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Thursday, January 9, 2025

GRICE ITALO A-Z B BU

 

Grice e Buonafede: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale – scuola di Comacchio – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Comacchio). Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Comacchio, Ferrara, Emilia-Romagna. Grice: “You’ve got to love Buonafede; he is all into the longitudinal unity of philosophy, literally from Remo – he has chapters on the Ancient Romans, on philosophy from the first monarchy to the second, a chapter on Cicerone, and one of a lovely phrase, the Roman equivalent to the century of Pericles, ‘filosofia nel regno di Augusto,’ but also on later developments of Italian philosophy, even a chapter on Cartesianism in Italy, and how philosophy on the whole was ‘resurrected’ or ‘revitalised’ in Italy --. I once joked that philosophers should never give much credit to Wollaston – but Buonafede totally proves me wrong!” --  Essential Italian philosopher. Di familia nobile, studia a Bologna e Roma. Insegna a Napoli. Saggio, “Ritratti poetici, storici e critici di varj uomini di lettere – Appio Anneo de Faba Cromaziano” (Simone, Napoli)  -- opera accolta favorevolmente negli ambienti culturali napoletani frequentati da Buonafede, nella quale convivono giudizi critici su alcuni importanti esponenti della filosofia moderna (quali Machiavelli e Spinoza), con parziali accoglimenti di altri (Cartesio e Locke), in uno stile composito tra il barocco e l'arcadico. Insegna a Bergamo e Rimini. Membro nell'Accademia dell'Arcadia, assumendo il nome di Agatopisto Cromaziano con il quale diede alle stampe numerosi saggi. Insegna a Sulmona. Saggio “Della restaurazione di ogni filosofia di Agatopisto Cromaziano” (Graziosi, Venezia – Societa Tipografica de classici italiani, Milano) -- particolarmente critica verso la filosofia sensista di Cartesio e Locke. Baretti: ebbe una violenta polemica con lui. Il “Saggio di commedie filosofiche”, contenente un testo in endecasillabi, “Il filosofo fanciullo” che, in uno stile comico, critica celebri filosofi dell'antichità riportando citazioni fuori dal contesto.Venivano beffeggiati, tra gli altri, Socrate, Democrito e Anassagora. Il saggio trova qualche apprezzamento. Baretti, scrittore e critico letterario torinese, in un numero del suo periodico la Frusta letteraria nel quale era solito firmarsi con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, espresse giudizi negativi sul Saggio del Buonafede trovandolo irrilevante e privo di comicità. Punto sul vivo, replica immediatamente con il libello, dai toni assai aspri, “Il bue pedagogo: novella menippee di Luciano da Fiorenzuola contro una certa Frusta pseudo-epigrafia di Aristarco Cannabue” (Luca).”. Gli rispose ancora Baretti con una nutrita serie di articoli, Discorsi fatti dall'autore della Frusta letteraria al reverendissimo padre don Luciano Firenzuola da Comacchio autore del Bue pedagogo, pubblicati su diversi numeri della Frusta.  La polemica, una delle più aspre e celebri delle cronache filosofiche italiane prosigue ancora.Fa pressioni verso i responsabili della Repubblica di Venezia affinché eliminassero gli articoli apparsi sulla Frusta e perché Baretti fosse poi espulso dallo Stato Pontificio quando si trasferì ad Ancona.  Il critico non fu lasciato tranquillo neppure quando fuggì in Inghilterra: l'irriducibile Buonafede lo accua allora di simpatie verso il protestantesimo. Il giudizio di Croce e piuttosto negativo, scrisse che la sua filosofia e il risultato di «un ingegno da predicatore e da predicatore mestierante, che ha un impegno da assolvere, un sentimento da inculcare, un nemico da abbattere» senza che possano distrarlo dal suo fine «né la ricerca della verità delle cose né l'ammirazione di quel che è bello».  Più positivo il giudizio di Natali nella voce redatta per l'Enciclopedia Italiana, lo giudica “uomo d'ingegno acutissimo, filosofo non volgare, spesso arguto e vivace e dotato di dottrina assai superiore a quella del Baretti. Altre opere: “Delle conquiste celebri esaminate col naturale diritto delle genti libri due di Agatopisto Cromaziano” (Riccomini, Lucca, Milano, Fondazione Mansutti); “Saggio di commedie filosofiche con ampie annotazioni di A. Agatopisto Cromaziano” (Faenza, pel Benedetti impressor vescovile, e delle insigni Accademie degl'illustrissimi sigg. Remoti e Filoponi); “Sermone apologetico di Tito Benvenuto Buonafede per la gioventù italiana contro le accuse contenute in un libro intitolato Della necessità e verità della religione naturale, e rivelata” (Benedini, Lucca); “Della malignità istorica: discorsi tre contro Pier Francesco Le Courayer nuovo interprete della Istoria del Concilio di Trento di Pietro Soave” (Bologna, per Lelio dalla Volpe impr. dell'Instituto delle Scienze); “Dell'apparizione di alcune ombre novella letteraria di Tito Benvenuto Buonafede” (Lucca, appresso Jacopo Giusti nuovo stampatore alla Colonna del Palio); “Istoria critica e filosofica del suicidio ragionato di Agatopisto Cromaziano” (Lucca, Stamperia di Vincenzo Giuntini, a spese di Giovanni Riccomini); “Versi liberi di Agatopisto Cromaziano messi in luce da Timoleonte Corintio con una epistola della libertà poetica..., Cesena, Società di Pallade per Gregorio Biasini al Palazzo Dandini); “Della istoria e della indole di ogni filosofia di Agatopisto Cromaziano” (Lucca, per Giovanni Riccomini); “Il genio borbonico, versi epici di Agatopisto Cromaziano nelle nozze auguste delle altezze reali di Ferdinando di Borbone, infante di Spagna e di Maria Amalia, arciduchessa infanta” (Parma, per Filippo Carmignani, stampatore per privilegio di sua altezza reale); “Della letteratura comacchiese lezione parenetica in difesa della patria di Agatopisto Cromaziano giuniore” (Parma, Bodoni). Opere di Agatopisto Cromaziano” (Napoli, Porcelli). “Epistole tusculane di un solitario ad un uomo di città, Gerapoli); “Storia critica del moderno diritto di natura e delle genti di Agatopisto Cromaziano, fa parte della Biblioteca cristiano-filosofica decennio primo, consacrato alla divinità” (Firenze, nella Stamperia della Carità). Dizionario Biografico degli Italiani. Soffre di gotta e una caduta in piazza Navona aggrava le sue condizioni. La storiografia filosofica, Vestigia philosophorum”. Il medioevo e la storiografia filosofica, Rimini, Maggioli Editore. Fondazione Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa. Memorie istoriche di letterati ferraresi,  III, Ferrara. Ritratto di Appiano Buonafede. Assicurazione. Luigi Speranza, "Grice e Buonafede," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.  -- I Romani, fin d'allora che hanno le canne per tetti e un solco in luogo di fosse e di muraglie, esercitano la divinazione, con la cui guida ordi [Seneca I. c. Plinio Hist. Nat.; Lucrezio lib. V. (3) Macrobio Saturnal.; Scipione Maffei ap presso G. Lampredi l. c. Cassiodoro-Bruzi. lVar. Ep. Museo Etrusco narono e nobilitaro noi rudimenti della loro pira teria. ROMOLO e insieme il fondatore e il primo augure di Roma. Uomini armati e rubatori conobbero che questa larva di religione e questa pretesa scienza del futuro puo aver influssi propizi, nelle loro spedizioni, siccome l'esito comprovo. Ed e veramente cosa ammirabile che una tanta puerilità, di cui gl’auguri istessi rideano, producesse vantaggi sì grandi alla fortuna romana. Presero adun que quei primi uomini la disciplina augurale dagli’etruschi, e non curarono altro. Furon dette as sai novelle della FILOSOFIA degl’aborigeni, de’ sabini, degl’Ausonj e d’altre genti di quelle contrade. Ma i critici le numerarono tra le favole. NUMA Pompilio, secondo regolo di quella feroce masnada, pensa di ammansarla con la religione e con la pace. Finse colloquj con le Muse, e divulga notturni congressi con la dea Egeria. Istitue sacerdoti agl’Id dii, e e egli stesso sacerdote. Scolge le vergini a Vesta, le quali serbasser perpetuo il fuoco nel centro d'un tempio rotondo. Vieta le immagini delle sostanze divine e i sacrifizi cruenti. Ordina gli auguri, gl’oracoli, le interpretazioni de' fulmini e di altri prodigj, e le funebri ceremonie e le placazioni de’ mani. Correno i mesi e l'anno secondo il corso del sole e della lupa. NUMA scrive libri sacri che furon seppelliti con lui, e niun potè leggerli. Consacra l'arcano e il silenzio con la istituzione della dea Tacita. Chiuse il tempio di Giano. Roma guerriera divenne pacifica e religiosa. In questi regolamenti di Numa sono cercati, e dicono anche ri trovati gl'indizi di molta filosofia. La finzione de' [CICERONE, De Divinatione; Cicer. I. c. G. Hornio Hist. Phil.; ; Livio; Plutarco in Numa] prodigi e de’ secreti colloqui col cielo, e il silenzio è l'arcano e i sacrifici senza sangue, e le proibizioni di effigiare il divino, sono sembrate dottrine della setta di CROTONA; e sopra tutto il fuoco del tempio di Vesta è stato creduto un simbolo del sistema di questa setta, la quale insegna la stabilità del sole nel centro del nostro mondo. Il perchè corse già opinione che NUMA e stato discepolo di Pitagora; ma è stato poi osservato che questo filosofo vivea a CROTONA quando L. Bruto salva Roma dai tiranni. Onde piuttosto Numa ha dovuto ammaestrare Pitagora. Sebbene io non credo che un filosofo chiuso tra i monti di Calabria ha mai udito parlare d'un capo di ladroncelli ristretti fra i monti latini. Newton pensa che Numa prende il suo sistema celeste dagl’egiziani, osservatori antichissimi delle stelle. Ma io non so persuadermi che un pover uomo sabino estende il saper suo fino alla penetrazione degli ardui misteri d’Egitto. Reputo più verisimile che lo studio de gl’etruschi nelle meraviglie de' fuochi celesti, e la molto diffusa e popolarevenerazione del fuoco gui dassero Nụma alla istituzione di questo rito. Mime raviglio io bene come coloro che cercano il panteismo dappertutto, non hanno trovato nel fuoco centrale di Vesta il simbolo dell'anima del mondo, e di quelle altre del PORTICO e Spinoziane dottrine che pure si sforzano di trovare altrove con maggiore difficoltà. Forse si saranno contenuti da questa imputazione, perchè negl’oracoli e nell’altre divinazioni di Numa, e nelle mortuali placazioni e cerimonie si conoscono alcuni vestigi non dispregevoli [Plutarco. Livio I. c. CICERONE, Tuscul. Disput.;  Bayle Dict. art, Pythagoras, e  Brucker de Phil. Roman. yet. 3 ) De Mundi Systemate] d'una libera provvidenza e d'una vera immortalità degl’animi separati dai corpi. Io ha quasi voglia di aggiunger qui, che per sentenza di VARRONE gl'Iddii de' Romani e de' Latini prima ancora di Numa e di Romolo sono gl' Iddii di Frigia portati da Enea, quei di Frigia sono i medesimi di Samotracia tanto famosa per li suoi misteri che sono gli stessi d'Egitto; e siccome di questi mostreremo con qualche verisimilitudine che nascondeano la unità del divino e la immortalità degl’animi, così puo dirsi il medesimo della segreta dottrina del l'antico Lazio e de' primi Romani. Ma oltre le gravi difficoltà contro la venuta d'Enea in Italia, i.se veri critici potrebbono opprimermi con altre dubbiezze assai; onde ho deposto il desiderio di proporre le mie conghielture. Non è però male alcuno averle accennate.Questa è l'immagine della PICCOLA FILOSOFIA dei primi tempi di Roma, la quale appena apparita per lo pacifico genio di Numa, e dissipata dagl'ingegni guerrieri de' suoi successori, e per più secoli e esclusa ed anche abborrita, come nimica dell'austerità e della fortezza, da quei valorosi uomini che, intenti alla conquista del mondo, o non hanno ozio di volgersi alla filosofia, o pensano di non averne bisogno, o dubitarono che puo opporsi a quell'immenso latrocinio. Ritorneremo su questo argomento, e avremo copiosa materia di ragionare ovę riguarderemo quei tempi di Roma che dagli storici e dai politici furon detti molli e corrotti, e dagl’amici della filosofia sono onorati come. mansueti e sapienti. [Macrobio Saturnal.; Giurieu Hist. Cri tica Dogmat] Il genio bellicoso di ROMOLO ammansato un poco dalla pacifica Egeria, che era il genio di Numa, nella signoria dei seguenti regoli di Roma torna alla primiera ferocità. Nè altramenle potea intervenire in una città e in un popolo composto di uomini violenti e perturbatori, e per delitti e per timor delle pene fuggitivi dalle lor terre, e riparati nella nascente città come nell'asilo delle scelleraggini; i quali assuefatti al sangue e alla rapina, se fosser mancate guerre esteriori, hanno infero cito contro le viscere della lor medesima società. Perchè e mestieri esercitarli senza riposo in im prese e rubamenti perpetui; e questa che parve prima necessità, divenne appresso costume, e e l'origine primaria della grandezza romana. Un popolo cosi funestamente educato non puo esser amico di alcuna filosofia: e veramente, come alcuna volta si offersero le opportunità d'introdurla, con molta ruvidezza la impedirono per timore che non ammollisse l'austerità militare, e non traviasse i cittadini dalla usurpazione del mondo. Nel [Brucker] campo d'an uom consolare sono trovati sotterra alcuni manoscritti di filosofia attribuiti a Numa, e il pretore comando risolutamente che sono ab bruciati. Un altro pretore per consultazione del senato, e poco dopo anche i censori dichiarano, non piacere che soggiornassero nella città certi filosofi, maestri d'un genere di discipline diverse dalla consuetudine e dal costume de maggiori; per la qual novità i romani in torpidivano. Questo avvenne nel consolato di C. Fannio Strabone e di M. Valerio Messala; ed è ben degno di considerazione che quei grand'uomini avean già messa ad effetto gran parte del lor latrocinio. LA FILOSOFIA e ancora un genere di disciplina contrario alle loro consuetudini. In quel torno medesimo, e non so bene se poco prima o poco dopo, accadde una ambasceria ateniese de tre filosofi Carneade, Diogene e Critolao. Gl’ateniesi avendo saccheggiata Oropo città della Beozia, furono dai Sicioni con l'autorità de’ romani condannati in CCCCC talenti. Ma questa multa sembrando soperchia, spedirono a Roma i prefati filosofi per ottener condizioni più sopportabili. Nella dimora e nella espettazione di essere ascoltati dal senato, tenneno dotte assemblee nei cospicui luoghi di Roma, e ostentano dottrina incognita ed eloquenza inaudita alle orecchie romane. Critolao la usa erudita e rotonda, Diogene modesta e sobria, Carneade violenta e rapida. Ma comechè ognuno ottenne gran lode, l'accademico sopra tutti risveglia le meraviglie inu [Plinio; Gellio Noc. Att.; Bayle (artic. Carneade, not. N ) i litigj in-. torno a quest'epoca.] -sitate e fino i furori pubblici, massimamente degl’ottimati, che dimentica de' piaceri e rapita quasi fanatica di questa filosofia. E convien certo che molto singolar cosa e questa eloquenza di Carneade, mentre e detto che ora a guisa d'un fiume incitato e rapace sforza e svelle ogni cosa e seco rapiva l'uditore con grande strepito, e ora dilettando lo imprigiona, e per una parte manifestamente predando, e per un'altra rubanilo nascostamente, o con la forza o con la frode vince agl’animi più prepurati a resistere. Ma ciò che maggiormente rileva, da CICERONE medesimo maestro tanto eccellente di queste cose, e delto che ha pure desiderato di possedere la divina celerità d'ingegno e l'incredibil forza di dire e la copia e la varietà di Carneade, il quale in quelle sue disputazioni niuna sentenza difende che non prova, niuna oppugna che non mette a compiuta ruina. Consapevole di queste sue viltoriose veemenze, ardì, stabilita la giustizia in un giorno con molto copiosa orazione, distruggerla in un altro ALLA PRESENZA DI GALBA E DI CATONE MAGGIORE, in quella età oratori grandi alla maniera romana. Lattanzio ci serba in poche parole la sostanza di questa confutazione della giustizia. CARNEADE divide la giustizia in naturale e civile, e l'una e l'altra mise a niente. La *naturale* è giustizia, non è prudenza; la civile e prudenza, *non* e giustizia. La prudenza civile si varia secondo i tempi e i luoghi, e ogni popolo l'attempera a suo comodo. Questa prudenza è una inclinazione verso l'utilità che la giustizia della natura infuse in ogni animale, alla quale chi volesse ubbidire incorrerebbe in mille fro [1 ) Pausania; Plutarco in Catone Majore. A. Gellio; Macrobio Saturnal.; Numenio presso Eusebio Praep. Ev.; CICERONE, De Oratore] di. Moltissimi esempi dimostrano cosiffalta essere la condizione degl’uomini, che *volendo* essere giusti, sono imprudenti e stolti. Volendo essere *prudenti* e avveduti, sono *ingiusti*. Laonde non può concedersi una “giustizia” che è inseparabile dalla stoltezza. Nel quale proposito trascorse in queste parole abborrite dai conquistatori. Se i popoli fiorenti per signoria e i Romani oggimai possessori del mondo *vuoleno* esser *Giusti* restituendo l'altrui, doveno ritornare alle capanne e giacere nella miseria. CICERONE, che molto medita queste e più altre difficoltà di Carneade, le trascorre senza risposta. E altrove avendo statuito una giustizia naturale e un diritto naturale indipendente dall’istituzioni degl’uomini, prega l'Accademia e Arcesila e Carneade a volersi tacere, perchè assalendo queste ragioni, indurrebbono grandi ruine; e desidera ben molto di placar tali uomini, non ardisce rispingerli. Ma CATONE, censore uom di rigida innocenza e di antichi costumi e di senatoria e militare austerità, per le quali virtù era già nata e crescea la grandezza di Roma, udite queste ambigue e scandalose orazioni, e veduti i furori dell’ottimati romani, e considerate le conseguenze funeste alla fortuna della repubblica, le quali poteano sorgere da quella molle e licenziosa filosofia, prestamente e fortemente dimostra nel senato che non e bene sopportare più a lungo nella città quegl’ambasciatori filosofi che persuadeno quanto loro piacea, e confondeno il vero col falso, e alienano dalla robusta e antica istituzione l'ottimati [Lattanzio; Bayle I. c. G, H, et art Porcius, H.; Cicerone De Repub. presso S. Agostino De Civ. Dei e Lallanzio; Ciceronc De Legib.] e quindi e mestieri conoscere e risolvere di quella legazione, e tosto rimandando gl’ambasciatori ad istruire i greci, ricondurre l’ottimati romani ad ascoltar come dianzi i maestrati e la legge. Di questo modo CATONE parla, e gl’ambasciatori sono congedati. Non è però che questo CATONE e nimico del sapere, mentre è noto per la istoria ch'egli militando a Taranto ascolta volentieri da certo suo ospite pitagorico dottrine contrarie alla voluttà, e crebbe nell'amore della frugalità e della continenza. Indi e interprete della legge, e difensore e accusatore instancabile del foro, e filosofo di orazioni e di cose rustiche e delle origini romane, nelle quali opere mostra copia e gravità di dottrina; e, in breve, tutta la sua vita distribue tra la milizia e tra le leggi e le lettere, e tra la più austera pratica della virtù e la persecuzione più violenta de vizi. Onde e detto che le sue guerre perpetue contro i malvagi costumi non sono alla repubblica meno utili delle vittorie di SCIPIONE contro i nimici. Il perchè non credo io già che CATONE per odio di Carneade o per altra malevolenza abborrisse la filosofia relativistica. Ma piuttosto perchè la militare e severa indole di Roma ne' suoi dì così domanda, e perchè l'esempio di questo relativismo ammollita e scaduta in mezzo a tanto lusso di filosofia forse lo spaventa. E siccome CATONE e per natura inclinato all'eccesso de' rigori, parla forse più for leinente che non sente; e nella guisa che esagerando dicea che le adultere sono avvelenatrici ile' loro mariti, e che tutti i medici sono da 5. [Plinio; Plutarco in Catone; Cicerone de Ci. Or.; Livio;  C. Nie pote Frag. Vitae Catonis. Plutarco I. c.  