Luigi Speranza --
Grice e Zuccante: l’implicatura conversazionale e la ragione – la scuola di
Grancona – la scuola di Milano -- filosofia vicentina – filosofia veneta -- filosofia
ialiana — By Luigi Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library
(Grancona). Filosofo veneto. Filosofo italiano. Grancona, Vicenza. Saggi
filosofici. Storico italiano della filosofia (Grancona, Vicenza - Milano).
Professore di storia della filosofia all’Accademia scientifico-letteraria di
Milano, poi trasformata in facoltà di Lettere e Filosofia dell’univ. statale.
Si occupa soprattutto di positivismo e di filosofia antica. Le sue principali
opere sono: Saggi filosofici; La dottrina della coscienza morale nello Spencer
(1896; 2ª ed. 1905); Fra il pensiero antico e il moderno (1905); Socrate(1909);
G. Stuart Mill e l’utilitarismo (1922); Uomini e dottrine (1926); Aristotele e
la morale. !). r Professore di Storia della Filosofa nella R.
Accademia scientifico-letteraria di Sfilano. LA STORIA DELLA FILOSOFIA E I
RAPPORTI SUOI lt 0 M A TIPOBRAFIA DELLE TERME DIOCLEZIANE DI O.
BALBI Via della Mercede. La storia della Filosofia e i rapporti suoi
colla storia delia coltura e della civiltà. Saluto questa illustre città,
esempio mirabile di vita intensamente operosa in tutti i campi, nelle
industrie non meno e nei commerci che in ogni maniera d’istituzioni
sociali e politiche, nelle lettere e nelle arti non meno che nelle
scienze. Italiano o straniero, nessuno può dimorare anche per poco a
Milano, senza ammirare, non dirò, le sue vie, i suoi giardini, i suoi
templi, i suoi teatri, le sue scuole, i suoi istituti scientifici, i monumenti
innalzati ai suoi grandi, le officine e gli stabilimenti immani, i segni
esterni insomma di un’attività prodigiosa ; ma più di tutto le sorgenti
intime di quest’attività, le qualità peculiari di un popolo forte e
serio, per cui il lavoro è una seconda natura e il tempo è danaro ; per
cui la vita non vale la spesa di essere vissuta, se non è rivolta al
proseguimento di un fine alto e degno ; di cui tutti gli sforzi cospirano
a ciò : provvedere ai bisogni della vita materiale e alla ricerca della LA
STORIA DELLA FILOSOFIA E 1 RAPPORTI SUOI prosperità economica, ma
non dimenticare i bisogni più elevati dello spirito e soddisfarli anzi
nella misura più larga. Modesto lavoratore, ma diligente e
coscienzioso, io non potevo, o Signori, desiderare campo più adatto
alla mia attività che questa nobile città, che di lavoratori è piena,
e di lavoro è insieme esempio ed eccitamento. E quando questa vostra
Accademia, che è come il centro della operosità letteraria e scientifica
di Milano, mi fece l’onore di chiamarmi alla cattedra di storia della
filosofia, esultò l’animo mio. Esultò, ma fu preso insieme da sgomento.
Quest’Accademia, lo so bene, ebbe in ogni tempo insigni maestri, e ne ha
tali anche oggi che onorano da soli una città e una nazione, e non posso
io, conscio come sono della mia pochezza, non trovarmi a disagio in
siffatta compagnia. D’altra parte i due che mi precedettero di recente
nell’insegnamento che assumo oggi) hanno lasciato tale traccia di sè, o
per vigoria d’intelletto e risorse inesauribili di critica e di polemica,
o per genialità larga di studii e di parola, ch’io mi sento anche
più da poco al loro confronto, e tutta comprendo la gravezza del compito
a cui mi sobbarco. Ma l’esempio loro mi soccorra, o Signori, e il vostro favore
non m’abbandoni; e se è vero che ognuno, e specialmente chi non è
vecchio, fecondi e moltiplichi le proprie forze nell intima società di
uomini insigni, mi giova sperare che aneli io sentirò moltiplicate le mie
qui, dove splende tanta luce di scienza, e che, a questa cooperando
anche in minima parte, mi mostrerò non indegno della fiducia di cui
mi onoraste chiamandomi a questo posto. Colla storia dulia l'oltura e
delia civiltà. D IL Ciò che dà l’impronta ad un secolo
e ne forma come la caratteristica, voi ben lo sapete, o Signori, è
non tanto il tesoro effettivo delle sue cognizioni, delle sue
invenzioni e scoperte, quanto piuttosto la via che segue per giungere ai
risultati a cui giunge, il modo con cui si rappresenta la natura e la
vita, lo spirito che intornia e vivifica le sue ricerche. Ora
del secolo nostro spirito informatore e abito mentale, a cosi dire, è il
concepire la natura e la vita storicamente ; il rappresentarsi i fenomeni o
morali e sociali, o biologici e fisici, come una continua evoluzione,
come dipendenti gli uni dagli altri, come determinantisi reciprocamente
in una sempre maggiore eterogeneità e complessità attraverso a differenziazioni
successive. Scienza dei fatti vuol dire oggidi storia dei fatti ; ogni
maniera di scienza si può dire abbia assunto la forma storica ;
tutto il movimento scientifico contemporaneo è essenzialmente storico. Mentre
nel secolo passato, in gian parte, si avea rinunziato ad ogni criterio
storico e tradizionale, e con principii generalissimi e coi dati della
ragione astratta si pretendeva ricostrurre la scienza, la religione,
l’arte, la vita civile e sociale (il grande moto della Rivoluzione
francese è come l’attuazione pratica di (j LA STORIA Di:LI.A FILOSOFIA K
I RAPPORTI SUOI questa tendenza), nel secolo nostro si riconobbe
che fuori della storia non v’ha salute, che la storia non solo ci
conserva il passato ed è la scuola migliore per l’avvenire, ma è addirittura la
forma, a dir cosi, della vita e della civiltà. E già incominciando dalle
scienze morali e sociali, prime ad assumere la forma storica, come
quelle che s’occupano di fatti che più chiaro presentano il carattere
dello svolgersi e formarsi progressivo, questo spirito storico andò a
mano a mano propagandosi alle scienze stesse naturali, sicché oggidì non
solo, ad esempio, la filologia classica, la linguistica, la scienza del
diritto, quella delle religioni, l’economia, la letteratura e l'arte
stessa hanno un fondamento essenzialmente storico, e metodo e
procedimenti storici ; ma metodo e procedimenti storici hanno anche la
geologia, la cosmologia, la biologia; poiché nella prima alla vecchia
teoria degl’improvvisi cataclismi, dei subitanei rivolgimenti, delle
creazioni ex nihilo, s’è sostituita quella delle lente e graduali
trasfonnazioni della crosta terrestre e quindi d’una vera storia del
nostro pianeta; e nella seconda l’idea, divinata dal Kant e ridotta a
teoria dal Laplace, d’una graduale formazione del sistema solare da una
materia diffusa, tiene oramai il campo ; e nella terza finalmente veniva
a mano a mano perdendo terreno la dottrina del Cuvier sulla
stabilità delle specie, e vi domina sovrana ora l’idea che, già divinata
dal Kant, dall’Herder e dai Gfoethe, assumeva, col Lamark e col Darwin
specialmente, il valore di teoria e scoperta scientifica, sulla
trasformazione delle specie, sull’evoluzione graduale e progressiva degli
organismi viventi. COLLA STORIA DELLA COLTURA E DELLA CIVILTÀ.
7 Scienza della natura è oramai storia della natura, anche secondo il
concetto dell’Haeckel, che all'opera sua dava il nome di « storia naturale
della creazione » ; scienza dello spirito è storia dello spirito. Come le
faune e le flore si studiano nelle loro filiazioni e nei loro
svolgimenti, cosi ogni scienza si studia nella filiazione e nello svolgimento
dei suoi prodotti. La dottrina dell’evoluzione che è come l’anima di
tutta quanta la coltura scientifica moderna, ha contribuito più che
altra mai a diffondere questo spirito storico, che è diventato, a dir
cosi, una cosa sola con essa. Conformemente a questa tendenza cosi
spiccata che mostra il secolo nostro per lo storicismo, anche la
filosofia è diventata una scienza essenzialmente storica. Per verità non
mancano anche oggi tentativi di costruzioni filosofiche, fatte quasi in odio ad
ogni spirito storico, ad ogni critica anclie rudimentale dei sistemi ; ma
sono casi isolati, avanzi di tendenze antiscientifiche non ancora
appieno scomparse, prodotti di cervelli, acuti anche, se si vuole, ma
chiusi ad ogni altra idèa, che non sia quella del sistema o della
chiesuola, e destinati perciò ad avere la vita d’un giorno. Siamo ben
lontani oggi dal tempo in cui Cartesio, isolandosi nella riflessione
individuale, esclamava che « non vole\ r a neanche sapere se c erano
stati P I,A STORIA DELIA FILOSOFIA E I RAPPORTI SUOI degli
uomini prima di Ini », Quel suo disdegno pei il passato, quel suo
proposito fermo di attingere solo alle sorgenti del proprio spirito, come
se altri spiriti prima di lui non fossero stati, era giustificato da una
naturale reazione contro l’autorità degli antichi, che dominava
esclusiva nel medio evo; ed era forse necessario a pieparare i tempi nuovi e a
fare che l’uomo nuovo, acquistando una nobile ed alta coscienza di sè,
cimentasse cosi le proprie forze nell’acquisto dei nuovi veri. Oggi più
che il proposito del Cartesio giova rammentare quello del Leibnitz,
che, pur non disconoscendo la necessità della speculazione originale,
voleva che questa s innestasse, per cosi dire, sul vecchio, e chiamava
perciò in suo aiuto la storia (1). E in realtà le dottrine
filosofiche hanno vita e si propagano o per somiglianza e imitazione, o
per opposizione e contrasto; sicché in ogni caso il presente è figlio del
passato e padre dell’avvenire. Una filosofia pertanto che faccia astrazione
dalla sua storia, è presso a poco senza fondamento ; un pensiero che
s’isoli volontariamente da tutto ciò che l’ha preceduto, vaga d’ordinario nel
vuoto, e riesce a delle stranezze. Come potrebbe un problema filosofico
essere affrontato convenientemente, se non se ne conoscessero tutti i
lati e gli aspetti, se non si conoscesse come vi si è affaticato attorno
lo spi (II Noucea.v Essai, livro 1, cb. 1, « I.a véiité est plus
rppan-ìiie qu’on ne penso ; mais elle est souvent affaiblie et mutile. En faisnnt remarquer le*
traces de la veii-écliez Ics anciens, on tirerait l'or de la boue, le
diamant de la mine, et la lumière dcs ténébres: et ce serait perenni*
quaedam philoxophia ». ‘t
COLLA STORIA DELLA COLTURA E DELLA CIVILTÀ. rito umano in
ogni tempo, e quali furono i tentativi fatti per scioglierlo? Soltanto
nei passato si può trovale la ragione del presente e ravviamento per
l’avvenire. Mentre le altre scienze possono fino a un certo punto
prescindere dalla loro storia, della filosofia invece è parte integrante
la sua storia. Gli è che la filosofia e la sua storia hanno in fondo il medesimo
oggetto; lo spirito che riflette su se stesso e vuol comprendere se
stesso. Ciò che ogni individuo, colla riflessione filosofica,
scopre in sè, la storia della filosofia ce lo fa trovare, come in
un’immagine ingrandita, nelle dottrine che si sono succedute attraverso i
tempi. Non a torto Wundt lamenta che chi si pone a filosofare si
creda troppo spesso sciolto dall’obbligo di conoscere la storia della filosofia
(2); e noi dal canto nostro lamentiamo che una scuola pur
nobilissima, il Positivismo, che ha reso servigi segnalati alla
scienza e alla filosofia, e che, fondandosi sul concetto dell’evoluzione,
dovrebbe per ciò stesso tener conto della storia, la trascuri invece, o
non la curi a sufficienza, latta qualche rara eccezione, massimamente in
Italia, sotto pretesto che quasi tutto il passato è un tessuto di dottrine
vane e fallaci, sogni metafisici di cui non giova occuparsi; e che solo il
presente, il presente positivistico, è degno di studio. Invece tutte le
dottrine sono degne di studio ad un modo, o Signori, come quelle che,
rappresentando varii momenti della vita storica dello spiiito, [Fouillèe.
— HUloire de la Philosophie. Paris. Delagrave, 1895, p. II. (2)
Philonophic und WisscnirliaSt in Essays, 1385. 10 la storia della
filosofìa f« i uaì’ì'ort! suoi sono egualmente necessarie a rivelarne
l’intima natura; ed ogni esclusivismo è perciò contrario alla scienza
e impedisce la nozione vera dell’oggetto della filosofia. Le
altre scienze hanno anch’esse una loro storia; ma riguarda più che altro
il succedervisi delle ipotesi e delle teorie, l’affermarvisi di
cognizioni nuove e di nuove idee alla luce di nuovi fatti, i rivolgimenti
fecondi portativi da divinazioni d’intelletti geniali, gli arresti
improvvisi dovuti a tristizia di tempi o d’uomini e cosi via.
Sicché questa storia, a cosi dire, esteriore, nulla, o ben poco, ha
che fare coll’oggetlo delle scienze stesse; e può anche fino a un certo
punto essere ignorata dallo .scienziato. Egli sarà per questo meno dotto,
meno erudito; ma non sarà meno acuto, meno profondo, meno conoscitore
della materia sua, meno scienziato per questo. Gli è che nelle
scienze è sempre la forma ultima quella che vale; le precedenti, scalzate
dall’ullima, non hanno alcun valore, e 11 conoscerle può importare
all’erudito, importa mediocremente allo scienziato. Come volete che un fisico,
in possesso di tutti i trovati della fisica moderna, collo spirito
imbevuto delle nuove idee e dottrine, abbia bisogno, per far avanzare
anche di più la scienza sua, di sapere come la pensavano, ad esempio, i
Caldei intorno a un dato fenomeno? Egli sa già che contraria al vero è ogni
altra idea e dottrina, che non sia quella confermata dai recenti studi,
dalle recenti esperienze; e perciò o non se ne cura, o se ne cura appena
quel tanto che basti a soddisfare una legittima curiosità: a lui preme
sovratutto assicurarsi del presente; perchè il presente solo è
scienza, e da questo solo può prendere le mosse alla conquista di
nuove idee, di nuove cognizioni. li COLLA. STOICI A DELLA
COLTURA E DELI.A C1NIL1A. Nulla di tutto questo in iilosofìa. TI
progredire di questa non sta in un continuo accrescersi di
cognizioni positive, nel giungere a risultati ben saldi e
definitivi, nel risolvere i problemi che si pongono, e nel porne di
nuovi clic si risolveranno allo stesso modo; ma piuttosto in un continuo
rifarsi da capo, però con una coscienza a mano a inano ] iit chiara e
comprensiva del problema speculativo; non nel risolvere definitivamente
questo problema. ma nel porlo via via con maggior sicurezza e corredo
d'esperienza, sovratutto poi nel conoscere sempre meglio i metodi che ne
prepareranno la soluzione e nell’acquistare via via maggiore abilità ad
applicarli. Ciò vuol dire che altri non potrà avere una chiara
nozione dell’oggetto della filosofia, se non ne conosce la storia;
che anzi la filosofia trova, per cosi dire, se stessa nella sua storia,
la quale è perciò, come dicevamo, parte integrante di quella, e insieme di
quella generatrice e fondamento. Non già che la filosofia stia tutta quanta
nella sua storia, come altri ha sostenuto, e che nulla si deva lasciare
all’iniziativa individuale. Come non è bene che l’uomo si i li, si chiuda
in un pensiero tutto individuale ed estraneo alla storia, cosi non è bere
che niente pensi di per sò e ripeta soltanto cose dette da altri ; è
deplorevole egualmente il soverchio d’originalità, in filosofia si- [Chiappelti.
La Ctltura «lorica e il rinnocamente della filotojla, r . 38, in Sanai e
Note Critiche, Bologna, Zanichelli. LA STORIA DELLA FILOSOFIA E I RAPPORTI
SUOI nonimo di stranezza il più delle volte, come l’assenza
di originalità e il sostituire all’invenzione la compilazione.
La storia della filosofia impertanto, nel tempo stesso che ci dà
una chiara nozione della filosofia e del formarsi e svolgersi progressivo
del suo oggetto attraverso i tempi, deve anche eccitare in noi quello
spirito di ricerca e di scoperta, senza cui saremo bensì uomini dotti,
biblioteche ambulanti, pieni la testa d’idee e pensieri altrui, ma
mancanti affatto d’iniziativa, inetti a muovere un passo senza che gli
altri c’indichino il cammino. C’e un indirizzo oggidì nel campo
delle scienze morali e sociali, che per esser meglio scientifico, per
esser meglio positivo, per fondarsi meglio sui fatti, per poco non finisce
col ricondurre l’uomo al passato, coll’arrestare ogni progresso, sotto
pretesto che non trova nessuna giustificazione nei fatti; col rendere l’uomo un
automa culi antesi nella contemplazione di ciò che fu e vietante a se
stesso ogui aspirazione, ogni ideale d’avvenire. Ma questo è un
falso storicismo, o Signori, non è lo storicismo sano e fecondo, di cui abbiamo
parlato prima; è un empirismo vuoto e pernicioso, che ci dobbiamo ben
guardare d’introdurre negli studi di storia della filosofia. Il
pensiero umano, come del resto la vita dei popoli e degl’individui,
non è una specie stabile, non è qualche cosa di rigidamente fisso e permanente;
è qualche cosa invece che si forma e diventa incessantemente; e in questa
sua evoluzione ha bisogno del passato sicuramente, ma per prendere da
esso le mosse, per mettersi, partendo da questo punto, per vie nuove,
intentate ancora. Forsechè la storia perde del suo valore, se può
fornire COLLA STORIA DELLA COLTURA È DELLA CIVILTÀ. 13 qualche
utile insegnamento? Ma se fu chiamata in ogni tempo maestra della vita!
Forsechè perde della obbiettività e serenità che deve avere, se altri può
trovarvi un eccitamento al peusare e all’agire? Ma se la narrazione
schietta e sincera dei fatti non può non produrre un eccitamento negli animi,
se la verità ha una sua forza motrice speciale, che in nessun modo è possibile
contenere! A che servirebbe il passato, se in ogni caso dovesse lasciarci
freddi e indifferenti, se per null'altro si dovesse ricercare e
disseppellire, che per soddisfare una vana cu¬ riosità? Il passato non ha
valore se non in quanto svegli in noi forza ed attività, se non in quanto
cessi di esser passato e si trasformi, per cosi dire, in carne e
sangue nostro, sangue che vivifichi questa nostra vita moderna. Ben
sappiamo che ci sono nel passato delle forme caduche, destinate a
tramontare coll'ambiente che le ha generate ; e non a queste certamente
chiederemo quella vita che non hanno; ma c’è anche e si produce nel
tempo qualche cosa che ha in sè una vitalità immortale, de¬ stinata
perciò a rivivere perpetuamente sotto forma nuova nella coscienza umana ;
e a questa chiederemo di com¬ piere l’ufficio suo nella storia; questa
cercheremo che, sorgente di vita, non cessi mai di distribuire e fecon¬
dare la vita. Voi sapete, o Signori, della lampada che là nelle feste
Panatenee si trasmetteva di mano in mano; ebbene che il passato si
trasmetta a noi nello stesso modo, sicché la fiaccola della vita mai non
si spenga, ma splenda anzi e fiammeggi di luce nuova e più intensa.
Come mancheremo perciò ai dettami di un metodo rigorosamente
scientifico, come ai precetti della critica f
14 i,\ sooma OKT.U filosofia k i rapporti suoi
storica; come ci si accuserà (li poca serenità eil obbiet¬ tività, se
alcuni pensamenti di lilosofi, notevoli per ori¬ ginalità e vigoria, per
felice coerenza e connessione lo¬ gica, per una certa tal quale
divinazione dell’avvenire, additeremo ai giovani come degni di essere
studiati e ammirati, sicché anche in loro si svegli l’aculeo della
ri¬ cerca e della scoperta, e non rimanga quindi senza frutto
questa grande eredità del passato? « Poiché i grandi filo¬ sofi, scriveva
Pascal, non si sono serviti delle invenzioni che loro sono state
lasciate, che come di mezzo per averne di nuove, e questo felice ardimento
ha aperto loro il cammino alle grandi cose, noi dobbiamo prendere
quelle che essi ci hanno lasciato nello stesso modo, e, seguendo il
loro esempio, farne il mezzo e non il fine del nostro studio, e cercare
cosi di sorpassarli imitandoli » (1). Anche nel campo del pensiero,
o Signori, e non soltanto in quello dell’azione ci sono gli eroi; ebbene,
comeaccendono a grandi cose gli eroi dell'azione e l’esempio loro è
seme elio frutta abbondantemente, e cosi siano a noi stimolo ed
eccitamento quelli che l’Hegel con frase felice chiamava gli croi del
pensiero nella storia, i grandi fi¬ losofi. Stimolo cd eccitamento a
sorpassarli imitandoli, secondo il detto del Pascal; poiché chi
.s’arresia alla sem¬ plice imitazione e riproduzione del pensiero altrui,
e non lo rifa in se stesso, e non vi aggiunge del suo, fa opera
vana, e quasi quasi, nel moto incessante che affatica il mondo degli
spiriti e delle idee, si direbbe che si pro¬ ponga stoltamente d’arrestarlo
ad un tratto. Gl’individui (1) l)c Vanloritc cu matih'c . LA
STORIA DELLA FILOSOFIA E I RAPPORTI SUOI fiumi, come i torrenti e
gli umili rigagnoli del sapere ; si potrebbe dire clie tutto essi
assorbauo l’ambiente in¬ tellettuale dell'epoca in cui vivono. Ma come il
mare, se assorbe in sè fiumi e torrenti, è pur quello in fondo che
dà vita a fiumi e a torrenti, cosi i grandi filosofi, figli del loro
tempo, esercitano anche sulle intuizioni scienti¬ fiche e sulla coltura
generale del loro tempo un’efficacia poderosa, sebbene latente spesso e
inconsapevole. Chi vor¬ rebbe negare, ad esempio, che le dottrine
filosofiche dello Spencer costituiscano in qualche modo l’ambiente
intel¬ lettuale del tempo nostro, sicché tutti, anche quelli che le
ignorano, purché non sprovvisti affatto di coltura, ne ri¬ sentono
l’influenza e quasi l’assorbono, a dir cosi, coll’a¬ ria che respirano ?
Della critica kantiana chi non sa quale poderoso moto d’idee abbia
suscitato in Germania al suo apparire, e come anche ora, dopo tanto lasso
di tempo, il vecchio Kant torni più vivo di prima alle menti de’
suoi connazionali, sicché filosofi e scienziati insieme vanno a gara nel
rinverdirne i principii e le dottrine fon¬ damentali ? Non occorre
rammentare poi che dalla scuola dello Schelling uscirono insigni
naturalisti ; dalla scuola dell’Hegel insigni storici ; dalla scuola
dell’Herbart va¬ lenti cultori delle discipline antropologiche e
pedagogiche; e che in generale non c’è stato filosofo e pensatore di
vaglia, die a questo o a quel ramo del sapere non abbia contribuito a
dare indirizzo nuovo, o certamente vigoria e forza nuova.
Senza dire che oggi specialmente il nesso tra la fi¬ losofia e la
scienza s’é fatto anche più stretto che non fosse in passato. Già gli
scienziati, fisici e biologi spe- COLLA STORIA DELLA COLTURA E DELLA
OIV-ILTX. cialmente, vanno a mano a mano persuadendosi
che i con¬ cetti loro devono cimentarsi alla stregua d’una severa
critica della conoscenza. E Helmholtz fin dal 1855 in una sua « Lesione
sulla vista » (1) accennava alla ne¬ cessità d’una critica fìlosuiìca
delle cognizioni sperimen¬ tali, e nel 1878 in un discorso che ha per
titolo « Il peti’ siero nella medicina » (2), tornava sullo stesso
argo¬ mento affermando che « a quel modo che l’anatomista, giunto
che sia a toccare i limiti della potenza ottica del suo microscopio, deve
rendersene conto, cosi è obbligo d’ogni scienziato studiare esattamente
il vaio) e e l’ufficio del massimo di tutti gli strumenti, di cui egli si
serve, il pensiero umano. » E più esplicitamente ancora in un suo
discorso del 1879 « I fatti nella percezione » dopo avere accennato che
il problema della conoscenza è quello in cui s’imbattono, muovendo da due
parti op¬ poste, la filosofia e la scienza naturale, concludeva che
in fondo l’nna e l’altra hanno l’obbligo di esaminarlo, sebbene ciascuna
da un punto di vista suo proprio. D’al¬ tra parte il Wundt in uu
suostudio « Sul problema della filosofìa nel tempo presente » scrive «
che più o meno consapevolmente s’è fatta strada nell’animo di tutti
l’opinione clm nella scienza dei corpi non si de¬ vano più solo
descrivere e collegare fra loro i fenomeni, ma si tratti oramai di
penetrarne il fondo ; onde è chiaro (1) Contenuta nell’opera *
P-rpn'ii-e risia mia miche Vortrii/e ». (2) « Pas Peniteli in dar
Medi-in ». « P'e T'O tsachea
in d'r Wahrnahmung ». « Veher die An/gabe dar Phdosophie in. dee
Gegencart. » I.i iprip, 187
X. LA STOKIA DELLA FILOSOFIA E I RAPPORTI SUOI che cosi la
scienza riconosce esser suo obbligo il dar mano a comprendere
filosoficamente l’unità della natura ». E non solo, egli continua, « i
singoli rami delle varie dottrine sperimentali si sporgono verso la
filosofia. La stessa base astratta della scienza naturale, la Matematica,
non è andata esente dai segni del nostro tempo » (1).
VI. Da quanto s’è detto risulla adunque che storia
della filosofia vuol dire largamente storia del sapere e della
coltura in generale. Non già che tutte le idee siano idee filosofiche, e
che lo scienze siano una cosa sola colla filo¬ sofia. Ma tutte le idee
hanno la loro più alta espressione nella filosofia, come tutte le scienze
hanno in ultimo il loro fondament i nella filosofia. A non ripetere
quello che s’è detto or ora sui rapporti delle scienze naturali
colla filosofia e sulla necessità che quelle hanno di sottoporre ad
una critica assidua i concetti direttivi dell’esperienza, che le renda
atte ad una larga sintesi della natura ; a non insistere su cose già
note, che i concetti di spazio, di tempo, di numero, di quantità ecc., su
cui costruiscono il loro edificio le matematiche, sono concetti
essenzial¬ mente filosofici, e cui spetta alla filosofia discutere largamente
; su che cosa si fondano la morale, il diritto, la politica, e in genere
le scienze sociali, se non su quei concepimenti riguardanti la natura
dell’uomo e della so¬ ci) Cfr. il mio « Problema della conoscenza
nell'Empirismo contem¬ poraneo » noi Sa^gi filosofici p. 156-157, anche
per le necessarie ci¬ tazioni. COLLA STORIA DELLA COLTURA E DELLA
CIVILTÀ. 2o cietà, da cui la filosofia non può prescindere e che
sono anzi suoi proprii ? Xon è vero che la morale e il diritto
hanno questo o quell’indirizzo, secondo che l’uomo si con¬ cepisce
essenzialmente egoista, o altruista, secondo che è l’utilità od il dovere
il movente supposto delle azioni? Gl’Inglesi non riescono a persuadersi
che l'uomo non sia in ogni caso indotto ad agire da motivi egoistici,
non riescono a persuadersi che debba determinarsi ad agire
indipendentemente dalle conseguenze utili o dannose che dalle sue azioni
può aspettarsi ; e perciò concepiscono una moralità pratica e positiva
fondata esclusivamente sull’utile e sull’interesse ; nè diversamente si
comportano in rispetto al diritto e ai resto delle scienze
politico-so¬ ciali, penetrate anch’esse tutte quante da cotesto
concetto d’utilità. I Tedeschi, meno pratici, più idealisti, essen¬
zialmente metafisici, concepiscono invece una moralità fondata sur una
legge categorica ed assoluta, che impone all’uomo il dovere di fare il
bene per il bene, indipen¬ dentemente da qualunque vantaggio gli possa
derivare; e questo concetto della moralità estendono anche all’or¬
dinamento giuridico e all’ordinamento economico della società; sicché,
come osserva il Trendelenburg, c è la tendenza in Germania a dare un
fondamento etico aldi¬ ritto naturale, e quella non meno spiccata a
fondarsi sovratutto su considerazioni etiche e morali per proporre
delle riforme all’organizzazione economica della società presente (1). E
l’Individualismo e il Socialismo, le due teorie sui rapporti dello stato
cogl’individui che si con¬ fi) Trendelenburg Naturrccht auf (lem Grande
der Ethik, Leipzig 1860. Cfr. CARLE (si veda), La vita del diritto.
Torino, Bocca. *>G LA STOIUA DELLA FILOSOFIA e I
RAPPORTI SUOI tendono il campo oggi, su che cosa si fondano in
ultimo che su concetti essenzialmente filosofici, riguardanti la
na¬ tura dell’uomo e della . ocietà? L’Individualismo si potrebbe
assomigliare in gualche maniera all’Atomismo. A quel modo che l’Atomismo
nel mondo fisico considera l’universo come la risultante di un numero
infinito di atomi, che, spinti da una loro intima energia, si combinano
diversamente cosi da produrre quella immensa varietà di cose
esistenti e coordinate fra di loro che dicesi natura, senza che al¬
cuna idea preconcetta presieda a questa combinazione; così anche
l’Invidualismo considera la società umana come il risultato del reciproco
accomodarsi degl’individui, atomi sociali, che, spinti dai proprii
bisogni, dalle proprie ten¬ denze, da influenze naturali, si combinano
diversamente ira loro, dando luogo a quegli aggiogati, che, tribù
dap¬ prima, si trasformano poi per via di successive evoluzioni in
stati e nazioni. E anche qui nessuna idea preconcetta presiede a
quest'opera di successivo aggregamento ; tutto proviene da una forza
intima inerente agli stessi individui, che aggregandosi costituiscono la
società (1). E siccome gl'individui, secondo questa dottrina, sono essi
la realtà vera, mentre la roe : età non è in fondoche
un’astrazione, non devono perciò esser a-sorbiti da questa, non devono
es¬ serle in alcun modo sacrificati ; devono essere lasciati liberi
nello svolgimento della propria persona; devono essere, non contrariati,
neanche diretti nelle loro iniziative, ma abban¬ donati ad esse ; sicché
per questo modo si abbia, secondo vagheggia lo Stuart-Mill, quella
varietà e ricchezza di (1) Carle. —COLLA STORIA DELLA COLTURA E
DELLA CIVILTÀ temperamenti, di caratteri, di opinioni e di condizioni so¬
ciali, che rompe la monotonia della convivenza civile e forma uno dei
migliori ornamenti della medesima (1). Tutto al contrario il Socialismo.
Il Socialismo nou parte dal fatto concreto dell’individuo ; parte
dall’idea dell’ente so¬ ciale e collettivo, e vuole atteggiare
gl’individui all’in¬ tento proprio di questo tutto. Mentre per 1
Invidualismo la società è come un organismo fisico che si svolge,
a dir cosi, meccanicamente sotto l’impulso di una forza intima e
latente, per il Socialis.no la società è un orga¬ nismo morale che nel
suo svolgimento si propone e deve proporsi di attuare un fine, un ideale
offerto dalla ra¬ gione. Il Socialismo non lascia perciò agl’individui il
libero governo di se stessi, non lascia gl’interessi individuali in
balia alla libera concorrenza, come fa lTndividualismo, ma vuole
disciplinare questi e quelli secondo una norma prestabilita, mirando per
questa via a un’organizzazione sociale, in cui tutti gl’interessi possano
coordinai^ in una mirabile armonia. L’Individualismo vieta allo stato
ogni in¬ gerenza nelle iniziative individuali, e vorrebbe ridurne
l’azione alla sola tutela dei diritti e alla repressione del male, se
pure non vorrebbe distruggerne addirittura ogni azione, considerandola
come male peggiore di ogni male e preferendo, come fa lo Spencer, che i
mali sociali siano lasciati alla vis naiurae medicatrix; il
Socialismo confida nel potere sovrano dello stato, e ne vuole l’in¬
tervento in ogni caso a mettere in atto questo o quel (1) Le idee dello
Stuart Miti sull’argomento sono contenute sovrattutto nell’opera « La Libertà *
e nell’altra « Il Gocerno rappretentatico ». 28 J.A
STOMA DEM,A FILOSOFIA E I RAPFOKTI SUOI l’ideale di organizzazione
sociale, con cui si possa re¬ care x’iraedio effettivo ai mali che
affliggono la società umana, ed ottenere la moralità ed il benessere (1).
L’In¬ dividualismo s’attiene più che altro ai fatti; il Socialismo
all’idea ; l’uno si connette col Positivismo, l’altro coll’I¬ dealismo ;
l’uno si svolge in Inghilterra, il paese classico del Positivismo ;
l’altro in Germania, il paese classico dell’Idealismo ; l’uno ha a suoi
principali rappresentanti il Bentham, lo Stuart Mill, lo Spencer, strenui
campioni della filosofia dei fatti, del Positivismo; l’altro, a non
par¬ lare che dei più recenti, ha propugnatori efficaci e poderosi
il Marx ed il Lassalle, ambedue ferventi se¬ gnaci dell’Hegel, il grande
idealista, di cui adottano spesso il linguaggio metafisico e le forinole
astruse, e al cui idealismo appartiene quell’alto concetto dello
stato, accettato nelle sue conseguenze pratiche dal socialismo tedesco,
per cui esso è come la ragione perma¬ nente e la personifìcazionc vivente
dello spirito assoluto. VII. Tutto questo basta, credo,
o Signori, a provare che il pensiero e l’idea filosofica è come il
sostrato naturale d’ogni dottrina sociale, e poiché le dottrine sociali
tendono a tradursi nei fatti, è anche ciò che pervade e penetra
tutta quanta la vita dei popoli. Pare esagerazione alfermar ciò ?
Parrà esagerazione agli osservatori superficiali non avvezzi a rendersi
conto (1) Calle — Oji. eit„ p. 551-552. I.A STORIA. DELLA
FJLOSOeiA li I SUOI lì APPORTI 29 delle riposte cagioni dei fatti;
non parrà agli altri che queste riposte cagioni ricercano, e per cui il
fatto è in¬ dice sempre d’un’ idea. Lo studio delle speculazioni
filosofiche, delle forme del pensiero pare talvolta trasportarci ben
lontano dalla realtà, in un mondo ideale, quasi chimerico, che
nulla abbia che fare col mondo reale in cui si vive e si opera. Il
vero è però che questo studio ci mette ben addentro nella realtà, ce ne
fa penetrare, per cosi dire, il segreto. Non si può spiegare il movimento
senza conoscere il pensiero che lo dirige e governa; non si può
spiegare l’azione senza conoscere l’idea che si è volata attuare
con essa, e che fu quindi la sua causa motrice. La storia delle azioni
non si può intendere interamente che per la storia delle idee.
C’è chi ostenta un superbo fastidio delle idee, e non crede degna
di studio altra cosa che i fatti. Ma le idee sono fatti essi stessi
sott’altra forma ; e d’altra parte possiedono un loro potere, una loro
forza speciale, per cui tendono a tradursi in atto. Un’idea che s’impadronisca
d’uno spirito, non lo lascia in pace un istante, e lo trae anche suo
malgrado a operare. Furono fatti studii notevoli, voi lo sapete,
sull’impulsività dell'idea; l'Ardigù nostro ha pagine importanti
sull’argomento e nella Psi¬ cologia e nella Morale ; il Fouillée in
Francia ha una vera dottrina su quelle ch’egli ha chiamato
idee-forze. E le idee sono forze non solo in quanto agiscono su indi
• vidui isolati ; le idee sono forze più che altro in quanto
agiscono sull’intera comunità ; le idee sono forze indivi¬ duali e
collettive. Ci sono fatti che si presentano come 30 L A STORIA
DELLA FILOSOFIA E 1 RAPPORTI SUOI effetti di esplosioni momentanee,
isolati quasi nel tempo ; in realtà furono preparati a poco a poco dal
lavorio dell’idea. L’idea è come la goccia d’acqua che scava len¬
tamente il masso; o, se mèglio vi piace, come quei germi che,
infrodottisi di soppiatto nell’organismo, v’iniziano un vero lavoro di
trasformazione. Si potrebbe capire la rivo¬ luzione francese senza
conoscere quel moto poderoso d’idee che l’ha preparata? Si potrebbe
capire la rivoluzione nostra, se ignorassimo tutto ciò che dai suoi
precursori s’è fatto nel campo del pensiero ? Gli è che accanto
alla storia esteriore, alla storia dei fatti, c’è sempre la storia
interiore, la storia delle idee ; nè l’una può stare indi¬ pendentemente
dall’altra. Si parla oggi tanto, e a buon diritto, d’ambiente e della
necessità di conoscerlo per spiegarci interamente ciò che vi accade. Or
bene, c’è sol¬ tanto un ambiente fisico, o non anche un ambiente
morale e sociale, un ambiente storico, diremo noi, che importa
conoscere per ispiegarci la storia ? E quest’ambiente sto¬ rico da qual
altra cosa è costituito che dalle idee che vi dominano ?
Delle vitali attinenze fra le grandi correnti del pen¬ siero e i
fatti della vita sociale ci dà incontestabili te¬ stimonianze la storia.
Dottrine che sembrano le più lon¬ tane dalla vita reale, che si direbbero
campate in aria, quali il Platonismo e lo Stoicismo, hanno esercitato
la più benefica influenza morale in epoche di profonda dis¬
soluzione e precorso e preparato il più grande rivolgi¬ mento sociale che
rammenti la storia, il Cristianesimo : dal Neopitagorismo e dal
Neoplatonismo derivò la più gagliarda opposizione al Cristianesimo
invadente e il [COLLA. STORIA DELLA COLTURA K DELLA 01\ 1LTÀ.
tentativo <li Giuliano l’apostata di ripristinare la reli¬ gione
greca : le speculazioni di Sant'Agostino sul peccato originale e sulla
grazia misero capo alla riforma e alle guerre di religione : le astratte
dottrine della scolastica, negli ultimi anni del medio evo,
s’intrecciarono, per opera dell’Occam specialmente, colle più vive
controversie poli¬ tiche fra l’impero e la chiesa ; e la distinzione,
anzi la rottura d’ogni legame fra teologia e filosofia che l’Occam
cosi gagliardamente sosteneva, faceva riscontro a quella sua polemica
contro i papi in favore dell indipendenza dello Stato: Molinisti e
Giansenisti, le cui controversie agitarono per tanto tempo la .Francia e
che ebbeio parte cosi notevole nei suoi destini, furono il frutto
naturale, sebbene lontano, delle speculazioni filosofico-religiose
di Sant’Agostino e Pelagio : l’Illuminismo, di cui è nota l’ef¬
ficacia poderosa esercitata, in Germania specialmente, sulla religione,
sulle dottrine giuridiche e politiche, su quello spirito di riforma che
invase studiosi e filosofi, popoli e principi nella seconda meta del
secolo A.VIII, e a cui son dovute le riforme di Federico 2°, di
Giuseppe 2°, e d’altri regnanti minori specialmente in Italia, e in
ultimo anche la rivoluzione francese, fu la conseguenza del razionalismo
del Leibnitz e più ancora del \\ olf ap¬ plicato alla vita pratica,
nonché delle dottrine degli In¬ glesi, specialmente del Locke, che si
diffusero ed ebbero il loro effetto maggiore in Francia, dove le
tendenze dell’ Illuminismo presero un carattere più risoluto e più
aperto, e giunsero, dapprima nei libri, poi nella vita, alle estreme
conseguenze. Non palliamo poi dell’efficacia che il pensiero speculativo
d’un uomo esercitò talora diret i32 LA STOIUA. DPLLA FILOSOFIA K 1
KAI'POKTl SUOI tamente sulle sorti d’un popolo. I « Discorsi alla
nazione tedesca » del Fichte, pubblicati nel 1808, mentre ancora
Berlino era invasa dai Francesi e Napoleone era on¬ nipotente in
Germania, risvegliarono l’abbattuta coscienza nazionale ed eccitando
vivamente la gioventù, prepara¬ rono le giornate di Lipsia ; le pagine
del Primato e del Rinnovamento di Vincenzo Gioberti, questo emulo
di Fichte troppo dimenticato, prepararono gli animi al ri¬ scatto
della patria nostra. Vili. Che dire poi dei rapporti
tra la filosofia e la religione? La religione è una specie di metafisica
spontanea ; ciò che le religioni comprendono allo stato di credenza
istin¬ tiva, la filosofia comprende sotto la forma di conoscenza
ragionata ; in fondo ad ogni religione c'è l’idea e il prin¬ cipio
filosofico ; ogni moto religioso è come pervaso e penetrato dal pensiero
speculativo, latente, se si vuole, avvolto, per cosi dire, e quasi
nascosto nelle pieghe del sentimento, ma non meno certo ed efficace per
questo. Corre tra queste due forme della vita umana, la filosafia e
la religione, lo stesso rapporto che tra le due funzioni fondamentali
dello spirito, la ragione e il sen¬ timento ; e come non è possibile
disgiungere queste, cosi non è possibile disgiungere quelle ; non è
possibile delineare le vicende della religione senza indicare i
pro¬ gressi della filosofia ; non è possibile riandare la via
percorsa dal pensiero religioso, senza riandare insieme quella del
pensiero filosofico. Dirò anzi che per certi COLLA STORIA DELLA COLTURA E
DELLA CIVILTÀ. 33 popoli, come per esempio gl’indiani, i Persiani,
i Chinesi, gli Egizi, gli Ebrei, la religione è quasi tutta la loro
filosofia, e nei libri sacri, non altrove, deve essere ricercato il
pensiero loro intorno a Dio, all’ uomo, alla natura e a quei problemi
fondamentali, che soltanto piu tardi e presso altri popoli furono
argomento delle di¬ scussioni di filosofi propriamente detti.
D’ altra parte i grandi sistemi metafisici hanno anch’essi qualche cosa
di solenne, di sacro, di sovranna¬ turale quasi ; furono paragonati a
grandi epopee ; si potrebbero fors’anche, non senza ragione, paragonare
a grandi costruzioni religiose. Un grande poeta, 1’ Heine, ha messo
in rilievo questo che di miotico e religioso che è proprio dei
metafisici, allorquando scriveva del più arido fra questi, lo Spinoza : «
la lettura dello Spinoza ci colpisce come l’aspetto della grande natura
nella sua calma vivente ; è una foresta di pensieri alti come il
cielo, le cui cime fiorite s’agitano in movimenti ondula¬ torii, mentre i
loro tronchi ben fermi affondano le loro radici nella terra eterna ; si
sente nei suoi scritti spirare un soffio che vi commuove in una maniera
iudifinibile ; si crede respirare l’aria dell’avvenire» {De
l'Alemagne). Ed è naturale che sia cosi ; la religione e la
metafisica s’aggirano in fondo nella medesima sfera ; non è il
mondo dei fatti, della realtà quello di cui s’ occupano 1’ una e
l’altra; è un mondo che trascende i fatti e la realtà ; anche la
metafisica, al pari della religione, sebbene per vie diverse, ricerca
quelle ragioni ultime dell’ uomo e delle cose, che non possono venir date
dall’osservazione ed esperienza sensibile. So bene che questa ricerca
delle LA STORIA DELLA FIIOSOFIA e I RAPPORTI SUOt ragioni ultime è
condannata coinè vana illusione e che si considera come perduto il tempo
che vi si consacra ; so che si tenta di guarirne lo spirito, come d’una
malat¬ tia pericolosa; ma, tanto, la malattia è cronica oramai e lo
spirito, credo, non riuscirà a liberarsene. D’altra parte è giusto
che l’importanza delle ricerche si misuri solo dal successo ? Cercare
senza speranza non è insensato, nè volgare, osserva il Ribot ; si può
intravvedere, se non trovare. La vera nobiltà dell'intelligenza umana non
sta tanto nei risultati che ottiene, quanto nel line che si propone e
negli sforzi che fa per rag¬ giungerlo. Se la Metafisica non riuscirà mai
a scoprire le lagioni ultime delle cose, se non troverà mai la
chiave dfcll’nniverso, rimarrà però sempre un tentativo nobilis¬
simo sull’ignoto di tutti gli spiriti curiosi ed attivi ; e non dovesse
rendere all’ intelligenza altro servizio che quello di agitarla e tenerla
sveglia di continuo, di sol¬ levarla al di sopra d’ uno stretto
empirismo, mostran¬ dole che 1’ esperienza non è tutto, che tutto non
è neppure la scienza, che anche le idee, e non i fatti soltanto,
hanno valore, che anche le ricerche sono pre¬ gevoli e non solò le
scoperte, le renderebbe sempre un servigio eminente (1).
Certo, e 1’ abbiamo ammesso anche prima, 1' ufficio principale
della filosofia intesa come metafisica, o mètempirica che dir si voglia, sta
oggi nell’unificare e siste¬ mare il sapere, nel rivederci principii e i
risultati delle singole scienze, coordinandoli e armonizzandoli ;
certo, Ribot, Psgchologie augluite contenifiorui'ie, 3“ eJiz. Pari*,
Germor Bailliére, 1881 latro I. p. 21 22. COMA STORIA OKU.A COLTURA K
OKLLA ©VILTÀ COLL* STURI \ — essa - IT* S0PratU “° ri " e
a dtm,aMnI zioni delle scienze « pei m comuni, che vate
e «sfocate dall. nuova l-e-dee ^ ^ divengono cosi l’anima e^g »
(1). Ma la tiene e si accresc f l’unico alimento
scienza non basta all'uomo ; non form ^ anche a
L’intelletto non „ c la volontà reclamano sentimento in
^^“^Sefecoltà non s’arrestano nei la loro parte. E <1 esse
oltrepassano ° T SVarlicao dove cono appianate lo ocammÌ ° • f
onesto e d’onde attinge vigoria di propo traddiziom di questo, le sue
visioni nella Siti ad attuare, almeno largano guerà ma,
d cona „ist. piena dell' i • U quelli che io interno e nei Cr,^^azionidV;e^c^
= “ ideale^“Lzi a un perchè che sfugge, rir;» -, come nelle
pii, alte della coscienza, minngo, 1894, p. !'• ot) LA STORIA
DELLA FILOSOFIA E I RAPPORTI SUOI in quelle energie poderose onde
nell’universo è moto, è vita, è senso, è pensiero ; perfino nei fatti più
semplici e famigliari, nei rapporti più elementari. Ora può
la filosofia disinteressarsi di tutto ciò? può la filosofia trascurare
queste altre tendenze dello spirito umano ? Gli antichi volevano che la
filosofia spiegasse insieme ed appagasse le varie tendenze dello spirito,
e che tosse di questo l’espressione più nobile e più ade¬ guata ;
ebbene, perchè non avrà anche oggi questo com¬ pito ? perchè le si vorrà
impedire di essere ancora quello che era già « la scienza della verità,
l’arte della vita, il fondamento della virtù »? (1). Il Tyndall,
l’illustre scienziato, discorrendo nel 1874, davanti
all’Associazione britannica per il progresso della scienza,
dell’evoluzione storica delle idee scientifiche, usciva in queste
parole memorande: « Se lo spirito umano, quale pellegrino che
sospira al remoto focolare, vuol rivolgersi al mistero ond’è uscito, e
cerca come modellare in una sola imma¬ gine il pensiero e la fede, purché
s’accinga a siffatto tentativo non solo senza intolleranza o bigotteria,
ma riconoscendo che non si tocca quaggiù l’estrema perfe¬ zione e
che ogni età deve essere libera di plasmare il mistero d’accordo coi suoi
proprii bisogni ; allora, a di¬ spetto di tutte le restrizioni del
materialismo, io affer¬ merò essere questo il campo sul quale le facoltà
crea¬ tive dell’uomo, diversamente dalle sue facoltà conosci (1) 1
ale era la filosofia j.er gli antichi secondo il Uertini. — La JìloaoJìa
onera prima di Socrate, p. 18. COLLA. STOIllA DELLA
COLTURA E DELLA CIVILTÀ. 37 tive, potranno essere nobilmente
esercitate » (1). E, non meno esplicitamente del Tyndall, il Wundt
che, scienziato eminente, tentò la costruzione di un sistema su
base largamente scientifica, assegna alla filosofia il compito di
ordinare le cognizioni varie per modo che rimangano soddisfatte insieme
le esigenze della ragione e del sentimento. Non mi dilungherò
più oltre in quest’ argomento che non tratto di proposito ; toccando dei
rapporti della filosofia colla religione io avevo soltanto per iscopo
di mostrare anche per questa via la grande efficacia pratica di
quella sulla vita dell’umanità, e quindi l’importanza della sua storia
nella storia generale. La quale importanza è anche dimostrata per un
altro verso : le attinenze della filosofia colla letteratura e col¬
l’arte in genere, la corrispondenza che è quasi sempre fra i varii
indirizzi letterarii e le correnti del pensiero, fra le forme, le
concezioni e le scuole artistiche e i sistemi fi¬ losofici.
Trasportiamoci per un momento coll'immaginazione a quell’epoca tanto gloriosa
per la letteratura francese, che é il secolo XVII, il secolo di Luigi
XIV. In questo tempo è la filosofia cartesiana che tiene il campo, la fi (1)
h'Ecolution hitturique det idées scientijlques. — Discourspresìdentiel de M. Y.
Tyndall à l’Association Britannique pour 1’ avancement dea Sciences. Cours
scientifìques 19 settembre 1374. II, 12, p. 265. 38 la Stoma dìclla
filosofia e i rapporti suoi losofia per cui la natura non è che una
macchina inerte, un sistema di ruote e di congegni, senz’attività,
propria, specie di fantoccio nelle mani di Dio. Ebbene, la natura,
priva di vita com’è, non parla nessun linguaggio agli uomini di questo
tempo. Mentre il poeta moderno ascolta il misterioso battito della vita
universale, essi non ascol¬ tano che un secco e monotono tic-tac d’orologio,
essi non s’abbandonano alla natura ; non trovano in essa tur¬
bamento o conforto ; non avvertono alcuna analogia tra i moti dell’anima
loro e quelle infinite parvenze onde si manifesta la vita nelle cose ;
non simpatizzano con la natura, non le danno valore e significato, o, se
le danno un significato, è quello solo d’un freddo simbolo, rap¬
presentando essa ai loro occhi il complesso delle cause finali, che
concorrono alla dimostrazione di Dio, supremo architetto dell’universo.
Cosi è che i letterati non si sen¬ tono attratti dalla natura, e la
marchesa di Rambouillet esprime come il sentimento di tutti, allorquando
assicura cne « gli spiriti dolci e amatori delle belle lettere non
trovano mai il lor conto alla campagna ». La ragione astratta in
quest’epoca domina in tutti i campi dell attivila intellettuale e morale.
XI pensiero prova l’esistenza ; cogito ergo suoi, dice Cartesio ;
l’uomo, la persona è sovratutto pensiero, e il pensiero nell’uomo
uccide, o quasi, il sentimento, le facoltà affettive; l’imma¬ ginazione è
tenuta in sospetto, perchè turba il giudizio: i sensi sono organi
d’errore ; criterio di verità è non af¬ fermare che ciò che è chiaro,
evidenfe, chiaro ed evi¬ dente come il cogito ; il corpo è in contrasto
inconci¬ liabile collo spirito, e per poco non se ne t.ien conto;
lo COLTA STORIA DELLA COLTURA E DELLA CIVILTÀ
spirito stesso ha il suo reale fondamento in Dio ; e in Dio l’atto
creatore e l’atto conservatore fanno una cosa sola ; sicché la
conservazione delle creature è una « crea¬ zione continuata ».
Questo razionalismo cartesiano si rivela nelle varie forme
dell’arte. Ecco qui il teatro, che, anziché rappresentarci
individui in carne e ossa, ci rappresenta personaggi senza corpo quasi,
mere astrazioni, stati morali ; an¬ che ciò che di propriamente umano e
sensibile c’ è in essi, si cerca idealizzare per modo cogli artificii
dello stile, che non possa produrre alcuna impressione ma¬ teriale.
Le circostanze di tempo e di luogo che deter¬ minano l’individualità, si
sbandiscono più che è possibile, e solo gli elementi generali, proprii
d’ogni tempo e d’ogni luogo, si mettono in luce; il buon senso e la
ragione, osserva Racine stesso, sono i medesimi dappertutto e sem¬
pre. Quindi avviene che Achille potrebbe anche non es¬ sere un greco, e
Andromaca potrebb’essere benissimo una principessa del secolo XVII, e non
già soltanto la mo¬ glie di Ettore; Arpagone non è questo o quell’avaro,
ma l’avaro, il tipo dell’avaro, come Tartufo non è un ipocrita, ma
l’ipocrita, il tipo dell’ipocrita. Anche la critica let¬ teraria riproduce
questo indirizzo razionalistico : al di sotto dell’autore non cerca
l’uomo, come fa la critica moderna, che notomizza, a cosi dire, l’uomo, i
suoi senti¬ menti, i suoi affetti, i suoi pensieri più intimi, per
sor¬ prendere nell’uomo l’autore. Dell’uomo non si cura quella
critica, studia l’opera in se stessa, come un’astrazione, un qualche cosa
per se stante, e la giudica dall’alto di [LA. STORIA DELLA FILOSOFIA E I
RAPPORTI SUOI] certi PRINCIPII RAZIONALI, alle cui esigenze non è dato
mancar mai : si direbbe che l’opera d’arte non sia per qiaella. critica
qualche cosa d’organico, di vivente; sia un fossile e nulla più. È notala
poetica di Boileau. Alla ra¬ gione, egli sentenzia, deve il poeta
attingere tutto ciò che darà lustro e pregio alle sue opere; l’estro,
l’ispirazione sono esclusi. Amate la ragione, compiacetevi di
essasola,egli ripete di frequente; il « buon senso » è lo scopo
supremo d’ogm poesia. Anche Bacine felicita Corneille d’aver primo
mostrato sulla scena la ragione e d’averne adoperato il linguaggio.
Perfino la storia che parrebbe, più di qua¬ lunque altro genere
letterario, dover tener conto delle circostanze di tempo, di luogo, di
tutti i particolari riferentisi al costume, al carattere degl’individui e
delle età, astrae da tutto ciò volentieri, e rappresenta uomini e
tempi m una specie di generalità costante, sacrificando cosi anch’essa al
razionalismo dominante (1). X. . C \ potrebbe essere
prova più convincente dei rapporti intimi fra letteratura e filosofia ?
Ma non basta. Questi stessi rapporti possiamo trovare fra il pensiero
filosofico e 1 indirizzo artistico e letterario del tempo nostro.
E noto che l’indirizzo filosofico dominante al tempo nostro è
quello che nel fatto s’incardina e dal fatto, dalla realtà positiva
prende il nome, il P 0 0) Vedi del bellissimo libro di Georges
l*ellismer:« Le mouvement da p. 11 a p. 15 P ( Sciame » specialmente COLLA STORIA
DELLA CULTURA E DELLA CIVILTÀ 41 sitivismo. Il Positivismo abborre
da ogni maniera di tra¬ scendenza, ripudia la ricerca delle cause prime,
delle cause finali e non studia che ciò che può essere sotto¬ posto
a una verificazione empirica; il suo metodo è l’os¬ servazione e
l’esperienza. La natura è ridotta per esso a fenomeni di movimento, lo
spirito umano a fenomeni di coscienza : se nello spirito e nella natura
ci sia una sostanza a cui quei fenomeni appartengono come a loro
principio immutabile, il Positivismo non sa, o nega reci¬ samente. Ciò
che cade sotto l’osservazione e l’esperienza è solo una serie di fatti ;
quale altra realtà ci potrebbe dunque essere in noi e fuori di noi? E questi
fatti si svolgono gli uni dagli altri necessariamente, si deter¬
minano reciprocamente; determinismo adunque nel mondo esterno come
nell’interno ; il libero arbitrio, l’autonomia della persona, la persona
stessa sono vecchie fole, che più non reggono alla luce della scienza.
Noi non siamo padroni delle nostre azioni, come non siamo padroni
dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri ; al pari del mondo
fisico, anche il mondo morale si sottrae ad ogni specie di azione libera
; anzi non esiste affatto mondo morale, poiché virtù e vizio sono in
ultimo prodotti naturali, come potrebbe essere il vetriolo o lo zucchero.
Inutile perciò parlare di dovere; soltanto d’appetiti e d’interessi
è lecito parlare ; i fatti sono sprovvisti d’ogni carattere morale ;
l'ideale che tende a legittimare diritto e mo¬ ralità è inconciliabile
coi fatti. Ebbene, a questo indirizzo positivo in filosofia
cor¬ risponde un indirizzo positivo in arte ; mentre la filosofia
conclude la legittimità dei fatti dalla loro necessità, LA STORIA DELLA
FILOSOFIA COI RAPPORTI SUOI l’arte si riduce ogni giorno più a
notarli e a trascriverli. Ecco qui il romanzo che sottopone ad analisi
minuziosa e sapiente il processo dell’agire umano, e mostrando come
si leghino le azioni l’una all’altra, come ciò che dicesi condotta si
sviluppi in una serie sucessiva e necessaria di atti, presenta l’uomo
quale un ingegnoso meccanismo di ruote, che l’una muove l’altra senza
riparo. È il gusto della ricerca, della descrizione minuta,
che domina il romanzo. Voglia esso presentarci un’anima, un
ambiente, un quadro di costumi, un avvenimento storico, si direbbe in
ogni caso un’opera formata essenzialmente di documenti ; tanto si cerca
di ridurre la parte dell’in¬ venzione, e di copiare per quanto è possibile
la realtà anche in quanto ha di meno significativo. Fatti e personaggi
sono tratti dalla realtà ; il romanziere pare non si proponga neppure
d’integrare questa realtà, per paura si possa dire che ci ha messo del
suo. Egli non vuole apparire nell’opera sua, se ne disinteressa quasi ;
rap¬ presenta il bene, senza mostrargli simpatia ; rappresenta il
male, e non gli scappa alcuna parola di riprovazione; è e vuole essere
sopratutto uno spettatore imparziale, quasi lo spettatore imparziale
dello Smith. Anch'egli, come i pittori, ha il suo album ; e in
quest’album nota, sor¬ presi nella realtà, atteggiamenti, gesti,
movimenti, into¬ nazioni e flessioni di voce, perfin qualche nome
strano che lo abbia colpito, a non parlare di costumi, di tem¬
peramenti, di caratteri, ecc., materiali tutti di cui trae poi largo
profitto ; egli ama sovratutto di essere un ana¬ lista, uno storiografo,
un raccoglitore di fatti e di sen¬ sazioni, e in questo principalmente fa
consistere il pregio 1 valore dell’opera sua. COI.LA STORIA DELLA
COLTURA li DELLA CIVILTÀ 4.3 Se tale è il romanzo, che cosa dovrà
essere la storia? La storia come opera d’arte è un'anticaglia
oramai ; le storie deU’Amari, del Capponi, del Botta, del Colletta, del
Cantù, quelle del Thierry, del Mi¬ chelet, del Guizot, del Mignet ecc. in
cui si cerca di dar vita al documento col soffio dell’arte, non
sono più compatibili coll’indirizzo positivo. Lo storico dei giorni
nostri non sacrifica ai lenociai della forma, non ama i quadri
pittoreschi, le vaste generalizzazioni, le sintesi geniali, non ordina e
dispone gli avvenimenti secondo un intendimento artistico ; egli è
sopratutto un erudito pa¬ ziente che si appiatta in un cantuccio del
passato, e vi scova fatti ben accertati e vagliati con una critica
mi¬ nuziosa e sagace. Egli teme l’immaginazione, diffida del
sentimento, perfino degli apprezzamenti della ragione vor¬ rebbe far a
meno ; il fatto, il nudo fatto è la sua preoc cupazione costante ; una
commozione improvvisa di fronte a un avvenimento, la previsione anche
ragionata delle conseguenze di questo, un insegnamento che se ne
voglia trarre, tutto ciò oltrepassa la cerchia del fatto e gli è
quindi sospetto. Il più assoluto disinteresse, la più as¬ soluta obbiettività
deve dominare nell’opera sua ; solo a questo patto essa soddisferà alle
esigenze di un metodo scientifico ; poiché essa è scienza, non
arte. E ben vero che le sue ricerche particolari, le sue
storie di luoghi e di tempi determinati, le sue monografie minuziose devono
trovar posto in un assieme più vasto e preparare quella sintesi
universale, che è lo scopo su¬ premo degli studi storici. Egli sa bene
ciò ; ma quella sintesi deve essere certa, fondata su basi salde, non
qualLA STORIA DELLA FILOSOFIA li I RAPPORTI SUOI che cosa di
chimerico, di campato in aria, e perciò non vede per il momento di meglio
a fare che studiare fatti separati, di cui possa acquistare conoscenza
piena ed in¬ tera ; compiuto questo lavoro analitico, il lavoro sintetico
verrà poi come sua naturale conseguenza. Anche la critica dell’arte
corrisponde all’indirizzo do¬ minante; era un esercizio di gusto, è
diventata una scienza ; una scienza che nell’esame delle opere
porta quel medesimo spirito che porta lo storico nell’esame degli
avvenimenti. L’opera d’arte è sovratutto un documento oramai ; il critico
non si lascia commovere dal bello, come non si lascia commovere dal
brutto ; sono fatti naturali 1 uno e 1 altro, hanno l’uno e l’altro il
loro valore e il loro significato. « U vero critico non ammira, nè
biasima, osserva ri Pellissier ; egli accetta le forme molteplici
che prende l’anima umana per rivelarsi, non ne condanna alcuna e le
descrive tutte. Applicando all’ arte come alla morale un determinismo
implacabile, estende 1’,impero delle leggi organiche fin nel dominio
della produzione letteraria. Egli riduce gli individui a non essere che
la risultante della loro razza, del loro secolo e dell’ambiente in
cui vivono. Dei documenti, ecco ciò ch’egli cerca nel1’opera estetica» (1). Che
dire poi della poesia? Essa è sovratutto il linguaggio del sentimento e
dell’immaginazione; non può dunque che trovarsi a disagio nel secolo
della critica e della scienza. E in realtà la letteratura al tempo
nostro è in gran parte prosastica.L’epica non è più pos¬ ti) Op.
cit. p. 270. Vedi tolo « L'Éeolution lénlisie • l’intero
baUiesimo capitolo che ha per ticolla storia oklla coltura k dell* civiltà
45 sibile : il dramma sfugge alla poesia; alla lirica solo ò
concesso di vivere ancora non ingloriosamente come forma poetica. Ma il
poeta è guardato dalla gente quasi con compatimento, con quello stesso
senso press’a poco con cui si guarda un ragazzo che giuoca e scherza ;
pove¬ retto, non ha altro da fare, lasciamolo divertire ! E difatti è
divertimento innocente la poesia; si scherza gx-aziosamente colle parole, coi
suoni' colle rime. Ma un uomo serio, positivo potrebbe permettersi ciò ?
Ohibò ! L’uomo serio, positivo arrossisce, come di colpa grave, dei
ten¬ tativi poetici della sua prima gioventù ; l’uomo serio, positivo,
dice quello che ha da dire in prosa. « Tu ti contentei’ai della prosa,
dice a se stesso, giovane ancora, Dumas ; essa sola dice bene quello che
hai da dire ». Del resto la poesia sopravvissuta si risente
anch’essa dello spiiùto dominante ; descrizioni minuziose di realtà
specialmente famigliar! ; analisi delicate di pensiei'i e di sentimenti,
ricerche e rappresentazioni fin troppo esatte di fatti storici ; studio
d’una forma, che all’espressione precisa del concetto congiunga, fin dove è
possibile, L’andamento semplice e piano della prosa. E il Po¬ sitivismo,
è il Realismo filosofico che penetra fin dove parrebbe non dovesse mai
penetrare. È tempo di riassumere, è tempo di raccogliere le vele fin
troppo spiegate nel nostro discorso. Voi siete già persuasi con me che la
filosofia ha attinenze strettissime con tutte le forme della vita spirituale,
con tutte le manifestazioni della civiltà e della storia. La storia [LA
STORIA DELLA FILOSOFIA E I RAPPORTI SUOI della filosofìa è per ciò
insieme storia del sapere e della coltura ; storia in largo senso del
progresso e della civiltà. Non meno dei metafisici di Germania, i
positivisti di Francia e d’Inghilterra sostengono ciò. Il Comte e
lo Stuart Mill considerano d’accordo il progresso della spe¬
culazione come la causa principale del progresso sociale. Sarà dunque uno
studio di lusso, come sostengono alcuni, la storia della filosofia ?
Anche ammesso che sia un lusso, è un lusso necessario, un lusso di cui
non possono far a meno gli uomini colti. Sarà una vana curiosità,
come credono altri, un’inutile commedia, un terreno sparso di
rovine? Ma è anzi spettacolo grande e solenne, un dramma pieno di vita e
ricco di significazione, un terreno produt¬ tivo e fecondo. Le si farà
colpa di essere un’incessante e sterile lotta di vita e di morte, un’
alterna vicenda di sconfitte e di trionfi? Ma se questa è la sorte di
tutte le cose umane, se nella morte è la vita e nella vita la morte
! Si dirà che è una serie di soluzioni contradditorie dei medesimi problemi, di
risposte unilate¬ rali tutte e tutte esclusive alle stesse domande?
Ma chi potrebbe sostenere che lo spirito umano sia un tutto
essenzialmente armonico e coerente ? L’ incoe¬ renza, la contradizione è
nel pensiero, nel sentimento, nelle opere, in tutte le manifestazioni
dello spirito insomtna; e pretendereste non fosse nella filosofia che
dello spirito è la manifestazione più piena e più alta ? D’altra
parte perchè guardare i sistemi filosofici solo nei rapporti onde alcuni
sono legati ad alcuni ? Guardateli invece nel loro complesso,
abbracciateli con uno sguardo unico tutti [Veti specialmente Mill, Logique.
COLLA STORIA DELLA COLTURA K DELLA CIVILTÀ] assieme, e vedrete che ricompongono
l’unità vivente del pensiero, vedrete che non s’elidono veramente, ma s’
inte¬ grano piuttosto a vicenda e sono come le membra d’un vasto
organismo, come le faccie di un immenso poliedro. Alcuni, più radicali
degli altri, sostengono addirittura che parte almeno dei sistemi
filosofici 6ono vere bizzarrie e, bontà loro ! aberrazioni mentali, veri
scherzi di natura,^ come si diceva un tempo di quei prodotti naturali
fuori dell’ordinario, di cui non si sapeva dare la sp : egazio^e.
Ma la natura non scherza mai, è ben noto; la natura fa sempre sul serio ;
e come quei prodotti che si dicevano scherzi una volta, si apprezzano ora
più degli altri, perchè meglio atti a rivelarci il segreto dell’operare
della natura; cosi i sistemi filosofici, che del resto non sono
scherzi, hanno per la scienza nuova un immenso valore, poiché solo
per essi è dato scoprire le leggi onde venne forman¬ dosi il pensiero
moderno; solo per essi è dato percorrere le tappe per cui è passato il
pensiero prima di arrivare allo stato presente. Ma io penso
sovratutto aU’efficacia educativa della storia della filosofia ; maestro
ed educatore, è naturale che ciò mi preoccupi. La filosofia incomincia là
dove fi¬ nisce il senso comune ; quello che al senso comune ap¬
pare chiaro ed evidente, o insignificante almeno, a una riflessione più
profonda è irto di difficoltà e problemi d’ogni maniera, è addirittura
mistero. Ora che cosa gio¬ verà più a scuoterci dal pigro sonno d’una
morta e ac¬ quiescente tradizione, che studiare il pensiero di
coloro che hanno tentato risolvere quei problemi, svelare quel
mistero ? E non basta; ai grandi monumenti dell’arte noi ci accostiamo,
perchè ci illumini nn raggio d’imperi LA SrOlttA DliLLA FILOSOFIA K 1
RAPi’OIfrt SUOI tura bellezza, perchè l’educazione artistica e
letteraria meglio si forma collo studio dei grandi classici
dell’arte e colla famigliarità delle loro opere, che colle astratte
regole e le vuote forinole della vecchia retorica: ora l’e¬ ducazione del
pensiero scientifico non dovrebbe allo stesso modo formarsi collo studio
dei grandi eroi del pensiero, i genii della speculazione, Platone,
Aristotele, Leibnitz^ Kant, Spencer ? Aggiungasi che quella meravigliosa
va¬ rietà di tendenze, d’impulsi, d’indirizzi che si riscontra nei
grandi pensatori, è mirabilmente atta ad arricchire la coscienza
scientifica e a svolgere le moltiformi energie dell’ingegno ; e che per
l’esempio di questa varietà l’uomo acquista più facilmente quella serena
equanimità di giu¬ dizio, quello spirito largo e comprensivo, che abborre
da ogni maniera di esclusivismo, e quindi di dogmatismo, quello
spinto finemente critico e insieme libero e indipen¬ dente, che guarda le
cose dall’alto, senza odio e disdegno, seuza entusiasmi e adorazioni
soverchie, sine ira et studio, che è una virtù e una forza insi me dello
scienziato. Oggi cè nei giovani specialmente la tendenza all’affermare
reciso ed assoluto anche nelle questioni più con¬ troverse: ebbene, la
storia della filosofia vi terrà lontani da questo vezzo, o giovani, vi
avvezzerà a considerare le cose da vari punti di vista, non da uno, o da
pochi parziali ed esclusivi, vi renderà tolleranti con tutti, con
tutti i lavoratori serii ed onesti; vi convincerà che anche nella scienza
brutta cosa sono le sette e le chiesuole; che la libertà è condizione di
progresso non soltanto nella vita civile e politica, ma in quella
più intima del pensiero e delle idee. 9° Z. |
os PROFESSORE NEL R. LICEO M. D'AZEGLIO DI TORINO. SAGGI FILOSOFICI,
TORINO; ERMANNO LOESCHER FIRENZE ME R'ONCA Via Tornabuoni- Via
del Corso = 307 3 ran ali Aia n) 2A. Ho raccolto sotto
il nome di “saggi filosofici” certi studi a cui attendevo da qualche anno
fra l'una e l’altra occupazione del mio magistero, e che mi parvero
non affatto privi d’interesse per chi s’occupi di filosofia. Sono i più
d’indole storica. Credo anch'io, con molti altri, che la filosofia non
possa prescindere dalla storia e dalla critica dei sistemi, e il
metodo suo dove essere essenzialmente STORICO-critico. Alcuni di essi
sono pubblicati nella Rivista -& diretta da ROVERE (si veda), ed ora
con nome ed indirizzo più largo da FERRI (si veda); e ricompaiono
qui con modificazioni ed aggiunte, a mio credere, importanti. I più sono
inediti. Di essi uno, quello che ha per titolo “Il determinismo di Mill,” ebbe
già nel NR: : | tin po’ più di modestia, una fiducia meno [Sono
dolente a questo proposito che non mi sia possibile comprendere in questo
volume un altro mio studio sullo Stuart Mill, che pure dall'Accademia dei
Lincei fu quest'anno onorato d’un premio. i Del resto il mio
libro non riempie alcuna lacuna, non soddisfa ad alcun bisogno; nè io, scrivendolo
e pubblicandolo, ho avuto questo pensiero e questa pretesa. L’ unica cosa
buona e nuova che ‘a me pare d’aver fatto, si è d’avere scritto
con una certa chiarezza c una certa semplicità di cose
filosofiche. È così raro che ciò si faccia, scrivendo di filosofia, ch'io
mi terrò fortunato se mi si giudicherà almeno non tanto oscuro quanto si
suole essere, in tale materia. Non faccio una professione di
fede filosofica; le mie idee risultano abbastanza chiaramente dai
Saggi. Dirò solo che sono nemico di tutte le esagerazioni, di tutte le
esclusioni sistematiche, da qualunque parte vengano: dirò anche -che
sono amico della critica cortese, della critica da persone per
bene; e che deploro, odio anzi, quel fare burbanzoso, altezzoso, con cui taluni
dal tripode della loro scienza « giudicano e mandano », bandendo
dal mondo scientifico i poveretti che hanno la sventura di non
pensarla come loro. Il mondo è tanto grande che ci dovrebbe essere posto
per tutti... per tutti 1 lavoratori serii ed onesti. Un po’ più di
riserbo, cieca nelle Bir = inno - "e cai ni ES
PREFAZIONE i AL aiar cigeee catena sete AR i NANI
PEETLI proprie forze sarebbe tanto di guadagnato per la scienza. Ci
si avvezzerebbe così a essere un po” più tolleranti, un po’ meno
sgarbati, a non dare come certo irrevocabilmente ‘e assolutamente quello
che invece è molto, ma molto problematico; ci sì avvezzerebbe sovratutto
a dubitare .un po’ più e alal affermare un po’ mena. i Dicendo
questo, non mi riferisco -a nessuna in particolare delle varie scuole
filosofiche; mi riferisco piuttosto a tutte, chè tutte hanno più © meno
la pretesa di aver risoluto definitivamente i problemi filosofici, tutte
hanno lo stesso spirito d’ intolleranza, lo stesso dogmatismo ad
oltranza. | - A me piace la libertà e la tolleranza, come in tutto
il resto, anche in filosofia: la libertà è condizione di progresso mon soltanto
nella vita civile e politica, ma in quella più intima del pensiero
e delle idee. de | ì Grancona, Vicenza. Fino a Socrate la
filosofia s'era tenuta a un livello superiore alle intelligenze comuni, e
in generale avea ben poco giovato al migliore avviamento della società.
