Grice e Barzaghi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della scuola di
anagogia – scuola di Monza – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Monza). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Monza,
Lombardia. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his “Compendio di storia
della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice: “Barzaghi is the
Italian Copleston – what is it with religious minds – cf. Kenny – that have
this inclination towards the longitudinal unity of philosophy?!” – Grice:
“Barzaghi just ignores the most prosperous period in Roman philosophy; not so
much Romolo, but whatever happened in Rome after that infamous ‘embassy’ of
Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene di Celesia, a
stoic!” -- Direttore della Scuola di
anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo di Bontadini e frate domenicano, è stato
l'interlocutore privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del
cristianesimo. Nella sua opera Oltre Dio, B. si interroga dapprima
sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il
credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la
vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la partecipazione
della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo occorrerà porsi dal
punto di vista di Dio, cioè dell’eterno. Secondo B., l’Essere assoluto «non può
essere inteso come qualcosa accanto ad altre cose, e conseguentemente diviene
il punto di vista rigoroso per l’ispezione del tutto. In questo senso, la
filosofia di Emanuele Severino, che si presenta come alternativa al teismo,
offre in realtà per B. il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore
dell’esistenza di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo
dell’opera, che evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è
eterna, e tale dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad
apparire, eternamente, anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –,
se tale apparire non permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia
coscienza, perché consta l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque
continuare ad apparire in modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di
Dio cui eternamente appaiono gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio,
cioè Dio, significa ammettere che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un
niente nel momento in cui non appare più determinatamente, individualmente. Questa
scienzachiamata nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia
dell’apparire infinito di cui parla Severino nei suoi scritti. Nel pensiero
barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista
dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione
teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere
metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella
stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da
poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione
filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno
sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé
l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.
Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto
l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la
proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo di individuare nella “dottrina
dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero d’Aquino.
L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi nel massimo della
complessità. Ma per compiere questa operazione di analisi, occorre esprimersi
attraverso l’analogia, «riflesso logico gnoseologico dell’ordine ontologico e mezzo
inventivo ed espressivo del conoscere, che acquisisce conseguentemente una
notevole importanza nel pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si
trova il centro della spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta
in modo simultaneo tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine,
l’agente che intende il fine, la forma implicata, e la materia che la deve
accogliere. E l’esemplare trascende la mera dimensione funzionalistica: in
quanto contiene tutto (compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato),
è una totalità, e possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza:
è «sottratto alla dipendenza e al dominio. In una frase, che sintetizza bene il
punto di vista anagogico della filosofia e della teologia di B.: «Dio,
conoscendo se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie
della propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p.
96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli
fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle
cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p.
98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza
aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in
tutto). Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe
Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le
posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia
severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli
organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il
filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino, in cui l’autore
cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un modo che
egli definirà più tardi voler essere quello con cui Aquino, filosofo e teologo
cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele,
filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di
reciproca conoscenza e stima. Severino dedica a B. un articolo sul Corriere
della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore del più
interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto cristiano da
cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo ateo
definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo di
porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di diradare,
sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso
attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista
dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello a Milano e quello
a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD); “L’essere,
la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica. Concetti e
digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul divino.
Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il piacere di
pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus. Pensieri
su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart, Cinisello
Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis,
Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena,
Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di
filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna,
ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento
teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria
contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso,
Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo
S.Tommaso d’Aquino, in “Communio” L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto
di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele
Severino, Bergamo, Moretti et Vitali); “I fondamenti metafisici della mistica,
in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline, La potenza obbedienziale dell’intelletto
agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione
teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G.
Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e
abbandono. Eckhart e Aquino: le due facce di un'unica metafisica, in C. Ciancio,
Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia epistemica, in R.
Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di Battista Mondin,
filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum di Anselmo
d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel Logos, in T.
Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma, Angelicum
University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed.
Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e
approfondimento, in G. Grandi L. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una
rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità
tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in
“Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere
filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica
cristiana come estetica assoluta, in
Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia,
in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in
“Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della
ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi,
Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli
affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V.
Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press,
Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Aquino. Teoresi
e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana,
in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione fondativa, in S. Pinna D.
Riserbato Fenomeno et Fondamento.
Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano,
Ed. vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La
trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi
dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità dell’essente in teologia, in G.
GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura
Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in
“Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della musica di Bach. La
Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas”. Postorino,
La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di G.i... Data l'importanza dell'anagogia nel pensiero
di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura dell'omonima voce
sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani), nonché, sul versante teologico, la
voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica dell’Editrice
vaticana. RaiCultura: Dio e il concetto
filosofico di eternità del Tutto Dialogo
tra Severino e B. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza
religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Dionigi, I nomi divini
(testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,, II, 3. All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de
'La struttura originaria' (UniPa)
Apocalisse Cfr. B., Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia
anagogica, Bologna, ESD, Santiago María Ramírez op, De ordine placita quaedam
thomistica, Salamanca, San Esteban, Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di
teologia anagogica, Siena, Cantagalli,
UniPdL’eternità dell’essente
RaiScuola: Giuseppe Barzaghi. Dio e il concetto filosofico… Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi,
L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus
Thomas” Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa Dialogo Severino-Barzaghi a Milano Giornata di studio dello Studio filosofico
domenicano di Bologna RaiCultura.
Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su
raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su you tube.com. Giuseppe
Barzaghi. Keywords: scuola di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico,
anagogia, greco ‘anagogia’. Implicatura storica, la porta di velia, girgentu,
l’implicatura di milesso, il segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di
anagogia, Bologna, fidanza, Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata
greca a Roma, filosofia, la scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di
Leonzio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.
Barzaghi.
Grice e Barzellotti: la
ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo
fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “The
good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he
pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality –
so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt
with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a
‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only
German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical
of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford
school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to
humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And
part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian
philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on
Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia. Allievo di ROVERE (si
veda) e di CONTI (si veda), entrambi filosofi spiritualisti, si professa poi
seguace del criticismo. Si interessa soprattutto alla storia della filosofia latina
con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e religiosa. Ha la
cattedra di filosofia morale a Pavia e Napoli. Divenne professore di storia
della filosofia latina a Roma. È ammesso ai Lincei. Nominato senatore del Regno
d'Italia. È iniziato in massoneria nella loggia Concordia di Firenze,
appartenente al Grande Oriente d'Italia.
Altre saggi: “La morale nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini);
“La rivoluzione italiana” (Firenze: Successori Le Monnier); “La nuova scuola
del Kant e la filosofia scientifica” (Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di
Arcidosso (detto il santo), Bologna: Zanichelli); “Monte Amiata e il suo profeta, Milano:
Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi psicologici” (Bologna:
Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna: Zanichelli); “Taine, Roma:
Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo: R. Sandron). Note Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi
Muratori, Erasmo ed., Roma, Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in Dizionario
biografico degli italiani, 7, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Barzellotti, in Enciclopedia Italiana,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Treccani Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.B. su siusa.archivi.beniculturali, Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. B. su
accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Opere di Giacomo Barzellotti, su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di B., B., su Senatori d'Italia, Senato della
Repubblica. Filosofia Filosofo Filosofi
italiani Professore Firenze Piancastagnaio Accademici dei Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo
tentando, del movimento filosofico in Italia, rigidamente obbedisce alle leggi
di una storia della filosofia, alcuni filosofi, che rientrano nel nostro
quadro, ne andano certamente esclusi. Lo notammo a proposito di ROVERE (si
veda); e torna opportuno dichiararlo per B.. La prima legge della storia della
filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia
dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi. E però non
potranno far parte di essa gli spiriti che a questa concezione non abbiano
comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano
avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse
di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di
esservi pervenuto. B. pare invece che non abbia sentito il biso gno; e, ingegno
letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica piuttosto che nella
speculativa il vanto di scrittore: più accorto in ciò e sia detto a sua lode
del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu nè anche quel che
fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. B., invece, è stato uno degli
scrittori italiani più noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il
suo nome può dirsi a buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra
quelli di scrittori di cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi
pubblicati dallo Zanichelli: Santi, solitari e filosofi e Studi e Santi,
sol.efil., saggi psicologici, Bologna, Zanichelli, 2.a ediz., ritratti? A
questa popolarità egliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno;
e ha messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte
come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandone il valore. Ma nell'averlimessi intanto
da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna
letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi,
solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera
d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi
cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei
dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le
signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo
vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di
scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello
Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasia breve, la
prego,non più che dieci righe, perchè, quaggiù, vede,ha da seri vere anche
la mia nipotina ». Vale a dire: B. ha bensì aspirato ai posti
distinti dell'insegnamento filosofico. C'era avviato,era quella la sua car
riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore, fino alla cattedra di storia della
filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi
che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che
per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare
ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale.
La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta»
aquelladichigli venne sempre chiedendo a quale sistema egliaderisse; opposta
«appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da
quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la
dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma
sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la
scienza». Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente
filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella
confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della
filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In
realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma s'è
St. e ritr. sforzata di organizzarsi a sistema, per essere qualche cosa di
filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può esser pensiero senz'esser
uno. E lo stesso B. nota una volta che perfino il Kant,il grande avversario dei
sistemi,costrui anche lui la sua Critica in forma complicata ma strettamente
organata di sistema. E che questo orrore dei sistemi significhi, per B., non
negazione critica della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto
significasse), ma, a dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia,
negata nella sua universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari; loattesta,
non foss'altro, ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua
superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito
critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non
meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva .L'ideale delfilosofo, Helm
holtz (tante volte citato da B.): un fisico. Voltando, quindi, in effetti
le spalle alla filosofia, B. sente bene di non dover riuscire ostico ai nemici
della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le sue idee intorno a questo
punto della secolarizzazione delle menti, riescono molto interessanti e
istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la psicologia del filosofo. Tra
noi in Italia, oggi, lo so da lunga esperienza, solo a far balenare un momento
sul frontespizio d'un libro la testa di filosofia c'è da vedersi impietrar
davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di lettori s'eran chinate a
guardarlo. Di chi la colpa? Della filosofia o dei lettori? B. ha una gran
voglia di gettarla tutta addosso alla prima. Ma poichè una certa filosofia deve
credere di coltivarla anche lui, una filosofia invisibile perchè cela tasi
nelle scienze speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai
lettori, lamentando quell'abito come lo chiamo d'antipatia o di pigrizia
mentale? – che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più
alte e più complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico. Ma,
s'intende, il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito
meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il
gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto
una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle
nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano
i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito
tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che
per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna.
In Italia,
un lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e
dalla scienza contemporanea, è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza
d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso
con cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime
notizie di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di
Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra
noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la
filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e
scrivere,non voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che
pensano;il che poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della
mente contemporanea? La filosofia, per vivere la vita di questa mente
contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare
dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia avuto in Italia
negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello, secondo il
Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a
cagione appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di
quegli scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano
parlare al loro pensiero oracoleggiante. Ma, che cosa è questo gergo e
quest'oracoleggiare se non la forma specifica della
filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo ai più, ma anche ai più culti,
quando la loro cultura non abbracci anche la filosofia; e la filosofia non
liquida o vaporante nella sua astratta universalità, ma solidae concreta nellasuccessione
progressiva delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata
ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e
il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non distruggere
quella differenza specifica che costituisce il valore del grado spirituale
proprio della filosofia? Intendiamoci: non già che il filosofo debba scriver
male. B. dice della Vita del VICO (si veda) che ha dal lato letterario
il difetto di tutti i libri del granfilosofo: è male scritta. E non è vero,com'è vero invece che è mal composta, oscura,involuta. Oscuro e
involuto rimase appunto gran parte del pensiero di VICO; e quindi l'oscurità e
l'involuzione della forma. Ma VICO (si veda) scrive benissimo, esprimendo con
efficacia potente d'immagini i Vedi lo scritto Il pessimismo filosofico
in Germania e ilproblema m o. rale dei nostri tempi, nella N. Antologia Dal
rinascimento al risorgimento, Palermo, Sandron. suoi concetti;
ma,s'intende,quando avevadei concetti: laddoveè certo, come lo stesso B. dice,
che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero, che è la
parte prima ed essenziale dello scrittore. In altri termini, egli non pervenne
al possesso completode'suoi concetti,parecchideiquali,enon i secondarii,
rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo
giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente
lavorìo intorno a una materia non veramente omogenea, tradistoriaedifilosofia. Vico
scrive male dove e in quanto pensa male; e questo è VICO che non conta
nella storia. Ma VICO (si veda) che conta, il filosofo vero e proprio è
uno scrittore sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia
non sono due muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito, che non sale alla
filosofia se non attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì per
primo Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra disè.–
Chiscrivemale, perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma lo
scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti verrebbe
meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E comeil
poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene anche
lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a filosofare,
anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure il gergo
della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della
impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum
vulgus? Per B., invece,il filosofo può farsi leggere,se si contenta di
metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione, premessa ai Santi,
solitari e filosofi, lo dice chiaro: « lo vorrei, senz'aver l'aria di
presumer troppo,poter dire press'a poco quello che un amico mio diceva ai
lettori d'un giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti:
perdonate a questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni
costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie); perdonateglielaingrazia
di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare oviracconteràovi descriverà
come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche consiste quel po' di
filosofiadacuiil B. non s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che
quel che di più e di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii
scritti Santi. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa
parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere
propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i
giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora
B., per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei nostri
studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto come
filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore di
filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi
risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un
filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia
saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del
barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera
accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel
che B.i stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo,
niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di questa
specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori o
popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non
in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in
cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è
giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte
pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle
all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare
quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o sazia di sapere. Perchè,
s e h o detto che B. è u n artista più che un filosofo,non credo poi (se
mi è lecito proprio questa volta una digressione letteraria che possa dirsi un
artista finito, e che il suo capolavoro (Lazzaretti) siaun capolavororiuscito.
È ilmeglio riu scito di questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del
paesaggio e dell'anima popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il Barè
al di qua della filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione
morale e psicologica;è soprattutto opera d'arte. Dello scritto su Lazzaretti,
che può forse considerarsi come il capolavoro di B., il quale i nesso si propos
e ben sì di fare uno studio di psicologia religiosa,lo stesso autore dice che «
vorrebbe essere,se pure non pretende troppo, un'opera d'arte,ma senzadar nel
romanzo ».Vedi in questo fasc. l’art. Di Croce, B. e vissuto fanciullo, e
tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi annim. Ma anche lì
quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente pastoralee nell'ingenua
psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio
sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto religioso sulla cornice
dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa
descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti del Lazzaretti,e
individuare itipi de'suoi seguaci! L'azione, troppo povera,è una gita di
caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in disparte ad
almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una
colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche B.. Ma quale
parte? Egli titrova nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un
discepolo del Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto
caro di sapere « molti particolari intorno a David e alla vita che i suoi
seguaci avevano fatto con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro Il lettore,nemico
della filosofia, a cui B. s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa zione
dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con i
suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore civuolrappresentare. Difficile
impresa, certo;ma soloachi, come B., non avesse davvero il suo Filippo
rivelatore vivo e parlante nella fantasia; sibbene gli scritti del
Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da amici del luogo,le
deposizioni dei lazza r ettisti, e poi i volumi del Renan, e l e opere
dell’Hartmann e qualche fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino. B., che
pure ha scritto un bel saggio sulla sincerità nell'arte,in quel
punto della sua opera non si ricorda di quelle sue giustissime idee: e
dopo aver detto come inducesse Filippo a parlare,continua: « Mi rispose con un
leggero atto della testa che acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma
alla conversazione non ci fa assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i
lettori conoscano per:filo e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e
li conoscano, quello che più importa,in ordine alle loro cause e alle
condizioni sociali e morali de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente
nelquale ebbero origine ».E segue infatti il corpo,per dir così,dello studio
sul Lazzaretti: centoquaranta pagine, in cui Filippo e la colazione
sondimenticati.Poi l'autoreripiglia: Questecosemi andavano per la mente cinque
anni dopo la morte di David mentre co'miei Santi, amici stavo nel
piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro. Passato quel silenzio profondo
dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B.
non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella
colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della
fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle
140 pagine diroba! L'elemento descrittivo e drammatico resta affatto estraneo e
sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa
mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le
dichiarazioni esplicite dello scrittore, le sue preoccupazioni artistiche,
mentre egli realmente non si mette mai inunasituazione sinceramente artistica, sono
il maggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi
sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa
tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello
scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della
rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo
chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire » Appunto,la
esiguità del con tenuto spirituale di B. gli ha fatto scrivere molte e molte
pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a
cotesto difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale
umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che
l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto,
tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza
d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al
pensiero, che non si riesce afermare inuna formavivente. Tipica, per questo
riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli:La morale come scienza e come
fatto e il suo progresso nella storia. E valga per esempio questo squarcio,che
ne tolgo a caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a
titolo di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare
d'esser tenuto a farvi qui. Il modo in cui io concepisco la legge intima
dell'organismo e della vita delle scienze morali o,meglio,delle scienze che io
chiamo più propriamente umane,e quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il
centro, non è quello stesso che pare presupposto da quanti oggi
ponendo, Dal rinascimento al risorgimento, Rivista ital. di filos. del
FERRI, con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di
stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione ideale del
pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e
in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel
ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della
fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel
l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa;
stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente
riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo
impossibile però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione
approssimativa di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare
ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze
sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito
imperituro della filosofia, latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma
sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur troppo riscontro
alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della società. In questa
l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di
assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in
sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e
dell'organismo riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero
umano e sociale che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e
vario ne'secoli. E l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le
leggi, è simile a quello di un osservatore che da punti di prospettiva via
via sempre nuovi studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione
di un'immensa folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a
me pare che, tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in
tutta questa pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse
detto press'a poco così: le scienze morali si fondano, al pari delle scienze naturali,sul
l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le
verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza
incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali
spetta di seguire il processo storico del loro oggetto. Egli è che a B.,
mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre
cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e
lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue
professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineo kantiani, sono
semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad
apparire spirito moderno, del proprio tempo (come Nella N.
Antologia, Fil. Sc. Ital. egli ha detto di sè
tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua
mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant. Lo
scritto,che secondo lo stesso B., dovrebbe essere più significativo per questa
sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica
contemporanea in Germania ); e al quale egli infatti s'è riferito ogni volta
che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è
un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso,
che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E
quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni
nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo
di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter
penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni
» non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il pensiero
di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti cogliere
ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della
conoscenza e la metafisica dopo Kant, lavoro prevalentemente storico, per cui
l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle
fonti originali. In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo
scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un neokantiano
vero non può non far apparire i suoi criterii filosofici;
e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che
l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant)
della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione
idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito.
Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come
qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera
sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai
riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e
idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione: un
pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte. Al
Barzellotti il partito di superare idealisticamentela Critica, come fece Fichte,
dopo l'Enesidemo, pare ogni giorno più, non che consigliato, imposto
inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant
alle loro ultime conseguenze». Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non
con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto; sibbene
con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore
assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel
benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra
che sia affare che tocchi l'animo di B.: il quale potrà dirsi a sua voglia
neokantiano; ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il
problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche il platonico, benchè
all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si accostasse ne'suoi scritti
gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle dottrine filosofiche nei
libri di CICERONE, in cui si vede ancora lo scolaro di CONTI edi T. Mamiani
ROVERE. Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo della Filosofia
delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei compilatori
ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le letterature
filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I collaboratori di
quella Rivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione; anzi varii tra
di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani; ma si
raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di quel
moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una inerzia
intellettuale di più che due secoli. Anche al B., insomma,piaceva di essere un
filosofo delle scuole italiane,insieme col Mamianielasuaonrevolgente. Anche
aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della scuola hegeliana (di Napoli) apparirebbe
maggiore allo storico imparziale, se essa avesse tenuto più conto delle
disposizioni naturali e tradizionali dello spirito italiano ». Egli dunque si mise
nella schiera del Mamiani; e io non potevo staccarnelo, non avendo potuto
trovare ne'suoi scritti la dottrina filosofica sua, che ne lo
separasse. Vedi specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. La
filosofia in Italia, nella N. Antologia. Nella Rivista difilos,scientifica. Cosi
nel libro sul Taine qui appresso cit., dirà sempre: « La dot trina idealistica
chefa del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici
dalle sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza,
venuta a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del
Kant.Vedi poi l'articolo su L'idealismo di Schopenh. e la sua dottrina della
percezione, nella Fil. delle sc.ital.; la cui conclusione favorevole ai
filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi, a u n tempo, ideali ed
empirici, subbiettivi e obiettiv i, hanno il loro essere e la loro legge
così nel pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non
vedocomepossaacc larsiconl'idealismo berkeleiano! Masipuòpar lare di
contraddizione? Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE. Cfr. La morale
come scienza e come fatto, Riv. ital. di filos., e la pref. ai Santi,p.xxi
n. Nella prolusione con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale
universitario, Le condizioni presenti
della filosofia e il problema della morale, puoi ravvisare tutto lo scrittore.
Ivi più schietta la professione di fede neo-critica: l'idealismo da Fichte a
Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni verso da un sol punto,
con un solo principio assoluto,ma di avere altresì dimenticato « quello che le
aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i fatti senza le idee sono
ciechi,queste alla lor volta, non cimentate coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli
» (tra vestimento del genuino pensiero kantiano e disconoscimento del genuino
pensiero hegeliano); la riflessione filosofica definita per artifizio;
approvato- comegià nella Morale della filosofia positiva l'indirizzo
psicologico-sperimentale dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto
buon viso alla loro teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede
un kantismo ricondotto addietro fino a Berkeley; dato corpo in certo modo
a quella specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito, e a
cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando
di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo; rifatta un'altra volta
la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale inglese,per conchiudere
che oggi il filosofo « non prova più in sè quello che pure era,ed è
tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di un preteso
primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di potersi
segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto, superiore
alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di tutto
darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede,
esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti
e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri
scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra
le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente
umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e
delle loro leggi. Nien t'altro che dati ! Non certo un'assoluta disperazione del
vero, ma una fede assai condizionata nel valore di quelle forme del vero che la
mente umana accoglie in sè successivamente »; un « abito di mente critica
inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o quasi mai in
una conchiusione, che rifà di continuo i proprii convincimenti ».
Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice della verità.
E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di
questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende
mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non
c'è l'anima di B.. Di questa ricerca egli non vede se non una vita
vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto a
pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi
convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può
prendere il luogo delle credenze religiose. B. non dice propriamente perchè, e
gira attorno a questo problema,che è dei più delicati circa il valore della
filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo spirito dello
scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano il risultato del
ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle azioni « dal
cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa immediata, da
un che in somma non ragionato, m a sentito e intuito ». Contro chi cred e,
come Renan, che possa la scienza un giorno trasformare e governare tutta
la vita,bisogna notare che « delle due forme di conoscenza ond'è capace la
nostra mente, la concreta e diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla
riflessa infiniti vantaggi nella pratica della vita. Se non che,tale appunto
quale è, ottimo istrumento e guida all'azione, la conoscenza intuitiva ha in sè
questo di più specialmente proprio e suo e d'opposto all'indole del sapere
scientifico; appunto perchè concreta, particolare e attinta dalla viva
esperienza e quasi dal contatto delle cose e degli uomini, essa è tutta
individuale, e per ciò incomunicabile:più che vera e propria cognizione,
potrebbe dirsi un certo tatto finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha
in sè di più intimo e d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una
vita inseparabile da quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua
propria, riesce non meno individuale e incomunicabile di quello che sia
l'intuito, l'arte, l'esperienza immediata,la convinzione istintiva. Quindi l'inefficacia
della scienza; quindi il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano
di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla
scienza, B. non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza
personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza
sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può
cacciar di nido la religione. Se la metafisica, l'alta veduta speculativa
investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è
un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans
l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il
più potente e il più vero è l'Arte. Essa infatti penetra,per dir così,giù sino
al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come
falascienza, soloi l profilo esterno,leleggigenerali quantitative,ma ce
n'esprime l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze
vitali, le potenze originarie e germinali » E al Taine tributa la gran lode di
aver avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli
elementi generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello
spirito umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che
intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al
l'astrazione. E l'autore continua: « Qui sta con buona pace della pedanteria togata
di tanti che oggi si chiamano dotti– la superiorità dell'Arte,se siagrande
e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l a vita, il carattere e
i sentimenti umani. Si può esser certi infatti che nessuno specialista, nessuno
scienziato nello stretto senso della parola,arriverà mai a scuotere una di
quelle grandi verità della coscienza e dell'ordine morale, che finora sono
state trovate tutte dai fondatori di religioni, dai metafisici sommi –
artisti del pensieroessipure— daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo
degl'indotti e dei dotti chiama uomini non p o sitivi Taine, Roma, Loescher E
così ci accostiamo al po'di filosofia di B.: a quel po'almeno, che è la nota
metafisica vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota
suona spesso negli scritti di B., benchè non sia che una nota. La religione,dice
in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento, è
qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro
spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità
religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine
affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni
della ragione. E nello studio La giovinezza e la prima educazione di A.
Schopenhauer e di Leopardi: « L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole che
esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le sue
radici nel cuore, non nella testa » Quindi quel sentimento,che in uno
scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da
un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni
paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi
hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e colla realtà. Questo
estetismo o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici tedeschi,dallo
Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti? Certo non ha che vedere col suo
preteso criticismo, che è uno scetticismo ingenuo, appena larvato. Ma visi riconnette
nel sensoche, dimostrandoci il temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten
dere la sua naturale avversione alla vera e propria filosofia.Questo estetismo
a me pare appunto la tendenza naturale del suo spirito; e non prende infatti la
forma dimostrativa e sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a
una critica gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma
resta sempre una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii di B.,
quando egli trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla
sua mente,è un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che
abbia trovato la sua strada quando ha comin ciatoa scrivere I suo studiieritrattiesaggi
psicologici, intorno a scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non
ha certo teorizzato sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa,
cercando il concreto, l'individuum ineffabile, con l'intuizione del Dal
rinasc. al risorg. Santi. - l'artista,
vedendo, come egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta
opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai
sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta la filosofia
all'arte, cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma
illavoro mentale di B. non mira al di là della rappresentazione individuale del
concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a unireilpiùpossibile
egli dice l'arte alla scienza » e provarsi a ritrovare sui modelli
vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose
sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la
scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere solo
in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera. Da Agostino al
Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo
filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del
rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri
uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella
letteratura, B. dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia raccolto tutte
le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici di psicologia,
cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla
cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale del pensiero
speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini ed acute
principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del popolo
italiano. Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a
toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il
mio giudizio, direi che per sif fatte indagini di storia psicologica a B.
manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che
forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della
individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di
tutto il centro vitale del suo organismo; laddove B. gira troppo con
considerazioni e divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati morali
presi a studiare. E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta
conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi
negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato
cercando. Santi. Di questa sua veduta estetizzante dello spirito umano
bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino significato i motivi della comunicazione
fatta dal B. intorno al metodo storico nella trattazione della storia della
filosofia al congresso romano di scienze storiche: contro la quale insorse il
vecchio Lasson in nome della universalità della ragione e della scienza. Pel
B. la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di
una nazione o di un'altra, quale in una certa epoca essa si costituisce in
stretta attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla
base degli abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti
nel tempo dilui. E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non
può non tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma
ad un patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove,
la realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo
spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo
pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua
filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale
ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal B. disconosciuta, per quel
suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E poichè
l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei conferma
ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli vede
i pensatori, e non vede il pensiero; e però non vede n è anche veramente
i pensatori. Ne son prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e
sul Kant. Ma B. è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e
morale italiana? Io non credo. Non è stato un filosofo, e neanche un artista
riuscito. Ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e
molti cuori intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è
stato un lucido specchio di molta parte della cultura filosofica straniera
contemporanea; ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai
pedanteschi filosofanti italiani degli ultimi tempi. Di alcuni criteri
direttivi dell'odierno concetto della storia, che restano tuttora da applicare
pienamente e rigorosamente alla storia della filosofia, massime di quel periodo
che va dal Rinascimento a Kant, negl’Atti del Congr. intern. disc. stor. (Roma). Fra
i più malagevoli ufficj della critica istorica è per certo il determinare come
e quanto contribuisca l'ingegno di ciascun popolo alla sua grandezza
intellettuale e civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi
maggiori, o alla civiltà delle nazioni contemporanee; questione ardua, e più
che alla storia appartenente alla filosofia, perchè risguarda una legge intima
ed arcana della natura, onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda
l'operare e il patire, il conservare e il produrre, la reverenza alle
tradizioni e la libertà dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d’un tale
esame, la quale cresce a misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in
cui fanno difetto i documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia,
sono dovuti i giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla
filosofia de’ romani -- giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole, e
avvalorati dal quasi comune consentimento, negano del tutto o quasi del tutto
indole nuova ed originale alle manifestazioni dell'INGEGNO LATINO. Gl’argomenti
che si allegano per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e
perchè assai noti nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti [Questa
ultima affermazione tanto più è conforme alla storia, in quanto, sebbene la
maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo
al senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti
filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la
decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e
trasmesso nei principii dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dottrine
della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori] concordi nel sostenere
che ai Romani, poco atti sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e di stolti
per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del dominare e
dall'esercizio delle armi, e finalmente abbagliati dallo splendore della
civiltà greca, manca una libera disposizione a ritrarre e a creare il vero ed
il bello negl’esercizj della scienza e dell'arte. Degerando, Brucker,
Tennemann, Ritter, Kuehner ed altri. Ai quali argomenti quando per sè non
rispondesse abbastanza la ragione istorica, la quale vieta potersi sempre dedurre
da ciò, che un popolo fa in certe condizioni di tempi e di civiltà, quello che
in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare. Se non mostrasse il contrario
la scuola dei giureconsulti, che dalla coscienza del genere umano e dalle forme
logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del gius
costitutrice delle nazioni europee, se l’ “Eneide” emula all'Iliade, LUCREZIO
maggiore d'Esiodo, la Commedia di Plauto, le storie di Livio, di Sallustio, di
Tacito, la satira togata di Giovenale e di Persio, l'elegie di Catullo non
indicassero assai che il genio latino, libero nella imitazione, sa aggiungere
all'ideale del vero e del bello un che d'universale e di solenne, un certo
senso pratico e positivo, e un'intima rivelazione degl’umani affetti, ignota
fin allora ai gentili e resa più perfetta dal cristianesimo, io mi restringerei
alle sole opere filosofiche di CICERONE (si veda), che sono, parmi, una fra le
prove maggiori del come la scienza dei nostri padri, modestamente operosa,
recasse la sua parte alla civiltà universale. e all'età del Rinnovamento.
Ritter, Hist. de la Phil. ancienne, Paris, Ladrange. Kuehner, CICERONE, In phil.
E jusq. Partes merita. Hamburgi. La storia della filosofia ci mostra di fatto
che CICERONE fu a’ padri latini molto in pregio, e segnatamente a Lattanzio che
lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle Institutiones
divinæ più volte; poi a Agostino che ri conosce dall' “Ortensio” la
preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo
cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire
in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio
di cristiano, meritava chiamarsi “ciceroniano.” Fra iDottori più principali è
noto come BOEZIO togliesse da CICERONE
il pensiero sulle consolazioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio
che di questo egli fa sì da'pensieri e sì dallo stile; come AQUINO ne arrechi
l'autorità in più luoghi della sua Somma, come ALIGHIERI lo meditasse. Più tardi
Erasmo esalta CICERONE con lodi famose. Dopo, l’autore della “Scienza nuova”
attinge in parte dal libro “De Legibus” la filosofia d’un gius ideale eterno
celebrato nella città dell'universo col disegno della provvidenza. Ad una fama
sì lunga e sì costante, e che per certo dove avere una causa non soltanto, come
si afferma generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine
del filosofo latino si porge all'educazione morale e civile, ma nell'intrinseco
loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj
(Forsyth, Life of CICERONE, London), contrastano singolarmente i giudizj di
alcuni critici. La opinion e espressa da tali giudizj, a volerla riassumere in
breve, è la seguente. CICERONE, ingegno universale, acutissimo e disposto ai
combattimenti dell'eloquenza, più che alle severe indagini speculative, pensa e
compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio
largo, chiaro, eloquente della filosofia in servigio dei suoi connazionali
di giuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti esoteriche.
Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio, dal fine
pratico e letterario ch'e'sipropose, e dal difetto di studj preparatorj la
Critica deduce la natura delle sue dottrine; le quali, benchè guidate sempre da
criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune, non vanno troppo
addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo,
nè costituiscono, come le dottrine dei migliori filosofi, un largo e ben
architettato disegno di scienza. Brucker, Hist. Crit. Phil., Tennemann, G. Bernhardy,
Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig.
Facendoci a cercare l'origine di tali giudizj abbastanza severi, parmi se ne
potrebbe addurre innanzi tutto una causa assai remota, ma in parte relativa al modo
ben differente, con cui gl’antichi e i moderni giudicano il valore di certi
uomini e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col BRUNO
col Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Bacone, che spezzando ogni
autorità del passato, e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato
a fastidio, proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica,
l'assoluta novità dei sistemi. Come s'intendessero quella libertà, e quella
novità; e quali resultati ne seguitassero alle lettere, alle scienze, alle
arti, al vivere privato e civile, come se ne avvantaggiasse o ne patisse la morale
e la religione, la scuola, la famiglia e lo stato romano, non è qui luogo a
mostrarlo, e le son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj
innegabili della riforma,e soprattutto di quella introdotta nelle scienze
sperimentali da GALILEI e Bacone; chè, se la riflessione libera ed esercitata
desunse mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne
avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le
discipline morali e civili; perfeziona i suoi metodi la medicina, si levò
gigante la chimica, la geologia sfogliando il libro della natura vilesse le
età del mondo. Se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle
manifatture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con velocità più
che umana, e in mend’un baleno il salutori congiunge gl’amici, benchè separati
dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è
debitrice l'Europa. Ma le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere
speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più
impenetrabili misteri della conoscenza umana, e quel nuovo si cerca da molti
nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia la
licenza della riflessione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il
panteismo superbo di BRUNO e CAMPANELLA. Poi, scontenti del panteismo, ci
diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il
sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke, lo scetticismo dal Bayle e dall’
Hume; più tardi le sconfinate immaginazioni degl’alemanni,e un ridurre Dio e
l'universo all'uomo, dall'uomo al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea
novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più
sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota
senza raggiungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare! Posta
in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e
detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere
anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con
tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla), l'indirizzo introdotto
nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi eccessiva
mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi, soffermata un istante la
foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra i suoi
passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia, quella
storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi unico
criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua filosofia,
fosse l'assoluta indipendenza del pensiero esaminatore dallo stato della
naturale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A questo
criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono
conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre
mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in
Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia
comparata dei sistemi di Degerando,e la storia di Tennemann, dove si giudi cano
le varie filosofie alla stregua del problema sull'origine dell'umane
conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del
criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici
più temperati e meno imparziali, segnatamente alemanni, e nei filosofi delle
altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma
questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla
natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne
avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla
così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine
speculative. Considerate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel
tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del
decimosettimo,quando Italia e Francia, stanche dell'autorità abusata dagli
scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come
nota Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei romani
e di CICERONE),se quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare
imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradizioni. E
nel vero anche più tardi in tutto il secolo XVII, se n'eccettui coloro che rifiutarono
i dubbj del Cartesio, ma tennero il suo metodo d'esaminare la coscienza, quali
Bossuet, Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri che s'appresero
ai dubbj, e venner giù giù negando i pregj dell'antichità, nemici d'ogni
tradizione, non poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta e
tranquillamente efficace che il grande oratore avea recato sulle verità eterne
della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine temperate dal
senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero di Tullio POMPONACCIO
POMPONAZZI e CAMPANELLA, citati dal Brucker. Ma d'altra parte, se per ispiegare
questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e la
filosofia d'un popolo, che fu per eccellenza il popolo delle tradizioni, giova
riportarci alle sorgenti diquella critica, ec cessivamente nemica al passato,
questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo
nella storia della filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed
in Francia.Tra I francesi, per tacere dei più antichi, Degerando vi spende un
capitolo nella sua Storia comparata dei Sistemi, dove enumerati prima gli
ostacoli che impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine
speculativa,nota opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał
comune degli storici la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla filosofia
trapiantata, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie
astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di
Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro
mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo
ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni
intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi,
nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e
agli stati. Histoire comparée
des systèmes de philosophie considérés relativement aux principes des
connaissances humaines, par Degerando. Giudizj
assai meno temperati comparvero in Alemagna, dove fiorendo mirabilmente le
discipline filosofiche e istoriche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali che
illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse
però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale
alle lettere e alle scienze C Tra i critici alemanni va
innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero
fondatore della storia della filosofia. Ma considerando però il capitolo dove
egli parla della filosofia de'romani e di CICERONE, ti accorgi tosto che
quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in
Roma che una semplice continuazione delle scuole greche; e secondo le varie
specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine
romane annoverando CICERONE tra iseguaci della Nuova Accademia; quantunque
confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta, ma
inclina a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente Brucker nel proporsi
il quesito,perchè mai i romani e CICERONE non crearono una filosofia propria, non
ne accusa, come oggi Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino -- the
unmetaphysical character of the Roman intellect. Life of Cicero. Ma quanto ai
Romani in generale ei ne trova la causa nelle occupazioni della vita civile, e
nella setta Accademica, che criticando e sindacando tutti isistemi, svogliava
gl'intelletti da nuove speculazioni; e quanto a CICERONE, nella natura del suo
ingegno, più immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico)
prefere il probabile all'esame profondo del certo, e delle dottrine rappresenta
nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e
delle deduzioni,e la generale armonia del sistema. Brucker, Hist. Crit. Phil. Al
giudizio dato da Brucker si avvicina in gran parte quello di Tennemann,e nelle
loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella
esposi 8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da far
credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche
anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato,
e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace
l'Europa, ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli
scrittori di quelle grandi e generose nazioni. zione dei fatti;ma per quanta
possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della filosofia, come
non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e
parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina,
come quella di CICERONE, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni
opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? Ma
se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più
speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece
degli scritti filosofici di Tullio, Ritter nella sua storia della Filosofia
antica. Le indagini dotte e meditate di Ritter movendo dai tempi antistorici
della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e
delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche, da queste
al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi sparpagliati e
sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo dell'antica filosofia,
all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche greche sotto la romana, la
rovina di quest'ultima, e il sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli
allega del nuovo indirizzo preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e
le ritrova nella storia delle due nazioni, che allora si ricambiavano una
vicendevole efficacia nelle lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e
civile. Nei Greci, perchè la costoro scienza impoverita oramai dall'uso
eccessivo della facoltà creatrice nei tempi anteriori, dallo scadimento della
li bertà e dei costumi, e costretta, per accomodarsi all'in gegno e
all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le forme ed il metodo d'una
disciplina scolastica, non d e sunse più le sue dottrine immediatamente dalla
riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li paragonò,li esaminò, li
accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non dalla natura intima
del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei Romani, perchè essi
non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme scientifiche, ma
vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita civile,e fra lo
strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva agli ordinamenti
giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva punto alle indagini
della scienza. Quindi (osserva il dotto alemanno) era ben naturale che, date
quelle condizioni morali,civili e scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno
greco e latino derivasse un Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa
filosofia, l'indole della quale è sostituire la li bertà della scelta alla
libertà dell'ingegno inventivo, accomodarsi alla natura degli
scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale non fidarsi all'esame, e se
occorre, attenersi principalmente all'autorità del consentimento comune,eitrovò
la più importante manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella
vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor
gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della
Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò nella storia civile
dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo
levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per
altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e
questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla
vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore
per gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara
previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di
volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli
dice, dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua
gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea
frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica
vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la
quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la
assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica,
perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon volgimenti del
primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di Antonio,tempi
calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento civile, e
fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli tudine
colle meditazioni della scienza. Era quindi ben naturale che il grande oratore,
vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende, non si ripo
sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata
dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle cose
civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti
rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della
filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori
questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj,
e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle
consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra
delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di CICERONE deduce
l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato
scetticismo,espressione fe dele di animo titubante; scetticismo moderato,perchè
seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei
mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre
intemerata la nobiltà della vita, e il desiderio di una morte gloriosa; ma
tuttavia scetticismo, perchè riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette
solo come verosimili le dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte
le scuole, prende ad esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più
con intendimento politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole
arricchire il patrimonio della romana letteratura. Sennonchè tra le varie
dottrine in cui si di videvano le scuole greche, una ve n'era che s'accordava
mirabilmente agli intendimenti, e all'ecclettismo scettico abbracciato da
Cicerone; e questa era la dottrina della Nuova Accademia.Se Tullio infatti
poneva ilfondamento della filosofia in un dubbio moderato sui principj
delle umane conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che
gli era stato maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo
dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che
le dottrine della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la
parola negli esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a
questa di sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere
stata sempre frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a
un metodo disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della
filo sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno
eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova Accademia,che disputava contro
tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la maggiore libertà dei proprj
giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in brevi tratti ai Romani lo
stato della filosofia passata e contempo ranea, ad innamorarne i lettori, senza
perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli a un sistema. CICERONE (si
veda) dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico dubitante,come
oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò le
dottrine della Nuova Accademia; e va notato particolarmente, sì perchè questa è
l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita filosofica di Tullio,
e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia della filosofia, e perchè
il comune degli storici ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue
opinioni sulle parti principali in cui si divide la scienza. Così opina anche
il Ritter, e prendendo ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione
plato nica della filosofia più comune agli antichi (egli avverte però
che,stante l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e la loro qualità,
tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre parti non è abbastanza
spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il dubbio
della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi
abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni dei filosofanti;
dispute sulla natura delle cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di
Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti
questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera
verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa
la più povera e la meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la
collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il
sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener
fronte agli argomenti della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto
anche nella morale, perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle
dottrine epi curee, la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici lo lascia
indeciso da un lato tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la
grandezza dell'animo romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che
pure lo segue nella politica, e nelle attinenze della politica colla morale.
