
padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di
Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colletti: la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – scuola di Roma –
filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Colletti
– he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the
Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma.
“Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin,
Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza,
Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o
sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista
politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari,
Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di,
Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto
dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione;
Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista
politico-filosofica, Il marxismo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club
degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di
Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi,
Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica,
Roma, Liberal, È morto C. voce "contro" di Forza Italia, su
repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo
di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C.
e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, Ministero per i beni e
le attività culturali, C.: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma,
Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza e libertà, Roma, Ideazione, Corradi,
Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifesto libri. C., LaTreccani
L'Enciclopedia Italiana. C. su Camera XIII
legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura,
Parlamento italiano. La storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito
Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto
«a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left
Review”, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più
esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra opposizione
reale (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si
tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione
(ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La
opposizione dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun
opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli
dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la
negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi
«entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose
(Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro
di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa
dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon.
L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto
sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più
importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e
contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando
ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc,
proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà
confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo
non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di
opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente
rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica
delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che
è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta
attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero,
segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al
di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto
finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero
infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la
contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si
attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver
«ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per
una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa
difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali
cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come
contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne
Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di
conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a
dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta
con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe:
a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte
del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava nella
struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono
dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico
dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa
lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx
le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) C.
conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non
essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità
per sé irreali seppur reificate. Teoria dell’alienazione e teoria della
contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria. la contraddizione
nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur
essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la
contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai
maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società
moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un
tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria”
dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove l’unità, essendo data, non
deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato,
riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si
scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato,
naturalista e empirico. Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik
(im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die
Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom
Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische
Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der Metaphysik zu umgehen. Der
Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung Kants
betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren
Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die
Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu
fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht,
stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe
führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den
Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies
gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz
vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz
akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein.
Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit
ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es
besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst
gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu
fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede
Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche
Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer
Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches Quadrat Das logische Quadrat
Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind,
bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene
Beziehungen: Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz
genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein
können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben
müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine
Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen
Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E
zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar
nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der
Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei
Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide
zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik
steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den
Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein
Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im
logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P
sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h.,
wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese
Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches
Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte
Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen
Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Orazi e Curiazi
figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi
(disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma
antica. Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre
Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno
di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli
eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al
confine fra i loro territori. Ma Roma e Alba Longa condividevano
attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa
guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di
rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori
spargimenti di sangue. Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli
figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si
sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non erano
concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana; propende
per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella
versione. Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono
uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio,
che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà,
pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva
previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra
loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità
differenti. Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito
e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da
ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu
facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di
Roma, cui Alba Longa si sottomise. Camilla Orazia, sorella dell'Orazio
superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò violentemente
del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per
purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium, che da allora
i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º ottobre.
Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le libertà
del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di Roma), di
cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella
estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì,
secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri
perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase
repubblicana). Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente
intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina -
nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia
moglie di Marco Orazio. Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi
e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età
augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero
state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio
della via Appia. Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si
trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi",
ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi. Nella realtà la guerra
fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio,
venne squartato. C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel
territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia. Orazi e
Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che
i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala
degli Orazi e Curiazi del Campidoglio. TeatroModifica Sulla vicenda degli
Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche: Gli Orazi e i Curiazi di
Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la
cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi
di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano,
eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three
Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici
scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto.
Orazi e Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione
in chiave farsesca del mito. Curiosità La vicenda dello scontro tra gli
Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del
Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola.
Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due
clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni
criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli
Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con
la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come
sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le
relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is
quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita
sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit
iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di
Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età
regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale Mitologia
Tullo Ostilio terzo re di Roma Gens Horatia famiglie romane che
condividevano il nomen Horatius Il giuramento degli Orazi dipinto di
Jacques-Louis David Grice: “Colletti takes negation more seriously than
Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s
distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical
contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the
principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian
language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s
the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in
modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or
strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have
the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek
‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate
with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with
‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of
‘utterance’ to include the characterization of something that need not be
linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which
may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but
that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero,
the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then
pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’
and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and
I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti.
Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la
contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian,
“Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das
Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter –
anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario,
l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio,
dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.
Grice e Colizzi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Norcia – filosofia
perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Norcia, Perugia,
Umbria. Grice:“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously,
for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose
one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right –
while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’
is involved!” Compone
il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i
riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste
nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato,
di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da
livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica
principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore,
in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza
di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero
fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue
quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da
svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be
confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più
celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che
collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e
qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente
l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la
quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza,
scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento
dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia.
La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a
un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia
di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf.
Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu
applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani,
“Ortodossia ed eresia : il problema storiografico nella storia e la
situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di
questo settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di
far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per
dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E
primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo
delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di Bruno
Letteratura italiana Einaudi Edizione di riferimento: Bruno Nolano,
De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici italiani, a
cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi Sommario
Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion del Nolano de gli
Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo Dialogo Seconda
parte de gli Eroici Furori Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor
Filippo Sidneo Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI
FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o
generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto
constante- mente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la
bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile
può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo,
afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or
fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in
atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più
scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con
mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue
torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi
pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una inde-
gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico,
degno più di com- passione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del
mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi
suppositi fatti penserosi, con- templativi, constanti, fermi, fideli, amanti,
coltori, ado- ratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza,
destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza ri- conoscenza e
gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che
trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più super-
bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine,
avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir
veneni et instrumenti di morte Bruno - De gli eroici furori dal vascello di
Pandora, per aver pur troppo largo ricet- to dentro il cervello di mostro tale?
Ecco vergato in car- te, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et
intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’inse- gne,
d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epi- grammi, de libri, de
prolissi scartafazzi, de sudori estre- mi, de vite consumate, con strida
ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, do-
glie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir
gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco,
per quel vermi- glio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel
crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella
pianella, quella parsimonia, quel riset- to, quel sdegnosetto, quella vedova
fenestra, quell’eclis- sato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel
se- polcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana,
quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un
fantasma, un sogno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della
generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e
passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a
l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un na- vilio,
una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni
abbia possuti produre la no- stra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso
quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lez- zo, d’un
pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una
lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son manifesti a tutto il mondo; a
fin che ama- ramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso?
son forse nemico della gene- razione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi
forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a
non raccòrre quel più dolce pomo che può produr l’orto del nostro terrestre
paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo
tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo
la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri
predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri
successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi
nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi s’abbiano
possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir
voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se cossì come mi
trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia
degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buo- na
volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio
considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo
d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti
gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e
sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte
istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar
il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or
vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque
voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio
conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato
a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne,
benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli
denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et
amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per
tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non
hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di
quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo
che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante oc- cupa la
terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo
fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano
aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordi- ni e misure,
a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde
Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son
dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a
bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et
altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno es- sere
differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori
eroici otte- gnono suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in
stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli
alberi de le selve, e porci cinghia- li sotto gli marini scogli. Però per
liberare tutti da tal su- spizione, avevo pensato prima di donar a questo libro
un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et
affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come
interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo (per dirla) chiamarlo
Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio
re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal ri- goroso
supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per usurpar in
mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi
sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir
si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli de Dio,
de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio divino che
farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la nostra
simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra per
la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella,
quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra
dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del
sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché
ivi le figure sono aperta e manife- stamente figure, et il senso metaforico è
conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli
occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella
fragranzia d’incenso, que’ denti che paio- no greggi de pecore che descendono
dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna
di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a
cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di
parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che
ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime
gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida,
a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde
facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fon- damentale e prima
intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati
concetti tali; il qua- le appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali
e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivo- glia fola, romanzo,
sogno e profetico enigma, e transfe- rirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria
a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a sti-
racchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto
disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace,
ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire
come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché
come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo
che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui se fusse
presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine e modo che
nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono
absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi
essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi
eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli,
sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto
vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai
delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una
donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a
pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante
del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto
manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una
perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual
sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in
un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e
vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un gra-
nello di senso e spirito, possa spendere più amore in co- sa simile che io
abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io
voglio adattarmi a de- fendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si
mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Val- clusa, e non voglio
dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di
persuader ad al- tri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse
studiosamente nodrir quella melancolia, per cele- brar non meno il proprio ingegno
su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale
e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca,
del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro
ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della
fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martel- lo, della
caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe
per la celebre bocca de can- zonieri suoi, che debbano e possano le prefate et
altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non] voglio che
sia tassata la dignità di quelle che son state e sono de- gnamente lodate e
lodabili: non quelle che possono es- sere e sono particolarmente in questo
paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché dove si
biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non è orbe,
né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse
de tut- to il sesso femenile, non si deve né può intendere de al- cune vostre,
che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine, non son
donne, ma (in si- militudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustan- za
celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo
numero e proposito non voglio no- minare. Comprendasi dumque il geno ordinario.
E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò
che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del
sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo
et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per
particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è
quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de
maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le
potenze et atti più nobili de l’ani- ma intellettiva. Il qual intento essendo
considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e
veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi
amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli
uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque
essendo il mio animo, ingegno, parere e de- terminazione, mi protesto che il
mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in
questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a
gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati
in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’
cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque
arti- coli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi
intrinseci sotto nome e figura del mon- te, e del fiume, e de muse che si
dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come
quelle che più volte importunamente si sono offerte: on- de vegna significato
che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a
le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure
è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post
parietem nostrum, respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La
qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori
e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti,
affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il
possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con- verta in
Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa l’anima
ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile
che sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi- mento; onde
disse la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia
fratres mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in vineis». Là sono
esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto, l’Appulso fatale, la
Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de
tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et
organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale
contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o
per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per
qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla con- cordia, ogni
diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi
d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente de- scritto
l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa
composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di
contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le
speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti et atti
in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando
ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama
et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e
si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi
contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e
subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta
o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son
nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me,
viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap-
partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber
abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa
somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente
quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli
piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che
vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto
approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli
definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si
esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal
efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce)
le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de
vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma.
In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de
l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del
furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di
questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore,
l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca,
la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì
travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in
questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e
fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che
si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso
de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti.
Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e
forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di
sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le
antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli.
argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della
seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato
dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello
sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile
occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo
ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno
illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere
offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza
profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de
le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien rammentata la
contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa
intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso
l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala
corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira.
Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente
della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne
in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate
et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda
contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione
vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come quieta. Nel
decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale, fere e
sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari che
mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le quali
vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo s’esprime la condizion del
studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi
s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il
profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono
relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti
dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu
detto dal sapiente: «qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria».
Nell’ultimo è più mani- festamente espresso quello che nel duodecimo è mostra-
to in similitudine e figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un
discorso dialogale sopra di quello, specificato il primo motivo che domò il
forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo- roso imperio di Cupidine
superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio, elezzione e scopo. Nel Terzo
dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte del core a gli occhi, e de gli
occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo delle potenze cognoscitive et
appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risve- gliata, addirizzata,
mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata,
formata e rav- vivata dalla volontade, procedendo or l’una da l’altra, or
l’altra da l’una. Là si fa dubio se l’intelletto o general- mente la potenza
conoscitiva, o pur l’atto della cognizio- ne, sia maggior de la volontà o
generalmente della po- tenza appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può
amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo modo si de- sidera, in
certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar
l’appetito “cognizione”, perché veggiamo che gli Peripatetici nella dottrina de
quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin a l’appetito in potenza et
atto naturale chiamano “cognizione”; onde tutti effetti, fini e mezzi,
principii, cause et elemen- ti distingueno in prima, media, et ultimamente noti
secondo la natura: nella quale fanno in conclusione con- correre l’appetito e
la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia, et il soccorso
dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato
l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et inter- minabile l’atto
della cognizione circa il vero: onde “en- te”, “vero” e “buono” son presi per
medesimo signifi- cante, circa medesima cosa significata. Nel Quarto dialogo
son figurate et alcunamente ispie- gate le nove raggioni della inabilità,
improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de co- se
divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è no- tata la raggione ch’è
per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo cieco per il tossico della
gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne diverte e
desvia. Nel terzo cieco per repentino appari- mento d’intensa luce si mostra
quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel quarto,
allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo alta
contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre
mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata l’improporzionalità de
mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel sesto che per molto
lacrimar have svanito l’umor organi- co visivo, è figurato il mancamento de la
vera pastura in- tellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono
inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente af- fetto che disperge,
attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo per la
ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto dell’unione
della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza
apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la presenza di
quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l’aspetto
di fol- gore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la
causa della sua cecitade, vien significata la raggion de le raggioni, la quale
è l’occolto giudicio di- vino che a gli uomini ha donato questo studio e
pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più al- to che alla
cognizione della sua cecità et ignoranza, e sti- mar più degno il silenzio
ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria ignoranza;
perché è dop- piamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la
differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi in- sipienti: che
questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere,
e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti giudici della sua cecità; e però
son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della lu- ce: delle
quali son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto
dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali
(secondo la consuetudine del mio pae- se) non sta bene di commentare,
argumentare, descife- rare, saper molto et esser dottoresse per usurparsi uffi-
cio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de
divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli
ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura lasciando a qual- che
maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale
(per alleviar overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove
ciechi, co- me in forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte al- tre
differenze suggettive correno con altra significazio- ne, che gli nove del
dialogo precedente: atteso che secondo la volgare imaginazione delle nove
sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono
subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono
ordinate le proprie intelligenze che secondo certa similitudine analogale
dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da Caldei, da Ma- ghi, da
Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve ordini per la
perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et in certa
maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si signifi-
che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero
e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori più
illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio
lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il
circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici che per certa
conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato
del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima
conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes ubi
mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno:
rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è
significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene
per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione voglion
che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora è
significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una et
un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo
le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni
delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse cose:
perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de
particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato
appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti
sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et oscure regioni; e
che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di
queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella eminenza. Ma
tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi
grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra
teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et
altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è
vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da
ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella
superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con-
fermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et
instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar
questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni
e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser
divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re-
frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne,
che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar
gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per
veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la
raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi,
or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade,
or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno.