S'era proposto come oggetto d'esame la natura ed il cosmo; ma ne
avea considerato il rispetto fisico e metafisico unicamente, vale a dire
avea studiato la matura in se stessa e nelle sue relazioni
affatto l’uomo, che è pure la della natura. O se pure l’uomo fu
preso a considerare, poichè i grandi problemi che
poteano certo sfuggire agli acuti pensatori che prece dettero Socrate,
non lo si fece speciale ed a parte: chè anzi, siccome la morale e
la fisica, l’uomo e la natura erano confusi insieme, collo stesso
sistema, onde spiegavano la n spiegare il fatto umano in
generale. Così a tutti è noto che i Pitagorici, come dicean
dei numeri!, anzi faceano dei numeri le cose stesse*, 1
Aristot. Metaph. 1. ©. 3. 2 Aristot. Metaph. 1. 6. 6.
coll’assoluto, trascurando parte migliore e più nobile
interessano l'umanità, non mai l’oggetto d’ uno studio
atura, pretendeano i filosofi o le cose fatte ad
imitazione teca Be” ml è dle dé FORRAIIET PIO
AA =L METODO 4 DEL M spiegavano la morale e i rapporti
morali pure per mezzo dei numeri!. Ma questi erano tentativi PIÙ o
meno ingegnosi, più o meno fortunati; in realtà non faceano
procedere d'un passo lo studio dell’uomo € della sua natura morale. Per
istudiare l’uomo conveniva partire dall'uomo stesso, conveniva sovratutto
distaccarsi da quel vago aggregato di parti disparate e contraddicentisi,
concepito allora sotto il nome di fisica, e dare al nuovo studio un
indirizzo suo proprio e indipendente. Come Ippocrate nel suo trattato
Dell’antica medicina ® comincia dal respingere il tentativo fatto per
congiungere lo studio della medicina a un?’ ipotesi fisica od astronomica;
e mentre si scaglia contro gli scrittori medici, che perdevano il loro
tempo a stabilire ciò ch'era l’uomo nel suo principio, in qual modo
cominciò ad esistere e come fu generato, tenta di fissare i limiti entro
i quali la medicina deve aggirarsi; nella stessa maniera Socrate, svincolandosi
all'atto “dalla tradizione filosofica, reputando pazzo chi sì occupasse
di cose divine? (e tali erano per lui le cose della natura e del cielo),
perchè gli dei aveano di queste riserv a se i i È ichi q
rvato a se stessi il segreto, richiamando 1 Aristot. Metaph. 1, 5?
p. 985-986. 'Tò uèv cowivda Fay dol) U ’ n 1) a PZA ia diuziocnivi,
76 7° Torovdz duyà VAL volle Èxspoy NA ; S o vi > }
TIVOMEVZ, AI È, Lode E Sr AGI DIAZ nuo, FL os TZ ZA èrindebpaza DIANA :,
Sn idea e44oTO Ciponezta. 5 Xenoph. Mem. Socr. IV 7. 6
2 AI) «DO ERLTTO) I |
‘ | -- e perciò i suoi famigliari
alla conoscenza pura € semplice di se stessi !, l’unica all'uomo
accessibile; pose il fondamento a quella scienza morale, che dovea poi
trovare in Aristotele il perfezionatore e il maestro. È per questo
motivo che Cicerone potea dire di Socrate, che richiamò la filosofia dal
cielo in terra e la collocò nelle città e la introdusse nelle case, e la
sforzò a ricerche intorno alla vita, ai costumi, ai beni ed ai mali. Ed è
notevole questa popolarità che Cicerone attribuisce alla filosofia
socratica, poichè se Socrate fu il primo a studiare il fatto umano
indipendentemente dal fatto naturale, non si propose già questo studio
per soddisfare a un bisogno della sua natura speculativa unicamente, e
limitarne quindi a se stesso i risultati, press’ a poco come farebbe uno
qualunque dei nostri filosofi moderni; ma studiò l’uomo anche collo
scopo di migliorarlo, anzi esclusivamente collo scopo di migliorarlo; e
di qui la necessità che la sua filosofia prendesse Ja forma esteriore
dell’insegnamento popolare. Nell’ Apologia platonica ® è detto
chiaramente; che Socrate era persuaso che Dio gli avesse imposto di vivere
per la filosofia e nello studio diligente di sè e degli altri; e questa
sua persuasione avea Messo così profonde radici nella sua anima, che
Socrate affermava di voler piuttosto morire che disobbedire al comando di
Dio, € smettere un. istante solo dal filosofare e dal fare esortazioni e
dimostrazioni a chiunque incontrasse. Altrove, pur nella stessa Apologia
‘, Socrate dice esser posto dal Dio a’ fianchi della città, quasi ella
fosse un grande e generoso cavallo dalla sua stessa grandezza fatto
tardo 1 Cfr. Mem. Socr. passim; Dialog. plat. pass, 2 Cicer.
Disput. Tuscul. L.'V e. I $ + 5 Apol. ci XVII p. Stef. 28E-29.
+ Apol. c. XVIII. p. Stef. 30E-31. 4,
| DEL METODO Rn oseeGog eni guup sgn1essoassasopora sog
atene e bisognoso di qualche spronata per essere eccitato;
cittadini aver bisogno dell'opera sua, come di chi li desti dal
dormigliare, persuadendoli e rimprocciandoli. Ad un uomo, come
Socrate, in cui era profondo il sentimento della giustizia e della
morale, non potea certo sfuggire la miseranda confusione che regnava
al tempo suo nei concetti regolatori della società e della vita, e
la totale depravazione dei costumi: e siccome le grandi convinzioni della
sua anima scambiava il più delle volte colla voce d'un Dio; imposto: a se
stesso l’apostolato santissimo di richiamare sulla retta via la
società pericolante, e postosi all'opera coll'ardore dell’apostolo e la fede
del martire, dovea naturalmente reputare quella forza potente che lo
trascinava, un non so che di sovranaturale che Dio stesso in lui
avesse trasfuso. Comunque sia, e noi non pretendiamo per
nulla entrare nella questione intricatissima dalla religiosità di
Socrate, questa convinzione religiosa speciale combinata colla sua natura
essenzialmente speculativa e dialettica, fece di Socrate un Dio
elenchiico, per adoperare la parola Si Platone 1, che esamina e convince i
deboli in È cea I N O, È i azione. Trascurava le
cose proprie, andava continuamente attorno per la città or: al
passeggi pubblici, ai ginnasi destinati na ittà, pai corporali dei
giovani, ora ai banchi dei RE adunanze dei Sofisti, nelle botteghe degli
a OE alle perfino nelle case delle cortigiane? e dal rara )
Ppertutto e con ! Plat. Soph. c. l. p. Stef. 216.È 1° espressione
che pera rispetto all'ospite che ha la parte principale nel es
E È) Alea t GUAI ” OPpo. Cfr. il singolare dialogo che ha
Socrate (Mem a ) coll ” 1.) colla etera Teodota
intorno all’arte di allettare gli uomini I. iii
rratriiii_zznnnnttni tt ili iti ii A PRESE e PI
ii A LI Se O | DÎ FILOSOFARE DI
SOCRATE 7 chiunque il volesse, faceva ricerca di ciò che è giusto,
di ciò che è ingiusto, di ciò che è pio, di ciò che è empio, di ciò
che è bello, di ciò che è turpe, € in generale di quante altre cose
potessero interessare l’uomo ela società 1. Ed è noto come nelle sue
conversazioni ei non facesse distinzione di persona, poichè s'
intratteneva egual mente coi politici e coi Sofisti, cogli uomini d’ arme
e cogli artigiani, coi giovani ambiziosi e cogli studiosi, e con
quanti altri ricercassero la sua conversazione, 0 stimasse dover
ricercare egli stesso. E questa ricerca della conversazione e
dell'esame, questo commercio incessante cogli altri, per un uomo
come Socrate in cui la conoscenza e la volontà, l'intelletto e l'affetto si
confondevano, non era solamente un bisogno intellettuale; ma nel tempo
stesso un bisogno personale e morale: l'abitudine del filosofare s'
identificava in lui con la comunità della vita, il desiderio della
scienza era pure il desiderio dell'amicizia; e sta, come osserva
acutamente lo Zeller ?, nella fusione di questi due ordini di bisogni il
carattere originale dell’ Eros socratico. L'amore socratico non aveva
soltanto un alto valore pratico e morale, ma anche, e più
specialmente, un valore intellettivo e didattico. Abbiamo
detto più sopra che Socrate era dotato di natura speculativa e dialettica;
Platone ci conserva in proposito un molto singolare racconto. Narra nel
Parmenide che Socrate ancora giovinetto ebbe con Parmenide e Zenone una
disputa intorno alla dottrina dell’ 20, che i due filosofi Eleati
sostencano. A un certo punto ammirando il fervore che Socrate mettea nella
disputa, si 1 Mem. Socr. I 1. 16. ; 2 Geschichte der
Philosophie der Griechen t. 3 p. 118 della ‘ traduzione francese,
c . è x DEL METODO
guardarono l’ in l’altro sorridendo 1 e più Innanzi Parmenide, vedendo
l'imbarazzo di Socrate a procedere oltre disputando, sì provò a dargli
alcuni consigli intorno all’arte del disputare: « Troppo per tempo, o
Socrate, « innanzichè tu ti eserciti a parlare, ti sforzi a
definire « ciò che sia il bello, il giusto, il buono, e qualunque «
delle altre specie. .... Per certo, mi credi, è bello e « divino il
fervore col quale muovi alle ragioni: metti « fuori adunque te stesso ed
esercitati, finchè sei giovane, « in questa facoltà che sembra inutile e
si chiama dal « volgo garrulità; altrimenti ti sfuggirà la verità ».
E poichè Socrate domandava a Parmenide qual fosse la maniera di
questo esercizio « questa, rispose il filosofo, «.che hai udito da
Zenone.... Conviene non solo, se è « qualche cosa, supponendo che la sia,
considerare quello « che dalla supposizione deriva —- ma anche se non è
‘ questa stessa cosa, supporre che la sia —se pur vuoi “ esercitarti 505
I più ignorano che senza questo vagare « e discorrere per tutte le cose è
impossibile aver « mente che s'imbatta nella verità ». Dal
quale racconto apparisce che Socrate naturalmente portato fin da' suoi più
giovani anni a correr come un cane Lacone, di qua e di là dietro ai dis
È) e a seguirne le orme è, ebbe a correttori e a pa ra natori di
questa sua facoltà d’ investigazione da È PRI Eleati, e specialmente
Zenone, che fu il prim > Paoli care alle questioni filosofiche |a di
prMO ad applia quel tempo in Atene, vi godeva | e una
a massima rinoma nza!. ! Parmen. p. Stef. 130. 2 Parmen. p.
Stef. p. 135-130. 5 Parmen. p. Stef. 128 C 247 cò perabeis 2ì
iyvedere tà VeyBivra, 4 Cfr, Alcibiad. magg. c. 14 pi DI
GITZO va vi \4 meo ve vl Adani FIN LAI alettica, e che,
venuto: 119 A e Plutarc. Vita di Pericle c,.3, »
‘ DI FILOSOFARE DI SOCRATE 9 Per tal modo la
dialettica che avea incominciato a fare le sue prove con Zenone, e avea
messo în giuoco con lui quella sua forza aggressiva 0 negativa, colla
quale rilevava gli assurdi e le contraddizioni che derivavano
dall’ipotesi contraria alla dottrina dell’ uno, senza curarsi più che
tanto delle ragioni positive che militassero in favore di essa dottrina!,
pur a questa mirando positivamente, passava nelle’ mani di Socrate, che dovea
farla mirabilmente servire allo studio dell’uomo e della società. Se non
che fa d’uopo avvertire collo Zeller® che se Zenone, per difendere la
filosofia Eleatica, ha potuto adoperare un metodo dialettico, e fu per
questo chiamato da Aristotele l’inventore della dialettica, non per
questo la filosofia Eleatica nel suo complesso può chiamarsi un
sistema dialettico. Perchè si potesse chiamare così converrebbe che fosse
dominata da un’ idea precisa intorno all'oggetto e al metodo della
conoscenza scientifica, converrebbe che facesse precedere le sue ricerche
fisiche e metafisiche da una teorica della conoscenza, € nella concezione
medesima del mondo cercasse il suo principio regolatore nella definizione
e nella distinzione dei concetti. Questo doppio carattere che fa difetto alla
filosofia Eleatica è invece la nota distintiva della filosofia di
So crate e del suo grande discepolo; e solo questa perciò si può
chiamare un sistema essenzialmente dialettico. x 1
Gfr. il passo del Parmenide p. Stef. 128 B, ©, D, dove Zenone
= parla de’ suoi scritti. 2 Zeller-Geschichte der
philosophie der Griechen. DEL METODO Il. Una delle
dottrine che nell’ antichità ha avuto maggiore fortuna e che in generale ha
esercitato un’ azione molto benefica sugli spiriti, è la dottrina della
preesistenza dell'anima al corpo e poi della trasmigrazione dell'anima da
corpo a corpo. Venuta a quanto pare dall’ Egitto! sul suolo greco, fu
primieramente accettata dagli Orfici; da questi, secondo ogni
probabilità, passò fra i Pitagorici®, i quali alla loro volta doveano trasmetterla
a-Platone. Se non che mentre gli Orfici e i Pitagorici fecero servire
questa dottrina ad uno scopo essenzialmente morale, poichè dallo stato
felice dell’anima prima della sua unione col corpo, e dalla unione
dell'anima col corpo avvenuta in seguito ad alcune sue colpe, coglievano
occasione a predicare la virtù e l'espiazione; Platone, oltre che a questo
medesimo Scopo, la fece servire eziandio alla spiegazione d'uno de’
più VER che lo spirito umano si proponga, il ma della
conoscenza. L’ani imi Aa ‘unione col corpo a RISI dela sue e, dopo
la sua unione col cor È Sete GIO, po, trasmigrando da questo a
quello, ebbe a vedere tutte cose e tutte c ] prendere ®; sicchè i tipi di,
areale queste cose essendo in lei ! Cîr. Bertini, Filosofia
presocratica p. 202. 2 Giacchè non è per nulla accettabile ii o
dai Pitagorici si sia trasmessa agli Orfici. 3 Cfr.
Pinione opposta che Menon. plat. p. Stef. 81 in fine c. XIV-XV
Cfr, anche il Fedro plat. p. Stef. 246-249 e il Fedon. p. Stef. 84
e seg. Nel Fed . ro però e sel pedone le ragioni che si
adducono a spiegazione del fat della reminiscenza sono alquanto diverse
che nel Menone e DI FILOSOFARE DI SOCRATE II cescrsurseresevenzeazionesansenaon
nre ne Fonntenseenisenovosagsaregsonevasga erbopronstessacaaeneostae
contenuti e l’universa natura essendo stretta in congiunzione, all'anima
non è difficile, richiamata una sola notizia, ciò che gli uomini dicono
apprendere, richiamare eziandio tutte le altre, purchè abbia coraggio e
non si ritragga dalla ricerca!. Per modo che quello che si dice dagli
uomini conoscenza, non sia in realtà che la ricordanza di quello che già si
sapeva, cd ignoranza non esista veramente, ma soltanto
dimenticanza. Questa dottrina, detta della reminiscenza
(2v4uvnsto), che Platone metteva innanzi a ribattere |’ obbiezione
sofistica ed eristica, che sia impossibile l’apprendere e il ricercare
qualunque cosa che non ci fosse già nota antecedentemente?, serviva
mirabilmente a spiegare anche il metodo dell’insegnamento e della disputa
di Socrate. Poichè ogni uomo possiede virtualmente tutte le
nozioni, sicchè per possederle coscientemente non ha che a richiamarsele
alla memoria, l’ ufficio del maestro è per ciò stesso limitato a
ridestare queste nozioni, a trarle fuori da quello stato d’ oscurità e di
latenza, in cui erano involute nell'anima. Perciò nulla di suo insegna il
maestro, anzi non insegna veramente, solamente per mezzo d’in-0
terrogazioni adatte aiuta il discepolo a ricordare quello che ha
dimenticato. Quindi è che Socrate non appella se stesso maestro nè in
Senofonte, nè in Platone; anzi ‘in Platone? dichiara esplicitamente che
mai non si fece maestro ad alcuno; e quindi è ancora che nel
Teeteto paragona l’arte sua all'arte della levatrice, e dice d'aver
attinta quest'arte dalla sua stessa madre Fenarete. Come le levatrici
aiutano a partorire le donne, così egli gli 1 Cfr. Menon.
ibid. 2 Gir, Menon. platon, p. Stef. $o in fine ed Eutidem.
platon. p. Stef. 276-277. 3 5 Apol. platon. p. Stef.
33. bo, 17. CONE DEL METODO
i iffer ‘è ch'egli non ostetrica i loro $ uomini, colla
differenza pero ch'egli i | | f corpi, sibbene le loro
anime; e di più he IERI i simo vantaggio la sua arte sopra di que (3; RO
Tra | ogni modo esaminare se sia falsità o verita E Gero | l’anima
partorisce; mentre non accade alle leva È so ! distinguere se sia uomo od
ombra d uomo que o) 1 | la donna partorisce; non essendosi mai dato il
paso Ì | un parto di donna che non sia parto reale. Del resto |
come le levatrici sono per età infeconde,, alla maniera ! stessa che è
infeconda Diana che presiede ai parti, So- ; crate pure è infecondo, e il
rimprovero che molti mi | fecero, egli osserva, d’interrogare sempre gli
altri e di ! non risponder nulla io stesso, ha in questo la sua
ragione che Dio m’impose di osfelricare, ma mi tolse di poter |
generare !. | La quale ultima osservazione, fatta per burla certamente,
contiene però il secreto del metodo negativo di Socrate. Socrate muoveva
una facile interrogazione, i | alla quale veniva data una risposta
altrettanto facile; ‘ questa offriva il destro a una seconda
interrogazione e bs quindi a una seconda risposta; dalla quale poi
deriva*. vano altre interrogazioni ed altre risposte, finchè si Pri
giungeva al punto che l'interlocutore veniva a porsi da se stesso
fuor di questione, o contraddicendosi, o venendo a riconoscere che non era
verità quella che pur aveva preteso fosse tale. E allora Socrate non
veniva a risolvere la questione, come s'aspettava l'interlocutore,
mettendo egli stesso innanzi una sua propria opinione, che potesse
surrogare quella di cui era stata riconosciuta la falsità: invece
abbandonava nel dubbio e nella con+ fusione il suo avversario; il qu
S ale, se presuntuoso dap-, prima, venia ora fatto og
getto di scherno alla moltitudine. 1 Cfr. Teetet. plat, p. Stef.
149-151. Senofonte non comprende a mio
credere questo lato scettico della disputa di Socrate. E bensì vero che
in un luogo dei Memorabili !, ad ‘Ippia che lo rimprovera di
deridere gli altri, interrogando e convincendo tutti, senza voler egli
stesso dichiarare la propria sentenza, Socrate risponde che non gli è
bisogno dichiarare quali cose ei reputi giuste, perchè lo dimostra:col
fatto ogni giorno; sicchè verrebbe quasi a dire — la mia sentenza è
la mia vita stessa, traete dalla mia vita le conseguenze positive del mio
insegnamento. — Ma questo non basta, e se potè esser vero in certi casi e
in certi rispetti particolari, a torto lo applicheremmo generalmente a
spiegare la forma scettica delle conversazioni socratiche. Però fa
d’uopo notare che Senofonte non dà questo esempio come regola generale;
quantunque è anche a notare che non si trova in tutti i Memorabili
alcun'altra spiegazione in proposito. La vera spiegazione ci
è data da Platone. Abbiamo già accennato più addietro. come Socrate
appellasse se stesso infecondo di sapienza; ebbene non è soltanto per
ironia che s'appella così. Socrate interroga gli altri per comando del
Dio, com’egli dice ?, ma non già per redarguirli in questo o quel discorso, o
perch’egli abbia pronta una soluzione della proposta questione: è
l’anima degli altri che vuole chiarire a loro medesimi, nel tempo
stesso che vuole chiarire la sua a se stesso; è la qualità dei concetti
altrui che è risoluto pel bene comune di mettere a prova, nel tempo
stesso che i suoi pure, 0 indefiniti, o incompleti, sente il bisogno di
concretare e di rettificare. Quindi è che giunto col ragionamento a
fare una disamina attenta, acutissima dell’ opinione I L.IV 4
g-10. 2 Apolog. plat. p. Stef. 23 c. IX. DEL METODO ii
| PETITITLILILICALMIAR:I altrui e della sua, riuscito a togliere certi
pregiudizi, 3 certi errori che poteano essere comuni e @ lui e agli
. altri, non sa poi all’ abbattuto edificio sostituirne uno nuovo,
e tronca, quando meno si crede, la disputa. « E « sopratutto l'opinione
in se stessa quello ch'io esploro; « ma accade forse che ci si esplori
amendue, me che « interrogo e chi risponde » osserva Socrate nel Protagora!;
e nel Menone®:« non è già ch’ io essendo pie« namente certo, faccia dubitare
gli altri, ma anzi, «essendo io stesso sopra modo dubbioso, i’ fo
dubitare « anche gli altri ». Socrate in verità non possedeva
teorie completamente svolte intorno a checchessia, non possedeva alcuna
dottrina dogmatica positiva. Egli aveva bensì il sentimento { pieno e
profondo della necessità della scienza fondata sui ‘ concetti; ma
essendo stato il primo a mettere in luce questa necessità e spendendo per
così dire il suo tempo a convincerne altrui, non avea acquistato
conoscenze determinate che costituissero la materia di questa
scienza. Insomma « l’idea della scienza non si presentava ancora a
lui che come un problema indeterminato, in faccia al quale egli non
poteva che riconoscere la sua ignoranza? ». Socrate adunque
partendo dal dubbio ch'era in lui intorno alla verità delle opinioni
altrui, o delle sue, arrivava a comunicar questo dubbio anche agli altri.
Nel Pa “7a \L illomne «na
PS i 7 E È 1 Prot. plat. p. Stef.
333 c. XX trad. Bonghi. 2 Menon, plat. p. Stef. 80 c. XIII trad.
Ferrai. Cfr. anche quello che Aristotele dice negli Elenchi
Sofistici 34,183, bi 7: Sne nai dd edito Nozpdrns pura, dI ob
Omespivaro. Ouoroyer do obz sidiva. 9 H. Zeller-Geschichte
der Philosophie der Griechen tom. 3. della trad. francese p. 115.
i - ‘’‘0.6
—‘*cmosetttittitenittntietteienticannea che consiste veramente la
grande efficacia del suo metodo; poichè giunti un momento a. dubitare di
quello che già si credeva sapere, naturalmente abbiamo fatto un
gran passo nella via della scienza: se non fosse altro abbiamo imparato
ad esser meno presuntuosi e a non far troppo a fidanza colle forze del
nostro intelletto. Ma c'è di più. Il dubbio è uno stato assai molesto
dell’ anima e « suscita le doglie e fa passare giorni e notti nelle
« ansie » come osserva Socrate nel Teeteto!; sicchè tentiamo naturalmente di
liberarcene, ricercando la soluzione vera del problema, e non arrestandoci un
momento fino a che non l'abbiamo ritrovata, « Credi tu », dice
Socrate a Menone a proposito dello schiavo che vavea preso a
catechizzare, « ch’ e’ si sarebbe messo a cercare « ed imparare ciò che
si credeva di sapere pur nol sa« pendo, se prima non fosse caduto nel dubbio,
accor« gendosi di non sapere e sentendo desiderio di saper « veramente
?.... Pon mente adesso com’ egli movendo « da questo dubbio, e con me la
ricerca facendo e' ri« troverà il vero, non altro ch'io l’interroghi non
già « che gl’insegni® ». i E questo dubbio, ch’ era l’ ultima
conseguenza della conversazione socratica, si accompagnava naturalmente
a quel senso di stupore e di meraviglia, che dovea suscitare
nell'anima degl interlocutori di Socrate l' arte finissima, ond’egli
riusciva a imbarazzarli e a convincerli sovratutto dei loro errori. Già
Senofonte nei Memorabili ® ci parla di certe malie e di certe cantilene,
che Socrate consigliava a’ suoi famigliari per persuadere e farsi amici
gli altri; e Platone nel Teeteto mette in bocca a Socrate le
singolari A Teet. p, Stef. 151. 9 Menon. c. XVIII p. Stef.
84 trad. Ferrai, 5 L.HIc. VI $ 10. > fingono ren deg} =
16 - DEI. METODO riti o sara rear
agesieoteorrenizentarivenzietto parole che come « le levatrici
apprestando farmachi « e canterellando certe lor cantilene, sanno
eccitare 1 « dolori del parto, ed a chi vogliono mitigarli, ed
aiutare « i parti malagevoli » così è proprio dell’arte sua
eccitare “ ecalmare ad un tempo i travagli del dubbio nelle anime!.
Nel Carmide® Socrate si dice in possesso d'una certa incantagione che ha
appreso da Abari l’iperborco, C che ha egualmente efficacia sul corpo e
sull’anima, e Invita il giovinetto Carmide a farne esperienza; e
finalmente nel Menone?, Menone stesso dichiara d’ esser affascinato
dalle incantagioni di Socrate e in tuon di burla gli dice, che gli sembra
rassomigli affatto e per la figura e pel resto alla torpedine di mare;
chè com’ essa chiunque le si accosti e la tocchi fa cader nel torpore, così
egli gli ha intorpidito l'anima e la bocca per modo da non sapere
che cosa rispondergli. Suscitando adunque nell'anima de’ suoi
interlocutori il dubbio e la meraviglia, due sentimenti essenzialmente
filosofici, poichè furono sempre cagione che gli uomini cominciassero a
filosofare4, Socrate esercitava in realtà maggiore efficacia che non con
un vero € proprio insegnamento positivo. ; | Una siffatta maniera di
disputare tutta negativa esteriormente, ma pur così feconda di conseguenze
positive, dovea necessariamente assumere la forma dell’ ironia. In
generale è l'ironia uno dei tratti caratteristici del popolo ateniese: il
vano diletto di far pompa di sottigliezza e agilità d’ingegno e di
volubilità di lingua, di far sentire 1 Teet. p. Stef. 149-151
trad. Buroni. 2 Carmid. p. Stef. 155-156. 3 Menon. p. Stef.
8o. * Cfr. Aristotele Metaphysica 1. 2. s e Platone Teeteto
p Stef. 155. puliti ici inizino ini e = nuit ie
DI FILOSOFARE DI SOCRATE 17 altrui la propria superiorità
di spirito possedeva in grado eminente gli Ateniesi. Di qui quella
inimitabile sfrontatezza di guardatura e di sorriso, che Aristofane
chiama Grvuoy Biéroc, quell’accento dileggiatore-tosto che si fossero
accorti che altri non fosse del loro parere, quella tendenza allo
scherno, alla beffa, alla derisione, e le mille altre finezze e amabilità
che si sentono, ma non sì possono esprimere. Pel qual loro carattere fine ed
arguto gli Ateniesi diceano volentieri il contrario di quello che
pure avrebbero voluto dire, pareano lodare biasimando e biasimare
lodando, faceano le viste di non intendere il pensiero altrui, e intanto
gli davano un significato particolare per contraddirgli, e più spesso anche per
metterlo in beffa. Questa specie di motteggevole doppiezza
era propriamente quella che gli Ateniesi chiamavano ironia, e se la
lanciavano l'un contro l’altro nei simposii fra le brigate festose, nei
pubblici passeggi, e dappertutto dove il vino e la luce accendessero le
loro. mobili fantasie ed eccitassero il loro buon umore. Socrate che
tutta la antichità ci descrive come un misto di saviezza e di schiettezza, di
gravità e di petulanza, di equabilità di animo e di bizzarria di spirito,
d’ orgoglio e di modestia, d’ ingenuità e di causticità, dovea
naturalmente e più d’ogni altro adoperare questa specie d’ironia ch'era
nell’indole del popolo suo; ma quest ironia egli sapeva condire di
tanta leggerezza c finezza, sovratutto di tanta benevolenza e
bonarietà, che nell'atto stesso di pungere non offendeva, e quegli stesso
che n’era l'oggetto o sorrideva con lui del n
Ndr suo bel motto, o lo scambiava con un vero € proprio com-
> plimento. In generale questa specie d' ironia avea lo
scopo o di raddolcire la punta alle correzioni, che di quando in
quando rivolgeva a’ suoi. famigliari, o di attirare ì suoi famigliari
nella sua conversazione, e ne’ suoi lacci. G. Z. 2
5° IC peg T — Ges gr e a Beni SEA s>
- 7 ci DEL METODO Senofonte! ci conserva una disputa di
Socrate con Eutidemo, dove appunto questa specie d' ironia benevola è adoperata
da Socrate e a pungere la vanità d’ un giovane che si professava
durodidzzror, e ad invogliarlo a disputare con lui. Ma questa specie
d’ironia Socrate avea comune con tutti gli Ateniesi; quella che gli si
può esclusivamente attribuire, come una sua particolare maniera di
disputare, differiva da questa e nei modi e nell'oggetto. Essa consisteva
in questo, che quando s'incontrava con uomini che godessero fama di
sapienza, come i Sofisti, o tenessero un alto posto nella Repubblica, o fossero
comecchessia superiori ad altri in dignità od in ricchezze; sprovvisto
com'era di conoscenze positive e spinto dal bisogno di sapere, credendo
di poter apprendere qualche cosa da loro, e volendo in ogni caso
accertarsi se il loro era un vero sapere o un sapere soltanto imaginario,
li sottoponeva ad un esame in tutta regola; e in quest esame fingendosi
anche più ignorante di quello che fosse in realtà, secondato mirabilmente
nel sostenere questo carattere dagli stessi tratti del viso,
coll'apparente ingenuità delle sue domande, e con l’ingegnosissima
maniera con cui si facca nascere dalle loro risposte interrogazioni
sempre nuove e incalzanti, li riduceva in fine‘al punto o di trovarsi
avviluppati in manifesti assurdi, o di dover ritrattare quanto prima
aveano asserito. GOSÙ suoi i terlocutori vedeano svanire la loro pretesa
scienza ni nientata dall'analisi dialettica, a cui erano sotto Ro
loro opinioni. L ironia era pertanto, dice lo Zeller 3 momento dialettico
o critico del metodo di Socrate, SE seguenza inevitabile
dell’ignoranza personale di chi citava così la dialettica ®. Sosta
1 Memor. IV 2. 1-6. 1 2 Cfr. Zeller op. cit. p. 118-119 della
trad. francese nn tei iene DI FILOSOFARE DI SOCRATE 19
ADOSOSELINISOTTTeGIGTLIReRANP Pont enaseosonedanzesSnTani cose eeI Teo
peer VIVA eIeceg vo pesci svopase stare anne esse be Veavesisdisene teen
Con ciò è spiegata la grande potenza della parola di Socrate, e il
timore che aveano di lui i suoi nemici, così da avvertire i giudici, nel
tempo memorabile della sua condanna, di guardarsi bene di non esser
tratti in inganno da’ suoi discorsi ?. S' impadroniva di tutto
l’uomo, frugava le più riposte pieghe della sua anima, e non lo lasciava,
se prima non gli avesse aperto tutto se stesso. Chiunque si trovi a
discorrere con’ Socrate, dice Nicia nel Lachete platonico, gli è
inevitabile necessità, ancorchè d'altro abbia cominciato a trattare, di
non farla prima finita se non condotto da’ ragionamenti suoi ei
venga « a dare pieno conto di sè e del modo in che vive « ed ha vissuto
la vita per lo passato; e una volta ch'e’ « sia caduto in questo
discorso, Socrate non lo lascia più « andare fino a che di tutto non
abbia fatto esame ri« goroso cd intero »°. Di ciò è anche discorso nel
Teeteto, dove Teodoro afferma-che non è possibile chi segga allato a
Socrate possa liberarsi dal rendergli la parola, e che non lascia chi gli
si accosti se prima non l'abbia sforzato « ad entrar nudo in lotta di
discorsi » con lui. ILL Noi abbiamo finora esaminato,
come a dire, le forme esteriori del metodo di Socrate; ora dobbiamo
esaminarlo nella sua intimità e porne in luce le conseguenze in ri
spetto alla formazione della scienza. I Plat. Apolog. p. Stef.
17. 2 Lachet. platon, p. Stef. 187-188 trad. Ferrai. 3 Teetet. plat. p. Stef. 169.
i 20 DEI. METODO E prima di tutto è d’
uopo togliere una prevenzione: Socrate, pur adoperando un metodo
negativo, credeva in realtà nella scienza, o non piuttosto era uno
scettico, che tendeva a comunicare altrui il suo scetticismo €
nulla più? Cicerone negli Academici posteriori * e nell’opera De finibus®
sembra credere che Arcesilao e la nuova Academia seguissero la maniera di
filosofare di Socrate, perchè negavano vi fosse cosa che si potesse
sapere, e perchè si aveano proposto come sistema, di avere in ogni caso
contro argomenti positivi una forza uguale di argomenti negativi da
opporre: sicchè il filosofo romano scambia il dubbio metodico di
Socrate con un vero e proprio scetticismo, e la sua maniera di
filosofare con una disputa cristica, in cui ciascuna parte disputasse coll’
unico scopo di disputare, non essendo possibile raggiungere un risultato
positivo a chi per V oscurità delle cose® neghi si possa qualche cosa conoscere.
E però notevole come in altri luoghi lo stesso Cicerone disdica questa
sua prima sentenza ed affermi anzi che il metodo di Socrate, lungi dal
condurre a uno scetticismo universale, conduceva a veri e propri
risultati positivi; poichè la sua conversazione, egli dice,
consiste P. Dutta nel lodare la virtù e nell’esortare in sd)
"a l’amore di essa‘, ed aiutava mirabilmente a trovare ciò 1
Accad. post. 1, 12, 44. Cfr. anche Ac SR t Ù ad. Ino Nat. Deor. 1,
5; 11. prior. II, 23,74 e De 2 De finibus II, 1. Cfr. anche un altro
luogo degli Academici e =“) ( U/ ”, Do post. (1, 4,
17) dove Varrone è introdotto a parlare di Il « Socraticam dubitationem
de omnibus rebus cone è) adhibita, consuetudinem disserendi
». > 5 Cfr. Academ. post. 1, 12, 44. et nulla
affirmatione + Academ. post. vo -——.--_rca leslie DI
FILOSOFARE DI SOCRATE ZI che fosse conforme a verità! Ma se la
conversazione socratica conduceva a trovare la verità, e se Socrate
stesso credeva di potervi arrivare per questa via, come afferma Cicerone
?, è naturale ch’ ei dovesse aver fede nella verità stessa e nella
scienza; poichè non si può nemmeno concepire vi sia chi ricerchi una
cosa, senza credere che la cosa stessa esista. Di questa fede di Socrate
nella verità e nella scienza abbiamo prova in quasi tutti i dialoghi, che
Senofonte e Platone mettono in bocca al loro maestro; giacchè attraverso
il dubbio metodico e le domande incessanti che Socrate rivolge a’
suoi interlocutori per iscrutarne gl’ intimi pensamenti, s'intravvede,
per così dire, una luce misteriosa, alla quale tendono tutti gli sforzi
di Socrate, e la quale illumina quel caos apparente di domande e di
risposte, che i più credono fatte a capriccio e per passatempo. Ma v'ha
di più. Nel Menone platonico Socrate dichiara esplicitamente la sua fede
nella scienza. « Tra l’apporsi al vero i (000 d6cz, egli dice, c il
sapere che sia divario, questo ì è parmi non affatto conghietturarlo, ma,
s'io dicessi mai « di sapere una cosa, e sarebbe invero rarissimo il caso
« che lo dicessi, questa pur sarebbe nel numero delle cose « ch'io
ammetterei di sapere »î. Il qual luogo è anche notevole, perchè contiene
l importantissima distinzione JA tra il sapere volgare € il sapere reale
od assoluto, del quale Socrate presentiva tutto il valore pur senza
averlo raggiunto, e il quale stimava solamente proprio di Dio:
I Tuscul. Disput. 1, 4,9 «vetus et Socratica ratio contra alterius
opinionem disserendi; nam ita facillime, quid verisimillimum esset
inveniri posse Socrates arbitrabatur.». 2 Tuscul. Disput. Ibid.
) 3 Menon. platon. p. Stef. 98 trad. Ferrai.- siad: +
Apol. platon.-p. Stef. 23. È via È DEL METODO sicchè
quando affermava di sapere ‘questa sola cosa di non saper niente, egli
traduceva in parole la sua coscienza dell’ immensa distanza che separa il
sapere umano dal sapere divino. Ancora, siccome il suo metodo
era massimamente rivolto alla ricerca delle verità morali, Socrate
dovea ammettere un principio assoluto di moralità, dal quale
dipendesse tutto quel complesso di nozioni morali, sulle quali poggia
l’edificio dell'umana società. Che questo principio supremo di moralità
Socrate ammettesse risulta dal Gorgia platonico, dove dichiara contro l’
opinione popolare che è « cosa peggiore fare ingiustizia che non «
patirla, e della ingiustizia fatta non pagare il fio che « pagarlo »!; e
più innanzi? che chi non paghi il fio delle ingiustizie commesse è più
misero di chi lo paghi, giacchè il non scontare il male' non è soltanto
persevevare nel male, ma è anche il male primo e più grande. Di più,
quando si tratti di fissare recisamente la distinzione radicale del bene dal
male, mentre per solito Socrate è condiscendente nel dialogo, e finge di
accettare quello che dice l'avversario, per poi ribatterlo di
fianco col suo terribile elencho, qui invece adopera forme ri
solute che non ammettono replica. « L’ adulazi 500 « penso la sia la gran
brutta cosa, o Polo RA « così parlo), ch’ella vada sempre dietro al dilet
a « curarsi affatto del buono »; così Soc SA: Le quali
affermazioni Todi Sr De alle verità morali troviamo S9R CRISI
rabili di Senofonte, dove FARI TO ), come mi pare d'aver
n rispetto ci Memo accennato 1 Gorg. platon. p. Stef.
476. 2 Gorg. platon. p. Stef. 479. 3 Gorg. platon, p. Stef. 465 c.
XIX i o 5 trad. Ferrai, Cfr, anche Gorg. Gorgia 9.
fi —_> n MALE Le _ ’_r_oe+us esiti cò
ici arreroe più sopra, il Socrate dialettico e
speculatore ci sfugge quasi, e ci si presenta invece nella sua piena luce
il Socrate pratico, essenzialmente positivo. Sicchè io non arrivo a
comprendere come il Tennemann! abbia cercato di stabilire una considerevole
analogia fra Socrate e lo scettico Pirrone. Analogia fra i due non
esiste, se non in quanto s' accordavano nel ripudiare ogni studio
che non si riferisse alla morale; ma, quanto alla morale stessa,
differivano essenzialmente; Socrate sosteneva che la morale fosse oggetto
di speculazione e di scienza, e l’unica degna di studio; Pirrone sembra
aver.pensato che la scienza fosse impossibile ad attingere nella morale
del pari che nella fisica, e che non si dovesse fare attenzione che
ai sentimenti e alle buone disposizioni dell'animo ?. In questo
Socrate era scettico che, avendo i filosofi fisici anteriori dato al
problema della natura risposte diverse non solo, ma contradditorie, ne aveva
concluso che questi aveano nelle loro ricerche oltrepassati i limiti imposti
alla scienza umana, € che la verità non si potea conoscere in riguardo
alla natura. In questo era scettico, e in due altri punti ancora, intorno
ai quali massimamente s’ aggirava la sua disputa. Egli negava prima di
tutto che gli uomini potessero sapere ciò, a cui non avessero mai
applicato il pensiero riflesso, € in secondo luogo che potessero
praticare quello che non sapeano, vale.a dire che fossero temperanti,
giusti, forti ecc. Senza sapere che fosse la temperanza, la giustizia, la
fortezza ecc. Mettere nell'animo de’ suoi interlocutori questa sua
convinzione negativa, persuaderli una volta che senza | can I
Tennemann Gesch. der Philosophie vol. Il p. 169-175. i k 2 Cfr. Grote op.
cit. p. 338 in nota, Anche lo Zeller op. cit. tom. 3. p. 114-115 della
trad. franc. sostiene che Socrate non può ritenersi uno e .
scettico. MIT ri ET Pata relazioni tra uomo e
uomo, tra uomo e DEL METODO i
uverenneresaraenioosesev ato aressorsesaeses ana suenosionieveeee ereese
esaminare attentamente sè stessi era impossibile e sapere ed
essere virtuosi, era questo effettivamente lo scopo dell’insegnamento di
Socrate. Ma questo ben luagi dall'essere lo scetticismo nemico della scienza, è
Invece lo scetticismo che la favorisce, senza del quale anzi non si
potrebbe una vera scienza fondare. Non v'ha cosa che l’uomo si creda più
facilmente conoscere di sè stesso e del fatto umano in generale; ed
è naturale, poichè nel primo caso non ha che a rivolgere lo spirito su sè
medesimo, e nel secondo su quello che lo attornia, sicuro di vedervi
riflessa l’imagine sua. Ma a rivolgere lo spirito su sè medesimi è raro
che si pensi, e a studiare il fatto umano ancor meno; son cose nostre
l'una e l’altra e non serve occuparcene; 0, dirò meglio, si crede
occuparcene abbastanza, dal momento che ogni giorno se ne parla e se ne
disputa. E intanto si crede effettivamente sapere ciò che non si
sa; Vaia À o) sì risc : SR. RO nel ERROR cervello certe
persuasioni proradicatissin i ri i o ERRO si me, le si riscontrano in
altri egualmente È proprie SA SR PS a IR ndicon vere ioni, e no s
ì n o0 Dl n cl passa neppure pel capo di spiegare a noi stessi come
si siano intr i A vi risiedano, e non dubiti i RI OTO ein noige u
nata i no, e Ittamo un Istante del loro effettivo valore. Di qui
una quantità di errori, di pregiudizii ga . SE k è) nozioni
accettate più per azione del i 3 9 sentimento che per consenso
della ragione; errori, pregiudizi; P 5 3 » Pregiudizii e nozioni
che penetrate a poco a poco nella fibra e nel!san, . . : (eg
generazioni, consacrate, per così dire, dal BNS dele a da tempo, acqui
rn O 5 legge e come tali governano il mond e e notevole c . e ome
prevalgano mass Imamente nelle ReÈ SSR. Città e ittà
e città, e tanto più facilmente, quanto più tra città in gioco
gl’interessi individuali 9 PIÙ sono messi De To g ressi Individuali e
generali; s'; si sino del v i, sì «SER > S mpo n ocaboli, si
aggruppino intorno all’ A . E) 6 s di
’ Let CÒ Dì FILOSOFARE DI SOCRATE 25
riesce poi difficilissimo a discernere il vero significato dei vocaboli e
spogliare l’idec di rutto il fattizio e l’appiccaticcio. Questa condizione di
cose, questa cieca fidanza di sapere ciò che realmente non si sa, questa
prevalenza delle nozioni rozze e affastellate del senso comune
sulle vere e proprie cognizioni, come è propria di ogni società e
di ogni tempo, così era massimamente il carattere distintivo della società e
del tempo di Socrate. « In morale, «in politica, in economia politica, su
tutti i soggetti rela« tivi all'uomo e alla società, prevaleva allora, come
oggi, « la medesima confidente persuasione di possedere il «
sapere, senza che l’effetto corrispondesse; la medesima « generazione €
propagazione, per via dell'autorità € « dell’ esempio, di convinzioni non
messe a sindacato, « appoggiate sopra un sentimento vigoroso, senza
alcuna « conoscenza dei gradi o delle condizioni del loro svi« luppo; il
medesimo atteggiarsi della ragione alla difesa « esclusiva d'un
sentimento prestabilito: la medesima « illusione che, perchè ognuno è
famigliare colla lingua, « sia anche in possesso dei fatti, dei giudizii
c degli « indirizzi complessi, implicati nel senso dei vocaboli; «e
atto del pari ad usare parole d’ un significato « comprensivo ec a
sostenere la verità o la menzogna « di vaste proposizioni, senza analisi
nè studio spe-« ciale »!. La quale condizione dî cose cra tanto più
grave quanto più l'antico costume era depravato; sicchè il
pregiudizio e l’ errore trovava il suo naturale alimento, oltre che
nell'ignoranza, nella corruzione, la quale era giunta a tal segno al
tempo di Socrate, da disfare affatto anche quell’ultimo vincolo che
annodava fra loro gli uomini, voglio dire quel complesso di verità morali
e I Grote op. cit. vol. cit. p. 278. DEL METODO
sociali universalmente consentite e aventi forza di legge,
perchè scritte nei cuori !: 0 Ora una scienza qualunque non ha
maggiore nemico delle nozioni rozze e affastellate del senso comune;
pe modo che chi si proponga di fondarla su principii saldi e
incrollabili, abbia anzitutto bisogno di combattere e di disperdere
affatto quest eterno nemico. Per quello che. attiene alle nozioni prime.
dell’ intelletto, osserva Bacone nel Nuovo Organo ?, niente v' ha di
quanto l’ intelletto abbandonato a sè stesso raccolse, che non ci
sia sospetto, e che possa accettarsi, se non abbia retto alla prova d'un
nuovo giudizio e secondo questo non sia stato pronunziato; e più innanzi
3, che assai difficilmente si riesce a purgare la mente, quando dalla
quotidiana consuetudine della vita, dalle cose udite e da plebee
dottrine sia stata occupata, e assediata da vanissime apparenze; e che in
questo caso resta‘ unica salvezza rifare l’opera universa della mente, e
la mente non abban donare in alcun modo a sè stessa, ma
perpetuamente frenare. { ve Mi . = Nap: #yg4901 chiama
Socrate queste verità in un suo dialogo con Ippia (Memor. lib. IV c.
4). SM 7 i x Distributio operis, messa in capo al N. O. p. 168
dell'edizione ontagu, « Quod vero attinet ad notiones primas intellectus,
nihil est È ; ma . È SUA quae intellectus sibi permissus congessit,
quin nobis pro suspecto Si sr AREA Tar:, nec ullo modo ratum nisi novo
judicio restiterit, et secundum illud pronuntiatum fuerit ». 5
Ibid, i d. Praefatio p. 186. « Serum sane rebus perditis adhibetur
remedium 5 idi ; pene i Pesaro mens et quotidiana vitae
consuetudine, et audiUonibus, et doctrinis inquinatis occupata
fuerit.... - integro et vanissimis idolis
obsessa . Fes i ì Ere unica salus ac sanitas, ut opus
mentis universum de Matur; ac mens, iam ab ipso principio, i
nullo ibi permittatur, sed perpetuo regatur ». modo sibi
Rifare l’opera universa della mente, abolire
le teorie e le nozioni comuni, apparecchiarsi ad accettare la verità,
anche quando si contrapponga ai nostri più cari pregiudizii, ecco quanto
si richiede a chi imprenda uno studio veramente scientifico. E questo che
Bacone consigliava doversi fare per la ricerca delle verità fisiche,
Socrate imponeva a sè stesso per la ricerca delle verità morali e
sociali; sicchè fra i due grandi filosofi si stabilisce una considerevole
analogia che deriva da comunanza di sentimenti e di propositi. E come
Bacone considerava essenzialissimo alla purgazione dell’ intelletto, per
metterlo in istato di arrivare alla verità, il redarguire la ragione
umana nativa !, egualmente Socrate mirava per via d’instanziae negativae
e d'esempii negativi e a far capire c abbandonare l’ errore e a far
intravvedere il cammino ‘che menasse alla verità. Di qui l’'elencho
socratico, o esame contraddittorio dei concetti, insinuatisi a casaccio
nelle menti, senza che colui stesso che gli aveva se ne potesse rendere
ragione; di qui quella specie di fermento, onde la parola socratica penetrava
quel grumo d’associazioni vaghe e indefinite, che s'erano aggruppate
intorno a un vocabolo, sforzandole a dividersi, a chiarirsi, a porsi a luogo ed
a tempo; di qui infine tutti gli sforzi generosi, per convincere altrui
che non si sa se non quello soltanto a cui s'abbia applicato il
pensiero riflesso; smascherare l'ignoranza presuntuosa ed inconscia e
presentarla in tutta la sua nudità. Questa maniera di disputare se
procurava a Socrate molti nemici, com’'egli accenna con accento
doloroso 1 Itaque doctrina ista de expurgatione intellectus, ut
ipse ad veritatem abilis sit, tribus redarguitionibus absolvitur; redarguitione
philosophiarum, redarguitione demonstrationum et redarguitione rationis
humanae nativae (Nov. Org. Distributio operis p. 170 ed. Montagu). Ra
SI va e e PPT nella
sua Apologia !, non per questo non esercitava una azione assai benefica
sui giovani, a cui erano massimamente dirette le sue cure, e che in generale lo
seguivano con affetto di figli. Le loro anime veniano dall’ elencho
socratico, come a dire, purificate, giacchè spogliati affatto di
quell’ammasso informe di nozioni, su cui poggiava tutto il loro sapere
imaginario, si avviavano in realtà al vero sapere, riacquistando
l'abitudine e ‘il potere di esaminare, abitudine e potere che aveano
perduto nella illusione in cui erano vissuti fino allora. E per
Socrate questa purificazione dell'intelletto teneva nella scala del
sapere un altissimo luogo, a segno da chiamare filosofo l’uomo appunto
che arrivi a conoscere di non sapere quello che non sa, poichè chi non sa
e si crede sapere, per ciò stesso non ama il sapere, mentre invece chi non
sa e sa questo di non sapere, ama per ciò stesso la sapienza e brama addivenire
sapiente. Per la qual cosa avea ragione Platone di far nel Sofista le
altissime lodi dell'efencho « come della grande e sovrana purificazione,,
« senza la quale ogni uomo, sia pure il gran re stesso, «è tutto
pieno d'impurità; e ignorante e turpe in ri« spetto a quelle cose, nelle quali
e purissimo e bellissimo « conviene sia chi voglia esser veramente felice
»3, La conoscenza di sè stesso, ecco il punto a cui Socrate volea
condurre il suo interlocutore, e a cui erano consacrate tutte le forze
del suo ingegno speculatore. °4 Apol. platon. p. Stef. 21.
A ReoREe ceh È Cfr.il Liside platon. p. Stef. 218 eil Convito
platon. p. Stef. 204. *. Plat. Sofista p. 230 E 421 76v Sheyyovhez
LI, de 2A VILLA ff i) «, Valiani - v ” pere rav zallizozon tari,
vai . di astenersene. « Bisogna ch i * e tu È « da’
calzolai, da’ f; bbri IRE ARICOga, 0 Socrate, î .01a1, da fabbri e da’
fonditori » così Critia nei 23% . ae C Memorabili, « poichè io
credo costoro oramai essere sec « cati da te, menati attorno în tanti
discorsi tuoi »3 Alla quale imposizione superba è notevole | diede
Socrate, che adunque dovea aste quelle cose, che da quegli esempii
a risposta che nersi anche da conseguono, la !
Cfr. massimamente Memorab, III 3 e dialoghi platonici passim. È
2:Memorab. IV 4, 6. 5 Memorab. I 2, 37. 9 e poi
Memorabili passim iena perocchè ti
sei già « tracciata poc'anzi la via egregiamente; € imitando la
I Menon. p. Stef. 77. È 2 Teetet. p. Stef. 146 trad.
Buroni. 5 Top. 1. 5 p. 1024 2 "Osa Î. Gronody dvonari TAV
dodo mowovizi, DR Nov Ds DÙA irodidi zar odo mdv TOD To%p:A4795
pprop.bv, mein ie Sprayds X0Y05 giz ot. 4 Tectet, p. Stef.
140. 8 Teetet. p. Stef. 147. A4 o DEL METODO «
risposta che desti intorno alle potenze, siccome queste « essendo molte
comprendesti in una sola specie, così « adoprati di ridurre anche le
molte scienze sotto una « sola ragione »!. 3 ; Ma la generalizzazione
non basta ancora a chi voglia definire scientificamente le cose. «
Conviene, chi si studii « di abbracciare scientificamente un intero,
dividere il .« genere nelle sue forme individue » dice Asistotele
negli Analitici posteriori?, e la divisione appunto è come il
processo che completa e sorregge la generalizzazione. I due processi
della generalizzazione e della divisione sono chiaramente enunciati in
quel luogo del Fedro platonico, che abbiamo anche citato più sopra:
Conviene « ricon« durre ad una sola idea ciò che è sparso e diverso, «
affinchè data la definizione di cadauna cosa, sì metta «in aperto di che
si tratti.... e poi poterlo dividere ‘ secondo le idee quasi nelle membra
di cui consta na« turalmente »3, Nel Filebo il doppio processo si trova
‘esposto con tutta la profondità che appartiene alla maturità dell'età e del
talento di chi scriveva: nel Sofista_ poi ‘e nel Politico è così frequente
l’uso della divisione massimamente, che pare vi si debba scorgere
il desiderio di Platone di avvezzare gli uditori a quello ch'era allora
una novità; tante sono le occasioni indirette ch'egli sceglie per porlo in
piena luce, specialmente mettendo in bocca a’ suoi interlocutori
risposte, che implicano una completa indifferenza su questo
punto. = ! Teetet, p. Stef. 1,48. 2
Aristot. Analit. post. II 965 1 +’ TEUNTZI F13, desdetv Td XY
) A Ei N Cvos Sis Ta vronz o tider T% TIOTZ, giov {
. prov cis mpuida at Svdda. ; 5 Plat. Fed, p. 265
trad. Ferrai, = DI
FIL.OSOFARE DI SOCRATE 45 . Socrate adoperò il
processo della divisione; come adoperò quello della generalizzazione? Il
Brandiss e l’Heyder credono che la divisione incominci propriamente
con Platone, in prova di che fanno osservare che nel Sofista e nel
Politico, dove questo processo è più abbondantemente adoperato, Socrate non
dirige punto la conversazione. Se non che io osservo col Grote « che non
« bisogna di troppo insistere su questa circostanza: i « termini coi
quali Senofonte descrive il metodo di So« crate (dezdepovizo 227% yiva 74
roduzez Mem. IV 5, 12) « sembrano implicare tanto un processo che
l'altro; « in. effetti, non era possibile tenerli separati con un «
disputatore così abbondante come Socrate. Platone « senza dubbio ingrandì
e insieme ridusse a sistema il « metodo, ce sopratutto fece un grande uso
del processo « di divisione, perchè spinse il dialogo in una
ricerca « scientifica positiva più lungi di Socrate »!. Più
della divisione però che in fondo resta sempre dubbio se Socrate abbia
veramente adoperato, egli ha adoperato il processo della dimostrazione,
il cui punto capitale è sempre la formazione dei concetti. Quando
Socrate voleva rendersi conto dell’esattezza d' una definizione, o della
necessità di operare in una certa maniera, risaliva al concetto della
cosa in discorso, e ne traeva per via di deduzione ciò che faceva al caso
dato. Senonfonte ci avverte che quando alcuno in qualche cosa contraddiceva
a’ Socrate senza dire nulla di chiaro e senz'alcuna dimostrazione, questi
cercava di fissare il concetto, per esempio del buon cittadino, se tale
era la questione, e poi applicando questo concetto alle due persone
su cui cadeva la questione stessa, ne deduceva quale. delle due poteva
essere posta nel numero dei 1 Grote op. cit. vol. cit. p. 267 in
nota. ‘ CO a sb tata
LA buoni cittadini: in questa maniera, conclude Senofonte,
agli stessi contradditori si faceva chiara la verità”. Per convincere
Lamprocle suo figliuolo ch'egli era ingrato verso la madre mostrandosi
con lei adirato, Socrate gli domandava che cosa fosse l’ ingratitudine, e
avutane la definizione gli mostrava in appresso che, operando in
quel modo, egli era veramente nel numero degl’ingrati*. E così egualmente
per far discernere a un generale di cavalleria tutti i suoi doveri,
cominciava dal definirne l’ufficio*; e per mostrare l’esistenza della
divinità, poneva come principio che tutto ciò che serve ad uno scopo
deve avere una causa intelligente 4. Non è da credere però
che Socrate abbia dato la teoria del :metodo dimostrativo, o distinto le
diverse maniere di dimostrazione. Ciò che v'ha d’essenziale qui, come
osserva lo Zeller5, è pur sempre questo, che il concetto è il termine di
paragone,.a cui bisogna ricondurre ogni questione e il criterio con cui si deve
risolvere: mentre i procedimenti per giungervi sono più che _altro
il risultato delle abitudini dialettiche individuali del
filosofo. Per tutto quello che abbiamo detto adunque Socrate,
senza avere predecessori a copiare, praticò quello che Aristotele
descrive come il doppio processo della dialettica, fare della pluralità l’unità
e dell’unità la pluralità. Se non che come fu il primo che si mise per
questa 1 Mem, IV 6. 13€ seg.. 2 Mem. Il 2. 3 Mem.
III 3. 4 Mem. I 4 6 Op, cit., tom. 3. p. 123. ©
Aristot._To e pic. VIII
14 p. 164, 6, 2... &y rrotetv 4 d EY TONE... 4, 0, 2... v rorelv a
Tmietw... 7Ò via, ed anche senza averne una chiara coscienza,
dovette naturalmente cadere in alcuni errori, derivanti massimamente dal
difetto della sua induzione. L' induzione socratica avea senza dubbio un valore
scientifico, poichè moveva dalla revisione del senso volgare: ma nel
suo processo non era sempre rigorosa. Come egli non voleva mettere
innanzi nulla di suo a persuadere, ma da quello che gli avea concesso il
suo interlocutore trarre conseguenze che, per ciò che gli avea concesso, era
impossibile al suo interlocutore non approvare, naturalmente poneva
a fondamento dell’esame d’un’opinione un’altra opinione, quanto la prima
malsicura ed incerta: sicchè una induzione di tal fatta doveva avere molto
d’accidentale e di non dimostrato, e tutte le conclusioni e le
definizioni che ne derivavano, poggiavano sur una base assai sdrucciolevole!.
Inoltre per il fatto stesso che non svolgeva il suo pensiero che in una
conversazione famigliare, Socrate era costretto a non perdere mai di
vista i casi particolari in questione e le esigenze e i bisogni de’ suoi
interlocutori : I La deficienza del metodo socratico risulta molto
chiaramente dalla descrizione che danno Cicerone e Quintiliano
dell’induzione di Socrate, la base del suo metodo: « Inductio est oratio
quae rebus non dubiis captat assensionem eius, quicum instituta est;
quibus assensionibus facit, ut illi dubia quaedam res, propter similitudinem
‘earum rerum, quibus assentit, probetur.... Hoc modo sermonis plurimum Socrates
usus est, propterea quod nihil ipse afferre ad persuadendum volebat, sed
ex eo, quod sibi ille dederat, quicum disputabat, aliquid conficere
malebat quod ille ex co quod iam concessisset, necessario approbare
deberet ». Cic. De invent. 1, 31, 32.° « Illa (sc. inductio) qua
plurimum Socrates est usus, hanc habuit ‘ viam, cum plura interrogasset,
quae fateri adversario necesse esset, novissime id de quo quaerebatur,
inferebat cui simile concessisset ». Quint. Orat. V 11.
} non erano dunque osservazioni complete e passate al cribro d’una
critica severa quelle da cui Socrate traeva i concetti, ma esperienze
personali ristrette, opinioni isolate, e in ogni caso non mai tali che i
suoi interlocutori non lo potessero seguire. Non neghiamo ch’ egli
cercasse di correggere tutto ciò che. c'era di contingente nei principii
ottenuti in questa maniera, confrontando casi opposti e completando e
rettificando esperienze differenti l'una per mezzo dell'altra, come
risulta dalla definizione del concetto dell’ingiustizia e del
concetto del sovrano nei Memorabili"; a cui potrebbe aggiungersi la
determinazione delle qualità d’una buona armatura che pure troviamo nei
Memorabili*?: ma non si può pure negare che il più delle volte la sua
induzione consistesse in una semplice enumerazione di casi e di
fatti, udi non reperitur, come direbbe Bacone, instantia contradictoria.
Ora i casi conosciuti in cui apparisce vera una certa legge, non danno
spesso il diritto di concludere universalmente; bisogna in/errogare la
natura, bisogna non contentarsi d’un’osservazione passiva, e vedere
Se nessun caso opposto a quelli conosciuti si presenti. Per essere
in diritto, osserva lo Stuart Mill 3, di concludere che una cosa è vera
universalmente perchè non abbiamo visto mai esempi contrari, bisognerebbe
che fossimo anche in diritto di credere che se questi esempi contrari esistessero,
li conosceremmo; e questa sicurezza, nella maggior parte dei casi, non la
possiamo avere che a un debolissimo grado, o non la possiamo avere
affatto. A tutto questo aggiungasi il concetto unilaterale ed
esclusivo che Socrate s'era fatto della filosofia, per 1 Mem. IV
2, 11 e Seg.; 2 Mem. IV 10,9e seg, 3 Logique déductive ed inductive
v III 9, 10 e seg. ol. I p. 353.
BRIO porei; . i) w
IC cui questa non deve in alcun modo occuparsi del
fatto naturale; e si rammenti che l’induzione trova la sua più
completa applicazione nello studio del fatto naturale appunto. Per ultimo
si osservi collo Zeller! che se Socrate comprendeva e formulava nettamente la
necessità di ricondurre ogni cosa al suo concetto, e il principio
della conoscenza per concetti era per lui come un postulato, quanto al modo
però e alla forma di questa riduzione, e ai procedimenti logici che
esige, non li, elaborò mai in modo: da farne una dottrina, e « non
li « troviamo ancora presso di lui che allo stato d'applica« zione
immediata. d’ un'attitudine personale». Comunque sia, noi dobbiamo
riconoscere in Socrate il primo autore di quella tendenza all’ analisi e
alla generalizzazione, che rendeva, gli uomini atti a rendersi
conto di quanto faceano o dicevano; e il precursore di Platone e di
Aristotele, il quale ultimo massimamente col suo sistema comprensivo di
logica formale, non solo ebbe ùn valore straordinario pei procedimenti
e le controversie del tempo suo, ma ancora, penetrando a poco a
poco negli spiriti di tutti gli uomini colti ) e perfezionandone le
facoltà ragionatrici, contribuì a ‘formare quello che ha di esatto e di
eminentemente scientifico il pensiero moderno, sicchè; secondo la sentenza
del Grote, « la distanza tra la miglior logica « moderna e quella
d’Aristotele è appena tanto grande, « quanto quella che esiste fra
Aristotele e quelli che lo « precedettero d’un secolo, Empedocle,
Anassagora € Ì « Pitagorici »?. 1 Op. cit. tom, 3. p.
112. 2 Grote. È i : 3 sa
x Li LaTet CORE RIOT ua 1) 4 i
sed Lr da FRI Risulta da quanto s'è detto nel capitolo
precedente che Socrate dev’ essere considerato non soltanto come un
moralista, ma anche come uno scienziato, o, se pare troppo superba la
parola applicata a Socrate; come un . ricercatore entusiasta del
sapere. Chi se lo rappresenta anzi tutto e sovra tutto come un'
moralista, non vede che una parte soltanto di questa grande figura, la
più attraente, se vogliamo, la più simpatica sicuramente, ma anche la
meno profonda e la meno originale. Osserva acutamente lo Zeller che
quando Socrate fosse stato, quale in gran parte ce lo presenta Senofonte,
un semplice predicatore di morale, non si capirebbe l'immensa efficacia
ch'egli ha esercitato non soltanto sugli spiriti senza originalità e
intelligenza filosofica, ma sugli uomini più illustri e più
versati nelle scienze del tempo suo: ‘ non si capirebbe sovra
tutto come Pl dotto nei dialoghi ad attribuir filosofiche, e da
Platone stesso e da Aristotele e da tutta la filosofia posteriore fino
agli Stoici e ai Neoplatonici sia stato considerato come il fondatore
d’una filosofia nuova, e l’iniziatore di quel moto fecondo d’
idee, a cui clascuno confessa di metter capo!. C'è anzi in
Socrate stess rebbe potersi concludere che lui al di sopra dell’
interesse p essere il fine del sapere, non in quanto deriva
dal s damentale dell atone si fosse ine a lui le più ardue
ricerche o qualche cosa da cui parl'interesse teoretico sta
in ratico, che l’azione anzichè ha essa stessa valore
che apere, e che perciò il motivo fona sua attività è l'interesse della
scienza. 1 Zeller Op. cit. tom. 3: P. 99. ceci
" ., enni nnt RA DI vs
Le conversazioni ch'egli tiene col pittore Parrasio, collo
scultore Clitone, coll’armaiuolo Pistia!, e in cui cerca di far scoprire
a ciascuno dei tre il concetto dell’arte sua, non hanno evidentemente uno
scopo morale, ma uno scopo teoretico, fare che ognuno acquisti un
giusto concetto della propria attività e se ne renda conto; quando non si
voglia ammettere con Senofonte che lo scopo morale c'era pur sempre, poichè
Socrate si rendeva wuzile con queste conversazioni agli artisti medesimi.
Nessuno scopo morale però si vorrà vedere sicuramente nello strano
dialogo ch'egli ha colla cortigiana Teodota *, nel 3 quale cerca di
condurla a formulare nettamente |’ idea e i il metodo del suo mestiere.
Quivi è indubitatamente il i sapere per il sapere che si cerca, quando
non si voglia sostenere il paradosso che, insegnandole l’arte di meglio
sedurre gli uomini, la metteva in grado di fare maggiori guadagni e.
perciò le procurava pur sempre del bene. Il ricercatore del
sapere si deve adunque in Socrate collocare accanto al moralista, non già
subordinare al moralista. Chi considerasse la scienza dal punto di
vista: della morale e a questa la subordinasse, chi non vedesse in
essa che un mezzo per raggiungere uu fine ulteriore, chi non si sentisse
ad essa attratto da un’inclinazione naturale irresistibile, non potrebbe
avere per essa l’ entusiasmo che avea Socrate, non potrebbe sovra tutto
coll’ energia costante ch'egli mostrò ricercarne il metodo e farsene il
riformatore. Nella stessa morale Socrate non avrebbe lasciato traccie
così profonde, nè avrebbe esercitato un'azione così decisiva e durevole,
qualora si fosse preoccupato d’interessìi puramente pratici, Il suo
merito, i Memor. II 10. 2 Memor. II 11. =
r v) come moralista, osserva lo Zeller !, non consiste nell’
aver voluto una riforma della vita morale; anche Aristofane e altri
ancora la volevano egualmente; consiste piuttosto nell'aver riconosciuto
che per ottenerla è necessario fondare le convinzioni morali sulla scienza, che
perciò il sapere solo deve determinare e soddisfare i doveri
pratici, vale a dire deve non solo essere utile all’azione, ma dirigerla
e dominarla. Ora nessuno, continua il grande storico della filosofia
greca, « ha accettata mai questa « maniera di vedere senza riconoscere
alla scienza un « valore proprio, che sta immediatamente in lei
stessa»: L'idea della scienza è perciò il punto di partenza
della filosofia di Socrate*; la stessa morale è scienza; la
trasformazione e la restaurazione della morale non può ottenersi che
dandole per base la scienza. Socrate non può in nessun modo separare la
moralità dalla scienza e concepire una. virtù senza sapere.
D’ altra parte però non sa neanche concepire un saE senza virtù; e ciò Te
che il risveglio scientifico, ch'era incominciato € i noli : non
già ai fini e e ne ralità, come per la Sofistica appunto era avve 2
pa È avvenuto, ma a porre su basi nuove e incrollabili stabilite
dal Xi la moralità stessa. LIE E in questa maniera che
Socrate si può considerare ad un tempo come il riformatore della scienza
e della morale. « Il suo grande pensiero fu di trasformare e di «
restaurare la vita morale dandole la scienza per base «e questi due
elementi erano così indissolubilmente 4 Op. cit. tom. 3. p.
101-102. 2 Cfr. Zeller op. cit. tom. 3. p. 103. Lo Schleiermacher
Werke III 2,300 e il Ritter Geschichte der philo i x i = E
philosophie II 50 sostengono questo DI FILOSOFARE DI SOCRATE [H. P. Grice,
Socratic midwifery at Oxford] 53 « legati nel suo spirito che non
seppe dave alla scienza « altro oggetto che la vita umana, c
inversamente, nella « vita, non vide salute al di fuori della scienza
»!. Ciò posto facciamo ancora alcune considerazioni specialmente
intorno alle relazioni di Socrate coi Sofisti e alla differenza del suo
insegnamento dal loro. Prima di tutto è d’ uopo togliere una
prevenzione. Spesso l’operosità di Socrate viene limitata alle sue
dispute coi Sofisti, e queste dispute ci si rappresentano non
Scette affatto d'una certa animosità da parte di Socrate. Nel primo
caso c'è deficienza nella concezione del Socrate storico, nel secondo
ingiustizia; in tutti e due rimpicciolimento della grande personalità
socratica. Imperocchè, se le dispute coi Sofisti e in generale cogli
uomini più eminenti d’Atene sono la parte più importante della vita
filosofica di Socrate, e per la impopolarità che gli guadagnarono ®, c per
l'altezza delle dottrine che vi si svolsero, Nor per questo ne costituiscono
tutta la vita. Socrate, come abbiamo notato più sopra, avea la
convinzione di esercitare una vera e propria missione religiosa col
suo sistema di conversazione € d’interrogazione; non dovea quindi
limitarsi a una classe particolare di persone. D'altra parte il difetto
intellettuale che si proponeva di combattere, non era soltanto comune ai
Sofisti, ai politici, ai poeti, agli artefici e in generale ai personaggi
più eminenti d'Atene, ma era proprio di tutti glì uomini indistintamente;
poichè tutti si credeano sapere quello che si riferisce ai doveri, ai
fini e alle condizioni della vita umana, e non dubitavano un istante
della propria capacità a discorrerne ‘sempre e dovunque. Sicchè la
disputa di Socrate doveva essere universale, come era universale
1 Zeller op. cit. tom. 3. P. 107-108. 2 Apol. platon. p. Stef.
21-22. PT 0 MALA) Der ni RR RT
PT n D* | et 54 DEL METODO
l'illusione di sapere, senza che l'effetto corrispondesse; e se era più specialmente
rivolta a combattere 1 Sofisti, i politici, i poeti ecc., ciò dipendeva
da questo che il sentimento generale della estimazione di sè, e la
credenza di sapere era tarito maggiore in loro, in quanto realmente
s'innalzavano considerevolmente sulla massa del popolo e per finezza
d’ingegno e per abilità a disputare. La universalità della disputa
socratica ci è confermata da quel luogo dell’Apologia, in cui Socrate
afferma che risvegliando, persuadendo e rimprocciando cadauno degli
Ateniesi, non cessava dall’ assisterli dappertutto l’ intero giorno!; e
da quell'altro, pure dell’Apologia, che, se i suoi giudici gli
proponessero di rimandarlo libero dall'accusa di Anito, a condizione che
non passasse la vita nelle sue ricerche e nel filosofare, non
accetterebbe a questi patti, e, finchè gli rimanesse il respiro, non si
starebbe dal fare esortazioni e dimostrazioni a chiuugue
incontrasse in quel suo solito modo ?. Il qual ultimo luogo è anche
importante, în quanto che mi pare serva mirabilmente a dissipare ogni
sospetto che la disputa socratic animata da un sentimento di avversione e
di malevolenza. Un uomo che si offre pronto a morire piuttosto che
non adempiere quello ch'egli reputa suo dovere e esaminare gli
altri, per renderli capaci di virtà e rioe le facoltà intellettive, senz’ altra
ricompensa Sa eee zione di aver compiuto un’ opera uona; com
È possibile che nell'adempimento di questo suo dovere sia animato
da altri sentimenti che n siano di benevolenza e di affetto? Ben è vero
di 1 same contradditorio e l’ ironia di Socratè si È È molto
facilmente ad essere scambiat Ae ata con vera e propria a
fosse ; il correggere | Apol. plat. p. Stef.