Seneca Ep.; Quintiliano] fuggirsi, dacchè aveano giurato di uccidere tutti i romani. Così per avventura ingrande gl’abborrimenti di tutta la filosofia, e dice a suo figliuolo: Pensa che io parli da vate: indocile ed iniquissima è la generazione de' elleni. Quando avverrà che quella gente a noi dia le sue lettere, saremo tutti corrotti e perduti. Di queste sue amplificazioni, oltre il suo amore per la disciplina pitagorica, può essere argomento lo studio che CATONE mette negli scrittori e nelle lettere greche non solamente piu tarde, quando le medita avidamente, come chi vuole estinguere una lunga sete, ma nella sua pretura di Sardegna, e ancor prima; poichè, per testimonianza di Plutarco, CATONE parla agl’ateniesi per un interprete. Potea parlar greco, se avesse volute. Suoi libri sono ornati e ricchi di opinioni, di esempi e di istorie fonti, e di sentenze morali. Da questi riscontri io deduco che CATONE disprezzando i Greci in pubblico e leggendoli in privato, non e tanto nimico loro quanto ostenta; e che meditando e usando ne' suoi componimenti opinioni filosofichi, è chiaro che vi sono dunque in Roma i libri di filosofia, e che non sono incognite le opinioni filosofichi a quella età, e quindi prima della ambasciata de tre filosofi vi era tra i Romani qualche tintura di filosofia. Frattanto Furio, Lelio, Scipione e altri di genti patrizie furon del numero di que' l’ottimati accesi nell'amore delle dottrine filosofiche, i quali venuti a assunti al comando degl’eserciti che soggiogavan la Grecia, prese da' greci [Plinio; Plinio I. c. Plutarco; Cicerone De Senectute; Val. Massimo; Plutarco I, c. Aurelio Vittore De Viris Illustr,] e al governo delle provincie conquistate, hanno agio di veder da vicino e di ascoltare i valenti uomini di temperamento filosofico, coi quali strinsero dimestichezza, e vollero finanche averli compagni nelle lor case, nei viaggi enelle medesime spedizioni militari. Cosi leggiamo che SCIPIONE AFFRICANO vuole aver seco assidua mente in casa e nella milizia insiem con Polibio, filosofo singolare e grande uomo di Stato e di guerra, anche Panezio filosofo del Portico. E questi un Rodiano ingenuo e grave, il quale salito ai primiluoghi del Portico, oltre alcun altro componimento, scrive i libri lodatissimni degl’uffizi secondo quella disciplina; ma non gli piacque la divinazione del Portico e l'apatia, e le spine della disputa e l'asprezza delle parole e l'orror de costum; e più gentilmente e umanamente fiolsofo, non così legandosi a Zenone e quegl’altri, che non ama anche Aristotele Senocrate e Teofrasto e Dicearco, e non ammira Platone come divino e sapientissimo e santissimo e come l'Omero de' filosofi, sebben quella sua or poetica, or ambigua immortalità degl’animi non gli tornasse a grado. E dunque PANEZIO uno filosofo del PORTICO modesto e libero e degno della famigliarità di SCIPIONE, il quale erudito in questa temperata dottrina del PORTICO e mansuetissimo ed umanissimo; e riparlendo la sua vita tra la milizia e la filosofia, sali per fama di valore e di lettere fra i massimi amplificatori della gloria di Roma. Ad illustre ed esimia indole aggiungendo la ragione e la dottrina, e assiduamente conversando col medesimo Panezio e con Diogene – del PORTICO --  e con altri eruditissimi uomini, sono in compagnia di Scipione pre [Cicerone Acad. Quaest.; De Fin.; De Off.; Tusc. Disp.; De Div.; Or. pro Murena; De Or.; De Nat.: Deor.; Gellio Noc. At.; Suida v. Panaetius.] clari e singolari per modestia e per continenza L. Furio e C. Lelio cognominato Sapiente. Si accostarono a Panezio e a questi medesimi studi L. Filippo e C. Gallo e P. Rutilio e M. Scauro e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevola, e altri soinmi uomini nella repubblica, e massimamente i giureconsulti; i quali invitati da lanta luce di esempi e dalla magnificenza e dal metodo della morale del PORTICO, pensano che niun'altra potesse congiungersi più co modamente alla giureprudenza romana. In queste narrazioni è facile a vedersi che la filosofia del PORTICO entra la prima in Roma con molto nobil fortuna. E quantunque Carneade esulta sopra i compagni suoi, quando non però si ha a prender partito, quei medesimi che lo ascoltano con tanto furore, si rivolgeno alla disciplina del PORTICO; la quale benchè non puo mostrar tra i Romani una successione continua di maestri e grande strepito di scuole e di libri, mostra iudizi cospicui della riverenza in cui e tenuta e; tra gli altri il grande Pompeo, che approdato a Rodi vuole ascoltar Possidonio da Apamea – del Portico di primo nome, che ha cattedra in quella isola, e recatosi alla sua casa, vietà prima che il littore percotesse la porta, e per somma testificazione d'onore comando che si abbassassero i fasci. Indi entrato, vide Possidonio giacere gravemente per dolori in tutta la persona, e salutatolo con onorifiche parole gli dice, molto molesto.essergli per quella sua malattia non potere ascoltarlo. Ma tu veramente puoi, risponde Possidonio, nè io concede mai che il dolore fuccia che [Cicerone De Or.; De Fin.; Or. pro Archia; Cicerone Or. pro Murena; De Or.; in Bruto; Gravina De Or. Juris; Schiltero Manud. Phil. Moralis ad Jurispr.; Westphal De Stoa Juriscon. Rom.; Ottone De Stoica Juriscons Philosophia] un tanto uomo sia venuto indarno a vedermi. E cosi giacendo disputa gravemente e copiosamente, che niente era buono, salvo l'ONESTO. E intanto ardendo pure come per fiaccole il dolore, spesso dice. Niente fai, o dolore: sebbene tu sia molesto, io non confesso mai che tu sia male. Pompeo si congedò richiedendo il filosofo se niente volesse ordinargli. E Possidonio risponde – “Rem gere praeclare, atque aliis prestare me mento.” Cicerone poi lo ascoltà come scolare, e M. Marcello si tenne in grande onore di condurlo a Roma, ove e in altissima estimazione per li suoi libri della Natura degl'Iddii, degl’uffizi, della divinazione, e per altrenobili scritture che andarono a male, e poichè e cultor non vulgare dell'astronomia, ha gran lode nella composizione di quella sua sfera, la quale in ognuna delle sue conversioni rappresenta nel sole, nella luna e ne' pianeti quello che si fa in cielo nel giorno e nella notte. Possidonio adunque dopo Panezio e ornamento grande e propagator sommo della fortuna del Portico tra i Romani. Altri filosofi di minor nome sostennero la medesima fatica, e accompagnarono e amınaestrarono altri Romani, che molto si dilettarono di quella disciplina; e tra questi non è giusto tacere di Q. Lucilio BALBO, divenuto del Portico eguale ai Greci medesimi, cosicchè Cicerone nei Dialoghi della Natura degļId dii gli diede a sostenere le parti della teologia del Portico. Ma niuno tra i Romani, nè forse pure tra i Greci agguaglia la persuasione, la pratica e la costanza del Portico di CATONE UTICENSE, onde ottenne da Cice [Cicerone Tusc. Disp.; Plinio Juniore Ep.; De Nat. Deor.; Suida v. Possidonius.Aieveo lo dice famigliare di Scipione domator di Cartagine; ma è anacronismo; Cicerone De Div.; De Nat. Deor.; ad Att.; De Off.; Cicerone De Nat. Deor.]  rone il nome di perfetto del Portico, che in tanti uomini di quel genere ricordati e variamente lodati nelle sue opere non avea saputo ancora concedere a veruno. E di vero parve che la natura medesima si dilettasse ad organizzare in quest'uomo uno singolare filosofo del Portico; perciocchè è fama che fino dalla puerizia con la voce e col volto mostra ingegno se rio, rigido, intrepido, inflessibile alle lusinghe e alle minacce, e fin d'allora spirante immobilità nell'amor della patria. Ha famigliari e maestri Antipatro Tirio e Atenodoro Cordilione, uom solitario e alieno dai rumori e dalle corti; e dappoi tende sempre dimestichezza con altri filosofi del Portico, e con la forza della istituzione conferma ed accrebbe la natura già molto propensa, e non per la disputa, ma per la vita e del Portico. Entrato nei maestrati della repubblica e negli strepiti del foro e della milizia, usa tal forma di parlare e di vivere, che le meraviglie sono grandissime di tutti i Romani, massimamente che di quei di oramai era mutata e corrotta ogni cosa. Con una voce la cui intensione e forza e inesausta, parla al popolo e al senato non eleganze e novità, ma ragioni giuste, piane, brevi, severe e degne della disciplina del Portico e di Catone. Le usanze sue non eran dissimili dalle parole, e con forti esercitazioni si addestra a sostenere il calore e la neve col capo ignudo, e a viaggiare a piedi in ogni stagione. Nella guerra civile, in mezzo alla militare licenza, e temperante, e combatte con fortezza congiunta a prudenza, e ottenne lodi e onori, che rifiuta. Eletto tribuno de' soldati per la Macedonia, e simile ai soldati nelle fatiche; ma nella grandezza dell'animo e nella forza dell'eloquenza e maggiore di tutti i [Cicerone, Parad; Strabone] capitani. Visild l’Asia per conoscer l'indole di quelle terre e i costumi degli uomini, e per conquistare il solitario Atenodoro Cordilione, filosofo del Portico, che riputa la più ricca di tutte le prede. Ritornato a Roma, divide il suo tempo tra Atenodoro e la repubblica. Non cura di esser questore prima di aver conosciute a fondo tutte le leggi questorie; e in quel maestrato corrotto pessimamente tante cose muta per la giustizia e per la salute della repubblica, che nell'amore della giustizia e della temperanza e tenuto maggiore di tutti i romani. Nel senato e sem pre il primo a venire e l'ultimo a ritirarsi. Dalla sua solitudine di Lucania, ove si era raccolto per viver tranquillamente tra i libri e i suoi filosofi, desidera il tribunato della plebe unicamente per resistere ai magnati prepotenti, e in questa ardua contenzione dimostra giustizia, fede, candore, magnanimità; a segno che Cicerone con molta licenza di giuochi agitando la filosofia del Portico di Catone nella causa di Murena, incorse il biasimo di rettorica dissolutezza; di che però l'uomo apato non si commosse per niente, e solamente ammonì un poco il licenzioso giuocatore con quelle brevi ma significanti parole: Buoni Iddii ! Noi abbiam pure il ridicolo Console; e poi nella congiurazione Catilinaria vi gilanteinente lo soccorse, come amico di lai e delle repubblica. Ma si accrebbero fuor d'ogni termine le invidie, le emulazioni e le violenze de' cittadini potenti, e i consigli di perder la patria e la libertà preponderarono ad ogni virtù. CATONE resistè for temente; e mentre altri erano Pompejani e altri Cesariani, Catone persevera ad esser repubblicano. Si attenne poi a Pompeo come a MALE MINORI, e guer reggid e parla da grande soldato e da filosofo. Dopo la battaglia farsalica, nella successione continua delle disgrazie e nella ruina di tutte le cose si ripara ad Utica, dice ai suoi che provvedessero a sè medesimi con la fuga o con altri consigli, entra nel bagno, e poi cende lietamente e disputa co' suoi filosofi, e sostenne, il solo sapiente esser libero. Coricatosi lesse due volte il Fedone, dormi ancora, e svegliato si uccise. Con molta prolissità si è voluto disputare delle cagioni del suicidio di Catone; il che secondo il pensier mio si è fatto assai vanamente. Perocchè dalle cose fin qui raccontate si conosce, senza bisogno di tante disputazioni, che il nimico alle porte, la dignità e la libertà perduta, la speranza del fine de' mali presenti e del riposo futuro, e il sistema e il costume del Portico e romano sono le cagioni palesi di quel suicidio. A queste cagioni e aggiunta la trasfusione degl’animi nell'anima del mondo, ossia il divino immerso necessariamente e indivisibilmente nella materia; il che fu raccolto non solamente dalla indole del sistema del Portico, ma da quelle parole che Lucanio presta a Catone -- Iupiter est quodcumque vides, quocumque moveris -- per cui il prode Collin alloga Catone tra i panteisti. Maperchè quel verso può essere più del poeta che di Catone, e perchè posto ancora che sia di questi, può aver senso che il divino è presente per tutto, e in fine per chè la teologia del Portico non è così empia come al cuni immaginarono, secondochè dianzi abbiam detto, perciò non possiamo acconsentire al panteismo di Catone. Sebben fosse propizia e luminosa, così come si [Cicerone,   Orat. pro Murena; Paradox.; Plutarco in M. Catone Uticensi; Seneca Ep.; De Provid.; Lattanzio; Siollio Hist. Ph. mor. Gentil.;  Brucker De Phil. Romanor.; Phars.; De la liberté de penser; Buddeo De l’Ath. et de la superst.; Brucker] è divisato, la fortuna della scuola del Portico tra i romani; tulta volta non è da pensarsi che ad altre sette mancassero affatto gli amici; che anzi alcuni furono che indifferentemente estimaron tutte le scuole, e quelle parti preser da esse, che più sembraron concordi a certe forme di verità, a cui avean l'animo assuefatto. Così L. Licinio Lucullo nella Grecia e nell'Asia, mentre sostenea il peso del governo de' popoli e mentre vincea Tigrane e Mitridate, coltiva le buone lettere e conversa coi filosofi; e dappoichè ebbe trionfato, mise a guadagno le ricchezze predate, e dai militari peccati raccolse piaceri e felicità. Si congedd dai turbamenti della guerra e della repubblica, e tutto ri volto a pensieri di riposo edificò ville e palagi di meraviglioso lavoro e d'incredibil magnificenza, e intese a pranzi e a cene e ad ogni guisa di amenità, di eleganza e di delizia; nelle quali mollezze se tra le acclamazioni degli uomini dilicati incorse ne' biasimi degli animi austeri, certamente ottenne l'applauso di tutti, allorchè di tanto ama la filosofia che raccolta a gran costo insigne copia di libri compose una biblioteca di pubblico uso, e edifica stanze e portici e scuole, e le dedicò in domicilio delle Muse e della pace e in ospizio dei greci maestri, che fuggendo i tumulti di guerra si riparavano a Roma. Per questo egregio uso gli sono quasi perdonate e quasi rivolte a lode le ruberie della guerra. Egli dissimile da que' signori che prendono per sè il pensiere di comperare le biblioteche, e lasciano alirui il pensiere di leggerle, pose gran parte delle sue delizie ne' libri e nelle consuetudini coi dotti e filosofi uomini, e ascolto ed esa minò ogni genere di filosofia, e molto ebbe in pregio e in continua familiarità Antioco Ascalonita, uom di robusto parlare e principe in quei giorni  dell’Accademia, il quale si argomenta a mettere in amicizia con lei i filosofi del Portico e del Lizio. E a LUCULLO piaceano questi pensieri: onde Cicerone, amico e lodatore magnifico di lui, nel Dialogo intitolato al suo nome gl'impone la difesa dell’Accademia. Con questa magnificenza e splendore di esempj non solo la casa di Lucullo, ma Roma istessa e quasi ripiena di filosofi, tra i quali altri si attennero al genio riconciliatore di Antioco, altri spaziarono nella liberlà del relativismo di un ‘schiavo’ come Carneade, altri si accostarono ad altri maestri, e niuno in tanta copia d'ingegni elevati, di cui Roma egregiamente fiorisce in quella età, seppe aspirare a nuovi principati nella filosofia, mentre affettavano pure il principato istesso del mondo. Molti han fatto le meraviglie come i Romani, così nimici di servitù e così avidi di signoria, sono poi tanto propensi a servire nella filosofia, in cui agli eccelsi animi dee parer tanto bello il regnare. Ma non è meraviglia niuna che uomini intenti perpetuamente ad infinito dominio non avesser ozio di componer nuovi sistemi, e volendo pure esser filosofi seguisser gl’antichi per brevità. M. Giunio BRUTO, nato verisimilmente dagli amori furtivi di Servilia e di Giulio Cesare, che percio molto lo ama e lo dicea figliuol suo, venne a massimo nome nella istoria di Roma non solamente perchè fu tra i sommi repubblicani e tra quei fer rei uomini che nè per lusinghe di beni nè per terrore di mali si piegano, e all' onesto, al giusto e al vero sacrificano la gratitudine, i benefattori, i consanguinei e sestessi. Ma perchè grandemente ama la filosofia, e quasi tutti i filosofi nella [Cicerone, Acad. Quaest. Lucullus. Plutarco in Lucullo. Svelopio in Julio] sua età rinomati ascoltò, e tutte le sette conosce, e si attenne poi alla vecchia Accademia, la mezzana e la nuova non molto approvando, ed e an miratore di Antioco, e Aristone di lui fratello ha compagno e domestico. Per questi studj con insigne amore coltivati nella gravità immensa, quasi nella oppressione continua de' civili e dei militari negozi e delle turbazioni e degli estreini pericoli, egli adornd la filosofia col sermone latino, talche non rimase a desiderarsi altro dai Greci; e oltre i componimenti di eloquenza e d'istoria, scrive i libri della Virtù e degli Uffizi; ed è memoria che desse opera a cose letterarie fino in mezzo al inaggior émpito di guerra e in quella gran notte che anda innanzi alla battaglia farsalica. In questa congiunzione de' gravissimi affari e della filosofia e nel lo studio di tutti i filosofi Bruto imita Lucill. Ma non vuole già imitarlo nell'abbandonamento della repubblica e nel termine della dignità e della gloria tra i molli ozj e i senili piaceri; che anzi amd meglio imitare CATONE UTICENSE, fratello di sua madre, e a somiglianza di lui filosofò per la vita, ed ha animo grande e libero dalle cupidigie e dalle vo luttà, e tanto costante ed immobile nella fede e nell'amor della patria e nella sentenza dell'onesto e del giusto, che per difesa di questi principj non sentà ribrezzo di mettere il pugnale nelle viscere di Giulio Cesare suo benefattore e suo padre, e poi nella perdizione della libertà e di tutte le cose romane metterlo nelle sue viscere istesse. Alcune belle quistioni sono agitate in questi propositi. E prima [Cicerone, De Cl. Oraloribus; Acad. Quaesi.; Plutarco in Bruto; Cicerone Acad. Quaest.; Cicerone Tusc. Disp.; De Fin.; Seneca Consol. ad Helviam e Ep.; Plutarco, gli Storici Romani.] se Bruto malvagiamente fa cospirando alla morte di Cesare; la quale investigazione richiedendo un diligente esame dei diritti e dell’obbligazioni di Cesare e di Roma; e una esatta idea del usurpatore e del tiranno, e dei doveri e de' limiti del patrizio e del cittadino non può esser nè breve nè affaccevole al nostro istituto. In secondo luogo, se Bruto puo essere escusato allorchè nella ruina della buona causa giunto al mal passo di uccidersi con le sue mani, vitupera la virtù esclamando con gli ultimi fiati: Infélice virtù ! io ti cre dea una realità e sei un nome. Tu vai schiava della fortuna, che è più forte di te. Bayle presto a Bruto alcune difese che secondo me non posson molto piacere; e la difesa migliore è che quelle parole non pajon di Bruto; sì perchè Plutarco, diligente narratore di tutte le avventure della sua vita, niente racconto di quella esclamazione, sì perchè non è verisimile che un tanto uomo in così corte parole dicesse assurdità e contraddizioni; chè tale certamente è negare la realità alla virtù, e poi affermare che ella è meno forte e che è schiava della fortuna, il che senza stoltezza non può dirsi di cose che non esistono. In terzo luogo, e quistione se Bruto avesse a numerarsi tra i filosofi del Portico. È stato detto che il Portico di Bruto è un sogno. E veramente risguardando l'auto rità delle parole citate di Cicerone e di Plutarco Bruto abbracciò l’Accademia; ma siccome dai medesimi filosofi è detto che si dilettò in tutte le dottrine de' filosofi e ammira Antioco famoso conciliatore del Portico coll'Accademia e col Lizio [ Dione; Floro; Art. Brutus; Paganido Gaudenzio De Phil. Rom.; Brucker] e perchè d'altronde è noto che parlò e scrisse gli Uffici in istile del Portico, ed e iinitatore e lodatore di Catone, e lo imita finanche nel suicidio, che è la più ardua di tutte le imitazioni. Io credo bene che abbracciasse or l'una, or l'altra sente za, come gli venne a grado, e il Portico forse più spesso e più fortemente di tutte. VARRONE, a similitudine di Lucullo e di Bruto, gli studi della filosofia coltiva insieme coi pensieri e con le opere militari e cittadine. Ma veduto il naufragio della repubblica, e campato per maraviglia dall'ira di Cesare e dalla proscrizione de' Triumviri, si ripara di buo n'ora, come in un porto, nell'ozio delle lettere e della filosofia, e tutto intero s'immerse in questa beata tranquillità. Cosicchè avvennero gli estremi cangiamenti di Roma e la compiuta ruina della libertà della dominazione assoluta di OTTAVIANO, ed egli nascosto nella sua biblioteca, e intento a com [Cicerone ad Att.; Seneca ep.; Plutarco e i citati dinanzi;  Plutarco in Bruto et in Catone Minore. Val. Massiino porre sempre nuovi libri, che si numerarono fino a qualtrocentonovanta, appena si avvide di tanti movimenti, e passando la sua vita in ogni maniera di filosofie divenne il più dotto ed universale uomo, che non i Latini solamente, ma i Greci ancora avesser mai conosciuto. Ed e detto di lui che innumerabili cose avendo lette, e meraviglia come gli fosse rimasto ozio di scrivere, e che pure lante cose avea scritte, quante appena può credersi che alcuno abbia mai lette. Altre lodi si leggon di lui; e noi ine desimi in questa gran lontananza di età, come vogliamo esaltare la vastità della sapienza di alcuno, usiam dirlo “un Varrone”. Ma niuna commendazione agguaglia quella di Cicerone, il quale amico ed ammiratore essendo del valentuomo, conoscee e aduna le opere di lui in quel magnifico elogio. I tuoi libri, o Varrone, noiperegrinie vagabondi nella nostra città, quasi come forestieri, ridussero a casa, perchè alfine potessimo chi e dove siamo conoscere. Tu la età della patria, tu le descrizioni de tempi, tu i diritti delle cose sagre e de' sacerdoti, tu la domestica e la bellica disciplina, tu la sede delle regioni e de' luoghi, tu delle cose umane e delle divine i nomi, i generi, gli ufficj, le cagioni ci palesasti, e la luce grandissima spargesti ne' no stri poeti e nelle latine lettere e nelle parole; e tu istesso un vario poema ed elegante per ogni maniera componesti, e la filosofia in molti luoghi in cominciasti assai veramente per iscuoterci, mapoco per ammaestrarci. Nel medesimo dialogo, in cui [Cicerone Acad. Quaest.; Tusc. Disp.; Seneca Cons. ad Helviam. Arnobio adv. Gentes; Agostino De Civ. Dei; Popeblount Cens. cel. Aut.; G. A. Fabrizio Bibl. Lat.; Cicerone Acad. Quaest.; B., Isi. Fil.] Cicerone loda Lanto nobilmente il suo amico, gli assegna ancora la difesa dell’Accademia, e lo colloca nelle parti di Antioco e di Bruto. Ove si vede la falsità o almeno la inesattezza di coloro che lo misero tra il Portico. Perchè sebbene se condo il sistema di conciliazione Varrone puo amare inolte dottrine del Portico, ne potea amare ancora di altre scuole, e non dovea dirsi del Portico assolutamente. Molto meno e poi da numerarsi tra i dubitatori dell’Accademia sul tenue fondamento d'una sua satira intitolata le “Eumenidi”, in cui gli uomini erano accusali d'insensatezza; e su quel l'altra dottrina sua, che niuna stranezza venne mai nell'animo agl'infermi deliranti, la quale non fosse affermata da qualche filosofo, il che molte volte suol dirsi anche da uomini che certo non sieguon Carneade e Pirrone. Ma non e giusto per al cun modo condurlo stoltamente ad accrescere l'ar mento degl’atei, perchè insegna molte favole es servi nella religione de' suoi di, che offendeano la dignità e la natura degl'Iddii imınortali. Impe rocchè egli queste cose insegnando, distinse gl'Id dii in favolosi, civili e filosofici; e parve bene che contro tutti avesse a ridire, e non senza ragione; ma pure afferma che i primi erano del teatro, secondi della città, e i terzi del mondo; e mostrò che disputava contro le favole poetiche, cittadine e filosofiche, non contro gl'Iddii, e parve che avesse gran voglia di onorare i filosofici, quando fosser purgati dalle fiuzioni, mentre li disse, i Numi del mondo. Di que' tanti libri di M. Varrone non ri [Cicerone; Cozzando De Mag. Ant. Phil.; Fabrizio Bibl. Graec.; Uezio De la Forblesse de l'Esprit humain; Agostino De Civ. Dei] mangono altro che i nomi o alcuni frammenti delle intichità divine ed umane, e della forma della filosofia, e della lingua latina, della vita del popolo romano, delle Ebdomade, de' Poeti, e delle Origini sceniche, e delle Menippee, per le quali fu cognominato Menippeo e cinico Romano del Cinargo, e delle Cose rustiche, che sole vennero a noi salve dall' in giuria del tempo. Questi furono i più cospicui Sincretisti romani, ai quali si potrebbe