All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la
qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da
quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con
l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza
d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir
ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è causa d’oblio
e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano
et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: «Figlia e
madre di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion e contristazion de
l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or che è messa in
speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro mio vase fatale»,
è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il
qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è
original- mente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse
lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora
che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e
superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da
Pitagorici e Platonici nel descen- so da un tropico et ascenso da un altro. Là
dove dice «Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi
regni», significa che non è progresso immediato da una forma contraria a
l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna
trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali,
certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de
l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sa-
pienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette
acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel
continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano,
dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che ap- parve revelato
procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale.
Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et ammini-
strano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli
deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad
aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar
qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola pre- senza e gemino
splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e
gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua
è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligen- ze, nove muse,
secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si contempla l’armonia di
ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo
della su- periore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e
vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione
concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più
occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita
potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri
luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le sfere,
intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi,
l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della
mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e
magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio- ri,
cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità
sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà
infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son
que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere
addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna
a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri
fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il specchio
ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni con chi
l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la
filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose
eroiche siano addirizzate ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate
dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un
signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio
particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne
gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale.
avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore
d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo
della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che
sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli
suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde
di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine:
Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al
fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a
lungo infortunato amante. alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno
lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano gli
quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f significa
la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei
dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A
4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li
4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con
sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che
parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l
26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21:
intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altez- za; G 8, f 1, l
2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del
gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10:
da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima:
Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li
10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li
6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello
aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene
con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima:
quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni;
Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le di- more alterne. ISCUSAZION
DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e
Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo
stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar
da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non
regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà
sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie
sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana,
qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio
(qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte. DE GLI
EROICI FURORI Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori
Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri-
mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine
a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse
che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole
ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi
mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura,
àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o
fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo,
avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in
vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più
caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come
deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può
trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia,
ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e
difensori che l’assicurassero, iuxta quello. Non mancaranno, o Flacco, gli
Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla
contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però
come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da
un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con
più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui
rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so.
Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et
alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché
da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta
ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è
avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro,
che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro
ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione.
cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo
Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se
nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re,
dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che
degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia
speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio
exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti
e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di
vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser
determinate certe specie e modi d’ingegni umani. cicada Son certi regolisti de
poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi- dio,
Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori,
esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo,
fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole
princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in
particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e
non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori,
equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo
geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a
coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da
colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole
di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che
volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma
scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da
le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le
poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e
specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente
poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a
delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi
dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero,
Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver
propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. cicada Dumque han torto
certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o
perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii
de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la
consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con
l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel ch’è detto e
proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per
censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che
essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli ve- ri
poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son
altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per
rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi
render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a
dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde
l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no
essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti
et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo
da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie.
Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de
pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e
leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali:
e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di
quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da
scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate.
Letteratura italiana Einaudi 27 Giordano Bruno - De gli eroici
furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in
diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà
de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con cui si
conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel tempo
de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso dove
“abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi “nodri-
sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate profonda
dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo “inalzo”
il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte sotto li cui
arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte” in “vita”, gli
miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli: cioè de- stinatemi
immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte, cipressi et
inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cie- lo, gli più
gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le necessitadi
parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria
d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli
altri. Séguita. tansillo Dice appresso: In luogo e forma di Parnaso ho ’l core,
dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte
l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore
lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui,
com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi, non favorevol
man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie,
onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie
onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen- do esser l’alto
affetto del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”, dicendo esser le
“bellezze” e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fon- ti, e
questi dice esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende l’affetto; da quelle
bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si
dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno illustre- mente coronato
per via del suo core, pensieri e lacri- me, che altri per man de “regi”,
imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: “il core
in forma di Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno
a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede
l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte
Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon di tromb’ il
capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun
in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual
insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non
accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo,
chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola io resto affiso, chi
sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più
ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade umana che sie- de in poppa
de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti
d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il
“suono de la tromba”, cioè della determinata elezzio- ne, chiama “tutti gli
guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per
esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che
son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra
parte inchinano: e cerca constituirgli tutti “sott’un’insegna” d’un determinato
fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente
vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o
nullamente o poco ubediscono alla raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli
loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi
come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: pro- cedendo contra gli altri
con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto
riguarda”, a cui è volto con l’in- tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga
“ingombra la mente”. “In una sola beltade” si diletta e compiace; e dicesi
“restarvi affiso”, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di
quiete. E da là sola- mente concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli
constituisce l’ultimo fine di perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè
dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il
fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché
cossì la cosa amata l’amore converte ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli
elementi attivis- simo è potente a convertire tutti quell’altri semplici e
composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo “Conosce un paradiso”: cioè
un fine princi- pale, perché paradiso comunmente significa il fine, il qual si
distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in
similitudine, ombra e parti- cipazione. Del primo modo non può essere più che
uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo be- ne. Del secondo modo sono
infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e
sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte
sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola;
tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio,
ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel
ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme
e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il furore e
nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme de suoi
pensieri, aspirando a l’amo- rosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli
affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette
quattro cose avanti: l’“amore”, la “sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”. Dove
l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico si- gnor e
duce de lui; la sorte non è altro che la disposizion fatale et ordine
d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa
amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de
l’amante circa la cosa amata, il quale non biso- gna donarlo a intendere a chi
ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore “ap-
paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che ve- ramente ama non
vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de referire quel che ne mostrai
in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai
scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di
sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro
del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più
m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai
scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle
et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce
e l’ardor caro. La sorte “affanna” per non felici e non bramati suc- cessi, o
perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men
proporzionato a la di- gnità di quello; o perché non faccia reciproca correla-
zione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto
“contenta” il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa
in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”,
perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con
cui va sempre insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per
necessaria conseguenza dove lei si dimostra (co- me sen può far esperienza
nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno,
meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua
figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto
quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio
sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in
pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia;
Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro
crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te
medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor
per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor
saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è
detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per
le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturi- sce il sdegno:
percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e
mette in di- spreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada
Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto
irrazionale? tansillo Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amore non
perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è
in sugetti tali: atteso che in qualumque è più intellettuale e speculativo,
inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to,
studioso e circonspetto, promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion
di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata.
In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa
uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché
ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e
distinguere quel che gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli
suggetto di di- spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per
proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo
Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti
giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati
quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar
circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di
quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada
Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e
“ria” si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri
e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché
le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta
similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e
querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol
dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha
porgiuta la raggion o cielo? Cossì chiama l’oggetto “alta bellezza”, perché a
lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più
degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien
fatto sud- dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la gelosia, perché come
l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di
maggior nemi- ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che
nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a
mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de
l’amore: “Mi mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé,
e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del
suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la
presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra, chiarisce, apre
l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto
mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui
tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi
entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa
scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie
vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre
l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir
non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi
perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo
chiami cieco. Mostra dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et
effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate.
“Il toglie via”, di- ce de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de
l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimo- stra, e quel che vede e
brama, gli è lontano et adversa- rio. “Ogni ben mi presenta”, dice de
l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la
cosa unica, principale, et il tutto. “Me l’invola”, dice della Gelosia, non già
per non farlo presente to- gliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene
non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso
languire. “Tanto ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia” nel suo volere per
forza d’amo- re, qualunque sia il successo. “La mente”, cioè la par- te
intellettuale, ha “noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce
l’amante. “Il spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser
rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente.
“L’alma”, cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova
oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considera-
zion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di
guerra”, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da
quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le
fervide fiamme del mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso
continuando il suo pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica
sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte
far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me
l’impenne, lui brugge il mio core; lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio
sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un
suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro
del mio core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna.
Quattro principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii
et una contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o
mia sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il
tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”,
tu, Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle
vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore,
e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui
per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le
mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi
sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio
et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo
ogget- to è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma
de l’amore è la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella
sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque
dopo aver detto “nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? tansillo Or qua
comincia il furioso a mostrar gli af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che
sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce
cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir
cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il
ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo
e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli
occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al
basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e
quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar
quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per pro- vare quel
che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde
diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non
è vero oro, il vino composto non è pu- ro vero e mero vino); appresso, tutte le
cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li no- stri
affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna
senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle
cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo
delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura italiana ne è causa che
troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà
sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia.
cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come
senza contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta
quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt,
clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion
de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto
qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado
del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla appren- sion
del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel
ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può
essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per
l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che
l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è
l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la
Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi
aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico
è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del
futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto
e timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni:
«Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre
del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». cicada Volete dumque che colui
che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo
Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre
peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo
è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi?
quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No:
ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il
bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto,
mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de
l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette,
né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle
voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente
il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi-
derazione ha presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le
cose mutabili come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che
vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto
a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal
contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente
confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è
partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non
tendo ad inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse
veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men
alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non
fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico,
intendi come due virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi-
nimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li
contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii,
perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono
ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini.
cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno
vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude:
perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là
dove è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la
minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in-
differente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più
freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né
caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con-
tento e minimamente triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella
casa della temperanza, e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo
forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per
venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente
parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma
come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in
un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo
gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada
Molto ben posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo
eroico furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è
nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha
l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti
desiri; è per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla dal core
per cura d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne
l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri
ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella
misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava
la guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma
s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue
passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver
letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius
animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum
aliis». tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi,
qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto
(ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene,
d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi
contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene
triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra
mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan
lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto
e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta
de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto
o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. cicada Come con questo
che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato
o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene
al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi
inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è
dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura,
la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli
contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è
morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte morta vita vivo”.
Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso:
privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non
vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considera- zion de
l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per
l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et
è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger
numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale
che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog- giar e descendere,
sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per
la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il
contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la
raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pa-
store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si travaglia; quai
pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di
quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che
vuoi? fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio.
Perché? Perché non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel
rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te?
Sì. Con che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé?
Mercé. Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che,
se cotal follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché
ardir tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo
sdegno, più che miei tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non
già perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma
perché infelicemente ami: men- tre escono que’ strali che son gli raggi di quei
lumi, che medesimi secondo che son protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e
graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno.
Con questo vien mantenuto in speranza di futura et incer- ta mercé, et in
effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la
sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen
possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si
compiace, come mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del
qual non vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore
parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la
già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa
amata. Dice dum- que la speranza esser fondata sul futuro, senza che co- sa
alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma
d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con
ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più
contrapesa quel che potrebbe es- ser di male in un caso, che bene in un altro.
Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento,
che di poter aprir la porta a l’occa- sione per la quale la cosa amata si turbe
e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser vera- mente eroico:
perché si propone per più principal fi- ne la grazia del spirito e la
inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina
quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre
spe- cie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o spe- culativa, l’altro
a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria: cossì son tre specie
d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla consi-
derazione della spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella
delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella
concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti altri, se- condo
che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che
con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si
moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso
l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno
e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son
compresi nelle reti d’amore, altri tende- no a fin del gusto che si prende dal
raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual otten- to (o
speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal
modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano
magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose
divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca
e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a
fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia
del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del cor- po; e de tali
alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui
lontananza si la- gnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che
presumendo in questo non vegnan privi di quell’affa- bilità, conversazione,
amicizia et accordo che gli è più principale: essendo e dal tentare non più può
aver si- curezza di successo grato, che gran téma di cader da quella grazia
qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero.
cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi
derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile
amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un
oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza
et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta
ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non
v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del
corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di
far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di
tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che
potesse al presente esser fascinato da qualche sta- tua o pittura, dalle quali
mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso,
se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente
figura venesse ricuoperto) dica: “Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento”. tansillo Poneno, e sono più specie de furori,
li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mo- strano che
cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri
consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in
fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per
esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile
senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario
sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti,
nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purga- ta,
s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in
quei che son colmi de pro- pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il
mondo sappia certo che se quei non parlano per pro- prio studio et esperienza
come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e
con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior
admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per
aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno sti- molo e
fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate, della giustizia, della
veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono
gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendo- no il lume
razionale con cui veggono più che ordina- riamente: e questi non vegnono al
fine a parlar et ope- rar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici
et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli
primi hanno più dignità, potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la
divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et efficaci, e son
divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi
come una cosa sacra. Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e
quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede
l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori
de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste
sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma
amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con
transformarsi et asso- migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi
d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale
che siegue l’apprension intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui
vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di
quello viene ad accendersi, et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui
appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume
oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile
et impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più
vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli
altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che
fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal
caso e rapito dalla disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da
certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le
Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni,
rui- ne e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze
cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne
l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi-
cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure,
dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia,
concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte
le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in
questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come
un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai
ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar
l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a
dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove
muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto
l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e
consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e
perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo
sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che
non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta
dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove
non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va
spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido
si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra
contempla (quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci
di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la
padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere
qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice:
Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se
quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il
lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’,
al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è
dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin
sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni
impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor
suo non esser come de la farfal- la, del cervio e del lioncorno, che
fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che
non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da un sensatissimo e
pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro
refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra
libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo rispetto
al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento
nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne
l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a
quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa
saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci
son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla pri- ma verità: e le
specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso
io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà
m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga
la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio,
el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma
tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma,
el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio.
Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame,
sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non
son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come
instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno
alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quel-
le, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi:
onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel
che è in- dice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’inna- mora del
corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama
bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli
deter- minati colori o forme, ma in certa armonia e conso- nanza de membri e
colori . Questa mostra certa sensi- bile affinità col spirito a gli sensi più
acuti e penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et in- tensamente
s’innamorano, et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si
sdegnano, con quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel
cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si
faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a
farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha
forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante non possa fuggire,
se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come la onestà, la
gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che
m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non creder
sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il
spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac- ciati: di maniera che
quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non ha però
efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposi- zion credo
che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore
d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma
non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi
nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’
son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e
tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro
spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla
conformità si suscita, accende e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi
facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire
ancora quel che per esperienza conosco, che quan- tunque in un animo abbia
discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una
vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ri- cevuti favori e
cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii questo ultimo
massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o
farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava
ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà,
es- sendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue
disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella di-
stinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti
vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amia- mo,
perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli
vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante
quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa
astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo
rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè ch’io son costretto dal furo- re
d’appigliarmi al mio male». In contraria disposizio- ne fu, o per altro oggetto
corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse:
Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio,
Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio
core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra
adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in
desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto
studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi
tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e
divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti
martìri; perché ogni amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla
quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in
cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che
degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di
quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual
tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio
ch’il martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap-
parenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli
non lasciarà per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli
gra- zie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie
intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa
priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste
ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi- nitade, che se altra
specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e
vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia
possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal bel- lezza che gli
adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero:
perché nessuna cosa sensibile, né spe- cie di quella, può inalzarsi a tanta
dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se
(come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità istessa? tansillo La è oggetto
finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder
Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in
qualche similitudine; non tale Lequal possa esser abstratta et acquistata da
bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata
nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a
perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelli-
gibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per
conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità in sé essendo ella in
Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et
essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per
quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste
specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore,
sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della
di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio
eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello,
si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi
che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente
maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a
considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove
veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti,
opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove
sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi
d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e
muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è
luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma
come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri,
e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima,
l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino: cossì
come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione in-
tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce alla
sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del eroico
furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in
atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può apprendere
l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in
certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la
consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove non è fine.
cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non
sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in essenza et
in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in
questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar
il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è lassa l’alma
a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in
excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua, E ’n tanto
studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol dire ch’in
tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in co- tal
stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di
questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi
par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender questo
quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le
scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo
stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener maggior
perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qualche
nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono
costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora
di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa
trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar
l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai
perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto
l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia
presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua.
cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar
uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo
possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar
degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che
riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una
degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito
feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il
piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo,
e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi,
anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita
pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti,
temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer (respond’io)
l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte
ne destina». cicada Io intendo quel che dice: “basta ch’alto mi tol- si”; ma
non quando dice: “e da l’ignobil numero mi sciolsi”, s’egli non intende d’esser
uscito fuor de l’an- tro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et
ignobilissima moltitudine; essendo che quei che pro- fittano in questa
contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene;
oltre, per “l’ignobil nu- mero” può intendere il corpo e sensual cognizione
dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura di
contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali
l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi- fico che da l’anima come un
raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto
resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come
intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo
non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le
potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche
volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella
formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come ri- svegliate e
ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle
cose superiori, si for- zano al mondo intelligibile come al natio soggiorno;
quali tal volta da là per la conversione alle cose infe- riori, si son
trabalsate sotto il fato e termini della ge- nerazione. Questi doi appolsi son
figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che
dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone,
Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le
suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de
l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun
delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo
un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella
natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e
soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria eccellenza
e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però vogliono i
Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non solo per
spontanea vo- luntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature, ma et
anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto
fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che
l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle
declinano dalla divinità, quanto per cer- to ordine per cui vegnono affette
verso la materia: on- de non come per libera intenzione, ma come per certa
occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla
generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a
quella natura particolare, non già per quanto appar- tiene alla natura
universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la
giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversio- ne che
vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a gli abiti superiori. cicada
Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te dalla necessità del fato, e
non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato,
natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate,
tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Ploti- no) vogliono alcuni
che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli
confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché
la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose
inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imagi- nazione nel
moto e diversità; la mente sempre inten- de uno, come l’imaginazione sempre
vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è
composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il
medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa
conversione e vicissitudine è figurata nella ruota del- le metamorfosi, dove
siede l’uomo nella parte emi- nente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e
mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende
da la destra. Questa con- versione si mostra dove Giove, secondo la diversità
de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse
figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in
forme bas- se et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria
nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico
inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de
l’in- telletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la
forma de suggetto più basso. E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un
Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”.
tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende
al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si
studia al pro- prio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel
primo discorso apporta tutta la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine
della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i
mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il
dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui
il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et
alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio
ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran
cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti
morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento
alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui
slaccia “i mastini et i veltri”: de quai questi son più veloci, quelli più
forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade;
ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto
umano è più amabile che compren- sibile la bontade e bellezza divina, oltre che
l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come
lanterna. “Alle selve”, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da
pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, “il giovane”
poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il
furore, “nel dubio cami- no” de l’incerta et ancipite raggione et affetto desi-
gnato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto
il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la
trac- cia di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti
ideali, che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che
non s’offreno a tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel
specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade
e splender divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui
superiori et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel
busto e faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per
abito et atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina,
d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in
medesimo geno la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere,
il quale è di- versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì
è. Dice “in ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella
corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa
l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza,
l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici,
Caldei, Pla- tonici et altri al meglior modo che possono, s’inge- gnano
d’inalzarsi. “Vedde il gran cacciator”: com- prese quanto è possibile, e
“dovenne caccia”: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per
l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose ap- prese in sé. (cicada Intendo, perché forma le specie
intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son
ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion
della volunta- de, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada
Intendo: perché lo amore transforma e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai
bene che l’intelletto apprende le cose in- telligibilmente, idest secondo il
suo modo; e la vo- luntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la
raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani
che cercavano estra di sé il be- ne, la sapienza, la beltade, la fiera
boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di
sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e
s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad
essere la bramata preda, perché già avendola contrat- ta in sé, non era
necessario di cercare fuor di sé la di- vinità. cicada Però ben si dice il
regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del
riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come
l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pen- sieri, corre
e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e più leggermente,
cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi più folti, alli
deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e
commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordina-
ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua finisce la sua vita
secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e comincia a vivere
intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et ine- briasi di
nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive la maniera con
cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar solitario, a quella
parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto t’annida: ivi ogni tuo
mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte. Rinasci là, là su vogli
allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero destin hav’espedit’il
cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và, più nobil ricetto bramo
ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede, è cieco detto. Và, ti
sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non tornar a me se non
sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi
cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è inviato da la gabbia
in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini
suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da
fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano.
Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, appli- candolo a più
alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze
de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due ali. E gli com- mette per
guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l’amore: il
qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell’altra
natura alla quale aspira o quel stato dal quale va pere- grinando bandito. Onde
disse: “E non tornar a me che non sei mio”, di sorte che non con indignità
possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei
non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che da Cabali- sti è
chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di Salomone dove l’amica dice:
Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire un troppo crudo amor
mi fa languire. Da altri è chiamata “sonno”, dove dice il Salmista: S’avverrà,
ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui
pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come languida per esser morta in sé,
e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al core: ché tropp’ il mio da me
fatto lontano, condotto in crud’e dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma
e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco
insano, non più conosce quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore.
Bella fera, ch’in pene tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue
punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi, accenti e modi; quel che
languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi
l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di certo
amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli similmente
appassiona- ti: come se non a felice suo grado abbia donato con- gedo al core,
che corre dove non può arrivare, si sten- de dove non può giongere, e vuol
abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana
da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi verso l’infinito. cicada Onde
procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento?
onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che pos- siede?
tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in- telletto divenuto
all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà
all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là:
perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno
de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intellet- to
l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che
qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è
presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con
ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede
che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per
sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è
l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie,
questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque
dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse- guentemente bello per
participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha
margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana.
tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo cicada tansillo conveniente
che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe
infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infini- to sia
infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha
raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da im-
perfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi del- la perfezzione, per
giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei
sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo
dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel
che perséguita l’in- finito, è come colui che discorrendo per la circonfe-
renza cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada
Or se non vuoi dechiararti, io non voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace:
che intende per quel che di- ce il core esser condotto “in cruda e dispietata
mano”? tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente
si dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più
in desio che in possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto
lieto soggiorna, perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei
pensieri che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa?
tansillo Gli affetti sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento
del corpo. cicada Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può
aggiutargli, né favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la
quale essendo troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco
sollecita ne l’altra. cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama “qual
insano”? Perché soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo
Anzi insani son chiamati quelli che non san- no secondo l’ordinario, o che
tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più
intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appres- so: quai sono
le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo Punte son quelle nuove che
stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della
bellezza presente che accende quel che gli atten- de; catene son le parti e
circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli
oggetti e le potenze. cicada Che son gli “sguardi, accenti e modi”? tansillo
Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa
presente; accenti son le rag- gioni con le quali ci inspira et informa; modi
son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor
che dolcemente languisce, suave- mente arde e constantemente nell’opra
persevera; te- me che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e
che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo
ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per
tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri
scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il
cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et
il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni del mio
core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive
la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la generazione per
l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che
solle- citati e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a
richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare perché
invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente vegnano anch’essi sedotti a
rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armi- no d’amore: di
quello amore che accende con dome- stiche fiamme, cioè quello che è amico della
genera- zione alla quale son ubligati, e nella cui legazione, ministerio e
milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il vedere chiudendo
gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che quella qual gli è
presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro ufficio non
vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per donargli saggio delle
raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro, vorrei
intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli pensieri:
“il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede dal
vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile dal
vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o
significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente
senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applica- zione che fa
l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materia- le o intellettuale. Quando dumque
si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del primo
modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente affezzione del
appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada Questo è quello ch’io volevo udir
da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o bene che procede
dal vedere, onde avviene che amiamo e desi- deramo di vedere? Et onde avviene
che nelle cose di- vine abbiamo più amore che notizia? tansillo Desideriamo il
vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere; perché siamo
informati che per l’atto del vedere le cose belle s’of- freno: però desiderano
quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo il bello e
buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più tosto quello è parangone o
luce per cui veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il rio e brutto.