Talchè Ritter movendo dal presupposto che la filosofia di Tullio non
fosse che eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò
ogni certezza e ogni legame di scienza in
ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro (perchè
quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della morale,
considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di disegno
scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale,
posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del
sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del
l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più
e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di
riflessione e criterio di scienza. (Hist. de la Phil. anc.) una manifestazione [Se
noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni di Degerando, Brucker
e Ritter, è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare
non piccola luce intorno ad una questione che abbiam preso ad
esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il
giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo
affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare
con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la
critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare
immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa
quel moto graduale dell'esame, e quel lento chiarirsi de' principj supremi, che
governano i fatti, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I
primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e
spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio
tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di
Cicerone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva
dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente
nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio
concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel
farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un
filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato
intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna
ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana
da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare
molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella
che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Accademia, e un
ecclettico dubitante), e, quel che soprattutto importava,trattandosi di M.
Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva
cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere
dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier
de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette
all'Accademia francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda
metà del secolo scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle
dottrine tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si
difende dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite
vole di molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa
non nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla
loro forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e
dommatico in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti
sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des Inscript. et Bell. Lett.) A questi difetti
sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene
ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo
tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno
inverosimile può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più,
che l'esame del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di
Cicerone, contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello
svolgimento delle dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare
efficacia i suoi tempi, la sua nazione, la sua indole propria; che speciale
qualità di questa indole fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la
dispera zione del vero e del bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse
efficacemente il senno pratico della natura romana. Ma d'altra parte noi siamo
ben lungi dal credere che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero
le opinioni, abbiano considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine
tulliane; chè, se non può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente
re lativo alle condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi
mutabile, non necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica
della scienza,non è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle
dot trine contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in
sè stesso e negli altriuomini,un criterio certo, universale, infallibile da
costituirvi la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di
oggettivo e di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di
necessario; m a l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di
universale armonia; armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di
tutti i tempi,tra il romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone
oratore e politico e Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui
risponde quell'altra interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e
l'affetto, tra la volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali.
E certo a queste considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri
critici Alemanni, badò Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle
dottrine di Cicerone ch'io mi conosca,edito in Amburgo quando rispondendo al
quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e
l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente
quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine
contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e
ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui,
ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della
riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine,
ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in
phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur. Pars altera.Cap.VI; Utrum
Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur) E questi pajono anche a m e i
meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io
rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e
d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente
immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche,
mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli
perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile,
parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse
l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia
quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze
stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli venne dalle scuole
d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui
fondamenti della scienza, questione che (conforme a quanto è detto più sopra)
noi ci siam proposti di chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti
segna tamente:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi
di Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle
principali scuole tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse
dalla deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore
latino. successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se
ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio
avviso,l'ufficio della filosofia de’Giureconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio
desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e
considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e
politici, alla Religione e all'Architettura, che è di comprendere in sè il
buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può
spiegarne la natura, che è appunto quella comprensione universale, tanto
diversa dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei
sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul
disegno della coscienza; finalmentepuòspiegarneil principio,cheèl'esa me
dell'uomo interiore, contrapposto sull'esempiodi Socrate al dubbio, o all'esame
arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a
mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi
esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. Gli storici
più reputati della filosofia si accordano tutti in mostrarci un manifesto
scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo il fiorire dell'antica
Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di Tullio,
accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende degli
ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V avanti
l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in pochi
anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre nazioni può
appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che liaveva
nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono, rappresen
tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della vita
dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili anni
ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori
Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del
Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero
argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo
incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene,
un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva
in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di
rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di
Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del
pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute
in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento
profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo
greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia,
le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano sentire, l'abuso
scon II. umana sigliato delle libertà cittadine recava frutti di
servitù, e la Macedonia invadeva. Chè se quella può dirsi con qual che ragione
l'età virile del popolo greco, nella quale raf forzatosi di potenti ordini
militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò guerra con Alessandro
nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento delleTermopili,èquesta una virilità che
giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola filosofia d'Aristotele,superiore a
Platone nel severo or dinamento scienziale, e nell'indirizzo fecondo dato alla
riflessione sul reale e alle scienze d’esperimento,ma su perato da lui nella
sublimità della dialettica, nella vi vezza delle tradizioni sacre, e nella
idealità del sistema. M a ormai la discesa dei tempi non si poteva più tratte
nere; e la Grecia passata dal dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai
Macedoni, morto Alessandro e diviso il regno nei successori, sotto un tritume
di piccole tirannidi, non ebbe nè anche, come più tardi avrebbe avuto
l'Italia,un legame di alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare
un'effigie qua lunque d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia,di quella
efficacia di salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei
popoli guasti da libertà licenziosa. Non è quindi a maravigliare se quella
stessa Atene, che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle
apparenze civili l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più
tardi la signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito
di morte Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio
Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri
penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia
d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del
popolo, oltrechè negli ordini politici, appariva in ogni altra parte della sua
civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo moto di
commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto quel
solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse guenza
necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria
de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago
greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano
i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente
oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre
denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e
dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso;
e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute
adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto
risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio
della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece
un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei
principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più
diretta effi cacia sulla filosofia latina. Onde mossero dunque questi sistemi?
Ritenendo essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo
e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai
sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca,
ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre
derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo,
retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle
lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente
desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche
questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto
ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la
immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile,
l'ente e il non -ente, il necessario e il contingente, il relativo e l'assoluto;
e più, da un pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0, meglio,immaginare
quella conciliazione, bisognava porre un unico principio, in cui
esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto
indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui
l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli
atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima.
Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un
effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un
che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a
quello dacuierano mossi Platone e Aristotele; chè, sel’Ateniese e lo Stagirita
concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo
segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e
nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il
primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. Ma che cosa era questa
materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più
tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura,
infinitamente passiva e suscettibile di forme, infinitamente divisibile,è una
finzione immaginativa, è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno)
collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi
bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que'
pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto
questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il
nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno
medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo
doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una
parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto
fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse,
si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito
dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia
primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni delle
cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime
della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός
λόγον όντα ToŬ zoopov. Diog.L.,VII,136,e Cic., De N. D. La falsa induzione che
per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura
ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo
la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e
d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose
tutte, e l'universo rassomigliavano a u n grand e animale; perchè, diceno
(usando un argomento di panteismo rigoroso adoperato più tardi da CAMPANELLA),
se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le varie
parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla ragione,
anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi pato
risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli Stoici
era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le facoltà
del l'umano, concepissero Dio da un lato come principio prov vidente e
ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti
imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e
inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia
l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo
spirito divino abitatore della materia la divinazione delle cose future.(CICERONE.,De
N. D.,De Divin., De Fato,pass.) Concependo in tal modo la materia come
contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per
il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed
opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli
Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli
astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne
deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj
della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che cosa è
l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio
stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante
all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la
immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della
compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo
ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle
cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è
in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi
tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore
(nepovezov) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole
assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla
riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze
materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a
studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne
proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di
potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano
pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto
e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la
possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di
contenuto, simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν
άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto
primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le
rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie
è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli
Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati
tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla
sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose tutte,ritiene
ilsuo modo di conoscere,che conforme alla sua natură è un cono scere
sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza universale
di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non di corpo.
Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato ogni
conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura
dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del
sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata
dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a, di grazia, sì gli
uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione? Ne rimaneva
una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare
all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e immaginare
ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e
di operazioni tutte sue proprie. M a in tal modo il sensista tira più là la
questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine
dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta
ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia
primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si
generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per
mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista
l'idea dell'obbietto sentito. Ma è qui appunto dov’io prego il sensista a darrestarsi.
Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione
de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce
bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo
l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta
relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m
mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere
insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno
mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la
conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual
proposito bene osserva Leibniz nei Nuovi Saggi, che coloro i quali s'immaginano
l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui nulla sia scritto
prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni passive e inefficaci
della materia. Se consideriamo adunque attentamente il sistema de gli Stoici,esso
ci si presenterà da un lato come un pan teismo, dall'altro come un dualismo. È
un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo Ritter, ne formava il domma
fondamentale, all'unità primigenia e finale delle cose tutte e al
concatenamento o consenso delle parti della natura informata dall'anima
universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la legge del Fato; ma è
invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio anima del mondo e il
corpo del mondo, tra la materia e la forma, il passivo e l'attivo, il più e men
perfetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la diversità delle
cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella indifferenza
primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben definito il
giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io credo
derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione dell'età
orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni dialettiche, che
è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile, quanto dall'avere gli
Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia
dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e del divino. E fu qui dove
peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb
bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e
Aristotile, adombrando per via con
trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose, ambedue
silevaronpiùalto, eoltrequell'universo animato e al di là di quella materia,l'uno
contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e nelle anime la
luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo desiderato
dalla universale natura; peggiora E d ecco circa in quei medesimi anni,
nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine infette di panteismo
e di dualismo, apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti
con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua
filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine
o anteriori o contemporanee; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in
Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno
ai sofisti della stessa età italo-greca, e segnatamente a Democrito. Notammo
anche come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si
scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana
coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono
come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e
la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più
basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e
riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri del
senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè
già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si
maturava negli ozj voluttuosi la servitù della rono in logica,stante che
se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne faceva scala per
salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal senso l'in
telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli Stoici non
ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della scienza;
peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e perfetta delle
tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame
sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene
diventò più che umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve
quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(CICERONE, De
Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) Grecia, quando la Nuova Commedia
svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del
vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare
co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo
alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una
etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco
quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole
de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto
l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico; ma quel rigore,
nota bene CICERONE (De Fin.), era un finto stoicismo e una maschera da
saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo gozzovigliante,era una sod
disfazione ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica
opinione. E poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come
poteva cer care nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto
per Epicuro fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e
assoluto, lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui
come una norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava
sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti
morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come
Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggiorasse il sensismo del Portico e non
movesse un passo oltre la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano
almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto
all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi CICERONE nel secondo degli
Accademici), Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero
nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo
passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli
accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine;
negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola
opposizione dei resultati sensibili la verità e la falsità della
sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta
significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la
logica dell’Orto (CICERONE., De Nat. Deor.) Nè a diverso cammino si volgeva la
fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito. Ora,se ben con
sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al
dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che
con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto,
laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il
fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava
vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza
nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni
esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli
atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione
della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature
elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova
maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia
che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e
della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più
sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si
vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con
seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse
sotto l'apprendimento dei sensi; ma poseaprincipiodi tutte lecoseilvuotoimmensoegli
atomi nè sensibili in modo alcuno nè intelligibili. (De Fin..) Credè
immaginando la spontanea diversione degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi
alla inesora bile legge del Fato; m a s'imbattè in un'altra potenza non meno
cieca e inconcepibile, nella potenza del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.)
Finalmente un ultimo indizio di quanto poco conto ei facesse dei veri immor
tali presenti alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle
sue indagini fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente
dalle cause seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di
stupore e d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore, icieli
sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde
dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (LUCREZIO, De
rer.nat., Ritter, Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani: Che non
si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della
superstizione.). Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva
Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie
intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo
dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delle dottrinesocratiche,
ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi
Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett.,ed Agostino nel
libro Contra Academicos), ci rappresenta questa dottrina come un domma
filosofale, svelato prima nell'insegnamento del l'antica Accademia, e ristretto
poi nel mistero all'appa rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo
significato della filosofia di Platone: due essere i mondi, uno intel ligibile,
l'altro sensibile; quello vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza
degli archetipi eterni; del primo per via delle idee generarsi nel saggio la scienza,
del secondo una semplice opinione di verosimiglianza. Ma quando io penso che il
vescovo d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua conversione, scampato
appena dal dubbio della nuova Accademia, e che per guarire lo scetticismo
inveterato del tempo cercava le più riposte armonie della sapienza antica colle
dottrine cristiane, attingendo principalmente a fonti neoplatoniche; quando
ritraggo dalla testimonianza concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò
più là di Socrate, dicendo non potersi nè anche sapere di saper niente, che
aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in tal modo il
vero assoluto e ammettendo soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema;
e che finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale
degli Empirici; allora son tratto ad attribuire a un pervertimento delle
dottrine Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al
semplice accor gimento d'Arcesilao (CICERONE.,De Oratore). Socrate opponendo
all'orgoglio del sofista la modesta affermazione del saggio,negava potersi
trarre da una cavillosa dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle
dottrine meccaniche degli lonj il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne
fermo quel dubbio, temperandolo col conosci te stesso, e sceso a considerare i
più riposti veri dell'umana coscienza, vi riconobbe il combattimento della
ragione coll'appetito, dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale
e di terreno ch'è in noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del
vero,del bello e del buono,e s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi
trasportando quell'intimo co noscimento all'esteriore forma delle cose,e al
giudizio della loro perfezione, ne derivò la dottrina dell'ente e del non ente,
della üln e del cos. E qui (si noti) consisteva essenzialmente il positivo e il
negativo delle dottrine platoniche. Poneva egli, è vero, da un lato il concetto
della scienza nel salire dai particolari agli universali,da ciò che muta a ciò
che non muta, dalla sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il
fondamento della sua dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele
menti de'fatti particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra
parte mosso dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle
dottrine panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli
faceva del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e
non soggetto al conoscimento, perchè partecipante della materia che è l'opposto
dell'ente,e alle Matematicheealla Fisica indagatrice de'fattinegònome di
scienza. Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità riconoscendo necessaria
attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente dell'Artefice eterno
che le informava della perfezione di quelli, e nella mente dell'uomo per via
della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio dalla opinione al
sapere; m a la illazione del dubbio, che scendeva dalle premesse del suo
sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la materia,e l'una è
negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì disparati possa darsi
attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio l'intelletto, basta la sola
ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli animi nostri in una vita
anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra iparadigmi e le cose,'per
verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E
perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra
il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro
di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle
cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e
quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello
studio della materia; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema
platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina
ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava
l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro
corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte
quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che
voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di
Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di
Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio
fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era
nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che togliendo
l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero nella
coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Critica della
conoscenza.(Ritter) La quale non ancora matura e compiuta in Arcesilao si
svolse nei successori, perchè,laddove il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi
contro i sensisti moveva special mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità
della materia; Carneade,che gli successe,introdusse in quella tesi maggior
rigore scientifico,quando esaminò ex professo l'entità della relazione inclusa
nel conoscimento, e distinguendo nella percezione sensitiva o rappresentazione
due lati,uno ri feribile all'oggetto, l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli
prima del Kant non darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae
in propria forma la materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo
peggioramento in Carneade? Sì; perchè e'negò fede espressamente alla validità
della ragione, dicendo non potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del
vero, e dovere contentarsi il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per
lui l'idealismo accademico si accostò sempre più alla nega zione universale,
che compiendo le dottrine anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è
prova evidente il pas saggio ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio
sull'entità oggettiva delle idee universali che si specchiano nella coscienza,
manifestato da lui ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla
giustizia,dove to gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del
bene, abbatteva i fondamenti dellamorale (CICERONE, De Rep. Ritter). E il discorso
di Carneade udivano assollatii Romani, nella cui patria splendeva quella gran
scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità umana,e la n o
zione del dovere e del diritto si desumevano da principj d'immortale necessità,
e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi congenita alla natura di
Dio.(V. Cantù, St. Un.Brucker, Degerando, Ritter, Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.)
È noto infatti come VICO nel suo l De antiquissima Italorum sapientia indagando
nella storia de’fatti umani iprincipj universali che reggono il sapere,
trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni ne'linguaggi primitivj
d’Italia; il che,se non prova che presso quei popoli, come ad esem pio i
latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero
e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra però che v'era nel loro
ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa disposizione d o veva
attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret tezze presenti, e
sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si sarebbe volto a
considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e nell'universalità della
storia. Queste erano le preparazioni e le cause del fatto; l'occasione esterna
venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A.
di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo
innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa
definitivamente la Grecia colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di
Corinto,riceveva dai vinti la tradizione delle arti e delle discipline civili
per parteciparle novamente e sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle
arti e quelle discipline che giungevano d'oltremare non più informate dalla
libera spontaneità dell'ingegno dei padri, educato alla scuola del sentimento
civile e del magistero divino, ma guaste dal dubbio della nuova Accademia,e
infette da signorie corruttrici e da profonda sensualità di costu mi,trovarono
nei Romani dismesso l'abito della severità antica, e omai volgente a rovina
quella repubblica inde bolita dalle mollezze d'Affrica e d’Oriente. Sallustio,
Catil.,C.X.c.f.XI.XIV. Non èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di
molti ingegni valorosi, dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un
grande rinno vamento; chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei
popoli s'accoglie una favilla immortale di vita, e un impulso efficace li
risospinge ai principj; non possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era
pagana, in cui, ecclissato ogni lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e
ridotto in pochi lo stato, Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella
barbarie. Nè c'inganni quel moto apparentemente efficace di letteratura e di
scienza ma era 3 nifestatosi nelle città greche, e nelle
corti di Pergamo e deiTolomei.Tranne inRoma, dove fino allamorte d'Au gusto
durarono potente incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la
memoria degli ordini repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica
le lettere e le scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o
sollievo di popoli in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da
Filone Ebreo, dalla Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio
ed altri) doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla
spontaneità dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei
commentatori e degli illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi
derivarono gli Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le
scienze matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città
mercantili e dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che
s’è rin novato più volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline
speculative;nè solo (come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla
forma scientifica dei si stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano
intelletto che in quella dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il
soggetto esaminato e la riflessione esaminatrice, consista intimamente il
metodo d'una scienza,una volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali,
se ne scom piglia l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara
l'integrità della coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza.
Richiamando ora in breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della
filosofia da Socrate a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della
riflessione scientifica da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e
del l'immortale accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate
tradizioni, ad altri infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero
divino ed umano;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di
riflessione,e più perfetto ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che
alla c o m prensione totale della coscienza e delle sue relazioni
fanno seguire un esame monco, spicciolato, minuzioso,eaimetodi positivi e
dogmatici (benchè misti di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e
gl'inquisitivi. Questo è il pen dío naturale del pensiero filosofico in
quell'età,che dalle altezze del disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n
gustie di alcuni trattati aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima
informatrice della materia corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi
sillogismi di Crisippo per terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella
negazione della nuova Accademia; che infine dalla interpretazione sublime della
Mitologia,qual era in Platone, ci guida all'in terpretazione fisica e storica
degli Stoici e d'Evemero. Ma la nuova Accademia di contro alle dottrine
d'Epicuro,se non forse quanto alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto
alla forma scientifica, perchè Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e
offriva un disegno di pro prie dottrine sulle principali teoriche della scienza;
gli Accademici negavano soltanto, e, tranne poche e sparpagliate affermazioni i
n fisica e d i n moral e, restringevano il soggetto della filosofia al problema
del conoscimento; ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par
ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non
v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da
questa al d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che
non sono più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini
dottissimi che unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la
scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era
la storia;e da questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche
oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e
de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli
eccessi della critica Kanziana pullularono gli Empirici Alemanni, l'Ecclettismo
del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni
della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto
contrario alle cagioni del male, dovea consistere segnatamente nel tornare
ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei
suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar
pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli
ebbe occasione e conforto dalle qualità dell'ingegno latino, mosso da antiche
tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche,
dallo stato politico e civile di Roma, e dal contrasto ai dubbj che laceravano
la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di
civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in
Roma, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per
opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora
potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il
dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi
correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura,
le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva, quasi a
compire la maestà della gran repubblica dominatrice, lacoscienza del ge nere
umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale, condizione
necessariaal na scere della Filosofia. D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla
Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro
la storia; la filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel
paralogisma, e sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío
della negazione universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori
della corruttela dei tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel
senso;i Platonici e iPeripatetici,come Cratippo, Stasea, AndronicodiRodi,
Alessandro Afrodiseo si diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare
nulla di nuovo,rimestarono con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo
stoicismo con P a nezio e con Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle
dottrine di Zenone, favorì l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più
popolare,e ravvicinandosi alle altre scuole socratiche; ravvicinamento anche
più manifesto in Filone e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di
Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla
nuova Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da
un lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle
greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre
dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine
de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza
orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando
questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio, ci siamo
allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione; m a il
rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del
filosofo nostro,i suoi intendimenti, le fonti delle sue opere e il concettoche
egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi
alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro
sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo
nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano
all'Ortensio, appariva,come ben nota Ritter, una straordinariapo vertà di
speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità
rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una
volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio
taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo
umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni
giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il
vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da
Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le
contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei
Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito
coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava
al buon uso dei m e 37 todi sperimentali; la morale per
ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve
nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo
Gadarense, contemporaneo e famigliare di CICERONE, testimoniarono anche una
volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu
lanensium Voluminum quue supersunt. Nap.) Pertanto in quelle condizioni di
civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero
speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e
all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e
delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e
degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose,
mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto, il teorematico dal
problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual
cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della
modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo
distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine;
e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in
Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale
disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la
scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone,
solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e
propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei
Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità
delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica sulla
coscienza morale. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af
ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj, fa manifesta a
chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della
storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di
rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini
civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra
chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili, iquali, se
hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la
conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a
contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella
filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi
della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità
universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto, ipostulatiedilmetodo.
La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la
ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue
leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa, sembra
doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un
indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non
vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale
e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando
diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle
prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la
riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente
dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei
fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali, evidente e
misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del
sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra
d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto
dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni
concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e
di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi
l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa
verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di CICERONE
(si veda); entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite;
entrambi la rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza;
l'Ateniese divino in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non
è ancora cessato; più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della
buona filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni
eser cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della
scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno
avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare
la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di CICERONE. E nel vero quel
principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo
recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal
D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in ARPINO di famiglia provinciale il
terzo giorno di gennajo -- coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione),
venne a Roma per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli e via alle
cause del foro e al pubblico arringo, sono tempi di più profondi rivolgimenti
civili, conseguenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la
storia romana, la prevalenza degl’OTTIMATI sopra la plebe, la prevalenza di
Roma sopra il resto di Italia e del mondo. Cantù, St. Univ. Già sin da quando
tonò la prima volta nel foro la potente parola de’ Gracchi, un moto profondo in
favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'e venne
propagando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e
coll'ampliarsi della potenza repubblicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni
civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora
que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà,
mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di
pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a
sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più
inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica
ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le
amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno
del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle
lotte d'independenza; ma il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di
gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel
l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici
qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio
amoroso del vero l'efficacia della filosofia italica, che avea recato dal
l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a
rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una
gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti. zioni
delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del
popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè
l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina
fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà
partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si
perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel
tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore
dei delitti narrati. Sall., Catil. Quellacorruzione,profondanegli ordini
civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto
perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal
suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e
supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge
innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era
stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degl’OTTIMATI che
manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti
due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come
nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai
principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi
scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi
narela repubblica e salire agli onori, ma,uomo dipace qual era,e conservatore
degli ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza
del vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e
all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio
s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina
degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole
contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era
al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta. M
a qui c'imbattiamo subito in una questione importante. Cicerone e egli soltanto
condotto a filosofare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a
scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e
dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi
necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? Parecchi critici tra i
quali Ritter, Degerando, e Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi
chiamare “filosofo” vero esso che studia la filosofia come semplice istrumento
dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli e stata
fatta da taluni fra i contemporanei, quandoudiamo lui stesso, il testimone più
autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè
cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita
consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera,
io era maggiormente intento a filosofare -- De Nat. Deor. -- parole che
potrebbero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso, se i primiindizj
che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non
mostrassero assai che il suo ingegno sivolse'sui principj, sui metodi e sui più
ardui problemi della scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi
si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio
notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i romani contemporanei
affettavano verso la filosofia relativistica di Carneade. Ma in Cicerone apparisce
un sentimento vivo, e quasi direi religioso, dell'unità della scienza; poeta
elegante e vigoroso, poi traduttore di cose filosofiche, udiva i più eccellenti
m a e stri d'ogni filosofia, studia con Q. Mucio Scevola il giure, coi più
autoreroli cittadini la scienza delle cose una causa, vedreino essere
immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che
come riformatore filosofo, come riformatore civile. civili, la
declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone
Rodio, e Demetrio di Siria. Cic. Bruto, Forsyth, The life of CICERONE, London. Nutrito
l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel foro,si
accorse,com'egli stesso ci dice (Brut. 93,e pro Archia, V I), ch e a costituire
il perfetto oratore non e su f ficientela destrezzaelacopiadella parola, ma
bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma
dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involuto e comprensivo
come una scienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del
diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium
benefactorum benequedictorum (Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in
iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.); concetto univer sale, che
apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel de Inventione, dove parla delle
virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle
città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi
cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e
speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo
progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva Ritter) l'oratore
preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore,
il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione
di scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi
sostenuta dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi
ivi di sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s'
ella debba restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla
scienza delle cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente
nelle stesse persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e
per conseguenza più filosofico,che CICERONE (si veda) avea del sapere, al
concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che
rappresenta l'opinione dell'Autore, movendo dal principio che una sola è
la sintesi delle materie scientifiche,e che su tutte può e deve cadere
l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al perfetto oratore quasi tutto
lo scibile umano, e conferma questa sentenza coll'autorità degli antichi presso
i quali l'arte del pensare e del dire erano state sino ai tempi di Socrate
indivisibilmente congiunte. Lo stesso argomento è trattato nell'altra opera
Orator, dov'egli cercò pure l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a
principio le idee archetipe di Platone; talchè l'armonia della scienza colla
vita, dell'una e dell'altra colla letteratura e coll'arte,l'accordo della
materia scien tifica colla forma oratoria, e della ragione col gusto,
costituisce nei libri rettorici di Cicerone una vera e pro pria unità di
concetto. Considerando questo principio universale,a cui il filo sofo latino
rannodava le discipline letterarie,e l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte,
io sempre meglio mi per suado che la vita d'oratore e di politico fu per lui un
apparecchio necessario agli scritti speculativi. Più tardi, allorchèla libertà venne
in mano degli scellerati, e il gran cittadino si astenne volontariamente
dall'esercizio della pubblica vita,tornò agli studj non mai interrotti dalla
giovanezza, cercandovi la pace che gli negava l'animo addolorato per le
sventure civili,una nuova occasione ad esercitarvi l'eloquenza muta nel senato
e nel fôro, un mezzo per confortare a virtù le fiacche generazioni, e
arricchire la letteratura della sua patria di questa nuova gloria, sino a quel
tempo non partecipata coi Greci (Tusc., De divin., De off., Ad fam.). Chi
considerasse partitamente un solo di questi fini, senza comprenderli tutti
nell'unità della mente e dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo
compreso; a lui l'inclinazione oratoria e l'amor nazionale porgevano il
pensiero di un nuovo accordo della scienza coll'arte nelle opere di filo sofia,
onde si aprisse questo nuovo campo intentato agli ingegni latini; i mali e le
necessità del suo tempo gli consigliavano le dottrine morali e civili come
riforma dei costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale
insieme congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj
anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale
armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi,
è notevole in Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero
ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più
è affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza
colle ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che
si crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima
del conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano
i fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle
sue dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna
contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che Ritter e Bernhardy
han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena
lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della
filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al
punto in cui concepisce chiaro l'ordine scienziale. Il primo e più
notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina,
si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ
philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina
philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva
in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e
nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e
ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten
sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo
studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e civile. (V.Hort., fram.,e
specialmente il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia) Ora siffatto concetto
involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita
l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio
d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel
principio regolatore risiede; e poi perchè il vero relative alla vita,sebbene
manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più
affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè
stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a
tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella
coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo
d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico;
la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento
logico degli scritti morali. Dove si scorge com'egli procedendo di passo in
passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava
nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di
relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che
intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed uomo
per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una specie
d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i non
dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi
s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e
Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui
Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili
antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora
soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della
Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul
dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal
soggetto,disputata a lungo dai critici e storici della Filosofia,
durante il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore
dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente
le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come
seguace della Nuova Acca demia, ponesse il dubbio universale a fondamento di scienza.
Così opinò Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono Brucker, Degerando
e Bernhardy. Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica
che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o
rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare
quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo
semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie
fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi
Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene
dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la
possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del
come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi
assoluto d'Arcesilao e di Carneade. L’alemanno mostra invece con maggior verità
come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo
inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio
ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma
ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj
sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei
libri morali come a quel precetto apparentemente negativo dinon cercare che il probabile,edirattenerel'assenso,con
trapponga sempre, ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del
conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso
placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e
miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato
delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e
sistematico, il dubbio di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva
nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza. Egli,prima
d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e
quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per
inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato,
e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria, non priva
d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico
apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi
attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti
che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. “Nam quum animus
cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque
discesserit, volupta sed Delphico deo tribueretur. Nam
quiseipsenorit,primum. A questo proposito ci giova riferire le sue parole tolte
da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi, dove egli stesso in propria
persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. Ita fit (così il
testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia
riveduta da Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore
Græco verbo “philosophia” nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius,
nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos
quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet
ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini
cuipiam, aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut
simulacrum aliquod dedicatum putabit, tantoque munere deorum semper dignum
aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque
temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit
quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damque sapientiam, quoniam
principiorerumomnium quasi adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit,
quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se
beatum fore temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, omnem que mortis
dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis,
omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem
su sceperit, et exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda
et reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid
eo dici aut cogitari poterit beatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque
omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo
obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit,
ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius
circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit, in
hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ, diimmortales,
quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi
ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc
omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi
iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et
quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit,
non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius
perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m
probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et
laudis apte ad persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a
flagitio, con solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa
pientium cum improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint,
quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum
parens est educatrixque sapientia. De
Leg. Qui s'espone a dettatura del nostro filosofo il suo metodo
dell'osservazione interiore induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di
Socrate e di Platone, e si continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le
scuole m i gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò
che antecede; 2o ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. Lo stato
che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e
speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar
cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel
sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e
all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno
stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de
principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio,
capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia
pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma
speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla
zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo
purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita
civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo
rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa
rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e
d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è
prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato
dalcuore (animo acmente) ravvisi nell'intellezione prima (adumbrata
intelligentia), un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. Ciò posto,
si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza
interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e
conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co
noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di
necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo
alla notizia di sè stesso e del mondo, notizia comprensiva ed universale che lo
palesa inferiore soltanto a Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino
dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen dono due
dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro: la
eloquenza civile e l'arte dello stato. Tali erano per CICERONE i fondamenti, ed
il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente
della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi
Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano,sentiva
l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore che tende
al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali anch'esse;
e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio
dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off); e contro gli Epicurei fa valere
gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e ne'Tuscul.e
quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni umane e
divine. Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a
dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice ne' Paradossi
contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che partorisce copia
di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen sardellagente.» (Proem.)
E nelleseguentiparolede' Tu scolani si vede com’ei raccogliesse,di mezzo alle
opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi e le divine;« Inol
tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im mortalità dell'anima)
possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e suole valere moltissimo
(in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum ); e prima, di tutta
l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era presso all'origine
divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse discerneva la verità.»
(Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce appunto Ferecide,come
antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con quella di Pitagora e
de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù
che niun altro paresse dotto. E dice più oltre che, secondo Pla
tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione degli dèi: «
Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut Plato ait,donum,
ut ego, inventio deorum? » Nel che s'accenna il principio divino della Sapienza
e della tradizione.(Conti, St. della Filo sofia) Se per ciò che risguarda i
principj e i fondamenti della filosofia egli mosse direttamente da Socrate
affer mando la chiarezza naturale del soggetto scientifico,e l'efficacia della
conoscenza, quanto poi al metodo più propriamente detto, indagatore dei veri
particolari, fu se guace, o come ci dice egli stesso,restauratore della Nuova
Accademia (deserte discipline et iam pridem relicte ), restaurazione che, a mio
parere, può e debbe chiamarsi una vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao
e di Carneade tralignava nel dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si
ricongiunse agli scettici dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio
attingendo alle fonti socra tiche si riscontrò nelle tradizioni genuine della
sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando
Galilei tornando al vero metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la
filosofia naturale; più peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al
Liceti,di tutti i peripatetici de'tempi suoi. Riassumendo il tutto in
poche parole, Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di
principj e di metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso
generalissimo della voce sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri
oratorj come un semplice esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come
una dottrina puramente pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro
degli Officj la chiamò con significato più largo: scienza delle cose divine ed
umane e delle loro cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai
filosofi che CICERONE (si veda) diè prova di scarso ingegno speculativo non
componendo le sparse verità in un sistema ordinato. La quale accusa vuol bene
determinarsi; perchè,se con essa si nega che Cicerone aggiungesse
copiose speculazioni alla materia delle dottrine contemporanee, e che
componesse le verità antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un
compiuto e perfetto sistema, ha ragione la critica, m a la critica ha torto,se
vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio
cri terio per l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a
Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro
riformatore; chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi
chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo
corrispondente all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, ma si svolge
nella stessa opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il
concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio
manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei
contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza
umana. Ora si avverta come il considerare in tal modo questa temperata
efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli
altri con un proprio criterio positivo di paragone e di scelta,in contrapposto
alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e
le raguna nella memoria, anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non
seguito fin qui dai prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe
condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra
le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti
delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel
capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione citata. E tale è il
metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole
pel nostro esame. In primo luogo, poichè solo per nostro avviso, il contrapporre
Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza
d'analisi gli abbisognasse per isceverare dalla confusione de'sistemi le verità
principali, chiarirle e ordinarle in forma di scienza, terremo
l'uso d'esporre ogni volta le principali opposizioni de' sistemi, e poi
qual giudizio ne recasse il filosofo latino. In secondo luogo avremo questo a
principio di critica, notato da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono
per la m a s sima parte dispute scritte, e, come tali, ritraggono nei varj
personaggj il conflitto delle opinioni, e le nature differenti
degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza quando egli riferisce
la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli stesso prende parte
al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una m a
teria,oquandosoltantol'accenna (V.Degerando, Brucker, Kuehner, Middleton.)
Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come
una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a
misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed
è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà
ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un
aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da
cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di filosofia,
che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni Oeconomica
Xenophontis,Protagoras ex Platone, Timæus de Universo (trad., come app. dal
proem., dopo gl’Accademici; i libri vriginali, Hortensius de
philosophia,Consolatio de luctu minuendo (scritta poco prima dei Tuscolani), De
Gloria, Commentarius de virtutibus,Cato,sivelausM. Catonis, Deiure civili in
urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi
tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica, De
legibus(composti dopo il De republica), Paradoxa,Academicorum (ne fece due
edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima
c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709), De finibus
bonorum et malorum; Tusculanarum disputationum (compiti avanti la morte di
Cesare), De natura Deorum, De Divinatione, De fato, De officiis, Cato major de
senectute, Lelius de amicitia (scritto dopo il Catone maggiore av.gliOfficj); furono
variamente distinti dai critici secondo la loro materia e la forma. Ritter li
distinse in riposti ed in popolari, clistinzione che più esattamente potrebbe
ridursi all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri Accademici, de'Fini,
delle Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi
discusso tra i critici sulle dale dei libri di Cicerone.Cilusa principale del
dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita
dell'Autore. Forsyth lo dice nato il 3 di gennaio, ma aggiunge in nota a p. 2,
che, secondo il calendario Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre. In questo
anno pongono la sua nascita Middleton, Kuehner ed altri autori meno
recenti;onde seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De
consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, e le opere
De Natura deorum, De Divinatione, De Fato, De Offi riis, Cato Vajor e Lælius;
il Forsyth e l'edizione di Lipsia (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e
dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque trattati. Noi stiam o col critico di
Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del
resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e
De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De
politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wirceb.), stabilisce avervi
speso Cicerone oltre a dieci anni, Questa ed altre molte dis sertazioni di
critici tedeschi e francesi, citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia
dell'illustre Vannucci, a cui rendiamo pubblica testimonianza di
gratitudine. un fine pratico,ad esempio gli Officj, dell'Amicizia, i Para
dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi abbiam seguito l'altra distinzione più
principale, ammessa da tutti icri tici, e che fino a un certo punto concilia
l'ordine logico o sistematico o tematico dei libri coll'ordine di tempo, tra le opere
fisiche – filosofia naturalis -- De natura Deorum, De divinatione, De fato, e
il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche -- Academicorum, Topica, De
inventione, etc. --, le morali – De finibus,Tusculanarum, Paradoxa, De legibus,
De officiis, De republica, De senectute, De amicitia). Avvertendo che la distinzione
non siprenda troppo assoluta, ma che si guardi alla qualità che prevale. Fonti
secondarj, ma dausarsiconmolto riserbo, sono,secondo nota opportunamente
Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e noi vi
aggiungiamo le opere rettoriche, segnatamente il De Oratore e l'Orator. La
distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto
della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina
mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi
teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj
generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. Il prendere
ad esame con quella larghezza e diligenza,che è necessaria alla critica istorica,
le varie parti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non
ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze scientifiche;
perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si trovi
nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg gere
alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da
Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m
a altresì quella riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva
nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri
sono, come ben nota Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di
collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione
morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più
vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il
suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato,
dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione
ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo
esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il
pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la
scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere
l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale,
sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstesso in
attinenza colle cose con Dio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera
dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo,
considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in
sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la
cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di
Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella
Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale
contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione
esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione
intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane,
e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli
Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava
occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della
riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj
l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva
sempre più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la
psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente
collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato
rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano
sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia,
dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore
o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle
sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva
di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti. Due
fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il
dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza
dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle
idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta
coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il
mondo si pensa non più finito e tem poraneo, ma infinito ed eterno, e animata
la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la
fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle
Pittagoriche, nelle Eleatiche, in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del
medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia
esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre la fisica superioreeledottrinesuDio,
sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi
prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi
dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima corruzione la Gentilità, si rinnovarono
esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle
scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione
di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine
degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia
delle sette contemporanee nelle tre parti della scienza,e volendo
mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbio dellaNuova
Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad.) Da quel
luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italico spingendo all'eccesso
l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean
con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle
loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a
sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole
pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le
differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli
Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il
presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando
l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei
particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli
rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre
Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava
quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle
cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio,
ond'e'consigliavaun più modesto sapere; mostravacome la notizia, che noi
acquistiamo de'corpi, movendo dagl’effetti, non comprende l'intima essenza e
l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e
metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si
manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per
indagare i fondamenti su cui posa laterra. Procedendo di questo passo l'Autore
faceva vedere negli Accademici, nei Tusculani e nel libro della Natura degli
Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla
essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura
e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni
coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza. Nei luoghi
citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il
dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia
seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi,
attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e
dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse
il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella
fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle
teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle
leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti
l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine
loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro
babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto
somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva
lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli
Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta
verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla
Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei
metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza,
professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi
progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si
sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato,
come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si
toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione
importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio
non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi
dal verosimile al certo. Acad .prior.e De repub. M a la prova maggiore si è
che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo
la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio nutrito dall'ingegno potente e
dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde
ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane cose, proviamo
un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso, così
scrive CICERONE (si veda), che sidebbano tor via tali questioni dei fisici;
poichè viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e
contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel
pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo
come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose
grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa
che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che
supremamente è degno dell'uomo.» (Acad.prior., De fin.5). Innamo rato quindi
della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie
grossolane di Democrito e d'Epicuro . De fin. Loda Zenone perchè imitatore
dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (De fin.); e i quesiti
del l a fisica che lo mossero a tradurre il Timeo di Platone, gli avevan det
tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla Repubblica;
il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione. De rep., De fin., Tuscul.
Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi
sopraccitati, e da una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone: 1o che
il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e
dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si
levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da
una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene bre del gentilesimononardisse
determinarle; 2ache,ofosse la dottrina stoica a cui pendeva,o l'indole viva e
meri dionale del suo ingegno, nella natura egli sentiva e rico nosceva il
divino; e tale attinenza sentimentale e logica della sua mente tra ilfinito e
l'infinito,tra il contingente e l'assoluto, tra il temporaneo e
l'eterno gli era scala a pensare la relazione ontologica;e questa poi per abito
alsemipanteismo-dualistico di Platone e degli Stoici lo conduceva probabilmente
a immaginarsi l'intelletto umano emanato da Dio,e Dio e le creature supreme
disgiunte dall'universo de'corpi. In questo metodo che sale per gradi di
verosimiglianza dalla natura al divino, metodo improntato sulle meditazioni
socratiche,sta l'essenza della fisica di Cicerone,e n’escono chiarite e per
ordine le sue dottrine sull'esistenza e natura di Dio, dell'universo e
dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà dell'arbitrio. 2. La dottrina
sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo luogo nella fisica di Cicerone.La
causa di questo primato apparisce evidente innanzi tutto per la sovranità
incontestata dell'idea di Dio nella scienza. Dio, oggetto necessario e reale
assoluto ed eterno che si manifesta come prima causa al di fuori di sè stesso
nell'universo degli enti, e li governa volgendoli ad un fine immortale, che ne
è prima legge, in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo
degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine
scienziale; e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia
principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che
i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son
centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo
quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il
primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a
ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata
da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor
relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile
efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unità assolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone
dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono
insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai
provata dal metodo di Socrate, che movendo dalla coscienza produsse in
Platone una compiuta armonia di sistema, e aiuto il filosofo latino,
venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di
dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie
e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato.
Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale fosse il pensiero dell'oratore
latino intorno a Dio.Se dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere,
dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di questi passi tra
loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure larispostach'egli dell'esistenzadiDio,diquelladell'anima
e sua immortalità, della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e
soltanto accoglieva una più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la
natura; e il suo criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo
intuito e un sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose
palesata internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi
di universale consenso. (Kuehner. Scholten, Dissertatio philosophico-critica de philosophiæ
ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed. In questo criterioioravvisoil riformatore
e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha di più vivo
e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali, il filosofo,
perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma con
deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole natura
dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna d'es
sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra iquali
anche Ritter,considerando ilmodo ora dubitativo, oradommaticoconcui Cicerone si
esprimeinsif fatta dottrina, ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli
altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa
parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa
riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj
scientifici. (Ritter, Hist., Brucker, Degerando.) Ma questi storici non
hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di sfrenate
passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali ogni fon
damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il sublime
ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno. Allora la voce del
senso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava
nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni
primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione
scientifica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con
notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi
sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse
voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che
cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e
nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali
dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai
ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare
che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e
metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen
tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee, nèintendiamo
ch'e'fossesì fortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della
coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della
natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m
m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e
schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente
supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono
proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non
sempre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome
e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese
dall'ateismo; redi Bayle, Diz. Art. Spinoza). E veramente la
conclusione Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D
e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato. Or qual
eraquelfine? Chiamare scenderebbe di necessità dai principj, quando si
potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel
medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della
scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino di progressivo svolgimento nella
età dellastoria; e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse
sempre una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. Ma la cosa
procede ben altri menti; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi
seguaci d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un
prodotto spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza
rischio di contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma
logicale e il fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a
quel de'moderni notevolmente imperfetto; d'altra parte il filosofo del
Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le
tradizioni e le verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del
Verbo quelle tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non
può non ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle
dottrine gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai
filosofi Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele
l'ignoranza, l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime
della scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al
lettore di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti
d'idee e d'espressioni il con cetto di Dio; anzi dirò di più che tal concetto
in parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più
assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale
indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione
sempre m a g giore di quel concetto divino. ad esame le principali
opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le
loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente
occasione e pericolo di scetticismo. Con questo intendimento venuto egli ad
esporre l'occasione del dialogo, racconta come essendo stato invi tato nel
tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e
suo familiare e trovatolo insieme con C. Vellejo, che allora avevavoced'esserein
Roma ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo, stoico da paragonarsi ai più
prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della
natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali; vale a
dire: se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero
nelle cose del mondo e degliuomini. La qual spar tizione è conservata in
appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle
risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta
entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i
libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione
viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici,
contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede
quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è
fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le
speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature,
pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente
senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto;
il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il
Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra
dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltiplicando il divino,
l'annienta; il materialista e l'idealista l’un o affogato nel senso, l'altro
confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si vedevano dileguare il
concetto di Dio tra i fenomeni della materia, o lo perdevano di vista
nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano a n e garlo,perchè
sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non affermata per difetto
di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile dell'errore che
Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con lo stoico, e
sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero
quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera
vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel
discorso di Vellejo. Po neva egli come certo che gli Dei sono,perchè la natura
avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata notizia (apódnbev),e ne
accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli eterni e perfettissimi e
conformati a si militudine umana,ma non da materia corporea e sensi bile,bensì
da un fortuito accozzo d'immagini simili rin novantisi all'infinito (imaginibus
similitudine et transi tione perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva
beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora
è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di
Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile
coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si
levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte, ammettevano
contenuta nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura,
divisibile, capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola
all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e
m o vevano per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai
prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano.
Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va
dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti
dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della
Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Crisippo, ci si presenta la
questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero
pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto
la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono
risolutamente, alcuni più recenti come Scholten, Kuehner e Ritter, con qualche
riserbo. Ma sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza comprenderlo
a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati dal concetto
che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del
De natura Deorum, partecipassequividel tutto il dubbio fon damentale e
sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava
invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente il
complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche
frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti
col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da
prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme
dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli
si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei
fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio della
Nuova Accademia, moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi
contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta
affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao,
più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie
opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio
fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da
Carneade, doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche
tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos
sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra
implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa
contradizione, non però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente
nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone
che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi
sostiene la parte di con futatorecol metodo della NuovaAccademia, è dato occa
sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni,
raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A
persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva
celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè
stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio
veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che,
sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso
all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone
possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè
egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci
dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione
potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo;
e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile
del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza
sui fondamenti della certezza morale. Il dubbio di CICERONE (si veda) nel libro
De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già
possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza
scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia,
quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime
conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e
metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il
quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le
potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del
senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice evidenza. Questa è la
ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed
agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune. Ora
siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento
di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per
tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e
conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica
de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova
Accademia, non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si
avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con
tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa
all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di
necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato,
allora soltanto si dava in essi l'errore. Un tal criterio, sostan zialmente
negativo e relativo,abbisognava (si dirà) diun criterio positivo e assoluto
desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi, su cui posa incardinata la
necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e
ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava
coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.) Un
si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro
Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo
de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di qualche Accademico che
confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella
conclusione del De Natura Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti,
termina dicendo: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo
(Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto
dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei,
mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri
accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e gli opoteva eglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte
quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai
vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la
spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli
Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili
argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio
citato la dignità dell'umana mente, il bisogno innegabile della religione
consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli
affetti dell'animo,isupremi principj della ragione e la libertà del volere (Tusc.,
d e Nat. Deor., De Leg., passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e
perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro
sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi
egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio
scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle
Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema
sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio
provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in
cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal
cielo. De Leg. Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose. Il
vero intendimento di Cicerone nello scrivere il De Natura Deorum fu,esporre e
confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come
istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza
accettarne lo scet ticismo. Cicerone non rappresentò sè stesso nella per sona
di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; Il filosofo
latino volle significare nelle parole del proemio, e della conclusione,e nel
silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un alto concetto,
che quel concetto nella sua mente era certo di certezza naturale, m a che in
mezzo alle tenebre del Ge n tilesimo e alla discordia dei dotti,non ardiva
determinarlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di
scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso
questo concetto. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando
le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue
l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una
possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di
determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene
offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua essenza,
in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale dell'essere, cade
per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze conoscitive,e come tale è
appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di molti finiti nella serie
degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa dalla riflessione, le va
si al concepimento delle cose infinite. Ma il concetto dell'infinito, che è
cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi significati; l'un
significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in ogni sua parte
perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità indetermi nata,e un
mero portato dell'astrazione mentale.Però sebbene un intervallo notevole
disgiunga nell'intelletto del filo sofoe dell'uomo volgareitre concetti del finito,
dell'infinito e del non definito, merita di essere considerata quella ragione
qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi possono scambiarsi
talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della scienza e dalla
pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico, indi al termine
dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine cristiane l'idea
dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa necessariamente
all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente determinato e imper
fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean che necessità
d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto creativo
dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal necessario.Tale è
la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie logica di
concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai primi anni in una
voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio, in un continuo desiderio,che
ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca d'una perfezione
immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei concetti v’ha per
altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene ilsentimento e l'intuito
dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza una segreta unione del
l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e in qualunque modo
s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto infinito ed eternale
del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di somigliante a sè
stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m o menti,è però
assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella potenzialità
indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del concetto
d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi iltempo, lo
spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può facilmente
avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e di mari, o
in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana presenza di
Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi rappresento
quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente continuato,
continuato per una perpetua remozione di limiti che, a dir così,sono e non sono
ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto reale,ed io
penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine d'indefinito.Così
nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen sano l'assoluto i
panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la differenza d'origine dei
tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si domanda ora quanto
all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo l'infinito,se ne togli il
materiale significato della parola, evidentemente nel suo concetto non ha nulla
di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita negli enti la negazione
dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè necessario, non limiti di
tempo, perchè eterno, non limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta
sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa infinita, e perchè dotato
d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè
in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un
lato è negativo nella sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un
che fornito di limiti, dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto
sussistente e determinato; l'indefinito che è propria mente l ' i po y dei
greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere; nell'essenza c o m e astratta potenzialità
del finito, nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai;
e dico che è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito
consiste nell'essere determinato come atto individuo e concreto, l'indefinito
che nega quella indeterminatezza, si riduce ad una pretta astrazione mentale e
per ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto
d'indefinito, cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante
nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la
divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che
nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono
scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che
nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia
agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia
dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose
ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando
dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i
filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto
dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non
escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero
in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale
il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore. Ma
tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i
pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito.
C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la
parte più negativa, tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione
confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne
avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine
s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima
considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa
teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli
della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli
della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di
Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti
dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la
materia contenga un intendimento morale, l'essenza di quelle dottrine si ri
connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di
tutti isistemi gentili, per quanto con nessi consottilissime prove, eanimatidaun
intimo principio diidealità, si annidava pur sempre una ragione dimateria
lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran
formati dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei
fenomeni della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle
altezze più metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj,
considerando in tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la
prima causa del l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten
zione al moto, e perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le
trasformazioni della natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la
causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice
delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della
materia,dall'una sostanza e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi
panteisti e semipanteisti, e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto
di forza (Büchner, Forza e Materia ); applicate poi questo concetto delle forze
particolari all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui
segua necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di
Capila, degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel
suo fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso
la riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di
cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima
cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m
a nifesta efficacia, l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta
a concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad
immagine dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente
col l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di
movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica, apparisce chiaro
quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile
che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e
la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo
in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus
animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il
modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e
finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col
l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale
l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad
altre,senzaorigine essa stessa e perciò senza fine. De Rep., e Tusc. Questa è
la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo
nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo
la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove
orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che
contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni
disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima
mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi
volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e spiegare
coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente negando
al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di
Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la
notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e
rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee
riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; uomo, è il divino esso pure
che governa e muove il corpo come il divino principe, l'universo;sempiterno,immortale,
rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora
celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà
eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le
remi niscenze di Platone e degli Stoici; ma degli Stoici v'è poco; laonde io
non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul
concetto della spiritualità divina (Hist. de la phil. anc.); perchè, sebbene CICERONE
(si veda) volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori
romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla
tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una
idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo
si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima
universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto
Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi
viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.» (Ritter,
Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia,
acutamente accennata l'opinione contraria.) inadeguata, io dico, perchè
l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non
può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia
il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in
quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal
ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce
incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il
sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È
questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso
dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo
vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno fra
gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi libri
popolari e speculativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del
l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene
alla sua pienezza nelle dottrine morali. Un primo passo di questa ardita
speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico
e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a
paragonarle tra loro e a combatterle con ogni argomento,non sa affermar che ben
poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo
nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si
determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine
platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle
Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione
intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel
l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il
metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico
del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima
umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si
dimostra movendo dalla tra dal dizione degli antichi, tradizione efficace
quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è
legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie,
negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli
uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama
con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui
efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la
condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e
contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea, affermava
con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo,
che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo
ond'ella è discesa. In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra
gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato il vero
senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non
percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del
conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante; onde,sebbenetra
cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre,
scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza,
e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno, di Democrito e d'Epicuro,
quando se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto
spirituale. Concedansi queste incertezze, da cui non anda assoluto neanche
Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti
principj si leva il filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto
inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da
ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un
carcere; colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal
sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il
noto argomento platonico tolto dall'eternità de'principj motori, e chiama
plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone
anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli
eterni esemplari. Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la
incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che
proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte
nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti
interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali;
e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter
concepire l'essenza dell'anima separata dal
corpo,essiche pur tanto poco conoscevano dell'initimo operare della
materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della
Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de principj fosse mantenuta
nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano chiamarsi seguaci delle
discipline speculativ e. (Tusc., Cf. Cato M., de Am. Meditando i capitoli della
Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e
qualche squarcio delle Orazioni (Miloniana), si vede in tutta la psicologia del
nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante
dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota
importante di questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto
avere Cicerone desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle
perfezioni di Dio dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano,
apparisce invece in più luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di
Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e
certezza al concetto positivo dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di
dubitare della semplicità e immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza
di Dio e delle sue perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima
umana,egli diceva nel De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su
questa terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di concreto o di
terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali sostanze non
sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in
loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m prendere il
presente; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono in guisa
alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura dell'anima è
perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite nature
distinta; talchè, qualunque esso sia, ciò che in noi sente e gusta,vive e si
muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio
stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente
liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni
cosa, e sè stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa
natura è l'anima umana.» Con queste parole conchiude Cicerone nel primo dei Tu
sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile per
lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi
abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello,
levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e
indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del
teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le
game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle
cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica
del concetto, sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle
Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci
hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente
l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni
andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da
certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e
la ventunesima del libro VI, ad Diversos)de Principio etherio
flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque
divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat,
Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul. De Divin. dussero
ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente Gautier de
Sibert nell'Accademia di Francia,e Kuehner piùtardilo confermava.Delresto per
ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più
dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario, immutabile,e
qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal
corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò
non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es
essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle
altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i
suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re
pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse
nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure
civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle
libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della
vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia:
Oratornandoalla dottrinateologica, questosegregare la mente dell'uomo da ogni
natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è
già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura
materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata
una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M.
Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare
sipossano arrecare due cause;l'una comune alla legge con cui si svolgono isistemifilosoficinella
storia,l'altra ristretta particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla
prima causa,se ricordiamo ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo
da sè stesso conce pisce nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e
l'anima lungo la serie delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più
vicina a sè stessa,immagina la divina causalità, intenderemo come fra le
contradizioni del panteismo quella che subito si porgeva più chiara alla
riflessione esaminatrice,fosse la medesimezza dell'anima e di Dio infi
niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione
uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del
corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in
fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di
Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini
sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè
innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava
vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle
scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano
ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali
della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed
opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei
più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione
del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola
socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur
necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul
come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo
coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete
immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n
tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto
d'attinenza creatrice.(Vedi Platone, Sofi sta.) Quindi la mente desaggj
ondeggiava di continuo da un termine all'altro di quella contradizione
immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire del filosofo
latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori
quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la
causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi
soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione
che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche in
parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della
differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla
dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del
dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e
le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel
libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo
il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle
cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto
misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo
comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con Platone
emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del l'uomo,identica
colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e l'imputazione morale,è
quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua dottrina fisica del dualismo
non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte ne’libri che esaminiamo al
presente, ma più ne'morali, s'incontrano affermazioni decise e ben ragionate
sulla provvidenza di Dio e la libertà dell'essere umano. (De Leg., Fin., Tusc.,
N. D., Catil., pro Marcello, ad Att., ad Div. Certo s'egli non fosse nato
nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della
creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle
maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle età
trapassate, (Conf.) ha tratto dalla notizia di Dio creatore un concetto
chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu
rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che
congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma Cicerone, come tutti
igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene proposta alla mente dei
filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra
un frammento del libro terzo De Natura Deorum, conservatocidaLattanzionellibro
secon do,c.8 delle Istituzioni divine. Esclusa la teorica del congiungimento
tra l'infinito eilfinito perattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che
due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta
separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal
relativo. Ma la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre
all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte
accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno
de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole
pratica e positiva del politico e del cittadino; laonde egli la c o m battè
acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici
sulla divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva
dalle premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo
daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab
eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo,
che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella
natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione
de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si
trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della
propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di CICERONE
(si veda) nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro
secondo; e quel dialogo è di somma importanza nella storia delle credenze umane,perchè
trattando la gran questione del soprannaturale agitata ai tempi di
Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso degli animi,sospesi
nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la rovina del
politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione tra
l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata
nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un
dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio, console, scritto, insieme coi due libri della
Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la
libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare
le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo
dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile, menava al
lora (come oggi) alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato
(detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di
forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto
in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che da
questa dottrina condotta alle ultime conseguenze,
uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era
alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini
soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter
minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo
Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di
cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine naturale
si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da questi
errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa. Che cos'è
la libera volontà? salità poi non dee intendersi costituita dalla pura e
semplice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita coll'efficienza
degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano
controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa; lacail Stoici
dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause
antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge
della n a tura dall'operare dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o
non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una
consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed
antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli
animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè
la causa di tutto ciò è la sua stessa natura. Non ci è permesso riferire qual
fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè il libro De
Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la
fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si
apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente
e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine
sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone. Nelle
quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi
contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione
sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te
nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della
scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie
contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro
eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano
il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e
questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana,
come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni
eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di
Socrate,e sciolto,per quanto erapossibileallora, dallecondizionielimitazionidell'uomo,
la natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di
abbattimento morale e di costumi nefandi. Su questi principj fondava
l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene Vannucci) «
nella Divinazione ed altrove, allontanandosi dalle forme timide della Nuova
Accademia con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da
arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e
mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle
imposture sacerdotali; » Senatore e console di Roma, egli voleva una fede
ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse vero
fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come
affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa
nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto
scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di
veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto
scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere,
o della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica
dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a
n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa, ha
la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico fonte,
rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare; l'ha
nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice
aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato
nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia
apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le
questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj
della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini. È un fatto omai noto nella
storia della filosofia come il quesito fondamentale della logica, qual sia
la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le leggi
del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli gente
all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito contenuto ab
antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua vera
espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì noto
ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono due
scuole; il Criticismo francese e alemanno, e il Criticismo cristiano, che
cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a
fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse
sostanzialmente nei principj ontologici del sistema, dissentono pure nella
logica. La prima desumendo le sue dottrine dal panteismo e dualismo antico,
resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del
Gentilesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura
intercede tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e l'oggetto, e
quell'attinenza ode naturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza, o
riduce a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua
litàdell'esteso elequalità del pensiero, d'onde il sistema delle cause
occasionali del Malebranche, quello dell'armonia prestabilita del Leibnitz e lo
scetticismo di Bayle e Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la
libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione
di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con
sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima
essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione
d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella
cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la
realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti
creati. Or che si deduce da ciò? Che se il principio del Criticismo, ond'è
ridotto a problema il teorema della conoscenza, ha un intimo riscontro nei
fondamenti della dottrina dell'essere, ei si. Ma qui cade per altro una
considerazione importante. Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai
fonda menti la dottrina della conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è
manifestativo il pensiero, o affermando un'incomunicabilità primordiale tra
ilsenso e la materia, principio di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito
eterno emanato da Dio, non negavano per anco esplicitamente nè l'un termine nè
l'altro dell'attinenza conoscitiva;e quando in un sistema, sia pur guasta e
corrotta,sia pure implicitamente negata,siconserva nell'intimo significato
delle dottrine la piena comprensione del soggetto su cui cadelascienza, qualunquedisputaintornoaiprincipalipro
blemi si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione
esaminatrice. Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e
idealismo, negando due parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea
manifestante, causa e mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine
della cognizione, si chiudono la via ad affermare intera la notizia dell'essere
umano, denaturano il legame che intercede tra l'ideale e il reale, e rendono
impossibile la psicologia, ingannatrice la logica. Un breveaccenno di questa
legge necessaria che si riscontra nella storia delle controversie filosofiche,
l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei sistemi principali che
apparvero dal primo scadere della scuola socratica fino ai tempi dell'Arpinate;
allora fu osservato da noi come a n dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre
maggiore dei veri principali e delle antichissime tradizioni l'impoverire della
forma logicale dei sistemi,e come l'ultimo grado di questo scadimento fosse
segnato dal sistema d'Epicuro, e dalle dottrine logiche della Nuova Accademia. Ora
poi stemi che alterarono questa dottrina sono contemporanei ai primordj
della filosofia, antichissimo deve essere il fon damento del Criticismo; e ne
sono testimonj le più strane teoriche sul modo del conoscimento procedenti
dalla fisica de'sistemid'India, d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di
Capila, gl'idoletti di Democrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di
Lucrezio. ci sia permesso venire su questo proposito a maggior
particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di Tullio dove conviene
esaminare la controversia tra gli Stoici e l’Accademia sulle dottrine del
conosci mento,rappresentatada luineilibri Accademici, importa massimamente il
notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema
fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come
dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il
quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il
principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito,
il sistema d'Epicuro e le dottrine dell’Accademia, non che lo scetti cismo e
l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco, che
non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con
quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano
abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava
nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e
vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due
aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità
primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta
e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin
cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La
sostanza prima, distinta allora in un'anima e in un corpo universali, causa
delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che
rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed
inanimate le fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla
natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella
sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il
corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo
principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici
dall'unità dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale,
il pensiero cogl’oggetti, l'intendimento col senso. Considerato
inquestegeneralità il sistema di Zenoneabbraccia tutto intero il complesso dei
veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni
ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno
fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi, il divino e materia,
anima e corpo,intelletto e senso, pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e
siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia.
Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice
che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia,
concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima
energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa
dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta
in quella forza primitiva e in Dio stesso, che la pone in atto, le qualità
corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di
materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge
necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se
ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a
maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il
sensismo in psicologia; quindi, già lo accennammo, alterato il vero concettodi
potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci
viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è
l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del
l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi
le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del
soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici, si nascondeva per fermo
una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa
considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui
restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era
facile a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual
che cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio essere
in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali, ti
doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile, oscuro e
sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce
dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del falso,
facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati della p
o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre
difetto) germinava quello dell’Accademia. Chè, se fu cattivo abito della
riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni
materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo
nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu
pessimo nella Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto
all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi
nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero vuoto, fenomenale,
apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento. Quindi a una
negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi, la
polemica tra gli Stoici e la Accademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a
mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea
ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo
aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti
veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva. 94
Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli
Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del
primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una
semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta
in fondo la lotta di tutti i tempi tra il dommatismo inconseguente e lo
scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af
fermative con altre assolutamente inquisitive era, come dei nostri,
un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei
quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice,
dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e
imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo
erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano
bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici
quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto
facili ai propositi gene rosi,quanto
difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza; politici predicanti la
severità antica nelle m o l lezze moderne; uomini a cui mancava la lena di
levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel
vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie
d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a
contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del
difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra
con animo non preoccupato, e poi non imiti Cousin, che dall'accozzo fortuito
degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da
brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di compirle ambedue colla
pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle
t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la
luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come
avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio,
Catulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e CICERONE (si veda).
Lucullo sostiene le parti d'Antioco, del Portico, contro Filone,
dell’Accademia. Tullio quelle di Filone contro Antioco. Or qual era il
principio da cui moveva, e quali i punti più segnalati in cui si spartiva il
ragiona mento? Qui occorre ridurci a memoria un'importante osser vazione del
Ritter. Il quale nella sua Storia della filosofia antica, tenendo dietro
all'indirizzo che la dottrina sulle fonti del conoscimento avea preso da
Aristotele in poi, quando nota la differenza segnalata che correva tra gli
Stoici e il filosofo di Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma
senza negare il resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove
gli Stoici, più vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in
più il pensiero razionale alla sensazione concependolo solo come una sua
conseguenza e trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi
difficoltà, le quali si opponevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si
rias sume intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero. Ritter.
L'osservazione di Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che
trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo
artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte
che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio
del l'età e il decadimento della forma e della materia scienti fica li
inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la
scienza; dall'altro la tradi zione socratica e la voce non muta del senso
comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà
dell'animo e i termini loro, e a rendere possibilmente perfetta la forma
scienziale; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare
continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora
che ne veniva da ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano
l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi
sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione, fondamenti primi di
tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del
conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella
rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn), ch'è un patire
dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito,
dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione
ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui, giova il ripeterlo, stave la fallacia
dell'argomento; gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la
pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non
negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa
come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza
di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione,
l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione
di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi
de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà
conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e
d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego
agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza
intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una
condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e
dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della
scienza.Ma il fato della logica non's'arrestava; e gli Stoici ristretti in tal
modo nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo
sguardo alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede
vano l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la mutabilità
e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero contenuta negli
universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza. Quindi proveniva
il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e da principj
indubitabili ed evidenti -- Acad. Quindi la necessità di mostrare,primo, come
si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera; secondo, come
movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente stessa che è
fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale energia per cui
tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons est,atque etiam
ipsa sensus est,naturalem vim habeat quam intendita deaquibus movetur. Da
questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici, [La prima parte
cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi
segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova
Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa
nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi
l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del
soggetto conoscitore. Posta in tal modo la questione, è chiaro che poichè il
mezzo di passaggio del vero conosciuto dalla cosa, occasione del sentimento, alle
potenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a
provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei
sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il
giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj
intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè:,dato che i sensi siano
sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso
coll'esercizio e coll'arte aumentarne mirabilmente la forza, il senso è dimostratovero
ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso
somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via
ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti
i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la
teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io,
diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile,
questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. Ma Filone
invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità
del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto,
poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna
cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i
giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione
de'sensi, dal germe del conoscimento spunta 98 il ragionamento d’Antioco
si dirama in due capi: della percezione e dell'assenso. Il ragionamento di
Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove
l'umano intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle
contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è
uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi
n'ha seguito con gioja confidente il cammino, se poi si volge ad aspettare la
risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli
stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per
aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di
scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si fonda in
special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè
sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al
sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di
verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti. Cicerone non sostiene
egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine
stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere
seguace della riforma il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi
negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto
appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà
naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter
mine dell'apprensione intellettuale, perchè ilconoscimento coglie di sua natura
l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento, lanegazione
dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento.
Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè
una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura,
ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui
vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo
stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge
a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»). introdotta
da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai
Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non
han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della
filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia,
s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo
scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine
contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque
Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica, seguitò il dubbio dell’Accademia.(Brucker,
Degerando, Bernhardy, Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel
cap.I di questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi
del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da
tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in
persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai
sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio
sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica
contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine
esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin
da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che
rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le
affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti
della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso
principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico
fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col
genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa
della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e
solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di
que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle
consuetudini; bisogna immaginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti
e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle
contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore
della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio
irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi
tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella
morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno
davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci
duole a confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie
opere, ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che
forse non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della
dialettica di CICERONE (si veda), sebbene non n e ghi che il filosofo latino si
leva al concetto dei principj e delle idee universali, cardine
dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare
importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui
laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza,
e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti. Hist. Ma inprimo luogo, oltrechè
Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un
qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato
essenzialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto
spirituale col vero -- De Fin. -- è poi esattaabbastanza l'asserzione di Ritter,
checioèiprincipj fondamentali della sua filosofia naturale lo conducessero alle
dottrine logiche per via della sensibilità? Sefosselecito affermare risoluto
contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause, intrinseca
l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con
clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointanta corruzionedi
tempi) aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in
mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e
sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il dualismo semipanteistico da
un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano
agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali,
segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere
nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti
secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e
da Tullio,rompeva l'attinenza tra il pensiero e I pensati, tra l'ideale e il
reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli
universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal
porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo
prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle
scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia
de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di
principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua
psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo
al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo
risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun
emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un
gastigo. (Tuscul., De Leg., De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa
estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento
prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli
Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava
colla moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero
forse condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro
acume di logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli
avversarj. Qual era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la
conosciamo;era l'eterna differenza che corre tra il sentimento mutabile e
fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza. Questa necessità
sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici
dal porre ch'essi face vano il conoscimento scientifico nel possesso delle
idee pure, e nel rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a
cui lo spirito umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015
– “adsentio” -- e della 2.zténnyes – “comprehension” --, movendo come da suo
principio dalla suurusis, o rappresentazione sensibile – il “visum”. (Ritter; Cic.,Acad.).
Ma, seconsideriamo meglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa
e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una
differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni
animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al
soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il
conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che
ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni
resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi
l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la
potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal
contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali
ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle
contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure
implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del
concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non
rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla
indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale indubitabilità?
Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo della questione
sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta necessariamente la
vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia; perchè, come os serva il Ritter,
i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per quella forza interna
dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la sensazione,e pel bisogno
d'ammettere qual termine della facoltà intellettiva e appetitiva il vero ed il
bene; laddove gli Stoici susseguenti, al numero de'quali appartiene
Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle
ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella
rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un
obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una grave difficoltà
rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Crisippo.
Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere
quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo
ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di
quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò
unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la
rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità
dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto
qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di
ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n
sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del
senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo
stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi
si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi
bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle
potenze spirituali. Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special
facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che
mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti,
vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di
ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di
natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col
pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda
armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità
nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile [Il sistema
cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo
ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia
del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello
scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le
attinenze dell'umano pensiero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente
serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane apparenze quasi
dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti
fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno
di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del
Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare
cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce
lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e il termine
materiale? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo
più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento
doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del
senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della
dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò, nota bene Cicerone, essi furono assai
meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data
unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare la certezza delle
umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del fenomeno
sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come
veretutte le percezioni, ma solo quelle che presentavano in sè l'evidenza della
cosa percetta, nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria
dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui resultamenti del senso, si
chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni
dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro
gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei
ragionamenti sofistici. Acad. -- germi immortali di vero che il filosofo romano
seppe raccorre con rara indagine scientifica nel suo tentativo di conciliare le
scuole greche,producessero una vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di
una dottrina rin novatrice. Nel libro Contra Academicos Agostino serba a un di
presso lo stesso ordine della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move
dagli stessi principj, ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di
insolito, d'efficace, d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione
nuova tu lo senti là dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai
all'eleganza tulliana, ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del
parlare improvviso, quanto nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo
iparticolari, dove facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia
nell'evidenza de'principj s u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da
Sant'Agostino non calzava agli Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e
reale attività dello spirito distinta dal senso e capace di rettificarne
gl'inganni, non potevano rinvenire nell'essere stesso della percezione segni
indubitati ch'ella fosse verace; e il loro concettualismo non li lasciava af
fermare contro il dubbio aceennato dalla Accademia sulla validità del pensiero.
Gli storici della filosofia ci han serbato in fatti memoria di una strana
dottrina degli Stoici procedente del resto dall'intimo del loro sistema e da
quella tendenza dualistica che vi si mesco lava ai principj del panteismo.Qual
era questa dottrina? Gli Stoici ponendo in fisica per un lato la realtà delle
cose nella sostanza corporea, nè per l'altro costretti dalla logica riuscendo a
negare del tutto l'essere delle idee universali, distinsero queste dal reale
corporeo,e ne fecero alcunchè di non reale, ma capace d'essere concepito
dall'intelletto ed espresso in proposizioni (Asztóv). Distingueno quindi due
specie di vero; il sensibile contenuto nelle percezioni de'corpi, e il
pensabile ristretto alle in tellezioni della mente,questo procedente da quello
e a quello correlativo; volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti
la necessità de'principj in cui cade la scienza, nè gli acuti pensatori
s'avvidero che, se l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in
con seguenza ch'ella stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque
conformità tra il concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel
concettualismo rinno vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Accademia
recava alle ultime loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica;
dal principio del sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della
percezione sen sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare
la realtà del pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai
notevole infatti) la dialettica non potere giudicare delle leggi della
geometria,perchè aliene dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro
prie, perchè non può il pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi.
L'argomento è di recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi
iseguaci del Comte, I Positivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze
che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in
sè stesso, e negata la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a
risolvere il problema dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne
che dunque la contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa
ultima conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della
rifles sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di
Conisberga,m a già è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della
Nuova Accademia. Ac. Costituita dunque in questi termini, la controversia sulle
fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo
assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto
dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali
e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito.
Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili
che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les Stoïciens,en admettant la possibilité de saisir quelque
chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir erreur,n'accordaient ce
savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de refuser cette espèce de
savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient dire quel est l'homme
qui est ou qui a été sage; ils regardaient, au contraire, tout le monde comme
insensé, et refusaient en conséquence le savoir véritable à tout le monde. Cicéron
n'aspire pas à un pareil degré de savoir; mais il veut que le non -sage aussi
sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait une per suasion de la vérité des
phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y croir avec une parfaite
certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions sensibles auxquelles nous
pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement notre sens ou notre
esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme parfaitement vraies.Telle
est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas faire disparaître la
différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de tenir quelque chose
pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous n'avons aucun signe
certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir prévenir
l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain en
te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain. C'est
ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour incertain
est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la vraisem
blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils ont
plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence
entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent
pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au
contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans
pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude. On voit bien que
cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la
nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle
n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et
invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre
chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait
de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale. Il
avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux
académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor..) 4. Il fondamento della teoria tulliana sulla
verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero; e qui,
segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato
scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le
cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del
dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica
nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede
illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al
loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata verosimiglianza ne’ casi
particolari, combattè gli uni e gli altri rigettando il dubbio assoluto sui
principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off, De
Div.,De Nat.Deor., Acad. La sua psicologia in quelle parti che si collega alla
logica, sebbene qua e là infetta del dualismo socratico, fa fede com'egli
emendasse il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta
riflessione de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo
induttivo egli moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti
dell'oltre naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o
gnizione dell'animo -- Tuscul. Nell'animo distingueva la ragione dal senso;la
ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel
vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj
dell'anima,le danno di molte cose certa notizia confusa e ammezzata, cheèun
qualche fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia
dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u tabile dei
sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben
guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine
al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi
soltanto può introdursi l'errore. De Leg., Tusc., Ac. Così col metodo induttivo
di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo
d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i
quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata
a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto
è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per
soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano
per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono
signifi cativi, CICERONE (si veda) divide la logica in inventiva e giudica
trice, la prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda
li dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica
Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel
De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele quale più tardisimo dificòne
gli StoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti
romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava
lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce
da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni
Giuseppe Klein. (Bonnae) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta
dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in
questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad
un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude
dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto
aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone
nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio)
di fare un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto
il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici
dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi
averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare
disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e
bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo
passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare
della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle
lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole
del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della
dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di
Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle
scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della
dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e
civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali,
apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra
invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in
generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più
immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero
la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava
a conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e trasmessa
sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno stupendo poema,
se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i principj alle
conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più affettuosa dell'uomo
e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla IV. natura, presupposto
indispensabile della scienza; chè la riflessione posta una volta su quel
cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin
cipali della Filosofia, move dai primordj della vita vege tativa e animale, manifestati
nella puerizia dai sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su su agli inizj
della vita razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo splen dore
della conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello ed al
bene; in quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato come
qualcosa onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles sione al
concetto di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo
dell'intelletto indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj
naturali, bene, fine, legge; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra
loro nell'armonia della coscienza, costituiscono l'ordito dell'Etica, allaquale,
considerata per questo rispetto come scienza direttrice della più nobile parte
dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici della filosofia. La
Fisica, come la intendeno gl’antichi, la quale meditando il principio primo
dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che
nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli
enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione immortale, appresa
confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature. La Logica, perchè
trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla
ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti
della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi
conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti
eminentemente morali in quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le
cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di
cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della loro natura; dal
l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e
d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la sanzione di quella
legge,la quale osservando si sente capace d’immortali destini. Così
l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius di natura si
appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius
civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra scienza
meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci
vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento
nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da
tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che
umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento
vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè
dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura
dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto
più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e
di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura in telligibile e
sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della
provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se
ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla
psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei diritti; le scienze politiche
e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il che è tanto vero, che quel
tendere continuo dalle miserie di nostra natura all'i m mortale, all'assoluto,
all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini arcane onde move un'aura
d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana respira,sono ormai più che quat
tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino, e dalle let tere di san Girolamo
in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle sublimi
fantasie di Serbatti. Considerate le quali cose, se alcuno mi domandasse onde
accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca dere di costumi e di scienza,
riconobbe più volte, senza pur cadere in errori sostanzialissimi,le principali
verità della morale,di che abbiamo esempj segnalati nelle Indie, in Magna
Grecia e soprattutto nelle scuole socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per
risposta la vivezza delle umane tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger
minando da naturaciportano inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della
socievolezza e l'amore per gli enti della medesima specie, che essendo un vivo
bisogno dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli affetti do
mestici e civili, e infine la notevole differenza che corre fra l'apprensione
astratta del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde spesso il filosofo
discorda dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella fanno a m mutolire
coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente
inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava nell'amore del bello e nei
gentili attici costumi un germe di rinnovamento, rimase aperta la via a tornare
sulle antiche tradizioni, attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a
derivarne, come scintilla da selce,i principj della morale che fanno sì bella
parte delle scuole socratiche. M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse
più facili a ravvisarsi l’età sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma
s'era insanguinata e commista la civiltà dei popoli italici, in cui si
manifestò ab antico una notevole inclinazione alla scienza avvivata dal
sentimento e da fini di pratica a p plicazione,eperchè in Roma
erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui pernio era l'idea morale
della legge e del dritto,e infine perchè, se una riforma era da farsi in tanta
corruzione di civiltà e di costumi,in tanto scadimento delle relazioni
domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che da circa due secoli avean
preso le dottrine epicuree, certo quella riforma dovea comin ciare dai principj
della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei più nobili tentativi fatti
dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che l'evidenza del vero de
sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione, era dunque preceduta
da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran fatto senza che nei
tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano i germi. E i
germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le condizioni
civili e politiche di tutta l'Italia e di Roma, i Giureconsulti e le sètte,
alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle scuole
socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi egli
mirando componeva il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile
magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una
vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione
esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore
ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel
suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e
più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante
volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola
onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era
dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con
Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai
gne. Ma Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese, cercava
forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo
tra i bruti; Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di più solenne
(ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la nobiltà
dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio, per
costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi.
Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti
osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi,
si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal
l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali,
estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. Una parte è teoretica e
principalmente speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle
tendenze n a turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema
sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti
universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra
parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai
principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita
dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo
(Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se
poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal
Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva;
soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio
intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato
sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un
riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen
zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi
l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel
filosofo nostro da quella del Dovere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro
unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. Ponendo mano impertanto
all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla dottrina dei Fini, trattata
ex professo, e con intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a
cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente
speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi.Thorbecke in
una sua dotta dissertazione universitaria sul principio della Filosofia e degli
Officj desunto dalle opere di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del
sommo bene,occupa un luogo principalis simo nella sua morale. Il critico
tedesco allega a questo proposito l'autorità stessa del nostro oratore, che più
volte nelle sue opere, e segnatamente nel primo libro degli Officj,riferisce
ilfondamento delle dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De
finibus nota oppor tunamente contro gli Stoici non potersi separare,
come [Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per
risolvere il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo
edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e
so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente
coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare
quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo
interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente.
L'altro metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del
sofisma, consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito,
nel considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà,
tralasciando le altre, nell'offrire come opera compiuta del vero e di Dio un
informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e
fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della
coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La
quale avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia
trovarono anche in questa parte della m o [ termini identici d'una stessa
relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema
importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare
che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di
relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il
filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura,
comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime
tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano
nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento
della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare
tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei
proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della
famiglia, come individuo e come membro della civil società. rale di
Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto
scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo
criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano
quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata
conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo. Ritter,
Brucker. A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da validi argomenti,
rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e palpabile contro le
afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in mano le opere del
filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi dialoghi pieni
di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se fosse
possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam pagne
di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a
conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana
coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una
disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore,
argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il
consolare L. M. Torquato, M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto
ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma, ora nella biblioteca di Lucullo presso
Tuscolo, e in fine all'ombra silenziosa deplatani nell'Accademia d'Atene. Per
cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella
prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in
Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo
un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o
contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un
esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza,
manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo
meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al
senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri del
corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del
senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo,
riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por
tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo
l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro
sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo
disentimento, ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere
che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana
natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in
un'assemblea di matrone. De fin., De off. Tali sono gli argomenti, tolti
altresì dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di
rimando contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua
risposta a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame
del l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi
destini, del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo
dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da
parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori
dell'affrettata rovina di Roma. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri, in
cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e
spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il
pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri
in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han
guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e
invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni
de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle
dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle
nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo
coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè mai v'è
tanta contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che
sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? Ma badi, risponde CICERONE
(si veda), che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato
dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si
leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e
inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere! Questo
intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e
la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto
principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento
del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi
in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare
al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti
somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del
costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine
sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla
coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il
male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o
ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non
pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava
potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af
fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un
argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei
filosofi, avea per Cicerone il valore di una prova scientifica, come testimo
nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei
la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo,
e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati
solenni e infallibili del senso comune. Sennonchè, mentre nel secondo libro
de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con
futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di
scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando
nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa
dall'autorità e dalle parole di Catone Uticense.E invero,qualunquevolta a
mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui
Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente
dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita,
varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più
generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio avea
fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine
naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura. Πρώτος ο
Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio; e in
quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del
l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo notammo
più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame
parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale
offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio
fondamentale dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e
assoluto del bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito
insi gne di quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo
esame psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla
comprensione totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù,
restringevano ogni cosa a quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello
spirito e nel senso, nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle
condizioni esteriori. Le cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per
esperienza,o per giudizio di causa,o per analogia, o per raciocinio
comparativo, e in quest'ultimo cade la notizia del bene, alla quale l'animo
ascende universaleggiando da quelle cose che sono secondo natura. Laonde dal
concetto del bene come d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a
sè stesso, venne poi il concetto della virtù, al quale il filosofo del
Portico saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era l'onesto?
L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto umano colla
natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi dicevano, avvolgendosi in un
paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e razionale avveniva nella
pienezza delle facoltà intellet tuali dopo l'infanzia, che è quella età in cui
le prime cose conformi a natura (prima nature) (tá apota xato qusiv) si
appetiscono inconsapevolmente,da queste prime inclina zioni della natura move il
principio dell'operare, ma non però quelle cose,che n'erano il termine, si
annoveravano tra i beni. Questo principio era vero in parte, ma nel
l'esagerarlo sta il vizio fondamentale della morale del Portico; l'esagerazione
poi consisteva in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso,
niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita
privata o civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli
affetti, onde il libero volere o è condotto o conduce; nel porre in petto al
sapiente quella virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da
Dio, come immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera
più addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della
virtù ci palesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse il
secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo
un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla
filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine
più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla
ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della
ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi,
colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore
all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro
terzo; Kuehner e Thorbecke passim.) Esponendo e confutando i
principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno
a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in
qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle
dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui
combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e
men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse
luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno
speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo
delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile
dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più
comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico
colle necessità e cogli usi della vita civile, procedono poco appresso a
cercare le cause più remote del paralo gisma nei fondamenti del sistema
avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da un metodo rigoroso
d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico delle dot trine, e sulla
loro armonia coll'indole del soggetto; nè sembreranno,iocredo,eccessivamente
severi,come parvero a Kuehner, qualorasipensiche Cicerone, traisistemi
maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro lo stoico, e che
inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame di lui sulle
dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova di ciò
Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio s'erano
formati gli Stoici, e su cui fondano la morale, vi scopre il principio d'ogni
lor paradosso, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo; poichè, se
da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto intendimento civile,
ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri
affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella
parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna
che turbasse la tranquillità del suo spirito. Ritter, Morale des
Stoïciens, Questa era un'ambiziosa ostentazione del sommo bene, così la chiama
il nostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva
privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del
senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il
volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che
visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a poi,avendo fatto
nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo
la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse
unica parte della umana persona. E qui è notevole davvero come ricercando il
nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico del bene
supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e scientifico
della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un concetto
positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le forme
irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi dalle
contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma procede piùinnanzi, indagasottilmente
l'intervallo che separa il conoscimento diretto dal cono scimento riflesso, e
pone la vera indole della scienza nel suo differire dalla natura,a quel modo
che il compiuto differisce dall'incompiuto, l'attuale dal virtuale e il per
fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice Cicerone, move dai principjdi
natura, e come tale ha nella stessa natura la possibilità d'ogni suo sviluppo
ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è un perfezionamento, non genera le
notizie dirette,m a le chiarisce,le distingue, le corregge,le riduce a
principj; non disegna ella stessa l'immagine dell'umana virtù, nè dispone
l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle essenziali e ingenite dis
posizioni; talchè l'opera sua è un continuo avvicinarsi al concetto del
bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e somiglia all'opera dello scultore
che riceve da altri già disegnata e delineata la statua per ridurla poi a
compimento colla virtù del proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo
instituere signum idque perficere, potest ab alio inchoatum accipere et
absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa genuit hominem,sed accepit
a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet institutum illud quasi signum
absolvere.Qualem igitur natura homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus
sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo
perficiendum est præter motum ingenii quemdam, id est,rationem,necesse est huic
ultimum esse ex virtute agere: rationis enim perfectio est virtus: si nihil
nisi corpus, summa erunt illa, valetudo, vacuitas doloris,
pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ ritur. Quid ergo dubitamus in
tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum enim constet inter omnes,omne
officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse occu patum, alii ne me
existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias adferunt, ut summum
bonum in eo genere ponant, quod sitextra nostram potestatem,tam quam de inanimo
aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus nullum sit hominis, ita præter
animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque animus non inane nescio quid
sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in quodam genere corporis, ut
ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat vacuitatem doloris.Quam ob
rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli gerent, dexteram tuerentur,
aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem amplexarentur, actionem
relinque rent. Eorum enim omnium, multa prætermittentium, dum eligant
aliquid,quod sequantur,quasi curta sententia. Atveroillaperfectaatqueplena
eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque
corporis partem vacuam tutela reliquerunt.» Questa bella dimostrazione,
che Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio, e che
trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle
superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge
dell'universo, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della
Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e
dell'universalità dell'ingegno latino. Concepiva il Romano lascienzacome un
ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa,
era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava
come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj
gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica,
intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra
la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete
veracemente, tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di
natura;filosofo falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla.
Quindi era sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa
di sua natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile
dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che
disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in tuizione
inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo stoico, che
pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze, a un tratto le
abbandona per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura dell'uomo
contraddiceva. Cf. De legibus. Considerata sotto questo rispetto,l'idea
altamente c o m prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo
ravvicinava ai principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;
poichè,posto una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un
fedele ripen samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci
ad esso venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei; ammesso inoltre
infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle
istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò
consegue che la misura per determinare la bontà del metodo d'una scuola, e il
suo avanzare o allontanarsi dall'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la
pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia esaminata; talchè,
dato un degeneramento delle scuole successive dal principale istitutore, chi
prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno dell'umana
coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri formatore.
Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il principio della
morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è noto quale fosse
la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo ateniese dava a
quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il sentimento della
perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie
pitta goriche, traesse lui, uomo di smisurato intelletto, a im maginare la
virtù costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra loro e coi
termini esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto.
Tale indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della morale
seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e
dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento
delle istituzioni civili tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene
affermasse l'effettuamento del bene assoluto non potersi dare q u a g g i ù,
perchè il bene assoluto è l'ente i n finito, in sè e per sè sussistente,e
partecipato solo im perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la
virtù in un continuo avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di
perfezione, e riconosceva nei beni ter reni un'effigie lontana e appena
un'analogia della beatitudine eterna (Quo i w s i s Sew. De rep. e Thea et. ).
Aristotele, ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in cui, perduto
il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore
la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula
tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice
avviamento all'azione, della politica la parte principalissima della sua
morale. Il concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle
dottrine del figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e
nel Peripato; Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica;
Aristotele lo ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo
solo far notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due
scuole, non già determinare una essenziale diver sità nei fondamenti della morale.
Chè la pienezza dell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate,
durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra
le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema,
ne combatterono il metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento
dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più
cose.Primie ramente si comprende come il pensiero dell'oratore latino sulla
teorica del bene morale, considerato sotto il rispetto o semplicemente
speculativo, sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico,
sia un testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più
generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e sofistiche, ai veri supremicostituenti la scienza. Da que
ste considerazioni esce anche nuova luce sull’intendimento a cui mira il libro
De finibus. Quest'opera è di una singolare importanza per la storia della
scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e
chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del
metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab
absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria; pose cioè
più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di
contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al
concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando il Socrate
del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino
a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che
signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo
libro confutava Epicuro mostrando quant fosse difettivo il suo
principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel
terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i
filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del
principio spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro
intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Accademia e del Peripato.
Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai
primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della
vita intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della
conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e
quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione
più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli
altrianimali,simuta inconoscimento; vis'insegna come debba la filosofia tener
conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e
spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri
flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io
leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni
critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con
ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un
misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre
investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma
integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici nandoisistemide'filosofi,ma
ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva dall'esemplare della natura, ch'è sistema
immortale di Dio. Vedi riassunto e citato diligentemente ilDe finibus nella
dissertazione già allegata di Thorbecke, e in quella di Kuehner, Vedi pure per
ciò che risguarda ilconcetto di tutto il trattato l'importante dissertazione di
Hinkel: De variis formis doctrine moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem, earumque
cum cæterarum scho larum placitis comparatione. Marburgi Cattorum). Il concetto
scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin
qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella
dottrina, e unificando in un termine superiore, che era l'integrità del
soggetto umano, le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere
una delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale
dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica
Accademia e col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della
virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il
contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se
condasse talvolta gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva
un argine saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal
criterio, i libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono
informati da un solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per
classi in ordine al metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini,
la quale tiene la parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e
discorre del bene e della vita con fine immediatamente scientifico, scendono
conforme a questo principio le Questioni Tusculane, e il libro dei Paradossi. Manifestano
un fine positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute
Tusculane,dove in mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte
dell'opera, traluce l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle
pubbliche istituzioni e dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace
di volgere le menti a studj più generosi; e divisa la filosofia in più
questioni (loca),si prende in ciascuna a ribattere le istanze proposte col
metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice esercizio di metodo forense
rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la morte di Catone Uticense
prese a lodare secondo i principj stoici le virtù dell'amico, e mostrò agli
studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di filosofia, il più remoto dalle
opi nioni volgari,si porgesse ad un utile esperimento dell'in gegno oratorio. «
Ego vero (così egli dice nel Proemio) illa ipsa quæ vix in gymnasiis et
in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo
punto, esponendo fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone
nella con troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le
sue opinioni coi principali sistemi contemporanei. Da quindi innanzi
procederemo con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte
della sua filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua
riflessione era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del
Diritto romano. mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il
fine dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga
umani, e col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata
indubitabili tezza alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine
affettuosa dell'essere mai dalla scienza, potea far velo al giudizio;
separabile o perchè la discordia senza metodo più ragione i problemi e le
controversie. Ma con si governa sicuro, e con più evidenti da sottili argomenti,
offriva ai tempi esaminatrice. Forse perchè in quella oggettiva della nella
quale egli,esaminate tendenze,el'istinto filosofale sulla umano,ilfomite delle
sette vi avea moltiplicati principj morale di Cicerone la parte, ossia quella
parte le naturali felicità, e ciò che per rispetto del della l'adempimento bene
e alla suprema universale della legge e del dovere. E proprio feconda
speculazione va dal soggetto all'oggetto dall'esame e conoscitive eterni, tanto
più, come chi senta del fine, si leva al concetto idealità anche in, che quanto
più il nostro questo è im fatto notevole,trascende minuto delle potenze
affettive alla contemplazione per la via della scienza degli intelligibili
animoso procede della valle a una alleggerirsi vista interminata il respiro
uscendo dal basso teorica della della filosofia di pianure e di mari. La e del
dovere è dunque il fondamento legge civile di M. Tullio; e certo a questa
chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E vera degli,perquanto nella
piega a noi costituisce tempi di pensiero il sensibile,e passa principj
morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero del filosofo latino si ferma
per rinvenire le armonie più remote della scienza morale colle dottrine dello
stato e della vita politica, conviene attribuire quella pienezza di
speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e dell'animo umano,onde
il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si rannoda da un lato col
dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro cogli Officj e col libro
della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il pen siero del filosofo
romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come dell'umana famiglia, e
la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni colle altre dottrine,
muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da quel fonte immutabile,
che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della filosofia civile di
Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e diligenti ricerche in
Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su questa più che sopra
qualunque altra parte delle sue opere forniscono le biblioteche copiosa materia
di lavori storici, critici e dottrinali agli studj dei commentatori e dei
filosofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine posi
tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di
disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile,
applicandovi l'esempio di Roma e i larghi principj della Giurisprudenza e del d
i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti
ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare, più
acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via
di rigorose indagini speculative. Ma niente è più contrario a questa opinione
quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo
dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente
inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito
coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: «
quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter
interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo
trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un
fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione,
non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e
risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno
ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente
importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e
un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo,
non debbo lasciare indietro come dal 490, età della prima guerra cartaginese,
al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e
all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la
repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco
a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e
capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo
rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del
giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito
l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a
grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio
che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni
civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale,
dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva
disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella
moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico riconobbe
nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto secolo e il
settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le consuetudini a
leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio dell'antichità
necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale stoica.Va
frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in forma di
scienza; non già che molte massime generali delle XII tavole e dei pretori
non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che l'applicazione e lo
svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al l'ingegno speculativo
de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella costituzione
romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di rinnovarle,
l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone, si
studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti, che
il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle
questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con universalità
di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni civili. M a
verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone scriveva la
Topica,eaRoma epertuttoildominiodella repubblica s'era da un pezzo largamente
propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già
esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione
interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del
giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di CICERONE
(si veda), vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di
filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi
nel libro De claris oratoribus ; e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi
legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato
una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo
della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al
bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno
ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo
stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi
non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio
all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che
cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due
rispetti nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella
esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una
ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò
di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo
ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo
il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse
distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del
giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle
leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione
dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle
coseumane.Da questo fonte derivava la giustizia assoluta ed eterna, che
definisce il bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e
dalle opinioni degli uomini. Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone
avverte egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un
supremo legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I
comandi e le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo
Cicerone, per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi
e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto
dell'antico savio, che pone a fondamento di sapienza il conoscer sè stesso.
Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole, e va
persuaso che la società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio
che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore
comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco
Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel
I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io
lo citai augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino
porgesse materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto.
Tra le cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in
primo luogo da annoverarsi l'incertezza del vero senso del giure per la
moltiplicità delle massime,deglieditti, delle leggi, degl'interpretanti, onde
spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle
formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi
una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere
istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla
Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla
Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un
vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del
sofisma. Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto
del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci
mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini
intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco
considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo
notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo
tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi
principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi
d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta
che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e
dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto
nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei
tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo
il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj, gl'intelletti
più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la
riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra
l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo
morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della
realità oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del
Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi, e dettò le pagine
più eloquenti di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione
pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che
d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo
che quell'impero è universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov
vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al si stema della scuola
critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo
facemmo espressa menzione del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare
inostri lettori a seguirci in un paragone per certo singolare e inaspettato
delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga,
abbeverato alle dottrine del Cartesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello
scetticismo di Hume, Kant i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi
sfolgorava la rivoluzione fran cese, ammise a fondamento del suo sistema
l'assoluta impossibilità di trapassare dal soggetto all'oggetto, rap
presentando il pensiero racchiuso in sè stesso e pensante le cose con proprie
forme o categorie. La qual dottrina, oltre al contraddire, come fa, alla natura
del pensiero e all'evidenza immediata della percezione,e porre il filo sofo
nell'assoluta impossibilità di edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli
sipropone ilproblema,se lascienza è possibile, distrugge ogni certezza morale,
e vieta alla mente di aggiungere mai colla riflessione scientifica l'ori gine
vera della legislazione assoluta. Per Kant (osserva giustamente Mamiani)
l'anima è onninamente legisla trice di sè medesima e crea l'assoluto
dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e quella forza invincibile di
approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima, onde ella identicamente e
simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità ed obbligazione, è diritto
e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita (perchè ogni assoluto vero è
infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente delle azioni contrarie
all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea. Cotal dovere e cotale
legislazione assoluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano subbietto, appare
nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che negli Stoici antichi
e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà
e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle
loro dottrine morali ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare
azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi
sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la
scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere umano e la vita
civile più che altra disciplina quale che sia. » Confessioni. Tale è pertanto
la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant e quelle
del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura come da
parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli, seguace del
semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto umano
eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe dovuto
condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del precetto
morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa
dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta
dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione
perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla
mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia
mediocremente versato nella storia della nostra scienza che l'oratore roman o,
il quale rifiuta nel libro De finibus la parte soggettiva della morale del
Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza ai
beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi
ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i
concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo
platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e
coll'effi] [Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal
domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e
spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro De legibus, fu una ferma
opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di
legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a
rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro
siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione
dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale
giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che
allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e
contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina
stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj, più tardi usciti
a fondamento della sapienza cristiana.cacia trascendente di quella virtù onde
si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia
della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai
nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui
dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se
chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra
l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione
assoluta che in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova
di non lieve importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri
fisici e morali del filosofo nostro.In quelli egli dubita il più delle volte,e,meno
che nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova
Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano
sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A
l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima
umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle
Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel
libro delle Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende
ordinata e architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il
concetto del divino sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono
sciuta alla maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume
delle tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a
tutto impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al
dir del Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze. L'indagine tulliana della
leggesuprema pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno
speculativo.Posta a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale
come un riscontro delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui
ricorrendo si potesse apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal
nozione presentava in sè due rispetti intimi ambedue
eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome idealità suprema,come
infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè imperfettamente, alle cose
finite, e come primo assoluto ed universale, che volgendo le menti alla comune
dispensazione del bene porgesse quasi l'unità morale del l'umana famiglia.
Considerata nel primo rispetto, la n o zione di legge si offriva alla mente del
filosofo latino come idealità suprema e assoluta,e come un intelligibile primo
che rappresentando ilperfetto nell'ordine della ra gione le si imponeva come
regola dell'operare.Egli dunque concepiva quella nozione come un vivo riverbero
dell'as soluto, e poichè l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa
partecipata come luce dall'alto nella perfetta ragione dell'uomo, unico di
tutti gli animali che abbia innata nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli
parve una partecipazione segreta ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto.
Udiamo le sue parole: « Est quidem vera lex recta ratio,naturæ
congruens,diffusa in omnes,constans, sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo,
vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec
improbos jubendo aut vetando movet.Huic legi nec abrogari fas est neque
derogare ex hac aliquid una licet neque tota abrogari
potest,nec vero aut per senatum aut per populum solvihaclegepossumus,neque
estquæ rendus explanator aut interpres ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia
Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una lex
et sempiterna et immutabilis continebit unusque erit communis quasi magisteret imperator
omnium deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit,
ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ
nas,etiam si cætera supplicia, quæ putantur, effugerit. De Repub. -- riportato da
Lattanzio Instit.div. – Stupenda definizione èquestadel principio regolatore
degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di
una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj
dell'Etica romana. Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del
Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi
ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con
tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana
ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva
alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e
dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò
era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui, il quale movendo dalla
coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo
stesso principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche;
siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine
superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine
universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo
nella ragione informatrice del sistema di Kant, e degli altri critici e
razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro
stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta
che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della filosofia
de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per ingenita necessità di natura
l'indipendenza del pre cetto morale assoluto dall'atto informatore del nostro
spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui
getti le prime fondamenta dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene
con nette le parti, non avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei
sommi principj,dee riuscire per necessità fenomenico, relativo e contingente.
Eppure, come ben nota il Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del
Buono senza risalire ai principj, che è quanto dire, senza considerarla come
una scienza seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono) Questa
nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata
dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che
illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente
che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri
fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della
scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso
lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto
all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione
dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia
più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa
l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile,
necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni
gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo;
egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad
accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge
nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore,
solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e
inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi
dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla vita. L'uomo
dunque è primitivamente simile a Dio; similitudine che può vedersi dal fine a
che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel
fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo
beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento
ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni
di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento alla scienza: Diede
anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura
intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso
del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica
sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente
scolpita l'effigie dell'animo. Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in
questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal
concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più
tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole
italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio
provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella
grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme
nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg.) Esaminata la legge
nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è
obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a
considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè
stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani
intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella
somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta
quanta la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio
civile è la comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli
diceva) singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo
della Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue
dottrine politiche: « est igitur respublica] [Il cardine della morale di
Cicerone posa dunque manifestamente in questa dottrina della legge, il cui
merito insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano
contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la
filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del
nostro ora tore è tanto più manifesto, in quanto che egli,dopo spie gata per
ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più
tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu
ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè
stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili
opinioni. La qual cosa, mentre è una prova di più per mostrare come
l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità
di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che
supposero di fresco avere CICERONE (si veda) abbandonato improv visamente la
dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo
peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. Ma innanzi tutto noi
domandiamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione
informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con
fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due
opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi
deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma
la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni,
quando esaminava quella controversia da parte dell'umano res populi;
populus autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis
juris consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso
primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che
attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza
degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge
assoluta e soprammondana. cætus 1 soggetto, affermò nella vita presente non
pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo e
perfezionando ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi salito
ad un concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono e
dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto
dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere
meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo
appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario,
l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto
della dottrina sul buono. La diligente esposizione impresa da noi degli scritti
del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a
trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali,
e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa
abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i
principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da
Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto
sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un
eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione
di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette
raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien
confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla
giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i
principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci
sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti
adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza
ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti
riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle
speculazioni più remote intorno al vero ed al buono. Premesse queste
osservazioni, veniamo ora alla parte positiva dell’Etica tulliana,
nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura
principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel
primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj
speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e
di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè
l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero
incondizionato che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente
stretto all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio
dunque (così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della
virtù all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato
scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha
tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella
del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi
peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza
morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o
perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in
colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio
comune,o medio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù
agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un
fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone
nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse
scientificamente l'officio. Il Manuzio e il Facciolati difesero Cicerone; il
Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa
quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e il Grysar avvisavano avere
Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare
espressamente nel suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium
officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie,
Comment.de Stoic. doctrin. mor.ad Cic. libr.De off.,1, Kuehner. Fran. Binkes, Responsio
ad quæst. juridicam etc., Franeq., Prolegomena ad Cic .libr. De Off. scripsit, Grysar,
Köln). Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla
natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose
l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni
potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei
beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare
l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè
mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o
sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del
presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico
moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que
che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino
un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si
solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra
tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima
che cosa è il bene nell'umano soggetto (De finibus), si leva alla nozione
oggettiva di legge (De legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più
remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis, De republica, De
amicitia, De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna
tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto
tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano
i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera
semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è
vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione
stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore
si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura
dell'uomo,ma l'intendimento primo a La gentilezza degli Attici
educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e
dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi
direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e
armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava
all'invisibile bellezza degli animi. Ma in Rom a dove ogni istituzione fu vôlta
sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato,
e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi
domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi
nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le
azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale
che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette
della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi
convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli
Officj la conside 148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e
Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to nava per l'ultima
volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio
in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo
proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina
che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti
nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di Roma. Tale è la dottrina del
decoro (Tpétrov), esposta nel capitolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva
acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici:
crcpovovaysoró 2.016; il solo buono è bello, collepa role: quod honestum sit,id
solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso
concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte
ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse
maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si spiega
assai facilmente ricorrendo alla Storia. rava in un rispetto quasi
esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce
esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della
pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis,
mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più
sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino segue
liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj,
adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come
portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in
gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto
ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il
combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte
più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la
nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della
politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse
dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone
al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem
prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi
dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia
contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da
uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè
dee far maraviglia che fosse cosìa chi consideri come il disgiungersi della morale
dalla scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e
che tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito,
cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni
cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori.
Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il
filosofo latino alle attinenze della umana morale colle altre
scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a
sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti
romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la
giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo
di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine,
desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra CICERONE
(si veda) citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e
definite con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge. La qual
cosa apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite
alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e
della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro
nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII
Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al
metodo di Cicerone, che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le
verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza
d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile
voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il
libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo
e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità
del senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano
sciolti pagando, nè restituiva il danaro; e prorompe con mobile sdegno: p i r a
tarum enim melior fides quam senatus! Il De officiis accolto nelle scuole
d'Europa sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato per la
prima volta a Magonza, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni tempo
l'acume degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo trattato,
che Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della letteratura
latina, » fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze morali e
politiche di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur
Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In
quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte
della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che
vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro De
officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale
tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti
moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del
soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al critico
francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a
conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne
osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che
risguarda i doveri verso il divino, la famiglia e noi stessi, e rappresentò il
De officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei
doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della
carità universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande
rinnovamento dell'evangelo. Dai principj della filosofia civile e dai
precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato.
Questa fu esposta da Cicerone nel De republica, giudicato universalmente dai
critici come una delle opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne
andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro
fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi avea diffuse
largamente le memorie della antichità greca, le grazie severe dell'eloquenza,eigrandi
insegnamenti della vita politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea
innanzi a sè due scuole egualmente illustri, egualmente seguite dagli
scrittori: la scuola di Platone e la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo
considerare che l'ingegno dell’Ateniese, poderoso d'invenzione e di veduta
speculativa, non intese forse nei termini del vero le attinenze della filosofia
colla politica. Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine
ideali l'autorità degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In
quest'opera, spartita in sei libri, e condotta con larga unità di disegno, il grande
oratore imitò Platone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto
si attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera non solo utile alle lettere,
ma vantaggiosaallapatriae alle più lontane generazioni, incarnò i suoi precetti
nel grande esempio di Roma. L a dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla
disputa delle tre forme monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli
preferiva la mista, invo cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta
quanta la storia di Roma. Da queste
premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa sull'immortalità. E
qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e
della sua nazione, e fece di quel problema una vera e compiuta dottrina. Forse
l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia sui destini dell'anima i
panteisti [La quale, mentre ha bisogno per disegnare e applicare le
civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj uni versali della
natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le imperfezioni
dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per cui soltanto
nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni alle necessità
dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo razionale, si
opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto
per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe culazione col senno
civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio
più fermo le armonie delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla
scienza dello Stato quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del
pensiero e della natura lo avea condotto a creare la logica e la fisica;
raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori, li ordinò, li paragon
), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica fonda mento della scienza
civile. Ma a tali prove di ragione e
difatto altreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e
civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di
più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo
desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata
alla patria nelle scienze,nelle lettere, nelle arti, nei pubblici negozj, li
raccomanda alla riconoscenza di Roma. Gran parte,e la più bella forse della sua
vita,s'era pas sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti
da giovinetto, e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di
molti avea udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli
restava impressa nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone
domestiche e care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di
grandi rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e
perchè vi pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè
stesso, e perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a
desiderare il ritorno della virtù e degli antichi costumi. Più tardi le
sventure della patria lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la
fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi
memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega
perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere
greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati, e l'abito di
conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega
altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno
dell’Affricano e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo
d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle
Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e
dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla coscienza
morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio, connaturato
nell'uomo, del divino e dell'assoluto.] e nel Catone Maggiore, dov'egli
imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean
preceduto, e si consolava di speranze immortali. Un'altra occasione,
opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia
dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti
pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio
dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in
animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che
poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo libro,adesso
perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che Cicerone
stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori antichi,in
special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono restituire per sommi
capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie. Schneider ne
ragionava in un saggio dove suppose Cicerone avere trattato a lungo
dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come apparisce in
gran parte dal primo libro delle Tuscolane. La quale supposizione, che
riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di
questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali
di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a
più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo. Può
sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della
filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o
contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e
finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un
rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual
cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline
scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello
dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe
esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza
d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle
opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più
antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e
del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo
esameeapiùimparzialigiudizj. Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro
supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata
come norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano
di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo
non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle
opere di Cicerone. E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi
scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle
memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non
ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo
nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e
quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La
imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e
di buono, che si trova sempre in ogni sistema, mentre costituisce un pregio
capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre
favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso
vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la
legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario
nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è
la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per
definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne
più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola,
e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filosofia tanto riguardosa e
modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla
Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare famigliarmente in
mezzo agli uomini.” (Mamiani). Tale è l'indole vera della filosofia di Marco
Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro
lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente
nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro
poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle
innovazioni, e giudicano Marco Tullio una povera mente perchè dice
egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle
opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa
esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno
infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori
de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri,
ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso
e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od
esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La
critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma
estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio rigoroso
di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol fermarsi
nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle cose,convenga
rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui stesso,convenga
svelare illegame intimo che annoda le idee principali, concepirne una
moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle, vedere i
trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom posta la
totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia del suo
pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore
speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica
assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e
contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di
meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e
svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva
e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi
la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi
de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi
affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro
fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima Cicerone adunque
può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno
d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle
dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a
ragione come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi,
e perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come
Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni
età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle
greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla barbarie degli uomini. Ma
d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può
egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio
della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere
bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso
coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e
qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per
lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e,
sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del
sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in
gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata
da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio
dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica
mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il
contingente e il necessario, la natura e il divino, l'esistenza del divino,
dell'universo e dell'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle
spirituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della] filosofia [nelle
storie che la critica degli antichi scrittori, segnatamente per opera degli
Alessandrini, fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de' Greci, da
cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi
scritti ai più culti ingegni di Roma.] ragione, il libero arbitrio e
l'immortalità. In Logica tenne salda la capacità del conoscimento a cogliere il
vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza
interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle
conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune
ricom pose il sistema perfetto di quellascienza,e
salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto
universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri
relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un
uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si
lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di
ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità
principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un
patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a
soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle
verità fontali, contenute nella coscienza del genere umano e nei più nobili affetti,
a quest'uomo, parmi, non si possa negare il nome di FILOSOFO GRANDE. – Grice:
To hold those who are great and dead as if they were great and living. --L'indagine
dei dommi primitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli vuole
–voleva -- in CICERONE (si veda) un ingegno forte e addestrato a meditare, e un
uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio l’orazioni,
l’epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo e il quinto dei Fini e
il proemio delle Leggi; che esposti senza preoccupazione rettificherebbero
d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi saggi, e mostrerebbero
com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie
età, nelle diseguaglianze de'sessi, degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino
dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità
eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare.
Parecchj critici di CICERONE (si veda), e segnatamente quelli che gli negano
ogni facoltà d'ingegno speculativo, non hanno inoltre considerato qual uso ei
facesse della tradizione scientifica,e come, movendo dalla coscienza, contrappo
nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo di tutto
il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla coscienza; e questo fatto
dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta che
egli prende a trattare importanti materie morali, non può mai andare disgiunto
nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece de'sistemi
antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione del suo
metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci spiega come
nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità informatrice
delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri eru diti
avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento scuole. Certo
Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno speculativo, e quella
rara felicità degli ardimenti metafisici, che hanno Socrate, Platone, Aristotele
tra gli antichi,e tra imoderni Cartesio, Kant e VICO (vedasi). Il suo ingegno
non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni versale,comprensivo e
solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in architettare sistemi
mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di logica, piacevasi nel
sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli errori, ribatterne le
istanze,scoprire nuove armonie della ra gionescientificacolsensocomune, e
iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di scienza concorde colle arti, coi
costumi e colla vita civile. Nel che mirabilmente lo secondavano itempi. Allora,come
era avvenuto nel secolo di Socrate,e come per molte parti accade ora nel
nostro, si manifestava nella condizione delle discipline morali un'imperiosa
necessità di riforma. L'eccesso delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e
la scienza e l'arte tor navano al vero della natura,unica fonte delle opere
grandi. Era dunque suprema necessità deporre la vana superbia delle innovazioni
assolute, farsi discepoli della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare,
e chiedere alla tradizione de savj, non già il supremo criterio
del vero,m a il sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del
genere umano. Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che CICERONE (si
veda) appresenta nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il
criterio della tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da
aggiungere alle speculazioni dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta
dini innamorati della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra
studioso al sommo dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici,
ch'e'non seguiva gli a n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con
li bero esame attingeva ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli
sosteneva quelle dottrine soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva
un ordine pro prio di scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si
gnificante non altro che un ordine di pensieri) si esten desse per lui al
collegamento necessario di tutta la scienza, te lo dice in quelle parole dei
Tuscolani (II, 1): « Difficile est in philosophia pauca esse einota,cui non
sint aut pleraque aut omnia.» Noi dunque invitiamo gli studiosi delle
lettere e della filosofia antica a prendere in più seria considerazione quella
sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa del filosofo latino non più che un
seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto
in tervallo egli si lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei
può apparire assai manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di
questo discorso. Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse
il dottissimo VARRONE (si vefda) suo familiare, rammen tato nel primo degli
Accademici,e della cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso
che l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana
significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto
accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la
Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien
11 tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per
venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro
pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile imitazione,
intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra gione al vero
riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il gran problema
(chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale o volgare alla
certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche in una età in
cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi
assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e della
patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto credere e
del tutto negare; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della Nuova
Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in mezzo
alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne
sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose
ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò
risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia
naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e
il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e
dello stato romano si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con
certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella
successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno
dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo
pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e
nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per
la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente
nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica
dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei
sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto del divino,
che pose nell'umana ragione,a testimonianza di
sè stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa
parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col De legibus e
col De officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica,
e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della vecchiezza. Esaminando nella
successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del
pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di
ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato assai
largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle
dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che
inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il
pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione
rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy
(il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero
dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro
oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di
Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e
cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse
unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La
qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il
dialogo delle Leggi. Ma il por mente a questa unità informatrice delle
dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo
delle scuole particolari si risolvesse inun criterio intrinseco di ragione. Quistail
divario essenziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici.