30-31. Nell’unac nell'altra è adoperato il dialogo come mezzo
d'insegnamento, ma nell’una l'indole del dialogo è affatto diversa che
nell'altra. Gli Eristi formulano le loro domande per modo che sieno ben poco
determinate in sè stesse, anzi, secondo l'intenzione di chi interroga, ammettano
due risposte in contraddizione fra loro; Socrate invece non vuole che una
sola risposta, e questa ben . chiara e determinata; per la qual cosa
formula ben chiara e determinata anche la domanda. Che se. gli
sembri la domanda sia troppo generale, e non corra subito alla mente il
concetto che vuole far intendere, la sminuzza in domande particolari
tutte implicanti lo stesso concetto, per modo che finalmente gli
venga data quella risposta che vuole e non altre. Per tal maniera,
mentre per le domande a doppia risposta il discepolo degli Eristi si
avvezza a non dare. alcuna importanza alla verità, giacchè, qualunque
risposta egli dia, viene redarguito !; e più spesso, vedendo man
mano risolversi in nulla tutte le nozioni che possiede, e per opera di
quello stesso che prima gliele avea apprese, si smarrisce d'animo e si
sconforta è; il discepolo di Socrate invece, acquistando nozioni chiare e
determinate di ciò ch2 deve apprendere, ed è incoraggiato nella ricerca
ed è messo in grado di proseguirla da sè. Di che ci offre uno splendido
esempio il giovinetto Clinia dell’ Eutidemo, il quale, avviato da Socrate
alla ricerca di quella scienza che forma la felicità dell’uomo,
mentre i Eutidem. platon. c. V p. Stef. 275, dove Dionisodoro dice
a Socrate che, qualunque risposta dia Clinia alla dimanda « se apprendano
i sapienti o gl'ignoranti » verrà redarguito. 2 Cfr.
Eutidem.-platon. c. VII p. Stef. 277, dove il giovinetto Cinia assalito
ad un tempo dai due Ervisti Eutidemo e Dionisidoro sta per smarrirsi
d'animo, se Socrate non lo sovviene, MRTTTETZE TETI T TRA A tania nen ina
pan ene ani a nana tra rari on aniane dapprima non aveva nozione
di ciò che si ricercasse, a poco a poco, seguendo le interrogazioni di
Socrate, è giunto a intendere per modo le condizioni della scienza
richiesta, che da sè medesimo, togliendo la parola a Socrate, spiega come
non possa l’arte militare formare la felicità dell’uomo, e perchè non lo
possa; mostrando per tal modo col fatto come Socrate col suo metodo gli
abbia mirabilmente fecondato la mente!. Ma v'ha ancora di più. L’arte
degli Eristi, come quella che consiste in alcuni giochi di parole, in
sofismi puerili il più delle volte, in artificii tutt affatto esteriori e
che balzano immediatamente agli occhi, molto facilmente: viene rubata
dagli ascoltatori; sicchè venga poi rivolta contro i suoi medesimi
autori, e non produca altro effetto che di distruggere sè stessa, Il Ctesippo
dell’ Eutidemo ne offre una prova. Il giovane audace, abile disputatore,
ma senza serietà di proposito, s° APpropria l’arte d’ Eutidemo e
Dionisodoro, e se ne serve a confutarli e a canzonarli ad un tempo ?;
sicchè Socrate, in sul finire del dialogo osserva agli Eristi con
felicissima ironia, che non solo cuciscono la bocca alla sente, ma colle
loro mani stesse anche la loro, e che, gran cosa invero! La loro abilità
è di tal fatta e l'hanno ritrovata con tanta arte, che in molto
poco tempo chi si sia la potrebbe imparare 3, 1 Eutidem, platon.
c. XVII P. Stef. 290. 2 Eutidem. platon. c. XXV-XXVI p. Stef,
TIRI 299-300. 9 Eutidem, platon. c. XXIX p. Stef, 303. RI
î a . listini ini ili
iii Sire ee REP RLIIAVO, _ = drei g
x Ù DI Fu notato
molto giustamente! che nella lotta che in riguardo alla morale si
combatte da tempo fra le due scuole intuitiva e induttiva o, ciò che è lo
stesso, aprioristica e sperimentale, lo Stuart Mill ha portato uno
spirito di conciliazione così spiccato che per lui s'è andato
restringendo il campo della lotta e il contrasto s'è fatto meno
stridente. Utilitarista appassionato e seguace convinto della scuola del
Bentham, ha però evitato tutte le asprezze del maestro, che urtavano di
più le suscettività della scuola contraria: si direbbe che lo
spaventino le conseguenze che logicamente derivano dalla sua dottrina e
dinanzi alle quali non s'era punto arretrato il Bentham, e perciò tenti o di
attenuarle e presentarle sotto un aspetto vorrei dire più conciliante e
più mite, o di rifiutirle addirittura, poco curandosi che si possa dire
di lui che non è conseguente a sè stesso. Spesso assume il
linguaggio e i criterii della scuola contraria, e se non si sapésse che è
lui, che è Stuart Mill, 1 Guyau, La morale anglaise contemporaine,
specialmente a pagine 82-84, 88-80, 98-99, 102-103, 112.
PETI % È, î È 3 |
£ che è un seguace del Bentham, si direbbe quasi un
Kantiano!: sebbene quel linguaggio e quel criteri egli si creda, quanto
altri, in diritto di adoperare, perocchè, secondo lui, non ripugnano alla
sua dottrina. Talora rimprovera la sua stessa scuola d'intendere le
dottrine che professa in una maniera erronea che giustifica le
accuse che le vengono dagli avversarii®, e non teme di dichiarare
apertamente che questi hanno non di rado un sentimento pratico molto più
prossimo alla verità, e perfino un sentimento più vivo dell'educazione e
della cultura personale®. Il Bentham stesso non può sottrarsi qua e
là alle critiche del suo poco fedele discepolo, come per esempio quando è
rimproverato d’aver riposto il criterio della morale unicamente nella
quantità dei piaceri, e d'aver trascurato affatto il criterio della
qualità. « In generale, dice il Mill, gli scrittori utilitarii,
hanno fatto consistere la superiorità dei piaceri dello spirito su
quelli del corpo sovratutto in ciò che sono più durevoli, più sicuri ecc.
dei primi; vale a dire piuttosto nei loro vantaggi particolari che nella
loro natura intrinseca... Gli utilitarii però avrebbero potuto collocarsi
sovra un terreno più elevato, e con altrettanta sicurezza... Sarebbe
1 Vedi per esempio quanto dice il nostro autore nella sua opera l’
Utilitarismo (p. 60 della trad. francese del Le Monnier) in riguardo al
sentimento del dovere « Se deve esservi qualche sentimento innato, non
vedo la ragione per cui questo non sarebbe il nostro sentimento
simpatico. Se v' ha un principio di morale che sia istintivamente obbligatorio,
dev'essere quello che detta questo sentimento. Se è così, questa
obbligazione intuitiva coincide col principio utilitario e noù deve
esservi questione fra loro ». 2 Logique déductive et
inductive, traduite p ar Louis Peisse; tome second, p.
418-419. 5 Logique ecc.
tome second, p. 425-426, ea C bi header ie, see
n) ti NI $ = RDZ
Nim ERRE AE POPS STANZE d %,, DI MILL assurdo che mentre nel
valutare le altre cose si tien conto della qualità così come della
quantità, non si consideri che la quantità allorquando si tratta di
valutare i piaceri a: In poche parole e per venire a qualche cosa
di concreto, lo Stuart Mill ha rotto per così dire il cerchio di ferro in
cui la morale induttiva s' era volontariamente rinchiusa, e che le
impediva di farsi abbastanza popolare, e l'ha allargata accostandola più
e più alla morale intuitiva per modo che la distanza pur sempre grande
che ancora le separa, non sia però così grande come potrebbe
sembrare a chi s' arresti a considerarne i principii, Mentre il Bentham,
preso per guida il principio d’ utilità, si propone di seguirlo dovunque
esso lo conduca e di non badare ad alcun pregiudizio che tenti
distoglierlo dalla sua via?, per modo che viene a sopprimere a poco
a poco la virtù, l'obbligazione, il dovere, e riduce tutta la
moralità a un calcolo d’ interessi, essendo nient’ altro che un calcolo
d’ interessi lo stesso disinteresse da lui tanto strombazzato; lo Stuart
Mill invece vuole rinsanguare l’utilitarismo con un gran numero
d’elementi stoici e cristiani, comedice egli stesso?. Quindi non soltanto fa
uscire dall’egoismo l’ altruismo o dall’ interesse il disinteresse,
‘come aveva fatto il Bentham, ma vuole che questo disinteresse non sia una
finzione priva di valore reale, come pel Bentham, una cosa tutta
esteriore; ma una cosa interiore e subbiettiva e d’un effettivo valore4;
e 1 Utilitaris. cap. II, p. 15-16, trad. francese del Le Monnier. 2
Deontologie II, pref. p. 3 (trad. francese). « J'ai adopté pour guide le
principe de l'utilità; je le suivrai partout où il me conduira. "
Point de préjugés qui m'obligent a quitter ma voie ». 5 Utilitaris. cap. II, p. 15 della trad. citata. + « Presso
Bentham, l'unione degli interessi che produceva l'apparenza del disinteresse
era tutta esteriore ed estranea all'essere: io parla di virtù, di
coscienza morale, di merito morale, di dignità morale, di dovere,
precisamente come fosse un moralista della scuola contraria.
Fino allora gli utilitaristi aveano inteso unicamente dalla bocca
dei loro avversarii queste parole; si direbbe che lo Stuart Mill invidii
loro questo privilegio, e voglia pronunciarle a sua volta. E bensì vero
che queste parole assumono per lui un significato e un valore ben differente
dall’ ordinario; ad esempio la coscienza morale è spiegata come il
risultato dell’ associazione nell’ umano pensiero della felicità
individuale e della felicità generale, sicchè è in fondo una facoltà
acquisita che trae sua origine dall’egoismo: tuttavia l’averle introdotte nel
suo sistema, pur alterate, prova l’intima convinzione dello Stuart
Mill che dei concetti, o meglio delle cose corrispondenti a quelle parole, non
si può assolutamente fare a meno. E perciò insiste a far capire che,
sebbene utilitarista, non per questo egli vuole distruggere in
morale ciò che forma come il caposaldo della vita sociale, e sì sdegna e
protesta energicamente quando non viene inteso a dovere o non lo si vuole
intendere a dovere. « Gli avversarii dell’ utilitarismo, egli dice, hanno
raramente la giustizia di riconoscere che la felicità che è il principio
di morale conduttore della vita umana, voleva il mio piacere, c si
trovava, per un concorso di circostanze quasi indipendenti dalla mia
volontà, che questo piacere era nel me desimo tempo il piacer i altri
ill, i î Sub pi: si degli altri... Stuart Mill, in morale come
in psicologia, va dal di fuori al di dentro; egli associa i piaceri nel
seno stesso dell'anima; egli non ammette solamente delle azioni
aventi per risultato la felicità sociale, ma delle intenzioni
aventi per fine questa felicità e terminanti anche col tenerle
dietro indipendentemente dalla felicità personale « come per
istinto » (Guyau, La Morale anglaise contemp. p. 82-83). Sa
è i.’ 1— to o00ttrcottormtetitt@òtoesttiòeotonttet-"’ uti
aerei Lean een i Tar. DI MILL non è solamente la felicità d'un
solo agente, ma quella di tutti. Fra la sua propria felicità e quella
degli altri, l’ utilitarismo consiglia all'individuo d'essere tanto strettamente
imparziale quanto uno spettatore disinteressato. Nella regola d’oro di
Gesù di Nazareth noi troviamo lo spirito completo della morale
dell'utilità. Fare agli altri ciò che si vorrebbe che gli altri facessero
per voi, amare il suo prossimo come se>stesso, ecco le due regole di
perfezione ideale ‘della morale utilitaria »!. Non cercheremo con
qual diritto lo Stuart Mill, utilitarista, abbia parlato di perfezione
ideale, di coscienza: morale, di virtù, di merito morale, di dovere ecc.,
e neppure se le spiegazioni che ne ha date siano sempre conformi al
principio utilitario da cui è partito: noi vogliamo soltanto insistere
sul fatto, già accennato qua e là, che lo Stuart Mill nella sua morale
s'è andato mano mano accostando alla scuola stessa che intendeva
combattere, sia per spirito nobilissimo di conciliazione, o sia anche
perchè in fondo era forse meno utilitarista di quanto si credeva egli
stesso ?. L’ utilitarismo per lui ha subìto un cambiamento non soltanto
nella forma, ma anche nella sostanza, e s'è spinto tanto innanzi
quanto si poteva desiderare che si spingesse senza vederlo confondersi
colla dottrina avversa. Ma ogni'sistema di morale ha per suo
fondamento e presupposto inevitabile una questione di psicologia,
la questione della libertà o della determinazione necessaria delle nostre
azioni. I Utilitaris. Cap. II, p. 33.: 2 Non è questa
un'affermazione priva di fondamento e azzardata; nelle Memorie dello
Stuart Mill si legge una pagina donde risulta che in pratica alineno egli
non era utilitarista (Stuart Mill, Memoires ch. V. trad. Cazelles).
Lî LP Vera e ie + o ar rac La morale
intuitiva ha fondato il suo sistema sull'ipotesi della libertà delle nostre
azioni; | induttiva invece sulla negazione-della libertà; € in questo
l'una e l’altra scuola si mostrarono conseguenti a loro stesse. Lo
Stuart Mill come ha fondamentalmente mutato il concetto e l'indirizzo
della morale induttiva, e l’ha più e più accostata alla intuitiva’ per
modo che in fondo ha lasciato all’ uomo, se non una moralità completa,
una semi-moralità senza dubbio; così anche per quanto riguarda la
questione della libertà o necessità delle nostre azioni, ha introdotto
tante e così essenziali modificazioni nella dottrina della sua scuola, e
s' è andato accostando per modo alle vedute de'suoi avversari, che
non sapresti dire a rigore s’egli sia un sostenitore del determinismo o
non piuttosto della libertà. Per verità si professa esplicitamente
determinista, ma il suo è un determinismo che non è determinismo, è un
determinismo che non impedisce all'uomo di modificare e perfino di formare il
suo carattere quando lo voglia, di sottrarsi all’ azione di certe
circostanze e di mettersi sotto E azione di certe altre, di sentirsi non
già lo schiavo, ma il padrone delle sue abitudini e delle sue tentazioni,
di sentire che, se Da SE a queste abitudini e a ueste tentazioni,
egli sa ch IA GISTEn a s'egli desiderasse nn SR ee 3 RIE atto, non
gli sarebbe per questo Re desiderio più energico ch'egli: non si
senta capace di provare; è i soa che non LE la ben SA pa csicmiano
3 | non toglie che se ne abbia coscienza!. ù. Lo Stuart Mill
impertanto anche in questa occupa come una posizione intermedia; ce lo di
BREE l'anello di congiunzione tra la sua sc stona a scuola e
la scuola 1 Vedi per tutto questo Logique ecc, vol. 2, Pi
423-425 ue n ba * IZ ZOO RR CO, TT _ gut 4 DI
MILL 71 PORRE S OR SOS RARA OO RIZZI OI RIA I MII LO
contraria. Giammai uno spirito più nobile e più cavalleresco e con più onesti
intendimenti è sceso in lotta coi suoi avversarii; giammai furono
riconosciuti con altrettanta lealtà i proprii torti e le benemerenze degli
avversarii e giammai il desiderio della conciliazione condusse a
modificazioni così importanti e radicali della propria dottrina. Ma
quando si parte da certi principii si ha il diritto di arrivare a certe
conseguenze? voglio dire, nel caso nostro, quando si parte dal
determinismo si ha il dritto di arrivare a stabilire, se non una libertà
completa, una semi-libertà? Spingere fino a questo punto lo spirito
di conciliazione non mi pare conveniente, sovratutto ad un filosofo:
quando si ha il coraggio delle premesse si “deve avere anche il coraggio
delle conseguenze; e per parte nostra, pur apprezzando gli altissimi
intendimenti del Mill, non possiamo non riconoscerlo in contraddizione
con sè stesso. Noi ci siamo proposti di studiare il
determinismo del Mill: comincieremo dal farne un'esposizione per
quanto ci è possibile esatta ed imparziale, riservandoci qua e là quelle
considerazioni e osservazioni critiche che ci parranno più
opportune. La volontà è un potere autonomo € indipendente che trova
in se stesso il principio delle proprie volizioni, e che può in ogni caso
determinarsi da se stesso, senza la coazione di motivi che non sono lui e
che non sono posti da lui? oppure anche la volontà rientra nel dominio
della causalità universale, c ben lungi dall’ esser 1
causa diretta ed efficiente delle proprie volizioni, non ne
è che causa indiretta, dipendente dai motivi e determi nata dai
motivi: Lo Stuart Mill non dubita di rispondere che anche il fatto
della volizione appartiene ‘alla categoria di tutti gli altri fatti del
mondo fisico che sono determinati da una causa: non può esistere in
natura l'anomalia d'un cominciamento assoluto, d’un principio d'azione
che non abbia altra causa che se stesso; non si può ammettere questo
strappo alla legge di causalità che. abbraccia tutti quanti i fenomeni
dell'universo. La volontà è causa delle nostre azioni in quella maniera
stessa che il freddo è causa del ghiaccio e la scintilla dell’
esplosione della polvere !; vale a dire è causa fisica, fenomenica, è
un semplice antecedente che determina un conseguente, e che è esso stesso
determinato da un altro antecedente. La teoria del libero arbitrio
adunque, o del libero e spontanco determinarsi della nostra volontà, non
si può aflatto sostenere. î " ì ci SEL è a dire, IR il Mill,
come fa l’ Hamilton, me è inconcepi ninci nell'ipotesi del bero oro
SR ROOT SRI regressione infinita, una catena di Re ca capo
nell’eternità, o in altre song ca la o mento assoluto sul quale in ultimo
ri RONAO del determinismo; e che per conse oa 3 SSA 1 i s guenza se
non è concepibile la teoria del libero arbitrio, non è concepibil neppure
quella del determinismo. Perocchè, anch ina mettendo che le due teorie
sieno del pari lion er egli è certo però che quando si tratta di fatti To
9a siano volizioni, noi non scegliamo l'ipotesi che l SE 3 i ( avvenimento
ha avuto luogo senza causa, ma accettiamo. ! Logique vol. I, p.
393. ca Ù È ” x
tu "a A x ha! è È» sd
DI MILL invece l'altra, quella d'una regressione continua,
se risalente all’ infinito o no, non importa. Ora perchè scegliamo
noi sempre questo lato dell’ alternativa per ispiegare le cose che sono
del dominio della nostra esperienza, e solo facciamo eccezione quando si tratta
delle nostre volizioni? Perchè non dubitiamo di ammettere in tutti
i casi, eccettuato quello solo della volontà, che le cose dipendono da
cause che le determinano, sebbene questa credenza sia, nell'opinione
dell’ Hamilton, altrettanto inconcepibile quanto quell'altra secondo la
quale esse avrebbero luogo senza causa? Qual è la ragione di questo
fatto? La ragione è che l'ipotesi della causazione, sebbene secondo |
Hamilton inconcepibile, ha il vantaggio d'avere in suo favore l'esperienza, che
quotidianamente dimostra il fatto d' una successione invariabile fra ogni
avvenimento e una certa combinazione particolare d’antecedenti, per modo che
sempre € dovunque, quando questa combinazione d’antecedenti esiste; l’ avvenimento
non manca d'aver luogo. L’ esperienza adunque decide la nostra
scelta fra i due inconcepibili, e ci fa vedere che in tutti i casi, eccettuato
quello solo della volizione, le cose sono connesse fra loro nel rapporto
di effetto a causa. Perchè anche alla volizione non si potrà applicare la
medesima regola di giudizio, perchè anche della volizione nou
diremo che è determinata da una causa? Ecco ciò che sostengono i
deterministi. Essi affermano come una verità d’esperienza che le volizioni
seguono certi antecedenti morali determinati, quali sono : desiderii, le
avversioni, le abitudini, le disposizioni combinate colle
circostanze esterne atte a mettere in gioco questi moventi internì,
colla medesima uniformità € colla medesima certezza con cui gli effetti
fisici seguono le lor cause fisiche. Essi rigettano egualmente
dappertutto l’ ipotesi della DEL DETERMINISMO spontaneità e
non vedono dappertutto che dei casi di causalità !. % Si suol
dire, continua il Mill, che il sistema della necessità o del determinismo
è la stessa cosa che il materialismo; ma in realtà non si danno due
sistemi più distinti fra loro per confessione stessa di chi li combatte
tutti e due, per esempio del Reid, il quale afferma esplicitamente che «
la necessità ben lungi d'essere una conclusione diretta del materialismo,
non ne riceve il minimo soccorso ». E vero bensì che sempre, o
almeno in generale, i materialisti sono sostenitori della
necessità, e parecchi dei sostenitori della necessità sono materialisti;
ma è vero anche che tutti i teologi della Riforma, a incominciare da
Lutero, e tutta la serie dei teologi calvinisti provano che i più sinceri
spiritualisti possono logicamente difendere il sistema della pretesa
necessità. D’ altra parte Leibnitz, filosofo spiritualista se
altri mai, era d'opinione che le volizioni non avessero la loro
causa in se stesse, ma in certi antecedenti spirituali, come a dire
desiderii, associazioni d'idee ecc., di maniera che quando gli
antecedenti sono i medesimi, le volizioni sono le medesime. Di qui
risulta che la confusione del sistema della necessità col materialismo è
un errore sia nel rispetto storico che nel rispetto psicologico ?.
Del resto, continua sempre il Mill, l’avversione che trova in
generale il sistema del determinismo deriva in gran parte dal non essere
inteso a dovere, e dal servirci per indicarlo d'una parola, la parola
mecessità, a cui nel linguaggio ordinario si. suole attribuire un Sato
diverso da quello che scientificamente le si dovrebbe | La
Philosophie de Hamilton par John Stuart Mill. tr P. 543-549: 2
Philosophie de Hamilton p. 539-540. ad. Cazelles, DI MILI.
attribuire. Il non intendere a dovere questo sistema è causa d’una quantità:
d'accuse immeritate che gli si scagliano contro, ed è causa anche che i-suoi
avversarii abbiano buon gioco a combatterlo, poichè sembra che
questi abbiano in confronto de’ suoi sostenitori un sentimento pratico molto
più prossimo alla verità, e un sentimento ben più profondo dell’
educazione e della cultura personale!. Il rapporto di causa
ad effetto è semplicemente un rapporto di antecedenza e di sequenza:
certi fatti succedono e succederanno sempre, è da credere, a certi altri
fatti; l’antecedente invariabile è chiamato Causa; il conseguente invariabile
Effetto, e consiste in questo la universalità della legge di causazione che
ciascun conseguente è legato in questa maniera a un antecedente 0 a
un gruppo d'antecedenti?. Ma l’invariabilità di sequenza non basta
ancora a costituire la Causa; se bastasse, la notte sarebbe causa del
giorno e il giorno della notte, essendo invariabilmente connessi l'uno
all’altro. Perchè si abbia la causa, la sequenza dev'essere nello
stesso tempo che invariabile, incondizionale; vale a dire, non
basta, perchè si abbia la causa, che un conseguente tenga dietro
invariabilmente a un antecedente, ma si richiede che non ci sia
nessun'altra condizione che l’ antecedente, che determini il conseguente.
Invariabilità e incondizionalità di sequenza costituiscono adunque la
causa, che può essere per ciò definita: «l’antecedente o la riunione
d’antecedenti di cui il fenomeno è invariabilmente e incondizionalmente
il conseguente »3, Ma questa invariabilità e incondizionalità di
sequenza 2 Logique ecc. vol. 1. p. 379 3 Logique ecc. vol. 1
P. 370-381. i ; baia ip
Lai - non implica per nulla la
necessità: nel senso metafisico in cui è intesa questa parola dalla
scuola intuitiva, vale a dire nel senso d'un legame misterioso fra
antecedente e conseguente, d’un costringimento misterioso che l’antecedente
eserciti sul conseguente per modo che fra i due, anzichè una semplice
uniformità di successione, vi sia una irresistibilità di successione !:
questo genere di necessità non è dato dall'esperienza e trascende l’esperienza.
Niente prova che se in passato vi fu tra due fatti una successione
invariabile, certa, incondizionale, la cosa deva essere così anche in
avvenire: perchè lo fosse, dovrebbe il fatto antecedente avere il potere di
produrre, di efficere, per dirlo alla latina, il fatto conseguente;
intorno al che noi non sappiamo niente: questo potere efficiente non ci
si rivela nelle cose: l'esperienza non ci rivela che cause fenomeniche. o
fisiche, non cause prime od efficienti od ontologiche di checchessia 2.
Nel rapporto di causa ad effetto adunque non v'ha. necessità nel
senso in cui comunemente s' intende questa parola; solo nel caso che alla
parola necessità si attribuisca il significato d'incondizionalità, ed è
quello che veramente le spetterebbe, acconsentiremo ad ammettere che tra
causa ed effetto intercede un rapporto necessario ®. 3° Ciò posto
ognuno capisce subito in che senso si deva intendere il determinismo, in
che senso si deva dire che la volontà è determinata dai motivi. Le nostre
volizioni sono causate In quella maniera stessa in cui sono causate
tutte le cose dell’ universo; vale a dire, fra la volizione ine) È eno
arse non esiste quel ) ostringimento misterioso che ! Logique ece. vol. 2, D.
420. S Logique ecc. vol 1. p. 369. 5 Logique ecc. vol. 1. PD. 380. DI MILL SI NI è
generalmente compreso nella parola necessità, e per cui l'antecedente
sforza ad essere il conseguente in una maniera irresistibile; fra la
volizione e il motivo non esiste che un legame di successione uniforme,
non altro. Noi sappiamo che, pure determinati dai motivi, non siamo
però sforzati, come per un incanto, ad obbedire a un motivo particolare,
e sentiamo che se lo desiderassimo, abbiamo il potere di resistere al motivo: «
pensare altrimenti, aggiunge lo Stuart Mill, sarebbe umiliante pel
nostro orgoglio e contrario al nostro desiderio della perfezione
»!. Ben compresa adunque la dottrina della Necessità
filosofica si riduce a questo: « che essendo dati i motivi presenti allo
spirito, essendo dati parimente il carattere e la disposizione attuale
d'un individuo, si può dedurne ‘nfallibilmente la maniera in cui egli
agirà; e che se noi conoscessimo a fondo la persona e nel medesimo tempo
«a tutte le influenze alle quali essa è sottoposta, potremmo
prevedere la sua condotta con tanta certezza con quanta prevediamo un
avvenimento fisico.... Che se alle volte si è incerti intorno al modo in
cui uno agirà in avvenire, ciò deriva dal non essere affatto sicuri di
conoscere tanto completamente quanto converrebbe le circostanze e
il carattere di quella persona, non già dall’ idea che, anche
sapendo ciò, si potrebbe essere ancora incerti della sua maniera d’agire.
E questa piena sicurezza non è per pi niente incompatibile con ciò che
noi appelliamo il sentimento della nostra. libertà. Quand’ anche le
persone da cui noi siamo particolarmente conosciuti siano perfettamente
sicure della maniera in cui agiremo in un ui caso determinato, noi non ci
sentiamo meno liberi per n questo. Al contrario, spesso un dubbio
sollevato sulla i ari | Logique ecc. vol. 2. p.
420. Î nostra condotta futura è per noi la prova che
non si conosce il nostro carattere, e qualche volta anche lo
prendiamo per un’ ingiuria. I metafisici religiosi che hanno affermato la
libertà della volontà, Danno sempre sostenuto ch’essa non era per niente
inconciliabile con la prescienza divina; essa non lo è dunque con nessun’altra
prescienza. Noi vogliamo essere liberi, benchè altre persone possano
essere perfettamente certe dell'uso che noi faremo della nostra libertà.
Per conseguenza non è questa dottrina (che le nostre volizioni e le
nostre azioni sono le conseguenze invariabili di stati antecedenti del
nostro spirito) che si può accusare d’ essere smentita e respinta, come
degradante, dalla coscienza »!. La parola necessità applicata alla
volontà « significa solamente che la causa data sarà seguita dall'effetto
senza pregiudizio di tutte le possibilità di neutralizzazione da
parte di altre cause »?. Il motivo da cui dipende l’azione non è d'un
impero tanto assoluto da non lasciar luogo al potere di qualche altro
motivo; le cause delle azioni non sono irresistibili. Quando noi diciamo
che uno a cui sia sottratta l’aria o l'alimento morirà di
necessità, intendiamo dire che morirà indubbiamente checchè si
possa fare per impedirlo: quando diciamo che uno che sia stato avvelenato
morirà, non intendiamo dire che è necessario che muoia, perocchè un
antidoto somministrato a tempo o l’azione d'una pompa stomacale può
qualche volta prevenire la morte. Le azioni umane rientrano nei casi di quest
ultima specie. Di qui l’improprietà di chiamare necessario il rapporto
che esiste fra il motivo e l’azione: questa parola necessità essendo
adoperata nei casi ordinarii in senso tutt'affatto diverso da quello che
1 Logique ecc, vol, 2. P. 419-420. 2 Logique ecc. vol. 2. Pi
422. he essre e Ai Res
x e. Cai A AI ba Mes, ig o DI MILL SI
carattere che si aveva precedentemente, o da qualche sentimento
d’ammirazione o da qualche aspirazione improvvisa!. Ciò posto ognuno capisce la
differenza che n c'è fra pensare che noi non abbiamo alcun potere di
E modificare il nostro carattere e pensare che noi non useremo di questo
potere, se non ne abbiamo il desiderio. In generale « importa molto che
questo desiderio non 2 sia soffocato dal pensiero che il successo è
impossibile, L. e che si sappia che se noi abbiamo questo desiderio,
bi l’opera non è così irrevocabilmente compiuta che non possa più
essere modificata »°. Riassumendo adunque lo Stuart Mill ammette nell’uomo
il potere di modificare € anche di formare il proprio carattere, quando
lo voglia. È bensì vero ‘che questa volontà è determinata dal desiderio,
e il desiderio in ultimo è fatale: ma in ogni modo, questo sapere
che si può modificare o anche formare il proprio carattere, quando
se ne abbia il desiderio, è già qualche cosa, € ‘Duomo che si crede avere
questo potere sarà in ben migliori condizioni e meno scoraggiato e meno
sconfortato dell'uomo che si crede non avere affatto questo potere,
sebbene lo desideri. Costui sarà in uno stato di noncuranza e di apatia
da cui non si potrà mai togliere; l’altro invece saprà di non essere
irrimediabilmente condannato ad agire in una certa maniera, e
attingerà da questo sapere coraggio € conforto a migliorare sè
medesimo. Ma quanta dubitazione e quanta titubanza nel linguaggio
del Mill! Prima l’uomo può modificare il suo carattere soltanto, poi può
anche formarlo quando lo voglia; prima si accorda all'Ovven che il
carattere 1 Logique ecc. vol. 2. p. 424. 2
Logiquesece. vol. 2. p. 425. G. Z. i Ù
(0/4) w dell’uomo è in ultima analisi formato per lui,
che vale a dire dipende da cause a lui estranee, e poi si afferma
che ciò non impedisce che non sia anche in parte formato da lui, come agente
intermediario; prima si dice che noi non possiamo voler direttamente
essere differenti da ciò che siamo, e subito dopo che possiamo però
porre noi stessi sotto l’azione di certe circostanze per diventare
appunto differenti da ciò che siamo; e per ultimo prima si concede che
possiamo formare il nostro carattere, quando lo vogliamo, e poi si
afferma che del nostro volere non siamo però i padroni. Ma lo
Stuart Mill si era proposto di conciliare in qualche modo il determinismo
colla libertà, e sta in questo la ragione di questa specie di altalena,
di queste affermazioni e negazioni che appena sfuggite si vorrebbero
ritrarre e si ritraggono infatti o se ne attenua il valore, di questa
vorrei chiamarla timidezza filosofica che finisce non di rado in aperte
contraddizioni, di questo volere e non volere che ci impedisce di
cogliere il vero pensiero dell’ autore e che lo rende oscillante
fra la sua scuola e la scuola contraria. Nel luogo seguente
per esempio lo Stuart Mill è entrato nel pieno dominio della scuola
intuitiva. « Il sentimento, egli dice, della facoltà che noi abbiamo di
modificare, se /o Vog proprio carattere è quello stesso della libertà
morale di cui abbiamo coscienza. Un uomo si sente moral libero
quando sente che non è lo schi il padrone delle sue abitudini e delle sue
te anche cedendo loro, sa che potrebbe loro se desidérasse
respingerle affatto, non avr perciò di desiderio più energico che non
si di provare »). mente ntazioni; che,
resistere; che ebbe bisogno senta capace 1 Logique ecc.
vol. 2. p. 425. liamo, il nostro avo, ma al
contrario DI MILL 83 D Ma a questo punto si
potrebbe dimandare: con qual diritto ammettete voi che l’uomo sente di
non essere lo schiavo, ma il padrone delle sue abitudini e delle
sue tentazioni, che, anche cedendo loro, sa che potrebbe loro resistere €
respingerle interamente? Per ammettere questo, bisognerebbe concedeste
all'uomo la facoltà di formare i suoi desiderii che son
quelli che de-. terminano la volontà; invece secondo la vostra
dottrina : desiderii sono fatali. L'uomo non può essere padrone
delle sue abitudini e delle sue tentazioni che a patto di essere anche
padrone di formare il desiderio di cangiar quelle e resistere a queste,
ciò che voi negate. « Del resto, continua il Mill, per avere la
piena coscienza della libertà «bisogna che noi siamo riusciti a fare il
nostro carattere come l'avevamo voluto; perchè se noi abbiamo desiderato
e non siamo riusciti, non abbiamo alcun potere sul nostro carattere; nom
siamo punto liberi. Almeno bisogna che noi sentiamo che il nostro
desiderio, se non è abbastanza forte per cangiare il nostro carattere, lo
è abbastanza per dominarlo tutte le volte ch’essi si troveranno in
conflitto in una occasione d’ agire particolare »!. E da questo passo pare risultare
che noi, contrariamente a quanto è stato detto antecedentemente, non
possiamo sempre modificare il nostro carattere, se lo vogliamo; che i
nostri desiderii talora rimangono infruttuosi, che insomma non possediamo
sempre la libertà. Singolare incertezza di linguaggio! Ma
continuiamo l'esposizione della dottrina del Mill. Tre dottrine, dice il
Mill, si possono distinguere in relazione al determinismo: in primo luogo il
fatalismo puro, l asiatico, quello di ‘Edipo, secondo il quale tutte
le I Logique ecc. vol. 2. p. 425. At TR
7 TAI 84 o DEL DETERMINISMO nostre azioni sono
predeterminate dal di fuori, da una potenza cieca, dal destino,
indipendentemente dal nostro carattere e dalla nostra volontà; di maniera
che il nostro amore del bene e la nostra avversione pel male sono
senza efficacia, e non giova alimentarli nel nostro cuore, oichè non
hanno alcun potere sulla condotta; in secondo P ’ luogo il
fatalismo che si può chiamare modificato, il fatalismo dell’Ovven, il quale
sostiene bensì che le nostre azioni dipendono dalla nostra volontà e la
volontà dai nostri desiderii, e questi dall'azione combinata dei
motivi che ci si offrono e del nostro carattere personale; ma aggiunge
che ‘il nostro carattere è stato fatto per noi e non da noi, e che quindi
non ne siamo responsabili, come non siamo; responsabili delle azioni. ch’
esso ci conduce a fare; e che indarno ci sforzeremmo di cangiarlo
1, . «La vera dottrina della caus IR POTRO a questi due
sistemi, che non soamente la 1 ; A Se Roana condotta, ma il nostro
carattere dipende an A - : a SEE volontà; che possiamo,
adoperando i n ‘are | DES Sa migliorare il nostro carattere,
e che t ri 6 “Ai x in) necessiti al male, s c è tale
che, restando quello che è, ci : o. x 35 eo .° >
Sala giusto mellere in opera dei motivi te ci necessiteranno a fare
î nostri sfr;-; Jr i] li 3 / Str sforzi per miglio arto e a
liberarci così dall’ altr AR . Fa UESi alri ra necessità: in altri
crmini noi siamo moralmente obblivati erferi. “oligatt a lavorare
pel Perfertonamento del nostro carattere? È dottrina
deterministica £ so» > E questa la terza vale ad utta propria del
Mill; secondo il P. 571. Psychologie anglaise contemporaine,
p. 14 Co @w r-tmteoe-cnstr@te eta RT Lo Stuart
Mill sente la difficoltà e l’obbiezione e risponde: « Quando noi ci
esercitiamo volontariamente, come il nostro dovere l’ esige, a
perfezionare il nostro carattere, o quando operiamo (scientemente o senza
saperlo) in maniera da pervertirlo, le nostre azioni, come tutti
gli altri atti volontarii, fanno supporre che ci fosse già qualche cosa
nel nostro carattere, 0 nel nostro carattere combinato colle circostanze
esterne, che ci ha condotti ad agire così, e che spiega perchè abbiamo
agito così. Per conseguenza colui che potesse predire le nostre azioni conoscendo
il nostro carattere qual è al presente, potrebbe pure, con la medesima
conoscenza esatta del nostro carattere, predire ciò che noi faremmo per
cangiarlo »!. La risposta è ingegnosa, bisogna convenirne. Ma se
la modificazione del carattere dipende in fondo dal carattere
stesso, o dal carattere combinato colle circostanze esterne, non sarebbe
illusoria questa modificazione? E possibile per esempio che in un
carattere moralmente cattivo, in quanto tale, siano elementi che
spieghino e giustifichino il suo cambiamento in buono; o viceversa in:un
carattere moralmente buono elementi che preparino la sua trasformazione
in cattivo? È possibile che nel'male s'annidi il bene, e nel bene il
male? Voi avete agito sempre bene; che importa? State in guardia
tuttavia; il bene qualche volta dà origine al male! Voi avete agito
sempre male; state di buon animo egualmente; il male qualche volta
dà origine al bene! Invece il vero si è che la modificazione del
carat I tere non dipende dal carattere stesso; dipende da una forza
intima nostra che anzi è in opposizione al carattere, dipende da noi che
abbiamo sperimentato le conseguenze tristi del carattere che avevamo
precedentemente, 0 siamo 1 Philosophie de Hamilton, p.
572-573. Ls è Cal eri SÒ eccitati
da qualche vivo sentimento d’ammirazione, o da qualche aspirazione
improvvisa, lo dice lo stesso Mill in un altro luogo !. — D'altra parte
se è vero che la modificazione del carattere dipende in ultimo dal
carattere stesso o dal carattere combinato colle circostanze
esterne, perchè abbiamo noi il dovere, come dice il Mill, di esercitarci
volontariamente a perfezionare il nostro carattere ? Una forza che non è
me mi obbliga a fare una cosa, e tuttavia io ho il dovere di farla! Non
c'è qui una contraddizione manifesta? Per concludere, ecco come ci
sembra poter riassumere in breve la dottrina dello Stuart Mill liberata
da tutto quel viluppo di dubbii e di titubanze che la rendono
alquanto oscura e indeterminata. 1° La volontà non è libera, ma
determinata, determinata però non necessariamente, ma in quel modo in cui sono
determinate le altre cause dell'universo, il cui rapporto causale è
un rapporto di sequenza invariabile e incondizionale e niente
più. 2° Di qui segue che, se in ultima analisi il nostro carattere
è formato per noi-e non da noi, dire che questo carattere non
poss anche formato da noi, se lo vogli questo volere non
dipende da noi. 4° Dipende invece dal desiderio. 5° Il quale alla sua
volta non è formato da noi; possiamo noi con un atto di volontà darci o toglierci
un desiderio o una avversione? 6° Se il nostro Atto non è formato da noi,
noi possiamo però metterci in tali circostanze che siano adatte a far
Nascere il desiderio di modificare il nostro carattere ?, 7° In altre
parole noi non possiamo cangiare direttamente il nostro carattere
ciò non vuol a essere modificato e amo. 3° Ma da capo
1 Philosophie de Hamilton, p. 572, 2 Philosophie de Hamilton,
p. vol. 2. pag. 424. nota, 371-572, nota; e
Logique ecc. DI MILL con un atto di volontà; ma possiamo servirci dei
mezzi adatti a far nascere il desiderio di cangiarlo, e quindi
volere indirettamente questo cambiamento. O c' inganniamo, o questa è la vera e
definitiva espressione del pensiero dell’ autore. Ma da capo,
quando ci serviamo dei mezzi adatti a cangiare il nostro carattere, siamo
di nuovo determinati, oppure troviamo in noi stessi la forza di far ciò?
Se sì ammette questo secondo lato dell’ alternativa, come pare
venga ammesso dal Mill, ricadiamo in fondo nel sistema della
libertà. III. Esposta la dottrina deterministica del
Mill, e rilevati er via i dubbii, le titubanze; le contraddizioni che
fan dubitare della serietà delle convinzioni dell*autore come
filosofo determinista, ma che in compenso fanno altissima testimonianza
del suo retto senso morale, ci resta ora a vedere in qual modo abbia
cercato di combattere le prove che si adducono in favore della libertà. E
questa la parte in cui il Mill ha fatto gli sforzi maggiori, ed
è giustizia confessare che ha dato prova di finezza ed acutezza
straordinaria; soltanto questa finezza e questa acutezza sono talvolta a
scapito della verità e rasentano qua e là il paradosso. La
testimonianza decisiva in favore della libertà e per cui quegli stessi
che la combattono si sentono loro malgrado costretti ad ammetterla, e quegli
altri che non la credono concepibile da mente umana, si sentono
però biagi sei i it identita Po PATO
Ma zano (AT TA Per ade, è; et ì uecensroneneo
sevacanzissizarisninieseaneiorazioioe rassicurati a sostenerne
l’esistenza!, è la testimonianza della coscienza. Contro
questa testimonianza lo Stuart Mill aguzza le sue armi e scaglia i suoi
dardi, e prima di tutto fa questa osservazione. Che autorità può avere la
testimonianza della coscienza, se in generale ciò che ci testifica suole
essere interpretato in maniere differenti e non possiamo mai essere
sicuri sul suo significato? Per esempio il Cousin e quasi tutti i
filosofi tedeschi trovano nella coscienza l’Infinito e l’ Assoluto, che
1’ Hamilton giudica affatt o incompatibili con essa: v'ebbero più generazioni
di filosofi che hanno creduto aver delle idee astratte, concepire un
triangolo che non fosse nè equilatero, nè isoscele, nè scaleno, ciò che |’
Hamilton e tutti oggidì riguardano come assurdo. Vi sono dunque opinioni
contraddittorie sul senso della testimonianza della coscienza; che deve
pensare dinanzi a questo fatto il filosofo perplesso ®?. Lo Stuart
Mill non a torto incomincia per questa via ad infirmare il valore della
testimonianza della coscienza. Della testimonianza della coscienza si dai
filosofi specialmente in passato; non vi zione quasi di cui; in mancanza
d’altre pro volesse trovare una conferma nella testimonianza della
coscienza; e molte di queste concezioni poi non ressero a un esame
accurato e ad una critica sagace, o almeno si vide che non erano per
niente attestate dalla coscienza. Ma che prova questo? Forse perchè s'è
abusato del abusò fu conceve, non si 1 Alludo
all’ Hamilton, pel quale la libertà morale, non può essere
concepita « perchè noi non possiamo concepire che il determin lativo », e
tuttavia esiste essendo irrefra scienza (Vedi Stuart Mill Philoso
2 Philosophie de Hamilto ato e il reGabilmente attestata
dalla cophie de Hamilton, cap. XXVI, p. 544). N, p. 549-550. i
RO RI, e _ | i } DI MILL
testimonio della coscienza, e talora si sostenne attestato dalla
coscienza quello che in realtà mon cra attestato, si deve negare fede
sempre alla coscienza? Neppure lo Stuart Mill è di questo avviso, e,
filosofo positivista convinto, non crede però col Comte che unicamente dell’esperienza
esterna e niente dell’interna si deva tener conto in psicologia;
l’esperienza interna è anzi la prima, la vera fonte a cui si deve
attingere. Per quanto riguarda la libertà poi, questo è uno di quei
fatti, di cui non si può dire che una coscienza l’attesti e l’altra no, o
intorno al quale la testimonianza della coscienza si possa 'interpretare
in più maniere differenti. Chi non sente che al momento di agire in una
certa maniera in un caso particolare, potrebbe agire in una maniera
diversa, se lo volesse, e non si sente in conseguenza responsabile
di quello che fa? Ecco la testimonianza della coscienza degli uomini, sul
cui significato non può cader dubbio perchè manifesto e
chiarissimo. Ma a quella osservazione preliminare non s' arresta
il Mill; e per verità non aveva valore che come un primo attacco in
battaglia, che serve più che ad altro a scandagliare il. terreno e a misurare a
un dipresso la forza del nemico, ma non decide della vittoria. Esamina
perciò più addentro il fatto dell’ aver coscienza del libero
arbitrio. « Aver coscienza del libero arbitrio, egli dice, significa
aver coscienza, prima d’ aver scelto, d’ aver potuto scegliere altrimenti. Si
può in limine biasimare l’uso della parola coscienza con una tale
accezione. La coscienza mi dice ciò che io faccio o ciò che io
sento. Ma ciò che-io sono capace di fare non cade sotto la
coscienza. La coscienza non è profetica; noi abbiamo coscienza di ciò che
è, non di ciò che sarà o di ciò che può essere. Noi non,sappiamo mai che
siamo capaci di PR ni DEL DETERMINISMO fare una
cosa che dopo averla fatta, 0) dopo aver fatto qualche cosa d’eguale o di
simile. Noi non SPESO affatto che siamo capaci d'azione se non avessimo
giammai agito. Quando abbiamo agito, sappiamo, nei limiti di questa
esperienza, come siamo capaci di agire : e quando questa conoscenza è
divenuta famigliare, è spesso confusa colla coscienza e ne riceve il
nome. Ma da ciò ch’essa è mal nominata non segue che abbia più autorità;
la verità ch'essa possiede non è superiore all’ esperienza, ma riposa sull’
esperienza. Se la pretesa coscienza di ciò che noi possiamo fare non è
nata dall'esperienza, non è che un'illusione. Il solo titolo ch’ essa
abbia ad esser creduta è di essere un’interpretazione della esperienza, e
se l’interpretazione è falsa bisogna rigettarla »!. Nel qual luogo
due cose sono poste in rilievo e distinte: prima di tutto si dice che la
coscienza non riguarda già ciò che sarà o ciò che può essere, ma
ciò che è, e che per conseguenza ci attesta solo quello che
facciamo, non già quello che possiamo fare e siamo atti a fare; in
secondo luogo che la pretesa coscienza di ciò che sarà o di ciò che può
essere o di ciò che siamo atti a fare, non è un'intuizione, ma una
cognizione offertaci dall’ esperienza, che ha valore solo in quanto ha
valore questa. 1 Non facciamo al Mill l’obbiezione che gli
faceva a ragione l’ Alexander? che « se abbiamo coscienza d'una
forza libera di volizione continuamente inerente in noi, abbiamo
coscienza di ciò che è ». Noi ci mettiamo anzi allo stesso punto di vista
del Mill e ammettiamo che non si possa aver coscienza d’ un'attitudine,
d'una forza inerente in noi, indipendentemente da ogni esercizio
1 Philosophie de Hamilton, p. 551-382. ? Citato in nota dallo
Stuart Mill, Philosophie de Hamilton. DI MILL 93 presente o
passato di quest attitudine o di questa forza; ammettiamo in altre parole
che la pretesa coscienza della libertà non sia un'intuizione, ma una
conoscenza sperimentale. E che perciò? La credenza nella libertà è meno
universale per questo ? E meno radicata nell'anima degli uomini? E vero,
non la chiameremo coscienza; sarà non una percezione, non un sentimento,
ma un giudizio derivato, una conclusione tratta da fatti che ci
cadono tuttogiorno sott' occhio; ma questo non importa. ‘ V ha una
quantità di fatti la cui esistenza è sicurissima, e che pure non cadono
sotto il dominio della coscienza. Ma v'ha di più. L'esperienza esterna,
l'esperienza a posteriori non può, come osservava giustamente l'Alexander!,
verificare la credenza ch'io era libero d'agire, poichè | l’esperienza mi
dice in qual senso io ho agito in un caso | particolare, e niente mi
insegna sulla mia attitudine ad agire altrimenti; questa mia attitudine
ad agire altrimenti m'è offerta da una percezione interna, da un
sentimento, dall'esperienza interna insomma, che non ha niente a che fare
coll’ esterna. Il Mill risponde: « Supponete che |’ esperienza
ch'io ho di me stesso mi offra due casi incontestabilmente simili
per tutti i loro antecedenti fisici e mentali, e che in uno di questi
casi io abbia agito in un senso, e nell'altro in un senso contrario : si
avrebbe bene qui una prova sperimentale ch'io sono stato capace d’agire in un
senso o nell'altro. È per una tale esperienza ch'io apprendo che
posso agire, vale a dire trovando che un avvenimento ha luogo o non'ha
luogo secondo che (le altre circostanze restando le medesime), una
volizione da parte mia ha luogo o non ha luogo »°. RI daddi
Aia sie Pe” i su 1
Philosophie de Hamilton, p. 552-553; in nota. 2 Philosophie de Hamilton,
nota a p. 553. E Di MINISMO 94 DEL DETER | Accettiamo
di buon cuore l’ osservazione; ma se in due casi identici per i loro
antecedenti fisici e mentali io ho agito, come suppone il Mill, non già
in una maniera identica, ma in una maniera contraria, ciò vuol dire
che gli antecedenti (motivi) non hanno la forza di determinarmi, e che io
sono libero d'agire in quel modo che mi piace; altrimenti tutte due le
volte avrei agito in modo identico. A questo punto dov’ è andato il
potere determinante dei motivi che s'è ammesso prima? A questo punto non
si riconosce nell'uomo una forza intima e spontanea capace di agire anche
in opposizione ai motivi? Lasciamo da parte adesso se la libertà ci venga
o no attestata dalla coscienza e se questa coscienza sia intuizione o
conoscenza sperimentale; notiamo il fatto che questa libertà, da qualunque
parte ci venga attestata, voi pure l’ ammettete. Ma neppure a
questo punto s’ arresta il Mill; egli è troppo acuto e profondo per non
capire che anche ammettendo essere la coscienza della libertà non già una
intuizione, ma questo Ra Ri SRERNS a E enza della libertà
ste e che per conseguenza anche A RR SRO 5 i lè questo secondo
attacco, i aa È 1a la un'esito decisivo. Delibera perciò Oros °
; O PIL SoS AASCO; e, bisogna convenirne, menti temi ile e
pericoloso. Eccolo. « Questa convinzi chiamino: mente Sao done Ani
azione ose ( » che la nostra volontà è libera, che è essa?
Di che siamo noi convinti? Mi si di 3 ; ; x c i : sI dice che, sia
ch'io mi decida ad agire, sia che m'aste : ; SS sstenga,
sento che potrei aver deciso altrimenti. Io domando alla mi * » .
‘o alla mia coscienza ciò ch'io sento, e trovo che sento, o che ho la
convinzi x licre l° ; nvinzione, che avrei potuto scegliere
l’altra via, e anche che l'avrei P ; La È avrei scelta, se avessi
preferita, vale a dire se |° avessi ; : a essi amata meglio;
ma io non trovo che avrei potuto sceoli ; egliere una cosa pur e
no rei lite a i ll preferendo l'altra ». Ad onta di
questo si continua a dire che noi facciamo una cosa, pure preferendo,
pure amando meglio di farne un'altra. Ciò deriva dal non intendersi bene
intorno al significato della parola preferire. Quando sì preferisce una
cosa, non si prende questa cosa da sola, in sè, ma unitamente alle
conseguenze che deriverebbero dal farla e che le servono come di
corteggio. Così un'azione presa in sè, indipendentemente dalle conseguenze
che possono da essa derivare, o da una legge morale chio violi facendola,
posso preferirla ad un'altra, e cionullameno fare quest'altra: ciò
avviene perchè csaminata quella prima azione anche nelle sue conseguenze,
è tale che merita di essere posposta alla seconda. Noi facciamo adunque
tutte le volte quello che preferiamo. « Prendiamo un esempio: ucciderò io
o mon ucciderò? Mi si dice che se io scelgo d' uccidere, ho. coscienza
che io avrei potuto scegliere di astenermi; ma ho io coscienza che
avrei potuto astenermi, se la mia avversione pel delitto e i miei timori delle
sue conseguenze fossero stati più deboli della tentazione che mi spingeva
a commetterlo? Se io scelgo d’astenermi, in qual senso ho io coscienza
che avrei potuto commettere il delitto ? unicamente nel senso che avessi
desiderato di commetterlo con un desiderio più forte del mio orrore per
l'assassinio e non con uno menò forte ». Sicchè in ogni caso,
quando noi supponiamo che avremmo potuto fare altrimenti da quello che
abbiamo fatto, supponiamo sempre una differenza negli antecedenti (desiderio e
avversione) che soli hanno la potenza di determinare l'atto. E perciò il
testimonio della coscienza rettamente interpretato e inteso è anzi una
prova in favore del determinismo !. Si obbietterà, continua il
Mill, che resistendo a un x I Vedi per tutto questo,
Philosophie de Hamilton, p. 552-554. ERE PIA Rage
i era pt "Tae se
: i verte net teatri
I da Pa desiderio io ho coscienza di
fare uno sforzo, e se il desiderio dura lungo tempo, io sono per questo sforzo
così sensibilmente esaurito come dopo un esercizio fisico. A che la
coscienza di questo sforzo se la mia volontà fosse completamente
determinata dal desiderio presente più energico? Perchè il peso più forte
s'abbassi e il più leggero s’ innalzi, la bilancia non ha sforzi da
fare. Questo argomento, dice il Mill, si fonda tutto sulla falsa
credenza, che la lotta fra impulsi contrarii deva sempre decidersi in un
istante; e che l'impulso realmente più forte ottenga vittoria in un istante. Ma
questo non avviene neppure nella natura inanimata; l’uragano non
abbatte una casa e non rovescia un albero senza resistenza; la bilancia
stessa trema e i piatti oscillano alcuni istanti quando la differenza dei
pesi non sia grande. Egualmente nella vita dell'anima, dove l’intensità
delle forze morali che si combattono non è fissa A ma mutabile, dove non
c’è un istante solo in cui varie serie d’ idee non attraversino lo
spirito, aggiungendo vigore da una parte e togliendolo dall’altra, la
lotta fra i motivi contrarii non è decisa in un istante e può
durare anche lunghissimo tempo, e quando ha luogo fra sentimenti
violenti, esaurisce in una maniera straordinaria la forza nervosa. Ora la
coscienza dello sforzo di cui si parla è appunto la coscienza di questo
stato di conRR TASTE OR ha eee tra me ed una forza. es a di cui Io
trionfi, 0° i i wr NA: ha luogo tra me e me, i; DE È È a Fonzie un
piacere e 272 che temo i rimorsi «Giò S = Sosidero o, se voi amate
meglio, la mia O e È Sie: A un lato piuttosto che n l’altro, è 2a SanIchi
Seo i 3 » è che l’un rappresenta uno stato dei miei sentime
nente che non fa l’altro. Dopochè la vinta, il z7e che desidera finisce,
ma i o dei me tentazione l’ha l me di cui
la Nt più perma- DI, PE O 0 e e DI JOHN STUART
MILL 97 LAV cLoalesessacteapeastizecasaponeguestaa ssa tovepogg
esseeeposabponadsas aida r e sensei veg esa evo coca cover evi aerea ivicateei
spira coscienza èferita può durare fino alla fine della vita
». Non è vero adunque che la coscienza ci attesti che noi possiamo
agire contrariamente al desiderio più forte o all’ avversione più forte
che proviamo al momento dell’azione. L a differenza tra un uomo cattivo e
un uomo buono non consiste in ciò che quest’ ultimo agisca in
opposizione a’ suoi desiderii più forti, ma in ciò che il suo desiderio
di fare il bene e la sua avversione per il male siano forti abbastanza
per vincere, e, se la sua virtù è perfetta, per ridurre al silenzio ogni
altro desiderio e ogni altra avversione contraria. Di qui l'importanza
gran- ) dissima dell'educazione che agisce sulle avversioni € sui
desiderii, indebolendo e sradicando quelli che paiono più È adatti a
condurre al male, incoraggiando ed esaltando quegli altri che per
converso sembrano più adatti a condurre al bene!. ; L'ho detto
prima, queste osservazioni del Mill sono d’ una importanza capitale, e
così acute e profonde che aspirano a dare, si può dire, il colpo di
grazia al sistema della libertà. i A noi sia lecito fare
sparsamente qualche considerazione, non tanto collo scopo di infirmare quanto
ha ‘ detto l’ autore, quanto per mettere nella loro vera luce certi
fatti che ci paiono non esattamente apprezzati, € da cui si trassero
conseguenze non abbastanza giustifi- è cate. E prima di tutto ammettiamo
anche noi che, dopo aver deciso d’ agire in una certa maniera, la
coscienza ‘ci attesti che avremmo potuto decidere di agire altrimenti,
se l’avessimo preferito; ammettiamo per esempio, che dopo avere
deliberato. di uccidere una persona, abbiamo coscienza che avremmo potuto
deliberare di astenercene, se l’avessimo preferito, e in ogni caso che
non "x BE rit e ta po
LI? ALTE di sa ge ‘1 Vedi per tutto
questo, Philosophie de Hamilton, p. 354-550. G. Z. ) 7 I
avremmo potuto scegliere una cosa; pure preferendone ur. un’altra:
ammettiamo in altre parole che si.abbia sempre “a coscienza d'aver
potuto’ agire in una maniera diversa da quella in cui s'è agito, solo a
patto che ci fosse in e noi una serie d’antecedenti interni diversa da
quella che SÉ in realtà vi fu. - CORE _ Ma questo che prova?
Perchè provasse qualche cosa sun | in favore del determinismo, dovrebbe
questa serie di _D O antecedenti interni da cui dipende la nostra
preferenza i per una cosa piuttosto che per un'altra, stare da sè,
gi indipendentemente da noi, essersi introdotta in noi a nostra insaputa
e come di nascosto, press’ a poco come ‘E suol fare il ladro di notte.
Invece la cosa non è così; questi antecedenti interni non si sono formati
in noia H nostra insaputa, ma col nostro intervento e col nostro Di
consenso; al ladro si poteva dare ricetto o rigettarlo a % 1 nostra
volontà. O se si sono formati in noi a nostra insaputa, perchè
disposizioni organiche trasmesseci per eredità, o elementi acquisiti per
via di educazione, lo spirito nostro però non si comporta solo
passivamente di fronte a loro. Lo spirito non è una tavola rasa destinata
a ricevere unicamente le impressioni del mondo di fuori, non è un
semplice recipiente in cui si faccia una quantità di giochi meccanici e
nulla più; lo Spirito è anche attivo nello stesso tempo che passivo; ci
sono in lui elementi spontanei e primordiali che non devono essere
trascurati !. __ Lo Stuart Mill vorrebbe ridurre lo spirito a
un serie di stati interni attuali o possibili e a nulla più, senza
preoccuparsi se vi sia qualche cosa che li unisca © e a cui ineriscano;
ma in seguito alla considerazione VP A, Ti Ribot,
Psychologie anglaise contemporaine, all'articolo Al. Bain pag. 253. Cfr. Bain,
Les.emotions et la volonté, part. 2 2.
Cap. 1,° RR REATTORI III EAT che è una serie di stati
interni che conosce se stessa come passata e come futura, e che non
si potrebbe con cepire ad esempio una collana di perle, a cui fosse
; tolto il. filo che le unisce, è costretto ad ammettere i
qualche cosa di reale che leghi questi stati interni fra i loro,
qualche cosa di originale che non ha comunità di | natura con
nessun’ altra rispondente ai nostri nomi, € alla quale non possiamo
dare altro nome che il suo, il ì i ‘* Me! Ma questo qualche cosa, questo
Me che pure rico VO PAM. Pi ei = n (©)
sE z La “ ci x Wei vi 3
Le Gi noscete, e a cui date un'esistenza distinta e,sua
propria, altrettanto reale quanto gli stati interni medesimi, che
‘rimane in fondo se gli negate ogni elemento proprio € spontaneo, se gli
negate la capacità di dare una preferenza, o di formare o di regolare almeno
certi moventi ® interni da cui dipende la preferenza? Questo quid destinato
ad unire i nostri stati interni fra loro in maniera . da riconoscerli
come passati e futuri, è forse come il filo meccanico che unisce le perle
in una collana? ma il filo non riconosce le perle, e questo quid invece
riconosce gli stati interni; in grazia di che li riconosce? Conveniamo
anche noi col Mill che qui siamo dinanzi a quell’inesplicabile e a quel
misterioso, oltre il quale occhio umano non penetra; accettiamo anche noi
il fatto ine- ER splicabile senza perdersi a considerarne hi
1 Philosophie de Hamilton. DI MILL LII così dire, la
posizione; alla questione, se sia giustizia punire chi è determinato a
operare in un dato modo, ha sostituito quest'altra, se sia giustizia
punire chi non è determinato; ma queste non sono due tesi opposte
in maniera che provata l’una si deva rifiutare l’ altra. Il Mill
crede che non sia giustizia punire chi non è determinato, e sia pure; ma
con questo è detto che sia giustizia punire chi è determinato? La
questione è ancora insoluta. Ma riportiamo per intero il luogo del
Mill, per vedere quale concetto egli ha della giustizia. « Vi sono due
fini che nella teoria dei necessitarii bastano a giustificare il
castigo: il profitto che ne ritrae il colpevole stesso e la protezione
degli altri uomini. Il primo giustifica il castigo, perchè fare del bene a uno
non può essere fargli torto. Punirlo pel suo proprio bene, purchè colui
che inflisge la pena abbia un titolo a farsi giudice, non è più
ingiusto di fargli prendere un rimedio. Per ciò che riguarda il
delinquente, la teoria vuole che, controbilanciando l'influenza delle
tentazioni presenti o delle malvagie abitudini acquisite, la pena ristabilisca
nello spirito la preponderanza normale dell’ amore del bene... Nel
secondo rispetto, il castigo è una precauzione che la società prende per sua
propria difesa. Perchiè il castigo sia giusto bisogna solamente che lo
scopo che la società si propone sia giusto. Se la società se ne
serve per calpe stare i giusti diritti dei privati, il castigo è
ingiusto. Se se ne serve per proteggere i giusti diritti dei
cittadini contro un'aggressione ingiusta e criminosa, è giusto. Se
abbiamo dei diritti giusti (ciò che ritorna a dire che abbiamo dei diritti) non
può essere ingiusto difenderli. Con o senza libero arbitrio, la punizione
è giusta nella misura in cui è necessaria per raggiungere lo scopo
sociale, nella stessa maniera che è giusto; mettere una bestia
|a se è Apa di a deal; à
feroce a morte (senza infliggerle delle sofferenze inutili)
per proteggerci contro di essa»). Ecco, è comodo per uno scopo
particolare c in s0stegno d’una certa tesi attribuire ad una cosa quel significato
che meglio talenta; soltanto sta a vedere se per giustizia gli uomini
tutti quanti non întendano una cosa ben diversa da quella che qui intende
lo Stuart Mill. Chi ardisce chiamare giusta la punizione che si
infligge a una bestia feroce, soltanto perchè serve a proteggerci contro di
essa? Anzi si può veramente chiamarla punizione? Lo- Stuart Mill io
credo non prenda sul serio questa sua affermazione. Supponiamo, per un’
ipotesi impossibile a verificarsi, che un pazzo riconosciuto, in seguito
all'uccisione di due o tre persone, venga condannato a morte; lo Stuart
Mill per il primo protesterà contro questa sentenza e la chiamerà
ingiusta; e tuttavia, nella sua teoria, sarebbe il non plus ultra della
giustizia, poichè avrebbe appunto per iscopo di salvare la società dai furori
del pazzo. Il vero si è che a giustificare il castigo, a fare
che un castigo sia giusto non basta la protezione della società che si
ottiene per mezzo di esso, e neanche il profitto che ne ritrae il
colpevole; certamente e la protezione della società e il profitto che ne ritrae
il colpevole costituiscono come l’accompagnamento necessario del castigo;
certamente questi due scopi chi punisce si propone sempre € deve proporsi
di raggiungere; ma altra cosa me Si dir questo, e altra il
sostenere che questi due scopi giustifichino essi medesimi il
castigo. La giustizia del Di castigo sta in qualche cosa di
superiore e di più alto; sta i nel fatto che colui che lo subisce lo
merita, perchè, se avesse voluto, avrebbe potuto operare altrimenti; sta
son Philosophie de Hamilton, p. 563-564. i H RAR ST
Î da ber” DI MILL Seossassecesesioncontosesensanseanavassesssese
giagesesdasicninsscenierienvisnionneveenisiericeo ziativecensorcoscnespenesisooretteialezzonie
necessità di vendicare la moralità offesa, di ristabilire la calma
e l'armonia nelle coscienze. Im caso. contrario dov’ è la giustificazione del
castigo quando comecchessia venga a mancare e il profitto che ne ritrae
il colpevole e la protezione della società? Non sì sa che talvolta il
castigo, anzichè esercitare un'azione benefica sull’animo del colpevole,
anzichè inspirargli il desiderio di migliorarsi e di correggersi, lo
infiamma d'un odio atroce contro la società che lo ha punito, e gli
suscita pensieri di vendetta, sicchè alla prima occasione armerà la
mano omicida e farà strage di quelli ch’ ei reputa suoi nemici? In tal
caso il castigo è riuscito a ottenere un effetto precisamente opposto a
quello che nella dottrina del Mill costituisce la sua giustificazione;
in, tal caso è quindi ingiusto, e hanno fatto male gli uomini a infliggerlo.
Perciò vadano a rilento gli ùomini e ci pensino prima di infliggere un
castigo: se non è probabile che ne derivi il miglioramento del colpevole
e la protezione della società, non ne facciano niente, lascino
impunito il colpevole; sarebbe ingiustizia punirlo. Ancora si
potrebbe fare quest'altra osservazione al Mill. Voi parlate qua e là * di
premii e di castighi che si avranno da Dio in un’altra vita. Forsechè
anche i castighi di quest'altra vita avranno lo scopo di proteggere la società
e di recar vantaggi al colpevole migliorandolo? E assurda questa
supposizione : per ciò Dio non sarà giusto quando punisce, mancandogli
appunto ciò che giustifica la punizione. d Ma il Mill non si
dà per vinto. « A tutti coloro, egli dice, che pensano che la protezione
dei giusti diritti non basta a legittimare il castigo, io dimanderei com’
essi conciliino laloro idea di giustizia col castigo dei delitti
1 Philosophie de Hamilton, p. 565. 10 “lle
a ieri 1 int vos, pnt +e pre pron A «hi
e, tesi ont mie pati e pe TT i pero ciare e ea va eee IId4 prescritti
da una coscienza pervertita. Ravaillac e Balthazar Gerard non sono
riguardati come delinquenti, ma come martiri eroici. Se il loro supplizio
è stato giusto, il castigo non è giusto a causa dello stato di spirito
del delinquente, ma solamente perchè è un mezzo efficace per
raggiungere il fine che gli è proprio. E impossibile affermare la
giustizia del castigo dei delitti dettati dal fanatismo, se non si dice
ch’'esso è necessario per raggiungere uno scopo giusto. Se questo non è una giustificazione,
non ce n'è affatto. Tutte le altre giustificazioni imaginarie cadono
quando si applichino ai delitti del fanatismo-»!. Con questo il
Mill si crede aver posto al muro i suoi avversarii: ma noi gli
obbiettiamo coll’ Alexander ® che se i fanatici non sono colpevoli
nell'atto, sono però colpevoli nel pervertimento della coscienza che li
ha condotti al delitto; il che in fondo torna al medesimo. Sicchè la loro
punizione è giustificata non tanto dalla necessità di difendere la
società, quanto e più di tuttodalla loro colpabilità. Il vecchio
Aristotele distingueva molto giustamente. le azioni dagli abiti: delle azioni
siamo padroni dal principio fino alla fine; degli abiti soltanto in principio:
ciò non vuol dire però ch’essi non siano egualmente volontarii e non ne siamo
quindi responsabili perocchè appunto in sul principio ci era lecito
comportarci così o altrimenti 3. Del resto se il fanatico è divenuto tale
non per colpa sua, vale a dire se è vissuto in tal ambiente di perverse
influenze morali da non pote : assolutamente sottrarsene, € da scambiare
come COL scindibile dovere di coscienza il compimento di un’opera
1 Philosophie de Hamilton, p. 366. ; 2 Vedi
Philosophie de Hamilton, nota a p. È ; 566-367 5 Eth. Nic.