Però mi pare ch’il vedere tan- to può esser bello o buono, quanto la vista può
esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è bello né buono,
come può cadere in desiderio? tansillo Se non per sé, certamente per altro è
deside- rata, essendo che l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia.
cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di sen- so né d’intelletto?
come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è
notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto
alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensi- bile, se sia cosa
corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera?
tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap- petito et appulso al
sensibile in generale; perché l’in- telletto vuol intender tutto il vero,
perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la
potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi
quanto è buono o bello sensibile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le
cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non
séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa
desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non
desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser
particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la
potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellet- tiva
tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto,
aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a l’atto in universale, come a
cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi
l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale
quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale.
cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è
la figura o la specie sensi- bilmente o intelligibilmente representata, la
quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli
occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in
se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma
individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello,
all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima
vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vi- sta suole promuovere
l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto,
sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che
oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in
infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del
bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista
esteriore? tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre ama- re quel che ama,
vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata
parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol
dumque sempre oltre et oltre vedere, per- ché quello che potrebe oscurarsi
nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il
quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare.
Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la
vista si ri- ferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose in-
telligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima
intenda quando dice: «repri- met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or
seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la
querela de la madre contra gli det- ti figli li quali, per aver contra
l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano
ri- masi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli,
per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli,
ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che
queste potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì
grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio
fuoco alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’
tenaci artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi
misera priva del core, abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza,
la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia
po- vertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo?
perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo
le potenze na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di
specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo
supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste
amiche e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la
simmetria de le qualitadi ele- mentari, se mi abandonano gli miei pensieri
tutti et af- fetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divi- no? Su
su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose
sensibili e l’intelletto de cose intel- ligibili. Soccorrasi al corpo con la
materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a
fin che conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per
mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica
più tosto che per esterna violenza ho da veder quest’orri- bil divorzio ne le
mie parti e membra? Perché l’intel- letto s’impaccia di donar legge al senso e
privarlo de suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, vo- lendo
vivere secondo gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non
quelli possono mantener- lo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua
co- moditade e vita, non a l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità,
dove un essere vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di
cose diverse; dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso
secondo la sua legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne,
il spirito alla legge del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non
si confondano, non si conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla
legge de l’altro, se non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della
raggione. È pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo,
massime dove l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più
domestico e come in propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di
voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a
procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge
dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti
dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte
di me. Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e
naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che
non è se non in ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa
naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi
ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre
secondo la condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il
nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi
forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la
natu- ra di donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre
tanto stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l
primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la
causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del
corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella
forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e
forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi
cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di
speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi
riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol
rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà
che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a
l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi
dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre
consista ne l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima:
atteso che ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì
qua la medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme
col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar
quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una
suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il
raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et
oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco,
cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria
et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura
corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a
cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto
lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade.
Come quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la
rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si
converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario
descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione,
ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi
l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo mortale,
e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi
d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima-
le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale
supera l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle
quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi.
tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non
quanto gli è vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può
deside- rar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano.
Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad
una scro- fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto
séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile,
secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad
un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno
qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che
sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa
dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla
contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far
differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se
una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle
de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al quale
non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li
donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel es-
sere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo “O cani d’Atteon”,
viene introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui
la mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con
tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et
ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei
possa esser conosciuto, si lamenta de pen- sieri li quali al tardi
convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da
lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di
cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine
di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di con-
templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde
con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora
vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva
nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et
absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il cor- po è vivo,
ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate.
cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo,
invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo
corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi
de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in alto, e mostra il
rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia
corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non m’impacciar “ch’io rimonti”
al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami ormai che più non verse pianto
da gli occhi miei, o perché mal posso soccor- rerli, o perché rimagno divisa
dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi
scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io
faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai
fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pen- sieri.
Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre- scimento procede a l’odio de
cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo greve converrà
che natura mi disciolga?” e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto
bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito della
principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzio- ni e
furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me di cognizione et
intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quel- la dottrina
che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi
progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per
quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la
providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che in- tendi de
l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se
tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa
l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura,
viene a essere inmobile et inanimato et infor- me, quantunque sia luogo de
mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali
grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene
appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro,
come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che tal anima non
ascende né descende, ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de
potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con
l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra
gli tropici della generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi,
servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza
sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva
nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal
proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime par- ticolari
diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto
a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et
ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura,
secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come
vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente
Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli
affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala della natu-
ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente.
cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o
basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad
essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o
secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede:
non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse
Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo
Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è
promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto mi
sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?” Questo
medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte,
qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l
tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia
mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error
non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende,
ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante
emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. “O destino”,
o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà ch’io monte a quel monte”,
cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi
quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate
quelle “conte”, cioè rare “bellezze”? Quando sarà, che “for- te” et
efficacemente “conforte il mio dolore” (scio- gliendomi da gli strettissimi
lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui che fe’ gionte” et unite “le mie
membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè l’amore che ha unito insieme
queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro,
e che ancora queste “potenze” intellettuali, quali ne gli atti suoi son
“smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa- cendole alquanto respirando
aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste li-
bero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove
forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il “mio
spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è oltrag- gio che li resista,
non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se “tende” et
arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e perviene a quell’altezza,
dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che
prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se
stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la propria capacità; e quel
“solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che
“dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e
far tutto è la medesima cosa; in quel modo che “dice” o fa chi tutto “predice”,
cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare
è il vero fare e principiare. Ecco co- me per la scala de cose superiori et
inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede
da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi.
cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in
questa vicissitudinale circola- zione che si vede ne la vertigine de la sua
ruota. cicada Fate pure ch’io veda,
perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel
ch’appare esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. tansillo
Vedi come portano l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di
considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de
l’im- prese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma
del corpo de la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a
dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta
un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto
la testa di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso
vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per
dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si
vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele-
mento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza
risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde
se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a crepare
il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con
violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve
in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso,
dove come in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che
della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de
lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri
accender l’aria. – E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello “At” ha
II. tansillo Appresso è designato un che ha nel suo scudo parimente
destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che distende gli raggi
nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper ubique to- tum.
Giordano Bruno - De gli eroici furori virtù di supponere differenza, o
diversità, o contra- rietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso
del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene espli- cato ne le rime seguenti
sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco umor
porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso
accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza
scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria,
al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia
dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né
la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta
materia significata per la “terra” è la sustanza del furioso; versa dal “gemino
lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal
petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo
del suo core non come piccio- la favilla o debil fiamma nel camino de l’aria
s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come poten- te e
vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge
alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo
che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più
eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non
stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse
regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco,
a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesi- mo, sempre et
in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli
si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e
l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste.
Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a
noi nel tro- pico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del
Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte, con
cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la
di- sposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li
venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse
in un’altra par- te, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse
lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere,
io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona
tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte:
cossì l’oggetto del fu- rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto
passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de
suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a
l’acqui, o par- tono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica
appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni
torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, ogni postiglion d’Eolo più si
sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro
ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e
calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E
benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto:
infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non
tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto
più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite
megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto
esplicato ne la secon- da; come l’uno e l’altro è molto propriamente signifi-
cato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il
terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che
appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cie-
lo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole,
e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice
Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso
significato per il fan- ciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti
gli accidenti di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero
edifica castegli in aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è
l’amore, la mate- ria l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice
«Mutuo fulcimu»: cioè io vi edifico e vi suste- gno là con il pensiero, e voi
mi sustenete qua con la speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’ima-
ginazione et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita
se non fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È
vero che non è cosa tanto vana e tanto chi- merica fantasia, che non sia più
reale e vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio,
o altra specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per
mezzo della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi
più vegnono giovati gl’infermi con crede- re quel tanto che quelli dicono, che
con intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de
nubi, a l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio
spirto refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio
destin fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi
muoio, e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de
fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e
soglion far cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’,
o Amore, man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo
pasce in fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo
d’ar- dire d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente
suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un
poco (perché voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che
senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli venesse manifesto, non stima egli
gioia tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime
felice la sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a
dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non
è quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma
solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a
la vista del qua- le fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo
et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella
mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir
quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione
de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, in- nocente et amica
va ad incorrere nelle mortifere fiam- me: onde “hostis” sta scritto per
l’effetto del fuoco, “non hostis” per l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo-
sca passivamente, “non hostis” attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore, “non
hostis” per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella?
tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser
felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me
lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica
fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la
morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual
tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, ch’il
stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura
mostra la similitudine che ha il furio- so con la farfalla affetta verso la sua
luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro:
essendo che comunmente si crede che se quella mo- sca prevedesse la sua ruina
non tanto ora séguita la lu- ce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di
per- der l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men
piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a
contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclina- zion di
natura, per elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e
muore: più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro
piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si
ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché
gli par degno d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente
si muta con la luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con
la fenice unica. V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa
la quale è il motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto
potrassi inten- dere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di
Farsaglia, essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n
battaglia sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del
ciel s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma
disdegnosa spenti, le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza,
o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni
contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella
tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e nemico
essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et accomodato,
insorge con- tra il peregrino adversario che dal monte de la intelli- genza
scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor della
presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e perde-
riansi a fatto, se non fusse certa conversione al splen- dor de la specie
intelligibile mediante l’atto della con- templazione: mentre da gli gradi
inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi?
tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale
nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli co-
lori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è il
bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e
trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi
dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì
ordinate le potenze ap- prensive et affettive de le quali sempre la prossima
conseguente have affinità con la prossima anteceden- te, e per la conversione a
quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime
(come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta
dalla notizia o apprensione et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la
legge di quello viene a domar e correger questo), accade che quando l’appetito
razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di
conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar
la smarrita vir- tude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici.
cicada In che maniera intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con
tre preparazioni che nota il contempla- tivo Plotino nel libro Della bellezza
intelligibile: de le quali «la prima è proporsi de conformarsi d’una simi-
litudine divina», divertendo la vista da cose che sono infra la propria
perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; «secondo è l’applicarsi
con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar
tutta la voluntade et affetto a Dio». Perché da qua avverrà che senza dubio
gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi
a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con
l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza quella che in-
vaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né constante
bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la bellezza che si
vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come l’altre che sono
assor- bite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto, il quale sovente
da bello si fa brutto senza che altera- zion veruna si faccia ne l’anima. La
raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a quello che fa la
beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha
talmente fabricato e infigu- rato. Appresso l’intelletto s’inalza più, et
apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa
esser ne gli corpi; ma non si per- suade che sia bella da per sé e
primitivamente: atteso che non accaderebbe quella differenza che si vede nel
geno de le anime, onde altre son savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e
brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello intelletto superiore il quale da per sé
è bello e da per sé è buono. Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo
messo alla presenza de gli occhi de militanti pensieri, le illustra,
incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e
ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa dumque è la presenza che fa superar
ogni difficultà e vincere ogni violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire
“La mi gover- na in pace, Né fa cessar quel laccio e quella face”? tansillo
Intende e prova, che qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più
certo domìno, tanto fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più
ardenti le fiamme. Al contrario de gli or- dinarii prencipi e tiranni, che
usano maggior strettez- za e forza, dove veggono aver minore imperio. cicada
Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio descritta la fantasia d’una fenice
volante, alla quale è volto un fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è
il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta:
Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai
colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son quel che non fui; io per
caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n
un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini
prefissi di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto s’offre per mille
ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo
torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che nella figura si
dise- gna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e che il motto
“Fata obstant”, non è per significar che gli fati siano contrarii o al
fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma
diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de
l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il
fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad
informarla; il furioso è quel che non fu, perché il sug- getto che è d’uomo,
prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che
si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può
tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil
forma natura- le. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con
la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella
su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovum- que
va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite
differenze di tempo et innume- rabili caggioni de circonstanze, ha di breve
vita termi- ni incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de
riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo
La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di
potenza o possibile o passi- bile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme;
e l’intelletto superiore, forse quale è quel che da Peri- patetici è detto
infima de l’intelligenze, e che immediatamente influisce sopra tutti
gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuan- te.