L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e
infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla
riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la
vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine
senz'armonia e senz'accordo. La verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò
uscire in eterno dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a
sè stessa e senza un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj
saldi, universali, apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella
scuola fran cese,fiorita nella prima metà di questo secolo, e a cui giu
stamente si attribuisce la lode di avere spento il sensismo, e restaurati gli
studj istorici della filosofia nella nostra Europa, quando sentenziava che i
sistemi più avversi si compiono tra loro, e che lo spirito umano procede d'er
rore in errore per cammino non interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma
Cicerone intese ben altrimenti il principio costi tutivo delle sue dottrine.
Per lui la tradizione scientifica trovava un riscontro nell'esame immediato dei
fatti in terni, e quindi egli desunse il criterio con cui variamente conciliava
i sistemi. Ora a questo criterio che è la parte propria ed originale di sua
dottrina, e che rappresenta un vero esercizio dell'indagine filosofale nel
sindacato delle scuole particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e
quanto egli attingesse ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione,
come osserva Kuehner, che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si
affacciano naturalmente non lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio,
fornito di varia e multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le
migliori dottrine dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè
parlando di un dato soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo
autore, m a interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato,
moltissimi tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè
il nostro filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui
attinse, o soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli.
Passando poi a determinare il metodo con cui Cicerone attinse ai greci
filosofi, osserva giustamente il critico te desco che questo metodo si
esercitava in tre maniere. Traduceva egli dal greco, trasportando liberamente
in latino, tanto (come egli stesso ci avverte nell'operetta “De optimo
genere oratorum”) da serbare il colorito e la forza nativa del testo. Nelle
altre opere filosofiche segui principalmente un solo autore, adoperandovi sopra
con libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con
proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva
fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter
rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove
fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto
perfettamente connesso ed armonizzato. Quindi,prosegue Kuehner,è necessario al
critico di CICERONE (si veda) avvertire con diligenza gli scrittori da lui
citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti
dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli
trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture assennate e
prudenti. Esposte queste norme più generali di critica, noi non seguiremo
più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle fonti delle
dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo
dal l'indole speculativa e dai confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile
al tutto per noi che non neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue
dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di
congetture là dove i fonti originali andarono perduti, e dove riesce difficile
lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba
invece attribuirsi all'au torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo
coll'au tore della dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo
nella disputa sull'immortalità,seguì princi palmente Platone; nei libri logici
e nella questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione
sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia; nei libri morali poi,
discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che
risguarda le dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie
politi che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e Polibio. L a
qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente; poichè, a considerare
bene il metodo con cui egli compose i varj sistemi, si vede che, sebbene in più
luoghi attinse separatamente dagli Stoici e da Platone,tut tavia la natura
dell'ingegno latino lo menava a tempe rare l'austerità degli Stoici colle
massime dell'Ateniese; il che fece in più luoghi, e segnatamente nel secondo
libro della Natura degli Dei, e nel primo della Divina zione. Come poi usando
le opere dei greci scrittori, è attingendo ai loro fonti la materia di sue
dottrine, ei conservasse non pertanto la libertà dell'ingegno, con queste
parole lo attesta Kuehner. Negari quidem non potest Ciceronem disputationes
suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse; sed græca non interpretis
modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum ipse iis adjunxit
judicium, suum scribendi ordinem,viam rationemque atque orationis
lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis Cicero
probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philosophorum
monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis,
ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores
sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant
saluberrimam.” Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole, non fu
nè Stoico, nè Accademico, nè Peripatetico, ma fu vero Socratico con libertà di
riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di
cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle
indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura; non chiuse tutta la
scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a
assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la
ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi
l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente
dell’Ateniese, la cui efficacia dura da ventiquattro secoli nell'indirizzo
delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella
storia della filosofia. Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo
romano, ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si
attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero
altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici
costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello
d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj
speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del perfetto. La
gente romana, sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e
applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle
deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei
costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile
colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero
esteso a due terzi del mondo, e il vivere agiato, e la necessità di allontanare
il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i
Romani agli studj della filosofia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni
disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col
facile diletto dell'imitazione. Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle
lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur
v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgilio, e che sappiamo
esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era la
servitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente
per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente
civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo,
procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri
scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e
maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto.
Amafinio e Rabirio epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tuscolane
e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in
modo informe ed incolto. Più tardi Tito LUCREZIO Caro esponeva splendidamente
nelpoema De rerum natura la filosofia d'Epicuro; ma tutti questi scrittori, dei
quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non
aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico
di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente
sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter,
assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio
uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può
unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata,
e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del
pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento
ch'egli ha fra mano, il meno acconcio a compirla. Perchè non si trattava già
d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e
Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il linguaggio
latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola
più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non
disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla
significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior
parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e
colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a rola, come
figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli
voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse,
docti et intelligentis viri -- De fin. -- seguì uno stile che fosse egualmente
lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec
chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj
chiamò æquabile et temperatum. L'ingegno universale e comprensivo di CICERONE
(si veda) apparisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto in Roma, dove fanno
capo le faccende d'Italia e del mondo, tollerante per natura delle altrui
opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio. Intorno allo stile
filosofico di CICERONE (si veda) scrive con molta dottrina FERRUCCI (si veda), in
un suo discorso “De singolari meriti di CICERONE (si veda) nella lingua ed eloquenza
latina, edito in Pisa coi tipi del Nistri. La severità della meditazione filosofica
è in lui sempre solenne, ma variamente temperata dall'indole del soggetto. E sobrio
l'uso delle metafore. Il periodo procede ora maestoso, ora interrotto, ora
veloce, ora lento, a sconda della materia, e talvolta, come negli Accademici, imita
il linguaggio familiare, talaltra, come nelle Tuscolane, sembra avvicinarsi
piuttosto alla forma oratoria. Chi poi considerasse a parte a parte la varietà
degli stili nelle opere differenti, osserverebbe potersi queste distin guere in
più classi, modernamente in più manière, corrispondenti ai varj tempi in cui
l'autore le scrive. Il “De republica” e il “De legibus”, appartenenti al primo
tempo, in cui egli era ancora indefessamente occupato nei negozj pubblici e del
foro, hanno più del carattere oratorio. “Gli Accademici”, il “De finibus”, il “De
natura deorum”, scritti poco prima la morte di Cesare, palesano uno studio
deliberato, continuo della severa forma speculativa; laddove nel “De officiis”,
nel “Cato Major” e nel “De amicitial” t’av vedi come l'abito della meditazione
e la lettura degli ottimi esemplari o avessero condotto al miglior temperamento
dello stile didattico colla forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate,
e innamorato dello splendore di Platone, ch'egli chiama il divino dei filosofi,
lo segue non soltanto nella forma estrinseca de' suoi trattati, e nel metodo
del dialogizzare, ma improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle
Leggi i tratti più belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei
monumenti più solenni delle lettere antiche imparziale che fa delle dottrine
contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale d'osservazione, e
quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti
romane, in lui straordinario. Cresciuto intempi funesti alla libertà, e
testimone di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la rabbia
scellerata di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e
all'imperversare delle civili discordie applica dì e notte con ardore
inestimabile ad ogni generazione di studj. Più tardi per restaurare la salute,
inde bolita dalla pratica del fôro, si reca in Grecia, dove udì le scuole
migliori, peragra tutta l'Asia, si trattenne a Rodi, e torna in patria
ammaestrato da una larga notizia d’uomini e di cose,e dalla famigliarità coi più
pre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj dell'Accademia, ebbe
ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa concisione di
Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi pensieri. Nella
ragione intima dell'arte sua cirimane occulta, qualora si consideri nel “De
oratore”, nel “Bruto” e nell'”Orator” il significato vastissimo ch'egli
riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto dell'unità del
sapere, espresso in varj luoghi del “De oratore”, e meglio in quella sentenza:
« omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam societatis vinculo
contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio dello scrittore,e come
nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si mostrasse uno degli
uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come uomo di stato, egli
vagheggiò la carità universale del genere umano, e ne scrisse mirabili parole
negli “Offici” e nelle “Leggi.” Patrocinando la causa di una donna Aretina,
giustifica le pretensioni delle città italiane alla cittadinanza romana. Nel
suo consolato sven tando la congiura di Catilina, salvava da pericolo certo e
imminente la libertà di Roma,e tentava comporre l'or dine senatorio e
l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della fazione plebea.Come
avvocato e come oratore politico (così scrive di lui Vannucci),«creò un
nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di più bello a Roma. Per
giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è padre di tutte le
egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con siderando che il
poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli scrisse, molte cose
comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo stile latino. Ricerca i
modelli più famosi dell'eloquenza romana, svolge i Greci, ne traduce per suo
uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser grande oratore si vuol sapere
ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne e ministre. Quindi afforzò la
sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi, si arricchì della scienza del
diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così apparecchiato rappresentò nel
fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte greca, e apparve come splendido
esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi scritti
didattici, Studi storici e morali sulla filosofia latina, Firenze, Monnier. Non
è dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente e per disciplina a sentire
l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi ne'suoi scritti speculativi
ilmeglio delle scuole greche, e tornando ai fondamenti e ai principj di tutto
il sapere, vi cercò quel legame unitivo che desse vita e armonia alle sparse
membra della tradizione scientifica. Se in lui dopo l'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo,
dovrete riconoscere negli scritti speculativi profondamente scolpite le tracce
del sentimento e dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli
affetti, ritrovi quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti
di gloria, di famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro
finchè visse ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta
lo rese in feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po'
troppo sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello
stile maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e
studio con amore,quale un perfetto monumento di sapienza civile,non gli
tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del
popolo che spesso trascorreva in licenza, l'abuso dell'autorità ne'patrizj, le
guerre volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj,
idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui
promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede, era
un vero attentato alle basi della società civile. Dalla critica meno benigna si
allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i
principj della giustizia e della moralità lodando il tirannicidio, tentando
giustificare col titolo della civiltà il primato oppressivo dei Romani sulle
altre nazioni, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a
seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo
per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi
tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo
XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose
conquiste; e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto, l'ha in parte
giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa
sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale
e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del
Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen, furono non ha
guari saviamente temperati in un bel saggio di Forsyth, venuto alla luce in Londra, e di cui abbiam veduta
quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo
inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti
rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si
diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m
battimento contro il triunviro Antonio. Chè se non sem pre fu pari agli avvenimenti
che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e restituito in
patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella di Pompeo, bisogna
considerare quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai
patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e
nella santità dei costumi civili il principio tutelare delle libere
istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore,
è la ragione che diede sublimità vera alle sue dottrine morali; e ci spiega
come nei libri degli Officj, della Repubblica e delle Leggi egli desunse i
principj fondamentali della filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto
e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese a conciliare l'interesse
dell'utile pubblico colla giustizia assoluta, nell'idea della famiglia,
nell'idea dello stato, nel possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra
e di pace. Tale pure è l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi
dotti articoli sulla politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'due mondi. Corre
adesso in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori
latini.Invero gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle
lettere anti che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la
notte tempestosa dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non
mantennero sempre una giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio
dovuto alle tradizioni. Ma tal difetto venne largamente emendato in età più
vicina, allorchè da molti si esaminò solo per negare,e le passioni politiche e
religiose fecero impaccio più volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi
la quiete dei tempi,e questo nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie
nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren dendo sempre più facile il
sindacato delle opinioni, per suade le menti a giudizj più severi e imparziali.
Ne mancano esempj di queste nuove condizioni della critica odierna,
segnatamente per ciò che risguarda gli studj del l'antichità latina; non
ignorano infatti i nostri lettori che, mentre in Germania Bernhardy e Mommsen
giudicarono con molta severità CICERONE (si veda), in Francia e in Inghilterra
hanno parlato con bella temperanza delle sue dottrine morali e
della sua vita politica Desjardins e Forsyth. Fra noi, gli studj istorici della
filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri
nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitano un ufficio civile,
e all'unità e all'indipendenza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che
torniamo a così nobili studj; e la critica istorica e filosofica fa prova di
richiamare nella memoria riconoscente degl’italiani la storia di quel popolo da
cui venne Desjardins e Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia
o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella
solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e
all'unità e all'indipendenza da opera l'intera nazione. È tempo oggimai che
torniamo a così nobili studj; e la critica istorica e filosofica fa prova di
richiamare nella memoria riconoscente degli Italiani la storia di quel popolo
da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora soltanto le
dottrine di CICERONE (si veda) sono meglio studiate e apprezzate, e la natura
comprensiva dell'ingegno romano, di cui egli è esempio solenne, ci appare come
una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglie la coscienza dei popoli antichi. Giacomo Barzellotti.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Basilide: il portico a Roma: il tutore del
principe – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Member of the Porch. A teacher of Antonino. Basilide.
Grice e Basilio: il circolo di Giuliano -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. He studied philosophy alongside the future emperor Giuliano. Basilio.
Grice e Basso: gl’ortelani -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
According to Seneca, a follower of the philosophy of The Garden, who bore
witness to his school’s teachings in the way he copes with prolonged ill
health. Lucio
Aufidio Basso. Basso.
Grice e Basso: il portico a Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Porch. Tito
Avianio Basso Polieno. Basso.
Grice e Batace – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Nizza). Filosofo italiano. A pupil of Carneade.
Grice e Battaglia: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei valori italiani – scuola
di Reggio Calabria – filosofia calabrese. filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Palmi). Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Palmi, Reggio Calabria, Calabria. Grice: “You
gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot play
in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being and
value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A
is worth B.’ -- “A e B,” “A vale.” “A
vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we
CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.”
Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’
i.e. Socrates has value.’” Grice: “When
I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never
contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and
cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò
la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo
percorso di studi. Si laurea con una
tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un
contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse
la cattedra nella medesima disciplina.
Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo
bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto
nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna.
Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome
la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi
in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla
storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in
chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia
quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e
diffidente approdo allo spiritualismo.
Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica
della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non
fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti: testi, lavori preparatorii,
progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb,
Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi
sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al
concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna);
“Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e
storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di
teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia”
(Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I
valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore
estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (ISturzo,
Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop.
libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli
Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori,
Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei
diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le
carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni,
Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna);
“Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa”
(Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni,
Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il
pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di
Filosofia di Bologna, Matteucci e Pasquinelli, Bologna, CLUEB, A cent'anni
dalla nascita, Bologna, Baiesi, Dal
filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su B. (Palmi), Chiofalo, Palmi,
Arti Grafiche, Ferrari, La filosofia italiana, in «Storia della
Filosofia», (La filosofia
contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini, Vallardi, Milano,
Marchello, B., Edizioni di Filosofia, Torino, Matteucci, Felice Battaglia,
filosofo della pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di
Bologna, Classe di Scienze Morali, Rendiconti, (ora rifuso in Id., Filosofi
politici contemporanei, Il Mulino, Bologna, Polato, B., Dizionario Biografico
degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scerbo, B.:
la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, Anzalone,
Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de Battaglia. Felice
Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona, A. Anzalone, B.. Per una teoria
giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte. Anzalone,
Las aparentes contradicciones de la filosofía jurídica y política de B., in
«Studi in onore di Sinagra»,
Miscellanea, Aracne, Roma,, A.
Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de
Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”,
Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice
Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», SFD, Córdoba, Cotroneo,
B. e la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora,
Soveria Mannelli, Rubbettino, Onorificenze Dottore honoris causanastrino per
uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale dell'Ordine
di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine di Leopoldo
II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile) nastrino per
uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile)
Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiaanastrino per uniforme
ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana —
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino
per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della
Repubblica italiana. Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero
politico in Italia, Il pensiero politico, Università degli Studi di Bologna,
fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici Bologna, Tipografia Compositori, Dettaglio
decorato, Presidenza della Repubblica. Sito web del Quirinale: dettaglio
decorato. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. ULTURA
MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica cura di Battaglia L'opera di
Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD et
FIGLIO - Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES et C.
Torino. R. BEMPORAD et Firenze, Stab. Pisa et Lampronti. La tradizione italica.
Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè stessa nella sua storia.
Il processo unitario. L'erudizione: Muratori. La filosofia: Vico. Antitesi al
cartesianismo. Esperienza filologica. Italianismo di Vico. De antiquissima
italorum sapientia. Vico impersona la nuova tradizione. A lui si ricollega Cuoco. La fortuna di Vico nell'alta Italia e
le origini del nuovo pensiero. Cuoco e i suoi studiosi. La rivoluzione
napoletana. La cultura rivoluzionaria e prerivoluzionaria. Razionalismo,
astrattismo. La classe colta di Napoli. Riformismo governativo. Rottura tra stato
e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. Le origini sacre della nuova
Italia. Gli storici della letteratura e della vita del popolo italiano, che
vogliano trattare del risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di
cause e di effetti, devono necessariamente rifarsi a secoli passati. Sono le
scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti,
poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo
nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento che conduce
all'unificazione e all'indipendenza italiana. Mirabile la continuità della vita
di questo popolo antico d'Italia. I secoli, che ad una critica occhialuta
sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sa investigarli con amore e
con coscienza, gravi di preparazione, ponderosi d'esperienza. È tutta una vita
che si prepara, si svolge, sente il bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà
in foga d'eroismo e di volontà. È una preparazione lenta diuturna faticosa, la
quale fa emergere figure grandi di FILOSOFI e di poeti, di giuristi e di uomini
di governo o di chiesa. La critica ha il dovere di rivendicare questi secoli e
di valutarli al paragone di concetti superiori di filosofia. È ridicolo
condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri
secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età di fioritura. I periodi
storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le loro istituzioni, col
loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini, soprattutto coi loro
uomini. È ridicolo condannare il passato come si usava sino a venti anni fa,
critico spietato, Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore
poeta, CARDUCCI (si veda). La storia ha invece diritto alla nostra ammirazione
come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando,
attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia,
preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi,
insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a
divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse, se
l'affer mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica
figura di VICO (si veda), un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali
cosmopolitici, per ritrovare il particolare più veramente nostro, l'essenza
della stirpe. La storia è l'esperienza dello spirito, che gradualmente viene
formandosi. Il popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle
grandi competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è
spostato. Non più solo Roma, ma Bologna, Milano, Parigi, Vienna. Mentre le
altre genti si gettano tumultuose nel fervore della conquista, nella lotta per
il predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio
della propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere
più italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi,
per sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così
quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra
assente, per riacquistare vita nuova proprio con la critica razionalista pre-rivoluzionaria,
e poi con gl’immortali princípi, è invece viva e desta, sempre, in ogni tempo,
per ritrovarsi, essa stessa, di fronte all'irrompere delle giovani schiere
galliche con un patrimonio nobilissimo di schietta FILOSOFIA ITALA, di sapienza
civile antica, di esperienza politica. Il filosofo deve valutare tutto. La
storia della cultura, ben altra cosa, notiamo, dalla storia dell'arte,
particolaristica, d'un subiettivismo che rinnega ogni sviluppo che non sia
nello spirito individuale e creatore, ha una sua mirabile continuità, una sua
ininterrotta evoluzione. L'oggi sorge dal passato, nel passato si prepara il
pre sente, il presente è la fucina in cui si foggia il futuro. La storia deve
valutare tutto e trovare i nessi ideali tra gli avvenimenti, se vuol essere
storia, cioè studio critico e superiore delle idee, che muovono gli uomini gli
uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e non cronaca astratta di ciò che gli
uomini fanno e potevano anche non fare. Lo storico deve dunque, se vuol
rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento, salire assai più indietro che
di solito non si faccia ed osservare più le idee che i fatti, poi che i fatti a
volte sono puri e semplici fenomeni senza conseguenze, che si spengono come
stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo, mentre le idee vivono, germinano
nell'oscurità, generano altre idee, seguendo la trama fatale del corso delle
stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello spirito, ove si foggiano gli eventi,
rivelano il segreto della génesi de' popoli, il loro assurgere all'im 8 pero,
le cause della grandezza politica. Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui
vita, vita storica cioè dinamica, lo studioso deve analizzare nella sua
complessa formazione e non rinnegare per i preconcetti del proprio cervello. La
rinascita dell'elemento italiano, particolaristico e nazionalista, è un fatto
estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente preparato da lunga
meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una storia vera della
cultura, specie della cultura politica, non può non ricollegarsi, anzi, per ri
trovarvi le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova
coscienza, questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il
momento, guardando in modo sommario la distesa temporale della storia, è il più
li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano, non Torino,
non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica vuole, per
la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un fatto storico
ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale d'Europa ha
disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani, ove le navi
venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della città di
San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che nazionale.
Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea politica
alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano sola può
essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa col di
sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo italiano per
rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta all'influenza
straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente italiana, è
troppo cosmopolita, troppo mondana. Bisogna che il rinnovamento si inizi
altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi
anni Rosi, L'Italia Odierna, Torino,
dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il
suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con
l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel
carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica
nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando
la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello
spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola, arrisa
dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa impersona
la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle grandi vie
commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può custodire il
patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio indietro di
fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura straniera. Car
tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la gloria della
filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari nello
sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre? Nulla,
fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso in sè
stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si voleva
donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da noi ed
acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in quelle
città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si imponeva
e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia però non
filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava, ricercava,
spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi polverosi
i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di trascrizione
diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il nuovo
italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il serio
movimento scientifico » scrive Sanctis « usciva di là dove si era arrestato,
dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica
intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte 10
successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in vestigazione, di
osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la
discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monu
menti. Già non erano più semplici eruditi: erano critici » A Modena, intanto,
studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il Gravina; altrove
Fabretti, Bianchini, Maffei e con essi una vera pleiade di dotti « segnano già
questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella eru dizione si
sviluppa la critica ». A Napoli e poi in un remoto paese del Cilento si for
mava intanto il Vico. E a VICO bisogna rial lacciare tutto il complesso
movimento filosofico politico meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo,
di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il
rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi
al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra sopra una perfetta
consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca storica, nell’un caso e
nell'altro come reazione al pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane.
Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla filosofia im perante, avrebbe
potuto portare Vico ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura, e
in questa scienza era la gran cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una
scienza perfetta nel mondo umano, morale e sto rico. La conversione del vero
col fatto (verum ipsum factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di
vien possibile nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare
il processo creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che
a Dio, divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto
dall'uomo, nel quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica,
la poesia perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce
nello spi SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed.] rito.
È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto: a questo
principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci: questo nuovo
principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito, quest ' in
versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice reazione ad
un cartesianismo, che a Vico era pervenuto, sia pure, come scrive il De Sanctis,
in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma certo non in maniera
del tutto opprimente e scettica? Io credo di no o almeno credo che la
rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un nuovo ele mento,
le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a conclusioni inattese.
Vico, scritto il De ratione studiorum, il De antiquis sima italorum sapientia,
s ' ingolfò negli studi eruditi di storia antica, di diritto romano, negli
studi di diritto naturale, di pura linguistica, di filologia. Dice bene quindi
Croce che, se pure il grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al
nuovo orientamento della sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente
filolo gico, certo lo stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi
sopra detti, « attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e
cioè che quella materia di studio Ecco quel che scrive SANCTIS, Storia, La
materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana,
antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio.
Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo
e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa
coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha
valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il
mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di
Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine
di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano,
la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più
buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc.
». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di
certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia
da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali,
ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo
posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva
apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze
morali. Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le
narri, ivi non può essere più certa l'istoria » Il nuovo pensiero italiano
s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente
serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da
una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la
storia, Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa
scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La
resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta
resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare
Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della
storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si
sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto,
delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli
la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in
quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in
quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo
in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da
un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La
filosofia di Vico, Bari, Laterza, Vico, La scienza nuova giusta l'edizione, a
cura di Nicolini, Bari, Laterza GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli,
Edizione della Critica] natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel
fatto. Perciò verum et factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive
il vero; il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è
una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti,
una storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni. Ora
ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul
Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore
della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova
filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza
critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es
lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di
ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e
nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica
italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un
linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il
latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia
autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole
epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio
informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica,
trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua
origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza, Ma
intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero
italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso
autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno,
dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità
nella tra [SANCTIS, Storia; CROCE, La filosofia di Vico; SPAVENTA, Prolusione e
introduzione alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale] dizione, nella storia.
La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo
sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà,
di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami
dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura
era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano
sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è
storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva
ed universale. Vico si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita [Intendere
il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo secolo è
necessario per colui, che voglia studiare la storia, in cui senza dubbio sono
le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per
esempio, Gabriele Maugain, autore di un dotto Étude sur l'évolution intel.
lectuelle de l'Italie environ (Paris, Hachette), in cui ritorna ed insiste
l'antica tesi (carducciana tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello
spirito nazionale durante un periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo
questa visione parziale del fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura
del secolo XIX? Dobbiamo crederla davvero, mancando una tradizione italica, una
fioritura estrinseca, mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima
e romantico -germa nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di
prepara zione metodica, e in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene
al pensiero di chi legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed
interessante. Questo venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica
recensì l'opera del Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani,
Messina, Principato), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui
la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo
molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto
non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta fiorisce
Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione insomma a cui
il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che dalla morte
rinascerà la vita, e si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si
scuoterà tutta, e ri prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita
spiri tuale, e si aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà
come nazione ». Ora ciò sfugge all'autore del libro. 15] gora, a Platone, ai
filosofi cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una
via del tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì Sanctis, « la Divina
Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre
l'avvenire, tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito
nuovo. Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si
rende conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il
seme, get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia
rinasce e si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un
universale umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un
tradizionalismo più nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella
filosofia del Vico, proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi.
Ben nota il Gentile a proposito (Studi vichiani ). Non bisogna dimenticare che
quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa; ed è anch'essa vita,
perchè condizione e momento di quella che dicesi vita: e senza intendere l'una,
non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare
la vita nella morte: e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo
studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure progresso,
se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo
intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata con la
tradizione nostra, quale la troviamo p. e. nella poe sia del Foscolo e
nell'Italia tutta del tramonto e degli albori del seguente, [ quale la troviamo,
mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro CUOCO (si veda)] se la
innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice in filosofia
come in arte, maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una vita spirituale
sua, del 500 e del primo 600. L'Italia è l'Italia che accoglie il riflusso
della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto rica
rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche
reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il
senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain....
». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de'
letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le
induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi
della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo.
SANCTIS, Storia] nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi
concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita; col Vico si
presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero
settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito,
donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana
napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di
Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine
la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto
notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di
Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra
amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di
quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa
saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè
sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi
illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non
ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande au
tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico spirito
del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu in molti
una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che
propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè
facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate. Lo stesso
discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo può
condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi voli,
non fu immune da contaminazioni estrinseche: il vichismo in Mario Pagano è
mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). CROCE, La filosofia di Vico; Cfr.
VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza
Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge -
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana per Pagano, Logoteta e Cestari, ed è diviso in un
Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano,
chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri
dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la
quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di
Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi
rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto
intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo,
per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro, e perchè già
fatta da N. RUGGIERI, e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno
nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del
molisano. Noi per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in
guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con
l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto
elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per
incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1)
Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del Rapporto al cittadino
Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per LOMONACO, con @enni sulla vita
del l'autore, note e aggiunte di AYALA ed infine il Pro getto di costituzione
della repubblica napoletana per PAGANO,
LOGOTETA E CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Lombardi; I Frammenti si
credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la
rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile,
che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente
vanno innanzi. RUGGIERI, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della
Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio
cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano,
inedito fino al giorno, in cui CUOCO (si veda) stampa il Saggio con l'ap.
pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli da Lancellotti,
seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero
l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli
immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Russo. Potrebbe sembrare
un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami
cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna;
si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di
costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è
naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va
bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante
tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria,
proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio
il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone
base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo
pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica
scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono,
ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema
rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il
sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera
di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Russo?. Basta leggere i
suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella
cit. edizione napoletana, ROMANO] crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo
stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, CROCE, La rivoluzione napoletana,
p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo,
anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la
sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima
giovinezza Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la
quale egli si era messo ». Su Russo vedi CROCE, La rivoluzione napoletana, pp.
85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale, Laterza ed.,
Bari, che ci offre una buona analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui
quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio un po' incolore, sebbene
ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a
proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea
di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da
coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non
atti tra vivi, e neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la
quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli
uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio,
altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare
personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti
sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro
necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie.
Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente
alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione,
tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea
sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città:
una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni,
non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere
tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi
formato, come termine ultimo, la « Società universale. Era nel Russo, come in
molti rivoluzionari, special l'insigne martire, specie nelle sue derivazioni
dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono
FIORINI e LEMMI. Il periodo napoleonico, Milano, Vallardi, Il giudizio (Saggio)
è il seguente. La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si
possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche
migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione
sta tutto CUOCO (si veda)! CROCE, La rivoluzione napoletana mente meridionali,
un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica
e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera, non
vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto. Nella prefazione ai suoi
Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho
consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, La prima edizione dei Pensieri politici è di quando il Russo, esule
da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici
di Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino Poggioli, anno I della ri
stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano (Milano, Tip.
Milanese in Strada nuova); e poi ancora a Napoli (ed. a cura del D'Ayala ) (ed.
a cura di Peluso con pref. di Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, CROCE, La rivoluzione napoletana, civile. Aggiungiamo a
ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo
detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della
sua critica. Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra
tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui,
nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della
risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi
del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito,
altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica
scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al
Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio,
nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli
dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui
regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver
amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza
che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto
prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto
in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era
destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato
autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per
lo meglio! Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che
egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto.
L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso
parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo
confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende
prevenire il giudizio della Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti,
di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime
diversamente. Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a
meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia
patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono stato io
stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non
debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Dunque di fatto l'autore stesso
accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo
luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una
classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e
non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza
della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito
invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma
nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae,
perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe
dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e
questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua
ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La
rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per
caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne'suoi scritti. Egli non ne
condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per
tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua
posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi
possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva Nè basta ! Egli vede che
la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono
alla testa della cosa pubblica, sono più CUOCO (si veda), Saggio storico, Oltre
i brani citati cfr. Saggio storico, illuministi che non i pensatori francesi,
che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un
bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni
concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole
essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il
Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi il
giovine Vincenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del
resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi
darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati. Queste poche osservazioni bastano a spiegarci
il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi, contegno di critica, dunque,
dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati
bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già,
come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo,
antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano
contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica,
nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui
parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può
spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono
non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e
sobri del Saggio storico. Rosi; CROCE, La rivo luzione napoletana, ove troverai
abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi
processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. HAZARD. Prima di
andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione
cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette
conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e
non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue
lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo
provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e
l'esecutiva, la prima letteratura italiana, getta gravi ac cuse sulla figura
morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria
contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise).
« In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente
con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei
progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo
avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma,
anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi
si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva
nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in
quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa,
nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo
particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi
il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche
dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il
Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la
mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In
quel tempo il governo borbonico era disposto a concedere a CUOCO (si veda) il
perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al
fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha
avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo
perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im
possibile resistere; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della
virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un
perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che
non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali
ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia
del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di
disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le
parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione,
che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino
Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si
dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega »,
Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si
discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse,
senza penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione
assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza
intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando
sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della
nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza
giuridica popolare del Savigny diventano, sono in Cuoco, più concreto e
positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e
morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso
illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse
seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far
nulla. L'ottimo non è fatto per l'uomo. Costoro,
ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare. Nessuno può « törre al popolo tutti i
suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base
di una costituzione. CUOCO (si veda), se osserviamo bene la questione,
distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea
istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una
elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo
era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene Framm. trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine. È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità.
« Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità
esterne colpiscono i sensi. Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una
costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione,
come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non vi è
nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi, che
convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non
abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è
schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un
popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non
mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici.
Quanto più il governo che voi distruggete è stato Framm. Ibarbaro, tanto più
numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando
troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra
le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di
seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi. Nello sviluppo storico nulla
si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro
è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si
possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un
culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della
nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filosofo. Un
legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la
natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema
costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi Framm. che non sono
nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un
legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole
dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per
la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i
mali. CUOCO (si veda) ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non
bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un
problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può
ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei
filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è,
edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di
continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione
consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Essa è
qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme
regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi
non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore;
grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che
l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto
a cederli, nè spinto ad abusarne. Ciò è possibile solo in quanto la
costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla
quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico
generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire
l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare
ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi,
il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar
leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco
ci dice che egli Framm. forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni
non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come
bene osserva il Romano, calcando un giudizio di Zito, mentre all'inizio del
movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma,
in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese,
non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte
a tentativi di analisi e di giudizio. Ed è proprio così ! Anche Pagano, mente
geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo
non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli
studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella
scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del
governo di uno Stato, è certo però che il grande autore del Processo criminale
si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la
costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso
assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di
oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La
costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un
popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle
coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle
armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi
molteplici bi sogni, ne ' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre CROCE,
La rivoluzione napoletana, Zito, Vita cd opere di Pagano, Potenza, Garramone,
ROMANO. Il giudizio sull'opera di Pagano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che
non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste. Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono
relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per
gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi,
che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io
credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che
pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa. I
due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una
evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla
base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto
l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo di NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d’ordine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese, Framm. sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli
uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non
è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si
può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Hugo e Savigny.
È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o
quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente
diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in
Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono publicati,
in Germania l'Hugo che nello stesso anno formula in un suo libro quei princípi,
che poi il Savigny, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della
vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il
Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero
germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli
scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo
sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il
nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla
di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine
nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande
giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da
un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non
manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione
legislativa e la codificazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid
astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua
propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e
pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito
collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua
filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività,
concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di
tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema,
attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana.
Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la
manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha
una sua anima (la Volkseele dello Schelling ), che determina la morale, l'arte,
il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che
nello Schelling è generalmente accennato all'ori gine della costituzione e
degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se
convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva
nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la
costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante
d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed
inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la
lingua già formata e non crea la lingua. CUOCO (si veda) più concretamente non arriva alle conclusioni
un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che
pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile
ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in
vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come?
Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale
vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono
quelle che il popolo si forma da sè. Ciò non nel Framm. civile. Aggiungiamo a
ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo
detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della
sua critica. Ma la causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra
tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui,
nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della
risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi
del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito,
altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica
scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al
Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio,
nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli
dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui
regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver
amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza
che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto
prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto
in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era
destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato
autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per
lo meglio! Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli
vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione
è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli
avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo
confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende
prevenire il giudizio della. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti,
di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime
diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a
meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia
patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io
stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non
debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Dunque di fatto l'autore stesso
accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo
luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una
classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e
non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza
della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito
invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma
nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae,
perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe
dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e
questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua
ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La
rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per
caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne
condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per
tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua
posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi
possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva Nè basta ! Egli vede che
la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono
alla testa della cosa pubblica, sono più Cuoco, Saggio storico, Oltre i brani
citati cfr. Saggio storico] illuministi che non i pensatori francesi, che s ’
astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che
dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle
masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta
con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e
doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine
Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto
dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà
nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ).
Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei
grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2),
ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere
difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai
astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente
nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico. Rosi, CROCE,
La rivo luzione napoletana, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti
sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo,
Vitaliani e Galiani. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi
bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta
d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi
che la figura del nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria
in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite,
pubblicata in Rassegna critica della [Dopo che il Governo provvisorio di Napoli
fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima
letteratura italiana] getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le
lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro autore,
sono state alui date dal signor Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le
lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello
[Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle
speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non
perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a
raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva,e
per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli
studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava
facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli
inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu, lare, siccome
avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ». Cosi il Tria: e tutto ciò,
perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il
pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune
frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull’uomo poli
tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il
1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il
perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule
al fratello. - Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha
avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo
perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im
possibile resistere; un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della
virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un
perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che
non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali
ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia
del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di
disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le
parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione,
che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino
Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si
dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ».
Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si
discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse,
senza penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge-
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe
Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al
Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in
una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e
de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre
autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle
operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da
tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg.
e da ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu
meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi perconto nostro
abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi
atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo
suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico,
come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e
nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1 ) Seguo per la
Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot
sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla
vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di
costituzione della repubblica napoletana del 1799 per PAGANO, LOGOTETA e
CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2 ) I Frammenti
si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante
la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile,
che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente
vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti
durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il
suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto
del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap.
pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo
Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra
intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione
agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzio Russo.
Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà:
una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in
trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso
il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche,
quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì,
tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il
rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la
requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1
), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico
invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come
diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di
critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico
culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il
sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo
dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo
lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era
Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle
sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il
ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio.
Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo
estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in
grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo
compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via
senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE,
La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e
sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui
quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore,
sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo,
a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava «
sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di
terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non
testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte
del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di
stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò
senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il
tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti
leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e
ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di
cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe
ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi
dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di
fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non
classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi
costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle
per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le
nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la «
Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special
l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI.
Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg.
(1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri
politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una
seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In
quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto
curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di
razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ),
non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho
consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in
Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala)
e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a
proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1 ). Queste
esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere
italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2),
« mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio
la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva propria del
tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le
dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3). Ed è
proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla
corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e
risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far
tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine,
come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge,
che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare
per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi,
che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io
credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che
pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2
). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l
' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli
uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non
è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si
può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una
formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta
realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling,
la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più
concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai
quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm.