III. 5, $ 22, ediz. Susemihl, /*
abbominevole; se non ha potuto far uso della sua libertà, perchè fu una
sola la via che gli si indicò di seguire, € lo si tenne perfettamente
all’ oscuro sull’ esistenza di un’altra via diversa da quella ed opposta,
il castigo che gli s infligge è ingiusto, per quanti vantaggi sì
possano in questa maniera ottenere. Soltanto è molto difficile
determinare se il fanatico è divenuto tale per ragioni ;
indipendenti da lui, e quindi se il suo castigo è conforme o non conforme
a giustizia. Il Mill sostina a non voler considerare nel
castigo una retribuzione, e continua a sostenere che inflitto per
un’altra ragione che per agire sulla volontà del colpevole e per
proteggere i giusti diritti degli uomini, non è giustificabile. « Se si crede,
dice egli, che v'ha giustizia a infliggere delle sofferenze senza scopo,
che v' ha fra le due idee di ‘delitto e di castigo un’ affinità naturale
che fa 1 che dappertutto ove c' è delitto, è necessario che una
pena sia inflitta a modo di retribuzione, io confesso che non posso in
nessuna maniera giustificare il castigo inflitto in virtù di questo principio
»!. Eppure se v' ha giustificazione del castigo sta precisamente in
questo che il colpevole lo merita, e ch'è una retribuzione dovutagli. E
non è vero che considerato come retribuzione il castigo sia senza scopo;
gli è scopo la retribuzione medesima. Non si nega che. i il
castigo agisca ad un tempo sulla volontà del colpevole, e serva di protezione
alla società; ma solo a condizione che sia considerato una retribuzione,
questi due scopi potrà ottenerli: solo chi sappia d'aver meritato il
castigo potrà proporsi di emendarsi e correg= gersi. Che se invece il
castigo fosse dato al colpevole “non già perchè l’ha meritato, ma perchè
eserciti su di #E Pi, \ È Vai
4 Philosophie de Hamilton, p. 567.
III I SRI VEIL ile, Ps Pon. | la £- Leg jo afar eaeeneprearE PET
lui un'azione benefica e lo induca a correggersi, egli potrebbe
molto giustamente domandare se c'era proprio bisogno d’una punizione per
questo, o se non si avrebbe meglio ottenuto questo scopo, assegnandogli
un premio, una ricompensa. Sicuro, nella teoria del Mill, se il
punire, che val quanto fare del male a qualcheduno, non ha altra
giustificazione che il profitto che ne ritrae il colpevole stesso e ia
protezione della società, esso diventa un'enorme ingiustizia, in quanto
che questi due scopi si sarebbero potuti ottenere egualmente e meglio
col premiare, col ricompensare il colpevole. Il premio e la
ricompensa concessi al colpevole a patto che non operi più male,
avrebbero assai meglio del castigo agito sulla sua volontà nel senso del
bene, e quindi protetta la società da ogni ulteriore attacco di lui. Nè
vale il dire che in tal modo si offenderebbe quel sentimento
naturale di rappresaglia che ci porta a fare del male a chi ce ne
ha fatto, e che sebbene nulla abbia in se di morale, congiuntosi però coll’idea
del bene generale che lo limita, diventa il sentimento morale delle
giustizia. Il Mill che fa questa osservazione !, è in contraddizione con
se medesimo, e mostra di credere che la giustizia della punizione si fonda su
ben altre basi che su quelle che prima ha tentato di stabilire. Nè vale
il dire, come ancora fa il Mill*, che la pena è più forte del piacere e
che la punizione è infinitamente più efficace della ricompensa: e quanto POE il
seed dalla colpa, oichè la punizione: sola può produr iazioni i cui
Lon è di (E ARA pi a Ro condotta che ci espone ad essa, e di
fare un RO pa ripulsione sincera tutto ciò che torna di danno alla
i I Gfr. la nota a p. 563-565 della Philosophie de Hamilton, 3 2
Ibid. ” A = aied'uet bia ode è è ddl cale = Ti
PA i ii cin al Pie en ce a]
DI MILL 117 società. Anche la ricompensa data all’
astensione dalla colpa può produrre associazioni tanto forti da rendere
in ultimo amabile per se stessa appunto l’ astensione dalla colpa, e da
assicurare per tal modo a sufficienza la società dai possibili attacchi
dei malfattori, senza far male a chicchessia col castigo. Il castigo
adunque, giova ripeterlo, ha ben altra giustificazione che quella che
gli vorrebbe assegnare il Mill. Ma il Mill è troppo acuto e
profondo, c sovratutto troppo leale, per non vedere che tutti gli uomini
riguardano il castigo come una retribuzione, come una cosa dovuta a colui
che ha fallito. Egli cerca spiegare questo sentimento generale e
naturale, com'egli stesso lo chiama, in questa maniera. « Fin dalla
prima,infanzia l’idea della malvagia azione (vale a dire dell’azione
proibita, o dell’azione dannosa per gli altri) e l’idea di
punizione si presentano insieme al nostro spirito; e |’ intensità
delle impressioni fa che l'associazione che le lega ci offra il più alto
grado d’ intimità. E egli estraneo e contrario alle abitudini dello
spirito umano, che noi possiamo in queste circostanze conservare il
sentimento e dimenticare la ragione che gli serve di base? Ma perchè
parlare di dimenticanza? Il più delle volte, durante’la nostra
prima educazione, questa ragione non è stata presentata al nostro
spirito. Le sole idee che si sono presentate sono state quella del male e
quella della punizione, e una associazione inseparabile s'è creata fra di
esse direttamente senza il soccorso nè l’ intervento d’ un'altra idea.
Ciò basta pienamente perchè i sentimenti spontanei dell’ umanità considerino il
castigo e il malvagio come fatti l'uno per l’altro, come legati
naturalmente, indipendentemente da ogni conseguenza »!. 1
Philosophie de Hamilton, p. 568. È ue
tei dica VAI NT LI se Te ne 0 a
LL. Teme serzinta Sirtenpalizrenio nea Lot — DEI.
DETERMINISMO Riconosciamo la giustezza dell’ osservazione e l’acutezza
dell'analisi: domandiamo però se l'intima associazione fra il malvagio e il
castigo dipenda soltanto dall'esperienza, o se piuttosto l’esperienza non
abbia fatto che confermare e svolgere un sentimento già in noi
esistente allo stato di latenza, allo stato virtuale; di maniera che
l'intimità dell’associazione fra malvagio c castigo dipenda, più che da
altro, dal sentimento che anteriormente ad ogni esperienza ci porta ad
avversare il male. Se quello che si fa al di fuori non è, per così
dire, un'eco fedele di ciò che è dentro di noi, se la nostra natura non
consente a quello che si fa al di fuori, è impossibile che si
stabiliscano intime e forti associazioni, come è impossibile ad esempio che
l'educazione - artistica crei il senso del bello, o l'educazione
del palato quello del gusto in chi ne sia per natura sprovvisto.
Insomma noi non siamo una tavola rasa, com' era opinione del buon
Condillac, ma c'è in noi una spontaneità naturale, come del resto riconosce
anche il Bain!. i Ma lo spirito di sistema la cede in ultimo
al sentimento della verità, che finisce col prevalere in tutti quanti e
coll'imporsi anche agli uomini più attaccati ai sistemi. Perciò leggiamo
nel Mill le seguenti parole: « Si dice che colui che ammette la teoria
della necessità deve sentir l'ingiustizia delle punizioni che gli
s'infliggono per le sue cattive azioni. Ciò mi pare una chimera 3 ciò
sarebbe vero, s'egli 20n potesse realmente impedirsi d’agire come ha
fatto, vale a dire se l’azione ch'egli ha fatto non dipendesse dalla sua
volontà, s' egli fosse sottoposto a un costringimento fisico, o s°
egli 1 Vedi Ribot, Psychologie anglaise contemporaine, artic. Bain: e ° . Ù Baîn,
Les emotions et la volonté part. 2, cap. 1. +
: x Ue Ri ui
na Da ; DI MILI. 119
sisneraanzesaiezazeza»eozeraneezi masnzananasenanazazee asia ranisaezenazeonaeesaazionivssia
sie iveeisiizcatezeo subisse l’impero d'un motivo così violento
che nessun timore di castigo potesse avere effetto »!. Come si vede, lo Stuart Mill ritorna alla sua prediletta
teoria della causazione, per cui la causa non costringe ad essere l’effetto, e
che, applicata allo spirito umano, gli lascia una parte di libertà: ma
non è egli in contraddizione con tutto quanto ha detto precedentemente ?
Non è\giustizia punire uno s'egli non può realmente impedirsi d’agire come ha
agito, se in altre parole non è libero nelle sue azioni: che mi
venivate dunque a dire poco fa che la giustizia è affatto indipendente
dall’esser l’uomo libero o° non libero, che è anzi concepibile colle
forme più esagerate del fatalismo ? D'altra parte questa libertà esiste o
non esiste? in questo luogo pare che voi l’ ammettiate. È Ma
il Mill continua: « Se però il delinquente fosse in uno stato in cui il
timore del castigo potesse agire su di lui, non v’' ha obbiezione
metafisica che possa, a mio avviso, fargli trovare il suo castigo
ingiusto »?. Ecco qui un nuovo elemento per determinare quando un castigo
è giusto od ingiusto, il timore del castigo medesimo; sc il delinquente non era
per modo dominato da motivi contrari che in lui poteva agire il timor del
castigo, c tuttavia non ha agito, è giusto punirlo. Si domanda
prima perchè il timor del castigo non ha agito sul delinquente, benchè i
motivi contrarii non fossero tanto forti da impedirgli-di agire, anzi
essendo addirittura più deboli. Se in ogni caso la vittoria rimane.
sempre al motivo più forte, dovea ciò verificarsi anche questa volta:
perchè non s' è verificato? Allo Stuart Mill la risposta, che non può
essere certamente favorevole 1 Philosophie de Hamilton, p.
509: 2 Ibid. “la “de = alla sua tesi
deterministica. Ma lasciando da parte questo, perchè dovrebbe il timor
del castigo costituire come il criterio con cui giudicare del merito o
del demerito di una persona, e quindi della giustizia o non giustizia
della sua punizione ? Se per un’ ipotesi, ch'io non credo impossibile a
verificarsi, ci fosse uno affatto insensibile al timor del castigo, come
dovrebbe la società regolarsi a suo riguardo? Il punirlo sarebbe in ogni
caso ingiustizia. Evidentemente però qui il Mill ritorna alla sua tesi
favorita che non sarebbe giustizia punire chi non è determinato da
motivi, dovendo appunto il castigo considerarsi come un motivo, che agisce nel
senso di far astenere dalla colpa. Riassumendo, mi pare di
poter sostenere a buon diritto che il castigo non si può infliggere con
giustizia, se non a patto che chi delinque avesse potuto anche non
delinquere, e qualunque giustificazione si cerchi di esso al di fuori
della libertà è affatto illusoria. IV. « Ogni
dottrina, opera sincera del pensiero umano deve contenere una parte di
verità. Criticare è semplicemente mostrare che questa parte della verità non
è il tutto; la critica non è che il limite imposto della ragione ai
sistemi, che sono essi stessi limitati dalle cose Fissando così il punto
dove s'è arrestato lo sforzo del l’ intelligenza, la critica fissa
precisamente il punto che l'intelligenza deve oltrepassare; essa le apre
un novello spazio al di là di quello che avea di già percorso: in
‘una parola, essa ingrandisce l'orizzonte intellettuale che .S 1‘
‘ro tm (A eil È E La i
È È DI MILL 12I un sistema avea
voluto ricondurre alle sue proporzioni sempre troppo strette »!.
Queste belle e assennate parole che il Guyau premette alla sua
acuta critica della Morale inglese contemporanea, abbiamo fatto nostre perchè
ci parve si potessero a rigore applicare alla critica nostra del sistema
deterministico del Mill. La conclusione a cui vogliamo arrivare,
nell'esame di questo sistema, non è già che in esso non ci sia nulla
di vero; una parte di vero c'è: soltanto questa parte vera ha bisogno di
essere sceverata e distinta da tutte le altre che non lo sono, ha bisogno
di essere presentata spoglia di tutto il fattizio e l’appiccaticcio che
le ha fatto perdere la sua vera fisionomia. E prima di tutto
è grande merito del Mill l'aver lasciato in disparte il fatalismo puro,
il fatalismo fisico, per cui l’uomo non è niente e dipende
interamente dal mondo di fuori, e il fatalismo modificato
dell'Ovven per cui l’uomo è forzato dalla sua costituzione originaria o
modificata dalle circostanze esterne, a ricevere i suoi sentimenti e le
sue convinzioni indipendentemente dalla sua volontà, sentimenti e convinzioni
che creano poi il motivo d'azione e spingono all’azione %; e
l'avere invece introdotto un determinismo che direi psicologico ed
intimo, per cui la volontà dell’uomo non è lettera morta, ma contribuisce
indirettamente alla modificazione e anche alla formazione del carattere,
potendo mettere in opera i motivi che sono necessarii a tal uopo?,
e collocarci in circostanze adatte e convenienti 4. In questa maniera lo
Stuart Mill è riuscito a dare all'uomo una 1 Guyau, La Morale
anglaise contemporaine, p. 185. 2 Guyau, op. cit. p. 65-66. 5 Philosophie de
Hamilton, p. 571. 4 Logique ecc. vol. 2. p. 424. P ? 1% a È :
3 ne me - o-- ao du re rn ua rientro PRPPPPEFETITITILITIITTLILILZA]
specie di personalità; perocchè quando l’uomo può comecchessia
modificare e anche formare il suo carattere, non è già un automa
cosciente, uno: spettatore inerte d’azioni in cui egli non abbia alcun
potere, e che per conseguenza a torto s*attribuisce, come avviene nel
fatalismo puro e nel fatalismo modificato; ma un me, una persona che può
dire con qualche diritto sue le azioni che si compiono dentro di lui. E
ben vero che questa specie di potere autonomo, che lo Stuart Mill concede
alla volontà, diventa poi illusorio, quando facendo la genesi della
volontà stessa dice che dipende in ultimo dal desiderio, il quale è formato per
noi e non da noi, il quale insomma è fatale; ma è vero anche che qua e là
fa capire che se il desiderio non è formato da noi, noi possiamo
però metterci in tali circostanze che sieno adatte a far nascere questo
desiderio!; con che riconosce ancora indirettamente una specie di potere
autonomo esistente in roi. Insomma la parte vera del sistema
deterministico del Mill è ta seguente. Noi operiamo sempre sotto l’influenza
di certi motivi; non sarebbe altrimenti cieco e irragionevole il nostro
operare? Devesi dire che il me, risolvendosi dopo un esame, lo fa senza
tener conto dei motivi, e che è come un giudice il quale, dopo aver
sentito le ragioni dell’una e dell’altra parte contendente, pronuncia una
sentenza arbitraria dimenticando le ragioni invocate dalle due parti? Una
sentenza di tal fatta è cieca ed iniqua nella stessa maniera che
l’operare senza motivi non è d'uomo ragionevole, ma folle e pazzo.
Il motivo però, come causa d'azione, non è differente da tutte le
altre cause del mondo fisico, vale a dire non è un tale antecedente che
costringa ad essere il conseguente I Vedi il fine della parte 2.
di questo lavoro. DI MILL I tw 2
09 in una maniera irresistibile; non esercita insomma sul
conseguente una coazione di tal fatta che, posto l’uno, si debba porre di
necessità l° altro. Il motivo agisce sulla volizione, ma non la determina
di necessità; noi non siamo sforzati ad obbedire a un motivo
particolare, anzi sentiamo che se lo desiderassimo abbiamo il
potere di resistere al motivo !; il costringimeuto necessario €
irresistibile che, secondo alcuni, il motivo esercita sulla volizione, è
respinto dalla coscienza e rivolta i rfostri sentimenti?. Due cose
adunque sono notevoli nelle azioni degli uomini, i motivi c la volontà;
la volontà non si induce mai ad operare senza motivo; ma non per
questo il motivo ha tal forza da soggiogarla affatto e da ridurla
:n condizione di non potere resistergli, se occorra: due forze si agitano
nell'anima degli uomini, l’una cieca € ‘incosciente il motivo, l’altra
intelligente e cosciente, la volontà; la quale ultima lascia agire su lei
la prima e talora la mette in opera essa stessa per uno scopo determinato
?. Questa dottrina che fa, per così dire, capolino dalle
frequenti professioni di fede deterministica che fa il Mill, e .che forse
gli è sfuggita contro il suo stesso volere, è la parte sana e vera del
suo sistema. Soltanto questa dottrina è conforme al punto di vista a cui
egli s' è messo, o non è piuttosto in perfetta contraddizione con
esso, e non -si deve quindi considerare come una specie d’intruso che,
entrato a forza nella casa del Mill, vi rimane, pure ad onta della gran voglia
del padrone di liberarsene? E in realtà quella specie di potere
autonomo 1 Logique ecc, vol. 2. p. 420. Vedi la parte 2. di questo
lavoro. 2 Logique ecc. vol. 2. p. 420. 5 Philosophie de
Hamilton, p. 571. € Sarà giusto mettere in opera dei motivi che ci
necessiteranno a fare i nostri sforzi eco. » rea BI,
de A i OO Ln N ENI A cati pere DEI DETERMINISMO che,
secondo quanto abbiamo esposto precedentemente, pur attraverso a una
quantità di dubbii e di contraddizioni, pare "le Stuart Mill voglia
concedere alla volontà, svanisce là dove parlando della volontà come
causa, la considera nè più nè meno che una causa fenomenica, un antecedente a
cui tien dietro invariabilmente un conseguente, non già un antecedente
che produca, che efficiat, per dirlo alla latina, il conseguente,
una causa nel senso in cui si dice che i fenomeni fisici sono causa
gli uni degli altri, nel senso in cui il freddo è causa del ghiaccio e la
scintilla dell’ esplosione della polvere, una causa cieca e meccanica
insomma !. Si potrebbe domandare a questo punto come avvenga che una
causa cieca e meccanica possa mettere in opera dei motivi e resistere ai
motivi, se occorra, come pure il Mill afferma in altro luogo; ma è una
delle solite contraddizioni del Mill, di cui non terremo conto.
Evidentemente la dottrina per cui la volontà è considerata come causa
fenomenica, come uno stato di spirito a cui tien dietro un certo
movimento delle nostre membra conforme ad esso *, e null'altro, è
intimamente connessa coll’altra dottrina, per cui il Mill considera
lo spirito come una serie di stati di coscienza, come una possibilità
permanente di sentimenti e nulla più, senza preoccuparsi se ci sia
qualche cosa d’uno e di identico a cui questi stati di coscienza e questi
sentimenti si riferiscano, se ci sia un substratum che serv loro di
sostegno?. Nell’una e nell’altra teoria è l’empirismo, il fenomenismo puro che
prevale: in noi c'è una serie di fenomeni che si succedono e si
connettono a ! Logique ecc. vol. 1. p. 393. 2 Logique ecc. vol. 1.
p. 393. Philosophie de Hamilton, p. 227 e seg. (2) DI MILI. 125 insieme con cert
ordine e regolarità; uno di questi fenomeni è la volizione; un altro l’azione
che le tien dietro: si dice volgarmente che l'uno è causa dell'altro; ma
in realtà sono due fenomeni campati in aria, la cui produzione è dovuta a
nessuno, che non hanno altro legame fra loro che quello d’ una
successione uniforme, e che insieme cogli altri contribuiscono a formare
quella serie di stati interni che dicesi spirito. Come si vede, con
una simile dottrina la personalità umana sparisce e non si capisce
come l' uomo possa dir suoi i varii fatti che succedono dentro di
lui. Insomma e per concludere, ci pare di poter dire che nel
sistema deterministico del Mill ci sono come due correnti opposte, che
vorrebbero confondersi, sparire l'una nell'altra, ma che mai non ci
riescono; luna per cui l’autore è indotto a concedere all'uomo una personalità
purchessia, e lo fa in qualche maniera padrone de’ suoi atti fornendolo
«d'una certa libertà; l’altra per cui questa personalità gli è negata
aflatto, e il suo spirito si riduce a una serie di stati di coscienza e
di sentimenti e a nulla più, e le sue azioni si fanno dipendere da motivi
che non sono lui e che non sono posti da lui. Poteva il Mill far
procedere insieme e confuse l'una nell'altra queste due correnti di
natura così opposta, anche adoperando la forza e la violenza? Non lo poteva
sicuramente ; e di qui la ragione per cui il suo sistema s' avvolge
in tante e così aperte contraddizioni. L' abbiamo detto fin
dapprincipio; noi amiamo le posizioni chiare e nette, e avremmo preferito
nel Mill un determinismo veramente determinismo, un determinismo
conseguente a se stesso fino alla fine, a un sistema che.non è
determinismo, nè libertà, ma che tiene dell'uno e dell'altra. Il Mill per
tal modo non è riuscito ad accontentare nè i veri deterministi, nè i veri
sostenitori della libertà; la migliore DEL DETERMINISMO
posizione non era in questo caso quella di mezzo. ln ogni modo è
notevole, e merita che se ne tenga il massimo conto, il tentativo fatto
da uno dei più grandi filosofi positivisti contemporanei, di accostarsi più e
più alle vedute della scuola contraria, e di prendere da essa quello
che ha di buono e di vero, e d’innestarlo sul grand’ albero del
positivismo. E di buon augurio che le due scuole s'accostino e si
studiino a vicenda; lo spirito d' esclusione e di sistema non può che
nuocere agli interessi della scienza. e n Pat
eran SRP e . FA Succede delle
dottrine e degli studii quello stesso che d’ogni altra istituzione e
costumanza; in voga e in fiore in un certo periodo di tempo, vengono poi,
in un periodo successivo, trascurati e quasi dimenticati; anzi
talora è tanto maggiore la trascuranza e la dimenticanza, quanto era
prima più grande la stima e il favore in cui erano tenuti dall’
universale. Oggidì è invalso il vezzo di pigliarsela con
qualsiasi speculazione, anzi con qualsiasi idea addirittura, Il
fatto, ecco quello di cui devesi occupare lo scienziato che sia
degno di questo nome; l’esperienza, ecco il metodo che egli deve
adoperare; tutto il resto è fantasia di cervelli ammalati, è metafisica.
L° idea dev’ essere bandita da qua- | lunque parte; dalla scienza,
dall'arte, dalla vita pratica. Giovani egregi, comprendo
perfettamente la reazione a quell’ idealismo assoluto che pretende
foggiare l’ universo a suo modo, e serrarne € disserrarne le porte colla
sola chiave dell'idea; comprendo la guerra a quelle immani costruzioni a
priori, che se fanno testimonianza dell'ingegno e del genio di chi le ha
fatte, non hanno però colla realtà alcun rapporto, e sono, come i
castelli G. Z. 9 incantati dell’
Ariosto, campate nell'aria; ma non com prendo questo bando totale
dell'idea, questo dominio ssclusivo ed assoluto del fatto, quasi
che tra fatto e idea vi fosse dualismo inconciliabile, e dove
è l'uno non po tesse star l’altra, e lo spirito umano fosse
perpetuamente dannato o a rinchiudersi nelle angustie e nelle
strettoie dei fatti, o a spaziare nei campi dell'ideale, senza
mai, nel primo caso, aspirare a qualche cosa di più alto, e,
nel secondo, scendere terra terra e trovarsi a contatto della
realtà vera. Seguace di quel metodo critico che, iniziato dal
Kant, ha oggi in Germania, in Francia e anche in Italia illustri
rappresentanti, io non sono nè positivista, nè idealista; non voglio il
dominio esclusivo dei fatti, nè quello esclusivo delle idee; credo che e nella
scienza e nell'arte e nella vita i fatti come le idee non siano che un
aspetto della realtà: la realtà nella sua interezza sta nella
fusione dei due elementi. E in verità, per incominciare dalla
scienza, i fatti bastano da soli a costituire la scienza? Ecco l’
esagerazione in cui cadono i sostenitori dei fatti e dell'esperienza
ad ogni costo. L'esperienza pura e semplice, i puri e nudi fatti
non bastano. Anche il più rigido positivista è costretto a cercarne una
spiegazione, e per ciò stesso li vaglia, li interpreta e a suo modo li
trasforma, E questo lavoro di trasformazione, checchè se ne dica, non è
possibile senza una luce che illumini i fatti, senza uno spirito che li
vivifichi, senza un elemento subbiettivo e speculativo che domini e diriga
l'indagine empirica. Il Kant aveva ragione quando diceva che l'indagine
speculativa deve portare innanzi all'indagine empirica la fiaccola
che illumina (die leuchtende fackel vortragen); e il Bruno” egualmente
quando diceva che «a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la regione di cose
corporee ». N FATTI E IDEE PASSI RR REIT III III O
Provatevi, ad esempio, a costruire la storia della umanità coi semplici e
nudi fatti, colla semplice e nuda esperienza. Che cosa-ne uscirà?
Nient'altro che un catalogo e una cronaca, senza nesso € legame
interiore, senza ordinamento e organamento di sorta, scheletro nudo
a cui mancano le polpe ed i nervi ed i muscoli. Date anima invece a
questa materia morta, penetrate lo spirito che v'è dentro, e di sotto
alle varie accidentalità strane e bizzarre sotto cui vi si presentano i
fatti, afferrate quello che hanno di sostanziale, di sotto al mutabile e
al transeunte l’immutabile e il durevole, di sotto a quello che è vero
soltanto in un punto del tempo e dello spazio, quello che è vero sempre
senza limiti di tempo e di spazio; e avrete la storia vera e propria,
coi suoi nessi di causa ed effetto, colle sue leggi, colle sue
idealità ; la storia scientifica, risultante insieme di fatti e di idee,
di realtà e di pensiero. Il semplice prammatismo non vale a farci comprendere
la vita storica della umanità. I fatti sono come la tela che non si può
concepire senza una trama precedente di idee e di principii; sono come un
processo, uno svolgimento, che non si può concepire senza qualche cosa
che sì svolga. E non soltanto questo avviene nella storia, ma
nelle scienze stesse naturali, dove pure l'osservazione e l’esperienza
sono come al loro posto. Anche la natura ha una vita sua propria, uno
spirito che la vivifica, leggi e principii, un contenuto interiore
ideale, che va svolgendosi nei fatti e coi fatti, e che bisogna ricercare néi
fatti. Quei naturalisti che ostentano un superbo fastidio
della speculazione filosofica, e vanno gridando fatti, fatti, esperienza,
esperienza, dimenticano troppo facilmente che il fondatore del
metodo sperimentale, Galilei, racco-, mandava non si dovesse mai
disgiungere l’idea razionale dalla ricerca del fatto; dimenticano che
oggidì i più ode Ydonkt ii, grandi scienziati
forestieri sono anche insigni filosofi; bastino per tutti i nomi dell’
Helmholtz, “del DuboisReymond, del Wundt e di quello Spencer, che io chiamerei
il Metafisico del naturalismo, per mostrare non essere inconciliabili i
concetti espressi dai due nomi; dimenticano finalmente che nella stessa
vostra Torino una schiera animosa di scienziati, con a capo l’
illustre Morselli, propugna con ardore l'unione della scienza colla
filosofia, dell'indagine empirica colla speculazione filosofica !.
Attendete un po’, egregi giovani; tutte le ipotesi con cui si cerca
di penetrare « Sue enorme mister t] { Vedi
specialmente La filosofia monistica in Italia, nella Rivista di filosofia
scientifica, vol. 6, anno 1887, dove il Morselli combatte strenuamente per la
vittoria del metodo sper imentale e la definitiva congiunzione della fi
ilosofia e della scienza anche in Italia, p. « La scienza, scrive
il Morselli nell'articolo accennato, non i essere una nuda e povera
raccolta di fatti senza nesso logico e senza valore concettuale; sono le
idee.... e non i fatti che costituiscono l'edificio armonico del sapere.... Due
soli ‘scopi ha il sapere: da conoscenza ben diretta ed ordinata dei
fenomeni, ossia la coltura; e l'applicazione di questa conoscenza al
soddisfacimento dei bisogni umani, ossia l'utile sociale. Restringere il
sapere a questo solo secondo scopo sarebbe avvilire la ragione umana e
trasformare la ricerca scientifica in mestiere professionale», p.3.5- E
ancora: « Scienza e filosofia, secondo noi, continuano e passano
insensibilmente l' una nell'altra: esse sono due aspetti, non opposti,
neppur paralleli, ma successivi dell'umano pensiero, che. incomincia
dall'osservazione e dall’ esperimento e assorge te; sa loro mezzo, al
concetto generale, alla teoria ed all'ipotesi », p. Un valoroso
propugnatore dell’unione della scienza I filosofia ca anche Camillo De
Meis. Vedasi specialmente il suo discorso i inaugura per l' ‘apertura
degli studi nell’ Università di Bologna nell’anno 1886, che ha per titolo:
Darwin e la scienza moderna. FATTI E IDEL dell’ universo », a cominciare
da quella sovrana dell’ evoluzione, si può sostenere sul serio che siano un
semplice risultato dell’osservazione; o non l’oltrepassano invece
di gran lunga? Le stesse leggi fondate esclusivamente sull'esperienza e
sui fatti e risultato genuino di essi, s non comprendono in sc, a rigore,
un elemento che li Wfnassedaulo mette tai trascende? L'essere del fatto
non si esaurisce tutto | Ta . . DUI quanto nel suo eterno Hluire;
la varietà, la molteplicità meccanica dei fatti accenna alla persistenza
e all'unità vivente della legge, dell'idea in cui si muovono; e
questa legge, e quest idea è la nostra mente che la scopre. Adunque
che si parli di esperienza e di fatti sta bene: noi pure vogliamo
l’esperienza ed i fatti, e siamo persuasi che al di fuori di questi non
vi sia salute. Ma non si creda che quando si è detto esperienza e
fatti, si abbia detto tutto: l’esperienza e il fatto è il materiale
greggio, che la nostra mente divino artefice, vivifica e trasforma nella
statua sublime di Fidia. Espe- Esputeura tienza e speculazione si diano
quindi la mano © si Veeete fe conciliimo; non esperienza sola, nè
speculazione sola: la prima, scompagnata dalla seconda, fa degli uomini
Ter pi (Cos) che non vedono un palmo più in là del loro nasoj
Segnaferi la seconda, scompagnata dalla prima, dei sognatori € È
nient'altro che sognatori. i Intanto però gran parte degli scienziati
italiani, © anche i più dotti, anche quelli che largamente contribuiscono
col loro ingegno e colle loro scoperte all’avanzamento del sapere, rifuggono
d’ordinario da ogni questione generale, da ogni questione che accenni ap-
n pena-a sollevarsi dalla cerchia dei fatti; e s' attengono î di
proposito al più rigido ed esclusivo sperimentalismo a meccanico. Le
discipline “scientifiche che non si propon= i gano ad oggetto fatti
palpabili e materiali, sono per lo meno loro sospette: la psicologia, l'
etica, la logica, la FATTI E IDEE sociologia, la biologia
generale sono metafisica larvata, roba da lasciare che se ne occupi chi
ha del tempo da perdere. È una condizione di cose, che se può essere spicgata
coll’avversione che inspira naturalmente una filosofia fantastica,
subbiettiva, nemica dell’ esperienza, quale regnò gran tempo in Italia,
non cessa di essere deplo revole; perocchè, per questa via, si rendono
impossibili le sintesi alte e geniali, onde sono così altamente cele
brati gli scienziati forestieri, e viene di moda un positivismo empirico e
grossolano « che finisce coll’ essere « L’ Idealismo può essere
vuoto, osserva con acutezza il Fiorentino, di cui mi piace riportar qui
la splendida pagina ?, il Positivismo può essere cieco, se scompagnati
l’uno dall'altro, secondo il giudizio che Kant portava del puro concetto
e della nuda intuizione. Un'idea la quale non si verifichi, e non trovi
riscontro nei fatti, non è un'idea, ma una fantasticheria: un fatto, il
quale non s'incardini in un'idea, non esprima una ragione, non dia
indizio di una legge, non serve assolutamente a nulla, e stando anche ai
dettami più rigidi del Positivismo, è condannevole perchè inutile. Ciò
che irradia il fatto è l’idea che vi splende dentro, che lo solleva dalla
sfera 1 Morsetti, La filosofia monistica in Italia, p. 34.
L'Italia, scrive il Morselli, non ha nessuna di quelle individualità
eminenti, « che passano dall'esame sperimentale dei fatti alle più alte e
generali considerazioni sintetiche; noi non possediamo nessuno scienziato
pensatore da porre accanto ad Helmholtz, Virchow, Meyer, Dubois -
Reymond, Lyell, CI. Bernard, Wundt, Ch. Darwin, Mandsley, Haeckel, W.
Ton son, Crookes, Wallace, Draper, Berthelot, Hirn e altrettali
illustrazioni della filosofia scientifica nel resto del mondo civile »,
P:035: 2 FioRENTINO, Positivismo e Idealismo nel Giornale napoletano
di filosofia e lettere ecc. FATUVI E IDEE 135 del mero accidente a
quella della realtà durevole. Quante lampade non erano oscillate al
mondo, prima di quella che nel Duomo di Pisa colpì l’attenzione del
giovane Galilei! Chi se n'era accorto? Chi se n'era ricordato? Chi
se n'era giovato? Ed a che era servita quella oscillazione prima che il grande
pisano non ne cavasse le leggi del pendolo? L’affettato disdegno per le
idee, la più affettata curiosità di fatti slegati, affastellati in immani
congerie, senza lume ideale, senza quel riposto riscontro, ch'è la
parte divinatrice e geniale del metodo: induttivo, potrà far
maravigliare gli sciocchi, ma non soddisferà certo la mente degli uomini
assennati, Oggidi intanto ai costruttori instancabili di sistemi son
sottentrati i compilatori instancabili di cataloghi: prima ci soffocavano le
deduzioni da un presupposto qualunque, ora ci annoiano a morte i
registratori di varietà e di aneddoti. Qui è l’ugna d'una scimia, 0 la
coda d'un pesce, o la forma d’un utensile preistorico, che tiene il posto
delle risibili argomentazioni, con cui il Cremonini combatteva il
Galilei, e dava ragione ad Aristotele. In me risvegliano lo stesso senso
di fastidio e quelli che credono di spiegar tutto con la portentosa
fecondità dell'idea, e gli altri, che stimano di aver in pugno la chiave
che disserra ogni nascondiglio della natura e dello spirito, solo perchè
hanno fatto incetta e registro di curiosità e di aneddoti ».
Giovani egregi, non vorrei essere franteso e si credesse per avventura ch'io
non avessi nella debita con-. siderazione quei raccoglitori pazienti e
diligenti di fatti, di cui abbonda: quasi ogni ramo: del sapere. To so
bene che l'errore nella sintesi dipende in gran parte da analisi
affrettate c insufficienti, e quindi non è mai raccomandata abbastanza la
pazienza e la diligenza nella raccolta dei ‘ materiali su cui la sintesi
possa essere costruita. Ma si? modus in rebusi la pazienza e' la
diligenza non deve = eye cir i Spi ant ardita
cata mai degenerare in pedanteria: le analisi
minuziose, pedantesche, le analisi che si estendono a fatti di nessuna
importanza, talvolta puerili, praticate più spesso per soddisfare una vana
curiosità che l’amore vero del sapere. le analisi grette senza lume
superiore che le guidi, anzichè utili, sono perniciose alla scienza.
C° è in Germania una strana tendenza ad andare in cerca di tutte le
minuzie più insignificanti, e le riviste vi consacrano le loro
Mischellen, e talora perfino, le due Philologische Wochenschriften di
Berlino per esempio, danno loro il posto precipuo. Il sapere in pillole,
in frammenti, a bocconcini, perchè non riesca indigesto a chi l’
ingoia, non è solo la tendenza di pochi spiriti angusti di Germania: nel nostro
paese si fa altrettanto; e non c'è niente di più esiziale: la scienza è
sistema di verità fortemente e indissolubilmente unite, e chi mira
comecchessia a rompere questa unità, mira con ciò stesso a distruggere la
scienza. II Ed ora dalla scienza permettetemi, o
giovani, ch'io scenda, o salga, a vostro piacimento, in un mondo
meno severo, più ameno, più accessibile ai più, il mondo del-
l’arte, dove l’idea pare come a suo posto, e più frequenti e meno
lamentati gli strappi alla realtà. Si discute e s'è discusso a lungo
intorno al fine È) . î j = DEC dell’arte: chi le diede per fine il
buono, chi il vero, chi un fine patriottico, chi un fine
religioso: pochi pensarono. al nome, ricco di significazione
profonda, che diedero gli antichi alle arti belle. Gli antichi le
chiamavano artes ERA N AR et SIM rey deiia
de RE OT RR VIZI NO RA TT A Sg TIT PE I CR POT:
Erri è Le for det VU de è e
Kantiana, l’azzività unitiva dello spirito e 2£ È condo cui
si svolge; sebbene quest attività e queste me leggi non entrino in gioco
qualora la sensazione non | ur. fornisca il molteplice che si deve raccogliere
e unifi- È. Bi; care. In questo sta la vera interpretazione del preteso
3 *& innatismo Kantiano, e i più autorevoli interpreti del ue
e. Kant, l' Erdmann, il Cohen, il Riehl, lo Spaventa, sono Di o di
quest'avviso!. S Inteso così l'a priori del Kant, si può vedere facilda
mente come tutta la psicologia tedesca moderna, la d nativistica non meno
che la genetica, anzi la genetica con più diritto della
nativistica, si riconnetta alla dottrina n° del filosofo di Kunisberg.
E è 2, Ho detto la genelica con più diritto della nazivistica; SY
“SR perocchè, se non si può negare che la dottrina Kantiana pi
esercitasse storicamente una larga influenza sul nazivismo = fisiologico
di Giovanni Muller, dell’ Hering e dello È Stumpf, gli è certo però che
quest influenza era dovuta 2 a un’inesatta interpretazione dell’ a priori
Kantiano. Infatti, per quanto riguarda la questione dello spazio, i
nativisti, al dire dell’ Hemholtz, « attribuiscono la localizzazione delle
impressioni nel campo della visione ad una disposizione innata, sia che
l’anima abbia una conoscenza diretta delle dimensioni della retina, sia
che l’ eccitazione delle fibre nervose dia luogo a certe rappresentazioni
di spazio mercè un meccanismo prestabilito ». Quindi non tengono conto dello
sviluppo degli atti psichici necessario alla formazione della nozione
di L n 1 Vedi il bell’ articolo del Chiappelli, di
cui abbiamo fatto Sh nostro pro, « Aant e la Psicologia contemporanea »
nel Giornale napoletano di Filosofia e Lettere ecc. anno Il. vol. IV.,
specialmente Ss ; ‘pag: 208-209; fascicolo del novembre 18$0.
"el e spazio; la nozione di spazio non è per loro un
prodotto dell’ esperienza, è anteriore all'esperienza; tutte le sensazioni
sono necessariamente sottoposte alla nozione di spazio per modo che non è
possibile concepirne una sola ‘che ne sia fuori; lo spazio deve
preesistere alla singola sensazione, e la localizzazione di questa
dev’ essere l'effetto d'un’ intuizione immediata!. Qui abbiamo
l’innatismo nel più largo senso della parola; che però è da credere
non Soffre al vero spirito della filosofia Kantiana, la quale presuppone
e richiede lo sviluppo fisio-psicologico della rappresentazione di spazio
*. La scuola genetica per contrario sostiene che la nozione di
spazio si acquista appunto per uno svolgimento fisio-psicologico, per un
lento processo, di associazione di singole sensazioni; sebbene questo
processo non sia un semplice risultato dell’esperienza, non sia un’ processo
puramente meccanico, bensì abbia luogo in forza di un principio dinamico,
d’ un' attività sintetica che segue nel suo svolgimento certe leggi. La
scuola genetica riconosce che « non è possibile porre in serie
diverse sensazioni, e più ancora associare le serie delle sensazioni
tattili e visive coi sentimenti muscolari e d’inner- vazione,
senza una funzione dello spirito che elabori i dati. sperimentali
»3. Qui c’ è evidentemente l° influenza della dottrina Kantiana dell'a
priori; poichè questo non è in fondo, come s'è detto, altra cosa che
l’attività sin- tetica dello spirito che s'applica al materiale offerto
dalla esperienza. 1 Cfr. Tarantino « Kant e la
Filosofia contemporanea » nel Giornale napoletano di Filosofia e Lettere
ecc. anno II, vol. III, fa- scicolo del luglio 1880, p. 434 È
2 Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, p. 91. è 5 Chiappelli
artic. cit. p. 210, G. Z. n Ri 4
Mai i ‘€ val atoitcalii Per fermarmi
soltanto ai principali rappresentanti della scuola genetica, il Lotze!,
di cui è celebre la teoria dei segni locali, riconoscendo la necessità
che lo spirito trasformi i dati intensivi dell'esperienza in dati
estensivi per avere la serie spaziale, riconosce con ciò stesso una
attività trasformatrice nello spirito; e s'incontra perciò colla priori
del Kant. Lo stesso Helmholtz, il più reciso rappresentante della teoria
genetica, subisce l'influenza Kantiana; perocchè nella questione, che
abbiamo tra mano, dello spazio, avendo messo in rilievo la grande
importanza che hanno per la formazione della nozione di spazio i
movimenti muscolari, riconosce di a priori in noi appunto la capacità
originaria di produrre e di sentire il movimento; nel che, secondo lui,
sta l’ accordo delle scienze naturali col Kant ®. Ma nella sua
teorica della ‘percezione egli s’ accosta anche di più al filosofo
di Kunisberg; poichè essendo le sensazioni, nel suo con- cetto, nient’
altro che segni che bisogna interpretare 3, si richiede per ciò stesso
un’ attività primigenia che inter- preti; e siccome questi segni non sono
vuote apparenze (leerer Schein), ma effetti d'una causa esteriore ignota
a cui si riferiscono, ne segue che il lavoro d’interpreta- zione e di
obbiettivazione è un ragionamento incosciente i Veramente nel
Lotze, più che un rappresentante della scuola genetica, si
dovrebbe vedere l'anello di congiunzione tra la scuola na- tivistica e la
genetica. Infatti è bensì vero che per lui la nozione di spazio non è
innata, ed è necessario un lavorio mentale per averla, ma
contemporaneamente i segni locali sono un vero e proprio mec- canismo
preformato. Cfr. Ribot, Psychologie allemande. 2 Helmholtz, Die
Thatsachen in der Wahrnehmung. Berlin, ta) f TOO IL PROBLEMA DELLA
CONOSCENZA dunanenazenaa neenianaze sanare sa rinenianesaenin isa
sanasisaodioianieneninizanasenete resa sizaeizazzaneo
uunnizieazerazenizzenianisnananoniceaze dananieaniza n manina za sanana sa
neriaranieazenia tea vanenressdeeta che i Nuovi Critici ritraggono
dai progressi notevoli delle scienze sperimentali, e specialmente della
fisiologia, vantaggi che il Kant non poteva avere, e che dissentono
da lui nel determinare la natura e la quantità dell’ ele- mento a priori,
presente in ogni conoscenza; si allon- tanano da lui sovratutto nel modo
da proporsi e di risolvere il problema gnoseologico. Il Kant più che
l’ori- gine della conoscenza tendeva a determinarne il valore, più
che il fatto e il possesso, la legittimità; quindi am- mettendo che
l'elemento a priori dirige l’esperienza e ne è la legge, non prese a
esaminare in che senso si possa dir tale, e come avvenga che non
apparisce sempre e in tutto il processo della umana conoscenza, ma
solo nel pensiero già adulto; e se l’esperienza contribuisca a
svolgerlo e a determinarlo. In altre parole il Kant trascuro di ricercare
l'origine dell'a priori, non accor- gendosi che pure questa ricerca
psicologica era condi- zione indispensabile a porre ne’ suoi veri termini
ea risolvere il problema della conoscenza. Quello che il Kant non
ha fatto fecero i Nuovi Critici; e sta qui, nella risoluzione del
problema psicologico come sussidiario del problema della
conoscenza, la novità del Neo-Criticismo e il suo merito più
grande. IV. Contrariamente all’empirismo tedesco, l’
empirismo inglese nella spiegazione della conoscenza trascura ogni elemento
formale, a priori, e tutto fa derivare dalla nuda esperienza. Osserva con
molta acutezza il Chiappelli! 1 Kant e la Psicologia contemp. nel
Giornale nap. ET CI TRA Tome ui è =
251.07 che la vecchia metafisica e il moderno empirismo
in- glese riescono per opposte vie a spogliare lo spirito
della sua originale energia; poichè quella lo riduce a î una
semplice capacità di accogliere in qualche modo le - idee assolute
che gli si presentano, ma che esso non produce; e questo lo
considera come un rispecchiamento delle relazioni esteriori, come
un risultato dell’ o rienza. Se empirismo pglese ia Der_così
uniti ll meccanismo, uni- a che dalle forme più basse della sensazione
fa uscire per via di semplice’ associazione quantitativa le ivi i
Per lo Spencer, per esempio, lo spirito ben lungi dall'essere un’
attività originale, un principio dinamico, si risolve in un gruppo
di attività operanti meccanicamente in una continua 4 associazione
e dissociazione di stati ora più deboli ora più forti, in un continuo
adattamento di relazioni interne a relazioni esterne! Donde una
gravissima difficoltà a spiegare l'associazione delle singole sensazioni,
e delle serie diverse in cui si dispongono. L'ordine delle sensa-
zioni, l'associazione delle sensazioni, il loro disporsi in serie, non è
una sensazione, ma un rapporto di sensa- zioni: ora donde viene questo
rapporto ? « Perchè ci sia ordinamento, nota giustamente il Chiappelli®,
conviene che ciascuna sensazione sia tenuta distinta dalle altre, e
nello stesso tempo unita, altrimenti si fonderebbero in un’ unica
sensazione, come avviene delle sensazioni udi- tive, olfattive e
saporose. E come poi potrebbe avvenire l'associazione delle serie tattili
e visive coi sentimenti muscolari per formare la serie spaziale, senza
un’ attività sintetica a priori »? Cfr. Spencer, Principes de
Psychologie, passim. 2 Kant e la Psicologia contemp. nel Giornale nap.
cit, p. 219-220. : Ai) i Dall E IL
PROBLEMA DELLA CONOSCENZA L’ ipotesi dell’ evoluzione e la teoria
dell’ eredità, in- trodotta dallo Spencer nella Psicologia inglese, le
hanno aperto un nuovo orizzonte e corretto in gran parte la
sua aridità. Ma per quanto corretta e allargata, l’ ele- mento dinamico
le manca pur sempre, le manca l’attività, la spontaneità
originaria. Osserva il Tarantino! che « se v'ha una scuola
che non possa non riconoscere nella psiche umana una attività propria ed
originaria, questa è l'evoluzionista. Dappoichè per essa la conoscenza
non è puro asso- ciagronismo, non è mera composizione e
ricomposizione di clementi semplici, ma è un processo evolutivo per
cui nei gradi superiori della conoscenza non s'ha sola- mente la somma degli
elementi semplici forniti dai gradi inferiori, ma qualche cosa di nuovo,
un nuovo prodotto, una nuova funzione ». Ma questa, come nota anche
il Chiappelli, non è un’ esposizione ed interpretazione ob-
biettiva ed esatta della dottrina dello Spencer; è un ap- prezzamento
subbiettivo, una critica di essa; critica giusta e finissima, ma
esposizione sbagliata. Ognuno infatti ricorda la dottrina dello Spencer
che riguarda l'intelligenza e la volontà. Gli stati superiori dell’
intel- ligenza differiscono dagli inferior complessità, non già per
un'attività più alta che vi si' riveli; e la volontà dove, più che in
qualunque altro fatto dello spirito, dovrebbe apparire un’ attività
primi- genia, è quello stato di coscienza per cui « dopo aver
ricevuto un’ impressione complessa, i fenomeni di movi- mento APPTOPrIAtO
nascono, ma non Possono passare all’azione immediata, a causa
dell’antagonismo di certi altri fenomeni di movimento, egualmente
nascenti, e appropriati a qualche impressione intimamente
unita i solo per una maggiore 1 Saggi filosofici, p.
109-1 10, Napoli, Morano. Asi DI o dii
rn Vsrresvanorizsanereseeriecenzer ee idbLEzsco ca cdene erapas pa Leno
ana OSTSCIN TORCE PUITELATA TETI ta ars ter aonesionarasasacseeoree
alla precedente »; sicchè, solo dopo un certo intervallo apprezzabile,
un movimento, il prevalente, finisce col tradursi in azione!.
Evidentemente qui la volontà non differisce dall'azione riflessa che per
maggiore comples- sità. Nell’ azione riflessa c'è un'impressione a cui
tien dietro una contrazione muscolare; nella volontà c' è an- cora
una impressione, a cui però corrispondono più gruppi di contrazioni, che,
non potendosi tutti quanti tradurre in movimenti reali, si contrastano a
vicenda, finchè uno non riesca a trionfare degli altri. Il mecca-
nismo e l'assenza d’ogni concetto dinamico della psiche non potevano
avere una più completa espressione. Molto opportunamente perciò il
Bonatelli in un capitolo del suo libro dottissimo e profondo Discussioni
gnuoseolo- giche e Note critiche, intitolato argutamente una pe- i
Tazio cis 0 yévos mostra avere lo Spencer cancellato ogni differenza
essenziale tra i fatti inorganici e j psi- chici, e aver ridotto Ja vita
psichica a un semplice ri- flesso di relazioni esteriori. Certo le
relazioni interne della coscienza e dell'organismo, anche nello
Spencer, non ripetono le relazioni esteriori semplicemente, senza
modificazioni e trasformazioni. Ma queste trasformazioni si producono
meccanicamente, da se, senza una vera € propria attività, da cui
derivino: e perciò lo spirito del criticismo Kantiano è ben lontano .dal
filosofo inglese. Si potrebbe osservare però che l’ a priori
biologico della scuola inglese ha tutti i caratteri dell'a prior:
formale e trascendente del Kant, che anzi non è altro x © che la
traduzione di esso in linguaggio fisiologico e bio- A logico. Il
Tarantino nell'articolo già citato c pol in un altro Kant e Spencer, che
fu, insieme col primo, raccolto nei suoi Saggi filosofici, sostiene
apertamente questa 1 H. Spencer, Principes de Psychologie, part. 4
cap. IX. 1% tesi: sicchè per lui l'influenza del Kant
sulla scuola in- - 4a glese è un fatto incontestabile; e la differenza
fra l’uno e l’altra sta solo in questo, che il primo ammette senza
sa più l’a priori, e la seconda ce ne dà la genesi e la ps spiegazione
empirica, precisamente come fa la scuola È : tedesca!, d Se non che
il lavoro secolare accumulato e trasmesso i; per via della eredità
naturale, e per cui lo spazio ed il tempo, per esempio, per non parlare delle
altre leggi ? del pensiero, non sono che relazioni mentali
istintive Gi rese organiche nella vita della specie, è un processo
Mico inesplicato e inesplicabile quando non si presupponga Mi Un'attività
originaria che ne sia il fondamento. Pon- gasi pure che quello che è a
priori rispetto all’in- dividuo, sia a posteriori rispetto alla specie;
pongasi pure che l’a priori non sia trascendente, ma biologico e
storico, secondo l’espressione del Levves; ma resta f:: sempre la
domanda, a cui si dovrebbe rispondere, in È qual modo si sia potuto
formare, anche nell'evoluzione E È. biologica, quell’associazione delle
sensazioni che costi- È ù Me tuisce la serie spaziale e la serie temporale.
Bisogna in È Ai ogni caso presupporre l’attività sintetica, l’attività
asso- ; hi | ciatrice dello spirito, che è quella appunto che non si |,
| Ss 3 vuole presupporre. Ma alla teoria dell'a priori biologico e
storico si' potrebbero fare ‘ben altrè osservazioni. E prima di
tutto se le condizioni e le leggi dell’ esperienza sono un
risultato dell’ esperienza stessa, a cui si arrivò successivamente
per via di evoluzione e di trasmissione ereditaria, come fu possibile
l’esperienza in origine quando le sue con- dizioni e le sue leggi
non.s'erano ancora fissate nel- l'organismo? E poi, se queste leggi e
queste condizioni ! Saggi filosofici. side bibite bio I OTTIENI ARTT
RTRT sono acquisti successivi della razza, sono una specie
di capitale trasmesso e accresciuto di generazione in generazione, donde
venne il primo deposito di fondi che fu, per così dire, il nocciolo dei
risparmi mano mano ingrossantisi dell’ umanità? Si dirà che |’
intelligenza umana è impotente a scoprirlo, per quanto lontano ri-
salga nella catena degli ascendenti? Ma in questa ma- niera si ammette
implicitamente l’esistenza di esseri che contengono, almeno allo stato di
embrione, le nozioni che pur si vogliono derivate per evoluzione dalla
sola esperienza. Oppure si dirà che esse appariscono a un certo
grado dell’ evoluzione? Ma in questo caso ancora esse non sono più un
prodotto dell’ evoluzione ed hanno un cominciamento assoluto. Da
qualunque parte si guardi, l'evoluzione sùppone sempre una qualche
cosa che si svolge; ec senza di questa non si può neanche
concepire. Così le leggi e le condizioni dell’ esperienza sono bensì
svolte e determinate dall'esperienza stessa e dall’ evoluzione, ma
preesistevano iù germe e all espe- rienza e all’ evoluzione.
E posto pure che siano un semplice risultato del- l'una e dell’
altra, donde viene la necessità e l’ univer- salità che loro s'
accompagna? Nessuna esperienza sia individuale, sia specifica, può dare
la necessità e l’uni-- versalità: la necessità e l’ universalità vengono
dall’ atti- vità sintetica dello spirito. Per quanto numerosi siano
i casi in cui da noi e dagli avi nostri s'è sperimentata la verità d'un
certo fatto, niente può garantirci che un caso quandocchessia non si
presenti a smentire quei primi. L'esperienza si compone sempre di un
numero limitato di osservazioni; quindi, per quanto ripetuta e .
moltiplicata, non è mai sufficiente a farci concludere uni- versalmente.
Ancor meno può fornire il fondamento alla necessità di una proposizione.
« Essa può, scrive il
arsssaizianeianionaazzaniscase ovegcinzensenaeneio ne
eosessonienanesiasarensaseaseseeozene
suesusovezeassazioaneosganaevatogasaesevetevizevesoste. Whevvel!,
osservare e notare ciò che è avvenuto, ma non può nè in un caso
qualunque, nè in un cumulo di casi trovare una ragione per ciò che deve
avvenire. È, Essa può vedere degli oggetti l'uno accanto all’altro, >
ma non vedere perchè essi devono essere sempre così giustaposti. Essa
trova che certi avvenimenti si succe- dono, ma la successione attuale non
dà la ragione del suo ripetersi; essa vede gli oggetti ‘esterni, ma non
può scoprire il legame interno che incatena indissolubilmente il futuro
al passato, il possibile al reale. Apprendere una proposizione per via di
esperienza e vedere ch’ essa è necessariamente vera, sono due operazioni
intellettuali completamente differenti ». VV.
Anche a MILL – cf. Grice, “More Grice to the Mill” -- si possono fare in gran
parte «Je osservazioni che abbiamo fatto allo Spencer. Anche
per lo Stuart Mill infatti il problema gnoseologico è risolto
per via di esperienza e di associazione; la cono- scenza non
ha altre fonti che queste; il principio dina- mico, il principio
associatore, l’attività sintetica manca’ anche qui; e
l'associazionismo meccanico, il più puro fenomenismo spiega tutta quanta
la vita dello spirito. i Si dirà che la dottrina che riguarda lo
spirito non è e veramente così meccanica e fenomenistica nel
Mill come mostriamo di credere noi; e che în realtà il Mill, dopo
aver ammesso che lo spirito è una serie di stati 4 . ù IRA È; A
x Histoire des idées scientifiques, citato dallo Stuart Mill,
Log:gue ecc. vol, I, P. 270. di coscienza e
nulla più!, aggiunge, indottovi dal fatto 2 della memoria e dell’
aspettazione così caratteristico della vita interiore, che questa
serie conosce’ se stessa come passata e avvenire; sicchè si deve
ammettere essere lo spirito altra cosa dalla serie stessa, quando
non si voglia accettare il paradosso che una serie conosce se stessa
in quanto serie ®. Si dirà anche ch'egli riconosce esplicita-
mente « qualche cosa di reale nel legame che unisce la coscienza
presente alla passata, reale come le sensazioni stesse, c che non
è-un puro prodotto delle leggi del i pensiero senza nessun fatto che gli
corrisponda »8; in, altre parole ch'egli attribuisce una vera e propria
realtà al Me, allo Spirito. Tutto questo sappiamo: ma
sappiamo anche che ten- denza manifesta e desiderio vivissimo del Mill è
di spiegare e poichè questa è da lui concepita come la. possibilità
per- manente di sensazioni senza nulla che accenni a qualche cosa
di sostanziale e di attivo, così egualmente dev’ essere concepito lo
spirito?. E se il fatto della memoria si oppone ad una simile,
concezione, se l'ipotesi della possibilità permanente, come lo stesso
Mill confessa, non. dà una teoria sufficiente dello spirito 9; se il legame
che unisce la coscienza presente alla passata è parte
indispensabile della concezione positiva di esso 7; se insomma c'è
di "evane si ia pa fe 1 Philosophie
de Hamilton, c. XII, p. 229. 2 Ib. p. 234-235. à 5 Ib.
Appendice ai cap. XI e XII, p. 250. ‘F + Ib. Appendice cit. p. 250. Cfr.
anche Zogigue écc. volume I, G p. 66-68., 3 3 Philosophie de
Hamilton, c. XII, p. 227-229, si 0 Ib. p. 248-249. \ "E
? Ib. p. 250. uarnaanerioaiezenieneoneonesiz sasa na ainaonionene sica
nazezianeonear esi pireriaezizeo _o ccascsscaecasentioneneezazeasazanianeceseo
reale nello spirito la continuità e l'identità della co- scienza,
ed esso stesso è qualche cosa di reale, è un elemento originario che non
partecipa della natura delle cose che rispondono ai nostri nomi!; non per
questo, .e se c'è contraddizione la colpa non è nostra, lo spirito
è qualche cosa di sostanziale e di attivo. Jo non adotto, dice il Mill
esplicitamente, /a /eoria comune che ri- guarda lo spirito come
sostanza?. E in una nota alla Analysis di suo padre scrive :«
Noi-facciamo molta fatica a credere che un essere senziente possa
esistere senza la coscienza di se medesimo. Ma questa difficoltà
nasce dall’ associazione irresistibile che, fin dalla nostra prima
3 e PEPE fre. infanzia, si stabilisce, grazie alla memoria,
tra ciascuno è dei nostri sentimenti e la serie intera di cui fa parte, e
A conseguentemente tra ciascuno di essi e il nostro me n.3 À SB _
Che cosa vogliono dire queste parole? Vogliono dire che ‘A A e; il are
reale e vivente che si credeva di cogliere fondan- i
dosi sulla continuità della coscienza, non è che un? il lusione,
illusione generata dall’ associazione: noi non cogliamo in fondo che una
continuità fenomenica, una «serie di stati psichici in cui. il me si
risolve. 13 D'altra parte se il me è riducibile alla memoria
e alla continuità della coscienza, dove trovare quell’ele- © mento
permanente che è necessario a costituirlo, se pure ‘ à è qualche cosa di
sostanziale? Con molta profondità nota S il Ferri nel suo libro
mirabile La Psycholog gie de l’As- sociation che « altra cosa è quest’
elemento permanente, e altra cosa ciò che v' ha di non interrotto nella
succes- sione. L’uno è così poco assimilabile all’altro che il
«primo solamente possiede un'identità vera, mentre il I Ib. p.
250. 2 Ib. p. 249. 3 Analysis, vol. II, p. auisreininaaene sv
ionanasianeesezaniniaeeanionisesezaneeesieea azien ananeo sv
agentaniarerasazesieneenasze ns caniangareraneazeeeazaazaieneoneee
secondo non ha che un’ identità nominale... E se si dice che le funzioni
della riproduzione e del riconoscimento gli danno nella memoria una
specie d°’ identità indivi- duale, questa risposta non toglierà la
difficoltà, perchè avremo sempre la moltiplicità in luogo dell’unità, e
si domanderà sempre, collo stesso Mill, su che riposi la credenza o
il giudizio pel quale affermiamo l’ esistenza di qualche cosa d’identico,
che oltrepassa la serie dei modi successivi e cangianti»!. Ma
lasciando questo, e ammettendo anche che il Mill abbia assegnato una vera
e propria sostanzialità allo spirito, certo è però che questo punto di
vista on- tologico e metafisico è in lui come non fosse; e il solo
punto di vista fenomenistico ricorre in tutta la sua filo- sofia. «
Qualunque sia, scrive .il Mill ?, la natura della esistenza reale che noi
siamo costretti a riconoscere nello spirito, esso non ci è noto che in
una maniera fenome- nica, come la serie dei suoi sentimenti o dei suoi
fatti lore} [0] di coscienza... I sentimenti o i fatti di coscienza, che
3 gli appartengono o che gli hanno appartenuto, e il suo potere d’
averne ancora, ecco tutto ciò che si può afler- mare del Se, i soli
attributi possibili, salvo la permanenza, che noi potremo riconoscergli.
In conseguenza io adopero, _, f € all’occasione le parole spirilo e
calena di coscienza come Spivile 2 afena equivalenti ». NIrfawija i
Di qui segue evidentemente che di null'altro si deve tener conto in
Psicologia che dei fatti e del loro nesso meccanico, esteriore; ogni
elemento dinamico è escluso. E perciò se la teoria
materialistico-meccanica non è X professata e.non può essere professata
dal Mill, perchè % da buon positivista deve lasciar da parte ogni
questione di et 1 Pag.
102-103. 2 Philosophie de Hamilton., L _ kr
essenze; se anzi il Mill respinge decisamente il materia- lismo
d'Erasmo Darvvin!; se non ammette la dipendenza di ciascuno stato dello
spirito da uno stato corrispondente del corpo, e riconosce nei fatti
psichici delle leggi loro proprie; in realtà però del materialismo senza
volerlo segue l'indirizzo e adotta i principii. ‘Il Ferri
nell'opera giò citata nota che lo Stuart Mill ha modificato profondamente
la teoria dell’associazione di Giacomo Mill suo padre, aggiungendovi e
reintegran- dovi un elemento sconosciuto, l’attività dello spirito?
Pel Ferri adunque le due scuole rivali in psicologia, la intuitiva e
l’empirica, si sarebbero in fondo accordate in un punto capitale.
Noi non siamo di quest'avviso, e ci perdoni l'illustre filosofo se
dissentiamo da lui. Lo Stuart Mill per verità ha tutte le apparenze
di aver tenuto conto dell'attività dello spirito; egli adopera le
parole /avoro mentale, attenzione, concentrazione del- l’ intelligenza
ecc.; ma per queste egli intende sempre una sensazione, o un'idea che,
per l'interesse che suscita in grazia del piacere che le va unito,
diventa come centro di aggruppamento della nostra vita psichica. E
perciò la sua teoria non è diversa nel fondo dalla teoria del Condillac
modificata, sviluppata e adattata alla filosofia dell’associazione 4. Si
può dire che avvenga qui allo Stuart Mill quello che gli avviene in
morale; anche in morale adopera le parole stesse che adoperano gli
avversarii; ma la spiegazione che ne dà mostra ad 1 Logique, Vedi
l'Introduzione e il cap. III, del libro V. 2 Logique, vol. II,
pag. 435-437. Cfr. anche Stuart Mill, Aug. Comte et le Positivisme, p.
63-67. 5 Psychologie de l Association, p. 95. + Lauret, Philosophie de Stuart Mill, p. 65,
evidenza che non ne accetta però il contenuto e lo
spirito. Vedasi a conferma di ciò la teoria dell’ attenzione
quale è esposta dallo Stuart Mill in una nota importante all’ Analysis di
suo padre!. « Avviene spesso, egli dice, che una sensazione
pid- cevole o dolorosa escluda dalla coscienza le altre sensa-
zioni meno piacevoli e meno dolorose, e impedisca il comparire delle idee
estranee allo stato mentale attuale. In questa maniera la sensazione
predominante tende a prolungare la sua esistenza, e noi diciamo ch' essa
tende ad attirare la nostra attenzione, vale a dire che non è
facile avere, contemporaneamente alla sensazione che riempie lo spirito e
se ne impadronisce, qualsivoglia altra sensazione od idea, ad eccezione
delle idee associate che favoriscono lo stato attuale e lo fanno
continuare. Essa è un oggetto esclusivo di coscienza, a exclusive
object of consciousness; essa diviene più intensa che non fosse, ed
esercita un'azione più decisiva sulla serie ulteriore dei nostri pensieri.
D’ altra parte ciò. che è vero delle sensazioni è vero delle idee.
L'idea oltremodo piacevole e dolorosa s' impadronisce dell'anima
nella stessa ma- niera ed attira nella stessa maniera l’attenzione
». Fin qui adunque non' c'è nell’attenzione indizio al- cuno
di attività; tutto è spiegato per via del piacere e del dolore e
dell’associazione. Ma, aggiunge lo Stuart Mill, la volontà ha un potere
reale sull’attenzione, ze vvill has povver over the attention; quando
l’idea non è abbastanza piacevole per se stessa, noi possiamo con
un atto volontario arrestarci sopra un’ idea prossima che accresca l’
interesse della prima. E qui parrebbe far ca- polino l’ elemento
attivo. Però com’ è provocato questo 4 Vol. JI, p. 372 ©
seg. G. ZuccAanTE : à
=» : - e ATL L IT. PL
ni toto oo Pan a n IRA nni Sg Pt ezio iste IL PROBLEMA DELLA
CONOSCENZA MNSRIEE SEDIA eo imecsessosseseseossssenseseeeneo vyosseteona
ea atto volontario e in che consiste, but hovv is this act
of vvill excited, and in yvhat does it consist? L’atto è provocato da un
motivo, dal desiderio d’un fine, cioè d’ un piacere, o, ciò che vale lo
stesso, d'una cessazione di dolore. Sicchè se l’idea alla quale
attendiamo non è abbastanza piacevole per se stessa, la associamo ad
una idea piacevole, e il risultato è la fissazione dell'attenzione,
the result îs that the attention is fixed. Perciò sia l’idea piacevole
per se, o sia piacevole per la sua connessione con un'altra idea, il
fissarsi dell’ attenzione dipende sempre dalla medesima legge mentale, la
legge dell’ as- sociazione, e non è il caso neppur qui di parlare
di elementi attivi. Si può obbiettare che la spiegazione
precedente è valevole solo per i casi in cui l’ attenzione
volontaria non incontra ostacoli e non richiede alcuno sforzo. Se
invece avvenga che lo spirito si distolga da un’idca, e sia necessario
per trattenervelo un certo sforzo che costi fatica ed esaurisca, in tal
caso l’attenzione dovendo non più soltanto essere facilitata, ma
comandata, l'associazione »;. - non può più bastare a
quest'effetto, ma è necessario l’ in- u tervento attivo della volontà.
Esaminiamo la difficoltà. 5 Q La volontà anche qui è messa in azione da
un mo- n . tivo o da un desiderio. Ora il desiderio motore della
volontà è 0 il desiderio iniziale, divenuto più energico, o un desiderio
addizionale: e questo desiderio, o più forte, 0 OTO Dasce in questa
maniera. Noi non amiamo abbastanza il fine a cui tendiamo; l’idea di
questo ANCAnOnES REGIA piacevole, o la privazione di esso e
required. Allora alfano sì oa desiderio, bramiamo un am 5 + ae So
nostro fine, pensiamo ch SS DIL ardente de, P o che varrebbe meglio per noi
che * nerrerisancanineseeseanaazesaenieaza sa
smaenazenasaazazionenena:sontiscenacnanisna
nnsononasanizesenzeteateceseeneesavanpnavnneorieceoseeeesz: questo
fine in particolare e i nostri fini in generale aves- sero più influenza
ch’ essi non hanno, sui nostri pensieri e sulle nostre azioni. Questo
sentimento dell’insufficienza della nostra attenzione accresce il vigore
delle nostre operazioni mentali; il desiderio s'avviva e s'esalta da
se stesso; o piuttosto l’idea della debolezza del desiderio rinforza
il desiderio, e il desiderio rinforzato riesce in fine a fissare l’
attenzione »!. 7 L'attenzione adunque, anche in questo caso, si
può in fondo ridurre all'associazione: è sempre una sensa- zione o
un'idea che, spontaneamente o per una reazione spontanea, direttamente o
indirettamente, riesce a impa- dronirsi della coscienza, escludendone le
altre e non ri- chiamandovi che quelle che sono associate ad essa e
possono favorire il suo dominio. Anche dall'esame del concetto di
causa, come è inteso dallo Stuart Mill, si potrebbe arrivare alla
mede- sima conclusione, ch’ egli non ha affatto reintegrato nella
teorica dell’ associazione un elemento sconosciuto ai suoi antecessori,
l’attività. La causa per lui non è efficienza, non è energia, non è
forza; essa si risolve in un legame di prima e di poi, in una successione
uniforme, incon- dizionale e nulla più. Il potere efficiente non ci si
rivela nelle cose; l’esperienza non ci rivela che cause fenome-
niche o fisiche, non cause prime ed efficienti od onto- logiche di
checchessia ?. i E la volontà ? La volontà è causa delle nostre
azioni nella stessa maniera, e non altrimenti, che il freddo è
+ Non avendo a nostra disposizione l' Analysis siamo stati co-
stretti a riassumere la nota del Mill in gran parte colle parole stesse
del Lauret, Philosophie de Stuart Mill} p. 62-65. 2 Logique, ecc.
vol. 1, p. 360. Cfr. il nostro Determinismo di John Stuart Mill, p. 76.
i . i SAS re] Sane %» nt. «
La O La Pen) nd PATATA i at une
causa del ghiaccio, e la ‘scintilla dell’ esplosione della
polvere; vale a dire, è causa fenomenica, empirica, e non si può dire che
disponga d'una forza e d'un potere speciale; è un antecedente a cui tien
dietro un conse- guente e nulla più. « Con la metà del mondo
psicologico, dice il Mill, io non mi riconosco il potere di agire
sulle mie volizioni »%. E se la nozione di sforzo si trova nella
volizione, donde’ poi si riflette nella nozione volgare di forza e di
causa, questo sforzo non suppone l’esistenza di un potere, d’ un'energia
speciale che lo compia. Lo sforzo non è che la sensazione muscolare di
resistenza, che noi proviamo compiendo un movimento, sia che questa
resistenza ci venga da un oggetto esterno, sia dal semplice sfregamento e
dal peso dei nostri organi di movimento. E pura illusione subbiettiva,
derivata dalla generalizzazione e dall’astrazione che s’esercitano
salla sensazione reale di sforzo muscolare o nervoso, quella per
cui ci creiamo l'entità astratta forza, che conside- riamo come
l'intermediario necessario perchè l’antece- dente possa agire sul
conseguente, e in assenza del quale niente potrebbe essere effettuato
3. i E pare che tutto questo basti a mostrare che di attività
e di energia non è il caso di parlare nella filo- sofia dello Stuart
Mill; da buon positivista non dovea egli occuparsi che di fatti, non di
sostanze e di cause operanti. i . Dei moderni psicologi inglesi
della scuola dell’espe- rienza chi non ha trascurato ]° l’uomo, chi
non ha visto nell meccanismo, ma anche l’inte attività
primordiale nel- a vita interiore un puro vento di qualche cosa
di 1 Logique ecc., vol. 1,.p. 393. 2 Philosophie de
Hamilton 1 Pi 354-355. 5 Ib. p. 355-357. i ISI spontaneo, di attivo, è il
Bain}, E, quello che è curioso, lo Stuart Mill che questo elemento attivo
avea trascurato, loda in un articolo consacrato a un libro del Bain”,
questa importante aggiunta, considerandola come un vero pro- gresso
della psicologia dell’ associazione. « Coloro che hanno studiato gli
scritti dei psicologi associazionisti, dice lo Stuart Mill, hanno visto
con dispiacere che, nelle loro esposizioni analitiche, ci fosse un’
assenza quasi totale d’elementi attivi o di spontaneità apparte-
nente allo spirito stesso...... In Francia si è spesso citato il
progresso che si fece dal Condillac al La- romiguière; dei quali il primo
faceva d' un fenomeno passivo, la sensazione, la base del suo sistema, il
sc- condo vi sostituiva un elemento attivo, l’attenzione. La teoria
del Bain è nel medesimo rapporto colla teoria dell’ Hartley che la teoria
del Laromiguière con quella del Condillac »3. Queste parole dello Stuart
Mill provano ch'egli stesso avea visto e compreso l' importanza
del- l’attività sintetica dello spirito nella spiegazione dei fatti
psichici; ma, deferente alle tradizioni del vecchio empi- rismo inglese,
per cui tutto è dovuto al meccanismo del- l’esperienza, non seppe tenerne
conto abbastanza nelle sue opere, In generale adunque
possiamo dire delle due scuole empiriche di Germania e d'Inghilterra, che
l'una è la vera erede dello spirito Kantiano e si assimila la parte
vitale della Crilica, che sta non tanto nel riconoscere come elementi a
priori le forme dell’intuizione e ‘le 1 Gfr. specialmente Les
emotions et la volonte, part. II, cap. I. 2 Les Sens et l’ Intelligence.
i 3 Dissertations and Discussions, t. III, p. 197 e seg. Cfr.
Ribot, Psychologie anglaise, p. 253-254, e Fouillée, Histoire de la
Philo- sophie, p. 472-473. = ad e telai i st he ni i LA i
e CRM Lidl a Mel - mersenaazeneaseeenane
nesusvsarevesevesesnesaeevesesst1panonese0sezzz19dstosoveo Pueose sea
eese, categorie dell'intelletto, quanto, € principalmente, nello
ammettere l’attività sintetica dello spirito come condi- zione
dell'esperienza !; e che l’altra, ben lungi dal con- formarsi allo
spirito Kantiano, lo avversa anzi, se è vero che il meccanismo è in
assoluto contrasto col dinamismo. Quanto all’empirismo
francese del Comte e della sua scuola, basti rammentare che per esso non
v'ha psicologia che non abbia a fondamento l’osservazione esteriore
e non si confonda colla fisiologia; che crede una chimera
l'osservazione interna o psicologica; che abolisce ogni altra logica
che non si accompagni alle applicazioni e alle ricerche scientifiche
in cui è implicata, e tiene un fuor d’opera studiare i procedimenti del
pensiero in se e per se; per capire com'esso aborrisca da ogni
ricerca gnoseologica, e il problema della conoscenza per esso non
esista neppure?. 1 Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, p. 87 e seg.; Richl, Der
philosophische Kriticismus, II. p. 86. 2 Aug, Comte, Cours de
philosophie positive, t. r. premire legon; e Stuart Mill, Aug. Comte er le Positivisme, pag. 63-67 © pag.