Questo intelletto unico specifico umano che ha in- fluenza in tutti li
individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica,
la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et
universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene
come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secon-
do infiniti gradi che son secondo tutte le forme natu- rali viene informato. Là
onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto particolare;
come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secon- do l’appetito
come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente
descife- rare) vien significata la natura dell’apprensione et ap- petito vario,
vago, inconstante et incerto del senso, e del concetto et appetito definito,
fermo e stabile de l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha
certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad
un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è
acceso ne l’af- fetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità,
identità e stato. VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole
con un circolo dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La
significazion di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho
intesa dal mede- simo figuratone: or è da sapere che quel “circuit” si
referisce al moto del sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto
dentro e fuori; a significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto:
onde per consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di
quello. Perché s’egli si muove in uno instante, séguita che insieme si muove et
è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmen- te, e che in
esso convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli
dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me
la divina sapienza è mobilissima (come disse Salo- mone) e che la medesima sia
stabilissima, come è det- to et inteso da tutti quelli che intendono. Or
séguita a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole
non è come questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto
diurno in ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa
distinti gli quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova
in quattro punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità
istessa e conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme
insieme comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autun- no, insieme
insieme il giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e
luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non
è possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son
delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per
quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello.
cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta
che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete
far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; per-
ché questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada
Che dite di quel “Circuit”? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua
significa- zione, significa la cosa quanto può essere significato; atteso che
significa che volta e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada
Eccellentemente: e però que’ circoli li quali malamente significano la
circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che son messi a significar
la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto e de la forma de
l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati
lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi,
de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col
fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’
accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar
m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il
vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua
nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati non per quattro segni
mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che
chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la
perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di
quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete leggere “mi scaldo,
accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi, avampi”; over “scalda,
accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che questi non son quattro
sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano tanti gradi de gli
effetti del fuoco. Il qual prima scalda, secondo accende, terzo bruggia, quarto
infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son
denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali
in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni?
tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que- sta vita è più in
laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è
come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da quel
ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi sta
depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a
l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si mostra qua piena e
lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che acciò che meglio forse
in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta.
Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or
l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai
lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli.
La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È
tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto
bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil
face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua
intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”: cioè da
quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché alle potenze
inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene oscura, or più e
meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo (il
quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso
l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come questa è detta
in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intel- ligenza
illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre
intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a
l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come
“svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua
or piena secondo che dona più o meno lume d’intelli- genza; or ha “l’orbe
oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per ombra, similitudine e vestigio,
tal volta più e più apertamente; or declina a l’“Austro”, or monta a “Borea”,
cioè or ne si va più e più allonta- nando, or più e più s’avvicina. Ma
l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non è per natura e
condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso, combattuto, invitato,
sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il
suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di
bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto non se gli concede, sempre se
gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre tanto lo bruggia” ne l’affetto,
come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero; “sempre è tanto crudele” in
suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è “tanto bello” in comunicarsi
per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”, perciò che è diviso per
differenza locale da lui, come sempre gli “piace”, percioché gli è con- gionto
con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. tansillo Dice
dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua applicazione secondo
l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio altro rallentare,
intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al
tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de pensiero, né me si fa più
oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da
quella luce, e non è necessità di natu- ra qual m’oblighi perché meno attenda.
“Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è invariabile in su- stanza, in
virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et
invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”, perché al rispetto del sole
illumi- nator de quella sempre è ugualmente luminosa, essen- do che sempre
ugualmente gli è volta, e quello sem- pre parimente diffonde gli suoi raggi:
come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la
terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or più or meno illustrata et
illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre
piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come
anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da
l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore
alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra)
come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme
de ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa
intelligenza è significata per la lu- na che luce per l’emisfero? tansillo
Tutte l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi
d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secon-
do participazione, ricevendola da altro; dico non es- sendo luci per sé e per
sua natura: ma per risguardo del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è
pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le
cose che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte
come di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo
Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la
luna la quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla
luce del mondo intelligibile, et è oscura per le po- tenze inferiori, onde è
occupata al governo della ma- teria. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è
detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente
scudo, dove è una ruvida e ramosa quer- cia piantata, contra la quale è un
vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è
affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e
fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro
Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove
stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai
stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e
comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al generoso seno: i’
ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il
motto è aperto, per cui si vanta il furio- so d’aver forza e robustezza, come
la rovere; e come quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice;
e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto
splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la no-
stra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto
sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì
rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la
fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione,
come la detta ra- dicosa pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la
terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che
trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se
sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la sti- mano gli
ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né
pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella
per- fezzione che intendeno gli volgari: perché lui non sti- ma vera e compita
virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma
quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor di- vino et eroico
quello che sente il sprone, freno o ri- morso o pena per altro amore, ma quello
ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gion- to ad un
piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in
punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la
voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo
senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che
senza invidia apportano le sue sentenze, al con- trario di color che leggono il
corso de sua vita et il ter- mine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò
il X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine
e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo,
leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte
mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno - De gli
eroici furori principio del suo testamento: «Essendo ne l’ultimo e medesimo
felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta,
sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse
da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre
invenzioni e la con- siderazion del fine». Et è cosa manifesta che non po- nea
felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir
fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la
perfezzion de la constanza: non già in questo che l’ar- bore non si fracasse,
rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine
costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di
tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar
de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo che dite “comportare” è
parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo che dico “fortemente
comportare” et Epicuro disse “non sentire”. La qual privazion di senso è
caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della virtude, vero
bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del
pugnale, Socrate del ve- leno, Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de
la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime tormentano e danno
orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. qua mi rimagno
scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il ciel
s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo
meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha
suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse
sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che
fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son
ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è al- tro che l’officina di
Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime
delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena;
attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata
mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo vendi-
catore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, co- me con certo rigido
martello flagella il spirito prevari- cante. Quella osserva le nostre azzioni
et affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In
tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia
Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio cer-
tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur
se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere che possa chiarirlo
che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo
composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto
quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione;
perché del resto tutti gli amanti comunmente senteno qualch’incomodo: es-
sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et
affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun vero a cui non
sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo- re, zelo,
gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che ne
perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in pensiero
di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi, riformarsi: e
però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la terra et
infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che s’effettua quando
l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani essercitandovi gli atti
dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che si riferisca quel che si
tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da la madre Penìa ha
ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo, summisso, senza letto e
senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il tormento ch’ha
l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è, perché il
spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto, martellato
da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse occasioni:
onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men diligente
et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della potenza ve- getativa.
Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue,
copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de l’anima
disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena- no ad insania,
stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del
esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va
summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è attaccato a cose
basse; vola alto quando vien intento a più generose imprese. In conclusione et
a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava- gliato e tormentato di
sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché
l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della
materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve
al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E quantumque fis- sa nella
cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in
mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi,
osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni,
l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri stormenti che si ritrovano
nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è
stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder che cosa séguita appresso.
XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te, con diverse preciosissime
specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La
allusione al fatto delle tre dee che si sotto- posero al giudicio de Paride, è
molto volgare: ma leg- gansi le rime che più specificatamente ne facciano ca-
paci de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel,
e madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial
per padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che
squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone,
non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga la cipria dea,
Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza,
ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e
maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene
tutte le circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto,
ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di-
versi suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le
condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or
qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in
ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in
Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la
maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le
altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come
accidenti com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e
viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal
differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per
participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le
perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella
simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e
però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che
fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora medesimi
et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non solamente
uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e larghezza) ma
anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo puoi chiamar
lungo e largo della sfera. Cossì è nell’altezza de la sapienza divina, la quale
è medesimo che la profondità de la potenza, e latitudine de la bon- tade. Tutte
queste perfezzioni sono uguali perché so- no infinite. Percioché
necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste
cose son finite, avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello
che savio, più savio e buono che poten- te, e più potente che buono e savio. Ma
dove è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza: per- ché altrimenti
non potrebbe saper infinitamente. Do- ve è infinita bontà, bisogna infinita
sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è
infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben
si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo
fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente
che gli altri diversi da quello. Co- me, voglio dire, la specie intelligibile
della divina es- senza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie
altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di
quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che
vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve
esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella
che da Minerva è supera- ta in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade
di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la
dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle
nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie in-
telligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il
seguente porta una testa, ch’ha quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro
angoli del cie- lo; e son quattro venti in un suggetto, alli quali soprastanno
due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere
che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è
conse- guente di quello de la prossima superiore. Perché co- me là è predicata
una infinita bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione,
studio, af- fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a
significar gli suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza:
Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra,
quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non
più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma
rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto.
Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’
asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi
renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a
i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie ca- verne: ma da
due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli
doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della
divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono
nel desio intellettuale e ra- zionale, che lo fanno venire ad aspirar
infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono
apprende quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre sarà finito, appagato,
e fisso a certa misura, tansillo cicada tansillo Giordano Bruno - De gli eroici
furori non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma
mentre verrà sempre oltre et oltre aspi- rando, potrassi dire che versa circa
l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare?
che simbolo hanno i venti col deside- rio? tansillo Chi de noi in questo stato
aspira, quello su- spira, quello medesimo spira. E però la vehemenza
dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza
tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per
l’altro co- me medesimo per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada
Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque
mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non
d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e
benignissimamente uccido- no il furioso, facendolo per il studioso affetto
morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo
rendono tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso che nella staggione
che di nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo,
aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come
essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste
ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito
può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è
vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove
l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove
l’infinita potenza è positiva per- fezzione. cicada Se l’intelletto umano è una
natura et atto fini- to, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è
eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità;
e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che
differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo
Questa è finitamente infinita, quello infinita- mente infinito. Ma torniamo a
noi. Dice dumque là il motto “Novae partae Aeoliae”, perché par si possa
credere che tutti gli venti (che son negli antri voragi- nosi d’Eolo) sieno
convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto
che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo
appresso la significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad
vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del
vero bene, in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che
mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen
d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto
da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo
l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno,
sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de
l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai:
bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada Questa tavola
più vera che propriamente espli- ca il senso de la figura. tansillo Non ho
d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro
che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son le rag- gioni con le
quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E son “focosi”, perché
non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno
l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie di revelazione che gli
scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»; onde l’intelligenza
illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù
che la admira in se stessa, o in effica- cia che la contempla ne gli effetti.
L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove
a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de
l’affetto, significato per il core, che “bruggiando a tutte l’ore” s’afflige;
perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo sta- to non son
sì dolci che non siano più gionti a certa af- flizzione, quella almeno che
procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli
frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio
esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque
colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes
captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non
datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit
frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore
Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec
manibus quicquam teneris abradere membris possunt, errantes incerti corpore
toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit
gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt
avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora,
nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in
corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possia- mo
aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo
aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver
detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza ag- gionge dolore, perché
dalla maggior apprensione na- sce maggior e più alto desio, e da questo séguita
mag- gior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde
l’epicureo che séguita la più tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor
volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque
alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim
virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna
gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt
sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il “meridiano del core”?
tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più
illustre, forte, efficace e retta- mente è riscaldata. Intende che tale affetto
non è co- me in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come
al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato
che ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio,
et ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par
che voglia dire che l’amor mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga.
cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor
instat”; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o
in- sistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse:
«questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la
intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima».
tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello
“instans” non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustanti-
vo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come
l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando
dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno
instante? cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo che non
abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la
guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in- stante se
divide in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo
dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in
diversi sug- getti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le
parti del tempo. Come io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son
qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete
che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non
sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante.
E questo baste se l’intendi (perché non ho da pedanteggiar sul quarto de la
Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il
tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada
Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non
vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe-
ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest
d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi
interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi
contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso
che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può
essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra
significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et
un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha
triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side:
un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un
occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega
amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio
triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in
rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho
compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi
par tempo di procedere a l’altro. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve
langui- sce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in
mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice
Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi
confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar medesimo
fato molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè
inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o
contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che
richieda più lunga e distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete
la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai,
sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or
quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che
propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo
piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo;
e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco:
lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue
cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie
forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé
chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta.
Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte non è per darti scampo da la morte. Tu
addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami
questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti
a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per
il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle
scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della
feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a
meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel
mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma
al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più
ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il
futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder
designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che
fêrno cotal statua che sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste,
l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta
in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose
passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in
effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è
il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude.
cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra
il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni
che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella
tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di
chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si
die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al
presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel
soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i
frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che
vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e
lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso
m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un
furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualunque
maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che
questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono
travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede,
conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de
il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso
della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne
ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e
prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo
aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio
Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni,
per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per
conseguenza religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo
che doveano succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose
presenti non dover rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì
gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano
confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria.
Quando furono in sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di-
spersione e cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano
suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte
l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a
fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male
vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza
alla bas- sezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi.
Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova
altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non
raggiono con altro spirito che naturale. maricondo Sappiamo che non fate il
teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è.
Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo
che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso
l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin
credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de
la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men convegna
ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et ama?
Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché
volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me
piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella
face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta-
de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso
quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto
son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde,
fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi
piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che
riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira,
ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap-
paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente
è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la
natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene
mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e
participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi
unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti
gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel-
lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso
vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che
il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi
che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il
mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi
può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal
maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di
eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della
cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta
convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez-
za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta
ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali
per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è convertita in
virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel quale sia
degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella ancora;
onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma, o sodisfatto
dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar l’altrui che
viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o si volta ad
aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre verrà tentando
il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al desiderio della divina
bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura, imagine e specie, se sia
possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come
ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra coloro che lo ri- prendono
come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera
che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a più alte imprese:
essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì
da queste si può aver accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non
son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso
se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice
«Adorate scabellum pedum eius». Et altrove disse un divino imbasciatore:
«Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino Dio, la divina bellezza e
splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare errore d’admirarlo in
tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle: errore sarà certo se
noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice
“Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo Bandisce da sé gli pensieri,
che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e
che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da
questa fenestra più che da l’altre. cesarino Come importunato da pensieri si
sta con- stante a remirar quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera
contento che ancora non vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché
tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non sono senza gli
suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti. Come più
grande è il timore d’un re che consiste su la perdita d’un regno, che di un
mendico che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente la
cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un ru- stico sopra un grege de
porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse son più grandi che le
delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar più alto, mena seco
maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e doglia: intendo in
questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a l’altro, trovandosi la
mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per conseguenza circa
medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano essere insieme. E cossì
pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo
poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse: Fluctuat incertis
erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis manibusque fruantur:
quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis, et dentes inlidunt
saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas, et stimuli
subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est, rabies, unde illa haec
germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter amorem, blandaque
refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est, unde est ardoris
origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam. Ecco dumque con quali
condimenti il magistero et arte della natura fa che un si strugga sul piacer di
quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del tormento, e tormentato in
mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla si fa assolutamente da un
paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii per vit- toria e domìno
d’una parte della contrarietade; e non è piacere di generazione da un canto,
senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove queste cose che si
generano e corrompono sono congionte e come in medesimo suggetto composto, si
trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di sorte che vegna no-
minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che la sia
predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III. cesarino Or
consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che arde al sole,
e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui calore vien
infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par. maricondo Leggasi
l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a dramm’a dramma
consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi, contrario fio al suo
pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende tepido fumo et atra
nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e quello avvele, per
cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore accende e
illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero, manda da
l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi struggo
e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca col suo
stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque costui
che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et abituata d lu-
ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che oscura quello
che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato furioso per quel che
fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso il core e gli
splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che ritribuirgli luce per
luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si risolve la sustanza di
lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara- zione gli studi di
costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che la lode è uno de gli
più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar
da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e
tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi
soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle
e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta- re del cor de illustri
poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con questo che comunmente
montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano
e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo
sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come
sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono sempre a celebrar altri
indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luo-
go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno gionta- mente alle tenebre
de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è
celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco
di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e
vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di
Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico me- desimo vien
sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato,
presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto ce-
lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de l’animo
inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò che
gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a met- terlo nel
numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato il dorso de la terra. Gli
proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e non
l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segreta- rio e consegliero
d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo, è l’aversi fatto degno
dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid
mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae
Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo
Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli
d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: «Se amor di gloria ti tocca il
petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre
cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare».
Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille
o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse
quel filo- sofo morale, «è più conosciuto Domenea per le lette- re d’Epicuro
che tutti gli megistani satrapi e regi, dal- li quali pendeva il titolo [di]
Domenea, e la memoria de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de
l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma
per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel nu-
mero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne
sopraviene al capo una profon- da altezza di tempo, sopra la quale non molti
ingegni rizzaranno il capo». Or per venire al proposito di questo furioso il
quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi
che co- me quella per luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido
fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai
possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non
vengamo a detraergli più tosto che aggion- gergli di gloria: di sorte che la
maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza
de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso per il studio et
ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e perfetta azzione.
Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove
l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal
altro nu- mero, perché non è unità, né da altra unità perché non è numero, né
da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là
onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non solamente gli
nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa
conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio vegna ad esser
celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et altri che sono
ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de quali è più
illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser
uditi. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto.
cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo
fuoco in forma di core con quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove
tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la
questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato
de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa
mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor,
che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il
spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli
occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè
miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto
mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio
cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i
debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli
occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de
la turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana
dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e
sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior
periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici
spettacoli» DICE IL FILOSOFO MORALE, «mediante il piacere più facilmente gli
vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi quanto può
all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso, di sorte che non sia
simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de molti, perché son
dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti s’appiglie
a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui possa far
megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che
possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno
idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato poco quando
è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice
Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e che disse
Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis
enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto,
per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce
spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non dove è
ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima,
principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver-
bigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino?
maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia
mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al
tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma
venir al più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di
sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le
anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi
alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, son
fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è
la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come
bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso
deve dovenir a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che
quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi nemici
contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno spirito
(se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e
scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che
mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è
regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove
consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a
Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de
Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto
sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di-
ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori
simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama,
perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e
più che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e tante altre condizioni de
cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si
desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle.
cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui “Tranquillarà gli
sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà il core” e “darà gli
proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo aspirare e stu- dii non
debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo
che con la meglior parte di sé sia da quello absente, farsi come con
indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che
non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggio- re che
esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente
riguardare che come carce- re che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che
tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che
han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no
sia servo, catti- vo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cie- co:
perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso
che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e
materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra
la fortuna, magnani- mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e
persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso
veggasi quel che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa
il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella?
maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con
la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro-
prio mezzo si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over
quiete del tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in
circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente
altre parti montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso;
altre ottegno- no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e
del fondo. E questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel
tanto che s’esplica nel seguente articolo: Quel ch’il mio cor aperto e ascoso
tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa
per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene,
speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor
ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de
l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate
ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in
altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or
ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come
il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera
che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti
posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente
nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de
l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene-
rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico
pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo
stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della
generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio
una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto:
Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri-
soluto, esplicate. maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col
precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si
considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti
assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte,
del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché
chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza,
gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier,
miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi
concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto,
vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e
accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli
precedenti discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il
sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è
attenuato et annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente
ad oggetto più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne
(come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli
atti inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio
intendere altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro
De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali
alcune vituperosa, altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte,
non si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri: onde
la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte
intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da
dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui
richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi
desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse?
maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa
presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere
il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla
divinità è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo
esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e
certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che
degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et
azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o
salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella
trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina
e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o
suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa
dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te,
dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice:
Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man
d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; ma tu perché
il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre
belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non
s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per
l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà
(diva) per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar
indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del
grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il
“volto in cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta
alla recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti-
tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada
divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove:
«Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso,
l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio
tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la
quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi
conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le
palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via
l’ombra de gli enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto
quel che non è non possa essere) priega la divina luce che “per la sua
bellezza” la quale non deve essere a tutti occol- ta, almeno secondo la
capacità de chi la mira, e “per il suo amore che forse a tanta bellezza è
uguale” (uguale intende de la beltade in quanto che la se gli può far
comprensibile), che “si renda alla pietà”, cioè che fac- cia come quelli che
son piatosi, quali da ritrosi e schi- vi si fanno graziosi et affabili: e che
“non prolonghe il male” che avviene da quella privazione; e non per- metta che
il suo “splendor” per cui è desiderata, ap- paia maggiore che il suo amore con
cui si communi- che: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono
uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con
la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con
que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene
luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che
proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscu- ri? la qual medesima
è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in
effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di
procedere a conside- rar il seguente dissegno simile a questi prossimi avan- ti
rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali
s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una
pie- tra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E
certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla
significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in
contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due faz- zioni
(quantumque subordinate a queste non manca- no de l’altre), de le quali altre
invitano a l’alto dell’intelligenza e splendore di giustizia; altre allettano,
inci- tano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi,
e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e
non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser
con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder
una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio
tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro
diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità
mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi
sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual
dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi
scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso
ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali
essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e
primo vero, co- me all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa
naturalmente ha impeto verso il suo principio re- gressivamente, e
progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da
la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa
ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i
discorrenti lumi; e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal
mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi
numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero.
La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non
sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che
ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per
conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte
della sua su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è
convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver
appulso, a giovare et a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per
la si- militudine che ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica
o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito,
e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo so- lo questo
universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella
essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che
è ordinata et al proprio e l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio
d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali
potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti
delle seconde e materiali po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del
furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare
più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese
basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più natu- rale,
dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si
possa riparare? maricondo Molto bene; ma
il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di
contemplazione, si doviene a maggiore e maggior fa- cilità. Come avviene a chi
vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria
sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dal- la gravità;
anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al
basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo ver- so
la terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in
questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto?
maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi
scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il
ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina
al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al
fine (o voglia o non) bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle
parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose
intellettive verso gli pro- prii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini.
Da qua facilmente possete comprendere il senso intiero signi- ficato per la
figura, per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi
s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che
vien presentato per quelle due saette radianti sopra una targa, circa la quale
è scritto Vicit instans. maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso
la qual gran tempo per la maggior familiarità che ha con la materia, era più
dura et inetta ad esser penetra- ta da gli raggi del splendor della divina
intelligenza e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor
smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato,
ha fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti
innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita
eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice: «Vulnerasti cor meum, o
dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra
materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o
della dea de gli de- serti della contemplazione de la Veritade, cioè della
Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri- portano il splender
ricevuto dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son privi de più aperta
visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il pro- prio e non
improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili
tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indica- trici
della divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za, secondo diversi ordini
dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non
ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal
calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò
che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel
principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di
Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più
cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione, et a poco a poco
si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto
che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può
introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata per le fumositadi di
quell’umore che per l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel
stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di- sposizione il presente
furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de quali non era venuto a
quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie
peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno sempre alla porta de
l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea
assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se dice lucere e scaldare a
quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco profondo), per essersi “ac-
campato in quelle luci sante”, cioè per aver mostrato per due specie
intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò
l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari
gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare,
rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché quelle
luci che facea pre- sente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelli-
genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci (quella della verità per la
porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza
appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu
“quel doppio strale che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè più
pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo-
strato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato
et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è
detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura,
motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti
da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de
suoi trionfare. Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle
luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio
ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato
venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si
tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne.
Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce
nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione
della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole tra tutte
quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia
e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può
presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte
d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese possessione de
l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte vi si tenne”, e
se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo:
percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una
volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa
far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada al- tro che bene o
specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene.
Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser “fugaci” concorrendo giù col
pondo della materia. Cossì da là “mai cessano ferire”, sollecitando l’affetto e
risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”, che son gli efficaci assalti del
grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto escluso, straniero e peregrino. È ora
unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né
vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente
dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci
dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in proposito
di questo. Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come mostrano le
faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è,
Subito, clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo
d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar
bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli
animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito
vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali
fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento
muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento.
Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento:
ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi
l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le
regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria.
Tre son gli geni de quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli
prìn- cipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra
il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come dimostra più forza et
imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile
alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la
caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de
l’erinnico cacciato- re nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea
nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit
signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit
nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo
procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per li- nea
perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto
con maggior impeto e pre- stezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo
in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, pren- de anco comodità di
specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre
remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si
presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra?
maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto di- stingue se si gli possa
presentar megliore o più como- da preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma
per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per
essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua
presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano
assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano
una ventosa tempesta di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de
principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali
inferiori: di sorte che non proce- dono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che
è più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in
mare, e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più
eccellente magnani- mità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fe- re
a l’improvisto e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo
populante venas, nec habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus
medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta
lo chiama “furtivo fuoco”, “ignote fiamme”; Salomone lo chiama “acqui furtive”,
Samuele lo nomò “sibilo d’aura sottile”. Li quali tre significano con qual
dolcezza, lenità et astu- zia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a
(come) ti- ranneggiar l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è
tirannide peggiore, non è meglior domino, non è potestà più necessaria, non è
cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia più austero et amaro, non si
vede nume più violento, non è dio più piacevole, non agente più traditore e
finto, non autor più regale e fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia
tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a
lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor dumque (come quello che opra massime
per la vista, la quale è spiritua- lissimo de tutti gli sensi, per che subito
monta sin alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a
tutto l’orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e
subito. Oltre è da considerare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede
tut- ti gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Sa- turno gli
mostre il camino, se non con seguitarlo. Ap- presso, che bisogna cercar se
l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima
me- desima, il suo letto è l’istesso core, e consiste nella me- desima
composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze?