aggiungere ancor CICERONE, il quale vaga per varie filosofie, e tenta riconciliazioni di sistemi; ma perchè ama con molta parzialità i metodi dell’Accademia, lo allogheremo tra que' filosofi romani che si attenneno a certe scuole, e ora amarono i placiti da CROTONA, ora I LIZIO, ora L’ORTO, ora IL PORTICO, siccome si è detto, ora altre guise di filosofia. Molta fu veramente la fama della filosofia di CROTONA; ma fosse colpa sua o d'altrui, sofferse dissipazioni e disgrazie che la misero ad oscurità. Tutta volta i Romani udirono qualche novella di Pitagora, al lorchè nella guerra sannitica persuasi dall'oracolo di Apollo Pizio a dedicare in celebre luogo della città una statua al più forte e l'altra al più sapiente de Gre ci, l'una innalzarono ad Alcibiade e l'altra a Pitagora: il che facendo, mostrarono, secondo l'avviso di Plinio, di non sapere nè la civile nè la filosofica istoria di Grecia. Dopo quella dedicazione non è meno ria che i Romani tenessero alcun conto di Pitagora, se non quando il maggior Catone ascolta il Pitago rico Tarantino, e nella medesima età il Calabrese ENNIO appare alcune dottrine pitagoriche in quella terra ove Pitagora insegna, e le sparse nel [Cicerone Tusc. Disp.; Agostino De Civ.; Plinio] suo poema, nel quale ardì sognare che l'anima di Omero era passata in lui. Ma non persuase di que ste idee nè Catone a cui insegna la filosofia, nè P. Scipione Africano di cui godè la famigliari tà, nè altri Romani che udirono volentieri i suoi versi eroici e lo tennero sommo epico senza voler essere pitagorici. Io però vorrei che meglio si esaminasse se un poeta per alquanti versi che senton di Pitagorismo possa trasformarsi in filosofo pitagorico. Potrebbe parere che questa metempsicosi somigliasse quella di Omero in Ennio. P. NIGIDIO Figulo tuttochè e riputato vicino alla universale dottrina di Varrone, ed e senatore e pretore e amico intimo e consigliere e compagno nei grand affari di Cicerone, che molto lo riverì, come acre investigatore de' segreti della patura e uomo dottissimoe santissimo, e come quello che dopo i nobili Pitagorei polea rinnovare la lor disciplina quasi estinta, non si sa che persuadesse niuno, e fu stretto a ridurre la sua grande sapienza fisica e matematica e astrologica alle indovinazioni de' ladri che talvolta rubavan le borse de' suoi amici, e a componer gli oroscopj d’OTTAVIANO e del Triumvirato, e a disegnare la rapidità del cielo con gli avvolgimenti della ruota del vasajo, donde ottenne il so prannome di “Figulo”. Le quali avventure non so no veramente degne d'un senatore e d'un pretore pitagorico, ma posson forse mostrare che si pochi [Cicerone pro Murena; Acad. Quaest.; De Fin.; Persio Sat.; Vossio De Hist. Latinis, e A. Baillet Jugem.; Cicerone Fragm. de Universitate; Agostino De Civ. Dei; Ep. fam.; Plutarco in Cicerone; Gellio, Macrobio Saturn.; Apulejo in Apolog. Dione; Svetonio in Augusto; Lucano Phars.; Bayle art. Nigidius. ICOLER] affari di scuola esercitaron questo Nigidio, ed ebbe tanto vuoto nella vita, che gli storici amici della sua gloria pensarono bene a riempierlo di favole. Non è questa la prima nè l'ultima panegirica istoria colpevole di supplementi favolosi. A confermazione della tenue fortuna di questo filosofo da CROTONA e scritto, che avendo egli composti i libri degl’animali, de gl’uomini, delle viscere, delle vittime, degl’auguri, de' venti, della Sfera grecanica, e di altri moltiplici argomenti, per la cui abbondanza fu quasi eguale a Varrone, ove però le scritture di questo si divulgarono e si lessero assai, le Nigidiane per la sottigliezza e per la oscurità giacquero abbandonate; e l'autore poi avendo seguite le parti di Pompeo, per timore di Cesare muore in esilio volontario. Poco appresso Anassilao Larisseo professa la setta di CROTONA, ed esplorando i segreti della natura per la medicina e per uso di certe sue magiche me raviglie, e con le sue scoperte armirabili venendo in sospetto di magia e forse uccidendo i malati più che gli altri medici con meno segreti, e d’OTTAVIANO condannato all'esilio. La filosofia di CROTONA ebbe adunque assai avversa fortuna tra i Romani in questa età. Il Lizio ottenne qualche migliore, ma non molto illustre accoglienza; perchè sebbene Catone e Crasso e Pisone e Cicerone istes so non abborissero i uomini del Lizio, e nelle memorie di questi tempi sieno ricordati con onore Andronico Rodiano e Demetrio e Alessandro Antiocheno e Stasea Napoletano e Cratippo Mitileneo maestro del figlio di Cicerone e di altri nobili romani; tuttavolta per le narrate disgrazie e depravazioni dei libri del Lizio, o per quali In: TIK ita pi V Ci I Jedi Eusebio in Chr. Plinio; Irenco; Epifanio Haer.;Vossio De Idol.; Fabrizio Bibl. Graec.] che fossero altre cagioni, il nome del Lizio fuori di molto pochi era, per testimonianza di Cicerone, ignoto ai filosofi de' suoi giorni. Ma L’ORTO quantunque spesso ripresi e più spesso calunniati e singolarmente flagellati da quella sottile eloquenza di Cicerone, che sapea persuadere finanche il falso quando volea, pure in onta di tanto travaglio videro assai Romani di nome e di opere illustri non arrossirsi di essere DALL’ORTO. Lucio della tanto antica e nobile famiglia Torquata, e G. Vellejo sostenitore delle ragioni dell’ORTO nel dialogo della Natura degli Iddii di Cicerone, e principe dell’ORTO che allora erano in Roma, e C. Trebazio, como di somma scienza nel Diritto civile, a cui Cicerone intitola la Topica, e L. Papirio Peto, egregio oratore e soldalo, e L. Saufeio e T. Albuzio e C. Amafanio, e più altri numerati da Gassendo, furono nobilissimi DALL’ORTO (2). Ma C. Cassio e T. Pomponio “Attico” per singolarità di fama e d'ingegno emerge splendidamente dalla folla degli altri. Il primo e quel prode assassino di Cesare, che nell'ardor dell' assalto ad uno de' congiurati che dietro a lui si aslenza dal ferire, dice: Feriscilo anche per mezzo alle mie viscere. Egli vincitore de' Parti e soldalo di primo valore e sommo DELL’ORTO, parla secondochè l'émpito militare e le disperazioni della sua scuola lo animavano, e per gli stessi principj nella perdita della battaglia e della libertà si fa uccidere, e si uccise egli medesimo con quello stesso pugnale con cui ferito Cesare, ed e acclamato e pianto come l'ultimo de' Romani. Alcune avventure filosofiche di que [(Cicerone Topic.; Bayle art. Cratippus;  Brucker De Phil. Rom.; De Vita et mor. Epicuri; Aurelio Vittore De Vir.; Plutarco in Caesare, in M. Antonio, in Bruto.] st'uomo domandano qualche riflessione. Bruto vide uno spettro d'inusitata grandezza, e interrogato chi fosse, risponde – “Io sono il tuo mal genio, o Bruto: tu mi rivedrai a Filippi; ove lo rivide e fu vinto.” Di questa apparizione Bruto ha discorso con Cassio, il qual dice, non esser credibile che vi fossero genii, ed esser nostre immaginazioni; e quando pure vi fossero, nè aver figure di uomini, nè forza che giun ga a noi. Ma sarebbe pur bene che fossero, aggiun se, acciocchè noi condottieri di bellissimi e santissimi fatti andassimo forti non solamente per fanti e cavalli e navi, ma per la protezion degl' Iddii. Bruto si consolo per questo discorso. Ma CASSIO medesimo ha la sua visione, e parve che consolatore degli altri non sapesse consolare sè stesso. Nella giornata di Filippi vide Giulio Cesare in sembiante sovrumano e minaccioso che a tutta briglia venne a combattere contro lui, ed egli spaventato disse – “Che ci rimane più oltre, se è stato poco averlo ucciso?” -- Di lui è anche raccontato che nel giorno della uccisione di Cesare invoca l'a nima e l'ajuto del grande Pompeo, e che rivedendo insieme con Bruto le truppe romane, dice loro: “GlIddii, che prendon cura delle guerre giuste, vi rendan premio di tanta fede. Noi abbiam prese tutte le giuste misure: il rimanente si aspetta dalla vostra virtù e dagl Iddii favorevoli. Se essi vorranno, noi vi ricompenseremo della grand'opera di questa vitloria.” Le siffatte visioni e preghiere divote non parvero proprie d’un filosofo dell’ORTO, il quale se non affatto rifiutava i fantasiuni, certo non co noscea gli animi immortali e la provvidenza de [Plutarco in Bruto; Val. Massimo; Plutarco in Caesare et in Bruto; Appiano Aless. Bell. Civ.] gl'Iddii; onde quelle apparizioni e invocazioni o voglion tenersi per favole del popolo e degli storici, o per fanatismi di Cassio, il quale agitato dalla grandezza de' casi lascia trasportarsi nelle idee e nelle parole comuni, e si scorda di essere DALL’ORTO. Io non dissento da questi pensieri; maquanto agl'Id dii e alla provvidenza io desidero ehe i miei leggitori si ricordino di quanto abbiam disputato in questo argomento esaminando la teologia dell’ORTO con quella diligenza che abbiam saputo maggiore; e non diffido che le preghiere di Cassio possano porgere alcun nuovo indizio della provvidenza non affatto distrutta nel sistema dell’ORTO. Tito Pomponio Attico e il più sincero e il più costante ornamento della scuola dell’ORTO; e se Cassio ed altri con lui troppo s'immersero nel comore e nel fumo di Roma, e deviano dal piacere e dalla felicità che sono i fini dell'ORTO, ATTICO fermamente rivolto a queste mire, già prima nelle turbazioni di Silla si riparò ad Atene, e ascoltando Fedro e Zenone Sidonio visse tranquillamente negli ozj e negl’orti d'Epicuro, e con la gravità ed umanità dell'ingegno ottenne tanta benevolenza, che dai Greci ha statue e dai Romani il bel soprannome di Attico; indi ritornato alla patria, si allontana dagl’onori offerti e da tutti gli affari civili, e niuna parte prendendo nelle contese de' potenti, e ser bandosi amico de litiganti, e usando fede con tutti e liberalità e cortesia, non si sa ben dire se più e amato o riverito; e vivendo a sè medesimo e non per ostentazione d'ingegno, ma per governo della vita filosofando, campo dalla proscrizione di tanti cittadini, e caro ai vincitori menò vita riposata e luminosa; alla quale però nè il suo genero Agrip [Bayle art. Cassius Longinus (Cajus) Primo.] pa, nè il progenero Tiberio, nè il pronipote Druso dieder tanto splendore quanto la intima amicizia di Cicerone, le cui Lettere e i libri della Vecchiezza e delle Leggi lo consecrarono alla immortalità. In questa beatitudine di vita e preso dalla dissenteria e dalla febbre. Ubbidì prima ai medici inutilmente, e poi sperimentata l'ostinazione del male, alla presenza di alcuni amici suoi, Voi siete buoni testimonj, disse, della cura e diligenza mia nel difendere in questo tempo la mia sanità. Io ho dunque soddisfatto al debito mio. Ri mane ora che io provveda a me stesso. Voglio che voi il sappiate. Imperocchè ho statuito di non volere più oltre alimentare il mio male; perchè in questi giorni truendo innanzi la vita col cibo, ho accresciuto i dolori miei senza speranza di sanità. Per la qual cosa io prima vi domando che il mio consiglio approviate; indi che non vogliate sforzarvi a dissuadermi. Dette queste cose con tale co stanza di voce e di vollo che parea non uscisse dalla vita, ma da una casa per passare ad un'altra, gli amici piansero e pregarono, ed egli le lagrime e le preghiere compresse con un ferino silenzio. Così avendo digiunato due di, la febbre cessa; inè mutò proposito per questo, ed essendo a mezza via, non volle tornare indietro e anda oltre digiu nando, e muore ragionatamente secondo i principi dell’ORTO, e non già come Cassio impetuosamente e a mal tempo. Questo inumano errore di moda e di scuola e in Attico error di ragione ee di gran d'uomo. Tito LUCREZIO Caro, inferiore certo ad Attico e a quegli altri nella dignità della vita, ma nella poe [Cicerone De Fin. e nelle Epistole ad Attico; C. Nipote in Artico. Seneca Ep.; C. Nipote] lica gloria de componimenti dell’ORTO maggiore di quanti fiorirono in quella scuola. Nella elà di Cicerone e di Attico vide anch'egli Atene, e ascolta Fedro e Zenone e visse negl’Orti d’Epicuro, e per mostrare a Roma i suoi progressi nella guisa più dilettevole, scrive in esametri latini sei libri della Natura delle Cose, ne' quali fu delto non essere meraviglia che profondesse tutte le empietà e le pazzie dell’ORTO, perciocchè gli avea composti ne' corti intervalli di ragione che gli rimaneano al quanto liberi dalla frenesia contratta per certa be vanda amorosa. Ma noi invitiamo ancora qui i leggitori nostri a volersi ridurre a memoria le ragioni altrove disputate contro i malevoli dell’ORTO, le quali secondo la nostra estimazione posson molto valere contro gli oppressori di Lucrezio. Non sarebbe difficile una dissertazione, giacchè le dissertazioni sembrano facilissimi affari, ove si prova che Lucrezio non e il più pazzo de' poeti, e non sarebbe difficile un'altra in cui si mostrasse che molti filosofi furon più pazzi di questo poeta. Ma non so se queste dissertazioni con tutta la bizzarria de'loro titoli, che sogliono pur essere di qual che raccomandazione, potrebbono riuscir dileltose a chi le componesse e a chi le ascoltasse. Imperoc chè sarebbe necessità recitar molti di que' versi dell’ORTO che secondo il ruvido carattere della scuola non sono i più molli e i più eleganti, e non sono poi tanto chiari da mettervi fondamento sicuro. Noi adunque, senza pretendere in dissertazioni, direm così per passaggio,come gli fu dato a colpa di vio lata religione ch'egli attribuisse alla natura degl'Id dii il godimento di somma pace e la divisione dai [Eusebio in Chr.; Fabrizio Bibl. Lat.; Bayle art. Lucrece.] dolori e dai pericoli nostri, e che insegna non aver essi bisogno di noi, nè esser presi da benevolenza o da ira; e che giacendo la vita degli uomini sotto grave religione, la quale dal cielo mostra il capo con orribil risguardo soprastante ai mortali, un uom greco fu il primo che ardì levar gli occhi contro di lei e resistere. Lui nè la fama degl'Iddii, nè i fulmini nè i minacciosi romori del cielo raffrenarono; che anzi l'acre virtù del suo anino s'irritò, e ruppe le strette porte della natura, e con la vivida forza della mente vinse e tras corse oltre i confini del mondo, e misurò tutto l'Immenso; e c'insegnò quello che può nascere e quello che non può, e quali sieno le potestà e i termini fermi delle cose. Onde la religione a sua vicenda è calpestata dai nostri piedi, e la vittoria ci aggua glia al Cielo. Ma si è già detto abbastanza al irove che le divine tranquillità possono avere nel sistema dell’ORTO sensi non affatto distrutlori di ogni provvidenza; e veranente lasciando pure stare Deslandes, che fa una pielosa predica a Lucrezio per questo disprezzo suo della religione, è ben molto che Bayle non abbia saputo ve dere che la religione, contro cui Lucrezio usa qui tanto disprezzo, non è altro che quella superstizio ne che insieme con altre scellerate opere insegna ai Greci le vittime umane; onde egli dopo la descrizione d'Ifigenia all' altare conchiude: che tanto di mali potè la religione persuadere. Io certo non ar direi affermare che Lucrezio insegnasse la Provvidenza ove scrisse, una certa forza nascosta strito lare le cose umane, e sembrare che conculchi e 1 [Lucrezio De Rer Nat.; Deslandes Hist. De la Phil.; Bayle] prenda in ludibrio i fasci e le scuri; o dove in voca V'enere origine e regolatrice di tutta la natura, o dove implora l'ajuto della governante Fortuna nei disordini e nelle ruine del mondo Ma non ardirei pure accusarlo d’ateismo, e im porgli più errori di quelli che secondo la sentenza nostra abbiamo veduti nel suo maestro dell’ORTO, di cui fu seguace tanto rigido, che permettendosi il suicidio in quella filosofia, egli neusò a suo agio, e si uccise di propria mano. È stata opinione che C. Giulio Cesare, uomo di estraordinaria forza d'ingegno e di cuore, sebbene potendo ottener' somma gloria dalle lettere e dalla filosofia, volesse averla piuttosto dalla politica e dalle arme, tuttavia non isdegnasse alcuna volta di starsi tra i filosofi, e gli piacesse di essere dell’ORTO. Im perocchè dicono che parlando al senato non dubitò di affermare ardimentosamente, di là dalla morte non esservi tormento nè gaudio; e non ebbe poi timore per voglia e comodo suo di tagliar boschi sacri e di seguir le sue imprese contro gli avvisi de sacerdoti e della religione. Ma a dir vero, que sti non sono i caratteri propri dell'Orto: e poi si potrebbe dubitare se Cesare così parlasse al senato, come Sallustio lo fa parlare; e se così ta gliasse gli alberi sacri, come Lucano con la poetica licenza racconto; e date eziandio per vere queste leggende, è molto ben noto che anche Cicerone, usando della rettorica volubilità, predica talvolta pubblicamente la mortalità degli animi senza essere [De Rerum Nat.; Rondel Vita Epicuri; De Rer. Nat.; Reimanno Hist. Ath.; Sallustio De Bello Catilivario; Lucano Phars.; Svetonio in Cesare] dell’ORTO, anzi senza recarsi ascrupolo di predicarne la immortalità in altre pubbliche orazioni, ove il bi sogno della causa lo domandasse. Così gli oratori romani costumavano, e agli stessi metodi Cesare ubbidi; e così pur fece nell'affare de'presagi e della religione, mentre se è scritto che talora trasscura le romane superstizioni, è scritto ancora che spesse volte le uso, e parve che le avesse per ve re. Molto meno io poi ardirei imporre a Cesare l'ORTO, perchè fu accusato di osceni amori con Nicomede re di Bitinia, e perchè molte nobili donne romane e alcune reine corruppe, e perchè e detto la moglie di tutti i mariti e il marito di tutte le mogli, e perchè sostenne assai altre infauna zioni di lascivo costume; le quali oltrechè possono essere alterate dalla malevolenza e dalla effrenatezza popolare di Roma, che le lodi e i trionfi de gran d'uomini solea contaminare con le satiriche licenze, non posson poi essere argomenti di doltrine dell’ORTO, giacchè nè l’ORTO professa questa dis solutezza, nè la corruzion de costumi è buon argomento per la corruzione delle massime; e siccome non sarebbe buon discorso dai regolati costumi di Cassio e di Attico didurre che non sono dell’ORTO, così non sarebbe pure conchiuder che Cesare era per la sregolatezza de'suoi. Piuttosto si potrebbe raccogliere alcun indizio dell’ORTO dalla replicata avversione che Cesare mostrò verso i costumi di Catone, contro cui scrive due libri intitolati gli “Anti-catoni” L’ORTO e il giurato nimico del [Cicerone Orat. pro Cluentio et pro Rabirio; Plutarco e Svetonio in Caesare. Floro; Dione; Bayle art. César; Svetonio in Caesare; Plutarco in Cicerone; Adriano Baillet, Des Satires personelles, ou des Anti, Entr.] PORTICO, e Catone e grande del Portico. Pare adun que che Cesare non puo prorompere a tanta avversità contro tutti i costumi di Catone senza essere dell’ORTO. Vaglia questo come può il meglio. Ma qualunque fosse la setta di Cesare, certamente il solo pensiere di correggere il calendario Romano disordinato dalla negligenza de' sacerdoti, e l'Anno “Giuliano”, che Giulio da a tanta parte di mondo, mostrano in lui genio filosofico e gusto di astronomia. Quella versatile eloquenza di cui gli avvocati e i pubblici parlatori di Roma usano nella varietà e lalora nella contraddizione delle cause, e la origine primaria dell' applauso in cui venne tra i Romani la filosofia dell’Accademia; la quale insegnando a disputare per tutte le parti, e colorendo di probabilità il pro e il contro, e somıninistrando argomenti per tutti i casi, e molto opportuna a quella eloquenza forense che potea dirsi la grande e forse la prima via delle soinme fortune. Sembra adunque ben detto che la filosofia del PORTICO per la gravità degli uffizj e de' principj sociali fu tra i Romani la disciplina de' giudici, de' legislatori e de' giureprudenti; L’ORTO e lo studio quasi domestico e privato di uomini desiderosi di vivere Jictamente; CROTONE e il LIZIO sono la cura di pochi; l’Accademia confusa al Portico si riputa degna de' sacerdoti, e l'accademica e la delizia de causidici e degli oratori; siccome, a dir vero, pare che fusse pure in altre terre e in altre età, e che sia ancor nella nostra. È però mestieri avvertire che parlando di accademica filosofia, non vuole intendersi un pirronismo effrenato, che forse non ebbe esistenza salvo ne' capricci di uomini esageratori; ma un temperato genere di filosofare per cui si esa minano i placiti di tutte le scuole, e si sceglie il buono, e si cerca il vero, e si crede di trovar solo il probabile,e secondo questo si governa la vita. Cicerone fu il ipaggior lume di questa filosofia tra i Romani; il quale con la forza d'una singolare eloquenza e con l'abbondanza della dottrina e con la varietà de' libri così la nobilitò egli solo, che gli altri furon dimenticati. Ma egli sarà ben tale da po ter valere per tutti. Mentre io ora mi accosto a que sto sommo maestro del nobil parlare, e vedo che la eccellenza della sua lode e la grandezza degli ob bligbi nostri domanderebbono eloquenza pari alla sua, sento vergogna della mia lontananza da quel sublime esemplare, e volentieri sfuggirei per ros sore il difficile incontro, se la vergogna non fosse vinta dalla necessità. Cicerone, arpinate, o che suo padre fosse purgatore di panni e i suoi avi cultori  di ceci, o che la sua gente avesse origine dai che nascesse onorato dagli oracoli e dai prodigj, o all' uso comune nel silenzio degl' Iddii e nell'ordine della natura, siccome variamente si racconta. Niente più e niente meno fu il medesimo uomo non molto cospicuo tra i soldati, non affatto pic ciolo tra i filosofi, grande tra i maestrati e tra i consoli, massimo tra gli oratori. Nell'adolescenza e appresso nella età anche matura amò i poeti e scrisse versi, de' quali rimangon frammenti biasi mati più del dovere, e coltivò le lettere  e [Plutarco in Ciceroue; Dione; Fabrizio Bibl. Lat.] la eloquenza. Cresciuto. si accostó ai filosofi. Ascoltỏ gli Epicurei per disprezzarli allora e dap poi, senza averli forse intesi. Conversò con IL PORTICO e con IL LIZIO, e apprese i luoghi e i fonti del disputare, e altre loro dottrine non ab borri: ma singolarmente coltivo gli Accademici per amore di quella versatile e forense eloquenza di cui abbiam detto. Su questi fondamenti, con quel buon metodo non inteso