I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi
amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag
giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un
legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le
esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha
dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è
stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più
numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando
troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra
le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di
seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico
nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle
istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della
modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione
non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita
della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa
dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli,
nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in
quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere
economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa.
Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi
costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il
pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han
pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove
le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra
dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti
e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa
in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario
Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo
napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un
complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della
costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai
leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma
nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi
di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo
ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano
risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa
razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore.
Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al
pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano
è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è
grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano,
nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i
rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto
negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono
solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto
quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e
quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I,
(2) Framm.] cose e della loro importanza » E nel dispiacere del fallimento, che
al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile
avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi
ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della
buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è
l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi
errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di
Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci
possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a
creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo
disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro
Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che
il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un
sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la
rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per
cui il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli
stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi
troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se
non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è
più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3
). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire
come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle
circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese
dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre
che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo
attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. Framm. I, p. 220.
(3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia »
commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre
» (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante.
Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si
avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco
che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di
guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler
particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un
peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli
ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la
molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il
sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime
altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2
). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea
portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha
della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli
uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il
Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro
autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per
intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una
meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica,
rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la
Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario
Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III,
p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo
sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi
della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa
aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto
elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche
repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la
· purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime
educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova
scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran
cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha
data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ».
Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che
ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione
« ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben
giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse
eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la
diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la
fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti
nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della
repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno
determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè
il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere
sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe
(1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in
Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il
Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto
alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica
di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla
costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano,
Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si
provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè
un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co
stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un
diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. «
L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare,
che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de '
naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ».
Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un
comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto
d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e
l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro,
hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi
delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le
naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione,
dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche
adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè
negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque
come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti
dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come
Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione »
derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze
fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione »,
modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il
conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica
e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito
geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane
sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà
dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace,
colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ».
Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo
fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è
una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i
doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati
e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi
costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano
senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un
popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la
vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme
naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle
volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia
de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de'
consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica
autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar
l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi
interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es
sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa
della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii,
che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono
vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio
della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello
spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un
terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota
forma senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e,
purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto
passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità
ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è
che il direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra
assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in
quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato
moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di
costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare
pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti
d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una
nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato,
di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo.
La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e
l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il
popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca
Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo
sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del
Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di
un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il
compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il
compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è
assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al
Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della
nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui
dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non
accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva
dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante
l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e
non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e
generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del
sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano
al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non
era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai
fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La
nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son
quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica
sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei
baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un
pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un
popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti,
sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti
delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande,
il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte
dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più
naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un
giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione
millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I municipi
non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al governo,
cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato » (2 ).
Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac centramento in
Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei comuni,
una vera e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato l'unità assai
presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In Italia il comune è stato un
istituto spontaneo, espres sione della rinascente romanità contro il feudalismo
fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche
allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato entro gruppi politici
più vasti, come il principato o signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non
dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 ) Framm. II, p. 223. (2 ) Framm.
II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran
cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne
conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un
salto e senza veruna preparazione al sistema nostro. Ma quella stessa natura,
che non soffre salti, non permette neanche che si retroceda; e, quando i nostri
legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu
che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva
dei più antichi e più interessanti suoi di ritti ! » (1 ). Il sistema
costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il più naturale per
noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei bisogni complessi
che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini durevoli. In poche
parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni varie e molteplici,
dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari
primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque, convocata in
parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso è antico, è
nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni per
conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo
delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render
conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà
un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al
popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella
storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre
attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di
prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa.
« La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della
repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni
particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58
nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge
nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl '
interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni
individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua
legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il
suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e
s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico
lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità
e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al
disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi
pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua
stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto
più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma
che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata.
Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s '
ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge
nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale.
Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo
Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti
siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino
interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo
ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni
uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve
esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno
di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova
contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno
che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera?
Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del
giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi
riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... »
(1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo.
L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione
diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione
della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la
volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi
e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto,
e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto
ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività;
ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La
volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino,
in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata,
ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura
della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla
quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime
fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine
ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente
possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici
di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi
avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle
popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto,
una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze
inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 )
Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi,
posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non
viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un
federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto
tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo.
L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per
popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un primo
passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese, in cui
gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema federativo di
Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie, ha un
parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento
amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So
gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte
essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza
perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività
individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta
l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è
che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra
tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un
occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e
farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio
unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e
di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè
agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione.
Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano
l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale
e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita
(1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a
lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione,
che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida
e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di
natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e
cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo
umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile
particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su
questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme
giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi
fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non
al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai
subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta
una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È
fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può
divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello
Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è
doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà
in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i
prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi:
una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e
deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia
e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e
così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar
nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe
se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge,
la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori
della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei
tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in
loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della
nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa
non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ).
Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e
senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia
sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede
i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in
loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia
simile ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano
di Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag
giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra,
e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale
mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va
ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i
nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese
confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più
popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due
parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro
cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo
» (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla
divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La
Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette
dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5
al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni,
e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser
rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di
ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo
VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale,
e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia,
vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu
ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io
vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo
secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno
provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno
uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni
interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità
d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa,
la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all '
intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi
litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo
l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l'
esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la
direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo
l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello
Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe
Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni
anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can
tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari,
ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che
formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po
polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che
talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ).
Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella
larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo
dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 )
Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale,
consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente
primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può
avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al
dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato
nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il
potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive
nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un
sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica
risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come
tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti
dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema
cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla
Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi,
Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del
governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida
e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi
regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo:
egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e
centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno
origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è
la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali
non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette:
inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes
sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi,
potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi,
L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano
e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed.
nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore.
Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora
un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello
positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del
mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo
diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia
settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre
nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali
d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove
nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc
cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il
dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento
che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi
ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza
infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè
questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia, perchè
si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo, quella che
si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli tica appare
questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore, che non esito
a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione storica !
L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera di tre o
quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale spontaneo
secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia segue una
trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela, violatela,
provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce.
L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e
non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor
maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono germi
dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol
significare fazione e campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi
sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche
economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati,
ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura,
anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini,
fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di
rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun
vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e
troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella
francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita
positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della
concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in
due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più
austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il
critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico
nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda
questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo
mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli
americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in
ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro
dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua
disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della
legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli
americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi
ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il
Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione
plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli
inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo
appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo stabilimento
americano. In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra le due
Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo uguale
nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione non ha
una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero politico
del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere legisla tivo,
offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale il giurista
può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere esecutivo potere
è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare. Difficoltà questa
più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino nel pieno oblìo
degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla vera scienza
della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne conosciuti i
princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta, una
costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai bisogni
di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la quale gli
sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà una costi
tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare quindi in
via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i sensi, il
trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera forma, che è
vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un contenuto
essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto con la
vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi andate (1
) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in Italia (a cura
di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive: «.... In
Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno
difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno
abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di
questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal
potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la
legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che
solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla
costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi.
L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in
ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze
dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo stato
delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo:
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In
Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento
d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia
stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non
può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno
per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che
in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate
prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi.
» (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è
stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che
Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le
sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo
essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe
essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare
la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola.
È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi
diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito,
significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello
stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le
frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli
subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece
d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti
egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i
legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di
forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero
equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di
opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. «
I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei
popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche
quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura
che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso
civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A
volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di
regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1
) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per
uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia
accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le
sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a
lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero
confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di
Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo
repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi,
perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute:
la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo
di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo,
quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè
troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue
esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla
regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na
scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri.
Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi
sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi
solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la
rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi,
plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa
in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto
nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi,
conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo
mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia
degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà
impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui.
« Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di
un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso
modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni
fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia
sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte
queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so
stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un
rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ).
Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo.
Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle
persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco
la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due
consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza,
che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione ».
Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza
per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della
legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto
interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e
però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si
può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in
base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse
costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può
darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la
repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando
della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli
altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di
esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica
degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è
detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali,
e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che
garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza
cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo
per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già
spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno
sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti
sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto
dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben
poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il
legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali
dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar
monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la
censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio,
l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine
di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di
essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità:
non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga
l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta
nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari
stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante,
imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi,
la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve
esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p.
250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la
natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che
noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non
è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della
vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti,
e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o
milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon
repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a
recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di
quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al
nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati.
Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può
considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti
» (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che
riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che
ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che
non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica
delimitazione tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà
particolare, che sola può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della
virtù è la felicità, e la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico.
A lui non in teressa l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua
sfera ideale ed eterna; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è
che la conformità del costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana
coincide affatto con quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto
dei due istituti del Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p.
442 e sgg. (2 ) Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino
col costume della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo
etico, che assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere
civile. D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad
osservare dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e
semplice hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare
la felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e,
questa alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia.
Arehita (v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è
che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la
subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se
volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può
conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da
quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo
vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo,
tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le
colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno
bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di
simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini
civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa
origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in
età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni.
Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi
siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora
Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono
separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili
contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona.
Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle
civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo.
Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà,
quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale
avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi
de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che
allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della
temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i
collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società !
Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem
proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente,
dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della
felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà
del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che
non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto
pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione
giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e
complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci
appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici,
d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri
im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il
fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona
male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca
superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla
ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si
connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma,
siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla
felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo
le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro
certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere
dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale,
concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono
bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il
concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana
statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in
continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI,
p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto
superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi
bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non
sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi
bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le
nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo
corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi,
di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e
bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate
nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi
continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un
nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute
economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra
forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci
insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai
crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori
che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi
paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e
felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al
pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri
» (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano
è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema:
egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio
della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di
noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e
precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa
scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 )
Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me
sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e
pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è
insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico
fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del
governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e
quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo,
se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto
di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare
un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi
agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai
commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci
mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo;
e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e
colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ).
È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la
realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza
dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la
filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni
princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola, dovrebbe
insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af
ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo
di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo
storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua
rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i
benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne'
suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3 ) Framm. VI,
p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele terio, ed
occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento profondo, che
il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo pensiero nel lungo
corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del progetto di Pagano ci
appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che nel molisano è
organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un antirepubblicano. Nè
Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge alla costituzione
partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione francese, che a
lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi para gona la
Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella fatta in
Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla
ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma quanto
queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio
dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo
e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub
blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È
difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella
che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la
indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può
sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci
confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se
essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale
occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo
della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la
norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato
La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15
febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente
bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico
del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più
significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice
alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi,
dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe.
Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme
col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl.
Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari
(Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era
già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V.
Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI,
Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti
gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla,
limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i
maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri.
masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione
laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori
affidamenti. Il « Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo
ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese
è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. –
I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere
dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane
seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione
di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza
storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i
raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna
e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti
acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime
pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una
disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che
questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri,
ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha
dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata
dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un
pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo
storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice
imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i
suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio
repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae
l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose,
e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione
ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra
seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo,
invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità
cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico
dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano,
tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a
forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso
della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita
senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa:
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco,
Saggio storico] ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben
scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza
rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la
crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza,
non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle
istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una
verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità.
Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza
politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le
sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del
nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella
del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è
quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone
c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la
critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la
democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede
con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi
antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi
rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte
sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si
riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica
dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta
nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso
spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del
pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana,
giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme
hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro
bontà ! (1
) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere
di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben
potea paragonarlo ad una tragedia greca (1). Ed il raf fronto non è davvero
stiracchiato. La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto dell'antico Fato
nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno determinato la !
catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog giacciono ad un
destino, che sembra irrevocabile. Sono essi, gli uomini, che determinano lo
scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto motore? Ma la
storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed effetto: gli
uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il Cuoco parla spesso di un
vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè districarsi a mala
pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli non ammirava, se
pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul palco ferale tante
nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è altro che la
rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?: No, esso è
fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini possono averne
sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne conoscenza, si
gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei Frammenti era la
teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto, la tragedia greca
in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la ragione per cui esso
è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito dello scrittore rifà il
processo della storia, segue il corso delle idee, e lo fa con tale intensa
visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di chiaroscuri, di sfu I
mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il pensiero; la fantasia,
laddove prima era l'intelletto, la fantasia che s'esprime per immagini e tutto
risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta in un processo d'obiet (1 ) L.
SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano ed., 1882, v. III,
p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico, Lettera dell'autore a N. Q., p.
11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84 tivazione, che non esito a dire
perfetto, onde non v'è affatto, o assai raramente, quel contrasto ibrido tra
l'ar tista che intuisce e lo storico che analizza quale può rin venirsi in
molte opere di simile genere, poi che tutto è compenetrato e fuso, attraverso
una lunga maturazione, che dovette certo essere prima consapevolezza di pen
siero, meditazione di cause e di effetti, e poi immedia tezza nervosa e rapida
d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel Saggio un elemento estrinseco all'artista
e allo storico. Lo storico si fonde con l'artista, ma lo stesso storico è
perfetto. L'uomo pratico non con turba l'artista, che supera nella visione
l'enunciato fine utilitario della sua narrazione; il partigiano non con turba
lo storico. Leggete invece il Rapporto al cittadino Carnot del vesuviano Francesco
Lomonaco. Quante escla mazioni, quanti interrogativi, quante tirate oratorie,
quanti pistolotti repubblicani, quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è
l'uomo delle nobili passioni, ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere
un suo fine, non esita di caricar di tinte fosche la storia, non esita un
momento per indossare la toga dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza
d'una passionalità che di strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura,
che è la negazione d'ogni vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di
tutto ciò. (1 ) La questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai
risoluta. Fausto Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e
sgg., la riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da
rinviare il lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio
poi possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette
ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la
nota del Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il
Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi
Studi vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che
nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli,
Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee
di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le
vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti
ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un
avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i
successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte
nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i
fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la
storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. «
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo
istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ).
Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel
mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un
avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono
un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di
crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che
sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi
costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli
effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si
può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a
parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia
il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione
di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa
scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi
immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato
essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini
sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se
non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per far
meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. (2
) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 17,
86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua logica,
nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e sono
inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della storia,
e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro
individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non
significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce
nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una
complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro
rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle
circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la
filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta
gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il
Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol
semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il
posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana
debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il
popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo
quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue
con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei
filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della
politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma
dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo
intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento
gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero
filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La
vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica,
politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p.
82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto
essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche
nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in
tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia
monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi:
« la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1).
Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa,
è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo:
gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni
che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la
storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le
cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i
quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose
istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno,
rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio
e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un
fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera
d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di
pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei
precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana
concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che
di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere
una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine,
delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le
rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello
per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha
de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da
Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre
d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre
tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni,
quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti
che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che
ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno;
una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle
altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè
ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che
indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i
quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle
opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni
nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la
massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della
corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi
la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee,
tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in
travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da
un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono,
se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già
nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza
economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i
contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come
quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco
l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono
nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È
una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che
seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei
repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle
riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della
rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione
francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco
contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono
troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso
astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove
oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! «
Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >>
è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi?
No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La
ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in
telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo,
esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta,
vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco,
Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico,
VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla
fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire
provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo
abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di
princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano
seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de'
potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della
rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre
una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto
sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine,
che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi
incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione,
poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta
fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli
li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni,
se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i
millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge
tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare
per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una
catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle
nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua
politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra,
della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un
evento isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in
tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La
rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a
Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed.,
p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui
il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della
grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di
essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il
popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato
politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva
già acquistato. Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero
riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva.
L'aggettivo passivo ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee
passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a
riceverle e a meditarle; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a
nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a
provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a
Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre
tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla
Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista,
illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi
in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter condurre realtà di
lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non
sforzando lo stesso ordine delle cose? Così.a Napoli. Invece di fare una
rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in piccolo. « Le idee
della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser
popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte
da una co stituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra
massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si
aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora
tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri
capricci, dagli usi nostri » (1 ). La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XV, p. 83, 92 francese, in sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi
derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi
economici e politici; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di
opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la
rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in
realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa; il re di Napoli
crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po '
moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo
contegno un generico malcontento. Lo stesso atteggiamento politico estremo in
due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le
conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che
Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e
nei codini, nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo
manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale
errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia: effetto: la
Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone,
vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed imprudenza, assodò
una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » (1 ).
È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine
delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè
tutta l'Europa: la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo
sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema
di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a
cui i filosofi applau dono in buona fede; « sistema che alla forza delle armi
riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti,
quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » (2 ). (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93
A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari.
Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante
di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae
dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana,
che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è
possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i
repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si
proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma
la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È
proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi
nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1 ). « I nostri affetti,
preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e
dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ). Gli uomini s'oppongono
violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con un metodo diverso la
situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali d'opinione si guariscono
col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i
filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento: la
rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la ti (1 ) È lo
stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I, p. 43: « Nel
portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura principale de
quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra...
Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo cura, ad
onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual
giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un portico per
ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a
taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto: —Tu vuoi
dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua
stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi smascherar
lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante?
Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p.
29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco, la polizia
perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a cavallo per
Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe riodici le
cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle
innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera
l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse
cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che
la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa »
(1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso
della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ).
Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano,
nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non
era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un
solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione
farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e
il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. «
Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione
della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della
corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei
coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i
patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e
gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la
ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e
nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento
dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa
pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani:
la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo
osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza.
La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la
corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della
nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne'
signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un
giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente
i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure
l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella
politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che
finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la
storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti
quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono
considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi
consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca
partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la
vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia,
intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto
deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza
all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo
sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso
economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali?
Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone
discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti
avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta
contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza
amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano
tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come
scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua
imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non
costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A
Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore
compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male
seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che
voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della
monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica
borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con
tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una
condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni
meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea.
Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una
politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del
Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con
la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice
co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato
diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da
sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre.
Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco
sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è
straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero
antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare
agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere
esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le
rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione,
che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de'
governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte
ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti:
egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha
origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità
politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri
voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva
ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi
d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le
direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è
poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee
ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia,
Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da
questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono
meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire
napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una
principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la
tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola
smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per
il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od
inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del
vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. «
La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi
serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose
sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione.
Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la
potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto
portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco,
Saggio storico, V, p. 29. 7 -- tando il paese perciò dalla dipendenza
manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece
no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in
cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si
spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non
eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di
nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra
dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il
peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si
riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male
assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli?
Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè
la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza
de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di
Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri
e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire
il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era
quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria
Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I
bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con
le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi
mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre
alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta
che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da
guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto
non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p.
45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di
tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate
manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del
molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito.
Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno
verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo
dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di
astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di
Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon
senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a
scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza
positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle
schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a
tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza
collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do
manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo
la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non
già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede
sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione:
audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee
loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si
trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è
inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura
» (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono
rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la
sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi
nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi
di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del
Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra
acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel
corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le
stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due
cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono
repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia,
la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto, l'ufficialità dànno
il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri, giureconsulti,
vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen
siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine
secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione? Tra le file dei
repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno
d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare, che anche a
Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti,
l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel
cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il
Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del
'99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a
Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a
Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che
vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre
uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed
eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue in due gruppi: coloro che
vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido,
coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p. 158 e sgg. in Rassegna
critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L. CONFORTI, op. cit., p.
21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia; i furbi, in somma, e i
fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre
rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono
i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti. La memoria dello
storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I patrioti sono uomini colti,
superiori, il fior fiore della nazione: forse questa stessa loro origine è la
causa prima che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla
realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni; i princípi che essi pro
fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito
romano, la loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi:
quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ). Uomini i patrioti
insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere
uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra alla posterità la
loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa
esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che
enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito,
esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli
ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste, la
distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di
Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili:
l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del
forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce
di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo
freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali,
ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure eroiche,
che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo della
sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 84, nota. (2) V.
Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica esclamare esaltato: « Si sono
tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire; i nostri
fecero anche dippiù: seppero capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno
una volta far riconoscere la repubblica napoletana » (1 ). Ma lo spirito
politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla sventatezza,
all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo; non può, esaltando
virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo
legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine. Si è detto (2 )
che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto. No, il fine c'è:
la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè
l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori. I saggi
sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre in
beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti i
popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti bisogni.
A Napoli, come al trove, c'era un popolo: bisognava tenerne conto, inter
pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso. Tutta la rovina della
repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo, sappiamo, è
il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni (3 ).
Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una semplice
illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione deve parlare
ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle plebi, e non solo
ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo aveva di che
lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo agire,
soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione, legarlo
allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p. 188. (2 ) U.
TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette ratura italiana, v. VI,
(1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 5. 103 fatto ciò, la
repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile. In una
rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si sarebbero
potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della
nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra le due fazioni,
i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede fuggire
ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del sovrano,
della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria, dubita, e chi
dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo partecipe all'azione, invece
si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco «
essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era
quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma repubblicani e popolo
sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi
sono fran cesizzanti; il secondo per natura tradizionalista, attac cato alle
sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra
gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia. I
dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si
deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co loro, che sono ancora napoletani,
nota con amarezza lo storico, e che compongono il maggior numero, sono in
colti. Ritorniamo al solito concetto: la moda straniera è la causa di tutta la
rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti
dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se
non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non
può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della
sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli
esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. (2) Il
giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V.
FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad una nazione straniera: tutta
la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » (1 ). Mancava
alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli nelle loro
crisi. Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si obliava che la
gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla natura delle
genti galliche. In Italia c'era un comunali smo, che in Francia non era mai
stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in Francia un
popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani dovevano tener conto di ciò, e
trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti, governanti e
governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le
potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » (2 ). Il popolo non
è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso: « i popoli si riducono »
osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro offrono
maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i
rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero
intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli istituti a cui era legato,
avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione
in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri,
interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si nta un capo che li
voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti
abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti
solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare ciò bisogna
andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti esistenti
assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al
suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » (5
). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco, Saggio storico,
XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di Napoli, nota il
Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa religione, e
vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La reli gione
cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo; riformate nel
clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente miseria di molti;
diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che
oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li rendono quasi
indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la
religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e
liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal paganesimo, che,
basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi indocili e padroni
tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di libertà, su prin
cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi la più adatta
per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo un
pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello
spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora
dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date,
se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una
religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione:
se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al
governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo Cuoco (4 ). Lo
Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa nazionale
debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un superiore
approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla posizione
religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA, Giambattista Vico
e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414 e sgg. (3) V.
Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p.
137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel ritenere che gli
errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco influito ad
allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo in seguito:
resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano aveva della
religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi princípi.
Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore etico
della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica morale
laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi
gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante
opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro
i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola
loro volontà individuale. Il governo in sostanza era agnostico, non conduceva
ex professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e
gli emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio
contro il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi
affetti, s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo
il più saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi,
due popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni
subordinate. Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile
e laica. Si negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che
cosa è la libertà, se non un mero astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo
quelle popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La
libertà delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi,
era chiesta (1 ) Nel Platone in Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con:
cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: «
Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di
religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè?
Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo, il popolo
tien altri precetti da seguire. Se il popolo allora si trovasse senza co stumi
e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo
necessario a riordinare le leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131.
-107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto,
è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi
princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep
pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le
forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile
barriera al legittimi smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne
intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca
la sua natura. « Il popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello
che si crede » (3 ). Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare
que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze,
così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu
» (4). Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi
come salvatore il riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per
osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e
rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal
volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche,
che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di
sostanza. Ebbene, i repubblicani preferivano urtare contro questi apparati,
anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia
politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una
sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò
che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che
vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più
non vuole; egli allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che
si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico,
XIX, p. 106. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio
storico, XIX, p. 107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani
da questo elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e
perniciosi. « La manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione
» (1 ). Le rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli
uomini, e gli uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e
categoriche, sono senso, sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno.
Ogni nazione ha un patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare,
d'una vita non interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella
sua coscienza, presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato
mentale, ma è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare
alle idee antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti.
La rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno
sulla rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne
contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi
esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una
natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per
gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle
antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco.
Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito
individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o
sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la
sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non
possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento
della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è
un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo.
Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è
nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di
sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII,
p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo
punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso
riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine
della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura,
che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo,
s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo
si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso
naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che
tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia,
sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua
autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella
ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre
all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo
moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua
figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le
idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio
storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi
costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. «
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo
si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu
attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando
egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il
crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando
considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.
102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu
zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria.
Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è
solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento
unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà
coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore
dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di
princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale
l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme
del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato
e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel
diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è
cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è
veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa
degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli,
che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni
pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià
dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia
significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni
errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della
retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini,
gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di
terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il
terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser
diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che,
non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa
fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza
dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi
e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero;
lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il
Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso
costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico
trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente
consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi
a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale
rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub
blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise
gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa,
alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei
rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il
nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del
Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che
non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici
niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure
con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota
una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il
capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai
praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la
storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi.
Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione
per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è
consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa
pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII,
p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità
pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello
spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma,
nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1
) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che
raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la
drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività
superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico
sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia,
che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta
subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma
precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce
della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad
accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a
constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè
uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a
volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un
principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il
Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la
glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la
quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu
sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse
durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono
metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici,
religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe
repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono
ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE
RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113
scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre
più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che
non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica
causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di
premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la
critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco
possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima
posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto
minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso
riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della
vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno
alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante
tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale,
non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno
nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due
scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei
princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla
legge, sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i
buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i
lazzaroni oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il
governo dello Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo
vedremo documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le
pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa
della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non
distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi
e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai
Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke
scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo
liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine
sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione.
Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre
interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam
dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso
dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che
più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno
svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama
con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa,
secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come
lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad
una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke
nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri
voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese,
la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che
pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto
d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per
altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato,
che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano
utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno
quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita
civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica
incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua,
nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2
) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo
secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per
tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente
ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe
essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore,
un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con
siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo
la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi
e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai
particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un
corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato
da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il
Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale
di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo
in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla
rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo
d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno
farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del
moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva
nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica
superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione,
mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo,
desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di
saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco,
invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega
completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa
desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova
situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel
secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun
paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla
fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal
punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a
noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere
sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di
Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma
trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale
italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande
successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per
chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti
di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se
la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una
coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta
moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 )
Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana
le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità,
sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del
1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio
stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo
giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali
inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai,
e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel
Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo,
pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228;
ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo
dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446),
ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione
italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime
and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai
profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit.,
p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo
pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal
punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il
Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo
a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del
Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di
più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99
e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui
diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente
storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce
sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto,
sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg.,
ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo
scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare
inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal
RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a
scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di
chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono
scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano
michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la trista
figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il
GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri
vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè,
confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni
e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del
resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio,
come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, «
li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche
senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano »,
venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente
il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che
importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo
perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida
io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la
lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più
che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s'
intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del
tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza
italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli
altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che
fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione,
il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119
mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli
dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè
stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli
uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della
tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'
i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più
di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1
). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito,
tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la
acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un
individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ).
Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella
Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia;
Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna
ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti
a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre,
finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero
cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem
pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente
moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli
animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di
Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro
furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei
soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico
vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica !
Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ).
Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è
cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate
alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di
Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio
che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una
figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei
Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente,
dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un
elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora
uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime
della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per
raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli.
Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di
grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di
prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti
del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità,
illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette
agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono
gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi,
poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva.
La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed
essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè
l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i
bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco
politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista,
che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura
umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di
quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini
sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno:
l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del loro
spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed
artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li governd.
Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii, quasi
danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose, come ei
diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano più all'
istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è tanto il
sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in cui le
avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una
tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu
dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ).
Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il
Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore
dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del
resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno
dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è
perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI.
Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione
italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della
rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. -
Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. –
Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale
europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una
illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di
Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo
napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel
suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del
molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose
migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op
posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale
dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una
vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo
storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. cit., pp. 218
e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo
detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e
giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di
ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di
particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la
situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica
repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua
risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte
questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il
Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma
anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un
popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la
propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera
cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo
dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra
storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione
propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa
gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale
di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po
tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il
Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del
popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è
la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La
documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di
porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle
popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta
l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo
beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi
pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa
grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima
spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran
patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli
altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di
pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di
essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più
grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci
allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin
seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da
un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro
vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte
le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco
quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di
un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni
omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello,
che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta
seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda
la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il
Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è
destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha
venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta
allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere
considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è
antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa
esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126
teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che
oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non
fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la
patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento
politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure
re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune
distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del
Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità
pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di
lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario...,
quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e
che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli
ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia
costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo
prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un
eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la
coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è
un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso
tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la
convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le
conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti
benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa
per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere
ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto
insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in
Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri:
il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e
sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora
bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei
limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior
autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini
costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà
sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i
popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed
intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e
primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi
ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non
possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono »
scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo
che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava
ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando
egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia
e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque
coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In
Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale.
Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora
nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di
tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per
chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm.
III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere
leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn.
ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17
gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I,
p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il
ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la
monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di
sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad
accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le
volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è
mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata
tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino;
se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente
mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera
determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura
che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche
sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano desiderosi di
comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi che non vedono
bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco
real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po litica. Il Cuoco
non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino
l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà autonome delle
popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono spie garci vari
punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere
senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione
alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della sua sal vezza dopo la
prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo
ordine un po' più schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a
costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior
luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il
pensatore, che, criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a
Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso tempo: « Oh ! perdona.
Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di
Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita
»; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che
oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i
Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a
Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi
cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male dei francesi?
Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era
nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente in Capua nel
'99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino
rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue manifestazioni in an
titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il suo spirito storico e
pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle leggi, che governano
il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita
pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della natura delle leggi e
della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio,
ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita
italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran, diversi da quelli
francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle righe assai
importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo
rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua
mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar
fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di |
Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 ).
Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale in
nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la po (1
) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit., p. 269,
in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi vichiani, p. 350. (2 ). V.
Cuoco, Saggio storico] sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione. Il Cuoco
non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè
è troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più chiara.
Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un
isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente
radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un
mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in
errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca. Come nel '99
egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi
subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una
repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo, che sapesse
intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo
operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i
suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico, e si
senti travolto in quel vortice che pur non amava; così oggi, a Milano,
ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto
di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La
vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare
uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una affermazione è implicita
nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia,
è nella storia, e afferma la storia. Tutto il movi mento post -rivoluzionario,
in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione.
L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e
princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto
nello spirito, che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo,
pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è
ancora nella rivoluzione; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento
storicista nella politica e nel diritto, sono già fuori dalla rivoluzione. La
filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131
zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato,
il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella
natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La
fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra,
diciamo pur così, tutto sè stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale,
autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e
dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri
filosofi della restaurazione. In Italia questa reazione, che però è una
rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da
Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel
regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto
allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è
nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del
molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il
primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale
e pedagogico; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita
morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo narchia. Affermazione
questa, notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la
risultante di mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a
più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il
Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un
processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania
questa rivalutazione è posteriore: alla rivoluzione, mentre in Germania il
Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con
tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione
francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una
partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme
una loro legittimazione; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa
rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una
forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la
creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge
dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore
ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino. Le prime pagine
del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla
seconda edizione sono la conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente
esplicando fin qui. In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata:
ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine
di cose e i nuovi princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di
Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era
stato spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli
avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato
nella sua patria: il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista
d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e
stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi
gli er rori e il crollo; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il
piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire,
nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il
profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla
seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni
gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti
alla sua pubblicazione. Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra
quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha
confermate le antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo
che non falla: lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli
uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe
sopra citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la
soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge.
« Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi
cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt'
i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in
me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu
stizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha
fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che
gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee
di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto
al mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e
sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come
monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora
credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la
spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente
partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non
amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che
per esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane
parole; virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo.
Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove
la prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è
ispirata ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura
delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed
individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito
come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità
e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi
osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica
generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non
nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è
voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma
coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero
gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e
continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli
tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in
Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute
formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli
uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che
l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle
nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la
controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non
attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si
segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si
occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende
il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà
in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars
servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio
di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro
gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella
stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche,
lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche
nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia,
dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o
volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in
una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente
l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo, esaltando
sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il
rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere,
che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione
sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo: quand'esso,
anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato. È carattere pro prio
dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti su
basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi, liberali.
Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia: la monarchia, date le
condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di governo. Napoleone,
ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la
lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito un sistema nuovo su
nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto rico, portato a
valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento
instaurato, sa trovare i benefíci che da questa sono scaturiti insoppri
mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò
nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame
di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che trova le sue origini,
pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco
s'arresta e guarda indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro:
nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo
cammino sulla via della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi
verso un ordine migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono
diventate più concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 )
Giorn. ital., 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28:
Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La
rivoluzione francese e l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han
fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non
è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere
dal 1795, non potevano arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine
regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di governo, e
ciascun governo ha in sé talune parti essenziali, senza le quali, invece di
costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la vita di
un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem
brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi
non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la
concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario; altrimenti
sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la
Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo
successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che
questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi
effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è
necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè
queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a
risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza
pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami
pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo
di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di
fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica,
tende a cangiarsi da governo militare in governo civile. « Tale è l'ordine
delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a
questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in
cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella
sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or dine costituito, cioè
Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella
negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di
trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra
in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo
leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere,
nello stesso tempo, il militare, il con quistatore. Il governo militare, che si
erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla egli ha parteggiato nel '99
per la repubblica, ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla sua
Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione dello
Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la forza
delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice il
nostro autore, è il peggiore dei governi, come quello, che, essendo odiato,
sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni,
gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno,
di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario, che pone un limite
insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi.
Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al
Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è
Stato di diritto, che importa e riposa su un contratto sociale, non storico ma
immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti
singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del
diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine
riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo
costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni
rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali, come
dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei
gratia, superiore ad ogni volontà na zionale. Egli, ingegno storico, sente che
tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si
può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel
giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni
aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la
teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per
seconda mano che per let tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la
monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il
consenso e l'autonomia (2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il
Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo
una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la
maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or
dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto,
diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono
anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo
sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo
facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della
coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali;
il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali
osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè «
noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma
non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai »
(3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE,
Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M.
ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati
essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della
libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile.
Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse
credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto
avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi.
Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più
rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona
costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale
attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo,
perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien
ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di
ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al
governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene
per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re
pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di
stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro
custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di
cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più
utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne
produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo
Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e,
quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de '
romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è
stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non
vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi
sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a
pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite
egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le
persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si
perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia
cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si
afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti
i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso:
spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue,
d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione;
sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha
la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il
nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole
dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno
per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato
soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è
classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso
tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza
il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del
primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco
in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia
sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione.
Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto
di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in
atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto,
ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno
novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È
possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di
no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in
certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita
de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141
rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de'
governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna
indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso,
occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le
crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai
soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di
rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare
oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare
nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco:
ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove
scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione
di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia
qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo
stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di
cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle
nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88,
91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394:
Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il
sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno
squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in
campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo?
Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più
sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere
medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi,
onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai
prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di
democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla
forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e
sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di
re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare
ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del
regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse
dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante,
che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ),
tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del
numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che
chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato.
Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie,
dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato.
Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro
progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo terzo
stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli soffrirono
rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu distrutto
ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di oppressione è
uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe predominante
distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della
vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne, perchè agli
estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie loro, come
diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni interne, avrà
debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore del primo che
vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè non direm noi
che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità? Nel secondo
caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più durevole
la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non avrà
alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria e di
orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali
vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener
uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste
commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali
possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16,
18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p.
51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in
Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al
principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già
accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali
potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la
massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva
Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si
potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello
in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si
ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro
discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che
è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza
di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal
l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto
cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe
dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti,
dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il
gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s '
impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui
il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna
abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco
antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni
versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto
che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che
questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì
doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e
che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per
eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà,
nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni.
Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo
stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son
tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma
di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario
sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il
merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo,
dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su
bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle
nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal
Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli
istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il
diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in
sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le
costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un
popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta
importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per
via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle
masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che
l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte
sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni
coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare
tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia
del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe
nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma
questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la
di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come
ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere
tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà
la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. Una
classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a
modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo
Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è
il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la
proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una
sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o
commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno
Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni
attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in
coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi.
Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi
e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della
cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire
l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che,
pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si
afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa
composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo
oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che
solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè
sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza
del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla
realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica
ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la
costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver
affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi
abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come
si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive «
divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza
offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si
conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a
sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben
condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno
del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà,
ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro
che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro
interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il
senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi addentrate
nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a dare alla
proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il sistema politico
moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e quindi a concepirla
come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale: l'origine della
proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che nell ' uomo è
senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura dell'uomo, che
vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla proprietà, base
degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la natura
intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e fantasia,
bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un sistema costi
tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come questo sistema
risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre bisogna aver di
mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro prietà !? È un
po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247, 148 « Voler
ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere
la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non
diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre
il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova.
Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può senza
tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni,
nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori »
(1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente economica, e questa
origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile
ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di
natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo
consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non
esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della
borghesia, che per lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel
monopolio della vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di
rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne
' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il
Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi
sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha
cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i
proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento comunistico. Io non faccio
che rimandare il lettore, che si interessa del problema, allo studio su V.
Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund
Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la
proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni
tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A. del Saggio storico sulla
rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato
da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149
nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato,
ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero
lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande
industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro
medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti
al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi
accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano (1 ). Sarebbe pur
questo un tema interes santissimo; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo dal
nostro assunto: tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico
di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici, che
il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo
della società post -rivoluzio naria, ed un intuito così immediato dei problemi,
che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il molisano dice
intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta
la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse il suo senso po
litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto importante del
sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale pubblica. Quanto
grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione nella vita civile de
' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo. Una seconda
conseguenza è « la perfezione della mi lizia, poichè essa non è perfetta se non
dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino; e questo non può
avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero
della rivoluzione si rivela nella sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo
Stato as (1) Giorn. ital., 1804, 6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica:
a proposito di una cassa filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn.
ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito
della mendicità e dei problemi connessi. 150 solutista era da esso considerato
come estrinseco alla volontà dei subietti singoli, come tirannico e nemico:
l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato
repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla sua volta, riposa invece su
un consenso così largo, da ammettere, ed è un estremo, il diritto alla
sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno della forza a suo
sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può condividere questi princípi. Il
suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla conservazione, e re
spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente mente. Il contratto
sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un contratto storico,
ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè bisogna riguardarlo come una
esigenza ideale ed un presupposto della vita civile stessa. Il Cuoco deriva il
principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori meditazioni
vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà indi viduali (libero
volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni momento della sua esistenza è
tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o cerca di rompere
l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il contratto sociale
eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è convergenza di volontà e
di diritti particolari, dà allo Stato il diritto generico della difesa e della
conservazione. In ciò la filosofia giuridica del Cuoco si differenzia dalla
filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni punti di contatto con
quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di alcuni pensatori germanici.
Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e di suddito, in quanto lo
Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà ge nerale, che non ammette
peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta sottomissione. In ogni
atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione inglese ha tolto al re e al
potere esecutivo ogni possibilità di disporre della forza armata. Il principio
è stato superato durante la guerra, date le condizioni eccezionali, ma resta
sempre base degli ordini ci vili dell'isola. 151 dico dello Stato è implicita
la volontà generale, la quale volontà generale non permette che alcuno possa
evitare la sua autorità. Ecco il principio della forza, che integra il consenso;
ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani festazioni sovrane diviene
militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di una volontà generale e
sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa, sono anche soldati,
cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la cui genesi, ripeto, è
nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena e sintetica nel
monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e storica della
nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la filosofia
dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo;
e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1
) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto
coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti.
Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo, allorquando
il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale del popolo
nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani esercizi
bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il nostro autore
« e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con dannava
all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta una
volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che il
primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni
che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È
un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene,
l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato
negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in
dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il
commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato
sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato
monopolistico, come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo,
di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere
forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò
che è, è quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi
troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc.
non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata
di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli
sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un
proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non
possono mutare queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio
soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni
sociali e civili, di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che
determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle
cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab
biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza
economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed
apriori stica, ma di fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi,
di loro natura « tanto semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza »
divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi
dell'economia sono (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché
sono i princípi stessi della natura. La na tura determina l'ordine e lo
sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze. Lasciamo operare la
natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di meglio si possa
immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè che gli uomini,
lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale, mirino apriori
sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di contrastanti
interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo
stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è mera
astrazione, l'egoismo economico nativo, che li porta alla ricerca della
soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato
cuochiano quindi è Stato liberista: il prin cipio però notiamo è tutt'altro che
chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il
legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in
quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali
anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività
indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal
lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare
princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi
economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura;
i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico
trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri
solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo?
Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni
reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono
pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare
le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di
vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con
vantaggio, è necessaria una certa potenza politica nello Stato. È necessaria,
perchè possa ottenere dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten
gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua
voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se
non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni
giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime. Come mai il Cuoco,
di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire
così i suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può
permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende
quanto necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non
dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età,
in cui ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la
Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo
politico diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto
non sono più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il
sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo
leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all'
impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni
maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e
valevoli in eterno. Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica
di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5,
6, 7, 8; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in
M. ROMANO, op. cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213
col titolo La politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il
ROMANO, op. cit., p. 155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da
me sovra ci. tato aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco
non moveva da teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche
del suo tempo. E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156
principio, al quale egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il
germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello
sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che
non renda infelice il cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a
segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero,
si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è
la felicità, e la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio
tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre
variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o
scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che
desidera, non sarà mai ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi
quel senti mento di pietà, che ci fa risentire i mali altrui al pari dei
nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre
che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo simile, perchè non
gli serve: egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono
crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser
utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni
le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà
anche generoso. Ma questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo
a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario:
ed allora non si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per
schiavo » (1 ). Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio
possiamo dire soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità
fisico - chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è
felice, cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1
) Framm. VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un
abbozzo di morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da
V. Cuoco. 157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto
tra desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni,
aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo
dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il
nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti
ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio
continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che
parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono
soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di
bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare
catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel
che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna
infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per
breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni
impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e
proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una
serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi,
che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ
zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento
naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser
quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le
quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale
ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza
quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione
del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che
chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla
pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un
intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano,
purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso
a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un
protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni
di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per
una pratica economica generale. Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci
interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so stiene
forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e
spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra
tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera
statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino
Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla
tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per
incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli.
Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta
dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie d'educazione
si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri fin che
crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di sè
stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di
noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi
azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune
cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero
migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre
presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi
pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso
dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i
ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra
il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e
quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in
Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque
gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere
attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at
taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve
procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter
vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale
della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo
Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità
nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come
questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di
Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che
alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la
giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma
che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un
processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta
documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto
imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che
porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione
negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue
Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero
politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella
natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la
tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I
contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge
ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui
opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà
intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato
decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al
regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? —
E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean
predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30
maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato -
consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti
vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ».
L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di
tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è
fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di
scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un
esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di
meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè
era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che
quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il
limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco
rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo
così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza
trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere
legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in
campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità
amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la
monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere
esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di
togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella
decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il potere
esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità: il
diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via
strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La monarchia
costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ».
S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la
Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla
stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni
potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la
guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si
comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795,
furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea
esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni
della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il
pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che
al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un
estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa
spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La
costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la
lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di
comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto d'equilibrio
stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in parte. Comincia
l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale, inquadrata come è
nella continuità d'un processo che si svolge con una particolare logica. Invece
che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato ad uno solo, togliendo
ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato per dieci anni,
evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni ingerenza
legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo restituito
così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee andarono fino
alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe il consolato a
vita e si diede al console il diritto di nominare il successore. L'ascesa di
Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è perfetta
reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la storia; sono
liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè soggiacciono
alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il com pimento
di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162
sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la responsabilità de'
ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità
e colla responsa bilità si riuniscono due cose che paiono di loro natura
inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho analizzata la critica
rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come da questa critica
nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con sacrazione e la
legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto
trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un processo dialet
tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono cogliere, pur
quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le
idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che brillano un
istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose: le sue
deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la più
piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno
spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza
d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali
noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato,
che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità individuali, esercita
unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando consensualmente su un
con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza delle volontà
subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non falla.
Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta all'impero (1 ).
Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale, d'insuf ficienza
esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I popoli non possono
prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita
è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella
volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V. FIORINI (F. LEMMI, op. cit.,
p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni menomazione del principio
porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze
eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi sociali deperiscono e
muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente nella storia il Cuoco
trovi la legittimazione di altre figure in signi di capitani e di uomini
eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè
si tratta di considerazioni che illuminano direttamente il nostro argomento. In
uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto
antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo
e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli desume un collo quio tra
l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si
svolge animato e profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una
giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli
hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo. L'Anonimo' nota al
Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai
Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il
Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è
stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario lo han per
seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla seconda
obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un
po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi
altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra
l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor
delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per
questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero.... ». (1 ) Giorn.
ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44:
Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il titolo Due
frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino?...
» « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui....
Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue
scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri,
con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro
più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia. Quei tanti
tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra; ma questa
guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo
diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato
più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero.
Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia
avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad
avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La giustificazione
del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva questi mezzi, e da
essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per iscopo di realizzare la
sua personalità, non po teva non agire in quella maniera. Oggi la storia è cam
biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è un ambizioso, il nostro autore
non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce la gloria alla virtù. Coloro che
lo han preceduto sono inetti metafisici, incapaci di portare la nazione ad un
fine grande. Qual è la ragione etica e storica, che possa impedire al genio di
farsi strada e di trovare nella sua stessa personalità la sanzione del l'impero?
Nessuna. Tutte le cose invece additano Na. poleone come il restauratore degli
ordini civili sconvolti, come colui, che può dare allo Stato un potente
indirizzo unitario È curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e
legittimi Cromwell. In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp.
111-12: Considerazioni sul libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul
diritto delle genti (ri stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo
L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a
proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più
nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia
quell'unità, e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti
pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando
verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il
problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè
educativo, e poi un problema politico. Limitiamoci ora a vedere la cosa
piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male
s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario. Quel che al Cuoco
interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente, a pen
sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al carro di
Napoleone ! Che importa ciò, se quest'uomo grande ha di mira il bene comune
dell'Italia, sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele zione. Il
nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà reciproca,
che lega il benefi cato al benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli,
comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente
antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad intendere i
benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare
Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo
solo? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no stró
scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e
dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla
posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze
degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero
di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come
igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti
dell'Arabia,... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a
ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il
minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub blicana,
sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli parole vacue
di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei archivi
bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che dice
d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli descrive con così foschi
colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che invece
esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli ordini
pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della sua
rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è, però,
un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna dunque
operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed eterne,
bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità, la volontà
unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo
dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale » (1
). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per
estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran
sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo, ovunque
veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido
murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il
desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico
avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per
virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano,
per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur
serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale
necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi
a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione
istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato
potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in
Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia
della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E
come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto
tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i
francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per
superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa
a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia
eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla
Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio
vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua
vittoria; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la
sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la
condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma
delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione.
Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si
possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si
chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità
che forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea
governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse,
per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an
corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i
costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane,
rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia,
il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6
aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato
in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp.
149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva
acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza,
preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli
ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato.
Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale,
bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi
ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un
Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo
gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni
e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare
depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni, leggi
proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge
nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca.
V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche,
che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che
intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali
sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è
avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire
però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan
questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è
utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà
dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli
saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo
uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di
restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un
terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo
Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei
benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico
nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che
Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel
suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in
Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza.
L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha
sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la
convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti
siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un
avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di
quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non
ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il
profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci
riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede
possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso
un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha
potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi,
estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del
presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale
europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche
insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del
secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze
politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto
processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico,
appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro
del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il
transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo;
il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio
commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna
grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla
penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità
italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre
cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande
verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo
duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della
politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la
rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di
unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina,
potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea
solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser
af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le
potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio,
dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella
gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà
vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La
visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le
grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di
essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra
in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento,
purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò
per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente
dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di
importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese,
nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il
problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o
minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal
Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o
meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno
scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione
integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un
largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi
a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa,
è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi
secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è
determinato dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma
il Cuoco supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere
assai ampio. Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo
storico, il trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come
due epoche ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si
chiama in Europa tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile.
L'equilibrio politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di
tutte le paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo
e coll' altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le
quali, a calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la
guerra dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità
tale che sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e
faccia nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a
Westfalia detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla
pace di (1 ) Giorn. ital., Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi
in precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza
spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il
posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie
della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la
posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della
sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali,
l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma
non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle
successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le
donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli
italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un
dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad
arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le
persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le
piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui
vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata
affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi
un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo
alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era
commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che
la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la
storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per
la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la
Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre,
nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per
loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si
perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per
conservar ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida
decadenza spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero
ma alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico
della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie
ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo
grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù
selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco,
fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di
proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi
dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si
allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I
francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle
ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al
dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui
moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci
tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere
il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze
svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di
Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più
potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con
popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la
Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la
Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della
giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia
ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma
non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. «
Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si
fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della
Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il
Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può
mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è
l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua
superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri
non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque
altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb
bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra
tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza
dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me
sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi
prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella
guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che
Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della
magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più
felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa,
nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi:
così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di
oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va
perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e
di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama «
naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de'
popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è
giunta ad un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in
terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo
attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli
della Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima
175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino
al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e
ferocia, erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù;
perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi,
e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo
cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia
e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito
della tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti.
Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i
popoli hanno la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi
ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non
quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava
di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel
disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono
incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro
che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ),
p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti
intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa
visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit
tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola
parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè
sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica
che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella
Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io
potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la
nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive
nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di
morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha
liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese
e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati,
dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria;
ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p.
178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera
del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di
prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con
maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato
da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente
un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento
s’è manifestato come un movimento altamente spirituale da un lato, come un
problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il
lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il
pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa
prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria;
l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise
l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò,
e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il
Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può
condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità
italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che
egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli
ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte
al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia,
signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di
Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi
al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa
garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo
parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad
esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci
nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima
debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia
dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup
parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il
suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di
riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del
loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal
conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in
seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte:
sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori
amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali
che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni,
volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia
vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa
facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente
gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta
dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua
gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a
Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa
in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche
resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia
rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile
quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. «
Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un
governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor
militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea
concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto
impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la
debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù
dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella
vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene »
(1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda
obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta
uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle
ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non
trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di
Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il
trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne'
tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di
porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della
Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si
passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana.
L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione
s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi
possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non
costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in
poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed
antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo
fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale
ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel
Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte
contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica
non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio,
Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe
Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti
questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo
aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni
alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve
avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione
umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1
) V. Cuoco, Saggio storico, GENTILE, Studi vichiani, p. 391. 181 etico, sintesi
di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue funzioni, se non
nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà generale; esso non
può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno degli elementi che
costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base della sua vita. La
funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come
so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione, anche se lo Stato non
volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel quadro civile e pubblico,
cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè vuole
prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato agnostico di fatto
deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera nel terreno vivo
della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole. Che cosa è per il
Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato inedito e
pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci tato volume,
egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una delimitazione tra la
morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi tempi » egli scrive «
si è domandato se si dovesse o no separare la religione dalla morale, e si è
risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po tesse, e mille han
risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi nessuno vi è
riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i quali hanno
tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una profonda
analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla dignità
dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste cose
meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci
vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che,
restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire:
questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 )
G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653.
182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della
divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia
potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti
che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella
di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In
sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o
almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad
una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben
nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico,
capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una
volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a
mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico,
al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la
vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla
ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema
co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci
dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità
si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di
cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea
di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non
possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare
come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento
eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno
avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della
giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo
loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non
comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è
potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità
per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di
cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo
possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè
stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re
ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche
cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco.
L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel
concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il
popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi
parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle
origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione
tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La
distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci
offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per
lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la
base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale,
d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non
trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore
deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p.
130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento,
come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede
possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che
pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La
filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la
religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol
disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale
uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non
può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo
elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo
edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in
un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello
che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto
derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro
le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato
che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come
mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito
dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in
materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il
problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito
educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione
interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo
convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non
può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al
popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli,
eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione.
Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli
non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica
dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di
rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non
informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione
areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come
problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185
prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo
Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al
popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui
familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi
concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo
Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra
realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con
gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le
aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la
guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso
non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse
compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo
ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e
segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè
clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che
lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara
venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa
cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due
mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La
nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare
d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio
pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla
società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa
guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da
me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1
). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr.
Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è
confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili,
edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita
esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben
distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ).
Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può
notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in
ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile
incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di
trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il
savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra
mente è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa
massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla,
non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie,
che ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca
natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre
altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello
di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i
filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del
volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non
può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al
mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile
spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di
vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile
della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime
norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a
renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 )
G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187
Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La
verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può
darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e
pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più
agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa
contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione,
vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra,
si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un
fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta
delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un
fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura
umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi
limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è
possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed
obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il
miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso
v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la
religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare
lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni
miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non
può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam
detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti,
proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è
intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico
ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col
vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante
la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un
qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza
che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur
essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato
agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un
controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che
non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica
e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà
dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra
Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma
il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica
può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa,
l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali
caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le
facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che
abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la
subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla
legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività
ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco
differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso
vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello
spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato
come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione
come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori
della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non
possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione
di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la
questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che
la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo
Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e
d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato
agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la
religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme
giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce
in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano
svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII
si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al
Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse
all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista
degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805;
Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del
Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale
(maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il
Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo
spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza
dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio
VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra
Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul
concordato del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi
indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie
chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè
le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6
febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul
Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e
Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine
da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti
Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano
vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La
Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima
esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità
sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «....
Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804,
e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità
colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto
eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno
data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la
via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin
qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben
noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico.
Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e
spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non
cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato
più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono
quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio
pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea
scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non
è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli
eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli
ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un
religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo.
Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto
col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro
repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno
la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del
l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno
di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza,
riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa
terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi,
l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il
benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il
Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel
1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede
sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della
storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente
storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più !
Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di
giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa
terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a
Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine
nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia
rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde
nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio
deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore
dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice
Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano
egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la
di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende
della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra
i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1
) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della
repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni,
per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto
elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con
tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò
scrive San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu
hai ricevuto non da Cri sto, ma da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a
seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il consiglio, che
il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente politico. Il Cuoco
dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche, il papa, posto tra
barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle
armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere temporale; oggi le
condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della
Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il
potere temporale? Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor
passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e
nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è
intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non
più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole
che la storia, che non torna indietro, consacra nella realtà della vita.
L'abdicazione ai diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle
coscienze degli uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa
Romana ha in sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno
pensa a menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una
sfera che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a
flussi e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e
può essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale,
che oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato.
193 comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti
divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato
riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le
darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del
dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre
le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè
presenti alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni,
che han reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene,
siano sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale
merita fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero
romano, permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di
vivere secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così,
crede il molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli
antichi, donde poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti
degli uomini si avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato
entro un altro Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e
l'adattarono ai nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri,
cancellieri dei grandi sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo
contro la sopraffazione. La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un
faro di luce nelle tenebre. Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola
potè dichiarare la schiavitù contraria alla religione. Tutti questi elementi
contribuirono a darle una forza grandissima, che si tradusse presto in un
dominio terreno. È naturale quindi che un mutamento profondo negli ordini
sociali porti seco un mutamento negli ordini ec clesiastici. La storia ha uno
sviluppo che non permette a lungo superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi
damente » scrive il nostro autore « sopra un soggetto che è di sua natura
vastissimo. Ci basta avere indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è
facile conoscere che, a misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini pubblici
ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola
infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean
segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più
energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura.
Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ».
Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista,
che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli
elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre
pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e
cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa
come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza
etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri
salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio
giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co
nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del
tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti
elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il
suo Stato è confessionista, sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad
essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e
dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova
una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi
sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni
pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma
subordina al suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli
organi centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in
conchiu sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito
religioso e scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma
soltanto a risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e
pratico di co teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195
mente sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti
sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista
del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e
negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni
religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una
supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo
napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più
all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco
segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri
conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli
fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi
scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il
Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito
profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e
la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il
Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli
scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il
confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che
nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da
noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla
sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle
varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do
veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che
voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo
edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico
vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385.
Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp.
297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama
la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non
vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si
distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico
sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità,
ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità
e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il
concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso
Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e
nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella
prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo
Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini
franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette
a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico,
che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono
alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non
emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è
fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e
politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei
rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa
nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore,
che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni
forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle
nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo
del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi
non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento
nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli
immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito
nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente
Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice
che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità
rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica
disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto
dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò
non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria.
È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e
poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi
e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro
posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo
luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee
sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè
dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la
diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex
ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione
per ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18
giugno 1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le
sorti repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla
città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti
Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso
numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto
la misera CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione dell'Italia
tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con profetiche
parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di soddisfare il voto
universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza e la sua riunione,
il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello
spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei
figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati
Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra alternativa,
che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella tomba, o di
crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata, il felice
avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e Direttori del
popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea
Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel centro dell'Italia,
saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un'armata
ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell'aria ac canto al
vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno sventati ancor questa
volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e
protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina
distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole,
ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il documento è
importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si pensa che è
esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia, ma anche di
Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso pensiero, un
po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto, enfatico e gonfio di
forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto fatto al cit tadino
Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e sgg.; V.
FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in Italia,
malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare sempre più le
simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il vesuviano Lo monaco
sente che in Italia si sta formando una volontà che non era per l ' innanzi, ma
invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi
dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli almeno dice diritti
del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli elementi che l'indagine
sistematica del secolo XIX poi preciserà come i presupposti del con cetto di
nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi nè da grandi mon tagne,
separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri popoli, forma una
indissolubile unità geografica: è questo il primo elemento della nazionalità.
Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta di passioni e di carattere,
godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, hanno gli
stessi interessi, la stessa lingua, la stessa religione: tutto li addimostra
per membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e complessi elementi della
nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi, che si pongono accanto
al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione
storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe, uno il fasto e la
sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento, che informa di sè
un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ). Gli italiani
hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all '
indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve
riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere
sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la tormentano. «
Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì
profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al cittadino
Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed., Bari, 1913,
p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell'an tica
grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè
termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le
rovine del continente; perchè si oppongano argini all'ambizione del l'Austria,
la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno
equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia immobile ne ' ghiacci del
nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perchè, in una
parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disec chi la sorgente delle
guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di
forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno
spirito di nazionalità; avendo governo, diver ranno politici e guerrieri;
avendo patria, godranno della libertà e di tutti beni che ne derivano; ecc. » (1
). La ragione prima dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un
presunto equilibrio europeo, quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le
genti del nostro belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea
unitaria, queste le sante origini di quel concetto di nazionalità (2 ), che
troverà poi in Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse
ed operò, che con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non
agitare gli stessi senti menti. Ma questi da lui come vengono trasformati, in
lui quanta nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea,
visitato Marsi glia, Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco
è a Milano, ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi
indugierò neppur brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica
cisalpina (poi italica ) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di (1).
F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La
rivoluzione napoletana del CROCE, ove vi è un largo studio sull'argomento, pp.
329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 3 ]. 202 studioso, di cui sono documento
le Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L.
Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato (1), del
nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana,
opera scientifica di vasto respiro (2 ), che dimostrano quanto alto fosse il
bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo
sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio
politico e legislativo. Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su
essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del
Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra
coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica, il
problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni
del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia. Napoli,
dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa, dopo il fiorire della sua
Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo,
caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva
visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività
scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor
provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e
più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla, dato che con le vit
torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di
Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il
centro più attivamente colto d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del
popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del
giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società
patriot tica ”, divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione
delle idee nuove ». Come rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G.
Cogo, op. cit., pp. 13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1
) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi
giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia
romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo
portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili
per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor
quando il turbine rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il
nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di
restare. A Milano aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove
dottrine, che, reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo
inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche;
il Verri aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva
agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici,
le nuove posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la
Francia e l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se
colo Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni
vi hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia,
poeti e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È
il periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre
illustri nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni.
Nulla da meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle
questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà
insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa
società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua
natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici,
Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione
meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della
Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121,
204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su
citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica
il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè
al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due valentuomini,
Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il nostro metodo di
non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon
dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che cosa esso rappresenti
nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i precedenti
ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e Lomonaco. Che
cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di già
acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da acquisirsi,
da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo inin
terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità italiana, che è
formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e
nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un diritto na
turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono contestare,
donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità
nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al trettanti
problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col
pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno
sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di
nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare,
proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato.
Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 ) Cfr. A.
BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano,
Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII);
vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp.
30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura.
Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente
il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra
quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della
nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale
costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono;
altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una
intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici,
etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro
concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani
sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma
come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che
l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la
conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore
ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un
reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente
quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste
delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre
patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare,
sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola
religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi.
Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i
più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità
statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non
da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da
farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione,
quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia
o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non
esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed
esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na
zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il
Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale
al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci
apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra
la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè
non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur
fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono
dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione
comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia
ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti,
ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li
guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li
consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li
compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più
allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal
Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da
una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere
e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i
nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia
mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle
grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi
costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono
e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana
con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri,
bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere
degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come
speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente,
sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è
materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto.
Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è,
diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia
spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo
momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di
un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della
Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è
formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo
spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a
pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la
loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali
sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia
» (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata:
la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano
è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit.,
nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e
rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N.
CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924,
v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come
mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale.
Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà realizzatrice,
come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima è la stima di
noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su
quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ). Io direi: è in primo
luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità; in
secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con
tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La
nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la
volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo,
sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne'
grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel
lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero
ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore
carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione nazionale
non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la poniamo
come presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a maggiori
grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che retorica,
sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui tutti possono meritamente
ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al giorno
ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto. Un
giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà il
riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury, non può
produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la tradizione, come tutti gli
elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma veracemente
parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva inerte, se la
riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di fatti; ma se questi fatti par
lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di loro stessi, ond'essi
acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora la storia diventa
davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa diviene autoco scienza,
stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle
pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella energia, per cui han fatto le
grandi operazioni; e quella pazienza, per cui han sopportati grandi mali e
sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al proprio governo, che si raffredda
ed estingue dall'idea che esso non operi bene o che un altro operi meglio; e
finalmente quella costanza ne' pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la
quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci
ottenere i grandissimi effetti. Quando si analizzano le nazioni, si trova che i
beni ed i mali, la verità e gli errori sono misti egualmente da per tutto, e
che la differenza tra l'una e l'altra non dipende da altro che dalla loro
diversa ma niera di pensare e di sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la
nazione non si è ancora con cretata nella forma di uno Stato, non può esservi
un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che noi possiamo esi gere dagli
stranieri, aventi verso di noi un corrispondente dovere al riconoscimento. Lo
Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di
altri, ma bensì intima affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire
volontà di nazione e dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa:
affermare la nazione val quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la
nazione non è, ma diviene; lo Stato non è, ma diviene. In un senso altamente
ideale esso è anche quando giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati,
in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo
continuamente in ogni nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico,
la coscienza nazionale, si tratta di Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14 fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito
pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità,
dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema
dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può
considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili,
presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano
d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in
rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se
tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna
difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo
prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima
i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente
disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato
moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la
volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la
volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale:
anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come
universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve
essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo
vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il
rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di
quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in
termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze
inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è
anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di
Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica
italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un
compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione
italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è
invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare
un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece
s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella
coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è
che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare
contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano
alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta
e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o
stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi
problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente
l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita
civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La
rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto;
poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi
politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare
ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi,
non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed
è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del
nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non
possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere
il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della
storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita.
Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa
pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le
istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè
stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con
le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà
intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica
o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due
termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo
un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani,
il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove
distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno
il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto
alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza;
ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso
elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di
lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato
libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra
nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in
Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda
gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una
nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere
spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai
rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol
essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua
grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione,
a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce:
quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire.
Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi,
disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza
pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO,
op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed
esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende
superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre.
Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non
periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini
futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni
opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1
). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita
giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di
concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto
caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia
che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che
è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè
lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e
inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex
novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è
diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e
storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un
certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità
propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto
il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni
dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio,
da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi
vibrino di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa
superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò
che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia
pubblica. (1 ) Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale, divenuto
rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso
si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di questa
nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non
l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il
Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni:
sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un
minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o
storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di
Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso
osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa,
abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1
). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco.
Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità », e, come
il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove
sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po'
di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre
il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto
quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente
affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo,
l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa
importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che
ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta
milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero
letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD,
op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li
trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco.
Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si
propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al
pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come
talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma
quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che
abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero,
colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre
», onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei
nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far
comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di
poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio
1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli
pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta
cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso
suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo
lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità
che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le
antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria
succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di
Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N.
RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della
letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella
ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a
ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il
Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza
» (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione
solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a illuminar
le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo derni; di
Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo censore
della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di Dante che
tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del risorgimento
dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli abitanti delle
varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e negli ordini
pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ». L'alta coscienza
del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della stirpe, e per il
divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti i grandi fattori
della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a Carducci, da Mazzini a
Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che è italiano, e in
Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un felice intuito
storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805, 27 maggio, n.
63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni del Cuoco
sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2 ) L'alto
concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò chiaramente
in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche, con cui gli
stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo. Avendo un
giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi a priori
una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un piccolo
politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti potevano dirsi
buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore dell'articolo di
ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica mente grande. La gloria
del sublime poeta ha offuscata quella del profondo politico, ed il maggior
numero degli uomini ram menta l'autor della Divina Commedia e quasi oblìa
l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle spinosità scolastiche onde è
ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che più importa, non è molto
lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital., 1804, 25 gennaio, n.
11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato. Esalta il se colo XVI,
« il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte
rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor
barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni
si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che
esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare che dovea
col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma subito si
entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti questi
avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per
l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di
Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto, di Tasso,
di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai,
se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del
Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il
Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). « Più di uno » nota
Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di
lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale:
e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici si
incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento
retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così
il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura
esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela
rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital.,
1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44:
Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il
risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese,
1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit.,
p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità
tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica
più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità
nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di
attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul
tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro
convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e
sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1
). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre
un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei
tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il
Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si
può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene
anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che
il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle
che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il
maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo
amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di
Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto
l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico.
La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. «
Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno
di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51.
Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico,
laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza
passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini
ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia
velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni
giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me
dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca
Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi
tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere
nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non
avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle
negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete
permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli
permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo
foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle
genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio
la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta
comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un
altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p.
19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v.
I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali
leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione
colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza
averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica
) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto
rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io
son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma
vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale
era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità
ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ».
220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato
di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi,
invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù.
Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso
della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha
detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe
dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia
della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle
nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè
quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra
tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce
ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da
quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si
arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime
politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico
e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide
con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto
cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano,
spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la
grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente
concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico
positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le
lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è
stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che
questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine
giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il
Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche,
ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente
illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni
fenomeno politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove
trova le sue radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo
tempo; Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una
ragione, per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere
dinanzi a loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro
esperienza no stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo
ma si saldi con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità
umana di Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori.
Ben rivela a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa
esercita nel giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina.
Molte difese sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi
all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una
discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v.
II, p. 50). « Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a
cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù
di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o
traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non
intorbidato da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo
ideale. E il suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com
prende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo
può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad
alzare la voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la
sua am mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo.
La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II,
p. 69 ). 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua
metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli
italiani che hanno scoperto India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del
sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140);
si tratta d'arte tipografica: il primato italico con i vari Bo doni è
indiscusso (1805, n. 55): e così in materia di belle arti, di poesia, di teatro
(1 ). Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei suoi
connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per
provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è
a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non
solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da
poco sono mancati ai vivi. E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e
le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un
giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu
» scrive « sublime filosofo, profondo letterato; il primo storico della sua
patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più
di filosofia, di cri tica, di gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o
almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi
interamente la vita politica della Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama
alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella
dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve
l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che
taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione »
(2). Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si
riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed
eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 235. (2) Giorn: ital.,
1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia
politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani.
Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di
richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez. « Chi era questo
Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto
farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non
avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia
o per orgoglio; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo
corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si
contiene la virtù » (1 ). In questa difesa del nome italico il molisano muove
contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono
dispregiatori delle glorie nostre. Recen sendo infatti nel giornale un opuscolo
di Vincenzo Monti, Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia
contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato menomare
glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo loda assai di ciò. « Noi non entriamo in
questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri,
se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene dànno gli
italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse,
non sanus juvet Ore stes. Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573:
Economisti italiani. (2) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il
cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del
buon nome italico s’ar resta qui: allorquando « un Lalande dice con pueril
sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»;
allorquando il tragico -comico, drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue
tratta tutti gl'italiani da ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn.
ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è
là, e s'appa lesa bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di
Luigi Bossi, in cui questi vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà
dal sig. Akerblad », egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la
difesa delle nostre intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso
il Giornale italiano appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab
biamo un maggior numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non
li conosciamo neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia
vate sacro » (1 ). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non
la coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si
disconoscono. « Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo
ingegno, non mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto
si ritrova talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue
osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i
confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma
l'Italia rimane picciola » (2 ). E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi:
scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità
francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo
vilipese e trascurate. E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a
problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la
pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata
esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale
poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza (3 ); come, ancora,
certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po
steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805,
22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito della « Lettre » di L. Bossi allo
SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p.
89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. Giorn.
ital., 1804, 28 marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia politica. (2
) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di campagna, ecc.
(3) Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo delle pecore
spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi
G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli stessi stranieri
(1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche intorno a cui inglesi
e galli si disputano il primato siano scoperte, ri trovati di un filosofo il
cui nome va per la maggiore, nientemeno di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste
osservazioni rispondono ai mezzi, con cui il Cuoco si propone di raggiungere il
suo fine: la formazione della coscienza nazionale e dello spirito pubblico.
Bisogna cominciare a misurarci con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 )
Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp.
882, p. 889-90: Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo
articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da
un inglese della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di
rivolgersi intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la
longitudine. Ora i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e
pretendono che questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di
Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò
che è italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso (e la scriveva
circa il 1730, quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ), quest'uomo
parla di una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno
della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita
non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione
intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc.
Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto
che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto
svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura:
essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra ragione può aver altro
fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico
proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli
l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il
cielo: però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano; i overni non
si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della
medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia, che li
promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo
d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ». (Giorn. it., 1804,
6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p.
244. 15 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di essere, e
noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo. Se essi
poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »; « non importa: appariranno sem
pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e perderanno quella
riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1 ). Ma in quest'esaltazione
dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco, anzi, laddove vede
una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e freddo sguardo
d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella filosofia delle
lingue che è una scienza tutta nostra, ma i piccoli nipoti, i discendenti di
quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla, l'hanno abbando nata:
gli italiani hanno creato i più splendidi melo drammi e libretti, che si
conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci di darci nulla più di
buono, e la deca denza del libretto porta seco la decadenza della musica (3 ):
gli italiani un dì maestri nella difficile arte della sacra eloquenza, oggi
sono inferiori agli stranieri che da noi hanno appreso (4 ). Questa posizione
critica, che tanto distingue l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o
del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare
un sentimento unitario: il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle
cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato
disprezzo e con più insensata lode; cose le quali, sebbene opposte, pure per la
natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono
inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare
obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5. (2 ) Giorn.
ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato in
Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle
lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p.
493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam
pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92,
col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). accenderci troppo, con scienza e
ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte
motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi
princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei
più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv.
An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che
questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione
insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica
». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan
da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco
come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle
cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti
di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta
note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia
Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali
con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda,
in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di
natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui
il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e
geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il
problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a
parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica
istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2)
Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc. L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica
e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale
italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”,
nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera
ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone.
Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per
la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad
essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di
quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla
pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso:
creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa
le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia”
nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una
lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani,
ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della
milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è
un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo
riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore
valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di
questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo
che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in
Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde
appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio
culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo
scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto,
Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o
indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G.
Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La
lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI,
Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al
Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro.
dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte,
disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un
bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un
contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce
la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo
originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante
quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in
Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior
parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un
semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello
vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il
viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più
agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio,
come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega
ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo
viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo
l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può
servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può
ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il
capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più
pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite
trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace;
immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui,
visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v '
impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone
un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine
che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate
con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto
fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente,
manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo
egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci
mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2
). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima
accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una
scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non
nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS,
Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital.: Varietà (vedi p. 163
del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici.
E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li
vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in
atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che
non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro
italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi
componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e fa
alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere
un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per
essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un
dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un
fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il
rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he
furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo
spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone
dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini
della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere
professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che,
nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne
furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà
ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia
intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e
del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei
riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per
considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende
rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e
che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da
esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia”
di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa
ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non
esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco,
scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e
non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno,
per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera
del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L.
SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così,
passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la
sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia
pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da
ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco
non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p.
375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto;
e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del
tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si
placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di
tinte forti calde sfumanti; poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine,
che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in
lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma
una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte
del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve
degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel
poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso
della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla
sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più
ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del
cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della
sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo
soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella
languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più
grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo
io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li
abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava,
quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno?
— mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento,
che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta
la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in
quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento
della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu
non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti....
Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma
nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora....
Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in
quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai
in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli
occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia
che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda
ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de'
popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare
la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre
un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo.
Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico
poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana
trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si
pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a
noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non
parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio
non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a
noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo
questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti
già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano,
ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le
ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco,
di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga,
spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non
è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi
sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che
per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della
quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero.
L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini
greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per
cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a
Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi
e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim.
Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una
sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”.
Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio,
nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi
mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la
corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e
poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte
delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose.
Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero
ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie
città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende
ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili.
Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è
se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non
vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran
giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra
sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della
prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano.
Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di
città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione
universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza
è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si
sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al
piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a
Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani
abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state
forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e
degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in
diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici,
che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani
in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si
conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato
italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi
nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco,
fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo
di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle
immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno
opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro
filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in
Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani,
potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte
ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla
quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed
hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre
che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia
si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici
mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è
duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio
urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola
la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni
eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice
Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee
del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io!
Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e
valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre
quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane
una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione,
perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono
le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma
queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal
nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in
Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che
volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle,
tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche
olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate
dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il
siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia,
che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi,
Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta
ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi
nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani
ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche
finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la
volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo
iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari
popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono
fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono
frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una
parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle
acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia
intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente
dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi,
antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali
materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare
un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità
che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata
la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di
alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma
questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e
dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola
gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza,
ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano
ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par
di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto
ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello. È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da
questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice
Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo
istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che
non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato
finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di
debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu
conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti
secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che
questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una
entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà
organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi
conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo
risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di
ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea
far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo
più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con
coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e
la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia
di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la
patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti
coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama
poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno
vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri.
Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra
voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è
sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia
stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un
mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta
non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia
chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma
l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio,
sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il
popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne:
spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i
vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che
devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente
per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma
quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua
natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le
infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera,
cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di
essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi
povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla
stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono
alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio
ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la
terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una
città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o
Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le
mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini.
La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura
la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini
dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto
ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che
è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia
al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e
l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che
disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i
maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto?
Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son
nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è
necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il
lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la
conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render
più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo
conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne
fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si
acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una
cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi
princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del
popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il
popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che
ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che
s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già
fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il
linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi
muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi,
debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare
inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono
immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci.
La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di
quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha
bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori,
i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro
Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a
poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una
diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il
popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il
vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa
essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più
verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità
ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno
utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio
storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore,
sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che
mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in
eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa
cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di
bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù
ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti
di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle
cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà,
e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo
delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta
natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male,
spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una,
perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della
materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il
costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque,
conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo
formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle
leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il
che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella
educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che
Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La
ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti
esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno
o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle
sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li
hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il
buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o,
conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno
sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo
il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto
miseramente il suo legno tra gli scogli. La legge però resterà sempre un astratto, se
gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La
legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che
veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle
cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità.
Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra
la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio,
s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città,
per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte
più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi.
Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi
sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle
opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per
negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il
pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e
bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui
pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e
di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad
un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le
considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante
lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi,
religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il
bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto
su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli
occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò
menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel
che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione,
lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano
autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi
la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione
e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè
mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno;
nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria,
potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due
classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la
vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione
ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco,
coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non
può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua
indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti
si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e
plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che
nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione
dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e
pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova,
spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi,
perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia
vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza
matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali
i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres
non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri
che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il
prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto
divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto
rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni
ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più,
breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli
Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in
una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano
mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e
la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il
Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in
Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna
tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non
solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi
non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le
passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte
le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro:
e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città?
Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e
quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla
plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo
prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più
certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla !
Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È
segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà
dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e
che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con
modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da
queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita
è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la
molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di
funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo
perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u
topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi
saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi
industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I
partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei.
Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più
avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si
vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà
l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose.
Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre
poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno
di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più
numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali,
nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare....
Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I
cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti
nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà
vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò
scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre
osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento
non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in
senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e
diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello
stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai
migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini,
i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi.
Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i
massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città,
avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già
esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò
armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione
d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto,
ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni
ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della
democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine,
trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di
viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che
ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai
quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col
quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei
grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro
numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle
altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto
attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso
quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà
possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle
varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un
contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia
è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma,
mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno,
poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria;
nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi
cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge
unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar
gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di
difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui,
che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non
si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che
può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve
rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in
attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome
d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione
d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro
viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte
è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo
italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in
bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le
riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è
in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita,
le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si
conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del
commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma
reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia
d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi;
e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche...,
così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più
lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di
accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e
principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a
morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ».
« Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e
attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti
e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e
della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e
de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel
linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de
gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare,
amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi
siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola? Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume
questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza
che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della
storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi:
questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle
parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia,
intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la
fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez
zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo
diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto
a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come
entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà
un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto
il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio,
rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del
genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate
ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le
virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno
arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti,
per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli
dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e
dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande
sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma
che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come
quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel
presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa
e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle
napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra
vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista
prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei
commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte
grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra
civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente
poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il
Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come
ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia,
combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico
italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a
noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i
popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro,
la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del
vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi
scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento:
ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte
considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia,
a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita
moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua
deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto
legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e
civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia
alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo
parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un
francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo
frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani,
p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p.
246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice
che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli
Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può
esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se
non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle
sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un
orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non
arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan
dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il
suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e
d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato
al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo
ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana,
pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo,
questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse
da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro
sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico,
insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure
una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare.
E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare,
perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato
realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto
diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione
nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa
educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella
scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa
la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il
Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del
periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria
non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia
intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzon. Con il
1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in patria,
preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del governo
di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita del
molisano, che, attraverso una fiera ma LABANCA, op. cit., p. 409; N. RUGGIERI,
op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G. GEN TILE, op.
cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13 dicembre 1823
con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità pubblica, per cui il
nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera dottrinale e pratica
nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di decreto per l'ordi
namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che di per sé sola
basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti dell'epoca,
Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico speciale.... agli
inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc casione, poichè come
vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee profondamente maturate dal
Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2 ) Oltre il Rapporto il
Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua attività sono documento
varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del
Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una prima, senza data e senza
frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il
luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si
fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e quindi non pubblica; una
seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta
iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote del gran molisano, e
naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che porta il titolo:
Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica istruzione seguito da un
Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine,
che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione delle leggi, de' decreti e
di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di
Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni,
tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto
e del Progetto, corredata di documenti e note bio -bibliografiche illustrate,
che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa gine 49-276 ). I criteri
critici di collazione delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile, non
furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al
Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II, pp. 3-161 ), correggendo ta
lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore.
Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce, allorquando questo
lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi rivedute
definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di
scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali del
tempo suo. Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto
precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza noti,
vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati con
tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema
po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto
questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol
attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol
rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo
di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La
sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola
istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il
termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui
spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili,
alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per
comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del
popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola?
Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita,
era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla
sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i
nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi
città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei
governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo
queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi
vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op.
cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel
campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo
astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai
bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il
postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova
col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il
popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in
quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel
suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e
lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà,
della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può
assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce
all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un
processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il
popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona
il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della
forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas
siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre
grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli
Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi
senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che
non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler
condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine
interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’
cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi
di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla
ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non
hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo
maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria
alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e
specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova
educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria
nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro
buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno
mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che
obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è
facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma
la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non
vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir
tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi
stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi
che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma
aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur
facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo
che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai
quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per
mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un
poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non
si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da
tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno
dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di
precetti, vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini
e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella
delle leggi. Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn.
ital., 1804; n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48,
pp. 303-304: Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e
sgg.; ed ora in Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che
chiamasi popolo e diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per
queste sue considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista
prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le
vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui
istruzione, riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1
). A chi noi daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli
del loro posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il
carattere etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che
l'educazione debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato.
L'educazione mira a formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato »
volontà collet tiva, somma di volontà individuali, da essa non possa
prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato » osserva giustamente il
Gentile « di consolidare sempre più le pro (1) Del resto il concetto di natura
e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno un significato ben più
profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a questo proposito il libro
di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto sociale, Bologna, Zanichelli,
1906, p. 32. « È.... massima (del Rous seau ) che nella realtà si distingua ciò
che è fattizio, ossia sopravvenuto per arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è
na turale, ossia fondato nell'essenza medesima della cosa. Questo ha valore di
norma rispetto a quello. La natura è dunque per Rousseau il principio del dover
essere, più ancora che quello dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso
filoso fico e non già fisico; rappresenta la sua ragione e non la sua
contingenza ». Ma questa concezione della natura, propria del Rousseau, nel
Cuoco viene integrata e corretta, come nota il GENTILE (Studi vichiani, p.
419), con la concezione storica dello spirito. « Ed è in verità non una
contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta pedagogia del Vico, che
aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna storica senza paragone
minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo natu ralismo:
l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre ricondurre la
pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso dell'essenza prima
d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione della stessa realtà
allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella coscienza nazionale, è
evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti della Rivoluzione
francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo Stato democratico,
è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla coscienza nazionale, e
questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a questa è per lo Stato
un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso. Il compito educativo certo non
si esaurisce nella scuola, ma questa trascende: l'ecclesiastico, il filosofo,
il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e al suo sviluppo, ma la loro
opera è di necessità insufficiente, se non è in tegrata dall'attività generale
e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche od ecclesiastiche, possono pur
vivere, occorre però che lo Stato le controlli, e le adatti sempre meglio allo
scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le riconduca a questo, ove se ne
allontanino. Sarà perfetta quella città, quello Stato, in cui il sa cerdote, il
filosofo e il legislatore si saranno messi di ac cordo, e concorreranno
ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il punto primo che l'educazione
deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione religiosa, fissiamo i suoi
caratteri: essa deve essere in primo luogo univer sale, poi pubblica, infine
uniforme. L'educazione deve essere universale. Il Cuoco concepi sce la vita da
un punto di vista spiritualistico. Vita non è vegetazione o deambulazione, è
coscienza della propria posizione nel mondo, perciò è innanzi tutto attività
dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408. Noto a questo propo sito come
soltanto tenendo presente il concetto di Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco
poteva giungere a concepire uno Stato educatore. « Quando il Rousseau parla (Vedi
DEL VECCHIO) della « nature du corps politique », non intende con ciò di
riferirsi alla guisa onde lo Stato si presenta nei fatti; ma alla ragione
dell'essere suo ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da
corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa
dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta sanzione ». E la libertà e
l'uguaglianza bisogna intendere in un senso spirituale e non empirico, intimo e
non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è qualcosa di inscindibilmente uni
tario, onde l'educazione dev'essere inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze
ed arti, scienze fisico - naturali e scienze morali, debbono convergere ad un
sol centro, lo spirito. I secoli barbari potranno dire « non esservi alcun
rapporto tra le scienze e le arti » (1 ); i secoli di pro gresso, in quanto più
hanno consapevolezza della realtà mirano ad unire le disiecta membra di quel
che in astratto sarà questa o quella scienza a noi precostituita, ma che in
concreto non è che una elaborazione dello spirito, una nostra formazione, e
nello spirito attinge l'uni versale. Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la
parola istruzione nel suo più ampio significato; ed in ciò, oltre d'imitare
tutta l'Europa colta, abbiam la gloria di se guire gli esempi domestici. I
nostri pittagorici, forse i più savi istruttori di tutta l'antichità, niuna
parte della vita umana escludevano dalla pubblica istruzione » (2 ).
L'educazione, in secondo luogo, deve essere pubblica. L'Italia è sempre stata
una terra feracissima di ingegni, ricca di uomini grandi, ma costoro,
maturatisi in am bienti apatici e morti alla cultura, hanno molto contri buito
alla propria gloria, poco alla gloria dello Stato e al benessere della
collettività. Poichè « la nazione non era istruita, essi fecero molto per la
gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria; tra essi ed il popolo non
eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di comunica zione » (3 ).
Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi cittadini, onde le loro
forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e meglio ad un fine unico,.
il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia pubblica e statale si
gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in un paese come l'Italia
ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una storia nobilissima? No
certo: le scuole private sussistano pure gestite da chiunque, ma (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) Cuoco, Scritti vari, v. II, p. (3) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha l'alto controllo a che i maestri
siano degni e moralmente e culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia
comune a quella delle scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro
dottrine con trarie all'ordine pubblico e alla moralità media della società. Il
fatto però che l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi
cittadini non significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti
dotti. Lo Stato non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco
dice nel Platone in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non
meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo
tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in Stato: « la vicendevole di
pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la
perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al savio è necessaria la
coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi necessaria una
ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore non sia
calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto
illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè
vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può
giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale
vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu
pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per
sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè
rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed
un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò
consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e
come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i
filoneisti, Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p.
5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno
colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una
per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare
o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per
iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale
industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato
fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola
rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della
vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui.
Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da
quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le
tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne? È questo un
tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di
allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di
nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi
germi, che poi nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno
un così alto compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti,
scrive il Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei
che ha la condizione e la mente di una serva » (1. ). Perciò lo Stato si deve
preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare
l'ordine della natura e la sua essenza: educare le donne da donne, ed educarle
secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno: e « quando le
donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » (2 ).
Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve
essere questa gratuita per tutti? No. L'istruzione inferiore o primaria,
appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più vasta generalità, è offerta dallo
Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e superiore,
siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì particolare, deve
essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare condizioni di favore a
chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri degno per altezza
d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un giorno o l'altro
con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo luogo, l'istruzione deve
essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità dell'istru zione
appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio e superiore, in ogni suo
aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere uniforme, svolta con
gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli stessi libri. Il Cuoco non
si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un simile sistema: le scienze
possono anche arrestarsi, poichè la discussione e il contrasto sono il vero e
più efficace stimolo al progresso: si può generalizzare un abito di servilità
verso il passato, che è quanto di più nocivo per la vita, che si sviluppa in un
irrefrenabile superamento dell'antico nel nuovo. Perciò questa uniformità non
si può intenderla in un senso assoluto, ma bensì relativo. Ognuno che insegna
deve insegnare, previa autorizzazione dello Stato, ed in segnare sulla base di
un programma -metodo anteceden temente presentato alle superiori autorità
pubbliche. I corsi impartiti da privati non avranno effetto accade mico, se non
in seguito ad un esame dinanzi ai docenti di Stato. Lo Stato inoltre esamina e
giudica i libri di testo che andranno per le mani dei giovani. Certo questo
sistema potrebbe portare con sè il più grave degli inconvenienti, lo
staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for mule, in programmi, in
metodi, cioè in quanto di più astratto si possa immaginare. Per eliminare tutto
ciò il Cuoco propone una direzione o ministero di tecnici, che aperto a tutti
gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua di controllo riconosca meriti e
punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di mira il progresso e lo sviluppo del
l'attività spirituale (1). Posti questi princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco
abbozza un suo vero e proprio progetto di riforma sco lastica,
particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza pedagogica, in cui
davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna. Noi non possiamo
seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di astrarre
dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con l'assunto
politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice che
questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira a
formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media
so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati
umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare
che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso
di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso
interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e
li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro
coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali
può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]:
altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo
una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed
atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio
afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già
l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di
aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e
che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più
pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in
sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la
dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con
naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati
dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con
l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im porre
la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile,
l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza
collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si
preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del
l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa «
perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione non bisogna
assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo Stato
è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può
disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori
dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che
sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione
di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital.,
1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp.
303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere
carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle
scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se
non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici.
Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di
libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed
oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco,
par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive
che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener
ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri
egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i
punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia
bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro,
cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare,
ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel
carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio
risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e
poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica,
poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi
si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la
religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che
vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e
concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri
dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se
sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse
non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn.
ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA.
274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per
cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla
legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per
la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol
fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice »
(1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei
rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione
nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente
liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante
una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante
in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti
punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta »
nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica,
il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si
guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia
sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a
rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello
Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della
religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi
riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del
fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia
e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione
superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più
elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in
quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben
diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di
meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi
p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416.
275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore
a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo:
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è
quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu
per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei
cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri
di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al
contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un
metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito
inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire
l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di
cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma «
l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben
ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 25. (2) Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se ora
l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè
è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello
o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo
di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa
filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi,
sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica;
perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. Qui più che mai si palesa quel
concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel che è
fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco attinge
come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione dello
spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente dal
Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na zioni. »
(1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso un
documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito, all'idea
che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito umano
c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo occorre
risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci, investenti il
nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che il Vico ha
divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la filologia
dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia, ha
stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il linguaggio
dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle nazioni. E così
si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In tal modo la
scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che sappiamo de '
greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della filologia delle
altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente » (2 ). (1 ) V.
Cuoco, Scritti vari, Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che
abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue
manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo
quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate.
Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia? Posto
a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante rappresentante di
quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se
nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero storicista, e perciò
antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro l'astrattismo
razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di altri minori, in
nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si impersona nel Cuoco,
che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni forma di vita, che
italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò non veramente
storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante contenuto umano.
È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la gloria perenne
del pensiero italico rinascente, quando le straniere infiltrazioni sempre più
sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo rinnovamento nella
filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me todo filosofico non
possono prescindere: la politica, la storia, la giurisprudenza, l'economia.
Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà morale, asserisce la vera
libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il Rinascimento, moventisi ancora
nell'antico dualismo dell'essere e del divenire, potevano assolutamente
concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello spirito e pone le
grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del l'arte sensuoso e
fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato nelle istituzioni e
nelle leggi, il mondo della religione e della moralità s'originano da noi, in
noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile, nella continua attività
dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto ci si discopre
trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto diviene
intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso processo:
la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più varie
manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero
storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine:
l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e
viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite
dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di
ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei
fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con
ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto
del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè
filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra,
produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico.
Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo
nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità
ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in
cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima
icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini,
onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le
modificazioni della nostra medesima mente 280 umana. Questo il nucleo profondo
della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo sangue,
movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della pedagogia
tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come colui nel quale
rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici nonchè
contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro del
suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli
tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di
situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo
vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli,
riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le
ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può
scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro
avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi
dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal
punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e
diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro
sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro
diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti,
una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta
insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli
germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza
che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una
moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni
d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi
si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p.
172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera
stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava,
che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima
dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo
Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La
Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore
importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del
progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine
del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa
coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come
dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile
al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori
della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del
Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924),
v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse
inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue
ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta
una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma
che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa
ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba
della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il
contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo
poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina
zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base
naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle,
romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita,
ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia.
Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola,
cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo osò
Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo degli
spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale gli
esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco,
Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli
altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande
scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul
Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante
possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano
ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi
non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il
Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E
riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e
risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ».
Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie
inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito
dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e
alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi
un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una
diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. CROCE, La
filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12.
(2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v.
XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C.
Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio
Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere
com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo,
che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò
si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti
del Cuoco. Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di Castello,
Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op.
cit., p. 241 osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature
pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux
lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota agli
Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del poeta
stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di pensiero
vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per cui
furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose di
sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è
meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e
così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li
provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono
letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da
U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il
molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli,
in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’
ispirò il Foscolo nei Sepolcri. CROCE, La filosofia di G. B. Vico. Confronta i
su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico: à Osserviamo tutte le
nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e
tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire questi tre umani
costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matri moni
solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra nazioni, quantunque selvagge
e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate
solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture. Chè per la Degnità, che «
idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon avere un principio
comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose
incominciò appo tutte l'umanità, e perciò si debbano santissimamente custodire
da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza
nova,). « Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture,
s'immagini uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani
sopra la terra ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con questo
bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè
disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le
ghiande, colte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione
le seppolture con quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono
diffinite e, con minor grandezza, Humanitatis Commercia ci furono descritte da
Ta cito ». (Scienza nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel primo brano citato il
rinselvarsi sta per 284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a
predarsi, primi avi dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito
delle carni umane, così vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono,
se non riferendoci ad un sistema filosofico che è certo quello del Vico (1 ),
si stema che siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e
si riflette in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ).
Onde tutta la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati
dell'este significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola
selva significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il
primo e il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre
Orazione inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della
terra » (Opere, Monnier); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso destinato a
divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la gran selva
de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda cruenta: indi
con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i figli: e lui
cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo gran deserto
dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857, p. 84). (1)
La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico nelle prime
pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni marittime: «....
gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime:
furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinità; nefari, chè,
per non esser tra loro distinti i paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i
figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e, finalmente, perchè, come
fiere be stie, non intendevano società, in mezzo ad essa infame comu nion delle
cose, tutti soli e, quindi, deboli e, finalmente, miseri ed infelici, perchè
bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita.
Essi, con la fuga de propri mali, sperimentati nelle risse, ch'essa ferina
comunità produ ceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza
nova). (2 ) Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia
civile nella letteraria, Torino, ma certo non com preso, troppo imbevuto,
com'era il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false
idee d’un'arte pedago gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato
raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti
da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica
vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di
poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte. Ma
l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti
col quale ebbe rapporti epi stola, nonchè disappunti letterari, dovuti al
fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il carattere del
poeta cesareo assai volubile in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero
intimo (3 ). Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la
prolusione Della necessità dell'eloquenza, il Discorso sulla storia longobarda
del secondo (5 ), sono la prova sicura della dif fusione delle dottrine del
Vico. Vedi a proposito come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il
modo come l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI,
Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed., 1894, p. 267; G. A.
BORGESE, Storia della critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., 1920, p.
248 e sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella
dello Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti
vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo
scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua
parte ». (2 ) G. Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P.
HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367,
passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G.
CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V.
Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 )
V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. A.
MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d., p.
22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe
l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso
nel primo centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924.
L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela
« non solo per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo
napoletano, ma anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente,
per alcuno dei caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè
questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte
la nuova storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di
diversi paesi, specie con i canoni romantici di Germania: a chi legge gli
scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile
rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco
e di pochi altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso
un apporto di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è
rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e
scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo
mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di
Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De
Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e
limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato
Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera
naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini.
(1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori
più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli
familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei
nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita
intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla
nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen
ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza
accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune
ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di
filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente
». BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e
d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle
leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia
influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella
di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce
dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche,
Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo
dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro
studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo
settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le
di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e
storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come
giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,...
quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori
del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità
vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori,
segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al realismo
poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a
sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri
giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come
Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare
storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma
politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo
XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo
semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso
la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico,
que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si manifestano:
Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo discepolo, e
per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto
realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza
nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle
più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo
l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a
negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che
possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè
e sulla GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e sg. 288 fiducia delle
proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal Cuoco
nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e formeranno
il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po litica, che
si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L. Mannucci circa
la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce come il genovese
non solo si sia nutrito del Vico per il tra mite del Michelet (3 ), ma in suoi
privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de ' numerosi e vivi
articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 14. (2 )
L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che dal
Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo,
lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre
vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più
felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne
disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo
studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente
nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella critica
letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e la filosofia ch'egli desi
derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo », disse altrove, paragonando
le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di storie letterarie con
quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento romantico, « il
vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della
civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro,
sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il cui scopo
santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura comprenderlo ». E si
compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da
quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e l'inerzia
degli animi». MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero
letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, ecc. Il Mannucci
ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due sono
aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del
Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie
de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours
sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris,
Renouard, 1827. Vedi a proposito di
questa versione fran cese, CROCE. La filosofia di Vico. Cuoco anda pubblicando
sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C. E in questi
zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo
stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo
getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche
nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali
il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione
dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po
stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese
richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca
Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere
solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente
di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo
stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo
pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine
del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua
redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii
europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero,
attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro
coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le
ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari
concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire
nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del
Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia Il fatto che gli articoli non siano
firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non citi
espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci che il grande agitatore non abbia
mai pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio
di Cuoco: così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al
Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese
non solo lo conobbe ma lo menzionò. B., 290 diviene dopo tante lotte una e
indipendente, diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema
unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio
Pensiero e azione redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la
dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze
politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale,
meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee,
il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta
all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va
al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra
zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo
salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso
d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi
il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota
bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico,
cioè: VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a
cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con
l'edizione milanese del Sonzogno, e con quella fiorentina del Barbèra; VINCENZO
Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza; VINCENZO Cuoco,
Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile,
Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed. Gli articoli del Giornale italiano ho
veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito delle ristampe in
appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro
era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti cuochiani, che integrano
nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: VIN
CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di Cortese e Nicolini, Bari, Laterza. Con
questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai
stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non
tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa
ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati
posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto, uniti
al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che
sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data
lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte
gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore
delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del
Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto
un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli
scritti minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre
i migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia,
che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e
ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro
vincia di Molise, Campobasso; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della
gioventù italiana in Rivista Bolognese; BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e
tradizione nel pensiero di Cuoco in Studi politici; BUTTI, La fondazione del «
Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed. (estr. dall'
Arch. stor. lomb.), alla quale operetta si riferisce la recensione di OTTONE in
Riv, stor. it.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella
miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri),
Milano, Hoepli; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della cisalpina e del
regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C.
CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi, Torino, Civelli; N.
CAPRARA, Cuoco, Isernia; L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la
sola copia che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di
uno scritto di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo
Cuoco, note e documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G.
GENTILE in Archivio stor. Nap., poi ristampata in ap pendice agli Studi
vichiani, Messina, Principato; di G. GALLAVRESI in Il Risorgimento italiano; e
ancora di GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e
documenti inediti, Napoli, De Falco, (una confutazione di molte affermazioni
ingiuste dell'autore è in RUGGIERI, Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, nonchè
in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia); B. CROCE, La filosofia di
Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim; CROCE, La rivoluzione
napoletana, Bari, Laterza; CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo
XIX, Bari, Laterza; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi intorno a V. Cuoco
in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei
secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza; SANCTIS, Storia della letteratura italiana,
Milano, Treves (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves; A.
FRANCHETTI, Storia d'Italia, Milano, s. d., Vallardi; GENTILE, Studi vichiani,
Messina, Principato ed., 1915 (in cui è ristampato lo studio Un discepolo di Vico:
Vincenzo Cuoco pedagogista, già pubblicato in Riv. pedagogica); G. GENTILE, Dal
Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica, GERINI, Gli scrittori
pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino,; F. GUEX,
Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note con app. su Il
pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G. VIDARI, G. B.
Paravia ed., s. d., Torino; e HAZARD, La révolution française et les lettres
italiennes, Paris, Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista
Vico e i suoi critici cattolici, Napoli, Pierro ed., LEVATI, Saggio sulla
storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX,
Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana,
riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e
la prima fase del suo pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed.
Risorgimento, Roma, (cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, MARCHESI, Studi
e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo; A. MARTINAZZOLI
E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F. Vallardi ed., 1901-5,
Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); MASTROIANNI, Ricerche storiche pubblicate per
delibera zione del R. Istituto d' incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed.,.;
P. MONROE ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S.
CARAMELLA, Vallecchi ed., 8. d., Firenze, NATÁLI, Nel primo centenario della
morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, G. NATALI, L'idea del primato italiano
prima di V. Gio berti, Roma, 1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La
letteratura italiana nel periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista
d'Italia ); G. NATALI, La vita e il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San
giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di Napoli:
cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361 ); L. PALMA, I tentativi di nuove
costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in Nuova Antologia, L'articolo Cuoco è
fifmato A. Martin azzoli. 295 1 OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della coscienza
nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A.
LEONE, in Riv. stor. ital.; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it.; di S.
Rocco, in Rass. crit. d. létt. it.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per
le prov. nap.); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel «
Platone » di Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel periodo
napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in Giorn.
st. d. lett. it.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it.); G. OTTONE, Mario
Pagano e la tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini; PEPE,
Necrologia: Cuoco, in Antologia (riprodotta dinanzi a varie edizioni del Saggio
storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI, Della rovina d'una monarchia;
relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di Napoli, Torino; ROBERTI, Lettere
inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it.; M.
ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico, storiografo, ro manziere, giornalista,
Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett.
it.; di A. BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it.; infine di G. GENTILE, in Critica,
III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani); M. ROMANO, Una
pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea: Scritti di storia,
di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi.; P.
ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino,
pp. 102-124; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una
appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli (cfr. recensioni
di B. CROCE, nella Critica; di G. R[OBERTI), in Giornale st. d. lett. it.; di
F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett.
it., a..; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904),
p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Mo
rano; R. SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del
secolo XIX, in Bollettino della società pavese di storia patria; TRIA, Vincenzo
Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in Rass. crit. d. lett. it. (cfr.
RUGGIERI, op. cit., p. 94; ROMANO; A. Zazo, Le riforme scolastiche di
Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista
pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive iGENTILE (Studi vichiani), l'Accade.
mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul pensiero
politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla Nazionale di
Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M. ROMANO, Di V.
Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss. recentemente acquistati
dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi PERSICO, Rel. sul concorso per il
premio sul tema « Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata
del 22 dic. 1906 ». Circa questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch.,
nonchè RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo
di essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e
infine CROCE nella Critica. Del Cuoco si sono occupati varî autori in storie
generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto alcuni più noti: V.
FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico, in Storia politica scritta da una
Società di professori, Milano, Vallardi, s. d. passim; LEMMI, Le origini del
Risorgimento italiano, Milano, Hoepli; Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.-
editr. torinese, 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento,
Milano, Vallardi, in Storia letteraria scritta da unasocietà di professori; V.
Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano, Vallardi; A. D' ANCONA e 0.
BACCI, Manuale della letteratura italiana, Firenze, Barbèra; F. TORRACA,
Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze, Sansoni. Il primo
centenario della morte di V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani,
oltre che dalla pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N.
Cortese e di F. Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN
TILE (Vincenzo Cuoco, Roma, Alberti). Preannunziando o annunziando la
ricorrenza scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Cuoco, in Il popolo
molisano; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in Il mondo; F. BARIOLA,
Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle Puglie; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V.
Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la
prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di
Firenze da G. DE MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al
Risorgimento Italiano (Roma, Soc. Anonima Poligrafica). Altra raccolta di
scritti per uso scolastico. V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 )
fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G. MARCHI. V'è una
duplice inesattezza: ad BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo
dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, e Una
pagina inedita su Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181, la
riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. (2)
L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un
numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè
vedere. La tradizione italica Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica
rivoluzionaria. Il « Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » Napoleone e
la sua politica generale. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano »
Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico. L'educazione
nazionale nel pensiero cuochiano Conclusione Nota bibliografica.Felice Battaglia.
Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani, “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. –
spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in
Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il
‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling,
volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una
nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Battaglia” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Battista: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della la percezione – scuola di Nicosia – filosofia siciliana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Nicosia).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Nicosia, Etna, Sicilia. Grice: Very
good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente
all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”. e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana; Editore Soliani, Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore
Newton et Compton, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.
Biografie: di biografie Categorie: Teologi
italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Nicosia
(Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista.
Keywords: percezione, trigonometria, orologio automatico, la filosofia della
trigonometria, Comte, la trigonometria nella matematica italiana, Venezia, la
filosofia illustrata, la teoria causale della percezione. Refs.: “Grice e
Battista” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bausola:la
ragione conversazionale e l’implicatura
convrsazionale della solidarietà – scuola d’Ovada – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Ovada). Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Ovada, Alessandria, Piemonte. Grice: “I would
call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons for solidarity,’ which is
exactly the point I want to make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’ as people
kept asking me for the rationale – i. e., literally, the rational basis – for
conversational cooperation – People agree that conversation is rational; but my
stronger thesis is that it’s cooperation which is rational. That is Bausola’s
point.” “Basuola has also explored the topics of ‘inter-personal relation’ from
a philosophical rather than sociological perspective – and therefore into the
compromise between self-love and other-love, or freedom and responsibility --.
A genius! That he also admires my latitudinal and longitudinal unity of
philosophy (‘storiografia filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or
bonus!” – Figlio di Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una
formazione cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da
Paolo Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a
Novi Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che
veramente fu per lui una rivelazione è la filosofia». Sceglie così la facoltà all'Università
Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor
Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito nel
Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui sono
«maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento neotomista:
Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero docente di
filosofia morale. Vincendo la cattedra di storia della filosofia viene chiamato
alla Cattolica, è ordinario di filosofia morale passando poi, ad ordinario di
filosofia teoretica. È preside della facoltà di lettere e filosofia. Chiamato a
far parte del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II.
Dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ne diventa il Rettore. È stato anche direttore della Rivista di
filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, della rivista Vita e Pensiero e
condirettore della Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo. Inoltre ha
diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei Classici della
Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del Centro di metafisica
istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la collana di pubblicazioni
Metafisica e storia della metafisica.
Tra gli altri incarichi e funzioni è stato: Socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei
nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto LombardoAccademia di
Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società Filosofica Italiana; Vice
Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei
Cattolici Italiani; Consulente della Sacra Congregazione per l'Educazione
Cattolica; Presidente di una delle Commissioni del Convegno ecclesiale
Evangelizzazione e promozione umana a Roma; Moderatore di uno dei cinque ambiti
del Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a
Loreto; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto dal Papa per l’anniversario
del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano teorico, le direttive di indagine di
Bausola sono soprattutto quella etica (fondazione della morale), quella
antropologica (il problema della libertà; il tema della cultura e della cultura
cristiana in particolare), e quelle della metafisica e della gnoseologia. I
suoi interessi principali di studioso sono rivolti, sul piano storico
all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello internazionale di Schelling
e di Pascal i suoi studi sono rivolti anche a Brentano, John Dewey e al
pragmatismo, alla tematica esistenzialista. Caratteristico delle opere di B. là
dove si tratti dello studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il
legame tra ricostruzione storica e ripensamento critico, secondo criteri
teoretici: un orientamento volto, attraverso il dialogo con alcune delle più
importanti prospettive della filosofia moderna e contemporanea, ad un
ripensamento della concezione classica del sapere. La sua attività
pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico, politico-culturale,
etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste di cultura. Altre opere: “Saggi sulla filosofia di
Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di Dewey, Milano, Vita e
Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano, Vita e Pensiero);
“Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Milano, Vita e
Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Croce, Milano, Vita e Pensiero);
“Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in Franz Brentano, Milano,
Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia. Da Leibniz a Moore,
Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di Schelling. Ricerche,
Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella filosofia analitica,
Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema della libertà. Introduzione
a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione. Federico Guglielmo Giuseppe
Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich
W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia); “Filosofia Morale. Lineamenti,
Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto dell'uomo: riflessioni sul
dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà e relazioni
interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla, Milano, Vita
e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo Tapella,
Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero “La
libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della
solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e
Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura
e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della
scuola della cultura e dell'arte — Roma, Commendatore dell'Ordine al merito
della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinaria Commendatore
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana —Cavaliere di gran croce
dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere
di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma; Cavaliere
di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno nastrino per uniforme ordinariaCavaliere
di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno. Grillo, B. nei ricordi della
sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia Ovadese",
pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola, Accademia Urbense di
Ovada, Avvenire, su swif . Quirinale: dettaglio decorato. Quirinale: dettaglio decorato. Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo,
in URBS Silva et flumen, Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini, Atti del
Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, Costa, Un Ovadese
nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et
flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno su
archiviostorico.net. Flavio Rolla, B., filosofo. Ricordo dell'illustre ovadese,
URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di
Ovada, su accademiaurbense. Dal sito filosofico.net: B. Fusaro, su filosofico. net.
blog philosophica. Wordpress Cortesi Predecessore Magnifico Rettore dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore Successore Stemma UCSC.png Lazzati Zaninelli Filosofia
Università Università Filosofo
Accademici italiani Professore Ovada RomaBenemeriti della scuola, della cultura
e dell'arteCavalieri di gran croce OMRI Commendatori OMRI Studenti
dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università Cattolica del
Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Adriano
Bausola. Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with Bausola is
that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo,
utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche
solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love, benevolence,
ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di Filosofia –
noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Bazzanella: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del luogo dell’altro – scuola
di Trieste – filosofia friulana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, per il
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Trieste). Filosofo triestino. Filosofo friulano. Filosofo
italiano. Trieste, Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different
background from mine, but we can communicate – I have focused on conversational
communication; he specializes in televisional communication; he has used
Heidegger’s concept of contamination to elucidate that of structure .” Grice:
“My favourite of his tracts must be one on ethics and topology, broadly
understood, which is all that my theory of conversational helpfulness is about
– Bazzanella entitles his essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the
strictness of his topological approach as applied to the ethos that results
when ‘ego’ meets and communes with ‘alter.’”
Partecipa a tre edizioni della Biennale
di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione
fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un
saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl,
nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault, Lacan,
Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando che
l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico,
storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora
l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al
consumo. Espone a Udine "Size". Il suo sviluppo della performance introduce
nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle
installazioni di Tony Oursler. Alla
Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone)
che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In
una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da
un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono
riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro
opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone
un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in
cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande
generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia"
nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri
filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella
declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della
metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in
Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non
viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il
tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende
a scardinare l'impianto della logica aristotelica. L'echologia è un
termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi
delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui
soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione
"usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della
"sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y. Questo passaggio è decisivo poiché segna il
definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia,
Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello
che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione,
dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice
significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in
relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di
un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla,
suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s
‘obble’). x Fid y. La relazione diadica
x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva.
L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica”
od ‘ontica’ e fondata sull’ente e
articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella,
sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia”
(disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non
può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa
che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione,
e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La
legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon”
(‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a,
non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una
relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una
relazioni senza referenza a le due relati. La preposizione "in" (‘jack IN the
box). La preposizione "con" (p et q, p con q). La preposizione
"di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna).
Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la
cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che
vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere
del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il
"con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e
Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di
Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià”
del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno.
Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla
ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca
sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto, sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’
‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia
dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova
il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e,
soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato"
nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della
logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed
all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in
analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il
non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla
definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il
senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una
"mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente
così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche
una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti
(l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal
cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io"
pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo
assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il
reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di
non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La
communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione
in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si
trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende
il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o
filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e
normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui
riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il
rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso
di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva,
e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai
classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera nello stalinismo. Il fascismo dai un
presupposto socialista diviene un
totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un
surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il
reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso
stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il
modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione
autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di
stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea
ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società
dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non
sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del
totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario
e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut
aut», La Nuova Italia, Firenze, Bonami, La
dittatura dello spettatore, Catalogo generale dell’Esposizione d'Arte. La
Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Storr (a c. di), Pensa con i sensi,
senti con la mente, Catalogo generale della 52. Esposizione Internazionale
d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Birnbaum, Fare Mondi,
Catalogo generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di
Venezia, Marsilio, Venezia, Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso
al Collège de France, Feltrinelli, Milano, Esposito, Immunitas. Protezione e
negazione della vita, Einaudi, Torino, Esposito, Communitas. Origine e destino
della comunità, Einaudi, Torino, Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir
Jankélévitch, Franco Angeli, Milano, Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl
e Merleau-Ponty, Guerini e associati, Milano, Contaminazione. L'idea di
struttura in Heidegger, Angeli, Milano, Spazio e potere. Heidegger, Foucault,
la televisione, Mimesis, Milano, Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in
Lacan, Angeli, Milano, Idee per un'echologia fenomenologica, Franco Angeli,
Milano, Echologia. Introduzione a una fenomenologia della proprietà e a una
critica del pensiero ontologico, Asterios Editore, Trieste, Fede, echologia,
sapere, Asterios Editore, Trieste, La Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore, Trattato di echologia, Mimesis, Milano, La
fabbrica, FPE Editore, Trieste, Il ritornello. La questione del senso in
Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano). Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie
di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste, Etica del
tardocapitalismo, Mimesis, Milano, Logica e tempo, Abiblio, Trieste, Autoscrittura,
Asterios Editore, Trieste, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo,
Mimesis, Milano Religio II. La religione
del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi, Asterios Editore Trieste. Oltre la
decrescita. Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore,
Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios,
Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios
Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno,
Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano. Eros
e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore,
Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore,
Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste. Il tragico e il
comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste.
Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del fallimento. Simbolo e
violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani Filosofi. Emiliano Bazzanella.
Keywords: il lugo dell’altro – etica e topologia, L’echologia di Grice (dal greco
‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema, coessema, diaessema,
riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” –
The Swimming-Pool Library.
No comments:
Post a Comment