55-59. ì VE: cali dA
LL amarsi rete ile IA rt Le diverse parti delle ricerche
morali di Aristotele non sono state da lui disposte per modo da
riuscire ordinate c connesse come sarebbe desiderabile: certo un
concatenamento interno non manca nella sua dottrina, ma non risulta
abbastanza chiaro dalla sua esposizione. Questa sconnessione, questa
scucitura, per dirla così, della morale di Aristotele, deriva in gran
parte dalla na- tura stessa della materia ch’ egli aveva fra mano e
dal concetto ch'egli se ne faceva. Le cose di cui si occupa la
morale, l’onesto e il giusto, non hanno niente di stabile e di fisso,
anzi variano e, per così dire, vanno errando da luogo a luogo per modo
che sembra siano solamente per legge e non per natura !. Di qui segue
che, trattando di esse, non si può essere così accurati e precisi,
come si potrebbe essere trattando di cose che fossero per natura
stabili e fisse; anzi ci dobbiamo contentare di esprimere il vero
all’ingrosso' (7270265) e mei suoi lineamenti generali (+6r); la
precisione e l’accuratezza (ràzoifés) non 4 Arist. Eth. Nic. ediz.
Susemihl, I. 3, 2-3: T4 dì x02à al qà dizaua TOCAUTAV Îyer diapopav nai
TARINY Gate doze) vopo elva, queer dì pai. ida
| Li PEPE LE 3 è possibile
egualmente in tutte le ricerche, e deve in ogni caso essere tale quale
comporta la natura della materia di cui si tratta!.
S'aggiuriga che la morale prendendo le mosse da ciò che suole
accadere d’ordinario (#ò © èrl 7ò mo), non mai dal necessario e
dall’assolutamente certo, arriva di necessità a conclusioni della stessa
natura, a conclu- sioni cioè nè necessarie, nè assolutamente certe, ma
sol- tanto precarie; essa è scienza induttiva 5, e, come tutte le
scienze induttive, non può avere il rigore che si può esigere ad esempio
nelle matematiche. D'altra parte, sic- come non si deve trascurare in
morale quello che ab- biano potuto dire gli altri filosofi in proposito,
c perfino quello che ne possa dire il volgo ‘, e siccome le
opinioni del volgo, e anche quelle dei filosofi, si fanno notare
per la loro varietà e qualche volta per le loro contraddizioni, ne
segue che tenendo dietro ad esse, sia pure collo scopo di esaminarle e
discuterle, di farne insomma la critica, è raro che non ci lasciamo
sviare; è raro che, accettandole in parte e in parte non accettandole,
non rendiamo oscuro anzichè chiaro il nostro pensiero, e perfino non
facciamo forza ad esso stesso per mostrarlo d’accordo con quello
degli altri5. 4 Eth. Nic. I. 3, 3-4. Gfr. Eth, Nic. I. 7, 18-19, I. 13, 8, IL 2,
3-4 UK: 8) 3. 2
Eth. Nic. I. 3, 4. 5 Eth. Nic. I. 4, 5-6. 4 Questo
non è detto esplicitamente in nessun luogo della Nico- machea; ma lo
si può dedurre dalla cura continua di Aristotele di confrontare le sue
opinioni con quelle degli altri filosofi e perfino con quelle del popolo.
D'altra parte ciò era richiesto dall'indirizzo sperimentale a cui
Aristotele s'attiene nella morale. 5 A prova di quanto è detto
quassù si può citare il cap. VIII. fre ety® .
PA. €" ì, A zi at,
Per tutti questi motivi a cui è da aggiungere, per quello che
riguarda Aristotele, una certa trascuratezza non solo di ogni ordinamento
sistematico, ma perfino del nesso tra periodo e periodo, per cui c'incontriamo
non di rado in osservazioni e pensieri che paiono come compati in
aria; il fare soverchio assegnamento sull’intelligenza del lettore
e con poco dir molto, e le cose anche di massima im- portanza accennare
appena anzichè trattarle largamente; il lasciarsi sviare dall’accessorio
mettendo da parte il principale; il proporre in un certo luogo una
questione e non risolverla, per riprenderla poi e risolverla dove e
quando meno s' aspetterebbe, e spesso anche il mettere innanzi dubbii e
mostrarsi tentennante dove si desidere- rebbero affermazioni recise ed
assolute; riesce impresa non certamente di facile attuazione l’ esporre
una parte qualunque della dottrina morale di Aristotele. Una tale
esposizione è lavoro eminentemente critico. Congiungere quello che è
disgiunto e disperso, ordinare quello che è disordinato, sceverare quello
che appartiene in proprio ad Aristotele e che si può considerare come sua
dottrina, da quello che è soltanto accidentale ed avventizio; i
luoghi controversi ed oscuri interpretare nella maniera che meno si
discosti dallo spirito dell’ autore, e in ogni caso non affermare
recisamente quello che 1° autore enuncia in forma dubitativa; tener conto
dei tentenna- menti, delle contraddizioni, se ce ne sono, € fare
che anche le minime sfumature non vadano perdute, in modo che tutto
Aristotele ci si presenti dinanzi, e non una parte soltanto, un aspetto
particolare di esso; so- vratutto non lasciarsi vincere dalla smania di
correggere e di completare da un certo punto di vista Aristotele,
del libro I. dell’ Etica Nicomachea, dove Aristotele cerca in ogni
modo di far andar d'accordo la propria opinione con quella di altri
molti. i gia je da È svisandolo
invece e corrompendolo; parlare il suo lin- guaggio poco curandosi che
non possa piacere à chi legge; ecco un complesso di cose che fanno anche
d’una semplice esposizione un lavoro critico. Ma non è nostra
intenzione limitarci ad una sem- plice esposizione: all’ esposizione
cercheremo d’ innestare ed aggiungere osservazioni e considerazioni di
vario ge- nere, quali ci verranno suggerite dalla dottrina esposta,
considerata in se stessa, o in confronto colle dottrine di altri autori
antichi o moderni. Dichiariamo poi qui che e per questo lavoro
sulla fe- licità, e pei due successivi sulla vir e sulla volontà in
Aristotele, attingiamo quasi esclusivamente all’Etica N? comachea. È noto
oramai, e non staremo a ripetere quanto c nelle storie della filosofia
più recenti e in lavori speciali è stato ampiamente dimostrato }, che
solo l’ Etica Nico- machea si può ritenere lavoro d’ Aristotele,
mentre l' Etica Eudemia e la Grande Etica sarebbero lavori di
discepoli, di Eudemo la prima c la seconda di un ! Vedi
specialmente Zeller, Geschichte der Philosophie der Grie- chen, nella
parte in cui tratta degli scritti d’ Aristotele, ultima edizione;
Ucbervveg, Grundriss der Geschichte der Philosophie nell'edizione del
1876, t. I, p. 176 e seg.; Spengel, Veber dar Verhiltniss der drei
Aristoteles' ethischen Schriften, e Aristotelische Studien; Bonitz, Ob-
servationes criticae in Aristotelis quae feruntur Magna Moralia et Ethica
Eudemia; Fischer, De Ethicis Nicomacheis et Eudemiis quae Aristotelis
nomine tradita sunt dissertatio; Rose, De Aristotelis lì- brorum ordine
et auctoritate; Barthélemy Saint-Hilaire, Morale d'Ari- stote,
Dissertation preliminaire; Grant, The Ethics of Aristotle, illustrated
vvith Essays and notes, Londra, 3. ediz., 1974, primo saggio t. I, p.
18-71; Ollé-Laprune, Essai sur la Morale d’ Aristote, Introduction; Sante
Ferrari, L'Etica di Aristotele riassunta, discussa ed illustrata; ed
altri. NELL' ETICA D'ARISTOTELE Pupa a eraent con vocoa senvatia bian
aenianananenasascnsonesfousontonsstenizbosaeenvnee rsa sesiere
ignoto, probabilmente un peripatetico con tendenze stoiche; i quali non
sempre fedelmente riproducono il pensiero del maestro. Che se
qualcuno ci facesse rimprovero d’aver da Aristotele, da un autore così
lontano: da noi, tratto ar- gomento a studii di morale, ripeteremo le
belle parole con cui Leon Ollé-Laprune finisce l'introduzione al
suo bello studio sulla morale d’ Aristotele: « Aristotele merita
bene che si faccia qualche sforzo per seguirlo. Non si perde nè tempo nè
fatica in tale compagnia. Oltre che si ha il piacere vivo e nobile di
apprendere ogni momento delle belle cose, si medita sulle più alte
questioni, su quelle che più hanno il diritto di interessare ed
appas- sionare il filosofo, ed è una meditazione che fortifica! ».
II La prima ricerca che Aristotele si propone nella
sua Etica è che cosa sia il bene sommo, che cosa sia il fine supremo
della vita. Gea Spetta a Socrate il merito d'aver dichiarato
netta- mente la necessità d'un fine, a cui la mente si rivolga,
perchè l’azione acquisti un valore morale; a Socrate è dovuta la prima
telcologia, per quanto imperfetta c uni- laterale essa ci sembri. Le
cause finali spiegano per lui il mondo tutto quanto, non il fisico solo,
ma anche umano, poichè gli atti umani dipendono in fondo dal
pensiero che li regola, dal fine che li attira. L’ interiorità 4
Ollé-Laprune, Essai sur la Morale d' Aristote, Paris, 1881, pag.
19. i ASA Me a n at sd èsi-
vi ed va drive i UNA LA DOTTRINA
DELLA FELICITÀ socratica di cui tanto si parla, il yv&0 ozvrév, il
demone socratico stesso, hanno nelle cause finali la loro vera e
completa spiegazione. Dopo Socrate il fine umano di- venne la ricerca
capitale dell’ Etica, e dalle diverse solu- zioni date al problema
dipesero i diversi indirizzi morali delle scuole socratiche. Aristotele
ripiglia il problema, e lo risolve da par suo. I varii e
molteplici fini o beni, che gli uomini si propongono mentre operano o si
danno a qualche arte e scienza, sono tutti fra loro così congiunti che
tendono a un certo bene o fine sommo il quale vogliamo per se
stesso ($ È aicd povidue0d), e al di là del quale non resta più nulla a
desiderare. Che cosa è quest’ ultimo fine o bene? Bisogna determinarlo,
perchè il saper ciò è della massima utilità per condur bene la vita; come
arcieri, a cui sia proposto il segno da colpire, otterremo più
facilmente quello che bisogna, quando l’avremo saputo!. «Nel nome tutti
quanti s’accordano e chiamano il sommo bene la felicità (e0dapoviz),
essendochè è la feli- cità quella in cui s' appunta e si queta ogni
desiderio; ma non s'accordano quando si tratti di definire in che
questa felicità essenzialmente consista. Poichè v’ ha chi. la ripone nel
piacere, nelle ricchezze, nell’ onore; e v’hanno perfino di quelli pei
quali la felicità nonè sempre la stessa cosa, ma ora questa, ora quella,
secondo le condizioni diverse in cui si’trovano *.
L’opinione‘di chi ripone la felicità nel piacere (pia- cere
materiale), sebbene sia quella dei più, non merita neppure di essere
discussa; è schiavo di se medesimo e delle proprie passioni e conduce una
vita da bestia chi si abbandona al piacere. Chi sostiene che la felicità
È i Eth. Nic. I. 1-2. 2 Eth. Nic. I. 4, 2-3.
NERTTETANZZIANIAZI ZI NE TERE A ENI A RATE RA TERA TANI AR Ren Ara SI TISTI ani
ze sn temi nienaraanecazeanerananaaneane vaso ezi vena
nseztenizeserasionenzeosi stia nell’ onore, sebbene abbia un’
opinione più ragione- vole, non però è nel vero; poichè come si può
reputare sommo bene quello che è posto nell’arbitrio degli altri?
Il bene deve appartenere in proprio (oizzìoy), realmente e ‘ non
accidentalmente, alla persona a cui appartiene, e deve esser tale che
difficilmente si possa togliere ( durupatperoy). D'altra parte è l'onore
ricercabile per se stesso, o non piuttosto si vuole come il premio e la
testimonianza della virtù? Neanche l'opinione di chi ripone la
felicità nelle ricchezze è accettabile, poichè primieramente la
ricchezza si vuole come mezzo e non come fine; e poi la vita di chi è
dedito.alla ricchezza è vita piena d’affanno e di lotta (6 dz ypapatiomne
Plos Piads Tic eoriv)!. V'ha anche un’altra opinione, più famosa di
tutte queste per l'autorità e il nome di chi l’ha sostenuta,
l'opinione di Platone, secondo il quale il vero bene è il bene ideale
universale, il bene separato, in se e per se esistente (ympiotiv ti aùtò
20) asré), causa a tutti gli altri di esser beni®. Quantunque, dice
Aristotele, quest’ opi- nione sia sostenuta da persona a noi cara,
dovremo tuttavia combatterla, perocchè noi siamo sovratutto amici
+ della verità . E primieramente il bene si predica di tutte
le calegorie, anche di quelle che sono accidentali alla sostanza e quindi
a lei posteriori, e si dice ad'esempio di Dio che è buono, della virtù
che è buona, e così egualmente dell'utile, del tempo ccc.: ma le
categorie nulla hanno di comune e sono irriducibili l'una
all’altra, sicchè anche quando loro si attribuisce il predicato
dere, 4 Eth. Nic. I. 5.- 2 Eth. Nic. I. 6, 13 e 1,,4.
3. 5 Eth. Nic. I. 6, 1. &uQoly pg divo oidow Gaioy poT‘AY
shy dA 0ev2y, donde venne il noto: Amicus Plato, sed magis amica
veritas. ST ve questo non
esprime alcun che di comune, di universale e di uno (zowsv 1
220620) val #), nè potrebbe quindi esservi per tutte un idea comune
del bene (oz dv stn zown mi arl cobray 1942)! Che se quest'idea
comune del bene ci fosse, sì avrebbe pure una scienza comune dei
beni, come v' ha una scienza comune per tutte le cose che si
subordinano ad una sola idea ?. Ma poi che cosa è il bene in
se? e in che differisce dal -bene iù particolare? In quanto beni,
il bene particolare e il bene in se in nulla differiscono ; c'è
nell’uno e nell'altro una sola e identica nozione. Si dirà che
l’uno è transitorio, l’altro eterno? Ma in niente sarà più bene il
secondo del primo per essere eterno, come non è più bianco un
bianco che duri molto tempo, di un altro che dura un giorno solo,
per questo solamente che dura molto tempo ?. Che se si
obbiettasse che si parla dell'idea solo in rispetto ai beni per se,
e non ai beni che servono di mezzo ad altro, si potrebbe
domandare da capo che cosa c'è di comune, ad esempio, fra la
saggezza e il piacere considerati in quanto beni, quando si
prendano come beni per se: e pur tuttavia l’idea del bene in essi
tutti dovrebbe essere la medesima, ai come nella neve e nella
biacca l’idea della bianchezza 4. — Non esiste adunque quel bene ideale
comune e uni- versale che Platone ammette. Ma dato pure che
esista, dato pure che il vero bene sia qualche cosa di
separato in se e per se esistente, esso riesce affatto inutile
all’uemo che non può nè metterlo in pratica, nè acquistarlo;
È mentre in morale si ricerca invece un bene che si possa 4 e
mettere in pratica ed acquistare, che sia dunque A Eth. Nic. I, 6, 2-3. 2 Eth. Nic.
I, 6, 4. 5 Eth. Nic. I, 6, 6. 4 Eth. Nic. I, 6,
S-11. proprio dell’uomo e relativo all’ uomo.
Si dirà forse che benchè un tal bene non si possa acquistare, è
dato però conoscerlo nelle sue relazioni coi beni che si possono
acquistare, sicchè serve come di esemplare, di modello per più facilmente
conoscere questi e, conosciutili, con- seguirli? Ma a questo si può
opporre che tutti fin qui hanno trascurato un tale aiuto; le arti,
le scienze, pure tendendo a un qualche bene e cercando di ottenerlo,
trascurano di conoscere il bene ideale; e si può opporre ancora che dalla
conoscenza del bene ideale, quand'anche fosse possibile, nessun vantaggio
trarrebbe chicchessia nella pratica; poichè la pratica riguarda azioni
singolari, e per queste si richiede non giù una cognizione generale,
qual è quella del bene ideale, ma cognizioni singolari. Ad esempio come
sarà più atto alla medicina, o a con- durre gli eserciti chi contempli
quest idea del bene? Il medico non ricerca la sanità in astratto, ma
quella del l’uomo, anzi di quest uomo particolare, poichè esercita
l’arte sua sopra i singoli individui !. III. Discusse
e respinte queste varie opinioni intorno al sommo bene e l’ultima di
Platone massimamente, nella cui idea del bene è degno di nota che
Aristotele non veda che un oggetto astratto € indeterminato, privo
di un valore effettivo e reale, mentre nel sistema platonico tutti
quanti gli esseri non potendo esser buoni che per 4 Eth. Nic. I,
6, 13-16. G. Z. £' Roe ET
RAT 1 PVI partecipazione dell’ idea suprema del bene, questa vi
appare perciò come forza e come legge !; il filosofo viene ad esporre la
sua propria dottrina in proposito. e: Premette che il sommo bene
dev’ essere perfetto sa (+é Ra, Sn MOL, I, tu) 5 Erzt d' o0y serv +
eUdazoviz TEMELOY x dpalloy zai 7805, OdÒI oro da 204 Qi dr
val èv Tsdelm, » O Ù Neo Sor mate cda ziuoy 20 ECTAL COLE
NATE {la EGTAL 09 40 SITU ÈV TAI (0
Alone Y sapo "rr . -_ felice che la fortuna non gli sia avversa;
poichè è bensì vero che le piccole sventure non fanno traboccare la
bilancia della vita (où mot forhv iis Lo?) e non hanno im- portanza per
la felicità, ma le grandi e frequenti l'hanno invece e grandissima, chè
apportano dolori e impediscono molte azioni virtuose, e fanno in ogni
caso che non si possa ancora chiamare felice chi ne è colpito. Certo
non avverrà mai che chi è veramente felice, vale a dire chi possiede
la virtù, divenga infelice per quante sventure gli capitino; chè
l’infelicità sta solo nel male operare; però non si potrà ancora
continuare a dirlo felice, quando. gli capitino sventure quali, ad
esempio, capitarono a Priamo !. La fortuna adunque occupa un posto non
cer- tamente trascurabile quanto al formare la vita felice. Ma la
fortuna è di sua natura instabile e incerta, c a chi è favorevole, a chi
avversa, e spesso ad uno sorride a cui poi prepara le più ingrate
sorprese; sicchè si vada adagio a dir uno felice perchè lo vediamo oggi
ricolmo d’ogni bene; dimani non si sa che possa preparargli la
sorte. Si aspetti che abbia vissuto un certo tempo prima di chiamarlo
felice, si aspetti che abbia vissuto un tempo perfetto, una vita
perfetta, anzi meglio si aspetti che sia morto, perchè non è priva di
senso la sentenza di Solone che prima di dir uno felice bisogna vederne
il fine. Per due motivi ‘adunque si richiede una vita per- fetta a
costituire la felicità perfetta; prima di tutto perchè si svolga
l’attività razionale per modo che sia possibile operare secondo virtù, e
in secondo luogo perchè, es- sendo la fortuna instabile, ci sia campo di
vedere se non abbia per caso a voltar faccia improvvisamente e ad
al- terare la felicità preesistente. I Eth. Nic, I,
10, 12-14. 2 Eth. Nic. I, 9, 10-11 e.T, 10, 1 © 15. ù
N = pira.
ter EIA II a A LIO Non ci fermeremo ora a notare che
il dire che si richiede per la felicità una vita perfetta, un tempo
per- fetto, è dir cosa abbastanza vaga e indefinita, di che si
dovrebbe fare rimprovero ad Aristotele; e. neppure che l’ammettere che i
beni del corpo e di fortuna sono in- dispensabili alla felicità, se non
propriamente come parti integranti, come condizioni, o almeno come
elementi in- feriori, come una specie di materia nelle mani
dell'uomo virtuoso che vi imprime la forma del bello, prova il
senso pieno di misura del.filosofo, di che gli si dovrebbe dar lode:
piuttosto diremo, continuando l’ esposizione, che la presente dottrina
per la quale la felicità sta .es- senzialmente nell’operare secondo virtù
(z3%rtew, ivepyet va deci), non è disforme da quella che la ripone
nella virtù, e neppure, in un certo senso, da quella che la ri-
pone nel piacere. Intanto, in primo luogo, è proprio cella virtù
l’uscire in atti conformi a se stessa (cestis [speri] ydo dov di va
97h èvepyeiz); € perciò il far consistere la felicità nell’ attività
secondo virtù e il farla consistere nella virtù sono in realtà la
medesima cosa. Però ha questo vantaggio la prima dottrina sulla seconda,
che per essa il sommo bene non consiste in un abito, che talora
nulla di buono effettua, pur perdurarido, come in chi dorma o in
chi comecchessia resti inerte, ma in un'attività: e ciò non è certamente
di secondaria importanza, perocchè come in Olimpia non ai più belli e ai
più forti che ri- mangano inerti, è riservata la palma, ma a coloro
che scendono nell’agone e combattono, così egualmente sol- tanto
coloro che operano, e operano rettamente, possono conseguire ciò che è dello
e buono nella vita. Il che vale ina - i > Ma attiva e per così
dire mi- litante; non dev’ essere soltanto un possesso e un abito,
ma un uso e un'attività! Per quello poi che riguarda
il piacere, neppur esso è escluso dalla presente dottrina. Imperocchè
chiunque è dedito a qualche cosa, in questa stessa cosa trova il suo
piacere; sicchè chi è dedito alla virtù trova in essa appunto il suo
piacere. Di più ha questo di particolare chi è dedito alla virtù, che gli
sono piacevoli quelle cose che sono piacevoli veramente per natura
e non secondo questo e quello, tali essendo le azioni virtuose. La vita
del virtuoso non ha perciò bi- sogno del piacere, come di una aggiunta,
di una frangia, ma ha il piacere in se stessa. Che se si opponga
che talora si opera virtuosamente senza sentirne piacere, si può
rispondere che chi non si compiace e non gode delle belle azioni che fa,
non si può dire che operi secondo virtù e sia virtuoso. Come si può, ad
esempio, a chiamar giusto chi non si compiaccia del giusto operare,
e liberale chi non si compiaccia delle azioni libe- rali 5? L' cpigramma
di Delo che disgiunge virtù da piacere non è nel vero4 La brutta
rinomanza del piacere dipende dal fatto che i più credono piaceri so-
lamente i corporei, e solo i corporei sono dai più . Dì x x ' .
"4 41 Eth. Nic. I, $, 8-9. 7olc uev avv Acyovoi Tv dpeThv A 1
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ì 2 Eth. Nic. I, $, 10-12. $ 3 Eth. Nic. I, 8, 12, c II, 3,1.
+ Eth. Nic. I, 8, 14. I o Tag, » - p
"" 14 conosciuti !. In realtà però ogni
attività ha il suo proprio piacere, e l’ attività più perfetta è anche
la più piacevole; il piacere perfeziona gli atti e a loro si
aggiunge quale compimento, nella stessa maniera che la bellezza s’
aggiunge alla gioventù e ne forma l' or- namento. (e smiyivipeviy Ti TE,
giov Fog dano pz). L’atto e il piacere sono così strettamente uniti che
quasi formano la stessa cosa. Come ogni specie vivente ha una attività
sua caratteristica, così avrà anche un proprio piacere; e nella specie
umana il piacere caratteristico c più.eccellente sarà quello che s’
accompagna all’ attività razionale perfetta. Perciò nella diversità dei
criterii con cui si giudica dei piaceri, è da seguire il criterio che è
seguito dall'uomo perfetto; i piaceri che allettino lui, saranno i soli
veri; quelli che egli biasima come turpi, non potranno soddisfare che gli
uomini corrotti. L'uomo buono e perfetto sarà la misura dell’ operare
?. IV. Ed ora la felicità, questo bene sovrano, si
acquista coll’ esercizio e coll’abito, o ci viene per divino favore
o dal caso? E basta l’insegnamento ad averla, o è ne- cessaria la
pratica? E l'educazione fino a che punto vi contribuisce? Se v'ha dono
degli dei agli uomini, è questo certamente, poichè divinissima cosa
(0ewrzzoy) è la felicità, ove anche si acquistasse per opera nostra: ma
intorno 1 Eth. Nic. VII, 13, 6. È E ROPALE .
Eth. Nic, X, 4, 5-8, e X, 5, 6-11. Nota specialmente queste parole: 4 ona
Ma Aria ra Pa \ : DTA ono Darco noe ha dpal)o:, i Tomdiras, nat
dovzi È ‘ ud AE, e ci cley %y gi TOVT@ Quivopevi nei dix dic obr0s
; yadper. a questa questione
nulla si può: dire di preciso. Per quello poi che riguarda il caso (707),
troppo brutto e sconveniente sarebbe (Mizy Ia utaedès dv in) attribuire
ad esso la massima e la più bella delle cose umane!. La felicità ha
per sua causa l’uomo e per soggetto l’uomo egualmente; nè un bue, nè un
cavallo, nè un altro qua- lunque degli animali bruti ne sarebbe
suscettibile ?; c s'acquista operando. Esercizio ed abito son necessarii
ad esser felici. In tutto ciò che si riferisce all'azione (èv 70%
mosto) NOn è fine il conoscere, ma l' operare: la: virtù non è
sufficiente sapere che cosa sia e come s'acquisti, conviene invece
sforzarci di averla e servircene; l'intento della filosofia pratica non
s'arresta alla conoscenza 3, Che cosa giovano gl’insegnamenti e le teorie
a chi abbia contratto abitudini perverse, a chi non abbia indole
ben nata e amante del bello, a chi regoli la vita alla stregua
delle proprie passionire tenga dietro al piacere? L'animo dell’uomo
conviene sia stato preparato €, per così dire, coltivato dall’abitudine,
come un terreno che ha da ali mentare il seme; conviene che fin dai più
teneri anni venga educato rettamente: altrimenti non intenderà e
non udrà neppure chi col discorso tenti distoglierlo dalla via del male.
All’ insegnamento morale deve precedere il costume, perchè quello diventi
fruttuoso. Ma come si formano i buoni costumi, com’ è
possibile ‘una retta educazione? Spetta alle leggi questo compito;
solo le leggi, espressione impersonale della ragione e della
prudenza, hanno la forza di farsi obbedire; solo le, leggi non
sono fatte in odio ad alcuno; solo per l’azione delle leggi si potrebbe
rendere abituale, c però non I Eth. Nic. I, 9, 150. 2 Eth.
Nic. I, 9; 9 3 Eth. Nic. X, 0, 152. TO TENIERE a)
teli et PE SARTO E, ade
IEBUTIAATIZANIB TARE A Ice Ana ran eneniani neri purenenanener
\anusnaereazeanenersisoneneniseites;avocesizione:asosenssasise0esasieneseoeneseoneete
molesto, il vivere secondo virtù. Nè solo ai giovani do- vrebbero
provvedere le leggi, ma anche agli adulti: le leggi dovrebbero
accompagnar l’uomo in tutta la vita ed eccitarlo alla virtù; chi è ben
disposto, coll’amore del bello; chi serve al piacere, colle riprensioni e
colle pene; chi è malvagio affatto e incorreggibile, col metter
fuori dalla società. Disgraziatamente pochi stati, la sola Sparta
ferse, hanno provveduto così alla pubblica educazione!. Intanto, mancando
i provvedimenti pubblici, ciascuno in privato dovrebbe indirizzare alla
virtù e alla felicità i figlivoli e gli amici. Nella famiglia le parole e
i costui del padre hanno la stessa forza che le leggi e le istitu-
zioni nello stato; forse anche maggiore, per la parentela e i beneficii
onde i figli sono uniti al padre, per la pre- disposizione naturale che è
nei figli all'amore e all’obbe- dienza. L'educazione privata offre
inoltre il vantaggio che può meglio adattarsi e proporzionarsi all’
indole propria di chi si vuole educare. A chi ha la febbre giova in
generale il riposo e l'astinenza, ma a qualche febbricitante forse non
giova, e se fosse medicato nella stessa maniera degli altri, ne avrebbe
danno sicuro. Così egualmente nell'educazione non a tutti è confacente
lo stesso trattamento; a chi uno è confacente e a chi un altro; e
questo fatto d'importanza grandissima l’ educa- zione pubblica è
costretta a trascurare, mentre invece la privata, per la sua stessa
natura, cura moltissimo. In ogni caso però non è atto all'ufficio di
educare questo e quello in particolare, chi non possieda la scienza
dell’ educazione in generale, come non è buon medico, nè buon maestro di
ginnastica a questo e a quello, chi all’ occorrenza non sappia essere
tale per tutti, chi non conosca l'universale (è 7ò 2206201 cid62). In
altre parole sarà I Eth. Nic. X, 9, 3-13.) PTT
di. + -, et di E° x anvonenizzzienazenioiarazizaneeza)
a0eroeanianieneze
innanneananativaneniisaranezaenivaoreraseconesenenezeizeiezassania ria ne stene
ani teneane se educatore privato soltanto chi sarà atto ad essere
anche educatore pubblico, che vale quanto dire reggitore dello stato
e legislatore; perocchè nella piccola vita di famiglia avviene quello
stesso che nella vita più grande dello stato; le pubbliche istituzioni si
formano manifestamente per mezzo di leggi, e sono buone quelle che sono
formate da leggi buone; e così avviene delle istituzioni private.
Se è vero che noi diventiamo buoni per mezzo di leggi, conviene che in
genere, chi vuole rendere migliori gli altri, si faccia atto egli stesso
a stabilir leggi (vopoMerizio), cioè sappia provvedere all'educazione di
tutti; avendo le leggi appunto per iscopo la pubblica educazione, e
per mezzo di essa la felicità universale !. Notiamo a questo
punto come Aristotele parlando dell'educazione pubblica e privata, e del
compito dello stato e dei privati cittadini in rispetto alla virtù e alla
felicità, congiunga strettamente la morale e la politica, anzi faccia
rientrare la prima nella seconda. La morale, la scienza dei costumi,
vuole formare buoni i costumi; ma solo le buone leggi possono arrivare a
questo risul- tato, le buone leggi che reggono la famiglia, e le
buone leggi che reggono lo stato. Alla scienza delle leggi adun-
que, o alla politica, mira in ultimo la morale. Secondo il concetto
fondamentale di tutta quanta la filosofia ari- stotelica, che un termine
superiore rende ragione delle cose che gli sono subordinate, e ne
costituisce l'essenza, il principio e la causa, la politica domina la
morale e la fa essere; al di fuori della politica la morale non può
essere, come non può essere l’ individuo che non viva nello stato e per
lo stato; la politica sola è scienza et ramente padrona e sovrana (2uprotzza 421 dog
irentovini ). i Eth. Nic. X, 9) 14-17. 2 Eth. Nic. I, 13;
9-19. n ri ME, a Det
DEre © ‘\":- è. rmodi d Va S'è detto
che la felicità consiste essenzialmente nel- l’attività dello spirito
secondo virtù. Ora la virtù non è una sola, ma duc, differenti di genere.
L'anima umana è distinta in due parti, la parte ragionevole e la parte
irragionevole (ad M6yov Eyov zzi 76 Zoyoy), sia che queste siano in
realtà distinte fra loro come le parti del corpo e di ogni cosa
divisibile, sia che siano facoltà d'uno stesso principio, per natura
indivisibili (x/©gora repuzòrz) e distinte solo mentalmente (7 %6y@). La
parte irragio- nevole è distinta alla sua volta in due; il principio
della nutrizione e dell’accrescimento (7ò zizuv 708 Fpigsola a
adtesla.), che è affatto estraneo alla ragione, e il principio affettivo
o appetitivo (tò sruupnrzby zi Gims dpeztuziv), che: partecipa.in qualche
modo della ragione, in quanto può ascoltarla ed obbedirle, sebbene
qualche volta, anzi il più delle volte, la combatta e 1’ avversi !.
A questa duplice distinzione dell'anima umana cor- risponde una
duplice distinzione della virtà; vale a dir: alla parte ragionevole, o
alla facoltà della ragione, del x6yo; e, ERE) al "SI eg 5 POTTER Lu
PO pi RE gr sunsuzavesaneanianezezaizicazereazaneeanaraniorenasosasaseneaneaszesiareereaevsiere
avepeonzeniscavevitaezzentencosnesasse nevanveseesuonessee nell’
agire secondo virtù morale. A dir vero però è questa ultima sola la
felicità veramente umana: le virtù che ci procurano questo genere di
felicità non richiedono, per attuarsi, l’opera d'una parte sola
dell’uomo, come il contemplare, ma di tutto l’uomo qual è, composto
di anima e di corpo, di ragione e di passioni; cuvaprapevat Vabtar
(Qi dperat) nai ot meleci mepi cò cbvdeToY dv slev: al dî Toù cuvétov
doetat. avbpwrizai 1, D'altra parte l’uomo è di sua natura essenzialmente
sociale (best rolrizdy d bp mog)?, e, come tale, non è la vita
contemplativa che gli appartiene in proprio, ma la vita in comune, la
vita delle mutue relazioni. - VI. Abbiamo
cercato di riassumere in un’ esposizione chiara ed esatta la dottrina di
Aristotele che riguarda il bene sovrano, e nulla abbiamo trascurato che
possa metterla in piena evidenza. Perfino i dubbii, le oscilla-
zioni, le difficoltà d'ogni maniera non saranno sfuggite svdtyerai
alavariler val mivaa moreÙv mods 7ò Civ zaràmò pdrteTov Toy ev ast ci ip
nai 76 Ga parpòy Sett, duvduet UIÙ TULOTATE TIRÒ PINIOY TATO UrEpSY
et Sotzie d' dv zal siva Eaaetos ToÙTO, l'etmep ed zUpioy al Auetvoy
XTOTOY oùv. qivora) do, ci pin Toy adtod Blov aipotto KARA Tivos
HIM 0U. cò Neybéy ce TipOTEpOY dppuboer xal vv. TÒ Yip olzziov
Sudato Ti pioer vpdriotoy mai BÒetoy tou indoro. nai tò Ibpoto dh d nerd
dv voùy Bitos, strep TobTo padota avblporos. sobros dox 2
ebdaruoventaTOs. 1 Eth. Nic. X, $, 1-3. 2 Eth. Nic. BPPPRPTITTTTLITIOLLALI
ME Lon a chi ci abbia seguito attentamente. Diciamo
oscillazioni e difficoltà, e non a torto, perocchè, mentre nel
primo libro dell’ Etica, e nei successivi, Aristotele ci dice
espli- citamente che la felicità sta nell’ attività pratica, e non
parla quasi affatto di attività teoretica, nel libro X in- vece, nel
quale ritorna sulla trattazione della felicità, quasi volesse completarla
e darle per così dire l’ ultima mano, la fa massimamente
consistere appunto nell'at- tività teoretica; perciò l’ intimo pensiero
suo non ci si amente, e indarno ci sforzeremmo svela
abbastanza chiar a volerlo penetrare. La vera felicità sta nel
contemplare o nell’ agire? A questa domanda la risposta d’
Aristo- tele non è categorica in nessun luogo. C'è anche qui, in
morale, quel contrasto fra l'immanenza e la tra- scendenza, che è la nota
caratteristica di tutta quanta la filosofia aristotelica, e per cui
abbiamo in psicologia il dualismo fra n00 altivo € passivo, il dualismo
fra materia e forma in metafisica, e nella fisica quello più
stridente ancora fra finalità intrinseca ed estrinseca, fra cielo e terra.
3 Ecco infatti quale potrebb' essere pressa poco la risposta
d’ Aristotele. Se luomo fosse una forma sepa- rata dalla materia e
risultasse solamente di ragione e di pensiero, non v' ha dubbio che il
bene suo, la sua felicità starebbe appunto nell’ esercizio di questa
ragione e di questo pensiero, nel contemplare. Siccome invece
risulta di anima e di corpo, è cioè naturalmente un composto
(cbderov), dell'uno o dell’ altro dei due principii presi separata-
mente, sta nell'azione combinata di tutti e due, nella
subordinazione dell'elemento inferiore al superiore, della —
| passione che è propria del corpo, alla ragione che è — |
propria dell’ anima, in una giusta misura della passione, pic che è
poi la virtù morale. Ciò però non impedisce n dona ) i è MR e se
a sua felicità, più che stare nell’ esercizio | Liz emerson e
pata l’uomo possa, anzi debba aspirare a una felicità supe-
riore, alla felicità che dà l’ esercizio della ragione, il con- templare
la verità. Tutto ciò ch’ egli è dipende in ultimo dalla ragione, :da
questo principio divino, ma umano anche, poichè si trova nell'uomo e ne
costituisce l’es- senza; perchè adunque gli dovrà questa vita
puramente razionale, questa felicità della contemplazione essere
contesa? Certo solo Dio |’ attuerà completamente, e l’uomo in parte
soltanto; ma non si neghi per questo all'uomo di rendersi quanto più può
simile alla divinità, d’innalzarsi, per così dire, sovra la sua stessa
natura. Ma se questo è veramente il pensiero d’ Aristotele,
perchè la critica sua contro la dottrina di Platone? Anche Platone aveva
ammesso che la felicità sta nella contem- plazione, nella contemplazione
dell’ idea del bene. L’at- tività teoretica d’Aristotele è forse diversa
sostanzial- mente da questa contemplazione platonica? Anche a lui
adunque si potrebbe rimproverare quello ch’ egli rim- proverava al suo
maestro, che di nessun giovamento è questa contemplazione nella pratica.
Si dirà che Ari- stotele è giunto alla contemplazione solo dopo
aver concesso un largo posto alla pratica? Ma neppure Platone ha
trascurato la pratica; basta a provarlo la teorica, per tanti rispetti
ammirabile, delle virtù morali, che troviamo nelle sue opere.
Del resto l’attività pratica e l’ attività teoretica pro-
‘poste egualmente all’uomo da Aristotele, segnano. bensì un
dualismo, ma non tale che non possa in qualche modo ricondursi all'unità.
Il bello morale, l'ordine e la misura in cui consiste, la ragione che è
causa di que- st ordine e di questa misura, la virtù morale, sono
cose tutte quante umane; mentre invece la sapienza specula- tiva,
il pensiero puro, l'intelligenza sono cose trascendenti e divine. E
tuttavia come s’' avvicinano l’ una all’ altra ce,
queste due specie d’ azioni che paiono così distinte! La
vita pratica che sembra dapprima propriamente umana, trae
dall'ideale divino la sua ragion d'essere e il suo principio; la
vita speculativa che sembra puramente divina, conviene in una
maniera propria ed essenziale all'uomo. Ci sono dei casi nella vita
in cui l'uomo ol- trepassa, per così dire, se stesso € giunge a un
così alto grado di virtù, che solo parrebbe vi potesse
giungere Dio; ci sono dei casi di virtù eroica, sovrumana, in cui
si potrebbe dire dell’uomo quello che Priamo diceva di Ettore
« non sembra figlio di un mortale, ma di un dio »!. In questi casi
la giusta misura che è il carattere del bello morale, e che è
voluta dalla ragione, parrebbe dimenticata; e tuttavia è ancorala ragione
quella a cui si obbedisce, sono ancora i precetti suoi che
vengono eseguiti; perocchè è proprio della natura dell’ uomo
ele- ‘varsi al di sopra di se, e con una beltà morale superiore
accostarsi a Dio, e diventare divino: uomo divino dice- vano gli Spartani
l'eroe ?. Così egualmente la con- templazione è una perfezione superiore,
una perfezione. divina; e tuttavia all'uomo è dato questo privilegio;
la sua stessa natura lo vuole. Potrebbe l’uomo vivere della
vita pratica e morale, se non fosse atto ad innalzarsi x
fino al puro pensiero? Il pensiero è come l’ ideale della vita
pratica e morale; si potrebbe anzi dire che questa si assolve tutta nella
ricerca di un tale ideale. Non si ottiene mai perfettamente, non giunge
mai il pensiero a riposare completamente in se stesso? Ma non meno
per questo l’uomo ha bisogno di attingervi un principio che vivifichi
tutte le parti del suo essere, a cui possa ricondurre le sue azioni, e in
cui, se non sempre € 1 Eth, Nic. VII, 1) (23. 2 Eth. Nic.
VII, 1, 3. completamente, qualche volta almeno riposi. Il pensiero
è per l’uomo il punto da cui tutto parte e in cui tutto ritorna!.
C'è poi un luogo della Politica, in cui si direbbe che Aristotele
si sia proposto di togliere addirittura ogni contrasto tra la prazica e
la /eoria, tra l’azione e il pensiero, e di mostrare anzi che la vera
vita pratica, se la intenda bene, è la contemplazione medesima. «
Se si deve, dice Aristotele, riporre la felicità nel bene operare
(civ sbdauorizi ebrpatizv Darty), vita migliore e per la comunità civile
e pel privato cittadino sarà la vita pratica (z%ì zowf aéons rido: dv sin
al a!) Enastoy dortos Bios 6 mpzzrizis). Ma, soggiunge egli tosto, non è
neces- sario, come credono alcuni, che la vita pratica si svolga in
ona ad altri (2% 76v ATO obr Guorynaloy sivz Trobs Ertpove, naldrzo
otovizi ces), e che fra i peusieri quelli soli sieno considerati come
pratici che riguardano i ri- sultati dell’azione (obdì 7% 3 deavotag si
civar uova TRÙTAS TOUK- uude 7% TOY UTOGLNONTOY bg yiponevzz è% Toi
rpdrten). Pensieri pratici sono molto più quelle contemplazioni e
quei pensieri, che sono fini a loro medesimi e si vogliono in grazia di
se medesimi, (2% 7oid uamdov 7% 2broTeAÌ; uu ads abito Evedz Ismpix DI) n
». Spiega poi Ari- stotele come, nelle azioni esteriori, quelli agiscano
massi- mamente che coll’intelligenza e col pensiero le dirigono e
ne sono gl'inspiratori, quasi architetti che presiedano alla costruzione
degli edificii. Così non converrebbe chia- mare inattiva una città, che
vivesse per così dire, assisa in se stessa, in un pacifico riposo:
avrebbe sempre una vita interiore feconda e bella. Dio stesso e l’
universo non hanno una vita meravigliosamente bella ed attiva,
1 Cfr. le belle osservazioni di Ollé - Laprune op. cit. p. 171-174
2 Polit. VII, 3, 5 e 6 1325-b- af Nidi,
bisi cui 6 Ariani INI st eis PR
Lie SIN La ILA Se RE eee n LT, a
" ancorchè alla loro azione intima non si congiunga
alcuna attività esteriore! ? Evidentemente, come si notava
dapprima, l’ attività pratica per eccellenza è qui la contemplazione. Il
pen- siero ora ha per oggetto un diverso da se, ora se medesimo;
ora s'applica a ciò che risulta dall’ azione che esso inspira e
dirige, ora non ha alcuno scopo estraneo: e tuttavia è sempre il medesimo
pensiero (0empiz), ed è sempre azione (7pà44). Pratica e teoria
sono adunque la medesima cosa; anzi in quella maniera che
Aristotele in questo luogo chiama xp l’azione trascen- dente del puro
pensiero, noi potremmo chiamare 0empix l’azione pratica ordinaria quando
fosse disinteressata. Il disinteresse pratico è analogo al disinteresse
specu- lativo. Nell’uno e nell'altro caso è l’azione in se stessa
che è presa per fine; nell’uno e nell'altro caso il pensiero è
indifferente ad ogni fine estraneo, e non vede che il bello o il bene
morale da una parte, il vero dall'altra. Si opera il bene per il bene, si
pensa per pensare, ecco due azioni intimamente connesse fra loro! Il
piacere che s'accompagna a queste due azioni nasce dalle azioni
medesime prese per fine, td #dsws Svepyeiv... dp Goov 7oÙ Sa aélovs
Spammetai ®. a Intesa e spiegata così la dottrina di Aristotele
che i riguarda la felicità, si vede sparire affatto ogni dissidio
; ! Loc. cit. ‘Il yàg sbroakia aEdoc, ate val TPU; tie pedi o dè
nai TpueTe Vene vupiws ai T6v twrepizsiy modici mods Tate diavotare
doyirentava. VAINA pihv oddî drpazteiv DANA nalov Tac nell’ nità TONELS
Idpupsvas zai Giv oto TPONPAVEVAG... ‘Opotos è ToùTto Urdpyer nai val
Evds brovodv civ IeoTOV TYLONI Yo %y 6 0edc or vado vai mis è nbcuas sis
oùz cio ibotepmai pater TINÙ TU OMnelas TU AUTO. 2 Eth. Nic,
III, 9, 5. Cfr. Ollé-Laprune p. 176-178. r,;sper. eeats.7 pe
5 ? v, n 9 e
contraddizione fra il libro I e il libro X. della, Nico- machea; anzi il
libro X apparisce, com'era nel pensiero d’ Aristotele, un complemento
necessario del libro I. D'altra parte chi non sa come Aristotele,
definendo nel I libro la felicità azività dell'anima secondo virtù
e, se sono parecchie le virtù, secondo l'ottima e la più perfetta (cò
dbpozivov dyabov duyzio Sviofera yen var dostuy, ei dì ristoro zi apetat,
427% Thy dplornv nol tede- worden) *, facesse fin d’ allora prevedere che
l' attività teoretica, la contemplazione, sta sopra a tutto, e che:
di essa pure conveniva parlare dopo aver parlato dell’at- tività
pratica? — L'attività teoretica poi è uno dei tratti caratteristici del
popolo greco, specialmente dell’ ate- niese. Non esaurirsi per modo nelle
necessità della vita giornaliera che non rimanga un po’ di tempo da
con- sacrare agli esercizi geniali dello spirito; conservare la
padronanza di se anche nelle occupazioni più serie e gravi della città e
dello stato, e in ogni caso assicurarsi un ozio tranquillo (7704) per
raccogliersi e meditare; sprez- zare le arti serviti e meccaniche perchè
tolgono allo spirito la sua libertà e l'umiliano; discutere dei grandi
affari dello stato, ma spesso. anche per semplice amore della discussione
e per mostrare parola ornata e ingegno pronto e vivace; fare dell’arte
un'istituzione che vive nel popolo e per il popolo, e alle
rappresentazioni dram- matiche tutto il popolo accorrere, e la lirica
cantare fra il suono e la danza, c pendere estasiato dalle labbra
dei rapsodi e degli oratori, e i filosofi suoi, rapsodi alla loro
maniera, seguire con amore, e ascolne e incoraggiarne le dispute e
sentirsene attratto, come da una segreta magìa, a cui l’anima non può
resistere, ia 1 Eth. Nic. I, 7; 15. 2 Platon. Phedr. 261
A. ’ DNTI GAETA enne II . ecco ciò che distingue
il greco, specialmente il greco d’Atene. E in tutto ciò non è in fondo
altra cosa che il pensiero che ama godere di sè stesso, che considera
questo godimento come la cosa più liberale e più nobile, che in
questa libertà e nobiltà si sente divino. «rXosopodp.ey èvev padaziz,
amiamo la sapienza senza mollezza, dice Pericle in Tucidide !; e queste
parole sono come la sintesi di quella splendida vita greca che mette in
cima a tutto i virili esercizi del pensiero, le gioie profonde
dell’arte, e nelle agitazioni della vita pratica e nelle tempeste stesse
della guerra aspira al riposo, alla calma serena ec feconda dello
spirito, modeuov uèv sionvas y%pW, acy ori dì Tyorte, % d dvavziia 1
YenTi TV AAIOY Evezev È. VII. Ed orà ognuno
avrà potuto notare come un progres- sivo avanzamento nella nozione
aristotetica del sommo bene, o della felicità. In basso i beni inferiori,
i beni del corpo e di fortuna; in alto il pensiero puro, la virtù
dianocetica; a mezzo la vita pratica, la virtù mo-. rale. L'uomo è fra
due, fra Dio e il bruto; al di sotto di lui c’ è la regione del bruto, al
di sopra la regione di Dio; egli tiene dell’ uno e -dell’ altro. Le
esigenz e mol- teplici di questa multiforme natura devono TA
tutte soddisfatte,. perchè s'abbia il bene umano; ma devono
A Csa E . Ro ‘a "o: DR fia ; i ” riferito per intero: ’
Iugaviterv dè Dozer zat 5 gidos, ETspos dv TO5, . 3 O 0 3) A N 11 e eta x
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dova, obdiv dizotper SMolueha yo dv cade nat cl ud yivovra
»n_Y n %, e mo aUrtiv Adovn. chi non si compiaccia dell’
operare virtuosamente e provi in ciò fatica e dolore!. Ma,
più che in altro, l'analogia fra il Kant e Ari- stotele è notevole nella
teorica del bene sommo. Il bene sommo per Aristotele sta nel completo
svolgimento della natura umana; la felicità è identificata con la
eccellenza e la perfezione, che suppone la virtù, la virtù morale
propriamente detta e la sapienza. Pel Kant il bene sommo sta pure
nell’unione della virtù colla felicità, nell’ accordo della moralità
coll'ordine dell’ universo; cioè ancora nel perfetto svolgimento della
natura umana, fatta per essere buona e per essere felice. Il regno
dei fini, di cui parla il Kant, in cui virtù e felicità s’ accor-
dano, in cui le esigenze della legge morale sono per que- st' accordo
completamente soddisfatte, è la vita eccellente e felice, di cui parla
Aristotele; vita secondo il migliore e il più elevato dei principii che
sono nell'uomo; vita che è ad un tempo virtù perfetta e perfetta
felicità, il bene sommo in una parola. I due filosofi s'accordano
poi anche nell’ammettere che il bene sommo, nella con- dizione in
cui l’uomo è, è piuttosto un ideale che una realtà, a cui aspira
incessantemente la volontà, ma che i nostri sforzi non riescono mai ad
ottenere completamente. i Del resto non si tema che, per la
smania dei raf- fronti ad ogni costo, noi vogliamo disconoscere le
serie differenze che pur ci sono fra la morale del Kant e la morale
d’ Aristotele. Prima di tutto il concetto del dovere pel dovere, anzi lo
stesso concetto del dovere; l’esclu- sione totale di ogni elemento
egoistico dalla determina zione delle nostre azioni; il più assoluto
disinteresse, fondamento unico dell’ operare virtuoso; la purezza
{i Eth. Nic. insomma della morale Kantiana, siamo ben lungi dal
trovare in Aristotele. | In Aristotele, come già s'è osservato, la
felicità s'identifica bensì con la virtù nell’ unico concetto del-
l'eccellenza e della perfezione dell'umana natura, anzi la virtù si
considera qua e là come desiderabile in se, anche senza la felicità che
le va unita; e tuttavia è pur sempre la felicità che tiene il primo
posto, tanto che si può riguardare la virtù come un mezzo a conseguire
il bene sommo appunto nella felicità. Nel Kant invece virtù c felicità s'
uniscono bensì, ma non s' identificano; la virtù è l'elemento primo e
fondamentale del bene sommo; la felicità è dipendente da essa e ad essa
pro- porzionata; virtù e felicità, secondo il Kant, stanno fra loro
nel rapporto di causa ad affetto. E la legge morale che vuole che alla
virtù tenga dietro come com- penso la felicità; ma ciò che ha vero valore
è la virtù, il bene morale, la volontà buona; è questa il bene supremo
!. Ma una differenza anche più sostanziale fra i due filosofi
è la seguente. Mentre in Aristotele il nesso tra virtù e felicità è un
fatto, poichè queste costituiscono in fondo una medesima cosa, non
dandosi alcun genere d'attività, a cui non s'accompagni un piacere corrispon=
dente; e perciò, quando la fortuna non sia avversa, l'ideale del sommo
bene, se non sempre e totalmente, in parte almeno e di tempo in tempo,
agli uomini amici della virtù è possibile attuare quaggiù; nel Kant
invece quel nesso, 1 Non bisogna confondere, nella
teoria del Kant, il bene sommo col bene supremo. Bene supremo, come
risulta dal primo capitolo della:Fondazione è la virtù, il bene morale;
bene sommo è invece il . bene che in se li comprende tutti, il bene
perfettissimo, che è la somma della virtù e della felicità, Cfr. Cantoni,
Emanuele Kant vol. II, p. 172. ber "d . cage foi e. ONT sein Rei ME a
SA anzichè un fatto, è un diritto; il diritto del bene a un
compenso, il diritto della virtù a non essere sacrificio e dolore sempre.
Ma un tale diritto, cioè un tal nesso necessario tra la virtù e la
felicità, è vano sperare che si attui nella vita presente, sebbene in
questa si com- piano le azioni rivolte a tale scopo: le leggi del
mondo sensibile e fenomenico vi si oppongono; solo in un mondo
noumenico, avrà luogo. Il bene sommo perciò è pel Kant intimamente
connesso colla vita futura e con Dio; per Aristotele invece è affatto
indipendente e dal- l’una e dall'altro. IX. La
legge morale secondo il Kant prescrive | at- tuazione del sommo bene; ma
occorre a tale scopo che il primo ed essenziale elemento di esso, che è
la moralità, consegua il grado massimo, la santità, che è il pieno
e perfetto conformarsi del volere alla legge. Questa perfezione morale
assoluta, però, l’uomo non può conseguire in un tempo finito, come la
durata di questa vita: essa suppone un progresso continuo e inde- finito;
e quindi, nella esistenza della persona morale, una durata egualmente
continua e indefinita. Solo a questo patto, al tipo di perfezione, all’
ideale morale, che è la santità, l’uomo potrà indefinitamente
accostarsi. La credenza nell’immortalità dell'anima è perciò
secondo il Kant, una conseguenza necessaria della legge stessa
morale, che ci ordina di aspirare alla perfezione, come allo scopo
necessario della ragion pratica. Ma il bene sommo ha due elementi,
la virtù mas- sima e la massima felicità. L’immortalità dell'anima
rende possibile il primo: come si otterrà il secondo? 0, meglio, come si
otterrà che al primo si connetta il se- condo? Questa connessione, quest
armonia dei due ele- menti non è possibile che per mezzo di un Essere,
che. abbia la potenza di stabilirla, abbia un intendimento morale e
sia fornito d'intelligenza e di volontà. Solo questo Essere potrà
connettere la natura colla moralità, anzi sottomettere la natura alla
moralità. Così la cre- denza in Dio, secondo il Kant, è necessaria; e
quando si tolga questa credenza, converrà anche rinunciare alla
speranza del sommo bene, che pure la ragione pratica ci presenta come lo
scopo necessario della nostra attività e della nostra esistenza. In
Aristotele l’esplicamento dell'attività razionale perfetta, la
contemplazione pura, in cui sta il bene supremo e la suprema felicità,
richiede egualmente i due postulati dell'immortalità e di Dio? }
Che Aristotele, nel libro decimo specialmente, parli di Dio e
d'immortalità, che inviti l’uomo ad aspirare all'alto, al divino, all’
immortale, oltrepassando per quanto è possibile la condizione umana; che
una certa aria di misticismo spiri, per così dire, dal libro
decimo, è un fatto che non si può negare. Ma di Dio nel libro
decimo si parla come d’ un ideale, a cui si deve mirare di continuo, come
dell'Essere che attuando in se la felicità perfetta, che è la pienezza
della vita contem- plativa, e avendo in se in grado eminente e perfetto l
e- lemento più nobile che si trovi nell'uomo, la ragione, merita
perciò che l'uomo si studii d’imitarlo e d’innal- zarsì fino a Lui: non
mai però se ne parla come della causa da cui dipenda la felicità, come
dell’ Essere che voglia premiare la virtù !. Il Dio d’Aristotele è un
Dio metafisico, press'a poco come il vods d’ Anassagora: esso
1 Gfr, Eth, Nic. X, 7; 8-9 e X, 8, 6-8. ATC per Sti
ha è mero pensiero teoretico mancante di volontà, e privo quindi di
una vera e viva personalità; è piuttosto un concetto che una
persona. - Dare a Dio gli attributi della persona pare ad
Ari- stotele abbassarne la maestà e accostarlo all’ uomo, farne
anzi qualche cosa di sostanzialmente identico all’ uomo. E Aristotele
respinge risolutamente l' antropomorfismo, che dimentica l'eccellenza
della natura divina, e attri- buisce agli dei una vita che non differisce
molto dalla nostra !, quasi fosse l’uomo la parte più eccellente
dell’ universo. Per paura dell’ antropomorfismo egli non vuole ripetere
con Platone che Dio sia l'organizzatore dell’ universo, respingendo come
indegne della divinità tutte le imagini che, a rappresentarla, si
prendono a prestito dall’operare umano ?; e nella cura gelosa che
ha della purezza dell’ intelligenza divina, per poco non le toglie la
conoscenza dello stesso universo 8. Certamente la divinità agisce
nell'universo e nel- l’uomo; certe disposizioni felici che preparano
alla virtù e alla saggezza trovansi in noi per divine cagioni,
0elas aîtias 4: l’ universo tutto quanto si spiega per una intima azione
divina”. Ma quest'azione è differente dalle azioni ordinarie; non c'è qui
ne opera, nè ope- 1 Metaph. XII, $; Polit. I, 2, 1252b.
Eth. Nic. X, $, 7. 5 Metaph. XII, 9. Kzt *j&p ph og%v
îvix noelttoy © 0o%v. + Eth. Nic. X, 9, 6. 70 sèv oùv ci
giri LI LA n .. » ‘ QUrems Fiv de dz E)
vipiv Srrzoyer, DIAZ dix Tivas Veius nitiu mots dis dinboe sdrv- yéow
Urdpyer. " b IT. POI O ti $ Metaph. XII, 7, 1072b 14.
°Ez towòrne “ae Hora Ò . 0, odpavbs vel + gia. De
Coclo I, 4, 2712 32. ‘O eds 2! nei i IG oUdèv pataiv
roroiar. Oecon, I, 3, 13436 26. giro vi mpoWzOv4- pnmar bTd 79d Metoy
Snztepov di pbos. Uorsoraeaseronisenazioniivsanasanii nvansuninaaionniseenaeeresione
sunsrnarezioneerez a tesneszena near
nsanesaraeannasanesanezazeereneeccvarieniesnanivetete ratore, non c'è
governo simile a quello che si riscontra fra gli uomini, nulla è qui
fatto, nulla conservato !. La cura dell’ universo e delle cose umane, nel
senso in cui s'intende comunemente, non può convenire a Dio che non
è l’autore delle cose, e che non può occupare di questi oggetti inferiori
il suo purissimo pensiero: questa cura importerebbe, se non un
turbamento, un cangia- mento e un movimento sicuramente, un passaggio
da ciò che non è a ciò che è, un progresso dalla potenza all'atto;
il che sarebbe indegno di Dio, che è atto puro e che è immobile. Il
rapporto fra Dio e l'universo è . semplicemente un rapporto di finalità;
Dio agisce sul- l’universo, perchè è il fine che attira tutto a se, è il
primo motore immobile (eros vuvody artyizos). Perciò nessun legame
propriamente morale e religioso fra Dio e l’uomo: Dio non è il padre
degli uomini come in Platone; non è buono, non è giusto, non assicura
alla virtà le ricom- pense future, non infligge al vizio e al delitto i
castighi meritati 2; il Dio d’ Aristotele è nelle altezze serene,
ma fredde del pensiero. Per verità Aristotele parla della
riconoscenza che gli uomini devono ai beneficii divini 3; ma, oltrechè
ne parla per incidenza, e come per far meglio comprendere la
riconoscenza che i figli devono ai genitori, gli è certo che, nella sua
dottrina, la divinità è bensì causa d'ogni bene, e tuttavia non è essa
stessa benefica. Parla anche Aristotele d'un onore, d'un omaggio, d'un
rispetto ch'egli chiama 7, dovuto alla divinità4; ma anche di
| Eth. Nic. X, 8,7. 76 dè Cove (020) 705 Ter TEL dPa0Y= | LA
ù uévov, Emi dè uadiav Tod note ni \cimerat TAN Neoplz. 2 Vedi
specialmente il Gorgia € la Repubblica di Platone. 3 Eth.-Nic. VIII, 12,
5 4 Eth. Nic. IV, 3; 10; VIIL 9; 55 VII 14, 4i IX, 2, 8.
0/4» arl ente TILNR CTZ LATER RI IR LL
i'Rie SOSSIRORE SE RESESTRE TI CS VADO ser COCO PETOSII OLI SISIFI
PePSPS Ire tcE te TITSII EVI to reno rai e eva questo parla per
incidenza e. alla sfuggita, senza punto curarsi di determinare in che
cosa consista. La pietà, sdattaz, di cui troviamo così spesso fatta
menzione in Socrate e Platone, non ha alcun posto assegnato in Ari-
stotele; e s'egli parla di feste e di sacrificii religiosi che parrebbero
come le esteriori manifestazioni di essa, ne parla o a proposito della
magnificenza, uey6rpere:z!, 0 a proposito della necessità che il
cittadino per tal modo si diverta e riposi; e quindi più propriamente
sotto un aspetto dirci estetico od igienico, che sotto un aspetto
religioso e morale. Ogni commercio affettuoso fra Dio e l’uomo è perciò
interdetto nella dottrina d° Aristotele. In un certo luogo la Nicomachea
dichiara esplicitamente che, stante la manifesta e schiacciante
superiorità degli dei sugli uomini, non: è possibile amicizia fra i
primi e i secondi; la troppa distanza nella virtù, 70) didetapz
dpertig, impedisce l’ amicizia *; e la Grande Etica, ripe- tendo e
allargando il concetto della Nicomachea, afferma anche più esplicitamente
che sarebbe strano che l’uomo dicesse di amare Dio, e che, in ogni caso,
Dio non può amare l’uomo 4. E ben vero che | Etica Eudemia di-
chiara che l'amicizia che unisce il padre al figlio è quella stessa che
unisce Dio agli uomini, wxtpds z2ì vid 20th N, i Eth. Nic. IV, 2,
11. “ 2 Eth. Nic. VIII, 9, 5. Cfr. specialmente le parole: ()votzg
Te moroivtes nai mepi adr GUVOdOLE, quà Amovenavtes Tote
Veote, nai uicote avarabazio mopilovies vel dove. 3 Eth. Nic.
VIII, 7, 4 4 Magn. Mor. II, 11,6. fori Y%9, ds oloviat, giix val
pds Nedy val T& %buyz, ob oplòs, ahv 2 siva o) tot Td
dvrioietola, dì rebs Vedy ouiz ole dvi onetoa: déyerzt, od’ dios Td
grieiv: Zroroy yÀp dv sta St cu quin ev toy Ala, o onix
svrzbl4 masev arersezionicnaze:censazezena reno zecepana au lusen
sshasesed tas tone onsarasenerprooresasaseraonea tenace cpeseecesessovezievzenivaceosze
nt rep 0z0d mods &vporov!, e che la più alta perfezione
mo- rale consiste nel servire Dio®; ma è noto quanto Eudemo, questo
discepolo d’Aristotele, si sia allontanato dallo spi- rito del maestro,
accostandosi per contro a Platone. % In conclusione adunque' «il Dio d’
Aristotele non : è nè l’ autore, nè il signore dell’uomo, nel senso
che Lia ‘renda possibili i sentimenti affettuosi; non è
legislatore, 3 non giudice, non rinumeratore, non vendicatore.
L'uomo sa che lo considera, lo vede al di sopra di tutto in un'alta
e serena regione, come il fine che attira tutto, come il modello della
vita perfetta e della suprema felicità. Poi ù lo vede presente
dappertutto; l’azione e |’ irradiamento D; dell’ intelligenza suprema gli
appare come il principio ;9 di tutto; la sua propria intelligenza è ai
suoi occhi cosa divina, divinissima, e perciò è in se stesso e come
nel suo proprio fondo e nella sua propria essenza ch' egli Rei 3
trova Dio. Ma nè nell’uno, nè nell'altro dei due casi, «“& l’uomo si
unisce a Dio con un legame propriamente 0 he: religioso. Egli non trova
in Dio la legge della vita; egli i non ha giudice, se non la propria
ragione, € il suo fine 33 ed È sembra essere egli medesimo, quantunque in
un certo he | —’senso sia quello al di sopra di lui n°. . n 2006
Lasciamo poi che non di rado in Aristotele troviamo È x: i la tendenza a
non distinguere Dio ‘dal mondo, a farne | DE ‘anzi una cosa sola;
l’immanenza del fine nell'universo è e concetto altrettanto aristotelico
quanto è concetto aristo- ‘A telico la trascendenza; sicchè, come osserva
|’ Ueberweg, « resta un certo spazio così per un’ interpretazione I Eth. Eudem. VII, 10, $. marpos di zi
viod vadth “nmeo Neod pds Hviporov ui TOÙ SÙ TOAGANTOG mods cdv mebovia
vat dwg To) gloer dpyovtos Tpds ov Quasi dpyopevovi 2 Eth.
Eudem. VII, 15 in fine. 1 106 A RR 3 Ollé- Laprune op. cit. p.
202-203. i ora vi "i ve
reti ione di preferenza naturalistica e
panteistica del sistema aristotelico, come per un’interpretazione
favorevole allo spiritualismo e al teismo !.v Il divino dentro il
mondo e la natura, pronunciato filosofico, che dovea avere un così ampio
svolgimento negli Stoici da informarne tutta la dottrina, non è senza
fondamento che si faccia risa- lire fino ad Aristotele. Molto giustamente
lo Zeller afferma che la natura nella filosofia aristotelica sì può
definire la sfera dell’interna attività finale 2. Quanto
all’immortalità dell’anima, alcuno potrebbe credere a prima vista che
Aristotele. volesse alludere a questa, quando parlava della via perfetta
(Bios Tide), necessaria a formare la felicita perfetta. Ma è
evidente che qualora il filosofo avesse voluto veramente intendere
per vita perfetta l'immortalità, si sarebbe espresso in modo meno
enigmatico, e quel suo concetto avrebbe chiarito ben più che non ha
fatto. Noi già abbiamo detto come è da intendere il Rios 7élevos, © ci
pare che non sia bisogno di aggiungere altro in proposito. Il
problema dell'immortalità non è neanche toccato nella Nicomachea. Vi si
accenna per verità una volta là dove è detto che i morti pare debbano
interessarsi della sorte dei loro cari, e si fa questione se essi
par- tecipino, o no, dei beni o dei mali; ma vi si accenna alla
sfuggita, senza dimostrazione o discussione alcuna, e come per fare una
concessione alle credenze popolari 4, anzichè per una vera e propria convinzione
filosofica 1 Grundriss der Geschichte der Philosophie- Erster
Theil- Die aristotelische Naturphilosophie, Sechste Auflage, I,
204. 2 Geschichte der
Philosophie der Griechen, Zvveiter Thei I, Zvveite Abtheilung p. 325. Tubinga, 1862. 5 Eth. Nic. I, 11, 1 e
5-6. TIR 1 SARE 4 Cfr. infatti le parole: 7% Sì -6y ITOYOIOY
by as vai cv “ x dell'autore; tanto è incerto €
irresoluto il linguaggio che questi vi adopera. Del resto
l'immortalità non può trovar posto Nel sistema d’ Aristotele. E noto che
Aristotele ha fatto distinzione tra intelletto agente, voi: rovnrmds, €
intelletto passivo, vovs malnriés, cioè tra un principio che
nell'anima umana vivifica e informa, e un altro principio che viene
vivificato e informato; è noto anche che il primo dei due egli considera
come separato, immisto, immortale, e l’altro fa perire colla vita
presente. In quale dei due prin- cipii consiste la personalità umana?
Tutte le controversie del Rinascimento a questo proposito, provano che
una . risposta decisiva a una tale domanda non si può dare. Ma
qualunque potesse essere questa risposta, non sa- rebbe certo favorevole
all’immortalità della persona; pe- rocchè, anche dato che la persona
umana consistesse nell’intelletto agente, non si potrebbe però da
questo arguire la sua immortalità. Colla vita presente si spegne e;
NITTO CRE E LETTA lee TI la ricordanza, lo dice
esplicitamente Aristotele Lee Ù spenta la ricordanza, a che cosa si
riduce l’immorta- A lità dell’ intelletto agente? All’immortalità dir un
prin- DI cipio astratto, indeterminato, del principio dell’ intendere
3 in generale, all'immortalità d'un principio che manca hi d’ ogni
carattere personale, se è vero che la persona è Si costituita
essenzialmente dalla memoria e dalla coscienza. i Manca adunque
nella morale, e in genere nella 5 filosofia d’ Aristotele, il concetto
dell'immortalità | della “ì persona: sebbene non si possa concludere per
questo | che il filosofo abbia voluto negare quest immortalità ; È
? 7A da t è ?aI, v INI ETINTOY dò
pèv pindorioby coptaieola May dordoy qui vera nat mots dota Evavtiov.
Eth. Nic. I, tr, 1. 4 De Anima III, 5, 4. Vedi per tutta questa
questione dell’in- telletto agente e dell'intelletto passivo De
Anima III, 4, 5, 0. TR et =
pai detti pare dà gno vinte, vr rd
pa din 254 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ
SERIO TRENI I ciò non si può dire; convien dire piuttosto
col Teich- miller ! che intorno al problema egli s'è mostrato
dubbioso ed incerto. Tolto alla morale il concetto di un Dio giudice
e dell'immortalità, e rinchiuso l’uomo nei limiti della vita
presente, si dirà che non si capisce come possa essere effettuabile
l'ideale di felicità di cui parla Aristo- tele, in cui nulla dev'essere
imperfetto, ovdîv ap drchég ori Tv ic sbdazovizz: si dirà che non-si
capisce come possano accordarsi: virtù e godimento, se così spesso
vediamo la virtù sofferente; come possa richiedersi quale condizione di
felicità una vita perfetta, {sos 7éAe10g, Se questa è abbandonata ai
capricci della fortuna: si dirà anche che la felicità aristotelica,
abbracciando molti piaceri”. è che non si possono ottenere senza
ricchezze, o ottime disposizioni di corpo e d’ ingegno, o nascita
illustre Ecc. diventa per ciò stesso un privilegio solo a pochi
con- cesso. Tutte queste difficoltà ed altre molte della morale
aristotelica comprendiamo perfettamente; ma compren- diamo anche lo
Spirito eminentemente positivo e scien- tifico, da cui Aristotele dovea
essere indotto a trattare la morale da un punto di vista: puramente
umano, lasciando da parte i rapporti che la possono connettere con
Dio e l’oltretomba; comprendiamo ch'egli abbia voluto nettamente
distinguere le verità della scienza da ciò che è soltanto congetturabile.
« Poichè il suo metodo Positivo, osserva il Ferrari ®, non Poteva svelare
il segreto della tomba, meglio era tacere sulla sanzione oltre-
mondana, anzichè pretendere di dimostrarla con miti e con fantastiche
analogie. Per Questa tacita risoluzione ci pare ch'egli abbia meritato una
volta di più della 1 Studien zur Geschichte des
Begrife, p. 342. 2 L’ Etica di Aristotele riassu nta,
discussa ed illustrata, p. 334- “IC VI diri
ra scienza, e che in questa via ben fece abbandonando
Platone. Certo ei mantenne fede, diremo così, al suo programma, nè
dimenticò qui, come non dimenticò altrove, il rigore che un trattato
scientifico esige. » Del resto, colla sua dottrina profonda che il
piacere è connesso in ogni caso coll’ atto, Aristotele intendeva a
dare all’operare virtuoso un premio, che non fosse bisogno ricercare. al
di fuori. Certo egli non ha mai detto che la virtù sia premio sufficiente
a se stessa; ma la dottrina stoica che ciò proclamava, non è così
distante da Aristotele come può sembrare a prima vista. Gli Stoici, per
arrivarvi, non hanno fatto che svolgere il concetto Aristotelico della
connessione del piacere coll’ atto. Col senso pratico che lo distingueva,
Aristotele notava che non si potrebbe chiamare felice, ancora, un
virtuoso a cui capitassero sventure quali, ad esempio, capitarono a
Priamo 1; ma notava anche che un virtuoso assolutamente infelice non può
essere ?. La virtù insomma per lui era un premio, non certo sufficiente,
ma premio pur sempre a se stessa. E per ciò il bene umano, td
dvbp@rivoy 206, non era necessario ricercare al di non della vita, e
aspettare come premio dalla divinità: la vita presente poteva darlo, sebbene
non perfettamente. Per tal modo la morale avea in Aristotele un
domi- nio proprio, indipendente e dalla mortalità e da Dio
medesimo. i Il Kant, quando stabiliva che la legge morale è
ob- ‘ bligatoria assolutamente e per se medesima, e non ab-
bisogna quindi di nessun principio, neppur di Dio, per valere; quando
affermava che la legge e il dovere è il più alto concetto della filosofia
pratica, e che il concetto E mibiierm Liste. Cral rt
‘ rio A it gli a pet LAS NE IRE II 4,
| ICI sia ‘bo 1 Eth. Nic.