dai nostri pedanti, appog. giò e poi confermò viemaggiormente la sua arle oratoria. Presa la toga virile si attenne ai giore consulti. Militò un poco nella guerra Marsi cana, e venuta la pace ritornò molto volentieri alle lettere. Vive dimesticamente con Diodoro stoi co eruditissimo, frequenta Molone oratore Rodia no, e Ortensio, che era il primo parlatore di Roma: non trascurò fino di apprender le più gen tili eleganze del dire da Cornelia, da Lelia e da altre dame romane, colà imparando eloquenza ove altri ora sogliono disimpararla: non fu giorno che non usasse nuove diligenze erudite, e non decla masse e disputasse ora con parole latine, ora con greche. Trasse nel vulgare di Roma alcune scritture di Protagora e di Senofonte e altre di Platone, e singolarmente il Timeo, di cui ci rimane una parte, per la quale conosciamo che Platone po trebbe sopportarsi tradotto da Cicerone, laddove non si può nelle versioni di altri. Ci rimangono [Cicero pro Archia; Plutarco; Svetonio de Cl. Ret.; Vossio De Poel. Lal.; SCOLLO CICERONE a calumniis VINDICATVS; Cicerone De Off.; Ep. fam.; Paradox.; De Or. lib.; Tusc. Disp.; in Bruto; De Nat. Deor.; Plutarco; Cicerone, De Fin.; De Div.; Plutarco; Quintiliano; Agostino De Civ.] pure alcuni frammenti di sue traduzioni diOmero, le quali non ci nojano come quelle degl' interpreti nostril. Istruito da tante esercitazioni e animato da questi presidj, nel suo venticinquesimo anno, che era il seicento settantaunesimo di Roma non dubitò di mostrarsi nella luce del Foro, e agitd la sua prima causa, che alcuni dicono esser quella in difesa di Sesto Roscio Amerino, contro la vo lontà di Silla, e ne uscì vincitore con tanta ammi razione, che niuna altra causa parve poi superiore al suo patrocinio. Ma poichè Silla raffrenatore di Mitridate e domatore di Mario era in quei giorni dittatore e quasi signore assoluto delle vite e delle cose romane, fu voce che Cicerone temendo la ira di quel fiero autore delle proscrizioni, rifuggisse in Grecia. Altri pensarono che si desse a viaggiare per ricuperare la sanità afflitta per troppa veemen za nella declamazione. Comunque fosse, visitò Atene e molto usd col famoso Sincretista Antioco, e visse congiunto a Pomponio Attico con quella amicizia che durò tra loro fino alla morte. In que sto viaggio verisimilmente fece iniziarsi nei misteri Eleusini, de' quali così parld come se la loro so stanza fosse l'unità d'Iddio e la immortalità degli animi. Tale fu l'avviso nostro nella esposizione del sistema arcano d'Egitto, e tale è del dotto Warburton e del Middleton, il che molto consola [Cicerone, De Fin.; De Div.; Plutarco; Quintiliano; Agostino De Civ. Dei; Middleton Vita Cicer.; Cicerone in Bruto; Middleton; Plutarco; Cicerone in Bruto; Cicerone De Nat. Deor.; De Leg.; Tusc. Disp.; B., Ist. Filos.] le nostre conghietture. Da Atene navigò nell'A sia, e conversò cogli oratori e coi filosofi di quelle terre, e sopra tutti con Possidonio; e declamo in greco nel mezzo a nobil frequenza con tale fecondità, che i greci oratori piansero il loro destino, per cui non solamente le fortune, ma le arti e le scienze dalla Grecia trapassavano a Roma. Silla morì, e Cicerone restaurato nella sanità ritornò alla patria, ove fu prima negletto come un grecolo scolastico; ma poi eguagliando e spesso vincendo la gloria di Cotta e di Ortensio oratori lodatissimi di quella età, rimosse Roma dalla sua negligenza, e ottenne prestamente la questura ed ebbe in sorte la Sicilia, ove avendo ricevuto lodi e onori inusitati, s'im maginò che tutta Roma fosse piena della sua glo ria. Masbarcato a Pozzuolo in tempo che grande era il concorso di molti uomini romani, ebbe il dispetto di vedersi ignoto, e conchiuse adirato che iRomani aveano le orecchie sorde e gli occhi acuti. Dopo questa mortificazione, grave di vero in uomo perduto nella fantasia della gloria, egli deliberò di battere assiduamente il Foro e i pubblici luoghi, e starsi tuttodì presente a quegli occhi acuti che dif finivano le sorti de' cittadini ambiziosi. Agitò cause nobilissime, e fu edile, pretore e console non meno per favore degli ottimati, che per giudizio del Popolo. Egli ricevè la repubblica piena di sollecitudini,e non vi erano mali che i buoni non temessero e i ribaldi non aspettassero. I tribuni e Catilina e i suoi compagni teneano consigli di ruina. Ma Cicerone li compresse e salvò la repubblica  [Warburton Della divina Legazione di Mosè; Middleton; Plutarco; Div. in Verr.; pro Planco; Plutarco; Cicerone; Plutarco; Sallustio De Bello Calilinario e gli altri Storici Romani.] ze Tire! Per la grandezza dell'opera venne a somma grazia de' patrizi e del popolo, e fu acclamato padre della patria; e poco appresso vinto dalla invidia e dalla frode di P. Clodio, fu spinto in esilio, e le sue ville incendiate e le sue case con ogni sostanza arse e saccheggiate. Andò errando con animo assai abbat tulo per l'Italia e per la Grecia, nel che mostrd di essere più oratore che filosofo; finanche richia mato per pubblico consenso, e restaurati i suoi danni per sentenza del senato, ritornò a Roma, incontrato da tutte le città, e portato, siccom'e gli raccontò, sulle spalle di tutta l'Italia. Ebbe in provincia la Cilicia, e parve che volesse eser citar nella guerra le arti della pace. Ma come si accese la discordia civile, egli seguendo le parti di Pompeo, e pretendendo in valor militare, dopo la sconfitta farsalica si pentì d'esser soldato e ricuso di guerreggiare più oltre; cosicchè il giovin Pom peo sdegnato di quella codardia, lo avrebbe uc ciso se Čatone non lo campava. Venne poi a riconciliazione con Cesare, e nella mutazione della repubblica, che assai gli gravava nell'animo, si ri volse alle lettere e alla filosofia, e istruì nobili gio vani romani, e leggendo e scrivendo libri passò la maggior parte de' suoi giorni nella dolcezza degli studj e nei silenzi della sua villa Tusculana.Ritorno anche ad Atene per alleggerimento di noja e per la memoria delle passate esercitazioni. In questo spazio ripudid Terenzia, e mend in moglie una ricca donzella, e pianse puerilmente la morte di Tullio la, e ripudid la nuova moglie perchè non volle 702 ber che V. i luoghi di Cicerone presso Francesco Fabrizio nella Vita di Cicerone. [Plutarco in Caesare; Dione; Vellejo; Cicerone Or. pro Domo sua ct post Rcd. ad Quir, et post Red. ad Sen.; Plutarco lic. 1 pianger con lui. elle quali avventure fu accusato di amori sozzi é ridicoli, e di animo debole per temperamento o per anni. Con tutti questi do mestici fastidj avrebbe potuto esser felice, se avesse perseverato nell' amore del letterato ozio e dellafilosofia. Ma dopo l ' assassinamento di Cesare gli piacque di rientrare nella tempesta civile, e sebbene non fosse tra i congiurati, si attenne al loro portito, e M. Antonio già suo pernico irritò mag giormente con le Filippiche. Dopo varie vicende si compose il Triumvirato, e Cicerone ne fa la vit tima più sacra e più pianta da Roma, già ridotta a pochi, e da tutta la posterità. Egli poichè ebbe udita la fama della proscrizione, fuggì prima al mare e s'imbarcò con venti contrarj, onde presa terra a Circejo, tra molti pensieri niuno piacendogli quanto la morte, disegno di recarsi a Roma e uccidersi nella casa istessa di Cesare per versare sopra l'in grato la vendetta del suo sangue. Indi persuaso da nuovi pensieri navigò ancora e prese pur terra,e nojato del mare e della vita, lo morrò, disse, in quella patria che spesse volte'ho conservata; e non morendo pur questa volta, si adagi ) e dormà nella sua villa Formiana. Mentre i suoi domestici spa ventati dal romor de' soldati lo guidavano a forza verso il mare, apparvero i carnefici, contro cui i servi si prepararono a combattere. Cicerone co mandd che stessero: guardò con fermo occhio gli assassini e singolarmente il lor condottiere Popilio Lena, che reo di parricidio era stato difeso e salvato da lui: sporse dalla letlica il capo, e, Fale, [Cicerone Tusc. Disp.; De Off.; Lettere ad Attico; Plutarco; Orazione attibuita a Sallustio; Donato in Eneid. accomoda a Cicerone quel verso diVirgilio: Hic thalamos invasit Natac velitos que hymeneos; Bayle art. Tullie] disse, l'opera' vostra, e quello prendelo, di che avete bisogno: l'ingralo " Popilio con parricidio maggiore del primo gli recise il capo e le mani, e recò l'iniquo fardello ad Antonio, il quale con gran festa affisse su i rostri quel capo sublime e onorato e quelle mani benefiche, spettacolo miserabile e argomento di pianto ai buoni Romani e di trastullo agli schiavi, ai traditori e ai tiranni. Nell'anno di Roma settecendecimo e di Cicerone sessanta qualtresimo avvenne questa tragedia, in cui si vide la morte di Cicerone e della repubblica. Daquesto tenore distudj e di vita non solamente si può conoscere che Cicerone era pieno d'un de siderio smoderato di gloria, che lo rendea forte e magnanimo nella buona sorte e timoroso e pian gente nella disgrazia (onde Cristina di Svezia, con una regia libertà che sarebbe licenza in uomini pri vati, usava dire, Cicerone essere il solo poltrone che fosse capace di grandi cose ); ma si pud an cora scorgere facilmente che il sommo fine poli tico di Cicerone fu l'acquisto delle maggiori for tune nella repubblica: che due essendo i mezzi per giungervi, la scienza militare e la oratoria, e co noscendo egli di valer poco nella prima, comechè molto si tormentasse per giungervi, si attenne vi gorosamente alla seconda; e che egli avendo sen tenza, niuno essere oratore perfetto il quale non abbiascienza di tutte le grandi cose, vago per qua Junque facoltà, e sopra tutto per le opinioni di ogni filosofia, e tutto questo adunamento di dottrine in dirizzo al suo desiderio di essere oratore perfet to. Questo studio è palese nelle sue opere, le (Livio Epit.; Plutarco in Cicerone et in Antonio; Svetonio in Augusto; Vellejo; Dione; Appiano; Seneca Súas.; V. Massiino; Floro PADOV.; Cicerone De Or.] quali a ragionatori severi appariscono più eloquenti che filosofiche, e mostrano maggior cura del bel dire che del corretto pensare. Cicerone adunque sempre intento alla eloquenza e sempre caldo d'una immaginazione vivace e feconda e d'una voglia ine sausta di meraviglie rettoriche, e sempre frettoloso per la moltitudine dei gra rissimi affari, trascorse e quasi sfiorò le nozioni filosofiche, e divenne gran dissimo nel dipingere, nell'adornare e nel persua dere; ma nel vigore del discorso e del giudizio e nelle sottili distinzioni del vero e del falso parve che le più volte l'oratore fosse smisuratamente più grande del filosofo. Gli è però vero che nel silen zio delle lettere forensi e senatorie, e nell'ingenuo ozio in cui la usurpazione di pochi lasciava i grandi uomini di Roma, Cicerone ottenne dalla disgrazia questa utilità, che riposatamente e liberamente me dità e scrisse argomenti filosofici, e massima mente si esercitò nella parte teologica e morale cui appartengono i libri notissimi della Natura degl'Id dii, della Divinazione, del Fato, del Sogno di Sci pione, dei Fini, della Vecchiezza, dell'Amicizia, delle Leggi, degli Uffizj, le Disputazioni Tuscula ne, i Paradossi Stoici e le Quistioni Accademiche; nelle quali si argomentd particolarmente a distrug gere i greci sistemi alla maniera di Carneade, e pa lesò il suo. Coopose ancora l'Ortensio ossia l'Am monizione alla Filosofia, e i libri della Repubbli ca, che sono perduti. Ma per quanto ozio egli avesse e per quanto meditasse, non seppe mai di vezzarsi dall'esagerato linguaggio oratorio, e di lui usd pomposamente nella esposizione de sistemi e delle ragioni filosofiche; e poi vi aggiunse i suoi [Cicerone De Off.; Cicerone ne fa memoria, De Fin.; De Div.; Tusc. Disp.; Agostino De Civ. Dei e Lattanzio] amori e i suoi odj per certe scuole, e questi an cora rettoricamente amplifico; e per giunta di am biguità gli piacquero le platoniche forme de' dialo ghi e le accademiche dispute e le confutazioni per ogni parte e gl'inclinamenti ora ad un lato, ora ad un altro; donde risultarono equivoci e dubbj e opi nioni diverse intorno alla filosofia. Ma noi pensia mo di poter mettere alcun ordine in tanto invi luppo ragionando di questa guisa. - Non fram mezzo alle pompe eloquenti delle orazioni e alle asluzie forensi, e non tra le epistole di complimen lig di raccomandazioni, di condoglienze, di affari, nè tra i parlamenti e i dialoghi di uomini ora epi curei, ora stoici, ora peripatetici passionati, è da cercarsi la filosofia di Cicerone, siccome alcuni fe cero e fanno incautamente, ma è giusto rintrac ciarla in que' luoghi delle sue opere filosofiche ove egli parla in persona e sentenza sua propria. —Cio statuito, ascoltiamo Cicerone medesimo, il quale senza equivocazione e mistero alcuno ci racconta ch'egli professa la filosofia della nuova Accademia; perciocchè a coloro che si meravigliavano come egli principalmente approvasse quellafilosofia che toglie la luce e quasi sparge una nottesopra le co se, e protegesse impensatamente una disciplina de serta, egli risponde: « Non imprendiamo già noi « il patrocinio di cose deserte. Questo metodo, per « cui si disputa di tutto e non si giudica aperta « mente di niente, nato da Socrate, ripetuto da « Arcesilao, confermato da Carneade, invigorì fino u alla nostra età; il qual metodo ascolto essere u ora abbandonato in Grecia, il che io credo av « venuto non per vizio dell'Accademia, ma per pi u grizia degli uomini: mentre se gran cosa è ap prendere alcuna disciplina, quanto è maggiore u apprenderle tutte ! la qual cosa è necessario che quelli facciano, i quali hanno proposto per la investigazione del vero disputare contro tutti i « filosofi e a favore di tutti; e questa difficile fa « coltà non penso io di avere acquistata, solamente u penso di averla seguita. Nè già noi a questa gui u sa filosofando, riputiamo, niente esser vero, ma piuttosto al vero essere congiunto il falso con « tanta rassomiglianza, che manchi il certo criterio « di giudicare e di assentire; dalle quali dottrine siegue questo precetto, nolto essere il probabi le, il quale benchè non sia bene compreso, non pertanto avendo certo uso insigne ed illustre, « dee governare la vita del savio. E altro ve: « Io vorrei (egli dice ) non a nome di Attico, di Balbo o di Vellejo, ma a suo, che fosse ben u conosciuta la nostra sentenza; imperocchè non « siamo noi vagabondi nell'errore, nè manchiamo « di quello che è da seguirsi; poichè quale sarebbe « la mente e quale la vita, tolta la regola del di sputare e del vivere? Ma noi, ove gli altri dicono u alcune cose certe, alcune incerte, dissentendo da essi, altre diciamo probabili, altre improbabili. « Perchè adunque non potrò attenermi al proba « bile e riprovare il contrario, e dechinando dalle « arroganti affermazioni, fuggire la temerità, che « è tanto lontana dalla sapienza? Ma i nostri Ac « cademici disputano contro ogni sentenza, peroc « chè questo lor probabile non può risplendere se « non si fa contesa per l' una parte e per l'al « tra. » Oltreacciò egli c’invita a leggere le sue Quistioni Accademiche, ove questi propositi erano esaminati più diligentemente; cosicchè può dirsi che quando egli ne'suoi Dialoghi disputa [Cicerone DeNat. Deor.; De Off.; Tusc. Disp.; De Div.; Cicerone, Acad. Quaest.] per le parti accademiche, parla in propria perso na, e quindi par fuori di ogni dubitazione che egli è nel metodo di quegli Accademici che ogni cri terio poneano nella probabilità. Di qui s'intende com ' egli ora si attemperava agli Stoici, ora ai Pla tonici, ora ai Peripatetici, senza abbandonar l'Ac cademia; perché ove cercava i doveri dell'uomo e le leggi sociali, trovava maggiore probabilità nelle dottrine del Portico; e dove investigava i principi delle cose e trattava la psicologia e la teologia, credea forse trovarla maggiore nel Platonismo e nel Peripato; e dove di queste e di altre filo sofie disputava e ne bilanciava le vantate eviden ze, sospendea il giudizio ed era Accademico; e così pure quando persuadeva il popolo e il senato, pas sava a grande suo comodo nelle sentenze contra rie, e non avea ribrezzo alcuno di contraddirsi ac cademicamente. La moda del Foro era di potere essere Accademico Probabilista, ed egli serviva alla scena, e lo era con gli altri. Cicerone adunque così disposto tratto di tutte le parti della filosofia ove più diligentemente, ove meno. E certamente egli coltivò la logica e la in segnò con gran cura ne' suoi Libri Rettorici, ma a sua maniera, vuol dire per servigio della eloquen za e del Foro. Parve chepensasse con Socrate non essere molta la utilità della fisica per la probità e beatitudine della vita. Conobbe tuttavia i mag giori sistemi antichi, e vide nella rimota vecchiaja della filosofia certe nozioni che si vantano scopri menti di questi ultimi tempi, come il moto della terra, gli antipodi, la gravitazione o attrazione uni versale, che tiene il mondo nell'ordine. Ma nella [De Off.; Tusc. Disp.; De Nat. Deor.; Acad.' Quaest.; De Nat. Deor.; Acad. Quaest.] naturale teologia e nella morale pose ogni sua cu ra. « È fermissimo argomento della esistenza d'Id « dio (egli dice ) che niuna gente sia tanto fiera e « niun uomo tanto crudele, che non serbi nell' a. w nimo la opinion degl'Iddii;e questo consenso di a tutte le genti dee riputarsi una legge di patu « ra.  La bellezza del mondo e l'ordine delle cose « celesti stringe a confessare una prestante ed eter a na natura, e un fabbricatore e moderatore della « grand' opera, il quale è da immaginarsi come « una mente sciolta e libera e segregata da ogni « componimento mortale, che tutto sente e muo « ve, ed è fornita di moto sempiterno, e come a un maestro e signore che le celesti e le terrene « ed umane cose e tutto l'Universo amministra, sen « za la cui provvidenza quale tra gli uomini sarebbe « pietà, quale santità, qual religione? le quali virtù tolte, sorgerebbe il disordine e la confusion della u vita, e non rimarrebbe società alcuna nel genere « umano. Io così mi persuado e così sento, che « tanta essendo la celerità degli animi e tanta la « memoria delle cose passate e la prudenza delle future, e tante le arti e le scienze e le scoperte, quella natura che le contiene non può esser mor « tale; e semplici essendo gli animi e senza mi « stura, é movendosi per sè medesimi, nè possono « dividersi e dissiparsi, nè cessare di moversi; ed « essendo celesti e divini e sempre desiderosi della - immortalità, non possono essere ingannati dachi « li produsse, e debbono essere eterni (6). E quindi [Cicerone Tusc. Disp.; De Nat. Deor.; De Div.; Tusc.; Tusc. Disp.; De Fin.; ; Acad. Quaest.; De Nat. Deor.; De Repub.; De Senectute; De Senect. et Tusc.] gmni su stenza 1: anto fra serbi mi Consen ne deres ante de erator& ginarsi az ata dan ente en, es e le to pinista i miniars le quali pfusica ja nelset si senta je tapis denta 1 comechè Cerbero tricipite e il fremito di Cocito u e il tragitto di Acheronte sieno favole senili, deb « bon perd rimanere dopo la morte i premj e le pe. ne, e quelle due socratiche vie per cui gli empj si « dividono e i buoni si congiungono agl' Iddii. - Su questi grandi principj egli collocò l'edifizio del naturale diritto e di tutta la morale; e primie ramente dalla eterna ragione e volontà' di Dio, e dalla comune ragione degli uomini, e dalla natura e relazion delle cose dedusse la origine e la realità e l'autorità e la obbligazion d'un naturale e pub blico diritto. - « La legge (egli dice ) è un eterno impero che governa l'Universo con la sapienza del comandare e del proibire, ed è la mente di « Dio che costringe e divieta; e non solamente è più antica della età de' popoli e delle città, ma eguale a quell' Iddio che difende e regge i cieli e « le terre. La mente divina non può esser senza ra gione, nè la ragione divina può esser senza la « forza di fermare le cose giuste e le ingiuste. Una legge sempiterna fu sempre e una ragione appog u giata alla natura delle cose; la quale non allora che fu scritta, cominciò ad esser legge, ma al « lora che nacque, e nacque insieme con la mente divina; il perchè la legge vera e primaria, idonea á a comandare e a proibire, è la diritta ragione del « sommo Giove; la quale non è legge scritta, « ma nata, e la quale non abbiamo imparata, non ricevuta, non letta, ma l'abbiamo attinta dalla « medesima natura e dalla comune intelligenza, per u cui giudichiamo il diritto e il torto, è l'onesto e il turpe; imperocchè estimar queste cose dalla BST PEN ne par 2017 depositse. Em opinione, non dalla natura, è stoltezza [Tusc.; De Ainic; De Nat. Deor.; De Leg.; Pro Milone; De Leg. Io non posso astenermi dalla ricordanza di quelle parole memorabili di Cicerone nel terzo libro della Repubblica, le quali da Lattanzio ci furono conservate. La retta ragione è certamente la vera legge consentanea alla natura diffusa in tutti, co « stante, sempiterna, la quale comandando chiama « al dovere, e ci spaventa dalla frode vielando. « Niente è lecito toglier da lei, niente cangiare, e « molto meno abborrirla. Nè dal senato, nè dal popolo possiamo essere sciolti da questa legge, w nè altro dichiaratore o interprete è da cercarsi; « nè altra legge è ad Atene, altra a Roma, ma ella « sola ed una, sempiterna ed immutabile governa « in ogni tempo tutte le genti, e uno è il comune « quasi maestro e comandante di tutti, Iddio. Egli è di questa legge l'inventore, il disputatore, il pro mulgatore, al quale chi non obbedisce fugge sè « stesso e disprezza la natura dell'uomo, e per que « sto istesso paga massime pene, quantunque sfugga « tutti quegli altri eventi che si riputano supplizj." - Oltre questi nobili conoscimenti della origine, del fondamento, della realità, della forza, della im mutabilità delle leggi naturali, Cicerone conobbe la utilità della religione nella società; di che niuno vorrà dubitare (egli dice ) che intenda come sien molte le cose che si ferman col giuramento, e quan ta salute apportino le religioni de' patti, e quanti sieno distolti dalla scelleraggine per timore del di vino supplizio, e quanto sia santa la società di que' citladini che fra loro interpongon gl'Iddii come giu dici e testimonj. Egli conobbe ancora la sanzio ne ossia la intimazion della pena contro i violatori, senza cui le leggi non avrebbon forza di obbligare, (Lallanzio Div. Inst.; De Leg.] .ma diverrebbono avvisi e consigli; e non ebbe so lamente quella sanzione come una conseguenza aa turale della colpa, ma come una vera imposizion di castigo, se non in questa, certo nella vita av venire, siccome già sopra abbiam divisato. Co nobbe egli non meno quella così semplice e cosi vera divisione del codice della umanità in doveri verso Dio, verso noi medesimi e verso la società; e insegnò che la filosofia dono e ritrovamento di vino ci erudisce nel culto degl'Iddii, e poi nel diritto degli uomini posto nella società del genere umano: che l'uouo non è nato a sè solo; che anche parte di lui ne domanda la patria e parte gli amici: che gli uomini sono prodotti per gli uomini acciocchè si giovino a vicenda; e che debbono ricevendo e dando permutare gli uffizj, e con le arti, con le le facoltà stringere la compagnia degli uomini con gli uomini. Questa succinta immagine della giure prudenza e della morale di Cicerone offre nella sua medesima brevità una idea molto elevata e molto magnifica e superiore a quante opere di antichi uo mini giunsero a noi in questo argomento, e forse a quante mai furono composte prima di lui. Tutta volta non è già vero che la morale Ciceroniana con tenga una disciplina compiuta, e discenda con per fetto ordine e verità in tutti i particolari; percioc chè anzi con buon accorgimento fu avvertito essere diffettuosa in assai parti necessarie, e gli argomenti nella maggior parte esser trattati leggiermente, e per decisioni assai rigide palesarsi che il severo giu reprudente non conoscea i verj principj donde po teano di dursi gli scioglimenti di certi casi. Ma con tutto ciò neppure è vero che Cicerone ne' suoi opere, con [Ubner Essai sur l'Hist. du Droit Nat.; Tusc. Dis.; De Oll.; Barbeyrac Pret, à Pufendorf.] 