Finalmente ogni cosa natu- ralmente appete il bello e buono, e però non vi
bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma
subito et in uno instante l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile, come la vista
al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente
saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che
luogo cerca que- sta per ferire. maricondo Non bisogna far altro che leggere
l’artico- lo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta tante
spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da sua
circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì
triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni
senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual
studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché
né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre,
volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel
dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Tutto questo
senso è metaforico come gli altri, e può es- ser inteso per il sentimento di
quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono il core
significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali ri- luce il
splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda
l’affetto del proposto et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le
raggioni de po- tenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con-
solano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto
intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose
intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta
amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la
distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che
viene ad essere la sua me- desima affezzione. Allora non è amore o appetito di
co- sa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la
voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che
la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la gran-
dezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura
e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si
possa aggiongere: però la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando
fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque
pos- so la conclusione, dove dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché,
se non in vano, a torto” (si di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti
ammazzar colui ch’è morto”. Cioè quello che non ha più vita né senso circa
altri oggetti, onde da quelli possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene
ad essere espo- sto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che,
avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto
dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. cesarino Or ecco appresso un
fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da
l’onde tempestose, che languido e lasso ha aban- donati gli remi. Et èvvi circa
lo motto Fronti nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe che lui dal
se- reno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a
l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per
impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la
speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la
pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei
repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua,
ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e
gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la
morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun
soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e
curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore
sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia
traditore e frodu- lento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il
seguente senza imagine e motto, credo che abbia con- seguenza con il presente;
però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da
studi più maturi, ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i
fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più
sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi
furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più
tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso,
e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo
di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido
fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che
significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo
dismesso dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica,
vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de
l’arte, debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al
negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o
di rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto
spaventoso e mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui
che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la
perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si
gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere
facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia
tolto, o fa che ne suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione,
timo- re e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla
putatis dona carere dolis?” Or, perché la fortezza che non può far esperienza
di sé, è cas- sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il
studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio
ch’il male istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore patisce
tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli nervi,
tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è
sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più
stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente?
Queste son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il
proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno
umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova
ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et
imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né
tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non
altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito
che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso.
maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine
del primo dialogo mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de
lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor
divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al
fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qual- sivoglia libertade.
cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà
e brevità possiamo conside- rar il senso, se pur in quello non si trova altro.
mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra
diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si
manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia
Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: «Mi rendo a
questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte:
che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più
adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne
l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’
altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal
soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da
la selva; cioè da parti rimos- se dalla moltitudine, dalla conversazione, dal
volgo, le quali son lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili,
è cacciatrice di sé, perché con la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e
se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio più contento che mai altri-
menti avesse potuto essere. Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la
moltitudine d’altre specie, forme et idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello
ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte
campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che
per lei vuol che si te- gna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante
si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il
mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì “desta la mente” ad
eccel- lente amore, che apprende “ogni altra diva”, cioè cu- ra et osservanza
d’ogni altra specie, “vile e vana”. – Or in questo che dice aver desta la mente
ad amor al- to, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli
pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose
basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per
avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve
spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani,
meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pe- danti et
altri simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi,
coltori degli animi, pa- droni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et
altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di
corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose
maggiori e minori, superio- ri et inferiori, illustri et oscure, degne et
indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi, nella no- stra
sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale?
Come delle intelligenze al- tre son suggette, altre preminenti, altre serveno ed
ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei che questo non deve
esser messo per essem- pio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e
gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine
delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si
ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta
iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno
voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar di
co- se divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade per averno simili
fatte “ad alti amori le menti deste”? Chi ha buon senso, e non vede del
profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad Alessandro,
quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina
pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo racioci- nio
logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et
aborsi de fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di cose, studioso
più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più in- caminata e
guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose,
che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza
medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e
sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi
nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva,
iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col
medesimo “sursum corda”, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar
la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia
d’Aristotele è in- comparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è
pure avvenuto da quel che certi grammatisti do- po che sono invecchiati nelle
culine de fanciulli e notomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la
mente a far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che
mai studiorno et ora non in- tendono: là onde cossì questi col favore della
ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son più conformi), po- tranno cossì
bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu
carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere
questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese
vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat
poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non
dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti,
ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più
in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti
camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile,
quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno
esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla
divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su
l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver
ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane
spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente
precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il
futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel
ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il quale
insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di
genealogie, quello attende a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a
moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor”
est fons vite, “nix” est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro
garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti,
l’altro vuol rinovare gli vo- caboli absoleti che per esserno venuti una volta
in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli
astri; l’altro sta su la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra
altre et altre simili fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate
che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano
la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som-
mo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il
scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno
mon- tar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono
che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può
bastarci manco alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato,
viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e
vergo- gnose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro
appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in
ruina, era acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la
camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli
perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e
proposito di salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse
la proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre simili
matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) de-
vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de
l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi
medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte
de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e sce-
lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che come
è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et
altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le dizzioni,
le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi de
scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gio-
ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti
della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella
lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti
a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho
mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo
de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e
spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o
l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi
esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima
parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto
circa quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente
desta”. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo
sotto l’imperio de la detta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima è
im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende
più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino
Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine,
considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in
qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non
quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che corporale:
atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché vada in
sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito,
né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la
materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de
l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che
quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro.
cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la
fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa
presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo
gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o fecondo spirito, o
bello ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o benedetta ipostasi
da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs». Cossì un vecchio,
come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco
sale, discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente
bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, ab-
bracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga,
ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni
etade et in qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui
suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo,
et aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; per- ché
nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o sia mate- matica, si trova nel
corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali
nascono e muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine
numerale che comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti,
stabile e mobi- le: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligi- bile
et una, e come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è
cosa sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente:
atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo
modo è ente e vero. Ve- dete appresso che gli matematici hanno per concedu- to
che le vere figure non si trovano ne gli corpi natu- rali, né vi possono essere
per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze
soprana- turali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il
vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da
considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria na- turale
del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la
similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glo-
rioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la
intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo
e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare
il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima
umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua
soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla
venazione della verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va
lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e
manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli
antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose,
ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti
maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag- giore, come
noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura, accioché
dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son più ex- quisiti
et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta. Qua andò
Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose naturali,
che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi et
operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure, e
nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro- va in tutte le cose.
Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la omnipotente et
omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non
volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché pro-
cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più
magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sa-
pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e
sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo, zappando,
isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e
secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari:
perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da
le siepe de le definizioni, con- siderando le cose superiori essere
participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle cose inferiori, e
queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne
l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala, nella quale sem- pre
l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo de l’ordine inferiore.
E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al
bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi.
Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire
alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché
egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a
questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere
de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la
verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali conside-
rano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpe- tuator della sempiterna
generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e
fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la
luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità,
verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come
oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare
possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce absoluta per specie
suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo,
l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è nell’opacità della
materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per
dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son
quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de cac- cia
de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da
comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche.
Rarissimi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser
contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla bella disposizione del
corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemi- no
splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra- sformati in cervio, per
quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di
questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda,
per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte
le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose particolari, il cac- ciatore
viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de
l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad
appren- dere che resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito:
onde da volgare, ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio,
et incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive
nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli
gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più
liberamente conversa la divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in
terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: «Ecce elongavi
fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì gli cani, pensieri de cose divine,
vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto
dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della mate- ria; onde
non più vegga come per forami e per fene- stre la sua Diana, ma avendo gittate
le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte
che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo
la diversità de sen- si, come de diverse rime fanno veder et apprendere in
confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti nu- meri, de tutte specie, de
tutte raggioni, che è la Monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la
ve- de in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è
simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede
questa mo- nade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e
specchia come il sole nella luna, me- diante la quale ne illumina trovandosi
egli nell’emi- sfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello
uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è
la natura comprensi- bile, in cui influisce il sole et il splendor della natura
superiore secondo che la unità è destinta nella gene- rata e generante, o
producente e prodotta. Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la
di- gnità, et il successo più degno del cacciatore e de la caccia: onde il
furioso si vanta d’esser preda della Diana, a cui si rese, per cui si stima
gradito consorte, e più felice cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad
altro uomo che non ne può aver ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in
tal specie quale è impos- sibile d’essere ottenuta da natura inferiore, e per
conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né meno può cadere in appetito.
cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente
satisfatto. Or è tem- po di ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo
dialogo interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un
cipresso il furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen-
sieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de
distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de
l’altro lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento
che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli.
liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe
in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì
forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal
suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e
di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima
il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una
man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole,
son principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a
quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce-
re è quel che accende il desio, e per conseguenza, per ministerio de gli occhi,
vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno
oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser
deve quella specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che temprar
possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa
nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta
deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser
suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia,
quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi
udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il
contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per
cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo
tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o
core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e
muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo
fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi
Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a
questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le
convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa,
el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime
da gli occhi, onde come quelli accendono le fiamme in questo, quest’altro viene
a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui
dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a l’oriente sole,
quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non
perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti,
che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette
canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella
potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la conchiusione
de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla propo- sta de
gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core
a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che
fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio
il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario
in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia
sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio
varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal
volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea
persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di
con- trario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il modo possibile,
quando per via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor che acquista il
contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobar-
si e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più
s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio
Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi
al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di
tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde
l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il
grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino
parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e
tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come
splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio
filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro
De princi- pio et uno; e voglio supponere quello che comun- mente si suppone,
che gli contraria nel medesimo ge- no son distantissimi, onde vegna più
facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli oc- chi si dicono
semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno
perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove
sono come in principio agente e materiale. Però non metteno urgente necessità
quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile
trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a die- tro, per due caggioni: prima
perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali oltrag-
giosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi,
possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra
che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere per via di
reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o
altro va- se pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta
senza che scalde il spesso corpo tra- mezzante: come è verisimile et anco vero
che caggio- ne secche et aduste impressioni nelle concavitadi del profondo
mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si
può conside- rare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli
occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo
medesima rag- gione non può essere nel mezzo. Come la luce del so- le secondo
altra raggione è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso vicino, et altra nel
senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro
modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e
l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli
tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core
S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien
impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco che
cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco?
Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno?
Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non
posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia
ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è
questa che non si pone in at- to; se tante son l’acqui, perché Nettuno non
viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti
rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa
affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari
fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia
convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a
l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor
senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni
peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si
scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto,
né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è
raggion, sens’, o pensiero. laodonio Non ha più né meno efficacia questa che
quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi
son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi
Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non
crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede,
perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede:
la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera.
Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto
o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso
mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben
trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che
dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse
l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto
quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque
è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi,
non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco
ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con
altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca- de che il bel nume per
apparenza di lacrima che stile da gli occhi, o favilla che si spicche dal
petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio]
Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi: Seconda risposta de gli occhi
al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è
casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per
basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo;
quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or
dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia
giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e
nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e
l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi contraria si ritegnono, si
supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse fini- to,
atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe
cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe
quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro.
Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et etica che vi sta occolta,
lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol que-
sto non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta
infinito mare dall’appren- sion de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto
de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto proposto, non può
essere la volontarie appagata de fi- nito bene; ma se oltre a quello si ritrova
altro, il bra- ma, il cerca, perché (come è detto commune) il sum- mo della
specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli
gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o
secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual ma- niera per essere infinito
il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione
delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo
(parlo secondo la figura e mole), non è spe- cie definita a l’intelletto, non è
definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima
mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infi- nitamente si
riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per pri-
vazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più positiva
affirmazione de fine infinito et inter- minato. laodonio Volete dir dumque due
specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è
potenza, come infinite son le tenebre, il fine del- le quali è posizione di
luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è
la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque
che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel- lo, per quanto s’estende
l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino e de la
fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che la luce
è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove può andar sempre più e più
penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fe- condo, onde
possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita imperfezzione
nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la potenza sia
compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi
imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito
tormento di suave amore, dove non è pena, perché non s’abbia quel che si
desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca; et in
tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e per conseguenza
gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la sazietà perde il
gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar
solamente: dove se passa certo termine e fi- ne, viene ad aver fastidio e
nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il sommo bene deve es-
sere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa quello esser deggia anco
infinito, acciò non vegna tal- volta a non esser bene: come il cibo che è buono
al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano
non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardo-
re. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché
l’ha per suo, non lo vuole per- ché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto
quanto più ascende a quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra
lontana per raggion de eminentissima eccellenza, secondo quel detto: «Accedet
homo ad cor altum, et exaltabitur Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da
questa vita, et in questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core
d’essere entro con il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la
gemina facultade mette in esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et
attuare il corpo animabile, l’altro de contemplare le cose superiori; perché
cossì lei è in potenza receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in
potenza attiva. Il corpo è come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua
vita e perfezzio- ne; e l’anima è come morta e cosa privativa alla superiore
illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è re- so in abito e formato in
atto. Quindi si dice il core es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si
dice appar- tenere a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è
infocato da l’amor divino, è convertito final- mente in fuoco, che può
accendere quello che si gli avicina: atteso che avendo contratta in sé la
divinita- de, è fatto divo, e conseguentemente con la sua specie può innamorar
altri: come nella luna può essere ad- mirato e magnificato il splendor del
sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel
presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de
ricevere l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve-
re l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi
apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare
presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il
fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli,
perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et
appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti,
perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son
turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che
con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà
l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e
cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della
cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge
come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la
felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per
il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo
et alla bevanda, e non con esser satolli e senza desio de quelli. Indi, hanno
la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e comprensione,
non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera
satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a
punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran verità et
intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti inenarrabili,
perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama tutto ha tutto.
liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de l’amor divino
che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino per quanto si
trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico) quello che dalla
divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità.
laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio appresso. Andiamone.
fine del terzo dialogo interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete
dumque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause
particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un
comun furore. minutolo Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché
per natura sia cie- co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri
che non può persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui;
stante che quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti
della dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti
orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar
quello che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama.
severino Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine
divina nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure
in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua
guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre
orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco
Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che
dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; però più grieve mal
che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva
la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce,
conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad
esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di
terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la
gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la
gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo
ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo
cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con
sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la
tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì
crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de
sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar
mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né
sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi
sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio
mal tosto sepolto. Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere
repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso che
essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avan-
ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è
stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma
(perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader suole a
un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli
occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a
l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso.
Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a
un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde
lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a
l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar
ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti?
perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare
sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il
quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si
mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì
questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli
occhi, ha perso il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per
conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile
del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che
coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli
strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde
il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.
minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più
difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E
costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si
dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come
l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in
questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per
qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto
principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco
Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento
de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento
alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento:
or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose.
Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e
se si scende o sale: perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e
basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto
lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma
abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma
nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et
oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il
lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et
udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare:
Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che
del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e
vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce
male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa
e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon
gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo
lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Il sesto orbo è cieco, perché
per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore,
fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era
transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che
talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de
tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta
l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato
per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza
vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli
circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi;
fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il
spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a
l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso
speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi
pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio
pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio
datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso
vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso
a leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra
che tutto incinerito e messo in fiamma non è più lui: perché dal fuoco la cui
virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve
non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se
inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è
privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol
farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue,
dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa
calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà
che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì
prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando
ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non
compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male
avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se
contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de
l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta
che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non
solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan-
to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in
questa sentenza: Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,
punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma,
stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor,
legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia
piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e
dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come
e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra
oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor
muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe
senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa.
Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per
esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida
del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal
spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e
grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il
vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo
tormento. Aprite, aprite il passo, siate benigni a questo vacuo volto de tristi
impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va
picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate
nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino
oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima,
allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per
quanto comporta il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto
che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo
certificarci de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo
corpo in cui gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo
og- getto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è
senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose:
per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo
umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa
apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re-
gione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello
che viene a proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per
il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito
de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto,
nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. minutolo
Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo
medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra
raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità
e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono
adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no
trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle
pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette
volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia
iracondo contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia
geloso e ti- mido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco
in molte co- se veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è
stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti
quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri
uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con
ascender più alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e
questi son gli inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si
trova- no coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano
gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione
e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che
le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La
terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo
raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali
si mostra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze
fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le quali discorrendo
da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra
cosa ignota: il qual discorso è chia- mato argumentazione), ma subito e
repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un
divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum». Onde non è
richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per
averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor- zionalmente il lume
solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo
Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che
gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non
è differenza quando la divina mente per sua provi- denza viene a comunicarsi
senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si communica, perché ella
cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan- do aspetta e vuol esser
cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo
non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è
detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro loco: «Qui sitit, veniat, et
bibat». minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia
in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e
la apprensione di quella. Certo non nie- go che al disporsi bisogna tempo,
discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e
la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre,
et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al pro- posito. La
quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che
proviene dalla consuetudi- ne di credere a false opinioni del volgo il quale è
mol- to rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie
volgari le quali son dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere, quanto più
accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e
fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò
Alcazele et Aver- roe) similmente accade a essi, che come a color che da
puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale,
che se gli è convertito in sua- ve e proprio nutrimento; e per il contrario
abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è
dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la
qual consuetu- dine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa
cecità è eroica, et è tale, per quale de- gnamente contentare si possa il
presente furioso cie- co, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene
veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la co- munità non vorrebe
impetrar altro che libero passa- gio e progresso di contemplazione: come per
ordina- rio suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La
quinta, significata nel quinto, procede dalla im- proporzionalità delli mezzi
de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose di-
vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, si- militudini et altre
raggioni che gli Peripatetici com- prendono sotto il nome de fantasmi; o per
mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli
effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per
l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da credere che siano impedimenti,
se credere vogliamo che la più alta e profonda cogni- zion de cose divine sia
per negazione e non per affir- mazione, conoscendo che la divina beltà e bontà
non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concet- to: ma quello che è
oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto “speculator de
fanta- smi” dal filosofo, e dal teologo “vision per similitudi- ne speculare et
enigma”; perché veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere specie de le
cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle,
come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da
l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è
veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova. –
Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito
simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da l’antro,
onde non per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa riveder sua
luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede
dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza
visi- va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella
cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella
cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in
ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto.
Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa
che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in
effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellet- tuale dove splende il
sole dell’intelletto agente me- diante la specie intelligibile formata e come
proce- dente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità BRUNO (vedasi) l’intelletto
nostro o altro inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro (quando
veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine:
cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente
la divinità, onde sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono intelligenze,
ma in si- militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de- nominativamente
divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose
tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi
ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et
expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa,
non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è
la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e densità del dia-
fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per
mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe
veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro,
lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: “Spicche fuor
di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia- mo al nostro principale. La sesta,
significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et
insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alte-
razione; e le operazioni del quale bisogna che seguiti- no la condizione della
sua facultà, la quale è conse- quente dalla condizione della natura et essere.
Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia
compresa da quello che è sempre altro et al- tro, e sempre fa et è fatto altri
et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto può star depinto et impresso dove le
pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l’acqui in vapore, il vapore in
fiamma, la fiamma in aura, e que- sta in altro et altro, senza fine discorrendo
il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito?
minutolo Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro et altro, quel
che è tale, sempre altri et altri- mente si porta et opra, per che il concetto
et affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quel- lo che altro
et altro, altri et altrimenti mira, bisogna necessariamente che sia a fatto
cieco al riguardo di quella bellezza che è sempre una et unicamente, et è
l’istessa unità et entità, identità. severino Cossì è. La settima, contenuta
allegoricamente nel sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco
dell’affezzione, on- de alcuni si fanno impotenti et inabili ad apprendere il
vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto. Questi son coloro che
prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde gli avviene che tutte le cose gli
appaia- no secondo il colore della sua affezzione; stante che chi vuole
apprendere il vero per via di contemplazio- ne deve essere ripurgatissimo nel
pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità de contemplatori
et inquisitori per quel che altri (secon- do gli abiti de loro prime e
fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de figure,
altri per via de ordini o disordini, altri per via di com- posizione e
divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de
inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e definizione, altri per
via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo- li e dialecti: onde
altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri
grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse affezzioni si
metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sentenze scritte: onde si
doviene sin a questo che medesi- ma luce di verità espressa in un medesimo
libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto
numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti
molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero, quan- tumque gli
pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato
che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. Or tal specie de cecità
è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e privi dal suo
naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo
ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la
presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente
intelligi- bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel- lente
sopraposto sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi vede
Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì
avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando
viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli
teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada
o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio,
sopra il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de
essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova,
senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di
prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria
improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per
inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata
pure da grande amore, con lo ardire teme de offendere; onde disse la Canti- ca:
«Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fece- re». E cossì supprime gli
occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena
la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto
di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta
in disgrazia: e questo suol procedere da l’ap- prensione de l’excellenza de
l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini
teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come
si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli:
onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella
demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando
per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo DIALOGO QUINTO
interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai
quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove
bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del
vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e
temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal
terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la
tua beltade giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il
possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che
scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si
trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico
rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno
dopo la lor sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque
d’an- dar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove
essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose
rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle
cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione,
vennero tutti co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito
espresse queste paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse
presente, come fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le
piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno
alla natura: certo crederei che ella, quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al
nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la- menti,
condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la
crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste paroli, che
a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have ingegno di
cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura d’uomo, né di
natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi
da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il
qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato de la lor fortuna,
dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale
stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro
dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse
raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima sala, dove in
quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da
Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap- parir de la quale
veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli administravano. Là con
grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di
quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti insieme con quella
diversità de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti al-
la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente trattati, che ciechi,
raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati tutti mari, passati
tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spa- cio de
diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de l’isola
britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre Ta-
mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade, et accettati da
quelle con gesti d’onestissima cortesia, uno tra loro, il principale, che altre
volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento espo- se la causa
commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase si fan presenti,
et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma d’una cruda sorte
ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti
che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam discorsi, e
fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte:
«O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver
questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo
vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far giunse
l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto attenti,
sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel
frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia e madre di
tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti piacque
cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili forse a
consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito furor,
ch’il novo caso porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor
cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto: «Or
dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti punga, o
liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami tuoi,
saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer vaga,
deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga pria
che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne appaga».
E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale, che mia
mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il mondo,
cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto mai
vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza
v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel
aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio
s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il
rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non
si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde quant’è sul firmamento se
gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai degnamente
avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete aver a vil
ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che sperando mirare tai
grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo
gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre membra son ite, sì
ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza fallace il petto
n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al tardi) avisti ch’a
quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente cale; certo perché
lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con tanti acquisti. Or
benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e siam contenti di
non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché trepidi e lassi)
languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del
Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o belle) a scorno
tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro
vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le Nereidi sue
questo torrente si vede che cossì rapidamente da basso in su rimonte riserpendo
al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il
vase in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una per una, di sorte che non
si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de commun consentimento, dopo
averlo solamente remirato, il ri- ferivano e proponevano per rispetto e
riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far perico- lo di sua
gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso di questi infelici,
mentre dubbia lo contratta- va, come spontaneamente s’aperse da se stesso. Che
volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come
possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi,
quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro
gli occhi e veddero gli doi soli; e tro- varono aver doppia felicitade: l’una
della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente discuoperta, che sola
possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io
possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che
lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder
tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, et in vista di
quelli che non credeno quello che apertamente veggono: sin tan- to che
tranquillato essendo alquanto l’impeto del furo- re, se misero in ordine di
ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O rupi, o
fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi, o mari,
quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel
aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra sua sonò e
cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi affanni; o quanti
n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è nostro fine dopo che
tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e cantò. Dopo che tanto
travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le tempeste, non fia ch’altro
da far oltre ne reste che ringraziar il cielo ch’oppose a gli occhi il velo,
per cui presente al fin tal luce fassi. Il quarto con la viola cantò: Per cui
present’al fin tal luce fassi, cecità degna più ch’altro vedere, cure suavi più
ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi siete fatte duce: con far men degni
oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men
degni oggetti a l’alma cassi, con condir di speranza alto pensiero, fu chi ne
spinse a l’unico sentiero, per cui a noi si scuopra de Dio la più bell’opra:
cessi fato benigno a mostrar vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato
benigno a mostrar vassi; perché non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio
di pene sien le pene; ma svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda
il dì e la notte dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì
e la notte dassi, mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de
fiamme diurne: talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti,
e inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e
inalza i bassi, chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta
vertigine dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto
stassi. Il nono con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o
non nieghi, o confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli
campestri e montanari de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi,
sassi. Dopo che ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo
instrumento ebbe cantata la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e
sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una
canzona, la quale non so se bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti
priego, sorella) di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia
Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il
padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son contento per quel che godo nel
proprio impero»; «Che superbia è la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue
che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto
surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante
ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere.
Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so dir che tanto non risplende
quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel
mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha
de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per
far del mar più che del ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non
splende tra le stelle»; Giove responde: «O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove
più di me beato non lo permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari.
Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le
dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla
riportata interamente tutta. giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca
senten- za che possa appartener alla perfezzion del proposito; né rima che si
richieda per compimento de le stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni
d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia gionto: perché qualumque
fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera principio per far discuoprir
quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì
verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante
la mia tanto restia quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo
per concedere incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che
altrimenti avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitade.
laodomia Quanto a gli animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come
non sono ingrati alla sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et
aspri travagli, per mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno
di te esser poco ben riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: “Agostino da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s
emblematic maxim, praise the lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA
--. Not to be confused
with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia.
Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords: implicatura, “De amore
fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani, dell’infinito, universo e mondi, praxis
descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore
come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The
Swimming-Pool Library.
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