I, 9, 11; e I, 10, 12-14. 2 Eth. Nic. I, 10, 9-11, € 13.
ENolioiiaoi pescesaieeressiepesenesareeeeseece, A DI
iii mt sino
lo fa oramai senza fatica e quasi senz’ accorgersene. Non basta fare le
cose dell’arte, per essere artista, ma bisogna anche farle
artisticamente; e così egualmente non basta fare azioni virtuose per
essere virtuoso, ma bisogna anche farle virtuosamente!. Ma
questo paragone della virtù all’ arte, se qui fa al caso nostro, non si
può accettare sotto altri rispetti. Poichè per l’arte non si richiede che
l'artista sia disposto in una certa maniera: un’opera d'arte è un’ opera
d' arte indipendentemente dalle intenzioni buone o cattive, dalle
disposizioni d’ animo di colui che l’ ha fatta; essa ha il pregio in'se
medesima, non fuori di sc. Invece non è così della virtù: la virtù è cosa
tutta soggettiva; perchè un’ azione sia ad essa conforme, non basta che
sia fatta in una certa maniera, non basta che abbia un pregio in se
stessa, indipendentemente da colui che l’ha fatta; si richiede per contro
che appunto colui che l’ha fatta sia disposto in una certa maniera. Senza
questa dispo- sione intrinseca di chi opera, l’azione avrà tutte le
apparenze della virtù, arrecherà anche i vantaggi che suole arrecare la
virtù, ma non sarà però virtuosa. E la disposione intrinseca di chi opera
sta in ciò, che questi conosca l'atto da farsi e'le sue circostanze, che
operi preeleggendo o per volontà libera, a fine d’onestà, o
preeleggendo l’azione buona per se stessa, e finalmente con fermezza
d'animo e costanza ®. Di queste condizioni la prima sola, la conoscenza,
ha importanza per l'arte; 1.Eth. Nic. II, 4,12. È . da O) 4‘
., . CL) 2 Eth. Nic. II, 4, 3. 7% dî «27% %5 dostàe qIOLEYA 00% TI
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Quae spo nsaoduev0I, AI rossonero: dr abrz, 6 dî colroy uz è
Ù ” . DI ‘ bd LA . . Melzio: vl Quesito: Spor rotta. Quello
che dice qui - per la virtù invece la prima ha importanza
minima, massima per contro le altre!. Come si vede,
Aristotele qui, conformemente alla tendenza già notata in principio,
cerca nell’ intimità dell’uomo, nel mondo riposto delle intenzioni e
degli affetti, la sorgente vera della virtù, Non è all’esteriorità
dell’ atto che si deve badare, ma al suo valore interiore, che gli deriva
dalle condizioni interiori di chi opera. Nel- l’analisi di queste
condizioni interiori Aristotele rimase insuperato. Non diciamo già che
prima di lui non si ‘ fosse visto che il valore dell’azione sta
principalmente în queste condizioni interiori. Fino in Democrito troviamo
via che è il sentimento e non l’azione chie fa buono e cattivo
l’uomo, e si richiede che il male non soltanto non si faccia, ma anche
non si voglia, e. che il bene si faccia per libera elezione, non per la
speranza della ricom- Aristotele, con molta verità, intorno alle
condizioni che deve avere l’azione per essere virtuosa, si.risolve in una
critica a quanto egli dice in altro luogo. Egli afferma infatti (Eth.
Nic. II, 2, $ - 9) che le azioni virtuose che si fanno, dopo acquistato
l'abito della virtù, sono eguali a quelle per le quali quest' abito venne
formandosi. Ciò non può essere, poichè, se si guardi all’azione per se,
indipen- dentemente da chi la fa, certo essa è la stessa, sia prima, sia
dopo l'abito; ma non è già la stessa, se la si consideri în riguardo a
chi la fa: quella che è fatta prima dell'abito non è fatta con elezione,
nè con quelle altre condizioni che deve avere la virtù: quella che è
fatta dopo, invece, ha l'elezione e tutte le altre condizioni che le si
con- “i | vengono. Cir. il bel commento di Bernardo Segni a questo luogo.
i (L° Ethica d' Aristotele, tradotta in lingua vulgare fiorentina
et comentata per Bernardo Segni, Firenze, MDL). 1 Eth. Nic. IT, 4,
3. eds dI #d mà doors Eye =d psv SNSLI " pazgoy di ubdiv layer, rà
d' KNz 0d putglv DIA TI ni divari. "i ». - C? Ci Urso
è4 où TONIAMI TILETEN nd dirzia vai aOpPIVI Fepuviverzi,
è in noi, il dolore che a questo stesso atto s' accom pensa
!: € dai Cinici la virtù non è fatta consistere nel sapere solo, come da
Socrate, .ma eziandio nella forza e nell'onestà del volere; e Socrate
stesso, e massima- mente Platone, non trascurano le condizioni
interiori della virtù, sebbene, riducendo la virtù al sapere, fini-
scano in fondo col negare ogni valore alla volontà. Ma prima dello
Stagirita indarno si cercherebbe un esame rigoroso € completo di queste
condizioni: a lui nulla è sfuggito; principalmente si può considerare un
Vero capolavoro lo studio suo intorno all’ appetito e alla volontà,
quali condizioni dell’ operare, come vedremo in un altro Saggio. I
Poichè, come s'è detto, non è virtuoso se non colui che, essendosi a
lungo esercitato ad operare Virtuo= samente, lo fa oramai senza fatica e
senza stento, € quasi senz’ accorgersene ; è segno che s'è fatto già
l'a- bito alla virtù, il piacere che s' accompagna all'atto
virtuoso compiuto, come d'altra parte è segno che il vizio pagna.
Così chi s' astiene dai piaceri corporei € di ciò sente piacere, è
temperante, intemperante invece chi A prova dolore; ed egualmente
chi sopporta cose gravi cd acerbe e ne gode, è forte, chi se ne addolora
vile ?. Ecco qui una sentenza d' Aristotele troppo assoluta e che
non può essere accettata da Aristotele medesim0: Aristotele infatti ha
affermato che è necessario eserci* tarsì ad operare virtuosamente per
diventare virtuosi: © È qui afferma che chi prova dolore nel fare le
azioni virtuose, è addirittura vizioso! Queste due affermazioni +
sono contradditorie. Chi tende e si esercita et diventati 1 2A bi
5 $ \ DS CIRCA ONESTI RIOO TOR - nie T Hoy ne) 10) Nag VOVAZEW, DI
2h uadi BI PPICINA = N69 sr i erov rode =) et 2 ; L STOY
Fpos TAV MUOLEAY, DI è 3 dp ooo 2 Eh Nic II, 3; 1.
- si PETRI EAAZA NZ A RANE A A FARA ETTI ALATI LETIZIA ANI PAT AT
TEN PAT IZ ITA TE PITT ATTENTA rene ravaneniasea serene
ssannarizioninuese.Fuvaseriaeeesazsiesecaece virtuoso, non può non provare
stenti, fatiche e dolori a seguire la sua via, se pure è vero che la
virtù sta essenzialmente nel sacrificio; e dovrebbe essere per
questo collocato nel numero dei viziosi ? Aristotele stesso parlando in
un certo luogo dell’ èez74g, ossia di colui che fa forza a se stesso per
esser buono, e che. per conseguenza opera con fatica e dolore ciò che è
proprio della virtù, l’esclude bensì dai virtuosi, ma non lo mette
però fra i viziosi; anzi l’approva e gli dà lode, come a quello che
naturalmente si dispone a diventare vir- tuoso !. D'altra parte
Aristotele considera il vizio come la malvagità scelta e voluta per se
stessa, non per altro che possa venirne, come la malvagità passata
in abitudine, da cui non sì può più ritrarsi, di cui è im-
possibile pentirsi, e che quindi è incurabile ?. Ora come può dirsi aver
contratto quest abito proprio colui che opera virtuosamente, è bensì vero
con fatica e dolore, ma collo scopo ultimo di diventare virtuoso?
La vera dottrina d’ Aristotele è adunque la seguente: è virtuoso
colui che gode dell’ azione virtuosa che fa, non è ancora virtuoso chi
sente comecchessia dolore a fare un’ azione virtuosa. Contro
questa dottrina però, per cui la virtù è la moralità passata in abitudine
© connessa col piacere del ! Eth. Nic. VII, 1 specialmente il $ 6.
Quello che dicesi dell’è»- uoITEA, SÌ ‘può anche ripetere della z237eptz
€ di tutte quelle altre disposizioni che non sono virtù, ma che si
accostano alla virtù. 2 Eth. Nic. VII, 7, 2. 0 péy iù Urrsphodds
diozoy Adtov È . DS NI . IAS DI x 0 3a, va0) brepBoXny
vai dik rrooziosawy, dr adrze nai undev dL' Erspoy, ò ci i a a
arobrivov, dnbNaetos, [avdyza “Ro TOsTov uh siva persuedt
suziv, Gar! dIvlaros' 6 yd0 WieT4uENI 95 intazog i, Cfr. Eth. Nic. VII,
8, 1- 4, luogo importantissimo, perchè parlandoci del divario tra
l'intemperant® (&40).407 ) e l’INCOTINENTE [cf. Grice on pratical and
theoretical akrasia] { gaoxtic), ci parla suo atto costitutivo, si
potrebbe osservare che è troppo unilaterale ed esclusiva.
Come? non è dunque virtuoso chi, pur avendo a lottare contro
l’infinità di ostacoli che oppongono le passioni e gli uomini, riesce a
compiere un'azione buona? x E non è virtuoso, perchè
appunto ha dovuto lottare, d ha faticato, sofferto anche, nel
compiere quell’ azione ? 2 O m' inganno, o appunto la lotta, la fatica,
il dolore © affrontato e vinto per amote del bene, costituisce il
merito dell’azione e la virtù; che sono tanto maggiori ì quanto è
maggiore la lotta, la fatica, il dolore. i Ma Aristotele non vuole
ancora chiamare virtuoso F chi, costretto a lottare per fare il bene, è
in pericolo Ù di rimaner vinto nella lotta; è virtuoso solo chi,
dopo n un'infinità di battaglie sostenute e vinte, è divenuto È
tale che, per quante opposizioni gli possano venire, non c'è
pericolo che soccomba, le vince con facilità e disin- voltura, esi rimane
fermo ed incrollabile nel bene. Bisogna convenirne; è una concezione
altissima € nobilissima della virtù; soltanto è lecito domandare,
se a questo grado supremo di perfezione possa giungere — l’uomo. E
possibile, per quanto ci siamo abituati @ dominare le nostre passioni,
ridurle a un tale stato d’impotenza, che non abbiano ad opporsi più al
nostro. det desiderio del bene, o ad opporsi così debolmente da a
esser vinte colla massima facilità? Ma dato anche fosse I possibile,
certo è che, giunti a tanta altezza, non ci È sarebbe più meritò; il
merito starebbe tutto nella vita: anteriore di lotta e di
battaglia. L'autore della Grande Etica pare abbia vista la
anche indirettamente del divario tra il vizio e la disposizione
che non = è vizio, e che pure lo prepara e gli s' avvicina; o, in altre
parole, Cl | parla del divario tra il vizio morale e il vizio
naturale.” Ri VE TT le «dra “ >
lo Lara RFGAOI SODA ICI CANI EE PITTI TIRI IT LOD AI LL
difficoltà in cui cadeva la dottrina d’ Aristotele, quando
introdusse una distinzione tra la virtù che si forma e diventa, c la
virtù perfetta; tra la virtù che si può con- siderare come una laboriosa
conquista del bene, e la virtù che ne è invece il pacifico possesso; e
disse la prima degna di lode (3rxwv:74), perchè, diremmo noi ora, è
uno sforzo, e sforzo meritorio; e la seconda degna di rispetto e di
venerazione (7u6v 7). L'uomo virtuoso di virtù perfetta s'è come
rivestito e penetrato della virtù, ne ha preso la forma, sis #ò ts deerds
cyiuz Tae; ma è in possesso d'un bene sovraeminente, divino, 0zìoy,
piut- tosto che umano!. di i La dottrina d' Aristotele è
adunque, come si diceva, troppo unilaterale ed esclusiva. Virtù non è
soltanto questo stato di perfezione suprema, accessibile a ben
pochi, in cui l’amore del bene e l’ abitudine al bene è riuscita a
soffocare ogni tendenza contraria: virtù è anche lo stato di chi combatte
le prave inclinazioni dell'animo per conseguire il bene, e lo consegue,
malgrado i mille ostacoli che queste gli oppongono. E appunto
il Kant? ripone la virtù nella volontà e nello sforzo di conformarsi al
dovere, quindi nella mo- ralità, per così dire, militante; e la
distingue dalla santità divina, sola immune da passioni, €
impossibile all'uomo. Il quale concetto della virtù non è però
incon- A Magn. Mor. I, 2, 1-2. gr: yàg 7ov Zy206y TÙ USI
GUIA, ) { . Di Poi q Di =} Ò'imavetd... sù dì ciusoy
def PR UU ELI PASTI LI RANA 9 e die AA La
LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ to i JI Notisi
però che la virtù è bensì medretà, conside- rata in se stessa é ne’ suoi
elementi costitutivi, .ma considerata in rispetto al bene, non è
wmedretà, ma un estremo, %ag67n Fth. Nic. II, 2, 3-4 èasîvo dI To
muoaziolo, 97: TR I [Sg + i %
vprazol negras lito ario icrierrercreniinntiuirinrinenein
certo SEN Mesanuzasiaeoninzenaszanin ata nennr era viso La
diritta ragione, applicata alla vita pratica, pro- cede in modo diverso
dalla ragione speculativa, applicata alla definizione e alla
dimostrazione delle cose mate- matiche. Queste sono oggetti ideali
formati per astrazione dalla ragione medesima, e, come tali, semplici,
immu- tabili, necessarie. Con, queste, per conseguenza, la ragione
tratta, come si tratterebbe, per così dire, con persone di propria
conoscenza, senza titubanza, con perfetta sicurezza, con disinvoltura,
applicando loro vegole e criterii assoluti, generali, necessari. Le
cose reali sono invece di tutt'altra natura, indipendenti dalla
ragione, complesse, Mutevoli, contingenti. La sicurezza con cui la
ragione tratta gli oggetti ideali, non è adunque più possibile con
queste; con queste bisogna procedere con cautela, con riserva, con
riguardi d’ogni genere: i criterii assoluti, e le formole precise e
determinate, e le regole generali, sarebbero Per queste un non
senso. Si potrebbe con una definizione breve e Precisa, o con una
serie di ragionamenti, concatenati gli uni agli altri, determinare la
natura € le proprietà di un corpo orga- nico? Nessun artificio di
ragionamento può divinare la realtà; solo l'esperienza ce la rivela; e
siccome non ce la rivela che in PAITE, siccome in fondo c'è sempre
qualche SSPettoro qualche lato nascosto dell'immenso poliedro, la
lagione, aggiungendosi all'esperienza, per Interpretarla, non può
assurgere a concezioni univer- sali certe e decise, rigide e
inflessibili. Ciò avviene anche Maggiormente nelle cose
plesse e variabili e Mobili delle c LI ei 4 |, TEpL Tor
Toxzrov idro. ni PE II ARS e 0051) 5 È Rare PZATOY ) (Nazi FIT 42I ng
CADTOtA costei Mevecli det è sirode del To): '
Li - TaoYege =) . TÀ s Dede npaTrOvIZ: 2% mons Tby UO GROTEW,
MoTEI 42! îri TRE luomo Ba Li S n SEO, 3 VATOLUATIC Sy nai pula
nofepvatiziz. Cfr. Eth, Nic. I, 3. L=. i Ot VE bol. lip” gi
i po via CAI Potramaoo ot
Pte 1. è «dp Dati ll” Pi gue è di AI als RIIEZII a = - erecsater
nd Pa: c* dim : de, ia Sai te ara + rasta Corale È PO a sE %
conseguenza tanto meno atte ad éssere conosciute e giudicate con
esatezza.!, Si potrebbe anche aggiungere che, essendo |’
Etica in Aristotele dipendente dalla Politica, e non avendo.
l'individuo valore per se, ma in quanto vive nello Stato e per lo Stato,
non spetta all'individuo stesso provvedere alla propria moralità, e
stabilire dei pre- cetti generali intorno al modo in cui dovrà agire: è
lo Stato che pensa a lui colle sue leggi, con l’ istruzione e
l'educazione che sono in sua mano, colla sua prudenza impersonale. La
prudenza e la politica sono un medesimo abito, io dì uzi 4 olerizà 220 dA
Copovnore i abrh FATA osserva in un certo luogo Aristotele *: il che vuol
dire in fondo che non c'è una prudenza individuale separata dalla
prudenza pubblica, e che sebbene d’ ordinario non si estenda l’ idea di
prudenza che all’ operare per rapporto agli individui, non può
l'individuo conoscere il suo maggior bene senza prendere in
considerazione la sua famiglia e la sua città #. A che dunque ‘dovrà la
Morale determinare con precisione i precetti morali, se questo mon
è compito suo ? ‘ Non bisogna poi dimenticare che il tipo dell’
operare c' è in fondo in ogni uomo, se è vero che ogni uomo ha la
ragione: la ragione è l'ideale, a cui si tratta di con- formare le nostre
azioni; nella ragione è il primo germe della virtù. Secondo l’ uso che
faremo di questo germe e lo svolgimento che gli daremo, saremo uomini
più I Eth. Nic. V, 10, 7. 70d Y%g doglato» dbp1otos 243 6
RAINON iam, @onep na Tic Acoptas ginodovtis è porbdrvos IVO! Teos
và ò cyhpa coÙ Nilo pertanto: 4ab 00 eva 9 ION, uri cò Vioraua mpds 7%
TpX{ATA. 2 Eth. Nic. VI, 8, 1. a Eh. Nic. VI, $, 3. LA
DOTTRINA DELLA VIRIÙ o meno, chiaroveggenti o ciechi, sani o
ammalati, buoni o cattivi. L'uomo buono è colui che attua
perfettamente in se stesso l’ideale della ragione; perciò è il
miglior giudice in fatto di morale, e per se e per gli altri:
egli 5a sa discernere l’ apparenza dalla realtà, il vero dal falso
sp egli è la misura dell’operare, chè in ciascuna cosa è
misura la virtù e chi è buono °. L'uomo buono ha un sentimento giusto,
fine, delicato di ciò che è buono e di ciò che non è tale, come il musico
ha un fine senti- «G . Mento dci canti, e si compiace dei buoni, è
disgustato n: dei cattivi 8. Può darsi che altri si compiaccia di
ciò che è male, o si astenga, per paura del dolore, dal
bello 5, ma nell’ uomo buono sentimento e ragione _ S'accordano;
egli si compiace del bene come s’ addolore del male; il piacere
dell’uomo buono è piacere vero ‘. | Eth. Nic. III, 4 4-35.
c: N " E, . ns n GTROVdIA: 2% 44977. voive: dolo.
. » . LI ci . ‘ % e r fi : i su ev enzoroe Anbis adrù
puiverzi.... zi de » o Ni “-}| x x i CAL, ‘ 1705 9
STINO 36 AO èv ERIGTORS Dodv, ansi 4AVOY ei Fay i È 08081
Tistoroy . n . Ù au i SA + Eth. Nic. X, 5, 10. Tz d2
TUÙTO | GRUUÀZIA) ) dura, co cio ì ? RENI x da n f 1) oÀ LE B.
pulveTai “idéz, oùdèv Iauzariv: TO)}%} Yo pliocai val ina: x i "| di
I CANPIOAIONI ovini. i CA . ‘ Nic. Igt Aa av VUTAV TY
22% dneyouebz. G FK î lare po SIN “ Ta) Eth. Nic. I, S,
10-13. 7oî Me. messo innanzi da lui come un esempio
atto a spiegare î. in qual modo deva la retta ragione regolare le
azioni. fi Poichè in morale non c'è niente di stabile e di fisso, |
EA e la trattazione di essa è per ciò stesso vaga ed incerta, x
Aristotele si propone di venirle in aiuto, cercando d' in- È dicare in
maniera facile e popolare come deva |’ uomo -
comportarsi per operare rettamente®. © — > Ma in seguito il
giusto mezzo non è più un esempio Lic che serva a spiegare il precetto
dell’operare secondo | retta ragione: diventa anzi una vera © propra
dottrina, che Aristotele cerca di stabilire e di provare scientifi-
camente nel capitolo VI del libro II; a cui conforma la classificazione delle
virtù nel capitolo VII dello stes so libro; su cui insiste e a cui
torna ripetutamente nei due ultimi capitoli VIN e IX. pote i
Del resto la medietà non è che la misura, la misura che la ragione
impone all e passioni e alle: azioni, La RATTO IA
i rà BEATIOTA TAOARANEÌ. I Eth. Nic. I, 13, 15 bplos vd 4Iù
ET i i parole det Yeg 2 Cfr. Eth. Nic. II, 2, 1-7. Nota
specialmente le . ORO e ENCIO KLLAR Srdo TOY dany Fois
garzone anto 40% DI . 1 ì : de "
"© re n i re daga? a i act e x 282 Ò
LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ medietà d’ Aristotele è perciò in fondo la
stessa cosa che la metriopatia di Platone. La retta ragione compie
per Aristotele lo stesso ufficio che il #52, 0 il limite per Platone nel
Filedo : V infinito, 4rexov, di Platone è da trovare, per Aristotele,
nelle diverse funzioni della vita; nel piacere e nel dolore che sono gli
stimoli che servono a conservarla c a propagarla come vita
naturale; nelle relazioni della vita comune, negli onori, nelle
azioni, negli uffici pubblici, nelle passioni in generale, ira, timore,
coraggio ccc.!. Così i due grandi filosofi hanno fatto tesoro in
mo- rale di quel precetto che costituisce come il fondo della vita
comune del loro popolo, «ne quid nimis». Il senso della misura e
dell'armonia è la caratteristica del popolo greco in tutte le molteplici
manifestazioni del suo spirito, ed è il segreto per cui ha potuto
arrivare a tanta altezza nella storia del miondo. Platone e Aristotele si
son fatti in morale gl’interpreti del loro popolo. Già anche
altri prima di loro aveano accennato a una simile dottrina. Focilide avea
cantato che «la mode- razione è ciò che v ha di meglio; che la
condizione media è la più felice» ?: Democrito avea detto che «il
meglio è di serbar sempre la giusta misura; che troppo e troppo poco sono
male » 3; ei Pitagorici, con non diverso intendimento, aveano fatto
consistere nel dezer- minato il bene, nell’indeterminato il male; il che
Ari- stotele approva altamente, aggiungendo, a guisa di
commento, che in realtà l'errore è multiforme e il è 1 Cfr.
Eth. Nic. 11, 7, dove si tratta delle varie virtù e se ne indica
la materia. 2 Bergk, framm. 12. 3 Euscb. Praep. Evang. XIV.
27,3. Si ricordi anche il consiglio ? . . ”, ‘ . DA n)
di Democrito 1eroroaTi FEsyuoe 4% bio Cappereta. cammino diritto uno solo,
sicchè quanto virtù, altrettanto è facile il vizio !. Ma
nessuno al pari di Platone, di Aristole, clevò a sistema questi
massime sparse: qua e là, ed erompenti, per così dire, dal cuore stesso
del popolo. Ogni moralista accoglie di necessità una materia in gran
parte data; ma è lavoro creativo ed originale il dare a quella materia un
fonda- mento più stabile e sicuro. Già abbiamo accennato al
carattere eminentemente estetico della Morale d' Aristotele?: la medietà,
in cui consiste la virtù, ne è ‘un’ altra prova. La medietà è
in fondo nient altro che ordine, misura, determinazione #; e queste sono
qualità proprie del bello. Aristotele, benchè ‘non Ateniese, ha veramente
quel- L'amore del bello con sobrietà e con misura, colla
chiaroveggenza, che viene da un intelletto nemico d'ogni eccesso, che
Tucidide, per bocca di Pericle, dice essere il carattere dei Greci d’
Atene, gu)ézz142 UST sdredetag 1 Ma forsechè la virtù aristotelica
ha solamente un valore estetico, € le manca quel non so che di più
pro- fondo e più intimo, di più veramente morale, che è proprio
della virtù? Ecco una questione grave che dev'essere risoluta. fa
Se si passassero in rassegna tutte le espressioni che Aristotele
adopera per indicare l'atto moralmente buono, si vedrebbe quanto siano in
gran numero le seguenti: è difficile la e più
specialmente precetti e queste 14. Cfr. anche Eth. Nic. 11,
9. 2 € 7. | Eth. Nic. II; 6; Dig «La dottrina della felicita
nell’ Etica Nico- 2 Vedi il Saggio machea di Aristotele » P:
218-219: een i ) O NI rs vat ig gie AZ Te 4 5 Eth. Nic. II,
6, 11. T9 Òì bre uu co 945 pds 11590) Discorso di Pericle.
XL Soy
"on emette voetht s- 32 N} = LX FALGTON, naso EGR The
dott. ni vena naù © de, TE vat ole a
41 Thucyd. II, 44; airrrpentini eee een eee ei n; gn arr ©
2} 20h, di nIIà TUE, 11100 ivenz, Òid Td 22.0V, Teo: cò sai, AIN
Tidog This aperte, poca 22.65, e simili, tutte indicanti che buono ‘e
bello sono la medesima cosa € che il valore della moralità sta in fondo
nella sua bel- lezza. Ma accanto a queste espressioni, ce ne sono
delle altre, che, sebbene non in così gran numero, sono però non
meno degne di considerazione e di studio. Aristotele infatti dice,
ad esempio, che il temperante ariiypeò ©v dei el ds der, z2ì 672; che non
è liberale chi dona vîc uh Sex ®, o prende per donare G0ey pù det 3;
ma invece chi dona vis det ei dre 4, e prende per donare i0ev der
5; che per la virtù morale è cosa di altissimo momento ò yzio3ty ois dei
zzi unsziv % St 9; che quando alcuno per una violenza a cui non si possa
resistere, compia cose % wi di, è degno di compatimento; ma però
bisogna resistere più che si può, non lasciarsi costringere a certe cose,
îviz d tas olz tatuw ivzyazalava:, piuttosto morire, %}}% pX}%ov
drolvatiov, € morire dopo aver sofferto gli estremi tormenti, aalliviz 7%
damorzzz, *. Altrove poi, volendo determinare quasi il carattere
principale dell’azione malvagia, dice che consiste nello scegliere per
malvagità 00, % dz, pur conoscendo ciò che è meglio, %uewov 8.
1 Eh. Nic. IIS,
12, 4. 2 Eth. Nic. IV, 1, 12. 5 Eth. Nic, IV, 1,
15. + Eth. Nic. IV, 1, 17. 3 Eh. Nic. IV, 1, 17.
6 Eth. Nic. X, 1 I 7 Eth. Nic. III, 1, 7-8. 8 Eth. Nic. II, 2, 14.
Dozodat, Fe 0dy, di abrot roomipriolai e dorata. nai doldew, dI nor doti
yer Femor did vasta Qual è il valore che si deve attribuire qui alla
parola der, e alle altre equivalenti, où îo7w, gravato? Accennano esse al
dovere, all’ obbligazione nel senso kantiano, o anche semplicemente
stoico della parola? Siamo qui dinanzi a quella necessità interiore, @
quella coazione d’indole specialissima,. che è penetrata nella
coscienza per opera, in particolar modo, del Cristianesimo?
Certo, dar significa st deve; MA qui mi pare sia- piut- tosto un si
deve di convenienza, di opportunità, di ordine; di armonia, un si deve
estetico, per chiamarlo così, che un vero € proprio si deve morale. Ciò
che si deve fare, per Aristotele, è ciò che è dello fare: ci sono
certe cose che si deve temere € che è dello remere, vin ydig vai dei gopztata
va v).61%; per esser liberali davvero bisogna donare a chi.si deve,
quando si deve’, e dove è bello, dedivar dis Sa al ire, nad 0Ò 4210) 2;
sî deve esser valorosi non per necessità, ma perchè è cosa bella,
dzt ÒÙ où di dvegziav deri siva. Dai e Seni da ha un significato
diverso, e più profondo e più intimo, certo è che Aristotele non s'è
curato mai di determinarlo; anzi quando nei Topici * ‘ha messo New fra le
parole che si adoperano in diversi significati, 79)12/05 IEYOUEYZ.
ne ha accennato due solamente, quello di utile e quello di bello, civ sì
76 Òiov tori 70 Guugspo dd IZZO D'altra parte ciò che si deve fare
è prescritto dalla ragione; e le parole che Aristotele adopera per
indicare queste prescrizioni della ragione sono: 9ì095 FR ù 2oryoac
plles, è 2byas mpua Tiara: Ora che valore hanno DEE parole? Indicano
forse un comando espresso, che ObDUB ui ' Eth. Nic. III, 6.
3: 2 Eth. Nic. IV, 1. 17. 5 Eth. Nic. II, 8, 5:
> +11;3,4- agtonnal, > pr E UT IE e ti al pei
286 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ la volontà, un qualche cosa di
simile all’ imperativo categorico del Kant? C'è in queste parole quel che
di profondo e di intimo, quel che di propriamente morale, che
indarno s'è cercato nel det? Per vedervi tutto ciò bisognerebbe snaturare
e falsare Aristotele. La diritta ragione, osserva con molta acutezza Ollè
Laprune, ordina bensì, 7477, ma si potrebbe dire che « ha meno per
ufficio di dare degli ordini che di mettere ordine. Essa ordina meno all’
uomo questo o quello, che non ordini l’uomo; non jubet, si potrebbe dire
in latino, sed ordinat. Anche quando. prescrive un’ azione, x606-
242721, CSsa prescrive piuttosto un bell’ ordine, una bella disposizione
dell'anima e della vita, che non enunci un articolo di legge. La forma
che dà ‘è estelica piuttosto che legale. Essa ordina lo spirito, il
sentimento, asse- gnando a ciascuna cosa il suo posto, determinando
così fa condotta, molto meno analoga in questo a una legge che
comanda, che a un principio intimo d’armonia. E regolatrice, senz’ essere
propriamente imperativa » ?. Si potrebbe aggiungere che non una
volta sola troviamo nella Nicomachea l’ espressione 5 Ioya:
nededar, la ragione comanda, che certamente non mancherebbe, qualora
alla ragione Aristotele assegnasse un Vial diverso da quello di
semplicemente dar ordine ed armo- nia all'uomo e alle azioni sue *
1 Op. cit. p. 86. 2 Nell’ Eudemia però (II, 3 2) noi
troviamo l° espressione Ò ros ne)evet, la ragione comanda [av 2XGL dì Td
IÉGay o) mode uz Remorav 70570 vyda Sor e rota ve)aber vat 6 Idyos
È ma, osserva Ollé-Laprune (op. cit. p. 86), non certamente con
signi- ficazione kantiana, bensì con valore analogo a quello della frase
della Nicomachea (VI. 1. 2.) Sca 4 tarerzì ve)eber. - In ogni caso
non bisogna dimenticare che l’ Eudemia non è opera d' Aristotele.
Il dovere adunque, chiamiamolo pure con
questo nome, e la regola dell’operare hanno in Aristotele sopra-
tutto un valore estetico; e tion poteva essere diversa- mente, quando si
pensi che manca in lui anche la coscienza morale. La
coscienza morale ? potrà qui ‘osservare qualche- duno; ma come può
mancare la coscienza morale in otte se troviamo in lui un'analisi così
profonda del voloziario e dell’ involontario, se la ragion pratica
vi è considerata come la misura e il giudice del bene, se il sentimento
di piacere che si aggiunge all’ azione compita, è preso come criterio e
indizio dell’ abito virtuoso formato, se è richiesto che il bene si operi
per se stesso, e con fermezza d'animo e costanza, se insomma si
tiene un così gran conto di tutti gli elementi interni, e, chiamiamoli
così, intenzionali dell'atto? E la parola coscienza, cuvzidas, che manca
in lui, non la cosa; e noi dobbiamo tener conto delle cose, non delle
parole. La coscienza morale non è in fondo altro che la legge
morale considerata subbiettivamente, cioè la legge in quanto è giudicata,
conosciuta, interpretata, applicata dall’agente morale: ora non altra
cosa è quella che Aristotele chiama retta ragione, 3500: %6yo; La
retta ragione è come l'ideale dell’ operare; ciascuno porta
con sè questo ideale, e chi vi si conforma perfettamente è, per
così dire, la personificazione della coscienza morale. Certo che in
Aristotele c'è qualche cosa che fa pensare alla coscienza morale, che
anzi, a prima vista, potrebbe confondersi con essa; ma o c' inganniamo,
o) la vera e propria coscienza morale manca in lui, 0 almeno
mancano in lui alcuni dei caratteri proprii e distintivi di essa.
; Coscienza morale non è infatti soltanto la legge morale giudicata,
conosciuta, interpretata e applicata [LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ] una specie
di giudice interno un processo intorno ai nostri un giudice che ci
loda dall’ agente morale; è anche che istruisce, per così
dire, atti e pronuncia una sentenza; È o ci biasima, ci premia o ci
castiga, e traduce in una soddisfazione ineffabile la lode ed il premio,
in un tormento d' inferno il biasimo e il castigo. Fa altrettanto
la retta ragione in Aristotele? La retta ragione giudica anch'essa, ma
giudica alla maniera d’un artista: essa decide che cosa si deve fare per
raggiungere l’ ideale, e vede poi se l'ideale è attuato nelle azioni e
fino a che punto; ma l'approvazione 0 la disapprovazione che dà, il
sentimento che suscita di piacere o di dolore, perchè l'ideale è attuato
o non è, assomigliano molto più a quell’approvazione 0 disapprovazione, 4
quel sentimento di soddisfazione o di disgusto che dà e: prova un
artista dinanzi a un’ opera d’arte, dinanzi all armonia o disarmonia
delle sue parti e del tutto, che a un’approvazione 0 disapprovazione, a
una soddisfa zione.o a un disgusto d’ indole propriamente morale.
Fu già osservato! che il bene si distingue dal dello massimamente per
questo, che nel bello l'oggetto del giudizio è estraneo e più o meno
indifferente all’ uom0, come sono i colori, i suoni, le parole ecc.; nel
bene invece è la volontà propria dell’uomo, cioè l’uomo |
[N x stesso. -In Aristotele l'oggetto del giudizio
morale È bensì l’uomo, la volontà sua, e perciò non è certo.
estraneo e indifferente all'uomo stesso; ma è d'ordi- nario così sereno
il giudizio che la retta ragione Ne pronuncia, si addentrano così poco
nell’ intimo: del- l'uomo l’approvazione o la disapprovazione, il piacere
o il disgusto che ne sono -la conseguenza, che parrebbe SES l’uomo non
fosse in gioco in quel giudizio; dI l 3 Lindner, Lelrbuch
der Psycologie al cap. dei sentimenti morali: o almeno fosse in qualche
modo estraneo a se stesso, Insomma la coscienza morale in
Aristotele,-se pure si vuole chiamare con questo nome la retta
ragione, manca di quel che di intimo e profondo, che ne è il
; carattere distintivo principale, sta, per così dire, alla È
superficie dello spirito, non ne ricerca le intime fibre, 5 e
non conosce quindi nè gioie austere solenni pel bene TM compiuto,
nè rimorsi dilaniuni pel bene violato. In o nessun luogo -d’
Aristotele troviamo qualche cosa che © pi possa paragonarsi a ciò
che noi diciamo rimorso, come Sa in nessun luogo troviamo quella
che noi econo pace «e tranquillità della coscienza 1; l’ idea che
Aristotele si - SO È fa della responsabilità interiore, dice anche
qui Ollè La | Laprune, è piuttosto estetica che morale ?. :
SUE È Per quanto s'è detto adunque è proprio vero che TS la
virtù in Aristotele ha un valore e una significazione x estetica
assai più che morale. » A non diversa conclusione si può arrivare
esami- |. mando il concetto che Aristotele si fa della malvagità
e È del vizio. s Nel capitolo 8 del libro V_ Aristotele
determina netta- ; È mente le condizioni della malvagità. Non si dà
il nome” di malvagità a un malanno che capiti inopinatamente,
ma02)6f 05; questo si direbbe piuttosto infortunio, &76yagz;
non si parla di malvagità neanche quando un danno. recato ad
altri è bensì conosciuto da noi e noi ne siamo | 4 Per verità in un
certo luogo (Eth. Nic. IX 4, 8-9) è detto che i malvagi odiano e
fuggono se stessi ‘e la vita, e si uccidono; il che, farebbe
supporre che nei malvagi fosse vero e proprio rimorso. Mao c’
inganniamo, o qui è più che altro l'interna disarmonia e l'in-
terno squilibrio, e quindi ancora un qualche cosa di contrario. alla
La Le, la causa dell’ odio alla vità e del suigdio: EI i
Op. cit. p. 99: ; Tata SIR EESO NIC Del
Fainivissisceteiesrecorssisvossaogiessapesareneone ivo
iovopivoiocenserrenescepnescernnia iii la causa; ma manca da parte
nostra il proposito deli- berato di nuocere, manca la malizia; ciò si
direbbe piut- tosto errore, dudoTapz. La malvagità esiste quando si fa
‘danno con intenzione, col proposito veramente di farlo I IAIIION| ada;
allora l’uomo dix uoyBngizvh Piaba, È4 è veramante &dtog;
rovnpos, moy0npos |. Conveniamo che un'analisi più proionda delta
malvagità non si poteva dare, nè si poteva meglio mettere in rilievo la
parte che nella malvagità si deve assegnare al volere. Ma in che
consiste in ultimo questa malvagità, questa xzziz, questa uoybnpiz, chè
tali sono specialmente le parole che per Ari- stotele denotano la
malvagità? L'anima dei malvagi è ) in discordia con se stessa, eruci4ler
2dràv + dz, è detto nel ] capitolo 4 del libro IX, e una parte s'addolora
per astenersi da certe cose, e un’ altra s' allieta, e una parte
qua li trascina e un'altra là, come lacerandoli e dila- niandoli ?.
È il disordine adunque e l'anarchia interiore il carattere
principale del male morale; è la deformità, la bruttezza che da questo
disordine e da quest'anarchia ! Riferiamo l’importantissimo luogo: &7xv év
ody TILLIOOG I DION Yet, arbg apo, dTav dI uh T46AA6YO legge
positiva: alle sue formole brevi, inesatte pel loro rigore
medesimo, bisogna sostituire, nella pratica, il libero e delicato
apprezzamento dei fatti, delle circo- - tanze, dei rapporti, senza
il quale la morale è una scienza vuota e falsa, e la legge può condurre
a delle vere ingiustizie. La giustizia sociale dev’ essere corretta
dalla giustizia naturale, che con quella deve costituire come
un solo tutto. Ma la giustizia naturale, l'equità, l'imeize, non
ha la sua applicazione che alla giustizia determinata dalle leggi
positive? : Il concetto dell'equità è in Aristotele troppo
ristretto. Non soltanto essa corregge le leggi in ciò che
queste possono avere di difettoso; non soltanto fa che
queste s'interpretino con criterii larghi e benigni, e non sì pren-
dano dal lato peggiore (srì ò yeèsov), anzi si sminuiscano (zero) nelle
loro applicazioni!; non soltanto insomma si estende a quella parte dell’
umana attività che è rego- lata dalla legge; ma comprende ogni genere
di rapporti che si possono stabilire fra gli uomini, si estende a
tutta la sfera dell’ umana attività. Si potrebbe dire che ne sia
espressione la formola: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse
fatto a te stesso, » formola larga e comprensiva, suscettibile di essere
applicata a tutto e a tutti, e non soltanto ai casi determinati
dalle leggi. : > tele] . «_» Non daremo ora che un
cenno della giustizia pro- - priamente detta, É noto con quanta
profondità e verità | Aristotele abbia trattato questa questione. La
dottrina : x x $ lr tata i È, LI dove leggiamo: Zori dI
èmuerzis TO TAPR TOY YEYPHLUEVOV VODOY YA DIZZLOV. i ; «R
eRENTO NE, 22 1 Eth. Nic. V, 11.80 WN dapiBodizzios èm TÒ
% %, Co eipov KAÀ EXaa- Dari x ‘
ARE corinbe, nalmeo Syoy dv vop.ov Bonfov, smueuzig Soru. »
4 della giustizia è, con quella dell'AMICIZIA [cf.
Grice on the aporia], la parte più bella e perfetta dell’ Etica
Nicomachea. La giustizia, in un senso larghissimo, è abito di
conformare le proprie azioni alle leggi; ©, siccome le. leggi comandano
ogni specie di virtù, essa è la riunione di tutte le’ virtù, sta
nell'esercizio di queste con rela-. zione agli altri uomini, è il bene
altrui, cò dMMorgrov &y200v, p come dice con frase energica
Aristotele !. Ma oltre questo significato generale e troppo largo e
indeterminato, la giustizia ne ha un altro, più particolare, più
ristretto e preciso. Lagiustizia è sovratutto eguaglianza, e
siccome l'egua- glianza può aver luogo nella distribuzione dei beni
e degli onori, oppure nelle transazioni e negli scambi, nella
riparazione delle ingiurie, nella compensazione dei danni, abbiamo due
specie digiustizia, la distributiva (qò èv es dravoads Sizaroy), e la
correttiva o compensativa (è èv T-1:-20000 cova pani dopdriziv) ®. Tanto
la prima quanto la 4 Eth. Nic. V, 1. 12-17. Vedi specialmente
queste parole del $:17 uri ceto dzioy Dozet siva dizioni uova Tav
dpETOY, dui Tpòs Etepov totlv. i 3: zi 2 Eth. Nic. V, 2. 12
775 dì zatà pipos dizzionovag vel zoù nur mothv duzziov &v per èomw
cidos 7ò èv als dzvonale cure 7 yPuuaToy ) s0v ov do peprotà To
LOMavoval'AGiGi moliretzg ( èv Tolto Yip for el dvicoy Eye nat nov
ETEpov Eripov), Ev dì 7ò èv 70 avvale pari Sropeziziv. A torto si
chiamò dai più giustizia commutativa quella che Aristotele chiama —
‘correttiva, T6Ò Sroplworzdy dizzioy, perocchè la giustizia correttiva
non si riferisce soltanto ai contratti, alle permute quali le intendiamo
‘noi, come compere, vendite, prestiti, garanzie, locazioni, depositi, —
mercedi; ma abbraccia anche moltissimi altri casì di rapporti e di
‘scambi tra gli uomini, come furti, adulterii, false testimonianze, vi
neficii, uccisioni ecc. La parola Guvdlik para, che Aristotele adope
na È sorsoneseosezasaniesenoavsa
sossascasuzeosseresennevesavvevesavesenconaezesee ceca ezeeni
seconda suppone di necessità quattro termini, due persone e due cose.
Ogni scambio e ogni distribuzione non può infatti avvenire che fra due o
più persone, e le cose distri- buite o scambiate devono essere almeno
due. Ma mentre nella giustizia distributiva si richiede che il merito
d’un uomo stia alla porzione di benè che gli è dovuta, come il
merito d’un altro uomo alla porzione di bene che gli è ‘
egualmente dovuta, sicchè non basta determinare il rapporto delle
cose, ma bisogna anche combinarlo col rapporto delle persone, € si ha
perciò una vera € propria proporzione geometrica, che si potrebbe rappresentare
colla formola A: B::G: D:1; invece nella giustizia cor- rettiva non ci
sono da comparare e, bilanciare che le cose scambiate, indipendentemente
dalle persone. Qualunque siano i contraenti, qualunque sia il loro
carattere, la. loro condizione, la loro fortuna, il loro merito, essi non
entrano punto nella determinazione della quantità scambiata. La
giustizia in questo caso sta nella perfetta eguaglianza delle due cose
che si scambiano; quanto altri dà, altrettanto deve ricevere in
contraccambio. E ciò avviene anche nell'altro caso della
giustizia nel caso cioè che si tratti di riparazione di danni.
L’ingiuria dev'essere come due; dev'essere
correttiva, di ingiurie, di compensazione è come due, e la
riparazione ‘1 danno è come dieci, e la compensazione per
indicare tutte queste cose, si traduce male e troppo restrittivamente |
con contratti 0 commutazioni; sì ‘relazioni,
indeterminatamente. (Cfr. stizia commutativa in senso stretto, di
quella giu nelle vendite, nei contratti ec luogo nelle
compere, nel cap. 5 del libro V $$ 8-18; ma questa è parte.
e non tutta la correttiva. 1 Eth. Nic. V, 3, specialmente 1 98
5-15: Eth. Nic. V, 1. 13). Della giu- stizia cioè che
ha c.) Aristotele parla della correttiva, .
ì We tradurrebbe meglio con rapporti, - come dieci,
indipendentemente da ogni considerazione di persona; la legge guarda solo
alla differenza del danno, trattando i colpevoli alla stessa stregua,
come eguali (pds 700 fMdfovs 7hv dzgopdv povov PISTE Ò vopnos và
yofitat ds too1s). Il giudice ha il compito di pareggiare le partite;
egli è come la giustizia personificata, ed opera come chi, delle due
parti disuguali in cui fu tagliata una linea, tolga alla maggiore quello
che avanza per aggiun- gerlo alla minore; solo allora
gl’interessati dicono d'avere quello che loro spetta,, xò 25708:
infliggendo la pena, il giudice annulla il vantaggio che l’offensore ha
sull’offeso!. Aristotele ha cercato di tradurre in linguaggio mate-
matico anche la giustizia correlliva, rappresentandola con una
proporzione aritmetica continua. Ma è difficile comprendere, osserva
molto giustamente lo Ianet®, come sì possa costruire una proporzione con
un solo rapporto; il rapporto di eguaglianza perfetta fra la perdita e
il guadagno. Aristotele qui pecca per soverchio rigore €
sottigliezza; egli avea ben detto nel principio della Nico- machea che
non bisogna pretendere dalla morale |’ esat- tezza della matematica
?. ‘Del resto Aristotele limita esclusivamente la giustizia
i ‘alla vita sociale; la giustizia è la virtù sociale per
eccellenza; non si parla di giustizia che fra liberi e ‘eguali che
hanno comunità di vita; per quelli che non. ‘hanno queste qualità
non ci può essere giustizia che in un certo senso. La giustizia non v'ha
che per quelli per i 1 Vedi per tutto questo Eth. Nic. V, 4. Si può
aggiungere Eth. Nic. V, 5, 8-18 per quella parte della giustizia
correttiva che riguarda le vendite, le compere, i contratti ecc. 2
Histoire de la Science politique dans ses rapports avec la cui v'ha la legge, e
legge non v'ha là dove non può essere ingiustizia !. Perciò se si parla
di una giustizia del padrone verso lo schiavo, 0 del padre verso i
figli, se ne parla soltanto per analogia; lo schiavo e il figlio
(quest'ultimo finchè non sia d’una certa età. e non sia separato dal
padre), sono proprietà dell’uomo, sono come una parte di lui stesso,
&o7sp {épos 2709; € Verso le cose proprie, verso se stesso,
assolutamente parlando, non si dà ingiustizia, e quindi neanche giustizia
?. Più che verso,i figli e gli schiavi, può aver luogo
giustizia verso la moglie, sebbene anche questa specie di giustizia
famigliare sia ben diversa dalla giustizia sociale ®. Sarebbe
facile notare qui quanto, questi concetti che riguardano i rapporti
specialmente del padrone collo schia- vo e del padre col figlio, siano
erronei, e contrarii a quello spirito di fraternità e d’eguaglianza che
già fin d'allora "È incominciava a manifestarsi nel mondo: sarebbe
anche sa facile far le maraviglie come mai un filosofo del valore
Di di Aristotele si sia indotto a considerare non solo gli schiavi, ma i
figli stessi, almeno fino ad una certa età, come una proprietà del capo
della famiglia, sicchè anche I Eth. Nic. V, 6. 4. ToDTO (7d TONLTLADY
dizzuoy) d tor [eri] 3 Vor N, È tb» A zomaviy Blov
reds tò siva abTuozet, evlisoy ze icov © È VITE CAIO CA] È, 203
dprduoy' (ate doors pin èoti modro, ob sor n mobTors TpdG ove Ò mONIZOY
dizzioy, GINA TL diano xa. 228) GUoLoTATA. Cotti Ye Òizasoy, ole nat
vipos TpdG niTodg VOos w Sèy cis ddutz. È 2 Eth, Nic. V, 6.
8-9 od ag Er dÒrnta mods Td nITOÙ: TOI fg dv È tendizoy nai porsi,
a) spetras Bertani dò obz fam, Udi dizzuov Td TONTIZOY., =D
dî xe Auz Vi TO TEZIOY,, . ret ds x SEGNA Ea grad, bro d oUdets
T90% uépos 2 È) ELA Yad: obd' dea ddtnoy 0
° ’ LI ENIVATA Toos x 5 Eth. Nic. Vj È. 9. 4 g
atua LMRAER:. bar CAI? _ . scotta e)
ULI molitizéig, TEVOY di Bzariz®s): ora il potere regio
differisce in questo — le | dal potere dispotico, che il primo mira
all'interesse dei sudditi e il condo al suo proprio. Cfr. lanet Histoire
de la Science patilique ecc. Si sopra di questi, e non sopra
quelli soltanto, egli abbia un potere dispotico, un'autorità assoluta: si
potrebbe anche, slargando i limiti della trattazione, mostrare la
falsità della dottrina, pure per tanti rispetti importante, con cui
Aristotele si prova di giustificare la schiavitù, cercandone il
fondamento nella natura, e non nel diritto del più forte e nell'autorità
delle convenzioni, come si soleva fare ai suoi tempi?. Ma tutto questo
oltrepasse- rebbe lo scopo nostro. A. noi preme soltanto mostrare
che la virtù è per Aristotele. sovratutto sociale; e la giustizia negata
agli schiavi cd ai figli minori, negata a rigore perfino alla moglie,
rinchiusa nei limiti della vita politica e della legge positiva, ne è la
prova più sicura. Ed ora in che rapporto, secondo Aristotele, si
trova la virtù morale colla natura deli’ uomo? i Il Lizio dichiara
che i figli sono una proprietà del padre e che verso di loro non si può
commettere ingiustizia, non siano che un’iperbole per esprimere
l'autorità sovrana e irresponsabile del padre verso i figli. In realtà
l'autorità del padre, Aristotele non considera come affatto | Sai
| arbitraria, poichè altrove dichiara che è da paragonare a quella d'un.
È Lre; non a quella d’un despota ( Polit. 1 ANIA “puyatzòs uèv.
> I. p. 201-202. ; chi Polit. I, 1253- 1260. Cfr: Ianet
op. cit. vol. 1 p. 194-199. - |) D'* È da credere però che le
parole della Nicomachea con CULT RIT IT ICIIIIITE PESCO II TI TI CCI
CI CITI TE LICITA LITI nersrnraze are zesi ve neneenzoniazanaa nen aee ta
conaseozizanicnee Aristotele afferma esplicitamente
che la virtù s'inge- nera in noi non già per natura, ma per abitudine (4
dî hiizh E 003 sreorfifvetar... obdeu.tz ‘gi zi dostov -
qbazi duty èffiprerzt); niente di ciò che è per natura in 43 una
data maniera, si potrebbe avvezzare diversamente DI i da quello che
la natura sua comporta; la pietra che per na- È A tura va
all’ingiù, non si avvezzerebbe ad andare all’insù, si neppure se
altri la gettasse in su dieci mille vole per 3 f: _avvezzarvela !.
E bensì vero che se la virtù nonè in noi per: | i, è natura, non
per questo si può dire che sia contro natura x" (74 qbsw): la natura
nostra non si oppone al formarsi e allo svolgersi in noi della
virtù morale; noi siamo per natura tali da accoglierla. e da non
farle opposizione e resistenza, reguzosi ciutv Bitzolar abtdg
apetds >. Per tal modo il mondo morale è per Aristotele non
. opposto al mondo naturale, ma diverso da esso; il mondo morale è
esclusivamente fattura umana, produzione dello spirito per mezzo
della consuetudine. Ma come è nata la consuetudine? com'è
sbocciata . la prima operazione da cui la consuetudine si
origina? come ha avuto incremento? Alla consuetudine stessa non si
può in nessun modo assegnare quella prima ope-
razione. Quest obbiezione: si direbbe Aristotele abbia fatto
È. a se stesso; e perciò, in un altro luogo, parla di una virtù
naturale, guar dp27%4, vale a dire di una disposizione ‘naturale che è
come preparazione alla virtà morale, e che si trova con questa in
quel rapporto in cui l'abilità natu- ur rale si trova colla
prudenza: «A tutti sembra che cia- 2 scun costume si trovi in noi
in qualche maniera per, a natura; perocchè subito fin dalla nascita
abbiamo la [Eth. Nic.] DISPOSIZIONE [Grice, “INTENTION AND DISPOSITION”] ad
esser giusti e temperanti e forti e alle altre virtù» ?. E bensì vero che
questa disposizione non è ancora la virtà, e deve, per diventar tale,
esser assog- gettata all'impero della ragione; perocchè « anche nei
fanciulli e nelle bestie sono gli abiti naturali; e tuttavia senza la
mente sembra che arrechino danno » 2: ma in ogni modo questa disposizione
naturale c'è, ed è come il dato, il presupposto della virtù morale; anzi
nel mondo morale sono due parti, la virtù naturale, € la virtù
morale, tri où iizod dio torw, dò pèv doeth QUeLzin TÒ dA zupla 9,
Così il mondo morale che dapprima pareva staccarsi dalla natura e
sorgere, se non in contrasto con essa, almeno in un dominio diverso dal
suo, in ultimo si riconnette alla natura. L’ affermazione
quindi, già accennata, di Aristotele, che la virtù morale non è in noi
per natura, ma si acquista coll’uso e coll’esercizio, non si deve
prendere nel senso che in noi non ci sia niente d’originario e
primitivo, non ci sia un'inclinazione speciale, da cui possa svolgersi la
virtù; bensì che la virtù non esista già in noi bell'e data e presupposta
in potenza, ma che la dobbiamo far noi operando, che ce la dobbiamo
acqui- stare gradatamente, con dolore e fatica, per merito A
Eth, Nic. VI, 13. 1. 2 Eth. Nic. VI, 13. 1. ; 5 Eth.
Nic. VI, 13. 2. Che alla formazione della virtù morale concorra un
elemento naturale, un elemento cioè non fatto, ma dato, lo provano anche
i seguenti luoghi, oltre il citato: Eth, Nic, III, 5, 17 dove la buona
disposizione naturale è chiamata * 7eActz #2 PIXVISKO eb@uta, Eth. Nic.
IX, 9. 6, dove i ben disposti da natura alla virtù chiamansi ©9
&iadég edrvyeis ed Eth. Nic. X, 9, 3, dove parlasi ‘d’un’indole ben
nata; 5 sbyeves. nostro, pure servendoci a tal uopo
di elementi origi- narii Che sono in noì per natura |. È noto
in qual conto fosse tenuta nell'antichità quella che si chiama oggidì la
trasmissione ereditaria. Pindaro celebrando le lodi d’ Ippoclea
tessalo, che avea vinto il premio alla corsa del doppio stadio,
risale all’ Eraclide ond’ebbe principio la stirpe di lui, perchè
dalla stirpe quegli ritrasse la sua virtù ®: altrove con- trappone la
virtù acquistata con la fatica e la cura del singolo cittadino, a quella
discesa per li rami, e trova la seconda di molto superiore alla prima 3.
Teognide anche più di Pindaro ha chiaro in mente il concetto della
virtù della stirpe, forse per l’aspra lotta che ebbe, egli patrizio, a
sostenere colla democrazia soverchiante4, Aristotane paragona i vecchi
cittadini alle vecchie monete, oro fino, ben suonante, d’ottimo conio,
accetto del pari ai Greci ed ai toda e i nuovi alle muove, coniate
nella maniera peggiore, d’infimo rame: i primi, di buona stirpe,
sono per ciò stesso savi di mente e giusti e per ‘bene; i secondi invece,
gente servile, capitata non si sa «donde, cattiva e di cattiva genia
°. 1 Ecco come s'esprime a questo proposito lo Zeller, commentando
Aristotele: « Die Naturanlage und die Wirkung der natiirlichen Triebe
"hingt nicht yon uns ab, die Tugend dagegen ist in unserer Gewalt;
jene ist uns angeboren, diese entsteht allmihlich durch Uebung».
Philosohie der Griechen, Zwcite Abtheilung p. 485. Tubinga 1862. E
altrove p. 483.« Das Vermògen ist
uns angeboren, die Tugend und — Schlechtigkeit nicht». 2 Pyih. X. 19 5 Nem. III, 69 e seg.
- 4 Theognid. nell'edizione del Welcker, passim. Cfr, i Pr ‘olego.
A meni dello stesso Welcker. $ Ranae 718 e seg. Per n
È ben vero che altri attribuirono ben poco valore alla stirpe.
Così Democrito ha lasciato scritto che molti più diventano buoni per
istudio che per natura », ed Epicarmo che lo studio dà più che non la
buona natura?: Licofrone poi, un sofista, sostenne addirittura che valore
di stirpe è nome vano, e che in niente si distingue chi l'ha da chi
non l'ha3. Ma Socrate, pur poco 0 nulla, secondo pare, facendo
dipendere dalla stirpe, faceva dipendere molto dalle condizioni fisiche
dei genitori 45 e Platone affermava esplicitamente che la disposizione è
migliore da natura dove è buona e vecchia la stirpe 5; €
raccomandando nella Repubblica che si combinino in una certa
maniera i connubii, mostrava di riconoscere che dalla qualità dei
genitori dipende la qualità dei figliuoli; la volontà di ciascuno, in
tutto o in gran parte, è fatta dalle disposizioni a lui trasmesse dai
genitori. Aristotele ha addirittura un libro intorno alla
bontà della generazione o della stirpe, Iegi Rùyevetzs, libro perduto,
ma di cui ci rimane un estratto in Stobeo. Eùyeveta, egli dice,
vuol dire virtù, valore di stirpe, e stirpe di valore è quella in cui
persone di valore sogliano generarsi da natura. Ciò avviene quando
un principio di valore s'ingeneri nella stirpe, chè «il prin- cipio
ha questa potenza, fare molti esseri com' esso è». «Negli uomini come nei
cavalli e in ogni altro animale 1 Stob. Floril. XXIX, 60. Ed.
Gaisford vol. II, p. 11. 2 Ib. 54 p. 10. 5 Citato da
Aristotele nel suo libro mepl Evyevela nell’estratto fattone da Stobeo;
ib. LXXXVI, 24 vol. III p. 200. 4 Memorab. IV, 4. 23. Qui Socrate
dice che non basta, perchè il figliuolo sia buono, che buono sia il
padre; e insiste molto sulle condizioni fisiche dei generanti.
5 Alcib. Maior XVI. 120 D. St stia RI I
I ha luogo questo». Eugeni, di buona stirpe, sono n
adunque coloro che discendono da buoni ab antico, a È. patto però che ci
sia stato nella stirpe alcuno il quale ss AE abbia dato la prima mossa e
la mossa duri. Che se ; alcuno nella stirpe, pur buono lui, non ha tal
potenza n da generare esseri simili a se, i suoi discendenti non si
potrebbero allora chiamare eugeni, di buona stirpe !. Però,
osserva Aristotele in altro luogo, «v'ha la messe nelle stirpi degli
uomini, come v'ha nei prodotti della terra»; sicchè «quando sia buona la
stirpe, vi nascono per un i pezzo uomini segnalati; poi si fermano; poi
ne manda fe fuori da capo» ?. E perciò c’è come una varietà e
inter- mittenza nella produzione delle stirpi, e il principio È; di
cui è parola più sopra, è immaginato come un seme ss Da che talora dà
frutti buoni e in gran copia, talora scarsi 3 e cattivi; congetto che già
prima d’ Aristotele avea espresso anche Pindaro 9. «a Ma
anche con questa restrizione, il valore della 4 trasmissione ereditaria è
in Aristotele notevole; nella Nicomachea ei giunge fino ad ammettere una
perfetta -3 e vera felicità di natura, melelz ei &inbwh sbobta, che è
sa ‘A come una specie di occhio naturale, con cul si giudica © “di
rettamente e si sceglie quello che è bene secondo verità, i dbiv n
over 27465 nai cò nat Arberay dpalby cipriota. Anzi Ù 1
ITegi Foyevetzs 1490 A 1-B 6; 1490 B 31- 1491 A, 1-20 citato i dal
Bonghi nella sua lettera intorno ai Limiti ed al fine dell’ Edu- È care
vol. III. della traduzione di Platone. Dichiariamo poi qui che NS tutte
queste notizie riguardanti il valore della stirpe e la trasmissione
ereditaria abbiamo tratto dal Bonghi; e chi volesse averne di più det-
tagliate rimandiamo alla bellissima lettera citata. 2
Aristot. Rhetor. II. 1390 B. 5 Nem. XI, 48 e seg. Cir. Bonghi,
lettera citata, Eth. Nic. si direbbe che a questo punto egli riduca a ben
poca cosa l’opera dell'individuo; l’attività di questo è
costretta ad esercitarsi in una o altra direzione secondo il fine
che è posto in lui dalla natura!; solo i mezzi in-questo caso sono in suo
potere. E non solo la trasmissione ereditaria, ma mille altre
influenze, diciamo noi, si esercitano sulla natura degli individui; non
tutte le circostanze stanno nell’ eredità sola; se questa è una legge,
non è la legge. L'eredità mette le condizioni più intime; ma ve ne sono
anche d’esterne, e d'ogni maniera; il clima, il modo d'’alle-
vamento, lo stato agiato 0 disagiato della famiglia, Ì costumi di questa;
i costumi, le leggi, le istituzioni della società; insomma tutto l’
ambiente fisico e sociale in cui L'individuo nasce e cresce. Tutte queste
influenze, in maggiore 0 minore proporzione, intrecciandosi, tempe-
randosi, eccittandosi, mortificandosi a vicenda, concor- TE rono a
determinare la natura prima dell'individuo, danno + come il fondo, il
sostrato su cui s'eleva poi l’attività SR dell'io, poichè l'io
senza quegli elementi non è, pur non Mei essendo nessuno di essi. L'io
non è il germe che le gene- razioni passate abbian lasciato dietro di se;
non è neanche il risultato dell'ambiente fisico e sociale; è
un'attività nuova che a mano a mano s'esplica e padroneggia; ma la
facilità, anzi la possibilità sua di prodursi, dipende
dalle circostanze in cuî sì sviluppa la persona umana.
Aristotele adunque egregiamente ha fatto a tener conto di un fondo
naturale, a cui s'aggiunge e sovrap- pone l’attività cosciente €
direttiva dell'io; a non con- siderare |’ individuo come una specie di tabula
rasa, a» Lie de x TESE pn
. » 0% ” x GI Pa) î) t Eth. Nic. III, 5, 18. &ugov y%p
duotos, 7 £f206 u2ù È o e nin i trvodfrote qalverar val > y
LIDO, TO aélos quat fi irmadamote pulveta: 44 settat, TA è Mer
| Xowrd mpds ToÙT' dvapépovtes medTTOvELI dTwAdATITE.
» è ii nani TNT RT su cui l’esercizio e l'abitudine venga a
scrivere tutto peo quanto; a non ridurre insomma la virtù a una semplice
n 2a questione di abitudine e di educazione. L'opera e l'at-
di Bo tività sovra tutto; (la filosofia d’ Aristotele si fonda tutta
“i À | sul concetto d’ attività); ma opera e attività, che si eser-
1S Ta citino su qualche cosa di preesistente, > 2 Si dirà
che ammettendo le attitudini naturali alla ad virtù e quindi anche al
vizio, si viene a negare che virtù e vizio sono opera nostra? Aristotele
discuterà questa . questione, e noi la discuteremo con lui nel Saggio che
“si terrà dietro a questo, sulla dottrina della Volontà. Appunto perchè
sono in gioco nell’operare morale xs certe : disposizioni naturali,
dipendenti in gran parte dalla sensibilità fisica ed animale, il
sapere ha poca È; importanza per la moralità. E questo
il punto in cui Aristotele si allontana più che mai da Socrate e da Platone.
Aristotele dice esplicitamente che in riguardo alla virtù il sapere
poco o niente ha di forza, puzgdv i oddîv ing der}; che quand’ anche si
sappia ciò che è buono e giusto, non per questo si diventa abili a farlo
£; e attacca diret- tamente Socrate, e lo nomina, là dove afferma che
la 4 Eth. Nic. II, 4. 3. repds dè 7d was depends (Eyew) cd pv
cidbvai pazoov È oùdiv ioybet. | È | © 2 Eth. Nic, VI, 12.
1. obdîv dè mparrimo spor To cidivar aÙTd (7% dizma za nodd nat dya04)
ècuev. i nza che nessuno che giudichi rettamente, opera mai
sente lo fa per ignoranza, mette contro il meglio, e se lo
fa, in dubbio cose che manifestamente si vedono, contrad- È
dice all’ esperienza quotidiana, dugregntet tot QULVÒLEVOLG 2 dvapyòs!.
La virtù non è sapere, sebbene non sia senza sapere; e Socrate era nel
vero, quando credeva che la virtù non fosse senza sapere, era in errore
quando i ‘affermava che la virtù fosse sapere *. Gi Il sapere
necessario alla virtù non è il sapere teo- 9 retico, è il sapere pratico;
in morale non si tratta di conoscere che cosa sia la virtù, ma come si
generi, € ‘come si deva operare per diventar buoni *. Socrate ha
trascurato il sapere pratico; ha pensato che basti il sapere
ves È teoretico per la pratica della virtù, sostenendo per
ciò di che la virtù si può comunicare da uomo a uomo per fc via
d'insegnamento. A Contro questa sentenza Aristotele osserva che;
inas materia di bene, non vi può essere discepolo pos- DI
sibile senza la pratica del bene; chi si fa uditore di E — morale deve
aver l’animo apparecchiato conveniente È mente dai buoni costumi; la
conoscenza viene da qualche î cosa, viene dall’ essere, e chi non ha
fatto alcuna espe- rienza dei buoni costumi, non può conoscere nè buoni
— costumi, nè buoni principi. Chi, anzichè operare il F bene, si
contenti di ragionare intorno ad esso, e creda per questa via. di
diventar buono, fa come quegli — ammalati, che ascoltano bensì con
attenzione i consigli Eth. Nic. VII, 2. 1-2. 2 Eth. Nic. VI, 13. 3.
Zozpdrng cf pèv oplog are ci Viudpezieri Gai pèv yo qpoviioas iero siva
mas rd RoETdE, ipdpravev, OT D'obz &ve) 990vAGEOS, AANSS Eeyev.
s Eth. Nic. II,
2. 1 € XK, 9, 1-2. 4 Eth. Nic. I, 4. 6-7 e X, 0. 6. eri n) rt dadini del
medico, ma si guardano poi dal tradurre in atto cosa che sia stata loro
imposta !. Ma che cosa è il sapere pratico, così necessario alla
moralità? Perchè, mentre il sapere ha poco o nulla di forza per la virtù,
diventa poi, sotto una certa forma, indispensabile per la virtù
stessa? Aristotele, come sappiamo, ha distinto nell'anima
umana due parti; una parte irragionevole e una parte ragionevole. Della
parte irragionevole abbiamo detto 2. Da parte ragionevole comprende due
potenze; colla prima contempliamo le cose che non possono essere
altrimenti, che, vale a dire, son necessarie; colla seconda contem-
pliamo quelle che possono essere altrimenti, che, vale a dire, sono
contingenti: la prima è detta scientifica (70 imerpoviziv), la seconda
discorsiva o raziocinativa (70 Moqueriziv) ®. La ragione discorsiva s'
accoppia all’ ap- petito, e se ne ha la ragione pratica, o volta all’
operare. Lo scopo di questa è la verità, ma non la verità consi-
derata teoreticamente, bensì la verità in quanto serve al fine pratico di
rettificare l'appetito, di misurarlo, di regolarlo, di tracciargli la via
che deve seguire; l'appetito è una forza cieca, e ha bisogno di esser
guidato dalla ragione. È propria per conseguenza della ragion
pratica la verità che va d’accordo col retto appetito, 40 dì pae
Tuuoò ni dravontizod % cInberz Ouoioyos ÈyovGa TA dpstet TA dp07 1;
quello che la ragione afferma è seguito dall’ap- petito; quello che la
ragione nega è dall’appetito avver- sato, fetw d' drep èv diavola zurdozsis
vai drdozote, TOdTO Èv dpscer duty nel pura ® rà
1 Eth. Nic. II, 4. 5. 2 Cfr. la Dottrina della felicità
nell' Etica Nicomachea p. 204. 5 Eth. Nic. VI, 1. 5-6. + Eth.
Nic. VI, 2. 3. s Eth. Nic. VI, 2. 2. È importante il riscontro che
fa Aristotele Ma la ragione discorsiva non possiede naturalmente e
spontaneamente l’ abilità di guidare l'appetito illumi- nandolo; quest
abilità bisogna che l° acquisti coll’ eser- i cizio e coll’abito: l'abito
per cui la ragione discorsiva può deliberare rettamente intorno a ciò che
è bene ed utile al conseguimento del fine supremo della vita,
costi- tuisce la prudenza (996vnats)!. La prudenza, sebbene
virtù intellettuale, si può considerare come la forma delle virtù morali.
Senza la prudenza le virtù morali non sarebbero; esse risiedono
come in loro soggetto nell’ appetito, e l'appetito ha bisogno di esser
guidato. Ma la prudenza alla sua volta non può essere senza le virtù
morali *. I sillogismi della prudenza, con cui ci proponiamo questo o
quel fine buono, non si possono formare senza la virtù. Il vizio
perverte e deprava il giudizio della ragione, e fa che c'inganniamo
intorno ai principii dell’azione ®. I prin- cipii dell’azione sono ciò
per cui l’azione si fa (xò ob &veza tà mpazt4), e chi è corrotto dal
vizio non può scorgere il principio vero, e se ne propone uno falso 4.
. Ora, falsato e corrotto il principio, saranno anche false
fra l'affermazione (427494915) e la negazione (&r:d@xa1g) della
mente, e il seguire (debiti) e il fuggire (quyA) dell’appetito. Per tal
modo la cognizione e la pratica sono strettamente congiunte fra
loro. 1 Eth. Nic. VI, Ss. 1. È 2 Eth. Nic. VI, 13. 6 dH2ov obv éx
té sipnpévov GT odg oîoy. } e o280y siva zUpiws ZIev Opoynoeos, oùdi
ppoviuoy &vev hg G Ouafig dpetiis. Rec hi “di ; i 5S-
«A LA . . ne . Eth. Nic. VI, 12. 10% dè
E16 (A 9povnGIC) Tm dppati tosto Sirena die bye obi dev dpertic.... ci
Yip ovIdayiapoi TOY IAABZ,A QAUIENI MN. as n} A La AZ x 3 È Ò, x 4
recano) doyhv NOE Tore diarrpépei ag A poy0npio x2t Srabebdenda: more
mepi 7ds mountizds day de. ti SI 3 È: 3 Ù ife * 4 Eth, Nic. VI, 5.