0 trattati di morale fosse un Pirronista, e nelle sue dispute di naturale teologia un distruttore di tutte le religioni. La primaimputazione assume per fon damento che Cicerone avendo statuiti i principi della morale, prega l'Accademia di Arcesila e di Carneade perturbatrice di tutte queste cose a ta cersi, perchè volendo assalire i principj che sem bran così bene composti, fara troppe ruine, e desi dera placarla, e non ardisce rimoverla. La se conda accusazione è dedotta da quello spirito di dubitazione che domina in tutte le sue opere e sin golarmente nei libri della Natura degl Iddii, ove mostra gran voglia di confutare e deridere tutte le antiche dottrine della Divinità, e concede alla fine tutti i trionfi all'Accademico Cotta. Al che si ag. giunge unagrande incostanza e può dirsi contrad dizione nell'affare gravissimo della immortalità de gli animi; perciocchè in molte epistole sue, nelle quali scopertamente parlava co' suoi amici, o du bita di quella immortalità, o rappresenta la morte come l'ultimo de' mali e il fine delle sensazioni e di tutte le cose (2). Noi, per quello che dinanzi si è avvertito, dobbiam consentire che Cicerone fu Accademico, e non altro conobbe che sole proba bilità; nel che certo errò gravemente, e grande fra gilità iufuse in tutto il suo sistema teologico e mo rale: tuttavolta perchè al suo probabile diede la forza e l'autorità che noi diamo al vero e all' evi dente, riparò un poco il dauno che fin d'allora il Probabilismo minacciava. Fuori di questo errore, egli molte affermò di quelle medesime verità che [Ciecrone De Legibus; Barbeyrac; Ep. Fam.; Ad Attic.; Bayle art. Spinoza, M., e Cont. des Pens.div.; A. Collin De la liberté de penser; Buddeo De l'Athéisme] noi stessi affermiamo, e nel naturale Diritto molte ne vide di quelle ancora che furon vantate come scoprimenti del nostro fortunato secolo, di che po tremmo tenere amplissimi discorsi se qui fosse luo go. Egli veramente sparse assai dubbi e molte risa sulle teologie antiche, e non era nel torto. Tenne ancora ragionamenti ipotetici intorno alla immor talità degli animi; e alcuna volta scrivendo a tali che la negavano, si attemperò alle loro opinioni per consolarli e persuaderli più speditainente. Per altro, quando fu sciolto da siffatti riguardi, parlò di que sti argomenti con quella dignità che abbiam rac contata.Adunque nè Cicerone fu di quegli Ateinè di quei Pirronisti esagerati che non conoscono Di vinità e moralità nè vera nè probabile. Non si vuol qui tralasciare che la scuola pirronica o scettica, sia che fosse oscurata dalla modestia e serietà del l'Accademia, sia che la fama di negligenza, di stra nezza e di stolidità la mettesse a pubblico disprez zo, non ebbe accoglienza niuna tra i Romani; di forma che uncerto Enesidemo da Gnosso intorno all'età di Cicerone avendo tentato in Alessandria di sollevare dalla dimenticanza lo Scetticismo, e con questo intendimento avendo scritti più libri pirronici, che intitold a L. Tuberone uoino prima rio tra i Romani, nè gli sforzi dello scrittore nè l'autorità del Mecenate valsero a far leggere que libri e a persuadere amore per quella filosofia. Donde si prende un nuovo argomento che Cicero ne, il quale raccolse tutti gli applausi di Roma, non potè essere Pirronista. Per questa descrizione della romana filosofia si conosce che tutto lo splendore di lei si restrinse alla età di Cicerone, e si rinnova. [Menagio in Laertium;  Brucker De Phil. Rom., quella meraviglia come i grandi uomini appariseo no insieme ad un tratto, e poi sopravviene la bar barie che li prevenne. Prima di quei dotti uomini che vissero in compagnia di Ciceroneo poco prima, i Romani eran tutt'altro che filosofi. Dappoi dechino la filosofia, come la eloquenza e la latinità. Noi an cora siccome abbiam ricevuto, così possiamo tras mettere alla posterità gli esempi vicini e forse pre senti di queste subite mutazioni. Prima che Cicerone, compiuta la sua questura partisse dalla Sicilia, aind di conoscere le rarità di quella isola, e visitò singolarmente Siracusa, città per gloria di armi e dilettere nobilissima. Quivi presso la porta Agrigentina tra i vepri e gli spineti vide una colonnetta, nella quale era la figura di una sfera e d'un cilindro, e per tai segni scoperse quello essere il sepolcro diArchimede, e mostran dolo ai Siracusani che l'ignoravano, molto si ral legrò che se un uomo Arpinate non avesse disco perto il monumento di quell' acutissimo cittadino, essi per avventura sarebbon rimasti al bujo. Da questa narrazione prendiamo opportunità di ono rare Archimede Siracusano, il quale tuttochè av volto in un silenzio ingrato degli antichi e dei mo derni scrittori e in una negligenza che move lo sde gno, anche tra i pochi e dispersi frammenti appa. risce il maggiore di quanti matematici e meccanici avanzino nelle memorie di tutta l'antichità. Forse Cicerone Tusc. Disp. lib. V, 23.alcuni si meraviglieranno che noi disordinatamente prendiamo a scrivere di Archimede dopo Cicerone, che fiorì quasi due secoli dopo di lui. Ma sappiano cotesti autori cronologisti che non abbiamo finora trovato parte più opportuna ove allogare un uomo che non ebbe vaghezza di setta alcuna nè greca ne romana, e la ebbe piuttosto di essere filosofo da sè; e poi sappiano che senza bisogno non vogliamo essere rigoristi in cronologia, e sappiano in fine che se è pur un errore trasportare la memoria di Ar chimede a dugento anni dappoi, io credo certo che sia errore molto più grande trasportarla nel vuoto, siccome gli Stoici della filosofia usaron finora. Nac que adunque questo divino ingegno, siccome Cicerone lo nomina, intorno all'anno ccccLvII di Roma; e o ch'egli fosse della regia stirpe di Gerone re di Siracusa, o che fosse un umile omuncolo fatto chiaro dalla verga e dalla polvere, vuol dire dalla geometria, o che fosse nudo di ricchezza e solamente pago di ben intendere i cieli e le ter re, non superbo e non depresso per niente di quelle varie fortune, cercò nella sapienza la nobiltà e la grandezza della sua sorte. Le matematiche pure e le applicate all'utile della patria e alla felicità della vita furono la sua cura perpetua. Nella mi sura delle grandezze curvilinee, argomento allora nuovo o poco famigliare agli anteriori matematici, aperse incognite strade e immaginò metodi fecon di, che appresso germogliarono ampiamente e fu rono i semi e, per testimonianza di Giovanni Wal lis, i fondamenti di tutte le invenzioni onde si vanta la nostra età. Sono già note le sue scoperte nelle [Tusc. Disp.; Plutarco in Marcello; Cicerone, Tusc. Disp.; Silio Italico de Bello Pun.] misure e nelle proporzioni della sfera e del cilin dro, di cui tanto si compiacque, che volle scolpite nel suo sepolcro quelle due figure come caratteri di singolar distinzione. Sono ancor note le sue spe culazioni intorno alla conoide e alla sferoide, e la quadratura della parabola, e le proprietà delle spi rali; e queste cose, onde si crede che molto si di latassero i confini dell'antica geoinetria, Archimede Irattò in libri che tuttavia esistono, quali sono, della Sfera e del Cilindro, della dimensionedel Cir colo, della Conoide e della Sferoide, del Tetra: 0 nismo, della Parabola, delle Linee spirali, a cui come opera teoretica si può aggiungere l'Arenario Ossia del Numero delle arene; nel quale trattato, supponendo ancora che l'Universo ne fosse pieno, calcolo quel numero contro l'opinione di tali che lo riputavano infinito. Lode eguale e forse mag giore ottenne Archimede allorchè le astrazioni geo metriche condusse alla pubblica utilità; e sebbene io non sappia indurmi a credere ch'egli fosse il creatore della meccanica, mentre studiò pure in Egitto, ove ognun sa che la meccanica non potea esser negletta; tuttavolta egli fu certamente assai benemerito di questa facoltà. Nei due celebri suoi libri che tuttavia esistono, l'uno intitolato degli Equiponderanti, e l'altro dei Galleggianti, ovvero delle cose che nuotano o che si traggono per li fluidi, egli stabilì i principj statici ed idrostatici, ai quali dicono che siamo debitori della presenteesten sione de' nostri scoprimenti; e aggiungono che Ar chimede istesso dando assai contrassegni di altis sima penetrazione in questo genere di studj, mo [Claudio Francesco de Chales in Cursu Math.; de Progressu Maibes.; Giammaria Mazzucchelli Notizie intorno ad Archimed ”, e Moniucla Ist. delle Malem.; Montucla] strò che avrebbe potuto pervenire a questa nostra estensione medesima, se non si fosse rivolto ad al tri pensieri. Il re Gerone avendo affidata ad un artefice una massa di oro perchè lavorasse una co rona dedicata agl' Iddii, venne a sospetto che il buon artefice gli avesse fatto furto; onde impose ad Archimede che studiasse di conoscere la verità. È fama che il matematico entrato nel bagno si avvide che quanto del corpo suo entrava nell'acqua, tanto ne usciva; donde preso lo svoglimento della qui stione, uscì fuori tutto ignudo e correndo gridava per via expriua evprzo, ho trovato ho trovato; e se condo questo esperimento immerse la corona in un vaso pieno di acqua; indi successivamente v'immerse due masse di egual peso, l'una di oro, l'altra di ar gento, ed esaminò quant'acqua spandessero i tre corpi, e quindi conobbe quello che investigava(3). Ma questo metodo, quando pur fosse possibile, non è sembrato, e non è veramente degno della elevazione di Archimede; nè egli per così poco sa rebbe fuggito via ignudo, nè Gerone avrebbe det to che dopo così gran prova tutto era da credersi ad Archimede. È dunque più verisimile e più de gno di lui, che avendo già egli nel suo Trattato de' Galleggianti stabilito questo principio: i corpi immersi in un fluido vi perdono tanto del proprio peso, quanto è un volume loro eguale del'fluido; di qui raccogliesse che l'oro siccome più compatto vi perda meno del suo peso e l'argento più, e un misto dell'uno e dell'altro in ragione del suo com ponimento. Bastava dunque pesare nell' aria e nel l'acqua la corona e le due masse di oro e di ar gento per ferinare quanto ciascuna perdeva del [Montucla; VITRUVIO] proprio peso, e dopo questi passi il problema non avea più difficoltà per un uomo come Archimede. Questo fecondo principio valse al valentuomo per la scoperta di molte verità idrostatiche, le quali po trebbono leggersi nel lodato suo libro, se a questi dì non fossero molto divulgate (1 ). Ben quaranta invenzioni meccaniche si onorano col nome di Ar chimede (2); ma solamente alcune vanno errando disperse negli scritti di antichi autori, e non fuor di ragione può credersi che secondo lo stile usitato molte si abbian volute render mirabili col prestito di un gran nome. Dicono di Archimede la chioc ciola, strumento ingegnosissimo e utilissimo, per cui usando la propensione medesima del grave alla caduta si produce la sua elevazione, e con tale or degno s'innalzano le acque ove bisogna, e si asciu gano le navi e le terre. Sono però alcuni che lo credon più antico di Archimede (4). L'organo idraulico portò già il nome di Archimede (5); ma questo grato arnese benchè dia segno di musica perizia, è piuttosto un gioco dilettevole che un ri trovamento sublime. Laforza infinita e la moltipli cazione delle girelle furono poste fra le invenzioni di Archimede; ma altri affermano, altri negano,? niuno ha migliori argomenti. Dammi fuori di qui ove io fermi i piedi, e moverò dal suo luogo la terra, disse Archimede a Gerone. E veramente ap presso ai suoi principj si posson in teoria immagi nar macchine le quali rendano idonea una potenza minima a sollevare un peso inassimo. Nella pra [Mazzucchelli e Montucla; Parpo; Pr.; Diodoro; Ateneo; Catrou e Roville Hist. Rom.; Tertulliano De Animo; Plutarco in Marcello: Dic ubi consistam; caclum terramque movebo.] tica Archimedle volle dar segno a Gerone che avreb be saputo mettere ad effetto le sue promesse, e pri mieramente una grandissima nave tutta carica, la quale non potea moversi senza molta fatica e as sai numero di uomini, egli solo qutto e sedente, senza sforzo alcuno e coll' ordinario impulso della mano aggirando l'ordegno suo, mosse e guidd co me gli piacque; indi per comandamento del me desimo principe avendo disegnata e messa a per fezione una molto maggiore e inolto meravigliosa nave, nella quale oltre le parti usitate in siffatti la. vori, e tutte di estraordinaria sontuosità e grandez za, vi erano giardini e peschiere e cisterne e acque correnti e sale e bagni e fino una biblioteca, e poi vi sorgeano olto gran torri armate, e ai loro luo ghi erano baliste e mani ferrate e altri strumenti da guerra per gli assalti e per le difese, e di smo derato carico e di molto popolo era grave, Archi mede non ostante la enormità di tanta mole, che tutti i Siracusani insieme non valsero a smovere, fece per certo ingegno suo che il solo Gerone la traesse in mare. È stato detto che questi rac conti ridondino di gran favola, il che pud benesser vero; ma non penso che vi sia fondamento alcuno di affermarlo. Vedute queste meravigliose opere il Re Siracusano sapientemente avvisò di esercitare la stupenda fecondità di questo Genio tutelare di Si racusa, e lo pregò a comporre ogni genere di mi litari strumenti per riparo del regno e per offesa dell' inimico. Archimede, buon amico del suo Re e della sua patria, siccome i sapienti sono o debbono essere, ubbidì volentieri. Questi ritrovamenti bel lici furono inutili, mentre Gerone visse nella pace e nell'amicizia de' Romani. Ma lui morto, arse una Plutarco in Marcello. Ateneo lib. V. guerra molto crudele, e Siracusa fu assediata dal console Marco Claudio MARCELLO, nobile capitano e rinomato per Viridomaro re de' Galli ucciso, e più per Annibale da lui sconfitto più volte. Egli con oste gravissima e con gran forza di navi e con macchine e con militari stratagemmi e con la fama di prode e felice soldato strinse e assalì Siracusa per terra e per mare. In tanta fierezza di arma mento i Siracusani furono presi da tacita paura e da terrore. Archimede solo non ismarrì, e vepne con le sue macchine a ricomporre i cuori dissipati de cittadini, e a sostenere la patria, e a mostrare a Marcello che un filosofo potea esser maggiore del Re de' Galli e di Annibale, e bilanciarsi con la forza e con la fortuna istessa di Roma. Per scienza e per avvedutezza di questo uomo le muraglie di Si racusa erano guernite di copia incredibile di bale stre, di catapulte e di altri macchinamenti per lan ciar dardi e palle e sassi di ogni grandezza, e da vi cino e da lontano, secondo tutti i bisogni. Vi erano ordegni che facendo cadere grossissime travi cari che di pesi immensi sopra le galee e le navi nimi che, le abissava subitamente nelle acque. Vi erano ancora certe mani di ferro con le quali si abbran cavano quelle navi e quelle galee e si levavano per aria, e poi si lasciavancadere tutte subito con som mersione e ruina, e altre volte si traevano a terra e si aggiravano e si stritolavano nelle rupi, su cui stavanle mura della città. Dietro queste mura, che in più luoghi erano pertugiate, stavano scorpioni tesi a cogliere i nemici, che per isfuggire dai lan ciamenti lontani si avvicinavano, onde non rima nea luogo sicuro dalle offese; e Marcello colpito da tutti i lati senza saper d'onde e come, usa va dire: Questo geometra Briareo sorpassa ben molto i Giganti centimani; tante sono le vibrazioni sue contro di noi. I Romani in terra e in mare erano anch'essi molto ben provveduti di macchine mi litari, e singolarmente sopra otto galee levavano certo congegno nominato per similitudine sambu ca, con cui agguagliavano le mura e poteano in trudersi nella citlà. Ma il Briareo Siracusano lanciò alcuni sassi gravi oltre a seicento libbre, e battute quelle sambuche, le rovesciò con grande strepito e danno.. In somma un solo vecchio geometra rendè Siracusa invincibile, e confuse il valore di Roma e il miglior capitano che ella avesse in que' giorni. Gli assalitori furono stretti a rimetter molto della loro baldanza e ridurre ad un lungo blocco quella tanta vivacità di assalti. Appresso non si parld più di Archimede, e Siracusa fu pre sa, e il suo invito difensore, quasi dimentico della patria e di sè stesso e ozioso nella pubblica ruina, si fece ammazzare per fatua ostinazione nel dise gno d' una figura di geometria. Io non so bene se sia troppa offesa di gravi narratori gettare tra le fa vole queste sconnessioni attribuite al più connesso uomodel mondo. Forse per liberare Archimede da cosiffatte inezie e quasi deserzioni nel maggiore bi sogno della patria, alcuni pensarono di riempiere questo vuoto col meraviglioso racconto dell'incen dio delle navi di Marcello con gli specchi ustorj. Un medico riputato grande (4), un istorico medio cre  e un picciol poeta furono i divulgatori di quel famoso incendio. Ma la tenue autorità di cosiffatti uomini non vale per niente a fronte del [Livio; Polibio Excerp.; Plutarco; Folard, Commento sopra Polibio; Polibio e Plutarco; Cicerone De Fin.; Livio; Galeno De Teinp; Zonara; Tzetze Hist.] silenzio di Livio, di Polibio e di Plutarco, i quali diligentemente avendo scritto della guerra siracu non avrebbono mai taciuto unavvenimento tanto stupendo, e insieme di tanto ammaestramento nell'arte della guerra, così nel guardarsi da quegli specchi incendiari, come per usarne contro i nimi ci; e certo io credo che se quel terribil metodo fosse stato veramente messo ad effetto, non sareb bono mancati imitatori, e l'armata navale di Mar cello non sarebbe stata la sola incendiata. Noi me. desimi, studiosissimi quanto altri di spopolare il mondo con le militari invenzioni, non avremmo, io credo, all'economico e facile artifizio di Archimede anteposti altri dispendiosi e incomodi metodi. Molti veramente hanno studiato assai nella catottrica per trovar modo di suscitare quel funesto esperimento, e alcuni son giunti a provare che certo con un solo specchio di convessità continua o sferica o parabo lica non era possibile quell' incendio in tanta di stanza, ma era ben possibile con molti specchi pia ni; e tra altri in questi ultimi giorni il Buffon com pose uno specchio formato diquattrocento specchi così disposti, che tutti riflettevano i raggi ad un punto comune; e questo adunamento nella distanza di centoquaranta piedi liquefaceva il piombo e lo stagno in corto tempo, e in distanza maggiore in ceneriva il legno, il che parve che mostrasse pos sibile il metodo di Archimede: ciò non ostante queste pratiche per ostacoli non superabili giaccion neglette, e le nostre armate navali si distruggono a vicenda con altro, che con raggi di sole. Non è le cito partire dalla istoria di Archimede senza dire alcuna cosa de' suoi studj astronomici, e di quella [Kircker Ars magna lucis et umbrae; Buffon Mém. de l'Acad.; Montucla] tanto celebre sfera e tanto lodata dai poeti, dagli oratori, dagli stoici e, ciò che più vale, dai filo sofi. Era questa una macchina o di rame o di bronzo o di vetro, la quale o a forza di aria o di acqua, o di ruote e di molle e di pesi o di forza magnetica, o di altri ingegni movendosi, esprimeva tutti i rivolgimenti e i fenomeni celesti, senza eccet tuarne finanche i tuoni e i fulmini; e secondo alcuni rappresentava questi movimenti secondo il sistema Copernicano. Le quali cose, se sono vere, come possono essere, attese le altre grandi opere di quest'uomo, e massiinamente perchè egli si compiacque assai di questo lavoro e di lui solo volle lasciar memoria alla posterità con un libro intitolato Spheropeia, che si è poi smarrito, pos siamo raccogliere con nuovo argomento, se altri pur ne mancassero, che nelle scienze più utili l'an tichità davvero ne sapea almen quanto noi(4 ). Mol. te edizioni furono promulgate delle opere di Archi mede, e illustri uomini o in tutto o in parte le ador narono con somma diligenza, fra i quali si distin sero assai Borelli, Wallis, Barow, Tacquet e Torricelli. Oltre le pubblicate vi è memoria di al tre scritture di Archimede, che si dicono ascose in qualche biblioteca, come della Frazione del cir colo, della Prospettiva e degli Elementi di Mate matica; o perdute affatto, come de' Numeri, della Meccanica, degli Specchi comburenti, della Nave [Ovidio Fast.; Claudiano Epigr.; Cicerone De Nat. Deor.; Tusc.; Sesto Empirico con. Math.; Lattanzio; Franc. Giunio Cath.'Archit. mechan. ec. Cardano, Vos. sio, Kircker; Mazzucchelli; Cardano De Subtilitate; Pappo; Fabrizio Bibl. Graec.; Mazzucchelli] di Gerone, della Archiettura, degli Elementi Co nici, delle Osservazioni celesti. E nel proposito di questa ultima opera è bene ricordarci che Ma crobio accenna certo metodo con cui Archimede pensò di avere misurate le distanze della terra dai pianeti e dalle stelle, e di queste di quelli fra loro. Ma qual fosse quel metodo non è scritto, che sa rebbe molto grato a sapersi. — In questa breve, ma non iscorretta nè vana immagine degli studj di Ar chimede noi vediam un uom serio, che non dise gna sistemi sul vuoto e non fa calcoli inutili, e non va sempre oltre senza saper dove vada; ma che studia le forze e gli effetti della natura, e trascura l'ignoto e si ferma sul certo, e di questo usa per utilità de' suoi cittadini e per accrescimento della pubblica felicità. Invitiamo a rallegrarsi quei filo sofi e quei matematici che somiglian questo grande esemplare. E preghiamo a correggersi quegli altri che pensano sempre e non operan mai, e mentre divagano per sentieri che non riescono a fine al cuno, e mentre ostentano linguaggi che il più de gli uomini e talvolta essi medesimi non intendono, non sanno poi levare un peso di alquante libbre,o tenere un po' d'acqua disordinata senza impoverir le famiglie e le città, e senza amplificare i mali con la perversità de' rimedj. Dopo la battaglia di Azzio C. Cesare Ottaviano Augusto divenuto re senza prenderne il nome, chiuse [Fu stamprlo un libro da Giovanni Gogava degli Specchi Ustorj, da lui tradotto dall'arabo, e un altro intitolato Lemma ta; ma non sono estimati degni di Archimede. - Montucla e Mazzucchelli II. cc. il tempio di Giano e arò la pace e le lettere. La sua età ebbe ed ha tuttavia la lode del più collo e più letterato tempo di Roma; al qual vanto io so certo che Lucullo e Attico e Cicerone repugnerebbono, e non so come non repugniamo noi stessi. Impe rocchè gli è ben vero chenon solamente Roma era già assuefatta alla filosofia e non potea divezzarsi così d'improvviso, e che Augusto anch'egli secondo la consuetudine romana fu amico de filosofi ed en trò vincitore in Alessandria tenendo per la mano il filosofo Areo, per cui amore non distrusse quella città, e poi ebbe assai caro Atenodoro di Tarso e lo ascolid attentamente, e quindi avvenne che la filosofia seguì a coltivarsi nella nuova' dominazione, e per costume e per desiderio di applauso e per cortigianeria fiorirono a quei di molti uomini sapienti: tutta volta io non so vedere in quella età i gran simulacri che si videro nel fine della repub blica, e vedo anzi che come tutti i costumi ro mani, così anche la filosofia piegò a mollezza, e quindii poeti assunser la toga filosofica e otten nero gli applausi maggiori, a tal che la istoria let teraria della età di Augusto sarebbe assai tenue senza questi poeti, de' quali adunque sarà mestieri scrivere in primo e quasiin unico luogo. Publio Virgilio Marone, nato nel contado man tovano, con estraordinario ingegno poetico studiò di piacere ad Augusto e a Roma; e conoscendo che a riuscire nel suo desiderio era mestieri condire le sue poesie con dottrine filosofiche, così fece, e salì alla gloria di Bucolico e di Georgico eguale ai Greci, e di Epico secondo alcuni riguardi mag giore di Omero, e quello che è ora nel nostro Svetonio in Augusto et Claudio. Plutarco in Antonio. Seneca Cons. ad Helviam. Luciano in Macrob. Zosimo; Baillet Jug. des Scayans, des Poét. Lat. proposito,di poeta filosofo. Mainvestigandosi poi di quale filosofia si dilettasse, insorser varie sen tenze. Alcuni lodissero Epicureo, perchè ascolto Si rone maestro di quella scuola, e perchè un tratto racconto che l'orto Cecropio spirante aure soavi di fiorente sapienza lo cingea con la verde ombra; e altrove condusse Sileno briaco a cantare come nel gran vuoto si adunassero i semi delle terre, dell'aria, del mare e del fuoco; e in altri versi nomninò felice colui che potè conoscere le cagioni delle cose, e calpestò tutti i timori e il Fato ine sorabile e lo strepito dellavaro Acheronte: nelle quali parole l'Epicureismo parve evidente ad al cuni; mentre ad altri l'orto Cecropio e il peda gogo di Bacco e i semi nel vuoto parvero equivoci e scherzi di poesia, e il Fato e l'Acheronte calpe stati e comuni ad altre filosofie non sembrarono argomenti di Epicureismo; massimamente perchè nello stesso tenore di canto il poeta disse anche felice colui che conosce gl’iddii agresti Pane e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle (4), che di vero non erano cose epicuree. Per queste difficoltà fu soggiunto che Virgilio potea esser Platonico là dove insegnò il compimentodella età vaticinata dalla Si billa Cumana, e il grande ordine de' secoli, e i mesi dell'anno grande di Platone, e il ritorno di Astrea e di Saturno e degli aurei giorni; il quale mescolainento io non credo certo che Platone po tesse mai riconoscer per suo. Si abbandonò adun [Virgilio Ceiris. Servio in Ecl. VI. P. Gassendo De vita Epicuri; Fabrizio, Bibl. Lat.; Virgilio Ecl.; Georgic.; Georg.; Ecl.; Servio in h. I.; Paganino Gaudenzio De Phil. Rom.; Brucker De Phil. sub Imp..] que questo pensiere, e fu estimato che Virgilio era stoico, perchè narrò che vedute le ingegnose opere delle api, alcuni aveano detto esservi parte della mente divina in esse, e Dio scorrere per tutte le terre e per li tratti del mare è per lo cielo pro fondo, e dar vita a tutti i nascenti, e tutti a lui ritornare e risolversi in lui, e non esser luogo d morte, e tutti vivere nel numero delle stelle e nel l'alto cielo (1 ). Ma se Virgilio ci narra che altri di ceano queste sentenze, non le dicea dunque egli stesso. Anche nel sesto libro della Eneide, che è il più magnifico e più profondo di tutto il poema, Virgilio conduce Anchise a filosofare della origine e natura del mondo e degli uomini; e questa tro jana filosofia senzamolti discernimenti fu messa a conto del poeta. Uno spirito dice il Trojano, in ternamente alimenta il cielo, le terre, i mari e la luna e le stelle, e una mente infusa per le mem bra agita tutta la mole, e al gran corpo si mesce. Quindi scaturiscon tutti i viventi, in cui è ignea forza e origine celeste, per quanto i nocenti corpi non li ritardano, e le terrene e mortali membra non gli affievoliscono; onde avviene che desiderano e temono e godono e si dolgono, e non mirano al l'alto, chiusi datenebre e in carcere oscuro. Dopo la morte soffrono i supplicj degli antichi peccati: indi son ricevuti nell'ampio Eliso,finchè per lungo tempo si tolgan le macchie, e ritorni puro l'etereo senso e il fuoco del semplice spirito. Compiuto il giro di mille anni, un İddio convocava gli animi in grandeschiera al fiume Leteo, perchè dimen tiche rivedano il cielo, e comincino a desiderare i ritornamenti ne' corpi. Così parld Anchise, e [Georg.; Æneid.] Virgilio fu accusato di Ateismo stoico da uomini cheinsegnando sempre a non precipitare i giudi zj, li precipitarono essi medesimimolto più spesso che non può credersi (1). Ma primieramente l'A teismo stoico è una falsa supposizione, siccome ab biarno veduto in suo luogo; e poi le parole spirito e mente she è infusa e che alimenta le cose, e il foco e l'etereo senso sebben possano avere sentenza stoica, la possono anche avere di altre scuole che fecero uso di simili formule. Inoltre quelle parole sono miste agli Elisi e al fiume della Oblivione, e al millesimo Anno, e all'Iddio evocatore degli animi smemorati, ma immortali a rigore; le quali giunte non sono stoiche per niente. E in fine siccome Vir gilio apertamente ammonì, le antecedenti parole della Georgica, che parvero stoiche, essere dial tri; così dovrà dirsi in queste della Eneide, quando egli ancora non lo dicesse. Ma disse pure che eran di Anchise, il quale qualunque uomo si fosse, e fosse ancora una favola, certamente non era Virgilio. Dopo queste considerazioni, io molto mi sdegno che uo mini non vulgari citino tutto giorno questidue passi come una tessera dell'Ateismo stoico e dello Spi nozismo, e mi sdegno ancor più che si producano come un argomento della empietà di Virgilio. Non essendo adunque plausibile questa attribuzione, fu immaginato da altri che Virgilio amasse il Pitago rismo, e da altri, che molto sanamente sentisse delle cose divine; il che io non saprei come potesse provarsi. Ma un autor celebre prese a mostrare che lo scopo di quell' incomparabile sesto libro della R. Simon Bibl. crit. P. Bayle Cont. des Pensécs sur les Co mètes. G.G. Leibnitz Théodicée disc. prél. G. Gundling. Gun dliogiaol  Brucker; Lattanzio; Cudwort System. intell.; Eneide è la dipintura simbolica del sistema de misterj Eleusini e della unità di Dio, e de' premj e delle pene nella vita avvenire. A persuaderci di questo nuovo pensamento il valente autore con molto studiati riscontri d'antichità e con bell'appa rato di dottrine incomincia ad insegnarci che la Eneide non è già una favola inutile da raccontarsi ai fanciulli o da rappresentarsi agli oziosi nelle lun ghe sere d'inverno, ma è un sistema di politica e di morale e di legislazione, per cui si vuol dilet tarc e istruire Augusto che è l'Enea e l'eroe del poema, e insieme tutto il mondo romano, e anche il genere umano intero. Per la qual cosa il poeta assumendo il carattere di maestro in Etica e di le gislatore, usa i vaticini e i prodigi per contestazione della Provvidenza, e introduce ilsuo eroe intento ai sacrifici e agli altari e portatore degl' Iddii nel Lazio, e pieno di tanta religione, che a taluno, cui piaceva di averne meno, sembrò che Enea fosse più idoneo a fondareunmonastero,che un regno.  L'amicizia, l'umanità e le altre virtù sociali entrano nel sistema di legislazione, e la Eneide n'è piena. Vi entrano ancora i premj e le pene dopo la morte, e il poeta ne fa amplissime narrazioni. Orfeo, Er cole,Teseo celebri legislatori furono iniziati nei mi steri, e le loro iniziazioni si espressero simbolica mente con le discese loro all'inferno. Cosi Enea le gislatore del Lazio si fa discendere all' inferno per significare la sua iniziazione negli arcani Eleusini, ne' quali è noto che Augusto ancora era iniziato. E veramente è grande la similitudine Ira le ceri monie eleusine ei riti della discesa di Enea all in ferno. Il Mistagogo o Gerofanta, ora maschio, ora Warburlou Diss. de l'Initiation aux mystères; Euremond presso il Warburton. femmina, era il condottiere de proseliti, e la Si billa è la guida di Enea. Proserpina era la Deità de' misterj, ed è la reina dell' inferno Virgiliano; negl'iniziati si volea l'entusiasmo, e in Enea lo vuol la Sibilla. Nel ramo d'oro sono figurati i rami di mirto dorati, che gl'iniziati portavano e di cui si tessevan corone. L antro, l'oscurità, le visioni, i mostri, gli ululati, le formole Procul esto, profa ni, si trovan comuni ai misterj e alla Eneide, come sono ancora comuni il Purgatorio, il Tartaro e gli Elisi e le esecrazioni contro gli uccisori di sè me desimi, contro gli Atei e contro altri malvagi. Di cendo queste ineffabili cose, Virgilio domandaprima la permission degl' Iddii: E voi, egli dice, Numi dominatori degli animi, e voi tacite Ombre,e tu Caos, e tu Flegetonte, luoghi ampiamente taciturni per tenebre, concedete ch'io parli le cose ascoltate, e col favor vostro divulghigli arcani sommersi sotto la profonda terra e la caliginc Questa preghiera dovea ben farsi da chi sapea gli spaventosi divieti che gl'iniziati sofferivano di non divulgar mai la tremenda religion dell'arcano. Da quesli, che erano i piccioli misterj, passa Virgilio ai grandi significati nella beatitudine degli Elisi. Enea si lava con pura acqua, che era il rito degl' iniziati, allorché dai piccioli erano elevati ai grandi misterj. Fatta la lu strazione, il pio Trojano e l'antica sacerdotessa pas sano ai luoghi dell'allegrezza, e alle amene ver dure dei boschi fortunati e alle sedi beate, ove i campi dal largoaere sono vestiti di purpureo lilme, e conoscono il loro sole e le loro stelle. I legisla tori, i buoni cittadini, i sacerdoti casti, gl’inven tori delle arti, e tutti que' prodi che ricordevoli di sè stessi fecero con le opere egregie che altri si ri Æncid.; cordasser di loro, quivi coronati di candida benda soggiornano. Queste immagini erano mostrate ne' grandi misteri, come qui negli Elisi. Adunque le pene e i premj della vita futura erano ! argo inento della istituzione Eleusinia e del sesto canto di Virgilio. Finalmente la confutazione del Poli teismo e la unità di Dio era figurata nello spirito interno alimentatore, e nella mente infusa alle mem bra di tutta la mole, di che i nostri pii metafisici agguzzaron tanti commenti. Così disse il dotto Inglese, a cui rendiamo onor grande per la erudi zione e per l'ingegno, e mediocre per la rigorosa verità. Ma comechè non consentiam seco in tutta la serie de' confronti, non sappiam discordare che in quel libro diVirgilio e in tutto il suo poema non sieno palesi gl'insegnamenti delle sociali virtù, de' premj e delle pene future, e talvolta non apparisca alcun indizio di sublime dottrina nel sommo argo mento dell' unica Divinità. Ora per la varietà di queste sentenze intorno alla filosofia di Virgilio, e perchè già sappiamo che i begli spiriti e gli ora tori di Roma nel torno di questa età trovavano as sai comoda quella filosofia, nella quale era usanza prendere da tutte le scuole il verisimile e l'accon cio alle opportunità, e non si metteano a colpa oggi essere Stoici e domane Epicurei, e talvolta l'uno e l'altro insieme nel medesimo giorno; perciò noi portiamo sentenza che ancora i poeti (lasciando stare quegli che strettamente cantarono alcuna par ticolare filosofia, come Lucrezio e forse Manilio ) usarono le mode istesse de' begli spiriti e degli ora tori; e servendo alla scena e al gusto dominante e al comodo, e volendo piacere al genio superficiale di Augusto e della sua corte, filosofarono alla gior [Encid.] nata e misero nei loro poémi quella filosofia che l'argomento e il diletto chiedeano, pronti a met terne: un'altra in bisogno diverso. Se noi vorremo domandare ai nostri poeti, come trattino la filoso fia nei loro componimenti, risponderanno che gli aspergono di Stoicismo quando parlano ai nostri Catoni, di Epicureismo quando lusingano i dame rini e le fanciulle, di Platonismo quando adulano le pinzochere, senza però giurare nelle parole di quelle scuole, anzi senza aver mai conosciuto a fondo i loro sistemi. A tale guisa io ho per fermo che poetasse Virgilio, e gli altri poeti della età di Angusto. Questo genere d' uomini fu sempre uso a fingere molto e a dir quello che accomoda e piace, piuttosto che quello che sentono. Quanto alla mo rale di Virgilio, tuttochè sia stata da alcuni solle vata a grandi altezze, e sia veramente superiore assai alle dissolutezze degli altri poeti di quella età, si vede in essa talvolta questo genio di scena e di comodo poetico e di pubblico diletto. Non dispia ceano a Roma le vittime umane; piaceano assai gli amori, e sommamente le conquiste e il sangue de' nemici. Quindi egli conduce il suo eroe, chedicono essere il maestro della morale virgiliana, ad inmo lare i prigionieri, a sedurre e tradire Didone, ad uccider Turno supplichevole, a turbare e conqui star le altrui terre; e allorchè prese a lodare M. Clau dio Marcello figlio di Ottavia sorella di Augusto, tutta quella amplissima laudazione che fece pian gere il zio e svenire la madre e che arricchì il poe ta, si rivolse finalmente nella cavalleresca e guer riera virtù a cui non so se la filosofia non af [Lodovico Tommasini Méthode d'étudier chrétiennem. les Poéles. R. le Bossu Du Poéme Épique; Du Hainel Diss. sur les Poésies de Brebeuf.Jacopo Peletier Ari Puélique V. A. Baillet Jug. des Savans. Des Poétes Lalios.] fatto cortigiana vorrà senza molte restrizioni con cedere questo bel nome.Si potrebbono amplificar molto le querele filosofiche; ma in tanta copia di ornamenti e di lodi è giusto usar moderazione ue? biasimi. ORAZIO, amico intimo e am miratore di Virgilio, fu non meno di lui ornamento sommo della età di Augusto. Parve che questi due incomparabili ingegni dividesser fra loro il regno poetico, e fedelmente si contenessero nei limiti sta biliti, e l'uno non entrasse mai nella provincia del l'altro. Orazio adunque ceduta la poesia bucolica, georgica ed epica a Virgilio, assunse la satirica, la epistolare e la lirica; e cosi' i due amici potendo essere sommi in tutti questi generi, amarono me glio esserlo in generi diversi senza emulazione e senza invidia. Questi, che posson dirsi i Duumviri della poesia latina, ebbero, siccome in parte si è veduto, campi amplissimni ove seminare le filosofi che doltrine. Ma Orazio, per lo genio spezialmente della satira e della epistola, gli ebbe anche mag giori, ed egli usò di questo comodo assai diligen temente per piacere ad Augusto, a Mecenate e a sè stesso, e alla età sua e alla seguente posterità. Dappriina educato nelle lettere romane, visitare Atene. Mi avvenne, egli dice, di essere nu drito a Roma, e quiviimparare quanto nocesse ai Greci l'ira –Achille. La buona Atene mi condusse ad arte migliore, e a discernere il diritto dal torto, e a cercare il vero nelle selve di Accademo. Ma i duri tempi mi rimosser dal dolce luogo, e il ca lore della guerra civile mi spinse a quelle arme che non furono eguali alle forze di Augusto. Umile par tü da Filippi con le penne recise e privo della casa volle poi Encicl. VI. furono ag e del fondo paterno: l'audace povertà mi strinse a far versi. E altrove non ha ribrezzo di raccon tare che nella sconfitta Filippica militando nelle parti diBruto, fuggi e gettò lo scudo (a). Così mal concio venne a Roma, e nato ad altro che a spar gere il sangue degli uomini e il suo, divenne poeta, ed ebbe parte non infima nell' amicizia di Mecenate e di Augusto, dai quali ottenne soccorsi alla sua povertà. Da queste avventure fu raccolto che Ora zio erudito nelle selve di Accademo era dunque Ac cademico. Ma questo sembrando poco, giunte quelle altre parole di Orazio: La sapienza è il principio e il fonte dello scrivere rettamente, e le carte socratiche possono dimostrarlo. Ove si vede l'amor suo grande alle dubitazioni di So crate, che forse somigliavano quelle di Arcesila e di Carneade. In una bellissima epistola a Mecenate, la quale è certo scritta nella vecchia età di Orazió o nella prossima alla vecchiaja, lo sciolgo per ten po, egli dice, il cavallo che invecchia, acciò non faccia rider le genti ansando e cadendo nella fine del corso. Depongo i versi e gli altri sollazzi. Le mie cure e le mie preghiere si rivolgono al vero e all onesto.Adunoe compongo dottrine per usarle in buon tempo. E perchè niun mi domandi a quale guida e a quale albergo miattenga, io, non istretto a giurare nelle parole di alcun maestro, vado ove mi menano i venti. Ora sono agile e m'immerso negli affari civili,ora custode e seguace rigido della vera virtù, ora furtivamente scorro ne' precetti di Aristippo, e le cose a me sottopongo, e non voglio io essere sottoposto alle cose. Ove non oscura [Orazio Epist.; Carm.; Ode; De Arte Poet.; Ep.] diente si vedono i pensamenti d' un uomo che pren de secondo le occasioni quello che più gli torna a piacere dalle sette diverse. Fu aggiunto ch'egli acre mente derise gli Stoici in più luoghi, il che era secondo il costume accademico; e che secondo il medesimo uso affermò e negò le istesse dottrine sen za eccezione delle più solenni, come la esistenza degl' Iddii, i prodigj, le cose del mondo avvenire, la provvidenza, il fine dell' uomo; donde non sola mente dedussero le idee accademiche di Orazio, ma ancora il suo pirronismo. A queste osservazioni se vorremo sopraggiungere il genio del secolo e il co. modo dell'Accadernia, e quel di più che abbiam detto della filosofia di Virgilio, non sembrerà in giusto consentire alle accademiche propensioni di Orazio; non mai perd ad un pirronismo esagerato, di cui non possiamo avere alcun fondamento; anzi lo avremo in opposito guardando a tante risolute sentenze sue, e all'abborrimento di tutti i più dotti Romani contro quella estremità; e non ha similitu dine di vero che un uom tanto destro ed elegante volesse esporsi al disprezzo di tutta Roma senza proposito alcuno. Ma comechè le cose ragionate fin qui sembrino bene congiunte a verità, alcuni pur sono che vorrebbono Orazio epicureo. Raccolse le altrui ragioni e aggiunse le sue per convincerlo di Epicureismo teoretico e pratico Francesco Al garotti in un suo Saggio della vita di quel poeta. Insegna egli adunque che molti sono i luoghi epi curei ne' versi di Orazio, perciocchè scrisse in una sua satira di certo strano prodigio che potea ben crederlo un Giudeo circonciso, non egli, perchè avea [Satyr.; Gassendo De Vita Epicuri; Fabrizio Bibl. Lat. ; Reimanuo Hist. Alh.; Stollio Hist. Pbil. mor. Geni. J. Brucker] porco del apparato che gl' Iddii menan giorni sicuri e non mandan gid essi dall'alto tetto del cielo le meravi. glie della natura. E in una epistola a Tibullo: Come tu vorrai ridere, guarila me pingue e nitido gregge epicurco. Ma se queste ed al tre parole epicuree vagliono a fare Orazio epicu reo, varranno adunque le stoiche, le peripatetiche, le socratiche, le platoniche, lequali sono pur molte ne' suoi versi, a renderlo scolare di quegli uomini; e queste varietà non potendo comporsi in uno senza che egli fosse Accademico, o se vogliamo Eclettico a buona maniera, adunque io non so altro dedurre salvochè quello che dianzi abbiamo riputato simile al vero. Oltre a questo abbiam poi una molto so lenne abiurazione dell'Epicureismo in una sua ode, che è di questa sentenza: Già scarso e rado ado rator degl' Iddii, erudito in sapienza insana errai; ora mi è forza ritornare indietro. Vedo Iddio che gli umili cangia coi sommi, e attenua