6. mIo Ion eo Eee val evmobdconese be sectapei sed seorndegesgeeri
cesenatni DICI AL aneriand on onasena rane cereneesenensi ne le
conclusioni che se ne cavano in riguardo all’operare. Senza la
virtà non si ha la prudenza, ma quella certa destrezza o abilità naturale
(dewérzs), che, qualunque sia il fine prefisso, anche malvagio, mette in
opera tutto ciò che valga a conseguirlo; senza la prudenza non si
ha la virtù morale, ma una virtù naturale, che, scompa- gnata dalla
prudenza, è come un corpo robusto, a cui manchi la vista; che corre
quindi il rischio di gravi danni ed offese !. . Virtù e
prudenza sono adunque tanto unite da for- mare una cosa sola; la virtù fa
diritta la mira, 73y azondy tore 6p06y, la prudenza fa diritti i mezzi
per arrivarvi, _moseî, dela Tx pds azordv ®. In questo
fatto dell’ unione della virtù morale colla prudenza, Aristotele trova la
soluzione di quella questione che fu tanto agitata da Socrate e da
Platone, se la virtù sia una sola, o ce ne siano più. Finchè si tratta,
dice Ari- stotele, delle virtù naturali, guzzi aperzi, cioè delle
dispo- sizioni naturali alla virtù, può darsi che altri non sia
egualmente disposto per natura ad ogni virtù, bensì soltanto ad
alcune, e sotto questo rispetto quindi le virtà o siano separate le une
dalle altre; ma quando si tratta “1 delle virtù morali, per cui altri è
buono veramente, siccome queste non vanno mai disgiunte dalla
prudenza, e la prudenza è una sola, così chi ne ha una le ha tutte,
e chi le ha tutte ne ha una. Insomma le varie maniere unità
dalla prudenza. Eth. Nic. VI, 13. I. ; loecue dali D % i è DI re Y, souo
D 2 Eth. Nic. VI, 12. 6. Cfr. VI. 13. 7 9V% FIA ia Di = RIS Voet:
1h MEV N #EX05 T dvev @povhosws obd' %vev dperdis' i pv ep TO Ss405 n de
È L erre? Ve A \ “mpds Tò Te\0g TCOLEL TIUT CAS NES: gin Ri oa xo:
DEA 5 Fth. Nic. VI; 13. 6. 4% zed 0 A0Y95 FRUTTA d’operare il bene
sono congiunte fra loro in armonia ed A chi poi osservasse che è un circolo il
presupporsi a vicenda della virtù e della prudenza, come è un
circolo la dimostrazione in cui due proposizioni sì pro- vino
reciprocamente l’ una per mezzo dell’ altra; Aristotele 3 potrebbe
rispondere che in questo caso il circolo non esiste che in apparenza. Non
abbiamo già qui da una parte la virtù morale, e dall'altra la prudenza,
sicchè queste possano stare separatamente, come nel caso della
dimostrazione le due proposizioni; la virtù senza prudenza non è virtù,
ma qualche altra cosa; come la prudenza senza la virtù non è prudenza, ma
qualche altra cosa. La virtù e la prudenza sono necessarie a costituire
la Ò virtù vera, come la materia e la forma a comporre l’ u- i nità
dell'individuo. Poichè la prudenza è necessaria alla virtù,
Aristotele rettifica la definizione che ha dato della virtù .in più
luoghi «la virtù è un abito secondo retta ragione », in ‘questa maniera:
«la virtù è un abito con retta ragione). 0 StadeyBetn
4 dv dr yopiloviai DIO di dperzi: od dp è 3g "a Fo abtds
eL@UinTATO: mods dmdoze, ate Thv uv dn Thv SD olro 3 siino®s Eomar' TobTo
ip «età uèv ds ouorzde dpetàs èvdeyemzi, su bi. ì 270 de dì darle Veyerat
dpalos, ob4 vdiyerar Gua do TRI E Qpovnaei paz olen niGU rdetonam. Nel
cap. IX del libro II della >» 7 Morale Grande, e nel XV del libro VII
dell’ Eudemia, è descritto il collegamento di tutte le virtù nell'amore
del bello e del buono; e.lo | © stesso pensiero, sebbene da un punto di
vista diverso, è espresso qua — e là nel libro X della Nicomachea (cap. 6
- 9). Vere virtù comprensive G e universali nella vita pratica sono però
sempre, secondo Aristotele, la prudenza e la giustizia. Di. 4 Eth.
Nic. VI, 13. 4-5. mdvres, dToy oplleovtai Thy Gaeta mpootileza: chv El...
Thy zed còv bplbv Agyov. dplde do | zutà Thy qgoynaw. Soluzo: dh
uavtercalai mos drmavtzg dad | movaban Eers dipetà tomi A zarà ThY
gpoynow. der de puenpd È uit r A a x E molto a proposito, poichè la
virtù morale non sol= tanto risulta di appetito, ma anche di ragione, e
quando si dicesse abito secondo retta ragione, parrebbe risul- tare
soltanto di un elemento appetitivo, che si con- formasse esteriormente
alla ragione, mon già che la possedesse in proprio !. ; : i
Ci potrebbe essere un abito secondo prudenza o retta ragione, €
tuttavia non essere virtù, quando la prudenza o retta ragione non
appartenesse al soggetto proprio dell'abito. Perchè ci sia virtù, bisogna
che l’ abito non soltanto, ma anche la retta ragione appartenga a
chi ha l'abito. Riconoscendo che la virtù morale non è
possibile senza la prudenza, che anzi questa costituisce come la
forma di quella, Aristotele concede alla ragione e all’ in- telletto una
giusta parte nella formazione della moralità, nel tempo stesso che
non disconosce, come Socrate, Ci Ò e % na s, a
4 LI *À 3 L’ ant uetapAiva où Jp povov A 4xT% TOY opfoy AoyoY, INN
A UETZ où 09000 UCI) seus dpetm Sem. ! Cfr. il
commento del Michelet al luogo citato (Eth. Nic. VI, « Hoc (perà 708
09005 \6y9v) ab xatà adv doplòy A0yov 76y0g inest virtuti (scilicet
morali), sed (Op. cit. p. 229); € il bel commento del le Virtù
sieno interamente 13, 5): eo differt, quod non solum
etiam affectus et appetitus » Segni: « E' (Aristotele ) non vuole
che Prudenze; nè vuole anchora, che elleno sieno @ punto secondo la
ragione; conciosia chè nel primo modo elleno sarebbeno stiette Virtù ©
intellettive; e nel secondo sarebbono stiette Virtù appetitive. Onde modo
nel diffinirle, cioè che elleno sieno con aggiugne egli un
terzo he elleno sien' retta ragione, nè secondo la la retta
ragione, e non € 3) chè diffinendole egli con la retta ragione elle
vengon' date nell’ Appetito; € dall'altra vengono diante la
Prudenza, che è la. retta ragione; per da una banda ad esser
fon ad havere perfettione dall’ Intelletto me lor forma »
(Op. cit. p. 327): x l’importanza di altri elementi, quali
l'elemento sensibile e appetitivo, e un elemento acquisito, l’abitudine
!. Così anche nell'ordine morale egli considera l’uomo nella sua
totalità, e non ne smezza e divide le facoltà; senso, intelletto,
esperienza sono in gioco del pari. Si potrebbe anzi mettere in rilievo
una considerevole ana- logia fra la sua dottrina della conoscenza, e la
sua > dottrina della virtù; in tutt'è due è l’esperienza che
Ca i tiene il primo posto; nell'’una l’esperienza che ci
offrono x i sensi, nell'altra quell’esperienza speciale che prende.
il nome d’abitudine, e che consiste nel dare una spe- = ciale
direzione ai nostri impulsi appetitivi; poi viene i l'intelletto e
la ragione, che a questa doppia esperienza 5; dà norma e forma.
: so : “ IX. = Ma la prudenza, in causa
della sua importanza per quanto riguarda le virtù morali, merita una
considera- zione e una trattazione anche più larga. La
prudenza è virtù universale; essa è la guida | suprema di tutta la vita
pratica e civile; quindi non soltanto abbraccia sotto di se la prudenza
che possiamo chiamare individuale, ma la famigliare eziandio e
la Nella Grande Morale si fa rimprovero a Socrate div avere ESD
nella virtù l'elemento appetitivo (74006) e l'abitudine ; Ù oc): i perà
TOUT ( TERA Lozodrns èmuevopevos pe SNrwoy uaì er micio cimey Into
FobTOY (deerov), oùz dp; dì odòd od noe TÙs TEA re CO semola colo,
dÙ Sol siva i ade politica, con cui da una parte si provvede al buon
andamento della famiglia, dall’altra alla prosperità e alla felicità
dello stato. Per verità, quando si parla di prudenza, s'intende più
propriamente quella con cui si d provvede al bene proprio, mentre a
quelli che provvedono al bene pubblico, agli uomini politici, è riservato
piuttosto il nome di faccendieri, rolurpdjpoves, poichè sembra che
s'occupino di cose a loro estranee e affatto indifferenti. + Ma gli è
chiaro che il bene proprio non può stare indi- d pendentemente dal bene
della famiglia e dello stato; : l’uomo è un essere essenzialmente
sociale; la vita sua è connessa colla vita della società e ne dipende; e
però la prudenza individuale presuppone € la famigliare e la poli-
: tica!, Aggiungasi che la prudenza ha bisogno dell’ espe- d | —’rienza
per formarsi, e l’ esperienza non si acquista che per Do: «—’mezzo della
consuetudine e del commercio cogli uomini; p% «l’uomo isolato non può
essere prudente °. La prudenza, in tutte le sue forme, ha per oggetto
ni. le azioni, e versa per ciò stesso intorno a cose singolari, cà
nal Ezzota, e che possono essere e non essere 3; l’uni- |. versale e il
necessario non appartiene ad essa, ma alla ui Fe
scienza 4. E questa la ragione per cui un giovinetto so. potrebb' essere,
ad esempio, buon matematico e buon = a no. D PEZZO r3 / Da I, La O
x a, dizvontizio Ts duyiis èYfHerzi uogto fvovrar by al apetat
LA Ul LS, po pa = 3 INCI ur abtoy Ev TO MoyioTiz®o TAG Uuyiis
Lopio cuppalver e, > ta Si », ni - OLOÙvTI TS RPETÀS
avatpety TO dioyoy pepos . pa 3 x Do oriov dvzipeî nat
7400g uai Rioc. du od TCA % ov aùto ETUSTANAG TE x x -
dì va Ths Yuyiie, ToUTO dî © oplag fato raven TOY daetoy. Ò
Sa ! Vedi per tutto questo Eth. Nic. VI, $, 1-4. ‘A . ‘ v
vas 2 Eth. Nic. VI, 8. 5. Cfr. il commento del Michelet a questo
luogo i p. 209-210. 5 Eth. Nic. VI, 5- 3, ed Eth. Nic. VI.
$. 5. i ui 4 Eth. Nic. VI, 3, specialmente il 62. 332
LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ geometra, non mai prudente e saggio:
l’esperienza dei Si particolari richiede gran numero d’anni!. Non è
a dire però che non ci sia nella prudenza qualche cosa che ricordi la
scienza, e che in essa manchi affatto la cognizione dell’
universale. La maniera in cui si forma l' azione assomiglia al A
processo sillogistico. Come nel processo sillogistico si t parte da principii
generali e si viene a conclusioni par- ticolari, così nell'azione
si_parte dalla conoscenza del bene generale, e in seguito, per
mezzo della conoscenza 4 del bene particolare nel caso attuale, si
conclude che ù bisogna tendere a questo bene. Io
conosco, ad esempio, il principio generale che le acque pesanti sono
dannose alla salute; conosco un’acqua particolare come pesante; «ne
concludo che è necessario che me ne astenga. Del resto delle due
cognizioni, l’universale .e la. particolare, la più importante per la
prudenza, il cui oggetto è l'azione, è pur sempre la particolare: finchè
la mente è ferma nell’universale, l’operare non è possibile.
Vediamo infatti alcuni che non sanno e che pure hanno espe- o.
rienza di casi particolari, essere più atti a operare di quelli che
sanno, evo. od eidétes ETipuYv sidotav pato tuorepor nai èv Toîs 4dos, oi
eumerpor. Se altri sappia, ad esempio, che le carni leggere sono facili
ad essere smaltite ed igieniche; e poi non sappia quali sono leggere,
costui certamente non provvederà alla sua salute; invece vi
provvederà chi sappia che sono leggere ed igieniche, ad esempio, le carni
degli uccelli 3. Da questa analogia della maniera in cui si forma
l’azione colla maniera in cui si forma il sillogismo, | Eth. Nic.
VI, 8. 5-6. 2 Eth. Nic. VI, 8. 7. 5 Eth. Nic. VI, 7. 7. TR
uptnlti E LN NI SN AA Potato RIT en line pat e E Gn a — x e
di ti sen NT nno eee en Aristotele cerca di trarre la
spiegazione del fatto che altri, pur conoscendo il bene, operi
contrariamente ad esso. Può avvenire, egli dice, che altri sappia ciò che
è bene in generale, cioè conosca la proposizione maggiore del
sillogismo pratico, e non sappia ciò che è bene in particolare per una
circostanza speciale, cioè non conosca la minore del sillogismo; oppure
può avvenire che s'ab- biano bensì tutt'e due queste specie di
cognizioni, ma quando si tratti di praticarle, ci si serva
unicamente dell’ universale, e per nulla della particolare: in
questi casi si può peccare senz’ essere tuttavia ignoranti !. Senza
dire che la conoscenza si può avere in abito e non usarla attualmente,
ovverossia averla e non averla ad un tempo, come avviene in chi dorme, o
nel pazzo, o nel- l’avvinazzato; che è la condizione nella quale si
trovano coloro che si danno in braccio alle passioni: i quali pos-
sono bensì sapere quello che è bene, e tuttavia dall'ira, . dalla
libidine e da altre voglie siffatte essere acciecati *. E qui, come si
vede, c'è una nuova critica di Ari- stotele contro Socrate, che sosteneva
chi sa non poter peccare, il peccato essere effetto d’ignoranza. Dove
però è notevole che, malgrado la critica, Aristotele finisce col-
l'accostarsi a Socrate. Quando, egli dice, altri sappia ciò che convien
fare, e vi rifletta nel momento dell’ope- rare, sarebbe bene strano,
detvéy, ch’egli operasse altrimenti da quello che conviene ®; se altri
può peccare per avere { Eth. Nic. VII, 3. 6. 2 Eth. Nic.
VII, 3. 7. 5'Eth. Nic. VII, 3. 5. DMN ere è digg Meyopey Tò
sriotacta: 2 È S e ICROI (al qdo è Eyov pev od upopevos dè + ariovhpn
val è ypdpevos 1 I Ò x È ast, Cà, x x Veferat tmierac)a:), Otolcet
TÒ [euparebzo0a:] Eyovra pèv ph dx | ZA x 9.1 n
empodvra dì è ud der mpurten OÙ | duparredepda] Eyovra ual “, » % 9
n} È Oewpodvra, ToSTO pap Sons Dewéy, AIN odz si pù
Newpéy. soltanto la conoscenza dell’universale e non quella del
particolare, sarebbe meraviglioso (B2uzotév,) che peccasse quando avesse
le due’ conoscenze |. Se si pecca cono- scendo l’universale e il
particolare attualmente, gli è perchè non si sa mettere il
particolare sotto quell’uni- versale che gli conviene ?. Insomma,
e questo mi pare il pensiero d’ Aristotele, quando il sapere non ci
con- tentiamo soltanto d’averlo, ma ce ne serviamo: quando non
vogliamo averlo soltanto in abito, ma in atto; quando il sapere è
efficace veramente, € Sie: pet così dire, assimilato a noi e alla nostra
natura, sicchè non è il sapere dei fanciulli che ripetono
meccanicamente quello che udirono e non ne sanno il significato, nè
quello degl*istrioni e degli ubbriachi che cantano i versi d’Empedocle
senza comprenderli 3; di più, quando il sapere è completo, vale a dire,
non abbiamo soltanto la cono- scenza dell’ universale, ma quella eziandio
del particolare, e possiamo per ciò formare, all’occasione, il
sillogismo pratico come si deve; l’operare si conforma al
conoscere, e il peccare è impossibile. Sd Con queste
rettificazioni la dottrina di Socrate si può accettare. i 5°.
Come si vede, dopo molte oscillazioni e titubanze e dopo una
critica in gran parte giusta, Aristotele ritorna pur sempre al pensiero
fondamentale della Scuola socratica, che il sapere ha valore sovra tutte
le cose, e che nella stessa vita pratica tiene in ultimo il primo
posto. Certo egli non si ferma al solo sapere teoretico, come avea
fatto Socrate: il video meliora proboque, deteriora. N Miti fai e
LI te uu" IRIS eo PRESE et o)
1 Eth. Nic. VII, 3, 6 in fine. 2 Eth. Nic. VII, 3 g-10. Cfr. il
commento del Segni a questo. luogo Op. cit. p. 344- 345: Me
| 3 Eth. Nic. VII, 3.66 8 e 13. 3 1 LI Se
a A DI sequor, era anche
allora la condizione di tanti uomini, che non potev
a sicuramente passare inosservata: ma al Sapere non si può negare
il compito suo di schiarire, di illuminare © per ciò stesso di dirigere e
servir da guida. La ragione non è ciò che in proprio costituisce
l’uomo, la parte più nobile ed elevata dell’umana natura, quello da cui
deve pigliar norma e forma tutto ciò che all'uomo appartiene? E il sapere
non è il prodotto più schietto, e genuino della ragione? Adunque al
sapere, anche nella vita pratica, spetta un compito importan-
tissimo. E un fatto che molti mali e molti vizii sarebbero evitati quando
si avesse appreso ad averne orrore. L’an- tropofagia, ad esempio, che
disgraziatamente è pratica diffusa presso tanti popoli barbari, deve
sicuramente la sua diffusione al non avere quei popoli coscienza
del male che fanno; i pregiudizi religiosi per cui si sa- crificavano,
e si sacrificano anche oggidì delle vitti- me umane alla divinità, hanno
la medesima sorgente; l’impudenza sfacciata di talune popolazioni allo.
stato d'infanzia, per cui le donne si prostituivano e si pro-
stituiscono allo straniero, è in gran parte ancora l’ effetto
dell'ignoranza. E nei bassi fondi delle società nostre civili non
troviamo la conferma di questo medesimo fatto? Pure non accettando
l’identificazione ammessa da alcuni antropologi fra delinquenza e
idio- tismo, bisogna però riconoscere che spesso i delinquenti sono
d’un'’intelligenza ristretta e d'uno spirito angusto, donde. la loro
inferiorità e il loro svantaggio nelle lotte sociali. Perfino certi
vizii puerili e quasi innocenti. implicano e suppongono una certa
ignoranza” da palio di chi li ha. Si può ammettere, ad esempio, che
il — millantatore, il vanitoso, abbia COScIenza di diventare
ridicolo colle sue millanterie, di diventare SRIRSEDTOSe "I
insopportabile? Egli che aspira sovra tutto alla stima degli
sà Sap Ni altri, se sapesse gli effetti della
vanità, per vanità nascon- derebbe il suo vizio. Senza fare una certa
parte all’ igno- ranza, non si comprenderebbe, osserva molto
giustamente lo Ianet!, quella massima profonda del Vangelo che «si
vede bene il fuscello che è nell’ occhio del vicino, e non si vede la
trave che è nel proprio ». Ma dunque basta conoscere ciò che è bene
per farlo, e ciò che è male per astenersene, sicchè si possa
identificare senza più la virtù col sapere e la malvagità coll’ignoranza?
Certo la vera virtà, la virtù ideale, 4 idéz tig dpetfig, come la dice
Platone, è la virtù lumiade dal sapere; mentre al contrario la virtù
d’opinione, quella che si fonda sulla coscienza attuale dell’
individuo, che potrebbe non essere illuminata dal sapere, e credere
vero bene quello che non è bene che in apparenza, non è, secondo lo
stesso filosofo, che un'ombra di virtù, c4% doerig; e così egualmente il
vizio non dipende spesso che dall'ignoranza del bene. Ma il sapere, per
essere condi- zione, e importante condizione di moralità, ha
bisogno di una trasformazione; ha bisogno di diventare efficace, di
farsi pratico, operativo; se rimane nel campo della speculazione e della
teoria, a nulla giova per l’operare. L'idea dev'essere insieme una
forza; la dottrina delle idee forze trova qui la sua applicazione: e
per essere una forza, bisogna che parli insieme al cuore e alla
volontà, bisogna che s'addentri in noi, che s’identifichi con noi, per
così dire, che faccia parte intima della nostra natura, non già soltanto
che ci illumini dal di fuori. Il che vuol dire che oltre il sapere
e più del sapere, sono anche necessarie altre condizioni per la
moralità: è un fatto che in parecchi casi l’uomo fa il male con coscienza
e in conoscenza di causa. Il bene non basta 1 La Morale, Paris
Delagrave 1887 p. sio. Paneasienizaniernenaene ssa re nervovore
che sia conosciuto, bisogna anche che sia amato; non basta che
rimanga nelle altezze serene, ma fredde della ragione; bisogna anche che
scenda nelle regioni più basse, ma calde del sentimento. Senza calore di
senti- mento, senza emozioni vive ed ardenti, senza entusiasmo,
senza fede passionata, non è possibile la pratica del bene. Il Kant vuole
escluso affatto dalla moralità il sentimento; ma è un errore grave. Tolto
il sentimento, tolta l’attrat- tiva del bene, tolto l'amore, manca alla
volontà l'energia necessaria per vincere la lotta colle passioni. Il
sentimento morale, l'amore del bene è adunque condizione neces-
saria alla moralità; l'educazione deve mirare a svolgere questo
sentimento negli animi; non basta far conoscere agli uomini il bene;
bisogna anche farlo amare. «Se la beltà, diceva Platone, ci apparisse in
se stessa e senza veli, susciterebbe in noi amori incredibili. »: Ciò
che Platone diceva del bello, si può dire del bene. Aristotele
stesso che non era un poeta, si rappresentava il bene come qualche cosa
di sovranamente amabile, e sovra- namente desiderabile. Ma
non basta la scienza del bene e l’amore del bene; è anche necessaria la
volontà del bene, la forza morale, l'impero dell’ anima su se stessa.
Quante volte l’amore del bene e la scienza del bene sono impotenti
del pari! Quante buone intenzioni inspirate dal cuore e dalla ragione,
non riescono a tradursi in atto, Dr mancanza di un volere energico che
SERRE FILA passionise dominarle! Già Sant'Agostino ci ha descritto
igli i rosa colorita e fan- meravigliosamente, in quella sua
pros: È ) È assioni: « Io era : aggia energia delle p EI
SARE tastica, la selvaggia 5 vegliarsi, ma vinti simile,
egli dice, a quelli che vogliono s ARSA, dalla forza del sonno, ricadono
nell ASsoria SI x v'ha alcuno senza dubbio che voglia sempre non
preferisca, se è sano di s pirito, la veglia al sonno;
22 G. ZUccaNnTE
uetnneazzzazzanaiaaionaniaziaionaaziziz ione nia eene sirena na sapere zanisare
iti METIETEZIANETTATEZEZZNE ARA tienena n aranuamarenanerenicionenesisseonenareonee
e tuttavia niente è più difficile che scuotere il languore
che pesa sulle nostre membra; e spesso, nostro malgrado, siamo
presi dalla dolcezza del sonno, quantunque l’ora del risveglio sia
giunta.... Io era impigliato nei frivoli piaceri e nelle folli vanità,
mie antiche amiche, che scuotevano in certo modo le vestimenta della mia
carne e mormoravano: Ci abbandoni tu?.... Se da un lato era
attirato e convinto, dall'altro era sedotto e incatenato... Io non
rispondeva che queste parole lente e languide: Subito, subito, attendete
un poco. Ma questo subito. non veniva mai, e questo poco si prolungava
all'infinito. Chi mi libererà da questo corpo di morte 1? »,
Per vincere le passioni, per operare il bene è adunque necessario
uno sforzo supremo, un atto personale di riso- luzione, è necessaria la
forza morale, la volontà. E la volontà non è sapere, sebbene non sia
senza sapere; è impulso appetitivo che il sapere illumina e guida,
ma che il sapere non produce. Ben fece Aristotele pertanto ad
ammettere come fattore essenziale della virtù la volontà; in questa parte
specialmente egli ha oltrepassato di gran lunga la con-.
cezione unilaterale e ristretta di Socrate e di Platone, ‘ € ha reso
servigi eminenti alla morale. La virtù è forza, scienza, amore
indivisibilmente uniti in una medesim Aristotele parlare
lun che segue. a azione: della forza conveniva ad
samente, come vedremo nel Saggio È 4 Confessioni lib. VIIL
Pisto » da LA DOTTRINA DELLA VOLONTA NELL’
ETICA NICOMACHEA DI ARISTOTELE. La dottrina della VOLONTÀ nel LIZIO è anche più importante
della dottrina della felicità [cf. Grice, “Some remarks on happiness” – Ackrill
eu-daemon] e della virtù [Grice, “Philosophy is, like virtue, entire”].
Qui più che altrove si manifesta l'originalità del filosofo. In
generale, come abbiamo notato, Socrate e lo stessa ACCADEMIA considerano
condizione, se non unica, quasi unica della virtù il sapere. Un’altra
condizione scorge necessaria nel LIZIO. Bisogna che l'APPETITO,
trasformatosi in VOLONTÀ, si rivolga là dove LA RAGIONE consiglia, poichè
ci può essere contrasto tra gl’appetiti da una: parte e i CONSIGLI [Grice,
counsels of prudence] della ragione dall'altra, e nessuna efficacia ha in
questo caso la ragione, e il lume che viene da questa, indarno si
spererebbe che riuscisse a rischiarare le tenebre della passione. Perciò
Aristotele si accinge a un esame accurato della facoltà del VOLERE [GRICE
WILLING – citing KENNY ON VOLITING], studiandone gl’elementi costituuvi,
sorprendendola per così dire nel suo nascere e conducendola su su fino al:
n 2 più alto grado di svolgimento, fermandosi sull imputabilità e sulla
responsabilità e mostrandole egate al libero arbitrio, dando insomma di
questa condizione interna della virtù una teorica Così po Cono SRI 4
quale si poteva appena aspettare al tenipi. suole. da Sui : gu
R 342 i dovranno in fondo prendere le mosse tutti quelli che
si occuperanno di simile argomento. le 7 È Già i Cinici aveano
riconosciuto nel volere una certa 1 importanza per quanto riguarda
la condotta dell’uomo : virtuoso; ma erano scarsi accenni, che
doveano essere ui svolti e ampliati: conveniva non soltanto
riconoscere d l’importanza del volere, ma penetrarne l’intima
natura s e mettere a nudo il.substrato psicologico, sul quale si
t.) fonda, e da cui domina, per così dire, ed invigila tutta à
È quanta la vita dello spirito. Il fondamento psicologico Di) che
anche qui, come nella teorica della virtù, Aristotele i o: ricerca alla
morale, è la sua novità grande e bella., 3 Cominceremo anche per
questo, come pei due Saggi et che precedono, dall'esposizione della
dottrina. i Poichè la lode ed il biasimo non spettano se non
alle azioni che si fanno volontariamente, e queste sole quindi sono
del dominio della virtà e del vizio, mentre alle. altre che si fanno
involontariamente è riservato il perdono - e talora la compassione; è
necessaria, ad illustrare anche | meglio la natura della virtù, un’altra
ricerca ancora, la ricerca intorno a ciò che è volontario (&4obawy) e
intorno 2% a.ciò che è involontario (azobcrov) 1. G ESE In primo
luogo adunque è involontario ciò che altri > AE fa costretto dalla
forza, fix, ed è azione forzata, ffxoy, «a quella il cui principio è al
di fuori di chi la fa o da © i patisce, e a cui chi la fa o la patisce in
niente contribuisce [Eth. Nic. Forse si renderebbe assai meglio 1’
gxob- giov e l’axodotoy di Aristotele col nostro ) spontaneo
e non spontaneo, — che col volontario e involontario. Comun Ù
que sia, ricordiamo a scanso — di equivoci che il volontario con
cui traduciamo l'ézovaov di Ari- ; ‘stotele, significa quel
principio di volere che è nell’ Appetito, e non già nella Volontà
ragionevole; perchè questo volontario è comune | _°—‘’“anche ai bruti.
Cfr. Bernardo Segni Commento Cit. p. 121. AVI Aia
e . Ù agi io E O Por; LS ; - 1 NELL’ ETICA D
ARISTOTELE 343 / da parte sua: come se altri venisse trascinato dovec-
ce chessia dal vento o da uomini in potere dei quali fosse ui
caduto !. fs Può sorgere il dubbio se si devano considerare
volontarie o involontarie o, ciò che è lo stesso, forzate “De o non
forzate, le azioni che altri fa, benchè a malincuore, x per paura
di mali maggiori, dvx gofioy pertévoy zax6y, O per conseguire cosa
onesta, dit 2226v 71; come se ci avvenisse | di dover gettare in mare le
robe nostre, per salvare dal naufragio noi stessi e gli altri 2; oppure
un tiranno ci ingiungesse di commettere qualche cosa di turpe, e
solo a tal patto ci desse salva la vita dei nostri genitori .0 dei
nostri figli, che fossero in suo potere 3, Assolutamente parlando,
nessuno vorrebbe gettare in mare le robe sue o sottomettersi, sia pure
per ottenere Un fine onesto, al comando inonesto di un tiranno: sicchè,
prese in sè e. assolutamente, quelle azioni sono forse involontarie
(em). 3 too: dsobarz) #5 ma siccome in esse il principio del moto è
pur sempre intrinseco a chi opera, e quello di N FIAT ROINZ DI IO
{ Eth. Nic. III, 1,3. Bfxuoy dÈ 06 4 cpXa Ecolev, corzvta À, À 7 ge
7, vi pendiv cvpt2era 0 mpdTTOY © 9 masgov, otoy ci
| 006% È uop.ica: Tor CRCAV TOLTI ubproi dvTes. 2 Eth.
Nic. III, 1. 5: 5 Eth, Nic. III, 1. 4. Abbiamo creduto col Ramsauer
(Commento all’ Etica Nicomachea di Aristotele) riferirsi l'esempio, del
tiranno. i alle azioni fatte did e40v 7, non già a quelle fatte De Qopov
pets I Covwy AILOY, Per le quali ci sembra bastare l'esempio del IO
in e le merci. Perciò abbiamo invertito nell’ esposizione l'ordine dei
pe (Commento cit. p. 9$) pare credere (308 alle azioni fatte dt
969oy pelivov mare le merci a quelle fatte did mar due esempi.
Il Michelet invece l'esempio del tiranno riferirsi l'esempio
del gettare in LIKOY, zI6Y Fi 4 Eth, Nic. 1 ze
II, 1. 6 in fino.” Mensusazecenionien zaniniosarenenazonsecenioaasaze;
aciveonzarivevenea neeneseeeieeezazenninevivaosicezeana eraseoiana ne ziarenezzionenezizioo cui
è in noi il principio, sta in noi anche il fare o il non fare; siccome in quel
momento e in quella circostanza particolare si fanno volendole fare
e preferendole ad altre, ur: e deve parlarsi di volontario e
d’involontario non assolu- i, speravasi di evitare; non
dimenticando mai che fra i beni edi mali ve ne sono di così grandi, che
per causa loro La sembra quasi lecito all'uomo checchessia, e fra le
azioni e fatte di così turpi e malvagie, che niente v'ha per cui. 2
ue. possano essere perdonate‘. Così non merita alcun perdono + . SA
Alcmeone che uccise la madre, ed è ridicolo ciò ch'egli Ne: addusse
a sua discolpa: a certe cose non dobbiamo lasciarci RS costringere,
piuttosto è da preferire la morte 5. Invece .
»” 4 DO 1 e 3 N N ” 1 Eth. Nic. III, 1. 6 e 10. % dì 00) gità uèv dnodarà
tot, eni IN iui n * ‘ e ‘ . VÙV dî zl avti TOVÒs viper, al dà doyh
èv té TPATTOVTE, n II x » 4 IANGLI DI x
ORIO LI zo astà uiv dnobar ar, vv dì ue Inti movie suobera.
C'è | in Aristotele per quello che riguarda questa specie d’azioni una
certa | oscillazione e titubanza, che è assai difficile riprodurre
nell’ ni 2 Eth. Nic. III, 1, 6 parti rodlex. 5
Compendio della Morale di Aristotele, parte II, cap. IV | $ Eth. Nic.
III, 1. 7-8 5 Eth, Nic. III, 1. 8, A DI esposizione. fi
Eta quando vi siano tali mali che oltrepassino l’ umana
natura e che nessuno potrebbe soffrire, se altri, per evitarli,
faccia cosa che non deva, è degno, non certamente di L lode, ma di
perdono; e alle volte è perfino degno di lode chi non dubiti di
sottostare a qualche cosa di turpe o doloroso, mirando a fine bello e
grande!. Del resto è difficile determinare quali cose si
debbano scegliere e quali sopportare di preferenza, presentandosi -
molte differenze nei casi particolari; e ancor più difficile + PA è
rimaner fermo nella presa risoluzione, poichè potrebbe 4 smuovercene o il
dolore che ci si minaccia, o la turpezza dell'azione, a cui ci si vuole
costringere. Chè in generale è questo il caso più comune di tali azioni:
ci si vorrebbe costringere a qualche cosa di turpe colla minaccia
di grandi dolori. Dove siccome è sempre da preferire il dolore
all’operare turpemente, si loda chi non vi si lascia costringere, si
biasima invece chi vi si lascia costringere. I Eth. Nic. III, 1.
7. Svtote nel èrzwodviai, dTAY alcypoysat ‘À Nuti gÒv UTOPEVOGI dti
PEYÀ.OY ua 4240. î 2 Eth. Nic. III, 1. $ 9 in principio e $ 10 in
fine. 3 Eth. Nic; III, 1. 9.... &Tt dì yederotepoy Supetvat Tot
mi cd ROXb dom FÀ piv mpocdozopeve Nutnpz, x pocbztay
ds Y% È a di >» U, » VANE a 2 de vaqadbovma vicy 94, ev î7
Il senso di questo luogo imbrogliato mi pare il ù difficile rimaner fermi
nella presa risoluzione 0°, poichè, essendo il più delle volte "Sa
uello che =» LI vor val goyor yvovTat TEL TOÙS
avarpraslevzas A ua seguente: è ancor pi di operare in una certa
maniera doloroso quello che ci aspetta se non operiamo, e turpe q
CI ci si vuole costringere ad operare, avviene che o il dolore
minacciato, 3 attuale ci smuova dal nostro proposito. Una o
laturpezza dell’azione IPEOR : n tiranno, anziché sottostare
STA a, donna ha deciso di piegare alle voglie d’u ottostare ai
tormenti da lui minacciatile, ma al momento dî Meter i; deci a tur
'azi a per compiere, la trat- quanto ha deciso, la turpezza dell azione #
st De So Sa n Ì i ferisce i tormenti, Un uomo ha o di soffrire —
tiene dal compirla e pre leciso d È LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ
Uursussazzenatessaaeeice isa reneeaaee re va naasenaoaineanininianienaninininiaeaninrioeinezizanioneeaerisseeereenaeoaierazeoiza
lean ese ria zezanei Riassumendo, involontaria o forzata è
l’azione il cui principio è al di fuori di chi la fa, e a cui questi in
niente contribuisce da parte sua; e il timore di mali maggiori (6
96Bos pertivey zaz6y) e il fine onesto per cui si operi (dt x4).6v 71),
non rendono punto involontaria o forzata l’azio- ne, sebbene le
comunichino un carattere speciale, di cui è necessario tener conto quando
si tratti di stabilirne il valore morale. Che se alcuno
dicesse che in realtà l’onesto (rà x21é) e il piacevole.anche più (xè
dt2), rendono involontaria e violenta l’azione, perchè costringono dal di
fuori (avar- stem #0 dv7z), se ne dovrebbe concludere che tutti in
tale ipotesi sono forzati a fare ciò che fanno, poichè tutti operano per
questi due motivi, l’onesto e il piace- ‘a vole!; l’utile stesso per cui
spesso si opera, non si sceglie se non come mezzo a un bene o a un
piacere; ciò che | è amato e scelto come fine, è il bene e il
piacere 2. D'altra parte chi opera per violenza e involontariamente,
opera con dolore (2vrnpòs): invece chi opera per il piacevole
e qualunque tormento piuttosto che rivelare un segreto che possa, ad
esempio, compromettere la patria; appena sente i tormenti, si rimuove
© dalla sua decisione. Siccome poi si tratta di dolore proprio,
personale, da una parte, e di onestà dall'altra, e siccome è da
preferire sempre il dolore al venir meno all’onestà, così l’autore
aggiunge: O0ey Erauvot zz Yéyor ecc. cioè a dire che si lodano
coloro che non si lasciano costringere dal dolore a fare qualche
cosa di turpe, mentre invece si biasimano coloro che vi si lasciano
costringere. Ero: è da riferirsi ad 7 pi, Yéfora mepi Tod;
vayzaolivmzz. 3 tNEth: Nic. III. 11. x 2 Eth. Nic. II, 3.7: 7eiòY
Yao dvrwy cav sic TRS UiosGeLe. AIN0d GUozs0vTos Adios ed Eth. Nic.
VII I, 2.1. dofcre dov yecusov civai di ob fiera apabov ari dovk,
bare QUINTA dv ein v&Y206v TE AU Td 400 we Tin.
l’onesto, opera con piacere (19 4dovîs); per la qual cosa se ciò
che è piacevole ed onesto: costringesse ad operare, si opererebbe ad un
tempo con dolore e con piacere, il che involge contraddizione!. « E
ridicolo adunque, conclu- de Aristotele, accusare le cose esterne, e
nonse stesso come facile a venir attirato da esse, e delle azioni belle
dar la causa a se stesso, delle turpi alle cose piacevoli » ?.
I Eth. Nic. III, 1. 11. L'affermazione di Aristotele che chi opera
per il piacevole e l’onesto, opera con piacere, non si può accettare che
in parte; perocchè, se è vero che chi opera pel piacevole opera con
piacere, chi opera invece per conseguire cosa onesta, si sottopone il più
delle volte a dolori e non opera conseguentemente con piacere (Cfr. Eth.
Nic. III, 1. 7.) Masi potrebbe risolvere questa contraddizione in cui
pare Aristotele si trovi con se stesso, affermando, come fa il Michelet
nel suo Commento, che qui ($ 11) Aristotele parla dell’onesto che per se
ci spinge ad operar rettamente, mentre prima {$ 7) ha parlato dell’onesto
che ci induce a soffrir dolori per ottenerlo. « Postquam auctor de
honestate, quae nos ad molestias subeundas impellit, et de molestiis
locutus est, quas ut vitemus ad turpia facienda cogimur; jam de voluptate
loquitur, quae nos ad haec cadem, et de honestate quae ad recte agendum
compellit. Sunt autem haec illis magis spontanea, quia voluptas et
honestas fines sunt, quos sponte nostra per se cligimus, molestias autem
semper invite subimus, utpote a natura nostra alienas » Michelet Commento
cit. pag. 103 - 104. D'altra parte si potrebbe ricor- dare che nella
teoria d’ Aristotele è virtuoso solo chi opera il bene con
piacere. 2 Eth. Nic. III, 1. 1 uh aitdy ebmpatov ovTa d
tuuròv, Tv d aley pv nÙ i è cosa ridicola che, mentre si sostiene che
tanto 1 ci costringono ad operare, quando si viene alle
applicazioni, a che le azioni buone non siano già dovute, come a
causa e per contro le azioni turpi siano dovute 1 yeXoloy Sh
cd qitizola mà 4706, dI mò 76V rowirmy; zal TGV pev 4XA6Y Si. Il
senso del qual luogo è il seguente: l bene quanto il
piacevole si sosteng efficiente, al bene, ma a nol;
die - i Nel qual luogo il filosofo riconosce
evidentemente, e sì fa gioco di coloro che non vogliono
riconoscerlo, che delle azioni nostre siamo noi la causa efficiente:
noi abbiamo in noi stessi una forza e un'energia nostra propria,
colla quale possiamo sottrarci alle influenze che ci vengono dal di
fuori, perfino all'influenza che ci possa venire dal bene. Il che, o
c'inganniamo, o è un accenno abbastanza chiaro alla libertà del
volere. Quanto è detto del bene e del piacere, si può
ripetere dell’ira (0vpés) e del desiderio (r:0vuiz): le azioni che
si fanno sotto lo stimolo dell’ira e del desiderio non sono
involontarie !. Perocchè se lo fossero, nessuno degli altri animali
agirebbe volontariamente, e neppure i fanciulli che agiscono massimamente
sotto lo stimolo di questi due moventi interni ®. D'altra parte anche
alle azioni come a causa efficiente, non a noi, ma al piacere che
ci costringe. Per esser conseguenti dovremmo invece tutti due questi
generi d’azioni attribuire alle cause esterne. Inteso così questo luogo,
mi pare che non si possa dire in riguardo ad esso quello che dice il
Ramsauer; (Commento citato): « vides illi (Aristoteli) quasi codem
tempore cum diverso hominum genere rem esse. Qui enim dicant etiam 7%
423.d fizuz esse, non poterunt iidem té zz4.6v zi7izola é2UT005. Invece a
me pare si tratti degli stessi uomini. Soltanto mentre in teoria
sostengono che il piacere non soltanto, ma anche il bene costringe ad
operare, e aggiungono il bene per far passar meglio la loro teoria, in
pratica poi sostengono quello che loro fa comodo; fa comodo a loro
esser riputati veri autori del bene; non fa comodo esser riputati autori
del male. 1 Eth. VE III, AB Noi traduciamo ira il 0vuds greco.
Ma veramente 0»yd5 non significa soltanto l'affetto speciale dell’ira. Il
0105 indica l’impeto, la veemenza, il calore dell'animo, ha quindi un
signi- ficato più largo di ira. Tuttavia in italiano non parola che
renda perfettamente il Inps. 2 Eth. Nic. III, 1. 22. Qui il
volontario anche più che altrove Saprel trovare una belle
siamo spinti da un qualche desiderio, da un qualche affetto, e sarebbe
ridicolo dire a nostro elogio volontarie le azioni belle, involontarie le
turpi, mentre dipendono dalla medesima causa. Ci sono poi delle cose che
conviene desiderare ardentemente, come ci sono dei casi in cui
conviene adirarsi: come si potrebbe dire involontario ciò che si fa in
questi casi? ®, Ancora, che differenza c'è fra i peccati che derivano
dalla fredda ragione e quegli altri che derivano dall'ira o dal
desiderio, per cui questi. ul- timi soli devano essere involontarii? Sono
da evitare si gli uni come gli altri e le passioni irragionevoli non
meno della ragione sono umane. Finalmente perchè si dovranno chiamare
involontarie quelle azioni che derivano dall'ira o dal desiderio, che
muovono cioè di là donde il più delle volte gli uomini sono spinti ad
operare 4? Come si vede, Aristotele in questa questione che
riguarda il volontario e l’involontario e ciò che è forzato e ciò che non
è forzato, procede rettamente dall’estrinseco all’intrinseco, dal mondo
esterno al mondo interno. Violenza è solo quella che ci viene dal di
fuori, dagli è preso nel significato speciale di spontaneo. Perciò
non è a far le meraviglie se Aristotele dice che appartiene anche alle
bestie e ai fanciulli. 4 Eth. Nic. III, 1. 23. 2 Eth. Nic. III, 1
24. i Eth. Nic. III, 1. 26.
Come si vede l'argomento è questo: le gionevoli non meno della ragione
sono umane: per conse- da ragione, è anche volontario
(2) passioni irra guenza se è volontario ciò che deriva
i ciò che deriva dall'ira e dal desiderio. Qui è ritenuto come
volontario tutto ciò che deriva dall'essere dell’uomo; perchè
‘volontario anche qui è preso nel significato di spontaneo. Tratteremo
largamente in fine la questione dell’éz00 4 Eth. Nic, III,
I. 27. . ti Giovy e dell'uzoustov. elementi, il vento
per esempio, o dagli uomini, ed è violenza materiale, a cui non è
possibile opporre resistenza; il vento ci trascina o ci solleva; gli
uomini, quando ne abbiano il potere e la forza, c'imprigionano, ci
tormen- tano, fanno di noi tutto quello che loro aggrada. Il timore
di mali, che si vogliano evitare, un fine onesto per cui si operi, non
costituiscono violenza; i mali per verità sono al di fuori di noi, e il
bene a cui si miri è anche fuori di noi; ma il timore che si ha dei primi,
è cosa subbiettiva, personale, e il bene ci alletta e ci sospinge
solo in quanto è appreso ed apprezzato da noi, e s'è quindi trasformato
in cosa nostra. Il movente è perciò sempre in questi casi interiore,
senza contare che la vera causa motrice, il principio che mette in moto
le membra, n dpyn où zuelv Td dpyavizà uéen, appartiene a colui
stesso che opera,'èy abrò torw |. Altrettanto è da dire del
piacere, dell’ira e del desi- derio che sono tutti moventi intrinseci,
tutti dipendendo dalla natura e dall’essere stesso dell’ uomo, di cui
sono come la manifestazione. Per Aristotele è volontario o
spontaneo tutto quello che è intrinseco all'uomo: egli non si cura di
determinare se quello che è intrinseco sia intrinseco soltanto
apparentemente, e dipendain ultimo ancora da qualche cosa d’ estrinseco;
quello che è nell’ uo- mo, per qualunque motivo vi sia c da qualunque
causa derivi, gli appartiene, e gli si deve a giusto titolo attri-
buire. Il regno dell’ szobary è vastissimo, quasi tanto vasto quanto la
vita dell’uomo. 4 Eth. Nic. III, 1. 6. metal a [ie
à PA. x x | I ° MATTONI INI CRE
PET ARI FR IR e PR ARR i nin enizaz azz nana 10S Pan TTA nerina nen ini era
reni esente
merpasenazeanenesaziaricnennenecaasionzossenenianeanisea II.
E in secondo luogo involontario quello che si fa per ignoranza
(%yvorx) *. Intorno a questo è però da osservare che non tutto ciò che si
fa per ignoranza è a rigore da chiamare involontario; imperocchè chi pure
per ignoranza abbia fatto cosa di cui poi non ebbe a pentirsi e a
sentir dolore, che anzi a lui piacque di aver fatta, non si può
dire l’abbia fatta involontariamente, sebbene per verità neanche
volontariamente, non facendosi volontariamente se non ciò che si sa:
invece è da dire veramente involon- tario ciò che si fece per ignoranza e
di cui poi si sentì pentimento e dolore ?. Della quale restrizione è da
tenere 1 massimo conto nello stabilire il grado d’imputabilità
d'un’azione. Se altri infatti si compiaccia -d’ un'azione che fece a sua
insaputa, quest'azione che non si poteva dir sua perchè l’ignorava, diventa
quasi sua per effetto di quel compiacimento. Intorno
all’involontario per ignoranza è anche da osservare, che bisogna
distinguere ciò che si fa per igno- ranza, da ciò che si fa ignorando
bensì, ma per un altro motivo. Imperocchè l’ubbriaco e l’ adirato è certo
che non sanno quello che fanno, e tuttavia non Sl può dire che
operino per ignoranza, e quindi si devano ritenere involon- tarie le loro
azioni; le loro azioni, anzichè dall ignoranza, AO origine dall’
ubbriachezza € dall ira, SR non hanno saputo astenersi © da cui derivò
3PRUGL, ‘OSCUra= mento della loro mente 3. Per conseguenza chi
abbia 4 Etb. Nic. III, 1. 3- 9 Eth. Nic. INI, 1. 13 ©
19: 5 Eth. Nic. III, 1. 14 permesso che gli affetti dell'animo suo
prendano tanta forza da accecarlo interamente, sicchè non possa più
discernere quello che pure poteva discernere, costui non accusi come
causa di peccato la sua ignoranza, ma quegli affetti che non ha saputo
regolare. Ancora non è da credere che renda involontaria
l’azione l'ignoranza dell’universale, cioè del bene e del male,
l'ignoranza che riguarda il fine da conseguire, per cui gli uomini
volgono l’opera loro ad un fine indegno, non sapendo ciò che sia
veramente da desiderare. Il malvagio ignora ciò che convien fare e ciò da
cui con- viene astenersi; ma non per questo egli è non malvagio:
anzi è questa ignoranza appunto la causa della sua mal- vagità!, Chi
opera male non può addurre a sua scusa R di aver ignorato ciò che conveniva.
fare. L'ignoranza x del bene e del male non può essere ottima ‘scusa
del | ‘peccato; altrimenti si dovrebbe riputar buono chi pure abbia
commesso azioni turpi ed ingiuste, quando in antecedenza abbia stimato
bene quello che si propose di fare ?. Invece rende
involontaria l’azione l’ignorare le cose i singolari nelle quali e
intorno alle quali versa l’azione medesima; chi ignora qualcheduna di
queste, ben lungi dall’operare volontariamente, merita compassione
e Eth. Nic. Aristotele oltre che
dell'ignoranza dell’universale, * P22) 1: x: III dvorz, parla anche d’un'
ignoranza che ha luogo nel preeleggere, SR È) 17 mpozipécei dryvovz, come
d’una causa della malvagità, alla in #36 poy0nptxs (Eh. Nic. II, 1. 15).
Gl’incontinenti, &xpxTeì, non errano nel fine, poichè sanno che sì
deve fuggire la libidine, ma, tratti __—’ al desiderio, si allontanano
dalla via che conduce al fine. In questi. | —©’è conoscenza dell’
universale, e ignoranza nella preelezione. Cfr. Mi. i |‘ cheler Commento
cit. p. 108. + perdono !. Essendo le cose singolari, nelle quali
versa l'azione, al di fuori di noi ed estranee a noi, l'ignoranza
di queste è in qualche modo una causa esterna, un istru- mento esterno ed
estraneo alla nostra volontà, sebbene in noi; sicchè ciò che si fa sotto
il dominio di tale ignoranza, sembra fatto non da chi agisce, ma da
questa ignoranza stessa. Mentre l'ignorare che cosa sia bene e giusto
e retto dipende da cattiva volontà, ed è non già qualche cosa
d’estraneo e d’estrinseco, ma un principio interno, una qualità propria
di chi agisce, che rende questo imputabile della sua azione °.
C'è insomma un’ignorantia juris, come la chiamano i legali, e
wn’ignorantia facti; la prima è imputabile, la seconda non è imputabile;
Ignoranzia juris nocet, ignorantia facli non nocet.
L'ignoranza dei particolari può riguardare e chi opera (is) € ciò
che si opera (xt) e intorno a che o in chi si opera (rspì #t È evi) 3, e
con quale mezzo sl opera (rim), e per qual fine (Evezz 7ivos) e in qual
modo (05) 4 Certamente non è possibile ignorare tutte queste
circostanze ad un tempo, chi non sia pazzo; peroc- chè non foss'altro,
come potrebbe chi opera ignorare se stesso? Ma si può ignorare o la
sostanza dell’ azione, o l'oggetto in cui cade |’ azione, 0 il mezzo, o
il modo, o il fine. Per esempio ignora ciò che fa O) la sostanza
dell’azione, chi ignorando non si dovesse dire una certa, 1 Eth.
Nic. III, 1, 15. 2 Cfr. il Commento del Michelet p. 105, 5 Accetto
la spiegazione del Michelet p. 109. Il rrept ab el’èv Ti Ì i 2 L i
ì U AI CD - indicano la medesima circostanza, l'oggetto in cui cade
l'azione;sol to mentre il mepi ci si riferisce a cosa inanimata, l'îv 7ou
si riferisce tan ico: pata, ersona Refer #s0l zi ad rem inanimam,
îv ivi ad hominem. a p 3 i È + Eth. Nic. INI, 1. 10.
23 G. Z. uu i* Dà ‘per un nemico, come Merope, e
l’uccida, ignora l'oggetto cosa, se la lasci sfuggire nel
discorso: chi scambi il figlio dell’azione o la persona su cui
agisce: ignora il mezzo chi credendo una pietra esser pomice e perciò
materia tenera e innocua, oppure essere spuntata l’asta che ha
invece acuta la punta, la scagli contro qualcheduno e lo ferisca: ignora
il fine chi apprestando all’ammalato una pozione collo scopo di salvarlo,
l’uccida; e chi volendo solamente toccare, percuota invece violentemente,
è ignorante del modo !. Intorno a tutte queste circostanze
potendo aver luogo l'ignoranza, chi operi sotto il dominio di questa
opera involontariamente. Se adunque, per quanto s'è detto,
involontario è ciò che altri fa costretto dalla violenza e per
ignoranza, volontario invece sarà ciò che sì fa per un principio
intrinseco e conoscendo le singole circostanze in mezzo alle quali versa
l’azione 2; 0, come spiega lo Zanotti, avendo considerato le ragioni di
farla, « perciocchè le singole circostanze, 7% x20' Éxxst2, che debbon
conoscersi dall’operante, contengono appunto le ragioni, per cui
dee, o non dee operare » °. 1 Gfr. per tutto questo Eth. Nic. II,
1, 17. Accettiamo il 7i0xs del Susemhil, e non il rafees del Michelet,
del Ramsauer ecc. L'esempio di chi appresta una pozione all’ammalato
affine di guarirlo e invece l’uccide, piuttosto che un esempio di chi
ignora il fine, ci parrebbe un esempio di chi ignora il modo o il mezzo.
Vedi quello che dice il Ramsauer molto giustamente in proposito p.
142. 2 Eth. Nic. III, '1. 20 7òd Szobcvoy Séterev dv civa où
dex Ev abré cidoti 7% nol) Enzota èv oîs modkic. Alla conoscenza delle
circostanze in cuirsi compie l'azione, o, ciò che è lo stesso, alla esatta
considerazione delle ragioni per cui l’azione si deve compiere,
mirano la deliberazione, Bosdenaiz, e la preelezione, Tpoztoegts.
La preelezione, chio chiamarei più volentieri propo- sto, ha grande
importanza per la virtù, ed è ad essa strettamente congiunta. RE
Dalla, preelezione si giudica il costume meglio che dalle azioni
medesime !. Per la virtà infatti si guarda di più al come siamo disposti
nell'animo, che a quello che si fa; gli atti esterni della virtù possono
essere fatti a caso, 0 per ostentazione, o per simulazione, o per
ignoranza, o per violenza; se manca l'intenzione, il proposito interno,
la preelezione, mpoziosaw, gli atti vir- tuosi non hanno valore etico.
Che cosa è adunque la preelezione ? La preclezione pur
appartenendo al volontario, non è tutto il volontario; il volontario ha
un'estensione maggiore; il volontario è il genere, di cui la
preelezione è una specie. E difatti e i fanciulli e gli animali
operano volontariamente, ma non con proposito deliberato, non con
preelezione; e le azioni che sono l’effetto di un moto improvviso
dell'animo, non essendo premeditate da.chi le fa, non si può dire
sicuramente che siano state proposte, o prescelte, sebbene non si possa
negare che sono volontarie *. » = IN %, »,
1 Ech. Nic. III, 2. 1. Trepi TINZPEGEOS eretar dte)berv, otzetd- . è; Ù
ne EIA À ” TATOYV Ye siva dozeì cf desti vat uao 7% in nplvew iv
Ù TPACEOY. 2 Eth._Nic. III, 2. 2. DEMI SATO Z CPI, eee?) pi SA
a 4 Pa, 356 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ
unsasaezeraa:iezaazez; nnnasioneeeesaneazasose sseeneti
Poneszeszoanesipanizionesianaaneraneionezeze sv anenzenennariceeneai nina
neneeaniaseaianizsane. La preelezione non è neppure un fatto
d'ordine appetitivo; nessuna delle specie dell'appetito, il
desiderio (emivita), l'ira (016%), la volontà (fovàno:s) *, è
preelezione. Che l’ira e il desiderio non siano la stessa cosa della
preele- zione l'argomento capitale è questo, che i primi sono
affetti che appartengono anche ai bruti, mentre invece la seconda
appartiene soltanto all'uomo. Per quanto poi riguarda il desiderio in
particolare, preelezione e desiderio si op- pongono l’una all’altro, come
avviene hell’incontinente e nel continente, nel primo dei quali la
preelezione è vinta dal desiderio, nel secondo per contro il desiderio è
vinto dalla preelezione ®. S’ aggiunga che il’ desiderio ha per
oggetto il piacevole in senso positivo, il doloroso in senso negativo; la
preelezione invece non ha per oggetto nè l'uno nè l’altro. Chi desidera,
qualunque cosa desideri, JI: Bpetic, appetito, risulta veramente
di tre clementi, 0up.òs, eridupiz, Rodina: Cfr. Eth. Nic. I, 13. 18 e la
nota dél Ramsauer a quel luogo: « 7ò emibrinazizoy zi 6)0g bpeztiziv: hoc
denique nomen 70 4)6Y0v illius.... ad quod universam Thy #014hv dpethv
referri mox discemus. Primum est in eo quod habet èr iMuniay, at insunt
etiam alia, ut addita voce %%Ì 190; ROTOnTe, quae presto Th ET I DDAZAI
DS dpicems sunt. "055 E1s VEN ve
Pe NTAZ vai Quuds où Bobana (414 b 2) » pag. 75. 2 Eth. Nic.
II, 2 4 za! 6 &zoztie Ce DIIONIDTA] Tare mpozipodu evo d' où 6
Syapathg Ò' avdrzdiy Toogipobuevoe ev, Ceri VIIXONI d’ où. Il continente e |° incontinente hanno questo di
co- mune che c'è in loro una specie di lotta intestina come di
forze ostili; da una parte il desiderio, dall'altra la ragione; nel
continente 3 la ragione si assoggetta il desiderio ribelle,
nell’incontinente il desi- derio ottiene il sopravvento. « Quum
Aristoteles ad mores hominum spectans, ut breviter loquamur, quatuor
distinguat genera (qui boni, qui mali sunt, qui &y4p%TeTs et CRI in
duobus illis quos, priore loco diximus, discrimen quo in anima % Gostic a
ratione differt ante”“ani tai Pacini te nai init NELL’ ETICA
D'ARISTOTELE 357 sia buona o turpe, per una certa necessità dell’
umana natura se la finge come piacevole; chi preclegge, anche se
per caso preelegga i più turpi piaceri, se li rappresenta sempre come
beni !. Non è adunque da confondere il desiderio, colla preelezione. Anche
meno è da confondere l’ira con la preelezione, poichè le cose che si
fanno sotto l’ impulso dell’ira, sono ben lontane dall’esser fatte con
meditazione e proposito deliberato. La volontà, sebbene affine, non
è neppur essa la stessa cosa della preelezione. La volontà infatti
può versare intorno a cose che o sono del tutto impossi- bili, come
chi volesse vivere immortale, oppure sono tali che il farle non è in
potere di chi le vuole, come chi volesse che un certo istriéne o un certo
atleta vin- cesse. Chi preelegge invece, non si propone cose impos-
sibili, salvo il caso che sia pazzo, nè cose che non sia in suo potere di
compiere 3. Aggiungasi che la volontà si riferisce piuttosto al fine, la
preelezione invece, ai mezzi che conducono al fine. Noi vogliamo esser
fe- lici, scegliamo i mezzi necessari al conseguimento della
oculos non est. lam enim in .probis hominibus Tò dpe4tizoy totum se conformavit
ad auctoritatem rationis, in pravis co. redacta est ut potentiae 705
opeztinod libenter assentiat et inserviat. Contra oi 49% mel et oi
azparete id commune habent, ut in utrisque spectetur inte- stina animi
dissensio et dimicatio quasi virium hostilium... In ANZI enim victa ratione optime apparet con)
sit propria 775 dpitews vis spernentis © TOY If. +; in îjnpeare stz vero
subacta cupidinis rebel- lione eventus docet, rationem iubentem atque
increpantem aditum habere ad 7ò dpetu0Y ». Ramsauer Commento cit. p. 74 i { Eth.
Nic. JII, 2 5. Cfr. la nota del Ramsauer a questo luogo. 2 Eth.
Nic. III, 2. 6. 5 Éth. Nic. IMI, 2. 7-8. RE ore a a
ad felicità. Dire che si sceglie d'essere felici non sarebbe
conveniente !, Se però la volontà è differente dalla preelezione,
non è differente che nella maggiore estensione ch’essa ha: noi
vogliamo quello che preeleggiamo, ma non inversa- mente tutto quello che
vogliamo preeleggiamo ?. Stabiliti i confini tra la preelezione e
le singole forme dell’appetito, resta a vedere se la preelezione
sia un fatto d'ordine puramente intellettivo. E qui Aristotele |
confronta la preelezione coll’opinione, dé, dando però i all'opinione un
valore e un significato più esteso dell’or- .dinario, sicchè si può dire
che abbracci in generale tutta l’ intelligenza 3. È 1 Eth.
Nic. III, 2.9. à e: “6 ? Eth. Eudem. II, 10. 17 &rxvTeg zo Govtonela
È nel Tonzi- i pobuebz, ob pevtar ped Rordoualz, riva
rpeozipobts"z. Osservo però che in realtà tutte le cose che si
vogliono, si scelgono anche; perocché le cose impossibili non si
vogliono, si vorrebbero soltanto; c’è, vale a dire, per quanto
riguarda le cose impossibili, un volere iniziale, non una vera e
propria volizione; c'è il vorrei, non il voglio. Si 5 Eth, Nic.
III, 2. 10-15. L'opinione com'è intesa qui abbraccia La in realtà tutta
l'intelligenza, perchè in 1° luogo si riferisce anche alle cose eterne,
che cioè non possono cssere altrimenti, quindi abbraccia. quella parte
del principio avente ragione, che Aristotele chiama 7ò
Pr pr EmaTovzoy; in 2° luogo sì riferisce anche alle
cose che possono L: essere altrimenti, quindi abbraccia quell'altra
parte del principio avente Cor ragione che Aristotele chiama 7ò
).0yto7t6y (Cfr. Eth, Nic, VI, 1. 5-6). È * Per conseguenza
abbraccia l’intera ragione. Senza contare che è leo- + enti didvorz,
perchè dof4lousy di ci 307 insi it CD path dizvoz, p o9439uev de TL EoTw,
e insieme moeztizA RIGICATO, ; i $ i drdvo1a, perchè:dot4lonev
Tini cuuptper i oc. Il dolzoridy adunque. È : Sal ha qui la
stessa estensione del davanti. Nel libro VI cap. VS il È x » Telo
"a . 4 . - AR doQxstiziv ha un significato più ristretto: % == yde
dé * S pi Li cu Teol TO ° evdey duevov Dos Eyew al i
geivacis. AAT NELL’ETICA D'ARISTOTELE 359 Primieramente
adunque l'opinione si estende a tutte le cose, non meno a ciò ch'è eterno
ed impossibile, che a quello ch'è in nostro potere; la preelezione invece
si limita a quest'ultimo appunto, come già s'è fatto osser- vare !.
L'opinione ha per sua legge il vero; la preelezione il buono.
Coll’eleggere il bene od il male diventiamo di certa qualità, buoni o
cattivi, mentre coll’ opinar bene non si diventa buoni, come non si
diventa cattivi coll’opinar male *. E poi si sceglie di seguire o di
fuggire una qualche cosa in seguito all’ opinione che ce ne siamo
formata, ma non si può dire affatto che opiniamo il seguire o il fuggire
medesimo ®.. Si noti inoltre che la scelta cade su beni conosciuti,
mentre l'opinione si forma là dove manca una perfetta conoscenza *.
Finalmente se la preelezione fosse la stessa cosa dell'opinione, si
vedrebbero le stesse persone opinare e preeleggere il meglio:
mentre non è raro il caso che si opini il meglio e per malvagità
d'animo si elegga il peggio °. 1 Per quanto fu detto adunque la
preelezione non è un fatto che appartenga del tutto 0 all’ appetito
0 all'intelligenza. Forse che risulta di tutti due questi elementi?
Vediamolo. Ma prima esaminiamo che cosa sia la
deliberazione, . 41 Eth. Nic. III, 2. 10. 2
Eth. Nic. SII, 2. 10-11. 3 Eth. Nic. III, 2. 12. ‘ RUS, 13.
%d Tooztpodue % où rav touev. Intorno al qual argo- ice il
Ramsauer: Parum in hoc sexto A Îoc vi, Ò Sara 4 ziòv dotalovtwYy 00
OLGTAL0VGWY, . Ma univ È$ uoMiota iouev 4 Eth. Nic. III, 2.
\ (Sa \ Kay = SÌ dpa9à dvra, Dobalopev dè to si può
riferire quanto Ò Evo. Y%0 iDevar 1140 db 24-27. men argumento
ponderis: YI olovtal cups e ‘ mpozipeois esse d0S4 TU s
Eth. Nic. III, 2. 14 Poterit igitur
nibilominus dii è. titan nazio
piantina ® PY log * stesso Tpoxtosote foblevai,
perocchè la scelta pare non si possa dare senza aver prima deliberato che
cosa si debba scegliere. Il nome sw indica elezione di una cosa
con esclusione d’un’altra, e ciò non si può fare senza un
antecedente x è) giudizio e un'antecedente
deliberazione. IV. La deliberazione, fobieva, è come
quella specie di giudizio pratico che nelle creature intelligenti e
ragionevoli deve sempre precedere l’azione. Perciò appunto non in
tutte le cose si delibera e si prende consiglio. Non sì delibera sulle
cose eterne e immutabili, o sulle impossibili ‘a ottenere; non si
delibera sulle cose che dipendono dal caso, e neanche su quelle che
dipendono dagli altri uomini; non si delibera su ciò che o per necessità
di natura o per altre cause avviene sempre d’un modo, 0 sempre muta
!. Si delibera invece su quello che dipende da noi e che può essere
operato da noi, fovXeuius)a dì repl mov 89’ fiutv mpazzov *, là dove però
l’esito è incerto e indeterminato, e ci può esser luogo a
dubitazioni molte x e diverse; chè dove è certezza e
sicurezza cd esattezza, anche nelle cose nostre non si delibera 9.
. 4 Eth. Nic. \
D 3 (3 Eth. Nic. III, 3. 8-10.
%xl mept pèv mas dzorbeis al abrdo- \ LIT
» pei E) » toy èriotmuiy nba fatt Bouth..... td Bovdeveclar dì
èv I SE OA A UL IS di 7ò x #R0À E A gola NEL mois ds ETÌ Fò FOO, di
priore dè nos aroboerzi, nai èv 0Îg ddLd- NELL’ ETICA D' ARISTOTELE
361 sensoszerzeveeansazzosiessoneanen Si badi però
che non si prende deliberazione e consiglio intorno ai fini, ma intorno
ai mezzi che condu- cono ai fini. « Imperocchè nè il medico si consiglia
s' egli ha da sanare, nè l'oratore se ha da persuadere, nè il
politico se ha da fare buone leggi, nè alcun altro dei rimanenti si
consiglia intorno al fine: ma tutti avendosi proposto un qualche fine,
indagano in che modo e per quali mezzi sarà ottenuto, € se apparisca che
per più mezzi si possa ottenere, ricercano per quale si otterrà più
facilmente e meglio, e se non si possa ottenere che per uno, ricercano il
come di quest'uno, e il come di quel come, finchè giungano alla prima
cagione, la quale -. L'ultimo nell'analisi è primo nella
ricerca è ultima. . li ultime parole vanno intese nella
generazione », Le qua I Eth. Nic. III, 3. 11-12. Non è vero che si
deliberi sempre in- on intorno al fine. Verius enim hoc (che
deliberiamo intorno in artibus, velut medici, oratoris. - -
e ordinandam spectant. Etenim quomodo erit judicandum de
torno ai mezzi e N Ecco le giuste osservazioni del Ramsauer a
questo luogo: ai mezzi e non intorno al fine) uae ad universam
vitam ben quam in iis q aa RO REESE * ve ut ipslus
philosophi vestigia Preriano i Re e dy dizapivat OTOV AITI TOLG)
AIOETEON, illo cui forte factum est LAAET i : quoniam
et timet instantem dolorem nec libens admissurus est quo efas sit (r110 @
29-33)! Annon ambiget deliberabitque, utrum dolor na t? Aut igitur
duplex genus sibi fugiendus an honestas amplectenda si ee
ltera qualem h. 1.(C 15 sq.) depingit; Boumis es de fine altera,
altera 3 i Ve) aut illa quidem meditatio quae ad ciln perunet,
quamqua psa i vel ACETI, intendi audivimus, alio nomine
indenda genere seponenda. Silentio vero camdem obruere
utrumque negari non poterit et esse cam et facere pi . CRI o
Neque enim in exemplis quibus nititue Aristoteles 0 Ù k
quod dici. Fuerunt profecto viri poliuci, Ilent sUvopiav
compa in pio aliquani 14 - - erateta TIP
wPETSO: haud licuerit: na ad mores hominum. S ino
verum est ra È eno certo constabat, utrum ma ; a uibus
haudita P i pre DARet I; ivitati an sibi potentam; arqui Ista de fine
q rare Cl sibi così: quando l’uomo nella sua ricerca dei mezzi
per giungere a un certo fine, è arrivato a quell’ ultimo, oltre il
quale non resta più nulla a deliberare, cessa dal deliberare e incomincia
a operare: per ciò quello che fu ultimo nella ricerca diventa come il
principio dell’ azione. Avviene qui quello stesso che nella risoluzione
d'un problema di geometria. Chi si propone, ad esempio, di
ricercare il centro d’un circolo, dati tre punti della circon- ferenza,
congiunge i punti con due rette, divide le rette È in due parti eguali,
innalza una perpendicolare sopra il "i ‘punto di mezzo di ciascuna
delle rette, e dove si incontrano le perpendicolari, qui ha il centro del
circolo. Il centro del circolo è ultimo a esser trovato, ma in realtà è
il principio da cui dipendono i singoli momenti della figura
geometrica descritta, è il principio da cui il matematico | fu mosso a
fare quella sua operazione !. Insomma fra la deliberazione e l’azione,
fra le Bobdevas e la pà4:5 intercede questa relazione, che il fine
che uno si propone a raggiungere, è il principio della deliberazione, eil
termine della deliberazione è il principio dell’azione 2; ciò per cui si
fa l’azione (65 od fveza) è il fine, ciò che muove all’azione è quell’ultima
cosa che. ; fu escogitata dalla deliberazione: il primo è causa
finale, | la seconda è causa motrice (60sv zivaoto). i ‘ Del
resto è naturale che se la ricerca mena all’impos- sibile, si cessi dal
deliberare e si abbandoni il pensiero dell’azione 3; come è naturale che
si deva porre un qualche { Eth. Nic. III, 3. 11 in fine: è y&p
PovAevopevos Eorzey Cnteiv uri daiva)ibe Toy cipa ivo: Teoroy OoTEg DICA
TLITZA Cfr. il com- mento del Michelet e del Ramsauer a questo
luogo, 2 Eth. Eudem. Il, 11. 6. #5 pv GÙv Y0Gzo Ò SE Ni Di (a n by Tò ito
È 5 Eth. Nic. III, 3. 17. BoyMevToy DI vl TIONISTO È TÒ, | i ZA
ZOATO ; 4 ef nf T00- TINI d9mpLepevoY 4Òn 70 mpozipetov. 70 YZ9 Ca 776 Ho Dogo 21
dp Ennntos SaToy ms TpaSei, 4 "x . A bet yotMiy T0OLL9ETOV. EGTUY. TZU vpriev
Toti O . (N i y PLS Y DIXI DITO Ea TÒ “ifodueroy Gray sly abroy WASLIATA
coyhI, 42 x y } ra zodro 1% TO TA0ULIOVEVOY TONLTELO
dx "Oy Sutuelto! ot TONLTELOY 45 Opnpos culi SaXov dì
7odTo z2i Ent dpy alto) SCE ZINIO % mposdowvta In poche parole, può
avvenire che la parte appetitiva della nostr'anima, la dpeGts, si opponga
alla presa delibe- razione, ein talcaso nonsi ha preelezione; oppure che
la dpe- € sia disciplinata per modo da lasciarsi guidare dalla
ragione e da acconsentire per ciò a quella, e in tal caso ha luogo la
preelezione. Dal che si vede come la. preelezione,
contrariamente alla deliberazione, non sia semplicemente un fatto
d'ordine intellettivo, ma abbia natura mista, risulti cioè d’intelletto
e d'appetito, e si possa definire come un desiderio, una tendenza che
deriva da deliberazione, e che si conforma ad essa (Gpetis fovdeutwzi)
*. Per concludere, due momenti si devono distinguere
nell'atto complesso del volere. Dapprincipio si delibera intorno ai mezzi
necessarii al conseguimento d’ un certo fine; è questo il primo momento,
il momento della {o)- euri. Compiuta la deliberazione, lo spirito si
deter- mina e dà l'impulso necessario per compiere gli atti
esterni ed interni che valgano a far conseguire quel fine. E
questo il secondo momento, il momento della rpordozors. È
in questo secondo momento che si manifesta propria- mente l'energia del
volere; la rpoziosaw è forza appetitiva illuminata da ragione, o, per
dirla con Aristotele, appetito razionale, o ragione appetitiva, è
il principio die. costituisce in proprio l’uomo, @ 7ozita deyà
dolpo . L'uomo apparisce appena si MAU la volontà. Tiso pn
33 159. 1 Eth. Nic. III, 3. 19-20. dvtos Sì 700 © pron TOY
uu ino PA02) A TRO sl a E e N n e AMA SIT i x - b P N e È : o
E — È Me ae reesrcocosseceseapenn ponegeetosscoseogeseuandiene con
vonaereonenerarsz TRIESISI Ne egsserenpasesecacagezssseppssonne Pe der
setti e il potere di deliberare fra due partiti e di decidersi per
l’uno di essi, escludendo l’altro. Sta qui la nota distintiva che lo
eleva al di sopra degli animali e lo separa da essi !.