il grande, e mette a luce l'oscuro, e gode toglier l'altezza di colà e qui collocarla. E abbiano ancora un an tiepicureismo in quelle sue magnifiche parole: lo non morrò intero, e la massima parte di me evi terà la morte. La maggior forza però è, siegue a dire il valente Algarotti, che si vede la conformità grande tra i precetti di Épicuro e le massime e le pratiche di Orazio. L'uno e l'altro predicarono che de' pubblici affari non dee inframmettersi il sapien te, che ha da abborrire le laidezze dei Cinici, efug. gire la povertà e lasciare con qualche opera din gegno memoria dopo sè, e non farmostra delle cose suc, e dover essere amatore della campagna, e non [Satyr.; Epist.; Od.; Od.] tenere uguali le peccata, e amare la filosofia, e non temere la morte e non darsi pensiere della sepol tura. Ma, secondochè io estimo, questa forma di argomentazione è cosi burlevole, come sarebbe quell altra, che Orazio fosse epicureo perchè avea il naso e gli occhi come avea Epicuro; senza dir poi che questo discorso medesimo potrebbe abu sarsi per intrudere Orazio in qualunque scuola; per chè nel vero molti altri maestri erano in Grecia e fuori, che insegnavano doversi fuggire i pubblici affari e le lordure ciniche e la povertà, e amare la campagna e il piacere e la utilità, e non brigarsi della morte e del sepolcro. Adunque non pud es ser provato che Orazio fosse epicureo, perchè disse molte parole o usate dagli Epicurei insieme con al tri, o anche rigorosamente epicuree, nella guisa che non può provarsi che fosse stoico o peripatetico, perchè disse molte sentenze prese dal Peripato é dal Portico; e ritorna quello che di sopra fu detto, questa indifferenza per tutte le scuole e quest'uso appunto di ogni placito che torni a comodo, pro vare solamente la filosofia accademica di Orazio. Trar poi le frasi oscene ei costumi dissoluti di Ora zio a prova di Epicureismo, con pace di chiunque io dico che questa diduzione non è consentanea al vero sistema epicureo, nè all'umano. Abbiam già veduto altrove che il legittimo orto epicureo non era quella terra immonda che alcuni si finsero, e possiamo veder facilmente che, riunpetto a molte oscenità sentenziose di Orazio, moltissime parole sue sono gravi, austere e diritte per narrazione dei contraddittori medesimi. E vediamo tutto dì che [Laerzio in Epicuro. Orazio Epist.; Satyr.; Od.; ALGAROTTI, Saggio sopra ORAZIO; Blondel Comp. de Pindare et d'Horace; Tominasini, Mélode d'étudier ec. A. Baillet] se la depravazione delle parole e de' costumi fosse argomento di Epicureismo, oggimai sarebbe epicu. rea tutta la terra. Stabiliamo per compimento di questo esame, che se vorremo da tutti gli scherzi canori de' poeti raccogliere inconsideratamente i si stemi e le vite loro, comporremo piuttosto poemi che istorie. Spargiamo dunque fiori, non spine, so pra il sepolcro del più filosofo di tutti i poeti. P. Ovidio Nasone Sulmonese fiori alquanti anni dopo Orazio, nella età anch' egli di Augusto; al quale comunquepotesse piacere per la fecondità e per la vivezza, dispiacque per la lascivia de' versi, o piuttosto, siccome alcuni pensarono e come Ovi dio medesimo disse, per aver veduto imprudente mente una certa colpa che volle tacere, e si para gond ad Atteone che fu preda a' suoi cani, percioc chè vide senza pensarvi Diana ignuda; e questa Diana parve a taluno Giulia sorpresa nelle brac cia di Augusto suo padre, e altri indovinarono altri arcani di oscenità. Ma è molto più giusto ta cere ove tacque Ovidio medesimo, tuttochè punito ed esigliato alle rive dell'Eusino fosse pienissimo d'i ra, che fa parlare pur tanto la generazione irrita bile de' poeti. Questo ingegno, nato per la poesia, amoreggio, e pianse in versi, e fu antiquario, e se gretario degli eroi e delle eroine anche in versi, e disse le mutazioni delleforme in nuovi corpi dalla origine del mondo fino a' suoi tempi; e sempre in versi, perchè s'egli prendea a scriver prose, usci vano versi spontanei suo malgrado. Nel molto nu mero de' suoi poemi il più reputato per serietà e per certo condimento filosofico è quello che ha per titolo le Metamorfosi; delle quali benchè sia stato [Ovidio De Ponto; Tristium; Bayle art. Ovide, B, K. detto che sentono la decadenza della buona Lati nità e preparano il mal gusto che poi sopravven ne, e mostrano il fasto giovanile, noi pensiamo di poter dire che sono certamente menogiovenili delle altre poesie di Ovidio, e ch' egli medesimo, il qualepotea giudicarne quanto i nostri critici dili cati, le tenne in gran conto, e poichè l' ebbe com piute, Io, disse, ho tratta a fine un'opera che nè l'ira di Giove, nè il fuoco, nè il ferro, nè la vo race vecchiaja potrà abolire. Quel giorno che sul corpo solamente ha diritto, metta amorte quando vorrà lo spazio diquesta vita incerta. Con la parte migliore di me volerò sopra le stelle, e il nome no stro sarà indelebile. Dovunque la romanapotenza nelle terre vinte si estende, sarò letto dalla bocca del popolo; e se niente hanno di vero i presagi de' vati, viverò per fama nella eternità de' secoli (2). Senza involgerci ora nell' esame delle virtù poeti che diquesto componimento, o epico o ciclico ch'ei voglia dirsi, o di una azione o di mille, o contra rio ad Omero e ad Aristotele, o favorevole ai poe tici libertinaggi, di che gli scrittori dell'arte sapran no disputare;noi diremo piuttosto della meraviglia grande che questo poema eccitò con le narrazioni di tanti mutamenti di forme, i quali non si seppe mai bene che cosa significassero. Chi dicesse che questi sono delirj d'un poeta infermo per febbre, direbbe forse lo scioglimento più facile della qui stione, ma non il più verisimile, nè il più cortese alla fama e all'ingegno di Ovidio. Onde vi ebbe chi disse, sotto quelle metamorfosi ascondersi la serie Jelle mutazioni della nostra terra, e un certo siste ma di storia naturale; il che parendo poco ido [Baillel; Metamorph.; Stooekio Act. Erud.; Fabrizio Bibl. Lat. neo a spiegare tutte quelle favole, fu soggiunto che le idee di Pitagora, di Empedocle e di Eraclito e la mitologia e la opinione corrente a quel tempo sono le chiavi di quello enimma. Il perspicace Warburton immagindche le metamorfosi sorgono dalla metempsicosi; e che siccome questa è la condotta della Provvidenza dopo la morte, così quelle lo sono per lo corso della vita: e in fatti Ovidio dapprima espone le metamorfosi come castighi della scelle raggine, e poi introduce nell'ultimo libro Pitagora ad insegnare ampiamente la metempsicosi. Que sto è il più ragionevole aspetto che possa prestarsi a quel poema; e se per molte gravi difficoltà non è forse affatto vero, meriterebbe di essere per la bellezza del pensiere e per onore del nostro poe ta. Già altrove abbiamo parlato con qualche dili genza della famosa cosmogonia e teogonia di Ovi dio, e della diversità sua dagli altri sistemi de' poeti greci, e del Dio anteriore al Caos e agl'Iddii sub alterni, il quale è Uno e Anonimo nella descri zione Ovidiana. Diciamo ora alcuna cosa del l'accennato luogo delle Metamorfosi ove Pitagora è introdotto ad insegnare il suo sistema della me tempsicosi, accompagnato coi pensieri di Eraclito e di Empedocle; imperocchè ivi è scritto che gli uomini attoniti per la paura della morte temono Stige e le tenebre, ei nomi vani e gli argomenti de' poeti, e i falsi pericoli del mondo: che le anime non muojono, ma lasciando la prima sede vivono e alloggiano in nuove case: che tutto si muta, niente finisce: che lo spirito erra, e di colà viene qui, e di qui altrove, e occupa tutte le membra, e dalle fiere trascorre ne' corpi umani, e da questi in quel [Warburton Diss.; Metamorp.di questa Istoria. le, e non si estingue in tempo veruno: che niente è fermo in tutto il giro, e ogni cosa scorre a so miglianza di fiume, e ogni vagabonda immagine si forma. Chiunque vorrà legger tutta intera que sta prolissa narrazione, potrà conoscere che qui ve ramente parla Pitagora; ma poi tanto vi parla an cora Empedocle ed Eraclito, e tanto Ovidio me desimo, che finalmente non s'intende chi parli. A dunque il nostro poeta non puddirsi professore di niuna di queste sette, e pare molto più giusto pen sare ch'egli o era Accademico, o niente. La serie di questi poeti e il genio di Augusto e del secolo appresentano un sistema quasi generale di filosofia accademica, e perciò non si può ameno di ripren dere la franchezza del Deslandes e di altri, che senza pensare più oltre affasciano insieme Augusto, Me cenate, Agrippa, Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibul lo, Properzio, Livio, e tutti gli altri grandi uomini di quella età, e li dicono Epicurei. Si vorrebbe separare da questa general regola M. Manilio, il quale intitold ad Augusto un poema delle Cose Astronomiche, e si mostro contrario agli Epi. curei e favorevole agli Stoici; e, Chi vorrà credere, disse, che il mondo e tante moli di opere sieno pro dotte da corpuscoli minimi e da cieco concorso? Una natura potente per tacito animo e un Iddio è infuso nel cielo, nella terra e nel muré, e go verna la gran mole, e il mondo vive per movimento d'una ragione, e lo Spirito Uno abita tutte le par ti, e inaffia l’orbita intera, la quale si volge per Nume divino, ed è Iddio, e non siadunò per magisterio di fortuna. Per queste e per altre parole [Metamorp. Deslandes Hist. cril. de la Philos. Gassendo. Manilio Astronom.] di Manilio fu immaginato ch'egli non era accademico, ma del Portico e panteista e precursore dello Spinoza. No irichiamiamo a memoria le cose dette qui degli altri poeti del tempo d’Ottaviano, e più innanzi del Portico, e affermiamo che un verso o due che involti in dubbi e in equivoci possono sen tir forse un poco del Portico, non fanno uno perfetto del Portico, e quando pur lo facessero, uno del Portico non è un panteista nè uno Spinoziano. Se le ingiurie de' secoli, che dispersero tanta parte della storia di Livio non avessero affatto distrutti i suoi dialoghi istorici insieme e filosofici, e i suoi libri in cui scrive espressamente della filosofia, io credo che noi potremmo conoscere la filosofia della età d’OTTAVIANO molto più chiaramente che per tutte le immagini poetiche, e inoltre potremmo vedere a quale sistema si attene Ottaviano stesso. Ma non rimanendo altro di lui che parte della sua storia, i curiosi ingegni hanno voluto raccoglier da essa un qualche assaggio della sua filosofia; e alcuni lo hanno dileggiato come un superstizioso narrator di miracoli assurdi e un uom credulo e popolare. Ma per le clausole filosofiche apposte a molte narra zioni di prodigi, e per la fede istorica onde ri putò necessario raccontare le pubbliche opinioni e i casi scritti negli annali e nelle memorie antiche, fu molto bene difeso. Toland, vaneggiando di volerlo difendere assai meglio, lo grava della maggior villania; perocchè lo fa tanto poco superstizioso, che lo trasforma in ateo, e poi lo com [Collin De la liberté de penser; Toland Orig. Ju daic; Mosemio ad Cudwort System. int.; Brucker ; Seneca, Ep.; Fabrizio Bibl. Lat.; Lipiec Gxva] mendo come uomo di buon senno e di esquisito giudizio, e come un saggio filosofo e un ingegno elevato. Queste arditezze furono confutate ampiamente. E noi lasciando pure da parte molte altre sentenze di Livio, lo confuteremo con una sola, ove di certi tempi romani disse. Non ancora era venuta la negligenza del divino, che ora tiene il nostro secolo, nè ognuno a forza ďinterpretazioni si forma como di giuramenti e leggi, ma piut tosto ai giuramenti e alle leggi si accomodavano i costume. Queste parole non sono del catechismo degli’atei. Agatopisto Cromaziano, di Buonafede. Appiano Buonafede. Tito Benvenuto Buonafede. Keywords: storiografia filosofica, criteria – storia neutrale della filosofia – il primo filosofo romano – in lingua latina – previo all’ambasciata di Carneade – the patronizing tone of classicist Johnson Murford. Each man is the architect of his own fortunes – Appio -- -- filosofia antica, filosofia romana antica. Filosofo: addito a reflessioni generali sulla vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonafede” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Buonamici: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- you scratch my back -- etymologia di muovere --  corpi in movimento – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: There are many Buonamici (including GALILEO), so you have to be careful – this one is a genius – he taught at Pisa, in the M. A. programme, both Aristotle’s Poetics – imitazione, il tragico, -- and his ‘motus’ – Galileo happened to be his tutee, and the rest is the leaning tower!” Frequenta lo Studio di Firenze, dove segue il corso del l'umanista Vettori (si conservano alcune lettere scambiate tra i due). Filosofo naturale e latinista, si ispira molto agli antichi testi che commenta (Aristotele, Nicomaco…). Tutore di Galilei a Pisa. Altre opere: “De Motu libri X, quibus generalia naturalis philosophiae principia summo studio collecta continentur, necnon universae quaestiones ad libros de physico auditu, de caelo, de ortu et interitu pertinentes explicantur, multa item Aristotelis loca explanantur et Graecorum, Averrois, aliorumque doctorum sententiae ad theses peripateticas diriguntur, apud Sermartellium (Firenze); Discorsi poetici nella accademia fiorentina in difesa d'Aristotile. Appresso Giorgio Marescotti (Firenze); “De Alimento, Sermartellium juniorem” (Firenze). Galilei, De motu antiquiora” “Quaestiones de motu elementorum”.  Gentiluomo Fiorentino, e Medico, Lettore di Filosofia con gran concorso di Scolari nell'Università di Pifa. In detta Università avendo Giulio de' Libri altro Profesfore tacciato il Buonamici, come quello che citaffe testi falfi, questi una mentita gli diede; ed effendo state gettate da alcuno in fua scuola certe cor na, il Buonamici così diffe: Si vede che costui debbe avere in tafa grande a b éondanza di questa mercanzia, poichè ne porta qua. Egli v insegnò quaranta tre anni » e letto aveva due volte tutto AQUINO (si veda), e in ultimo gli erano pagate quattrocento feffanta piastre di provvisione. Il buon gusto nelle belle Lettere congiunse allo studio delle facoltà più gravi; è Accademico Fiorentino; e godette della stima de Granduchi di Toscana, da quali, ficco me egli stesso afferma, findagiovinettofunodritoeornatodigradiono revoli. Morì ad Orticaja vicino a Dicomano, ove, ficcome anche alle Pancole, aveva un Podere; e lasciò tutto il fuo ad uno Speziale. Fu recitatada Attilio Corfiinquella Pieveful Cadavereun’Orazionfunera Вbble, Poccianti, Catal. Script. Florentin. Salvini, Fasti, Buonamici, Dife. orf. Poetici,Discorso. annoverò fra i principali Peripatetici di quello Studio. Salvini, Fasti Poccianti, loc. cit. di Firenze Ove Bianchini, Ragionamenti intorno a' Granduchi,   le, e a’ 27. di Maggio nell' Accademia Fiorentina altra Orazione funerale venne recitata da Tommafo Palmerini. Di lui hanno parlato con lode diverfi Scrittori citati dall'Autore delle N o tizie Letter. ed Istoriche dell'Accademia Fiorentina, e dal P. Negri, il qual ultimo noi fiam di parere che sbaglj, ove fra gli autori che hanno parlato di B. registra anche il Crescimbeni, il quale non di questo, m a di B. di Prato ha parlato, ficcome nell' articolo diquest'ultimo diremo. Il nostro Francesco scrive diverfe Opere, lequali, febbene da alcuni fieno d'ofcurità tacciate, fanno conofcere il fuo fape re, la fua fingolare dottrina, e la sua cognizione anche della Lingua Greca. Eccone il Catalogo: - I. Francifci Bonamici Florentini e primo loco Philosophiam ordinariam in almo Gymnasio Pifano profitentis De Motu Libri X. quibus generalia naturalis Philoso phie principia fummo studio collećfa continentur - Nec non universe Questiones ad Libros de Physico Auditu, de Cælo, de Ortu és Interitu pertinentes, explican tur. Multa item Aristotelis loca explanantur, či Græcorum Averrois, aliorumque Dostorum Fententie ad Thefes peripateticas diriguntur ec. Florentiæ apud Bartho lomeum sermartellium infogl.Fu affailodatoilmetodo diquest' Opera, di cui il Piccolomini era uno de' principali ammiratori. II. Discorsi Poetici detti nell'Accademia Fiorentina in difesa d'Aristotile. In Firenze per Giorgio Marescotti,  con Dedicatoria a Baccio Valori fegnata dalle Pancole. In questi Discorsi, che sono VIII. risponde alle oppofizioni fatte dal Castelvetro ad Aristotile. De alimentis ubi multe Medicorum Tententie delibantur, ở cum Aristotele conferuntur. Complura etiam Problemata in eodem argumento notantur, ở quibusdam exGræca Leếtionepriftinusnitor restituitur.Venetiis, Florentie apud Bartholomeum Fermartellium Juniorem in 4. IV. Una sua Lezione fatta sopra ilSonetto del Petrarca, che incomincia: Quando 'l Pianeta che diffingue l'ore, - nell’Accademia Fiorentina sotto il Consolato di Tommaso d el Nero a fi conserva a penna in Firenze nel Cod.  della Libre ria Strozziana. V. Lećiiones super I. és 11. Meteororum. Queste Lezioni fopra l’argomento delle meteore (cui affermava il medefimo B., per testimonianza di Monfig. Sommai, d' aver per difficilistimo, rispetto alla difesa d' Aristotile che giudicava effere stato mirabile nelle cofe che appariscono al fenfo »,ma nell’altre affai ambiguo) efiftevano a penna in Firenze nella Libreria de Si gnori Gaddi fra Codici mís, paffati, per compera fattane da Francesco I.I m eradore felicemente regnante, e Granduca di Toscana, nella Laurenziana al Cod. 8o5. num. Valori scrive che lascia delle fue fatiche fopra la Metafifi ca, ed altro, la quale Metafifica poffeduta da diverfi, ebbe in Roma qualche difficoltà a stamparsi per alcune cofe Filosofiche stampate anche ne Libri De motu, ficcome afferma il suddetto Monfig. Sommai. Il Poccianti famen Z1OI) Così afferma Salvinine Fasti cit. acar. 355. stentia penna nel Tom. III.delle nostre Memorie MSS. Non foppiamo Pertanto con qual fondamento Negri acar.835.fia fferma che al Buonami comancava distin nell’ degli scrittori Fiorent. acar.188. aflerifcache zione, e chiarezza, e che diventasse fempre più oscuro, in detta Accademia fu Attilio Corficheinfuamortere- perchè pigliava le fue Lezioni, e le andava ritoccando, e cita l’Orazione funerale quando il Corfila recitò sulca ripulendo, e come egli intendeva, e presupponeva il mede davere nella Pieve, ove fu depositato. fimo degli altri, a poco a poco le ridase inintelligibili, A car. 214. febbene fette nel fondamento fempre faldoe le fue Lezio (1o) for. Degli Scrittori Fiorentini. Ol nianti che fono le migliori. tre gli Scrittori citati dal Negri parla con lode di lui anche Valori ne’ Termini di mezzo rilievo ec, a Caľ,  Si vegga Filippo Valori ne” Termini cit. a car. 7. In alcune Memorie scritte da mano di Monfig. Girola mo Sommaī, ed inferite nelle Schede Magliabechiane efi Catalog. della Libreria Capponi, Lipenio, Bibl. real. Medica, pag. i1.Salvini,Fafficit.pag zoz. in foglio volante. Loc. cit oservaz, fopra i Sigilli antichi Efistono presso di noi nel Tom. III. delle nostre - Memorie mfs. a car.  (zo) Descrizione della Provincia del Mugello B. zione de commentar. in Logica mở Ethicam lasciati dal nostro Autore; il Negri accenna un fuo Tractatus Logice esistente ms. nella Libreria del Palazzo Ducale de' Medici, il quale è indirizzato a Lelio Torello Giureconful to, e incomincia: Multa profećio, variaque_ec; e ilchiariffimo Sig. Domeni co Maria Manni fa ricordanza d'una Cronica fcritta a mano da Francesco Buonamici esistente nella Libreria Gaddi pure in Firenze. Dalle schede Magliabechiane comunicateci dal chiariffimo Sig. Canonico Bandini apprendiamo ch'era opinione che il Cavaliere Aquilani aveffe molti Scritti e Opere da stamparfi del nostro Autore. D a ciò che abbiamo fin qui detto ci fembra di poter afferire che il nostro Autore sia diverso da quel Dottor B. il quale ha il suo deposito nella Chiefa del Piviere di S. Babila detto anche S. Bavello e S. Bambello nella Provincia del Mugello in Toscana, il quale di tutta la sua eredità lascia che foffe fatto un fondo per mantenimento a Pisa di tre giovani parte di S. Gaudenzio, e parte di Dicomano con obbligo di addottorarfi, del quale fa menzione il Dott. Giuseppe Maria Brocchi, ma senzaaccennarefefia Scrittore d'Opera alcuna. V” è stato anche un B., di cui fi ha alle stampe un Elegia, ed un Epigramma in Lingua Latina per la nascita di Giacomo Augusto Lorenzo Ferdinando Maria figlio d'Amedeo del Pozzo ec. In Milano. Francesco Giuseppe Buonamici. Francesco Buonamici. Keywords: corpi in movimento, Aristotele, filosofia naturale, Galilei, razionalismo, aristotelismo pisano, de imitazione – aristotele – poetica – mimica – de motu – muggerbrydge --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonamici” – The Swimming-Pool Library. Buonamici.

 

Grice e Buonsanti: l’implicatura conversazionale del vettore -- implicatura di ‘animale’ – ‘non umano’ --  scuola di Ferrandina – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrandina). Filosofo basilicatese. Filosofo italiano. Ferrandina, Matera, Basilicata. Grice: “I like Buonsanti; Strawson calls him a veterinarian, but I call him a philosopher,, for surely he is a philosophical zoologist – he philosoophised, like Aristotle did, on the comparative physiology and anatomy of ‘human’ and pre-human.!” Esponente di spicco della storia della medicina veterinaria italiana ed europea è stato una delle figure più rappresentative della Scuola veterinaria milanese.  Diresse l'Enciclopedia medica italiana edita da Vallardi e La Clinica veterinaria (di cui fu anche fondatore).  Altre opere: Dizionario dei termini antichi e moderni delle scienze mediche e veterinarie Manuale delle malattie delle articolazioni Trattato di tecnica e terapeutica chirurgica generale e speciale La medicina Veterinaria all'Estero, organizzazione dell'insegnamento e del servizio sanitario. Dizionario Biografico degli Italiani. Nicola Lanzillotti Buonsanti. Keywords: etimologia di ‘veterinario’ -- animale; filosofia e medicina nella Roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanti” – The Swimming-Pool Library. Buonsanti.