La deliberazione e la scelta, s'è detto, cadono sui he
conducono al fine, cadono su ciò ch'è possibile, mezzi c
tutto ciò che rinchiude cadono su ciò ch'è in nostro potere;
una impossibilità fisica 0 razionale, tutto ciò che oltrepassa “la
naturale capacità dell'uomo, tutto ciò che riguarda il fine, è escluso
dal dominio della deliberazione e della scelta. ; Sul fine non si
delibera, nè si sceglie; l'appetito volontario, BobXnat, è per natura
determinato al fine; È anteriormente ad ogni deliberazione e ad ogni
scelta noi vogliamo il bene *. 5 Aristotele al pari di Socrate, al
pari del suo maestro Platone, ammette una tendenza generale dell’ uomo
verso il berie, tendenza che occupa presso la ragione umana il
medesimo posto che l'appetito presso la sensibilità animale. E questa
tendenza s'impone a noi; noi l'accettiamo come un fatto intorno 2 cui non
si discute nè si delibera. « L'appetibile, osserva Aristotele, muove dapprincipio,
il A dpelte divonmuh, val fi capo. Me Be 1 Aristot. De Part. amm. IV, 10. 6 9
Frh. Nic. II, 2.9. " pév Boblnsis Foù at)005 tori paddy. 30
Tata a di Bobdmars ri uèv È covdan day diiporos. Cfr. rutto il FUN Nic. 1U 4.1 oî eius
Sotly sipatat. a . dirtelo pensiero muove in
seguito a causa di esso, di maniera che l’appettibile è l'origine del
pensiero... L' appetibile muove senz’ essere mosso dal pensiero ch’ esso
eccita » x E questo appetibile è il bene. Il desiderio e la volontà
del bene adunque non è nel potere dell’uomo. In suo potere sono soltanto
la deliberazione e la scelta dei mezzi. La deliberazione e la
scelta infatti suppongono non soltanto che due possibili siano presenti,
e quindi la contingenza nell’oggetto dell’azione; ma eziandio che
l'azione sia contingente per rapporto a noi, vale a dire che niente ci
obblighi a scegliere e a tradurre in atto uno dei due possibili piuttosto
che l' altro. Contingenza nell'oggetto a cui s' applica, contigenza nel
soggetto che la deve applicare, sono le condizioni della scelta °.
Gli animali hanno bensì potenza motrice e sponta- neità di
movimenti; ma questi movimenti, pure spontanei, pure non determinati dal
di fuori, sono però sempre sottoposti interamente a una forza intrinseca,
l'appetito; e si compiono colla stessa rigida necessità con cui in
un sillogismo date le premesse se ne trae quella conclusione che vi
è contenuta. « Presso l’animale l'appetito tiene luogo della maggiore; la
sensazione, o in generale l'intuizione, della minore; l’azione, della
conclusione ». « Bisogna bere, 1 De anima III, 10.2 e 7 TÒ è
‘4 Suivora aei dTL doyn abrlis tari mò dpeziov.... TOÙTO N02) uve
Ob ALvOUNevoy TO vonbdiva.. 2 Eth. Eudem. II, 10. 10-11. TÀ pièv
{20 duvztà pev sori z2Ì siva vel ph civas, DN obi do uiv adr h fivens
èoth, DIL TÀ per did gbsy TZ Di di wars aitizs yer, mepl Oy abdels
dv èyysrgnosie Bondebcala: più apuoov megì Oy D avdézera vu /
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SATA SI eZ È d DES ITAUTA tati box èo° vipiy toni mozioni uh
Toda. dice l'appetito; ecco la bevanda, dice il senso, e tosto
l’animale beve! ». L'uomo non ha soltanto le facoltà dell’animale,
il principio motore, l'appetito, la sensibilità; ma un’altra
facoltà ancora che tutte queste trascende, la ragione: colla ragione
compare nell'uomo il potere di.deliberare e di scegliere. La maggiore del
sillogismo pratico che riguarda il fine da raggiungere, è nell'uomo
ancora fatale, perchè il fine è dato da natura e non può essere che
il bene; ma la minore, che riguarda i mezzi, non è più abban-
donata alla sensazione o all’imaginazione, nè è quindi quella prima che
capita; bensì è soggetto di riflessione € di esame da parte della
ragione, che la determina libe- ramente. La minore del sillogismo è
perciò contingente, e contingente è anche l’azione, o la
conclusione, che partecipa della essenza di quella. x
Questa contingenza 0 libertà nell’operare è il grado più alto a cui possa
giungere la natura, ed è il privilegio esclusivo dell’uomo, dell’uomo
adulto e maturo, chè il fanciullo partecipa ancora con tutto l'essere suo
all'ani- malità *. Per questa contingenza 0 libertà l'uomo è
il padrone dei suoi atti, è il loro generatore, come è generatore
dei suoi figli 3: a nessun altro va attribuita un'azione che a chi
l’ha fatta con contingenza e libertà. 1 Ravaisson Essai sur la
metaphysique d'Aristote t. I. p. 494. 2 Iuer: "Gis Td moToy, tal)
3 « Iottoy pos imbpla Veyer Tods 70 moto, i atalinore simey, dc n
9, SAT . È A guitasta, À è vode, sbids iver. De Anim, mot. VIII. Cfr.
De A aoieianiit i Anima VI, 1h specialmente $
2. z x x, 5 9 Aristot. Historia anim 1, 1. BovdevtIzby dì povov
avbprtos x x tari i Louv. Eth. Eudem.. Uta Ev Folk dimo Cor
T% 3 x î \y A mpoal9e0%4, oUrz îv mdon iuzla. DA ì, IVI AMI
è 44 e 3 Eth. Nic. II, 5 5 4eXaY sivzi YEYVATAY TOY TIASSOY WETEI La
virtù pertanto è in nostra facoltà, come è in. nostra facoltà la
malvagità !. « Perocchè in quelle cose nelle quali è in nostro potere il
fare, è anche in nostro potere il non fare, e în quelle nelle quali sta
in noi il no, sta anche in noi il st: cosicchè se il fare, quando
ciò sia bello, è in nostro potere, sarà anche in nostro potere il non fare,
quando ciò venga ad essere turpe; © se il non fare, quando il non fare è
bello, è in nostro potere, è anche in nostro potere il fare che venisse
ad essere turpe. Che se è in nostro potere il fare le cose belle e
le turpi, ed egualmente il non farle, c ciò vale quanto esser buoni e
cattivi, starà appunto in nostro potere l’esser buoni e cattivi »
*. Il qual luogo è da intendere cosi: non c'è ragione che
delle azioni cattive si giudichi diversamente che delle buone, e mentre
le seconde si trova comodo far dipendere da noi, si creda non dipendano
da noi le prime: sono in nostro potere le azioni buone e le cattive nella
stessa misura, e poichè dalle azioni risultano gli abiti, anche la
virtù e la malvagità. La vecchia sentenza che wnessuro. è volontariamente
malvagio, nè involontariamente beato, obdeic Ezòv rovnods odd’azov pizzo,
è vera nella seconda parte, è erronea nella prima 3. Anche Socrate errava
quando affermava che la malvagità è involontaria e fin anche la a
vai stavo. Cfr. Magn. Mor. diiloy oùv dr è Mlpwro: T6v Tp4= «i Eemy tori
qevratizds. 4 Eh. Nic. III, 5. 1. : 2 Eth Nic. III. 5. 2-3.
Abbiamo tradotto: ciò vale quanto esser 4 buoni e cattivi. Il testo
veramente ha: 7070 di iv ad ceyalloto nad ua29ì sivas. È adoperato qui il
passato fiv perchè fu dimostrato prima pri (Cfr. il cap. I del
libro II) che col fare il bene od il male si diven xa | buoni o
cattivi; e l’autore intende riferîrsi a quanto ha detto allo | 3
Eth. Nic. III, 5. 4. virtà !. A chi attribuire le azioni se non all'uomo
stesso, a un principio ch'è in lui #? Non sono prova di ciò gli
onori ed i premi che si danno alle azioni buone, i biasimi ed i castighi
che si danno alle cattive? Certamente coi primi si vuole incoraggiare la
virtù, e coi secondi distogliere dal vizio: ora chi vorrebbe eccitare o
distogliere dal fare checchessia; qualora questo non fosse nel
nostro arbitrio? Si eccita forse qualcheduno a non avere caldo o
dolore o fame, quando in realtà egli provi tutto ‘questo 3? La lode ed il
‘biasimo, il premio ed il castigo non si danno alle cose che sono il
risultato della ne- ‘ cessità, della natura o del caso: non si loda e non
si biasima, non si premia e non si castiga che ciò di cui noi siamo
la causa 4. La stessa ignoranza il legislatore punisce nelle azioni
. umane, quando sia frutto di colpa e derivi, per esempio, da
ubbriachezza o da negligenza, che stava in noi evitare ?.
4 Per verità solo l’autore della Grande Etica sostiene che Socrate
ammettesse non soltanto la malvagità, ma anche la virtù essere invo- =
lontaria. Loxp4Tas È9%, ob èo' ipo favola nò arovdzio»e sbai Î gu0)0vs.
si {9 T6 gui, iprheeiey ivtivagiY OTEPOY &Y oUleiz dv foro Tv
dduzlzv.... x CISA BovXorro Sia: siva fi #0L403, | a ps
DI I) +; », A 5 9 dov d © ei 920708 235 siolu, ob %y E4OVTES ENG%Y
Uzbtor ; Horse dflov dti obdi arovdzto.. Magn. Mor. t. 9. 7
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ì BREA i 4 venni. FEpÌ cuba ton Oy
abtds giciog nai def TIAGEOY. = ") AI Tv s Eh. Nic. III, 5. 8-9:, 24 G. Z. 3 srt RE neo
7.1 viel RT È to ilzaza del corpo, se effetti
Perfino certe brutture e certi vizii uindi da noi e di
trascuranza 0 di abusi, se dipendenti q non da natura, vengono, biasimati
e puniti !. Taluno potrebbe opporre che se altri trascura j
suoi doveri, gli è perchè è tale che non può non trascurarli; che
tutto quanto egli fa di male, è necessaria conseguenza del suo carattere,
€ dell'abito oramai preso di fare il male *. Ciò è vero; ma di aver
preso quell’ abito l’uomo è causa e responsabile. Stava in lui il
nov condurre la vita tra i maleficii e le gozzoviglie; stava in lui il
non com- pire i singoli atti da cui dovea derivare a poco et poco
L'abitudine del vizio; egli pur sapeva, © l’ignorarlo è da insensato, che
dagli atti si formano gli abiti; dovea atti che conducono ad abiti
mal- vagi. L'abito malvagio è volontario, com’ è volontaria la
malattia che s'è contratta furia di sregolatezze © per aver trascurato le
prescrizioni del medico. Si sa, non è in potere di uno, per quanto
lo voglia, non essere malvagio, quando malvagio sia diventato: Ma
era in suo potere non diventarlo. Non è in potere di chi ha
scagliato un sasso :l trattenerlo, ma era in suo : potere non
scagliarlo; non è in potere di chi s'è ammalato dunque guardarsi
dagli A per sua volontà, riacquistare la salute quando il
voglia, È ma era in Suo potere non ammalarsi 8. vi E
perciò degli abiti si deve direbensì che non sono tanto TE in
nostro potere, quanto sono le azioni, perchè di queste % siamo
padroni dal principio alla fine, e di quelli invece soltanto da
principio; ma non per questo si devono Con- - siderare come
indipendenti da noi e quasi non nostri 4. i Eth. Nic. /, duolos dì gi
modbers snoberol Ta e I. 1 Si 7 0 MA Lalla Si potrebbe
opporre ancora che l'uomo opera sempre mirando, come a fine, a ciò che
gli sembra bene; e non dipende dall'uomo che gli apparisca bene questo o
quest'altro, non è l’uomo signore dell’apparenza (cis pavtzataz où
vipios); invece quale ciascuno è, tale gli ap- 2 parisce anche il
fine; se cattivo un fine cattivo, se buono un fine buono !. ReTA r
Ma se ciascuno è in qualche maniera cagione a se stesso del proprio
abito, come s' è dimostrato, dipendendo da lui le singole azioni da cui
l’abito deriva, è per ciò stesso cagione dall’ apparenza, cagione dell’
apparirgli questo o quello come bene *, perocchè il giudizio morale
è sempre in corrispondenza all’abito contratto 3, e quali noi siamo, e
tale è il fine che ci proponiamo ‘“. È Se poi s'intenda parlare non
già d’una qualità acqui- sita, d'un abito, da cui dipenda la scelta del
fine, ma d’ una qualità originaria, dipendente dalla natura, e si
dica che l’apparirci questo o quel bene, come fine da conse- guire,
dipende da natura; in tal caso non si capisce, se l'apparenza del fine
cattivo non è in nostro arbitrio, come non deva dirsi la stessa
cosa dell’ apparenza del fine buono, (ON " RAI
AE VE OE SIIS O pre, Ep RR È apr ed sai ul Efes To Lev 29 Tpascwy 7 CY
ALI pi yer ToÙ TEX0US z 5) NS e n) Su ere i ni > nes* += nbprot
îGueY, sidbrae cà nol’ Enzona, TOY EEswy dì T7is do yi, 42 LIOGTLOV
’ . 4 St pae 0° gyuota dì mpdobzars où uopos, Gore èrì Tov
de o DEI a a A EDU TOSI \ =; dI OTL io ipy Riv ovTOS A LN DITO
prozia, dx TOÙTo ELDUGIOL. 4 Eth. Nic. III, 5. 17. ; Me 92 Eh.
Nic. II, 5: 17 BI ev oùv EnaGTos sito Ts ESEm3 GTI FW AT, 24 TRS
qurTanlas fora TW aùtòs ars. as 3 Cfr, Eth. Nic, IMI, 4. 4 specialmente
le parole 6 aTovdZios YR9 unì èv E44GTO m%\nbès adrò o2veTat.
tI votver 00005 poro voler 09U0s, i; CESRDA 20 AL TO mori
7wzs siva Tò TEMI TOLOvdE 4 Eth. Nic. III, 5.
Pi aspetta. e si continui a chiamar volontaria la virtù e degna
di lode e di premio, mentre invece la malvagità si dice
involontaria, e non si ritiene quindi meritevole di biasimo e di castigo.
A tutti duc egualmente, al buono e al cattivo, a il fine apparisce per
natura O comecchessia, e vien posto x + tI 7 IL sd nat die dyaloy
aipricetat, noi fatw sbguns @ ToUTO ernia Yi VIEN RANE o . a
MINDS TEGULEV © TL ZIO) dh dgeth Ts varrdize fama EAGUGLON 3 mò
nun, Td Edo quae È n tc] INS Tous TADTA TOZTASL, dz
TOÙUTOY Eolo OÙA (CRI - è CURL QUEI 233
-Ò ugo YZ ouolos, TO dado rà iTwadATOTE QUNETAL uri
astra, Ti dI Vorrk mods TOUT daga govTes TPUATTOVGU inoadimore. pp
2 Id. ib. RESA TL ee ee Come si vede, Aristotele, in risposta
all’ obbiezione, ha insistito più che altro sul fatto che virtù e
vizio vanno trattati alla stessa maniera, e se si dice involontario
il secondo, perciò che l’uomo non è libero nella scelta del fine,
involontaria si deve dire anche la prima per la stessa ragione. Ma ha
lasciato insoluta la questione che si riferisce all’ essere o non essere
veramente volontarii la virtù e il vizio. A che giova infatti
a tal uopo affermare che virtù: e vizio sono volontarii, perchè sono
volontarie le azioni da cui questi derivano? La questione è così
semplicemente spostata, dovendosi sempre dimostrare come €
perchè siano volontarie le azioni. In sul finire perciò
Aristotele aggiunge: « Sia che il fine, qualunque esso sia, non apparisca
per natura @ ciascuno, ma sia in parte anche presso chi agisce,
&Xe ni nai map abrdy tot, sia che il fine sia dato da natura;
per il fatto che il buono opera volontariamente il resto, la virtù è cosa
volontaria, e punto meno verrebbe ad essere cosa volontaria la malvagità.
Perocchè similmente anche nel malvagio si ritrova il condutsi di per se
nelle azioni, sebbene non nel fine, duotos osi da) O pria qa sd de
gùrby è TAS TpUGSAUI vo sì uh SY T@ TO » ; Le quali parole indicano
che adunque, ance e au l'ipotesi: che ‘ fine derivi da natura, le nostre
azioni pero oi, sono în nostro potere e non vi siamo scono a
ll i AE, volontariamente quello che determinati; L'uomo
Opera vi Ù i Ne và obesi endoro QI i stre dh FO
mEX0g MN DUCE ERLOTA ne 4 Eth: Nic. TIT, 5. 19 SETS PERI DIR
4 TII uoToy Sam, € È ’ a rd puev Ted0s N i
x pero E2099L0g =dy arovdziov # dosth VETZAI piovd
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sta. duotos Ficià] (e) Pil VU ACCAGI 1,71. ì ; | St ESS Ho “rd DL
abrdy SY mite morbo nai el LI UGO, È . e 7
N fuoUgtoy È RCA Soi ra nas DELE, opera, sebbene il suo operare sia
diretto @ quel fine. La le opere che conducono natura pone
il fine, l'uomo pone a quel fine; quindi degli abiti contratti, virtù e
vizio, È egli è almeno concausa, auvzirtos !. 3 Aristotele però non
alterma recisamente che il fine È derivi tutto da natura; egli non
esclude che possa anche SO su essere in parte presso chi agisce, Mk si
(sc. Toù 8).005) Ri $ 20 TIP UdTN; cioè, se non m' inganno nell’
interpreta= b zione, che l'uomo colla sua energia individuale possa
modificare e trasformare il fine posto da natura, € aggiun- gervi quindi
qualche cosa di suo: in tal caso le azioni i e gli abiti che ne derivano,
sarebbero anche meglio in E nostro potere. : i ai i Per concludere,
Aristotele qui evidentemente occupa CI come una posizione intermedia fra
il determinismo € * l’indeterminismo; indeterminismo, perocchè ad ogni
buon 20 ‘conto, anche se il fine non lo pone l’uomo, egli opera Do
volontariamente quello che opera per conseguirlo; deter- > minismo,
perocchè Aristotele créde che il fine sia posto da sea ve, natura, o che
tutt'al più noi vi contribuiamo in minima ip” parte. Il che concorda con
quanto s'è detto, più sopra, che il fine essendo voluto e determinato per
natura, la DE libertà e quindi il merito appartiene soltanto alla delibe-
4 razione e alla scelta dei mezzi che conducono a quello.
VI. x Per queste condizioni in cui nasce e si svolge, |
7 sola. libertà in Aristotele è di necessità limitata: nè. a
E, À na A È 4 Eth. Nic. III, 5.20. 7©Y £620Y cuvalzioi TOS ultot
MEI Wa S a ad I Une NELL'ETICA D' ARISTOTELE]caso certo di parlare
della libertà sconfinata di certe scuole. La natura dell’uomo è il limite
primo e più forte che ad essa sì opponga. Ecco in proposito un luogo
assai notevole della Grande Etica: « Si potrebbe dire che poichè non
dipende che da me l'esser buono, io sarò, quando il voglia, il migliore
degli uomini.-Ma ciò non è possibile. Questa perfezione non ha luogo
neanche per il corpo. Poichè non già perchè voglia prendersi cura
del corpo, altri avrà il migliore dei corpi. Chè non soltanto a
tal uopo son necessarie cure assidue, ma è necessario ancora che la
natura ci abbia dato un corpo bello e robusto. Colle cure, il corpo sarà
certamente migliore, ma non sarà per ciò il migliore di tutti; La stessa
cosa conviene ammettere per quanto riguarda l'anima. Non sarà il
migliore degli uomini chi semplicemente decida di esserlo; se la natura
non vi concorra, sebbene sarà molto migliore in seguito a questa nobile
risoluzione » Ra Non sì potrebbe assegnare um posto PIÙ
importante alla natura, e negare con maggiore energia l’onnipotenza
del volere. Si direbbe anzi che l’autore della Grande Etica abbassi qui
di troppo lo spirito, facendolo dipendere da certe fatalità, analoghe @
quelle del TIESA lo Pie | ha degli istinti paturali; ma esso non è
perfettamente AI : CIESE ne DON IREYOL a CI ATL
imaidameo I Magn. Mor. I, 11472 1905 RELA ue î dA TO i uol sento
Salo siva 27) GRINdIO, €2Y Pobezzi, Srna n° iuot Fot © Nato rosdalo, id
Posto SI. LOI) GTOVIMITZTOS- où dh duvatdy TOLTO. Su al; dui obd'
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1 DI, Da) uh DI21 n DIGI È) SaTÀ LA
DOTTRINA DELLA VOLONTÀ formato quando si schiude alla vitas e come
con una buona igiene si riesce qualche volta a trionfare di certi
vizii inerenti alla costituzione fisica, coll’educazione e con un regime
conforme alla ragione e alla virtù si può riuscire anche meglio a vincere
e a trasformare la natura morale. Del resto, nel luogo accennato, mentre
si nega l’onnipotenza del volere, non se ne disconosce però l’
effi- cacia, dal momento che a quanti aspirano alla perfezione si
rivolge l’incoraggiamento: « Sarete molto migliori in seguito a questa nobile
risoluzione ». E in realtà la risoluzione d'essere il migliore degli
uomini, indica non soltanto che in chi la fa, c'è l'idea della perfezione
da conseguire; ma il desiderio ancora e la facoltà di fare degli
sforzi per conseguirla; e questo desiderio non può nascere che in chi ami
già il bene, e trovi in questo sentimento d'amore la forza di
attuarlo. Ma un ostacolo anche maggiore viene alla libertà
del volere dalle esigenze logiche del principio di contrad-
dizione. La libertà, s'è detto, richiede che gli atti
dell’uomo siano contingenti non solamente nelle loro condizioni
esterne, ma anche nelle loro condizioni interne, sicchè la scelta non sia
in alcun modo determinata nè per l'uno nè per l’altro dei due possibili
opposti. Ora in logica due proposizioni contradditorie, di
cui cioè l'una affermi e l’altra neghi una medesima cosa, come
ad esempio, Socrate è bianco, Socrate non è bianco, ogni uomo è
mortale, qualche uomo non è mortale, stanno fra loro in tal rapporto che
se l’una è vera, l’altra è falsa di necessità, e se l'una è falsa,
l'altra è vera di necessità; in altre parole, la verità o falsità loro
è necessariamente posta € determinata. Le proposizioni singolari
riguardanti il modo con cui altri agirà nell’ avve- nire in un caso
determinato, comprendono i due lati TV nio
‘ n) NELL’ETICA D' ARISTOTELE srvenieaazezione
onnarezeazeneaneneappisanesaianezonenettoi d’ un' alternativa e rientrano
nella categoria delle pro- posizioni contradditorie; e di esse per
conseguenza è da dire quello stesso che s' è detto di queste: altri
agirà in un modo o in un altro di necessità; sicchè tutte le azioni
che si dicono contingenti, diventano necessarie € la contingenza loro non
è che un'apparenza, che tosto è dimostrata dall’ applicazione di un
principio elementare di logica. « Se è necessario, dice Aristotele, che
di ogni affermazione e negazione opposte, sia negli universali, sia
nei singolari, l'una sia vera, l’altra falsa; non c'è più
indeterminazione nè caso nelle cose, ma tutto avviene necessariamente,
sicchè non bisogna più nè deliberare, nè agire » 1. Non si
può negare che l’obbiezione sia forte, e che Aristotele se la sia fatta
con perfetta conoscenza di tutti isuoi termini. Egli però la
risolve in favore della contin- genza € della libertà. Il criterio
della verità non pare @ lui qualche cosa di astratto, dipendente da
deduzioni logiche, ma qualche cosa di concreto, dipendente dall’
espe- a esperienza; € Ì esperienza dimostra che c'è veramente della
contingenza nelle azioni. Nel passato € nel presente, quando l'una delle
due proposizioni contradditorie sia vera, l'altra è falsa di necessità e
vice- versa; Ma nell’avvenire la cosa È diversa; a AVSCIDES
tutte due-le proposizioni potranno essere Sa 0 vere egualmente; l'una non
sarà più Vera ell’altra, ovdsv rienza, anzi la stess
SÒ DA VONTO. TOT de uòv dn CIIPIIVOVTA LTOR% tata G è
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Sla iv t LA RI AI n» x siva 2 pesta: _E6
bealat. olme mpafUaTeo Pg - sr
udIdOY nIT4OIT* Î 7094945 Vendi ciò che è vero © assolutamente
vero in questo caso, è che la cosa avverrà o non avverrà senza
determinazione precedente. Le proposizioni contradditorie riguardanti
l'avvenire hanno per essenza loro L'indeterminazione: « NOn sì
possono considerare ad un tempo come future, come singolari € come
determinate, senza contraddire i tecmini stessi della questione » >:
i Così Aristotele neanche ‘dalle esigenze del principio di
contraddizione è indotto a negare la libera scelta; la scelta non sì può
determinare è prevedere in antece- denza. Nè a questa
indéterminazione della scelta si oppone la sua metafisica. Il Dio
d'Aristotele, come già fu detto altre volte, è atto puro, È pensiero di
pensiero; egli non fa che pensare se Stesso eternamente, a nessuna
altra cosa egli pensa, chè in tal caso nell'essenza sua purissima
5’ introdurrebbe un elemento di potenza, che ne altererebbe la
purità. Perciò neanche al tempo egli pensa; il passato, e
l'avvenire sono per lui come non fossero. Dio non prevede l'avvenire,
come non conosce il passato. E poichè Dio non prevede avvenire, la famosa
contraddizione, messa in campo dai teologi posteriori, fra la prescienza
divina e la libertà, non ha ragione di essere: soppressa la prescienza,
niente più s'oppone alla contingenza. Che importa infatti che dei due
membri d'un’ alternativa l'uno sia vero di necessità, e l’altro di
necessità falso, se nessuna mente c'è che possa dire in antecedenza,
quale «sarà vero e quale falso ? Solo quando ci fosse una mente di
tal I De Interpret. IX. 2 Fonsegrive Essai sur le
libre arbitre, Sa theorie et son histoire, È Paris, Alcan 1887,
p.31- 32- Cir. anche Chaignet, Essai sur la Psycho- logie d' Aristote,
Paris, Hachette pag. 565-506. : fa TARE
de l’obbiezione logica accennata sarebbe temibile: poichè
questa non c'è, la contingenv ‘i inazi Da tingenza e
l'indeterminazione avvenire resta sempre. VII
Così in una esposizione per quanto ci fu possibile esatta abbiamo cercato
di riassumere la dottrina di Aristotele che riguarda la volontà.
Evidentemente nel pensiero dell'autore la trattazione che riguarda
l'izobcroy € l'iobsv, quella che riguarda la Gobdevats € la rpozipeate, €
quell’ altra che riguarda la Bob- Ina, sono tutte subordinate a quella in
cui si determina se la virtù e la malvagità sieno volontarie (srobgwi
cis gi doeraì pai di VILLA szobaror cio) | e.in DLOStTO potere (èp
Aut). Si può dire che questa è come il fine p; cui sono i mezzi,
&Se viene ultima. nel fatto, è però prima nell’idea: da- essa
dipendono idealmente; quelle altre ricerche, © in grazia di essa SI
son fatte. Il ensiero ‘d' Aristotele, giù accennato, che Sbello che
È ultimo nella ricerca è primo nell'azione, trova qui a i
licazione. sua piene Aristotele Sì proponeva di mostrare che
la virtù e la malvagità sono IN nostro - arbitrio, comple-
AREA tando in questo modo € dando per così dire l'ultima
alla trattazione della virtù iniziata-nel libro II, era ano dile 3
2 5 He SPS . m le che ricercasse IN primo luogo se CI sia in nol
naturale =". ‘riva e originaria, che appartenga proprio un’ attività
primi inte RIOAIOA sia la semplice © ? quelle
prime ipercussione di un moto eta
TL ibra ano r EO esteriore. Se si arrivasse a provare che
niente c'è in noi di spontaneo, che tutto dipende dal di fuori, nè
virtù, nè malvagità sarebbero in nostro potere, e ogni autonomia
personale sparirebbe. Se noi tanto rendiamo quanto rice- viamo; se il
nostro spirito si può ridurre ad una specie di congegno meccanico, il
quale, senza produrre niente di proprio, non serve ad altro che a
ricevere impressioni dal di fuori, ch’ei rimanda poi equivalenti di peso
e di misura; a che parlare di virtù e di malvagità? Di qui la
grande importanza della ricerca intorno all azar. L'ixodaov è lo
spontaneo, è ciò il cui princi pio è in noi; se il principio del moto non
è in noi, ma viene dal di fuori, abbiamo il contrario dell’
szo0auoy, l’azobavy, il forzato, fizroy; € naturalmente tutto quanto
è forzato, tutto quanto non è spontaneo e non deriva da noi, non è
suscettibile di lode e di biasimo, non può dar luogo a virtù e a
malvagità. Ma questo spontaneo, quest'attività primitiva e originaria,
questo principio interiore di moto, appartiene veramente all’ uomo?
Aristotele non dubita di annoverare fra le varie facoltà dell’uomo
anche una facoltà motrice, 7òd zuvatizòy zatà céroy!, e la congiunge
strettamente alla facoltà appetitiva, xò èpeztiziv. Ecco com’ egli ne
parla: « Quanto al movimento di locomozione, è chiaro che la causa
di esso non sta nella facoltà nutritiva, perchè il movimento
>, % ne pa » i De Anima. Auvapers de is Unyiig strouey
Oper pei È Ò TRO RIST b IENA AZ: A T‘40Y, giclintiziy, doesnTizov,
VAVITIZOY ASTÙ TORON, SLLIONTIAON. E notevole però come altrove {De Anima
III, 10, 5) Aristotele sop- * prima la facoltà motrice per
sostituirvi la volitiva, #0 BovXevTizoY; not dì diziogda. 7% uson
D Unyiie SR RESA NNIANIZ, Ax LEG buy, E2V AAT T4 dUVAPEL 5,
rd veri, Mosmanzby, 2icincuzòy, dita 2% sorta, T4 i È
Vv? \ Ì Ì B I, #) AL, » DI >, vontiziv, BovAevtizoy, Eri d'
OpezTIzoY. NELL’ETICA D'ARISTOTELE mensanazinenianeolo. o pesa rei
dacancesesvustesezi sovcoAUaripintiorSeacati0o pan eza tane nera rczri
; compie sempre per uno scopo, ed è accompagnato 0 CI UNE
rappresentazione, et petz gxvrzstzs, O da un’appeti- ZIONE. Î deétc0s,
che sì riferisce a questo scopo. Niente di ciò che non prova nè
inclinazione, nè avversione, si muove, se non per una forza estranea;
altrimenti le piante avrebbero pure la locomozione e qualche parte
che alla locomozione servisse come di strumento. Facoltà motrice non è
neppure la facoltà sensitiva, perocchè ci sono molti ‘animali che hanno
la sensazione e che sono - fermi e immobili sempre.... Non è neanche la
ragione e ciò che noi chiamiamo intelletto, 7ò opt vai d ua)obpevos
VOÙs; perchè la conoscenza distaccata dai sensi non ci fa conòscere
niente di pratico, e non dice niente su ciò che si deva desiderare 0
fuggire; mentre il mo- vimento è sempre accompagnato da inclinazione o
da avversione. Quanto alla comoscenza pratica, se essa apprende qualche
cosa di temibile o di desiderabile, non er ciò essa ci spinge a
evitarlo o a ricercarlo. E anche uando l'intelletto comandi, e la
ragione ci dica di fuggire qualche cosa © di farla, non per questo
Si produce movimento, come succede negli incontinenti che
pur vedendo il da farsi, operano @ seconda dei loro desiderii. È
così che quello che ha la scienza medica non gua- risce per ciò; bisogna
che qualcheduno agisca secondo la è Ja scienza che agisce Infine
non € i e scienza, ma nol) SIA I OETO SERRA neanche
l'appetito tutto solo; dpetts, Il principio della c, Ò È
jocomozione, 25716 mogli This 2aVHa80s perchè i conti nenti pur
appetendo e desiderando, non DUE però ciò “e o DESIDERIO, Ma obbediscono
alla RAGION» casa ds he muove è il concorso dell'appetito € Ciò €
so si fa rientrare in questa la concezione imaginativa, ‘h QIITI4; perchè
molti o VO. dell’intelligenz4, tativa O “Sw
i (PRESA muovono contrariamente alla ragione per inazione; €
altri sì animali S! muovono che a tener dietro
all’imag l’imaginazione solamente. i principii della locomo-
A PISTA ANTA pi non hanno la ragione, ma Queste due
cose adunque sono “zione, la intelligenza e l'appetito, 4uow 40%
sarà toTOY, voi zi bpelis nl. E se tale è la dottrina d' da solo,
ma accompagnato all’imaginazione, il principio del moto, si domanda:
è l’imaginazione, la concezione, 0 comecchessia la rappre-
sentazione di un qualche oggetto, d'un fine, ciò che alla sua volta
determina. |’ appetito, e ne è il principio? è l'esterno che determina
l'interno? In altre parole, e come si domandava più sopra, c' è nell'uomo
e nell’animale in genere una spontaneità originaria? oppure quella che
"i | diciamo spontaneità non è spontaneità veramente, Ma il
196 riflesso, il contraccolpo d'un moto esteriore, come sostiene 2
modernamente la scuola positiva? n: Probabilmente Aristotele non s'è
proposta neanche fi: ri la questione; 0 Se mai, non se l'è proposta con
Ja. (060 x | chiarezza ela perfetta coscienza, con cui potrebbe propor-
Vira si: sela un autore moderno. Crediamo lecito tuttavia affermare -
PAR i che Aristotele, per quanto legasse l’appetito alla rappresen-
È Ki tazione d'un fine esterno, non facesse però dipendere |
interamente quello da questa. È troppo nota infatti la sua teorica dell’
interna attività degli esseri, € dell’immanenza del fine per
cui ogni essere passa dalla potenza all'atto; è troppo noto
che il concetto d'attività è come la chiave di volta di tutto il suo edificio
filosofico, per poter credere che è quest'attività non fosse per lui
attività veramente, ma il risultato di un semplice meccanismo di
moti. Aristotele, se è l'appetito non alla conoscenza pratica 0, 09
5.8g. e II, 10. 1. Avvertiamo che nell 1 De Anima III arola,
ci siamo attenuti allo spi traduzione Spesso più che alla p:
s NELL’ETICA D’'ARISTOTELE D'altra parte oltre il moto di traslazione,
x27% é70v 4 ivan, il cui principio bensì si potrebbe considerare
come esteriore, Aristotele ammetteva altre specie di moto; il moto per
cui la sostanza si genera e si corrompe, yivenis, gIop4; Il moto per cui
la qualità si modifica e si cangia, @otor:g, e il moto per cui la
quanzità si accre- sce 0 diminuisce, 20191, gUNias. Ora
questi moti sono tutti intrinseci agli esseri, nè possono certo derivare
dal di fuori; e fanno prova per ciò d’un’attività prima e spontanea. Non
è dubbio quindi che la teorica d’ Aristotele possa essere
opportunamente paragonata per questo rispetto a quella del Bain.
Anche il Bain, solo forse dei filosofi positivi moderni, ha messo
in rilievo la spontaneità propria dello spirito, ricercandone gli
elementi attivi primordiali, e sostenendo che il cervello non obbedisce
semplicemente agl'impulsi, ma che è esso stesso un istrumento spontaneò
(se/f- acting) !. Si potrebbe dire: ma come conciliare questa
sponta- neità di moto e di attività colla teorica d’ Aristotele del
primo motore immobile, mpé70s 4modv debatos, dal quale deriva in ultimo
il moto ‘alle cose? Come potrebbe essere ancora spontaneo un moto, che è
in fondo conseguenza d'un altro moto? Confessiamo che ci troviamo
qui dinanzi all’intima contraddizione che travaglia tutto
quanto il sistema aristotelico, tra la finalità estrinseca e
l’intrinseca, tra Dio e la natura, tra il dualismo e il monismo. Ma come
la natura nel sistema aristotelico non perde, per l’azione che Dio
esercita su di essa, la sua, chiamiamola così, individualità e la sua
forza, che rimane e Si contrappone anzi a quella di Dio stesso, come
prova i*Vedi quanto abbiamo detto in proposito a pag. 1So- 181
del Saggio I! problema della conoscenza nella filosofia moderna e segna-
tamente nell’ Empirismo contemporaneo. RE » C- l'espressione
6 Beds zl gbats ovdev uarav 7 moroder; COSÌ egualmente gli esseri,
sostanze ed energie operanti, pur tendendo a Dio come a fine ed ARA il
moto, non x sono però da esso assorbiti e distrutti come individui:
«4 il moto negli esseri è insieme estrinseco ed intrinseco,
determinato e spontaneo. Ognuno ricorda a questo propo- sito i versi
dell’ Alighieri: Ed ora lì, (a Dio), come a sito decreto,
Cen porta la virtà di quella corda, Che ciò che scocca drizza in segno
lieto. de Ver èfome forma non s'accorda de : Molte
fiate all’intenzion dell’arte, o Perchè a risponder la materia è
sorda; 7 i Così da questo corso si diparte Talor la
creatura, che ha podere Di piegar, così pinta, in altra parte !.
Ma non è la sola spontaneità che costituisca l’ gzo6- cv; g20bcoy
non è soltanto quello il cui principio è in chi agisce, comunque vi sia,
e che non è quindi effetto di violenza: per avere l'éxo5cwy occorre anche
un’altra ‘condizione, occorre che si sappia quello che si fa,
occorre la conoscenza. Senza la conoscenza, quell’attività di cui
ra IST parlato, per quanto’ non ripercussione di un: moto |
esteriore, per quanto spontanea, per quanto dentro di noi, non potrebbe
dirsi propriamente nostra; sarebbe [NELL’ ETICA DEL LIZIO] un effetto cieco
dell'organismo, che l’uomo avrebbe comune coi bruti. E in realtà anche i
bruti possiedono l' ézobaroy, inteso come attività spontanea, e tuttavia
non sono atti all’azione, come non sono atti all’azione i fanciulli
!; appunto perchè nei primi manca affatto la conoscenza, e nei secondi
non s'è ancora sviluppata. La conoscenza illumina l'appetito, cieco
di natura sua e irrazionale, e mostra il fine da conseguire, e
sceglie con deliberazione i mezzi necessarii a conseguirlo, e tutte
mette sott'occhio le singole circostanze in cui versa l’azione. L'attività
volontaria è perciò insieme appetito e ra- gione; nè le azioni potrebbero
dirsi propriamente nostre, se non vi concorressimo anche colla parte
migliore di noi, e non soltanto con ciò che abbiamo comune coi
bruti. Nel trattare della conoscenza, di questa seconda
condizione dell’ gxo0grovy, Aristotele è in generale abba- stanza preciso
e lascia pochi dubbi e poche incertezze. Opportunissima e conforme a
verità la distinzione che « sò dI de vor 0dy, nobarov uiv day. ori,
mobaoy dI z—f' Tò Sriiurov vel èv meTanehetz», come l'alta
che « Erspoy { x Ù . ”, “ D' forsey zz 7d ÒL Kyvorzi TodTTELY TOÙ
cyvoouvT (mpdrtew) us
(0I esatta l'affermazione che l'ignoranza del fine non
rende, azobeg lazione #; ma troppo assoluta ed esclusiva
quell'altra che questa stessa ignoranza è causa della malvagità 5; come
se malvagi non vi fossero che non ignorano il bene, e tuttavia operano il
male! Aristotele per questa via s'accosta alla sentenza di Socrate,
che 1 Eth. Nic. I, 9. 9-10. Eth. Nic. Eth. Nic. Eth.
Nic. 4» CI Dia sn An “A pure ha combattuto in altri luoghi e con
energia, che la malvagità è ignoranza. Non bisogna neanche tacere
che l'enumerazione a cui s'è accinto Aristotele, delle singole
circostanze che possono essere ignorate da chi agisce, per quanto
opportuna in se, riesce però incompleta e non scevra di oscurità. Sebbene
qui, dovendosi tener conto della difficoltà dell'impresa, Aristotele non
sia da rimproverare più di quanto convenga. Come si fa ad assegnare
confini precisi € distinti alle singole circostanze, in cui può versare
un’ azione, quando non ci si trova alla presenza d’ un'azione
determinata? Il risultato finale della discussione intorno all’ s2ob-
cioy e all’azobov è che Aristotele ha cercato di dimo- strare in primo
luogo la differenza fra l'atto volontario e l'atto involontario,
eliminando dal primo gli atti com- piuti per vioienza,e per ignoranza; e
in secondo luogo che vi è un atto volontario che appartiene a noi,
non soltanto perchè il suo principio è interno, ma perchè abbiamo o
possiamo avere conoscenza delle circostanze in cui si compie. In questo
modo egli s'è ingegnato di stabilire la libertà come condizione del valor
morale e della bontà delle azioni, presentandola come una spon/4-
neità cosciente, e S'è opposto recisamente al fatalismo colle sue
conseguenze di quietismo e d’indifferenza. Ma stabilire che c'è un
atto volontario che dipende. da noi, perchè il suo principio è
intrinseco, e abbiamo o possiamo avere conoscenza delle circostanze in
cui si compie, se basta per escludere il fatalismo, non basta per
atfermare la libertà. La libertà richiede come sua condizione non soltanto
la conoscenza, non soltanto che non ci si vincoli dal di fuori, ma anche
che non ci si vincoli internamente. I motivi interiori, per questo
solo che sono interiori, non cessano dal vincolarci. Bisogne-
rebbe, perchè non ci vincolassero, che dipendessero da noi; che non
dipendessero dalla natura, o dall’educazione, o dall'ambiente sociale, o
da tutte queste cause insieme; o che, anche dipendendo: da queste cause,
avessero subìto da parte nostra una specie di rimaneggiamento; che
noi colla nostra attività e colla nostra energia indi- viduale li
avessimo trasformati e comunicato loro un valore ideale; che insomma di
fronte ad essi non fossimo rimasti inerti e non li avessimo accettati
passivamente. In caso cotrario, in che difl'eriscono questi motivi
interiori dalle cause propriamente esteriori? Intanto però
Aristotele crede che, purchè venga dal di dgatro, l’azione sia libera e
imputabile; la determi- nazione interna non toglie all’azione del suo
valore morale; se l’azione viene dal di dentro, se è spontanea,
tanto basta perchè sia degna di lode o di biasimo, di premio o di
castigo; delle ‘azioni in parte spontance e in parte non
spontanee, siamo in parte imputabili e ine parte non imputabili; la
imputabilità è in ragione diretta della spontaneità !. L'uomo deve
rispondere di ciò. che fa sotto l’impulso di moventi interni, quali sono
il piacere, l’îra, il desiderio; e non avere la strana pretesa che
quanto fa di bene gli venga attribuito come a causa, e quanto fa
di male gli sia scusato sotto pretesto che non dipese da lui 2, I moventi
interni, pare che dica Aristotele, non sono cosa diversa dall'uomo, nè
c'è ragione che quanto Eth. Nic. dove pare appunto che Aristotele '
non richieda per l’imputabilità alcun’altra condizione che la
spontaneità. 2 Cfr. Eth. Nic. ohi RATE er. cis A dai 7
int deriva da quelli non si deva considerare come dipendente da
questo. È ben vero che altrove definendo l'szobarov, Aristo- tele mette
innanzi il concetto del #ò so’ gut, del rò Ein) mpdrToval, vale a dire il
concetto che |’ sxobg1ov sia anche in nostro potere *: ma con tutta
probabilità quelle due espressioni non hanno valore diverso da quello che
ha l’espressione sempre adoperata nel capitolo I del libro II, èv
iu A d0Xh vale a dire che szobgtoy sia quello il cul principio è in
noi. La elasticità della quale definizione risulta evidente .
quando si noti col Ramsauer (pag. 144 del Comm.) che. anche di quelle
cose che appartengono alla natura - nutritiva o accresciliva, il
principio è senza dubbio in noi, èv vuîv A doy, € tuttavia non si può
dire che siano in nostro potere, èo' vijlv. La libertà adunque che
Aristotele ha cercato di sta- bilire e di difendere, come abbiamo visto
più sopra, s'assomiglia piuttosto a un determinismo psicologico: Si
direbbe anzi che è veramente questo determinismo :l sistema in cui dopo
oscillazioni c titubanze diverse, dopo non poche contraddizioni e
contrariamente a quanto egli stesso affermava, s' è in ultimo acquetato
Aristotele. Ricordiamo in proposito la sua dottrina della BodXnste.
L’appetito volontario, fov}no:s, è per natura determi- nato al
fine; antecedentemente ad ogni deliberazione € ad i I e ” ; x I
Eth. Nic. V, 8. 3 eyo È’ szodarov piév, Oorep rà m9OTELON lonza, dava
36 CASS \ vi _ Inte DN LAT (o) v
Èo' adrà Uvtov silos zal ph depvoisy mpdTT D MITO) OVTON ELOS XL IL
VAGUZIONI TPLTTA RARE A (I "ol : e punte ob { vezey).
Coll'espressione ©97S0 vai Tod= » ., ni reoov clonra: evidentemente
l’autore sì riferisce al libro III cap. 1; perciò non pare a noi fuor di
posto la congettura fatta nel testo. Nello stesso li è defini ì l'a î
pe stesso lib. V_cap.8$ 3 è definito così l' azobaroyi Tè dh do
obuEYOY, Î) uh dyvoobue èv ‘ui I, Ti 1 &ftoovpevoy ev ‘pn
MSI i Eri ea v in'abrò d' ov, © bia, dd eLove. ogni scelta,
la volontà è determinata al bene, alla felicità; la deliberazione e la
scelta si applicano solamente ai mezzi che conducono ad essa.
Evidentemente adunque non è in nostro arbitrio il proporci il fine; non
dipende assolu- tamente da noi, non siamo liberi di proporcelo o no @
. nostra posta. La potestà di volere o non volere, l’ arbitrio
d'indifferenza non esiste. Il Leibnitz diceva: « Noi non vogliamo volere,
ma vogliamo fare; e se volessimo volere, noi vorremmo voler volere:e così
si andrebbe all infinito». Il che vuol dire che la volontà può volere
ogni cosa, Ma ò volere se stessa; la volontà ha bisogno di
un e non può essere la. sua non pu fine per esistere, e questo
fin volizione. L’arbitrio d'indifferenza implicherebbe che la
volontà volesse se stessa, fosse attività vuota, Il fine è colto
immediatamente, ossia il volere non è voluto, non è preceduto da un altro
atto della stessa volontà, è im- mediato. Ma la causa
finale: non muove per quello che é in se stessa. bensì per quello che
apparisce, per quello che vet non secundum suum è conosciuta;
Calsa finalis mo esse coguniutum, come è mei esse reale, sed
secundum suum le. Il fine adunque passt per così dire, diceano le
scuo attraverso l'intelligenza di ciascuno, e assume Ora una
forma, Ora un'altra a seconda appunto delle varie in-
telligenze. Tutti sono egualmente determinati al bene, ser
determinati al bene: serchè è nella natura di tutti es
ma il bene di ciascuno è quello che.a lui sembra tale, voy
dy200v Così parrebbe che sebbene . l’uomo op280v. Ti QUE Hiper
natura il fine già fissato, per il fatto che do sua intelligenza
gli lavora, per così dire d'attorno, Sa determina € lo specifica ID
una data maniera, egli goda d'una certa libertà. — i Ma quale
l’uomo è, € tale È. se buono, crede che Ja felicità SU le si
propone anche il fine; a nel bene e sì propone LA DOTTRINA DELLA
VOLONTÀ il bene a conseguire; se malvagio, crede che la felicità stia
nel-male, e si propone il male a conseguire, repu- tandolo un bene. In
fondo adunque è a seconda che il nostro carattere è conformato così 0
così, che il fine ci apppare così o così; e percio è il carattere il vero
autore dei nostri atti. Se non che Aristotele sostiene che
siamo noi gli au- tori del nostro carattere, perocchè noi non nasciamo
con un carattere formato. Il carattere è il risultato di una serie
di atti che, a furia di ripetersi, ingenerano delle abitudini buone o
cattive. Certo, una volta contratte queste abitudini, non è possibile
mutarle, come non è possibile a chi ha scagliato un sasso rattenerlo; ma
di- pendeva da noi non contrarle. La favola di Prodico, secondo la
quale è in un'ora solenne della nostra vita che noi sciogliamo una volta
per sempre il problema della virtù e della malvagità, indirizzandoci per
luna o per l’altra delle due vie che ci si parano dinanzi, non
corrisponde alla realtà. In ogni ora, in ogni momento della nostra vita,
o almeno della nostra gioventù, quelle due vie ci si parano dinanzi e il
problema ci si impone a risolvere, e noi lo risolviamo a poco a poco,
insensi- bilmente, quasi senz'avere coscienza di risolverlo.
Il ragionamento parrebbe esatto; ma cela nel suo seno una
difficoltà insormontabile. Se in quel periodo in cui si forma il
carattere, ogni volta o quasi ogni volta che ci si presenta
un'alternativa morale, noi ci decidiamo in un certo senso; se ogni volta
o quasi ogni volta che ci. si presentano quelle due vie, noi ci mettiamo
per una di o Sn la stessa; vuol dire che nel far questo noi
obbediamo a una certa disposizione in i era impossibile cancellare, Tar
RA ico che non è carattere ancora, ma che diverrà tale
sicuramente. Aristotele stesso afferma recisamente che per fare i
vst PARETE Bel} de iena ire PATER v A Rit Le ai Paia!
dia Rita DeTa MSC LIE il bene è necessario una certa
inclinazione naturale, una specie di occhio naturale, con cui discernere
quello,che è bene veramente, per proporcelo poi come fine. Risolve
egli forse la difficoltà quando afferma che noi siamo in qualche
modo coautori del nostro carattere, mov Etemy auvzizioi mws abtot EoueY,
dicendo che, se non nel fine, ci comportiamo però liberamente nelle
azioni che sono necessarie per conseguirlo !? In questa conclu-
sione anzi altri potrebbe vedere una specie di disfatta, una confessione
d’impotenza; se non fosse che in realtà Aristotele vi si ferma, perchè è
la meta a cui vuole arrivare, una meta tutta pratica e positiva. Egli
prova contro i suoi avversarii quietisti che gli argomenti che si
possono addurre contro la libertà del male, che cioè esso è dovuto a una
disposizione naturale primitiva, al fondo intimo del nostro essere, si
possono addurre con agione contro la libertà del bene; e questo
gli eguale r nto il benè quanto il male sono in nostro potere, basta.
Ta dacchè i mi i esteriore a me stesso, Ma il fondo intimo
del mio essere. Il fatalismo è perciò combattuto, € la solita scusa
del vizio « non è mia colpa » non puo essere accettata. Il
determinismo interno 0 psicologico non salva: | azione dall'essere
imputabile; quando l’azione è de dal di dentro, essa ci appartiene, € il
legislatore non o- manda altro per premiarla © punirla. Eth. Nic. il
principio delle mie azioni non è una fatalità. ti. Sip PO
SPIN La stessa dottrina della fovMevas € della rpoztpests, in cui
più che altrove Aristotele crede trovare la libertà, non arriva in fondo
a diversa conclusione. Egli afferma, come s'è detto, che sebbene il
fine ci apparisca per natura, siamo liberi però nella scelta delle
azioni necessarie al conseguimento di quello, e quindi la virtù e la
malvagità che ne risultano, sono in nostro potere !. Ma come
sono queste in nostro potere, e come siamo noi liberi, dal momento che il
fine propostoci dalla natura è di necessità la legge a cui le nostre
azioni si conformano? Le nostre azioni hanno un indirizzo e una
tendenza speciale, e non possono andar fuori di quel- indirizzo e di
quella tendenza. Il filosofo afferma ancora: le azioni ingenerano
gli abiti, e gli abiti alla loro volta le azioni; e siccome le
azioni sono in nostro potere, Eco) ‘api, Sono in nostro po- tere anche
gli abiti che.ne derivano, e per riflesso ancora le azioni che derivano
dagli abiti %. Ma donde derivano le prime azioni da cui derivano
gli abiti? -Riportiamoci colla mente al primo principio
dell’a- bito. Ivi l'abito è nullo, e quindi le azioni non si può
dire che dipendano da un abito precedente. Da che dipendono
adunque? Dalla natura? Parrebbe di sì, dal momento che è dessa che pone
il fine e mette in noi le, inclinazioni 4 Eth. Nic. I IR SR
. Lutz pri nti ict PAZ ade I La ei i
ARAN C LATE (et sardine abito. Ma l'uomo
È evsreme rione sveneeee buone o cattive. Ma in tal caso,
siccome la natura non è in nostro potere, non sono in nostro potere neppure
quelle prime azioni, € quindi neppure gli abiti che ne derivano, e le
azioni che derivano da questi. © dipendono quelle prime azioni
dall’educazione e dall'essere avvez- zati in una data maniera? Aristotele
infatti riconosce che « non è di piccolo momento l'essere avvezzato così
0 così fin da fanciullo, anzi è di grandissimo, e forse è il tutto
! ». Ma è chiaro che quanto più si concede all’ ef- ficacia educativa, 7ò
i viov uni, tanto più si impove- risce l’arbitrio individuale e si
concede all’ arbitrio altrui, all’arbitrio di chi educa, 705
sHiCovTos. Nell'uomo quanto c'è di pfopriamente suo, quanto c'è che
si possa attribuire alla sua energia individuale? Aristotele ammette che
è necessario per esser virtuosi una felice disposizione naturale,
Vabitudine e la guida della ragione. La disposizione naturale \non
è nostra; V'abitudine, siccome deve RI fin da giovanetti, quando non SÈ
ancora Svo ta pi . Seo uindi s'ha bisogno della guida degli ia age
SÉ sa nostra. Svolta la ragione, può altri, non € neppur essa. ll Rn
nficioreientio essa modificare | abitudine € IO no nega 2. Che cosa
resta dunque all Niente. So ? Ro i «va anche per un
‘isultato sì arriva A questo stesso. TS E fine che si
conforma al suo arisce quel helsconi a è signore de’ suol
abit, quindi è anche del fine. Così Aristotele. All'uomo app
ca Po signore dell’ apparenze, pb) » È À roc 2gipe1 TO olrws
À oltws uAXdoy dÈ 9 ni. \ x ui Ò ù uu
guy d! 18. ov. ps.90Y Ù Nic. II, I 1 4 Eth. NIC DIL INA 20905
è% vito sMie00a1, 2.Eth. Nic. 111, 5: 14 5 Eh, Nic. Il 5:17:1%
talea, LA: Ma quando l'abito non è ancora formato, l’appa- renza del
fine, a cui conformare le azioni, non dipende sicuramente da un abito. Da
che dipenderà adunque, poichè la ouvtesia, s' egli deve operare, ci
dovrà pur essere? Dalla natura? Ma in tal caso le azioni che ne
derivano non saranno propriamente dell’uomo. Da uno che mostri all'uomo
un fine, da un educatore, da un #0 insomma? Ma in tal caso le azioni che
l’uomo fa, sono più propriamente di questo. Tutte queste difficoltà
e contraddizioni intrinseche non si possono togliere, a mio credere, che
ad una con- dizione. Non si può negare la verità sperimentale
del deter- minismo, ma non si può negare neppure la libertà. Certo,
non si opera senza motivi; la tesi della completa indif- ferenza della
volontà non è sostenibile. Alla libertà per esistere, non è necessaria
l'assoluta vacuità, l’indipen- denza assoluta da ogni elemento esterno:
le basta un'at- tività che possa trasformare l'esterno in interno, ciò
che non è nostro, in ciò che è nostro. La natura esteriore e la
natura interiore, l’ambiente sociale, l’ambiente della famiglia,
l'educazione in generale forniscono motivi al- l’operare. Ma questi
motivi non vengono subìti pas- sivamente da noi; la causalità in questo
caso non è causalità esterna e meccanica. Nel mondo meccanico
l’effetto è in perfetta corrispondenza colla quantità della causa; la
quantità di moto nel corpo urtato è esattamente determinata da quella del
corpo urtante. Questa rigida causalità Ì e n a fluenza delle
cause IR SAR SA ente all’ in- i ri o interiori, di qualunque
SFMECSESIaUOS gina egli possiede una forza e un’ernegia sua
propria, colla quale reagisce contro gli stimoli a vuti, nè mai s'avvera
il caso che li subisca passivamente, quand'anche sembri subirli
passivamente. Già questa reazione alle cause esteriori e interiori si
manifesta anche prima che quella forza ed energia speciale sia
guidata dalla ragione: quand'è guidata dalla ragione, la reazione
che prima era cieca e dipendeva solamente dall’ organismo, si fa più sicura e
con uno scopo determinato. Il fine ce lo indica la natura, è vero;
è insito nella stessa disposizione organica; tutti per natura
tendiamo alla felicità: però dal momento che ce lo proponiamo noi,
questo fine, anche se indicato dalla natura, esso assume un altro valore,
esso diviene in qualche modo una nostra creazione. Noi ci
proponiamo il fine in maniera corrispondente a quello che siamo; il fine
ci apparisce così o così a seconda dell'indole nostra originaria 0
acquisita. Vero anche questo. Ma l'indole originaria, quella che si
dice temperamento, non rimane immutata, e può essere, sebbene non
distrutta mai interamente, trasformata € modificata in mille maniere da
noi. E quanto all’ indole Do ita, quanto. a quello che posslim9 clEmee
fi, rattere, siccome consiste nel subordinare 1. singoli atti dal
volere ad un’ unica massima, ad un unico principio d'azione;
evidentemente non può ottenersi se non per della nostra energia
individuale illuminata dalla e, La inclinazione naturale potrà in sul
principio i certa maniera; chi cl educa potrà erta maniera; ma nè
l'inclinazione mezzo ragion farci operare In Una
i ‘e in una € farci operare ! i naturale, nè l'educazione
potrà ma i arrivare al punto di 3} È
"A 2 perni Pa: farci contrarre un abito in cui
tutti i nostri atti sieno organati mirabilmente e, per così dire,
gerarchicamente disposti. Il carattere è più che qualunque altra
cosa l’opera-della persona. Insomma l’essere il fine dato da
natura, il farlo noi consistere in questo o in quello a seconda della
nostra disposizione naturale o acquisita, se diminuisce la libertà; non
la distrugge. Il fine è dato dalla natura; ma in una forma indeterminata,
e spetta a noi determinarlo. Lo determiniamo conformemente alla
disposizione naturale o acquisita: ma la disposizione naturale si può
modificare, e la disposizione acquisita è in gran parte opera nostra, «
L'uomo porta con se un organismo, e con esso alcune disposizioni
naturali, che sono il sostrato della sua attività: da questi vincoli
ei non si può mai liberare del tutto. In che consiste adun- que la
sua libertà? In ciò, che tutto quello che gli è dato esternamente, ei per
mezzo della sua attività se lo in- trinsechi e lo faccia suo. Così
l'elemento naturale della sua esistenza rimarrà; ma poichè è stato
trasformato in prodotto spirituale, non nuocerà più
all'indipendenza dell'attività umana, e l’uomo si può a buon
diritto chiamare libero »!. Queste parole del Fiorentino
tendono evidentemente a conciliare la verità sperimentale del
determinismo col fatto della libertà, e noi le accettiamo in tutta la
loro estensione, e le mettiamo qui come il risultato e quasi diremo
il succodelle considerazioni nostre alla teoria del LIZIO.
Intorno alla quale dobbiamo dire un’altra cosa ancora.
L'abito, afferma. Aristotele, ci appartiene perchè è il risultato di
azioni che si poteano fare e non fare, e [FIORENTINO (si veda), Lezioni di filosofia] che erano quindi in
nostro potere: ma una volta con- tratto, non è più possibile mutarlo; le
nostre azioni sono per sempre determinate da esso. Questa dottrina
è troppo assoluta e trova una.smentita nell'esperienza. Aristotele ha
paragonato l'abito alla malattia contratta per voler nostro ®. Questo
paragone dovea condurlo a ricercare se per caso non avvenga del-
l'abito, quello che avviene della malattia. Come l’ammalato, sebbene non possa
esser sano quando il voglia, può tuttavia far molte cose con cui vincere
la forza del male; così egualmente l'abito anche dopo il principio,
uetà civ doy Av, non è affatto sottratto al potere dell’umana volontà; si
può a forza di energia e di buon volere riuscire. a mutarlo. Certo, non è
facile; e lo spirito, crediamo noi, trova ben maggiori difficoltà a
modificare un abito che è opera sua, che.,non una disposizione
naturale, che non è opera sua: ma impossibilità assoluta non c'è.
L'attività dello spirito è così varia e multiforme, si esercita in tante
direzioni, ha tante vie aperte dinanzi a se, che una via nuova non manca
mal diyersa da quella comunemente battuta. Il passato sl depa all!
avvenire, sa dubbio, ed esercita su di esso un'efficacia SRRSRE
l'abito sottrae a poco a poco le azioni al SODIO ella volontà e le
converte in connessione SUTOIz Uso, 1 CRETA vecchi diventano sempre più
forti © IMPperiosl: e Psa é : i sorgere nello spirito? La un motivo
muovo non potrà SOrgert dr ‘tà di motivi nuovi, per quanto limitata, per
iquanto GEpec è nando l’uomo è Innanzi cogli anni, in SE MS herà
però mai del tutto. e condizioni non mane RSI A ATIO do
l'immutabilità degli abiti, Aristote AINSI ) tein quel determinismo
psico- adeva per un’altra par cert ric i Eh. Nic.
logico, ch'era una contraddizione flagrante alla libertà che così
vigorosamente sosteneva, come condizione del valor morale e della bontà
delle azioni. La dottrina della volontà, sebbene tanto importante
per la sua novità, sebbene tanto ricca di fatti e di os- servazioni
d’ogni maniera, è però anche la più oscura, la più incerta forse delle
dottrine psicologiche d’A ristotele. Intanto da che cosa è
veramente costituita la volontà? Essa è, ci dice Aristotele, un’attività
risultante di ragione e d’appetito; ma in quale di queste due parti
l'essenza sua propria sia riposta, da quale propriamente dipenda la
sua libera determinazione, nè egli dice, nè a noi è facile indovinare. Da
una parte, osserva lo Zeller !, si ascrive alla ragione il potere di
dominare l'appetito, si designa la ragione come facoltà motrice, come
quella da cui procedono le risoluzioni della volontà *, si
considera come una corruzione della ragione l’immoralità 3; dal-
l*altra si nega che la ragione possa di per se produrre [Geschichte der
Philosophie der Griechen, Tubingen. Eth. Nic. madetat fap înzotos Untòv
ms mpULEI, Grav cis abtdy ava; ThI doyny, vai abrod eis dò Ayod-
pevoy (la ragione)" TodTo Xp TO Tpozipobpevov. 5 Eth. Nic. è
pv 7% drspfoXtk duzov Tav Adt0y À za UrepBoXhy nel dix mooztoznw, di abtd
val undiv di Etepoy drmobatvoy, dn6)acros. Cfr. anche Eth. Nic.
VII, 9. 1. vi NELL’ ETICA D'ARISTOTELE un movimento *, e si
afferma che sia infallibile 2: di maniera che non dipendendo il fallire
dalla ragione. sarebbe lecito concludere che la volontà a cui appartiene
il retto e non retto ‘operare, non sia in essa riposta. Aristotele si
lascia trascinare qua e là da considerazioni _ opposte, nè gli riesce in
mezzo ad esse di prendere una posizione sicura. L'alto concetto ch’egli
ha della ragione, di questa facoltà divina che per poco non innalza
l’uomo alla condizione di un Dio, che deriva da Dio stesso, non gli
permette di mescolarla alla vita corporea e di attribuirle l'errore e
l’immoralità; ma d'altra parte ad essa sola appartiene il dominio
nell'anima, e tutto quanto in questa avviene, o direttamente o
indirettamente si può far derivare da essa. Dalla ragione dipende solo il
retto operare, ma gli errori e i traviamenti, pur dipendendo
direttamente dalle facoltà inferiori e corporee, provano, non foss’altro,
che la ragione non ha vegliato abbastanza, e non ha saputo, come doveva,
esercitare il suo dominio. Però il dualismo fra quella facoltà superiore
e le inferiori, fra la facoltà razionale e le corporee esiste sempre;
€ l'essenza umana è come divisa in due parti SCPATAtO, fra n è
possibile discernere il legame vitale 3. L unità il sinolo dell'individuo
umano, l’Io uno i sa dire in che veramente consista cui
no della persona, e persistente non s secondo
Aristotele. Quantunque, Sa : Ò, Sa 1 Eth. Nic. VI, 2. 5
014V012 i ROMANI D yo tyaparoDi > NATI: L0Y0Y 2 Eth. Nic. 1, 13.
15 799 Y20 èpupatoDs
XL KKPATIVS TOY AOYOY «Nic. 1, 13, a ve î OY €f0Y ET von Udo
Td A0Y0% SXOY ) ci è ida TE VOyALIS sr. Cie. Eth. Nic: IX, 8. 8 7%5 Yàp
vods clpetra: BeNmioTA miu, Cit È Ò in un certo luogo parlando
della beh ob)îv ast RE FAST LNOGEY, delos yio
val èri Tx r. Cir. Di Qi ad Borat) tato, 6 d eraetzhe
7 i y pe Lal 10.4 Nods | 3y oÙV T% i i Pi -
Pi Zeller dpf6g EGTiV. LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ rpozioznis,
dopo aver detto che risulta di ragione e di appetito e averla definita
una ragione appetitiva o un appetito razionale, egli affermi recisamente
che se ne ha così un principio, che costituisce in proprio l’uomo
!. Il che farebbe supporre quasi che la volontà è un pro- ‘dotto
della ragione e dell'appetito per una specie di combinazione chimica,
donde nasce un essere novello differente da’ suoi elementi. Lo Stuart
Mill, conforme- mente alla tendenza della Psicologia dell’
associazione, parla di questa specie di chimica psicologica, per la
quale di due idee e di due facoltà che si combinano, si produce una terza
idea e una terza facoltà sostanzialmente differenti dagli elementi che le
compongono, come l'acido solforico è differente dallo zolfo e
dall'os- sigeno dalla cui combinazione è formato %. Si direbbe che
non in diverso modo Aristotele tratti la volontà in rispetto a’ suoi
elementi integranti, e veda in essa qualche cosa di uno e inscindibile,
quantunque composto, in cui si possa con frutto ricercare quell’ ultima
realitas, che è la persona umana. Sebbene però non bisogna dimen-
ticare che altrove, e ripetutamente, è detto da Aristotele essere la
ragione quella che in proprio costituisce l’uomo e ne forma l'essenza? Abbiamo
visto contro quali difficoltà si dibatta, la dottrina della libertà in
Aristotele, e come il determinismo interno o psicologico sia in ultimo il
sistema, a cui vanno a metter capo le premesse stesse del filosofo.
Ciò stesso risulta dall'esame dei due elementi di cui { Eth. Nic. dtd
© opeztizds vods mpoalozsts di dock Snonaizk, zati soraben dog
Wiparos. -.Mill- Logique ecc. Cfr. fra gli altri luoghi Eth. Nic. X, 7.9
Sobere D dv ual siva Enyatog tosto (0 vods ); ed Eth. Nic., ‘SL
ricette cità dini rorTITTETeee rece I NELL'ETICA
D' ARISTOTELE verfreniezaraniza;secasieneeee cessare
resenprnareotontereonesono: so erasenei e composta la volontà. Se la
volontà è in se, essenzial- mente, una ragione, non può essere libera,
perchè la ragione obbedisce a leggi necessarie, ed è per di più, il
vods TonTILOS almeno, connessa strettamente al primo motore, sia
un'irradiazione sostanziale di questo, o sia semplice- «mente la
forma più elevata dell'attrazione che questo esercita. Se è in sè,
essenzialmente, un appetito, e quindi strettamente legata al corpo, non
può esser libera neppure, perchè il corpo è ciò che di più determinato ci
possa essere nelle sue operazioni. Se poi è in sè, essenzialmente,
un composto dei due elementi e i due formano uno, non si capisce perchè
il composto dovrà esser libero, mentre i componenti sono
necessitati. Aggiungasi che Aristotele ha sostenuto che il
cielo e la terra sono sospesi a un principio unico, il bene, che
per la sua beltà eternamente desiderabile, produce, senza muoversi, il
movimento e col movimento l'ordine nell'universo; che dai cieli e dagli
astri i quali ricevono direttamente l’azione divina, deriva nei corpi una
specie di necessità, % &md s@v dortp0y ciuapuévn, da cui non è
esente il corpo dell’uomo. C'è adunque nell’ uomo un assieme di
necessità; il suo appeuto lo spinge necessariamente al bene, la sua ragione €
necessariamente il- luminata dui raggi del vero; il suo corpo è
imprigionato nel fato corporeo. Nulla più resta alla potenza
dell'in- determinazione contingente. x Ma è questa
mescolanza medesima di necessità ‘a il Fonsegrive, che permette ad
Aristotele diverse, OSServa | grive, erm i contingenza delle
azioni umane. € Questa ) re la ammettere c x ; > I °
. d'e olanza costituisce il nostro essere e crea in noi li Ka x °
o Tia posizioni. Queste opposizioni sono In noi, vengono elle O
x "ci. dipendono da noi; esse costituiscono il 7ò îo'
ua. CZ TO fra l'intelligenza e la volontà, fra po a su eriori e gli
appetiti inferiori, produce in j desideri P 7 LA DOTTRINA DELLA
VOLONTÀ ECC. noi una contingenza, una indeterminazione in cui
gli uni e gli altri sono a volta a volta vincitori e vinti, E
questa contraddizione costituisce così bene la nostra essenza, che
distruggere la contingenza che ne risulta sarebbe distruggere noi stessi
»!. E sta bene; ma di una libertà e d'una indetermi- nazione
di tal fatta, come osserva il Fonsegrive stesso, non è il caso certo
d’inorgoglire; più che una potenza è una debolezza, più che una felicità,
un’infelicità; più che autonomia e dominio di se, una deplorabile
servitù interiore. 1 Fonsegrive- Essai sur le libre arbitre
pag. 36. ME im 4 nn nese pi ETTI
tt ERRATA-CORRIGE SISI NIAVIIA A un certo punto ammirando: A un
certo punto costoro ammirando 4 VS ALII SPESE discernere, leggi e
discernere » 36. » io cheetra la materia e la forma, leggi che è
tra la materia e la forma fe loro cose, leggi le cose 0! La
loro abilità ecc., leggi e, che gran cosa invero! la loro abilità
eco. gi Soltanto, questa = n 9 (ee)
s + » S IC) ®» (E)
w e che, gran cosa inver Soltanto questa dottrina,
leg. Senago 23 dottrina angusta augusta se la
intenda bene se la s'intenda bene affetto effetto nè sta sul medio sta
nel medio w (02) = i] DE ou vi
= n n 272 Sia SI. n 270 » 3 nella distinzione della
virtù intellettuale e morale, lla distinzione della virtù in
intellet- leggi ne tuale e morale Aristotane Aristofane
n CIRIE v 43 nota 3 Grocoùv, leggi 0RWwE CITI 1
Toast; © oliv leogi dele Ti LG; egg! Tipacto
AS ezIAn ® ago ata praktishen, leggi praltischen; x N x
TEO PARESIS StopPoor0y dizzioy, leggi droplwTwoy dinzioy te gli
accenti e gli % ci riguardanti specialmen ù correggere
fa- Altri errori ortografi e il lettore intelligente pour
spiriti delle citazioni grech cilmente da se. Keywords:
analisi, H. P. Grice on Hardie on Eth. Nic. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Zuccante,” pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza. Zuccante.
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