 

Grice e Buonsanto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale pratica -- prammatica del discorso – scuola di San Vito dei Normanni – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Vito dei Normanni). Filosofo italiano. San Vito dei Normanni, Brindisi, Puglia. Grice: “Buonsanto is a good one – I call him the Italian Wittgenstein; he talks of a reasoned grammar (grammatical ragionata) and not of rules but regoletta – and he like Austin speaks of the genius (il genio) del linguaggio – he speaks of a ‘philosophical approach’ to grammar – of ‘proposizioni’ and the rest – of etimologia, and sintassi, so he is into implicature!”  Filosofo pontaniano italiano. Nato nella cittadina salentina nell'allora via Vento (oggi via Cesare Battisti), qui compie i suoi primi studi classici. Fattosi domenicano, non ancora ventenne, entra nel convento dei Padri predicatori di San Vito dei Normanni, ove si dedica allo studio della filosofia scolastica.  Diventando educatore, si distingue per le sue idee innovatrici nei metodi didattici, diventando ben presto un vero luminare del pensiero pedagogico della cittadina. Diventa anche un attivo sostenitore del movimento repubblicano, e insieme al notaio Carella, porta dalla vicina Brindisi un albero di naviglio per piantarlo, in segno di libertà, nella piazza antistante il Castello. Le sue convinzioni, però, lo costringono a fuggire da San Vito ed egli ripiega prima a Ostuni e poi a Martina Franca, da cui raggiunge, da ultimo, il convento di San Domenico a Napoli, dove muore.  La città natale ha dedicato al suo nome una scuola media cittadina.  Dizionario Biografico degli Italiani. Altre opere: “Etica iconologica”; “Il sistema metrico”; “Geografia” “Storia del Regno di Napoli”; “Antologia Latina”; “Sistema d'istruire i giovanetti”. By planting the tree, Buonsanti meant that he wanted peace. Etica iconological: children learn by imitating: ‘sistema per educare i giovinetti” – If we are looking for a typical Latin root for acting (or not acting,a s in the prototype of the ‘lazy Latin lover’) we should search for the ‘agire’ root, that gives us action. Qua philosophers, we are interested in that branch of philosophy that deals with action. Which one is it? Cannot be ‘morals’ because ‘ethos’ or mos is costume, rather than action. Analytic philosophers speak of ‘philosophy of action’ – Grice: “But not I”. Grice: “In my ‘Actions and Events’ I elaborate on this. I find that the vernacular English is ‘do’ – and that we need a special interrogative. Socrates in Athens whatted? He drank hemlock. Quandum – at what time – ubi – at what place, quia – for what reason (all from Aryan qw- root) are each examples of such an interrogative. Grice: “Latin is better equipped than English with the range of interrogatives whose function is to inquire, with respect to any of the ten categories, which item WITHIN the category would lend its name to achieve the conversion of an open sentence into the expression of a alethically or practically satisfactory utterance.  Each of these interrogatives (‘quando’, ubi, quia) have an INDEFINITE counterpart. Corresponding to ‘ubi’ is ‘unum ubi’. Corresponding to quod ‘unum quod’ – and so on. There is the occasion when the utterer requires not a pro-NOUN, but a pro-VERB, parallel to the two kinds of a pro-noun (interrogative and indefinite). A pro-verb is used or serves to make an inquiry about an indefinite reference to one of ten categories of items which a PREDICATE (P), qua epi-thet, ascribes to a subject (S), in a way exactly parallel to the familiar range of a pronoun. Just as the question, ‘WHERE [Ubi] did Socrates drink the hemlock’ is answered by ‘In Athens’,  consider the yes-no question,  ‘Socrates WHATTED in 399?’. The question might be answered by ‘Yes’ – And given the principle of conversational helpfulness, if one is in a position to specify what VERB we would use to express, we do just that. ‘Drank’. And more specifically, ‘Drank the hemlock.’ And given that Socrates did drink the hemlock in 399 B. C. as the answer just reminds us, we say: ‘There! I *knew* that Socrates SOME-WHATTED in 399 B. C.” The Romans lacked our ‘do’ – which was a good thing for them, for they were able to avoid our constant abuse of ‘do’ – the Roman equivalent would be ‘agire’ --. By way of a periphrasis – by which we can come close to the roman way. We ask, for example, WHAT did Socrates DO in 399 B.C.?’ In its capacity as PART (along with ‘what’) of a make-shift pro-VERB, the very  English ‘do’ –not a German thing, even! – can STAND IN FOR (be replaceable by) ANY English VERB – or phrasal verb or verb phrase (‘put up’)  whatsoever. Cf. pro-verb – do as proverb. They herd cattle, and raise corn, as we used to do. HereVito Buonsanti. Vito Buonsanto. Keywords: prammatica del discorso, Peirce, icon, Grice, iconic, iconologia, eicon, icon: Peirce, icon, Grice, iconic, iconologia, eicon, icon,  pratico e prasso are cognate praktikos dalla radice per --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanto” – The Swimming-Pool Library. Buonsanto.

 

Grice e Burgio: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- the goths in Italy – Romans contra Goths – la guerra gotica in Italia -- dialettica ostrogota – filosofia ostrogota – scuola di Palermo – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Palermo). Filosofo italiano. Palermo, Sicilia. Grice: “You gotta love Burgio: my favourite of his philosophical pieces are his study on the tradition, development and problems of ‘dialettica’ – from Athenian onwards – and his explorations of contractualism, since I’ve been called one – a contractualist I mean, as so was Grice [G. R. Grice].” --  Alberto Burgio Deputato della Repubblica Italiana LegislatureXV Legislatura Gruppo parlamentareRifondazione Comunista CoalizioneL'Unione CircoscrizioneLombardia 3 Incarichi parlamentari giunta per il regolamento; XI Commissione (Lavoro pubblico e privato); Commissione esaminatrice del premio Lucio Colletti dal 28 luglio Dati generali Partito politico PRC Titolo di studioLaurea in lettere e filosofia Professionedocente universitario Alberto Burgio (Palermo),insegna Storia della filosofia presso l'Bologna. È stato eletto deputato al Parlamento della Repubblica alle elezioni politiche del  legislatura).   Si è occupato prevalentemente di storia della filosofia politica e di filosofia della storia con studi su Rousseau e l'idealismo classico, la teoria della storia tra Kant e Marx e il marxismo italiano (Labriola e Gramsci), il razzismo e il nazismo.  Altre opere: “Filosofia politica: eguaglianza, interesse comune, unanimità” (Napoli, Bibliopolis). Rousseau, la politica e la storia. Tra Montesquieu e Robespierre, Milano, Guerini); “Robespierre” (Napoli, La Città del Sole); “Italia pre-aria” (Bologna, Clueb); “L'invenzione dell’ario” Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma, manifestolibri); “Nel nome dell’ario. Il razzismo nella storia d'Italia” (Bologna, Il Mulino); “Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, Roma, DeriveApprodi); “Struttura e catastrophe” Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti); La guerra dell’ario, Roma, manifestolibri); Gramsci storico. Una lettura dei "Quaderni del carcere", Roma–Bari, Laterza); “La forza e il diritto. Sul conflitto tra politica e giustizia” (Roma, DeriveApprodi); Guerra. Scenari della nuova "grande trasformazione", Roma, DeriveApprodi); “Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, a cura di, Macerata, Quodlibet); Escalation. Anatomia della guerra infinita, (Roma, DeriveApprodi); “Il contrattualismo” (Napoli, La Scuola di Pitagora); “Dia-lettica, co-loquenza:Tradizioni, problemi, sviluppi” (Macerata, Quodlibet); “Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, Roma, DeriveApprodi); “Manifesto per l'università pubblica” (Roma, DeriveApprodi); “Senza democrazia. Un'analisi della crisi, Roma, DeriveApprodi); “Nonostante Auschwitz. Il ritorno del razzismo in Europa, Roma, DeriveApprodi); “Rousseau e gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento, Roma, DeriveApprodi); “Il razzismo, con Gianluca Gabrielli, Roma, Ediesse); “Identità del male. La costruzione della violenza perfetta” (Milano, FrancoAngeli); “Gramsci. Il sistema in movimento, Roma, DeriveApprodi); “Questioni tedesche, a cura di, Mucchi, Modena,  («dianoia»). “Orgoglio e genocidio. L'etica dello sterminio nella Germania nazista” (Roma, DeriveApprodi); “Il sogno di una cosa. Per Marx, Roma, DeriveApprodi); “Critica della ragione razzista, Roma, DeriveApprodi. Any Oxford philosophy tutor who is accustomed to setting essay topics for his pupils, for which he prescribes reading which includes both passages from Plato or Aristotle and articles from current philosophical journals, is only too well aware that there are many topics which span the centuries; and it is only a little less obvious that often substantially  66  Paul Grice  similar positions are propounded at vastly differing dates. Those who are in a position to know assure me that similar correspondences are to some degree detectable across the barriers which separate one philosophical culture from another, for example between Western European and Indian philosophy. I GOTI.  il l/F) (fa  figlili;  WT'I tragedia lirica. INTERDONATO   MUSICA DEL MAESTRO Iflfiii lillff! DA lUPPHftSEINTAHSl, TEATRO NUOVO, PADOVA STAGIONE DI PIERA e MILANO, STABILIMENTO MUSICALE LUCCA. A Teodorico, fondatore della signoria dei goti in  Italia, succede la figlia Amalasunta. Donna di animo virile, di bellezza non comune, ed AMANTE DELLA ROMANA CIVILTÀ, e odiata  dai principali signori goti che ligi alle antiche costumanze vedeno di mal occhio la nuova regina mostrare clemenza verso i vinti e prediligere usi e costumi che secondo essi avrebbero finito col corrompere i vincitori degl’eruli e dei romani. Amalasunta, a cui è tolta la tutela del proprio figlio Alarico che poi dopo alcuni mesi perde miseramente la vita, crede di rassodare la propria autorità sposando uno dei più potenti signori della sua corte a  nome Teodato, ma questi appena salito sul trono si une ai nemici di lei, l'accusa di illecite tresche, le tolge ogni autorità e quindi la relega in un castello sul lago di Perugia dove poi la fa secretamele uccidere. Così la storia. PERSONAGGI ATTORI AMALASUNTA, regina de' Goti, Baratiti; TEODATO, signore goto, suo cugino, Pandolpii   SVENO, giovane patrizio romano Sig. Filippo Patierno ftfcw LAUSCO, capo de' guerrieri. Medini   SVARANO, altro capo de' guerrieri Calcaterra   GUALTIERO, guerriero goto, amico di Sveno. Vistarmi  Guerrieri, Araldi, Sacerdoti, Signori goti, Congiurati,   Damigelle della Regina, Uomini e Donne del popolo. Trombettieri, Paggi. La scena è nei primi tre atti in Pavia.  Nel quarto atto sul lago Trasimeno. Il virgolato si omette. Atrio colonnato nel Castello di Pavia. Ai lati alti e lunghi por-  tici che si perdono nelV oscurità. Un raggio di luna batte sulle  mura del Castello che si vede nel fondo. Il davanti della  scena è interamente immerso nell' ombra.   Molli guerrieri goti dormono sdraiati sul terreno. l«ausco è  in piedi appoggiato ad una colonna, immobile e pensieroso. Dal fondo s'avanzano cautamente Tediato e Svarano. Teo. Lausco? Lau. ics.) Sì. Teo. Gessò la festa? Lau. Guarda. dormono costor.  Sva. Tutto tace.   Teo. L'ora è questa   Che anelava il mio furor!  Aborrito, disprezzato, Alla terra e al ciel nemico.  Quando l'astro del mio fato  Parve a un tratto impallidir,  Sovra il capo d'Alarico  Imprecando la sventura  Solitario in queste mura  M'affidai nell'avveniri  (o Lausco) Tremi tu? Lau. Non tremo mai! Teo. Ei mi offese e m'oltraggiò, lo d'ucciderlo giurai.  Sei fedel?  Lau. L'ucciderò.   Sva. Quando l'opra tia compita   Ci vedrem? Teo. Del trono al pie. Lau. Tu proteggi la mia vita; Io lo scettro appresto a te.   (entra rapidamente nell'interno del Castello) Teo. (dopo un istante di silenzio, guardando attorno con terrore e prestando ascolto) Perchè tremo? nulla sento. Sva. (a bassa voce)  S'ei fallisse il colpo?  Teo. Ah no! (si sente un grido)   Sva. Parmi un grido. Teo. (con ansia terribile) Oh qual tormento!   (grida confuse nelV interno del Castello)  Sva. Ah! L'uccise!   Teo. (con gioia feroce) Io regnerò! (partono rapidamente, mentre i guerrieri destati dalle grida  balzano in piedi e afferrano le loro armi.)  Guerrieri, poi Sveno. Alcuni guerrieri   Qual suono! l'udiste? Altri guerrieri Confuso lamento   Sull'ali del nembo per l'etra echeggiò. Sveno si precipita sulla scena pallido, coi capelli in disordine, colla spada sguainata) Tutti Tu, Sveno? Ove corri?  Sve. Tremate! Egli è spento. Dei regi l'erede trafitto spirò!  Tutti Trafitto Alarico!  Alcuni guerrieri All'armi!   Altri guerrieri terrore!   Ma parla... rispondi! chi fu l'uccisore?  Sve. Della notte nel silenzio   Era immersa la natura. Non s' udia fra queste mura  Che del gufo l'ulular. Quando un grido orrendo, atroce  M'empie il core di spavento. Ah, quel grido ancor lo sento  Al mio orecchio risuonar.  Tutti Era il grido della morte   Che venia fra queste porte.  Sve. Corro al prence... di sangue cosparso, Un pugnale avea fitto nel petto. Non profferse il suo labbro alcun detto. Sol la mano mi strinse... e spirò!  Guerrieri (brandendo ferocemente le spade)  Morte, morte all'indegno uccisore!  Si ricerchi... fuggir non ci può!  (entra Teodato e si confonde fra i guerrieri)  Sve. Maledetto il parricida, D'Alarico l' uccisori  Di celarsi invan s'affida,  Di sfuggire al mio furor!  Tutti All'armi, guerrieri! s'esplori ogni loco. Già l'alba nel cielo propizia spuntò.  Di ferri recinto -qui tratto fra poco  Fra strazii perisca - chi sangue versò!  (partono in varie direzioni, Sveno va per seguirli)   Teoclato e Sveno.   Teo. Sveno, t'arresta.   Sve. Da me che vuoi? Teo. Giovane, ascolta; parlar ti vo'.  D'ira sfavillano gli sguardi tuoi  Ma in core leggerti ben io lo so.   (con sarcasmo)  Tu Romano, tu figlio d'Italia   Ch'ora è serva e che un di fu regina,  / Goti 2 Puoi dei Goti temer la rovina,  D'Alarico alla morte tremar?  Folle! Invano celare presumi  L'empia gioia che tutto t'invade,  Tu che privo di patria e di numi  Qui un asilo venisti a cercar!  Svfi. {con alterigia)   E che vuoi dire?  Tr0 D'Alarico estinto Or chi sul trono ascenderà, noi sai?  D'imbelle donna sulla chioma cinto  Il diadema fatale or tu vedrai.  SvE.D'Amalasunta? Mai più degna mano   Trattò lo scettro! Tfo. (sogghignando) Ne più bella!  v Insano!   SvE. Solo ed orfano reietto  Sull'avel del padre estinto,  Senza pane, senza tetto,  Io vivea di ceppi avvinto-  Quando un angiolo di Dio  Quasi in sogno m'appari...  E pietoso al dolor mio  I miei ceppi infranse un di.  Or che cinto di perigli  Sovra il trono assiso egli e.  Sfido l'uom che mi consigli  Di tradire onore e fé!  Teo Una minaccia suonano   Questi tuoi detti, o Sveno?  So che per me terribile  Odio tu nutri in seno!  Sve. Odio?... t'inganni. - Sprezzo   Mi desta un traditor. Teo. Ne avrai condegno prezzo (raffrenandosi)   Della regina il cor!  Sve. Trema. ah trema! Potrebbe a un mio detto  Il tuo capo cadere al mio pie. -Finché l'ira raffreno nel petto,   Va, t'invola lontano da me!  Teo. (Egli l'ama ! Ogni sguardo, ogni detto (da sé)   Il suo amore disvela per lei.   Vendicarmi fin d'ora potrei,   Ma la sorte matura non è!)  Sve. Altro a dirmi t'avanza?  Teo. E l'odio mio   Dunque, $veno, non temi?  Sve, Io? Lo desio (partono da opposti lati)   Steca sala nel Castello di Pavia; in fondo un gran verone  dal quale si vede la pianura e in lontananza l'Appennino;  due porte laterali. Amalasunta sola. Ama. (guardando dal verone)   Ecco la luce... Coi suoi raggi il sole  Le tenebre disperde; e tu svanisci  Fatai notte che a me toglievi il figlio,  Unica speme del mio core! Oh, come  Sulla fronte mi pesa questa triste  Aurea corona! Alcune giovinette che passano sulla via, cantano in lontananza)  Cono esterno (Un giorno in quest'ora  Per via m'incontrò.  Spuntava l'aurora  Quand' ei mi baciò.  È bello il suo viso,  Mi piace il suo cor,  Mi piace quel riso  Che parla d'amor!)  Ama. (prestando ascolto) Air opra usata allegre  Quelle fanciulle avviansi cantando. -  Come sfavilla in quelle voci tutto  Il contento dell'anima! Io qui soffro!  Un abisso ritrovo in ogni loco,  In ogni sguardo un tradimento... Ahi lassa!  Coro esterno (come sopra) (Di gemme e castelli  » Se il ciel mi privò,  «Degli anni più belli  » La fé mi lasciò. E tu, o giovinezza,  Che allieti il mio cor,  Mi doni l'ebbrezza,  Mi doni l'amor!)  (il canto si perde in lontananza)  Ama. Eppure un dì di rosee   Sembianze rivestita  Dono del cielo agli uomini  Mi si pingea la vita: Quando tra feste e gaudii  Col nero crin gemmato  I giorni miei trascorrere  Potea del padre allato.  Or fra le tristi tenebre  Presso all'aitar di Dio  Con disperati aneliti  La morte invoco anch'io.  «Or che svanir le liete  «Larve di pace e amor, Or che si pasce l'anima Di lutto e di dolor. Lausco e Svarano entrano cautamente. Sva. La vedesti? Lau. Piangeva; e quel pianto   Un inferno nel petto mi desta.  Sva. E che pensi?  Lau. Che a compier ci resta   Di Teodato il volere. Sva. Frattanto   Simulare ne giova. Il mistero,  Della mente nasconda il pensiero. Lau. Per lei scampo più in terra non v'ha;-   S’essa cede, perduta sarà. LA GENTE ROMANA prostrata ed inulta che un tempo sui mondo superba regnò caduta nel fango ci sprezza c'insulta al giogo ribelle piegarsi non può. Ma IL FERRO DEL BARBARO forier di sventura al suolo atterrando DI ROMA LE MURA L’ITALICA TERRA di sangue inondò. Costei che di SENSI ROMANI è nutrita  il brando dei padri vorrebbe spezzar clemente redimer la schiatta aborrita sul trono con essa chiamarla a regnar. Ma IL FERRO DEL BARBARO ancor non è infranto foriero per gl’empii di lutto e di pianto più splendido al sole s’'appresta a brillar. A ina lasunta, Lansco e Svarano~   Lai. (inchinandosi in umile atteggiamento)  Alla regina messaggier m'invia  li consesso dei prenci e dei guerrier. Ama. Parla, signor.   Lau. Nella parola mia   De' tuoi fedeli udrai franco il pensier!  Una nemica parricida mano  A noi il re, a te toglieva il figlio.  A che celarlo? Il tradimento insano  Cinge il trono di lutto e di periglio.  (marcato) Di questo scettro che ora stringi puoi  L'immane pondo sostener tu sola?  il  Ama. Mal t'intendo, guerrier... Da me che vuoi?   Oscura giunge a me la tua parola.  Lau. Su quel trono a te d'accanto Cinga un prence la corona. Se fìnor la madre ha pianto, La regina or dee regnar.  Ama. (quasi parlando a sé stessa. Dunque, o schiava, tergi il pianto! Su, di fiori t'incorona! Pronta è 1' ara; non di pianto,   Questa è l'ora d'esultar! Di mio figlio dal letto di morte   Voi volete condurmi all'aitar?   Sceglier dunque m?è forza un consorte,   Queste bende funèree squarciar?  Sva. E possente adorata re ina   Sovra i Goti regnar tu potrai; Poiché salva da certa rovina In tal guisa l'Italia sarà.  Lau. Del sangue dei regi   Prescelto dal fato, Vi ha un prence che al trono   Sol puote aspirar.  Ama. Chi è desso? rispondi!  Lau. S'appella Teodato.   Ama. Teodato dicesti? (da sé) Mi sento mancar! Lau. Neil' ombra e nel silenzio,   Solo col suo pensiero,   Visse del mondo immemore, Fido alla patria e al re. Non è guerrier, ma a reggere   Il contrastato impero, l fidi tuoi ten pregano, Devi innalzarlo a te! Ama. Non fia mai ! Sva. Che parli, o regina?   Ama. Io noi deggio.  Lau. Da certa rovina   Puoi tu sola la patria salvar!  Sva. Bada, o donna ! Secreta, possente  Dei Romani l'astuzia congiura.  Se sul trono regnar vuoi secura,  No, mei credi, non devi esitar.  Lau. Che risolvi?  Ama. Noi deggio. Lau. (deposto l'umile atteggiamento e minaccioso)  Al comun voto  Amalasunta ceda! -A te pon mente!  Ama. E tanto ardisci ? Parti! Lau. Ancor m'udrai ! Avvi un romano in questa corte: -ha nome  Svenoe tu 1' ami!  Ama. (da sé) (Cielo!)   Lau. (afferrandola per la mano) Incauta, trema!  Se esiti o nieghi, in questo istesso istante  Sarà Sveno dannato a orrendo scempio.  Della morte del figlio a tutti innanzi   10 qui l'accuserò. Ama. (con impeto) Menzogna infame!   Egli è innocente... e tu lo sai '  Lau. Che importa?   Sva. EGLI È ROMANO qui ciascun l’aborre il popolo è a noi ligio e speri invano. Ama. Ahimè! Sva. Risolvi. Ama. (dopo un istante d'esitazione) Ebbene... ei fìa salvato.  A me consorte, sarà re Teodato.  a 5  Sva. Dell'impero dei Goti la stella  S' oscurava nell' italo cielo.  Ma fra breve più fulgida e bella  La vedranno i nemici brillar,  E nel fango dovranno gli ignavi,  Sempre schiavi, servire e tremar! Lau. (Io trionfo! Più fulgida e bella (da sé)  La mia stella risplende nel cielo.  La perduta possanza che anelo  Sol Teodato a me puote ridar.  E nei fango dovranno gli ignavi,  Sempre schiavi, servire e tremar !)  Ama. Ahi, s'oscura, tramonta mia stella (da sé)  Che finora brillò senza velo.   Signor, tu che regni nel cielo   1 miei passi tu devi guidar,   E redenti dovranno gli ignavi,   Non più schiavi, al mio nome acclamar! (alle ultime parole Sveno compare in fondo alla scena. Lausco e Svarano escono gettando su Sveno uno sguardo  di trionfo)    Aniala«uiita e Sveno. Sve. Grida di gioia risuonar qui sento.  Ama. (Ah, tutto ignora.) [da sé)  Sve. Eppure d' Alarico   L' inulta salma nell' ave! non scese.  Ama. Chi del figlio a me parla?... In queste soglie  Sanguigna luce spanderan fra breve  A sacrileghe nozze le votive  Faci d'Imene. - A che mi guardi ? Il fato  A me 1' impone ; sarà re Teodato.  Sve. (arretrando con grido di dolore) Ah!   Ama. Tu piangi? Io asciutto ho il ciglio.  Mai non piange una regina.  Della patria nel periglio  Ogni affetto tacer de.  Quel poter che mi trascina  D'altro amore è in me più forte,  Affrontar saprei la morte. Se la patria il chiede a me.  Sve. »Tu spezzasti mie catene,  «Vita, onori a te degg' io. Ogni avere ed ogni bene  »Che beasse il pensier mio.  Tutto è sciolto. - Un dì saprai  Se t'amò quest'infelice,  Ma quel giorno, o traditrice,  Io vederlo non potrò.  Alla tomba or mi trascina  Questo amor di me più forte,  Sotto i colpi della sorte  L'alma affranta si spezzò! (si ode il suono di una marcia funebre)   Coro esterno   (Neil' avello dei padri discendi  Dormi in pace, figliuolo dei re.  Prega il ciel che i presagi tremendi  Sian dai Goti sviati per te.  La tua vita ha troncato il destino,  Sulla reggia or si libra il dolor.  Piombi almeno lo sdegno divino  Sovra il capo all'infame uccisori)  Ama. (con voce straziante) Ah... quelle voci!... Son le preci estreme.  Sovra la tomba di mio figlio... Io manco. (lasciandosi cadere quasi svenuta sopra una sedia)  Sve. (con disperata ironia)   In te ritorna. Le funeree faci  Alle tue nozze pronube, domani  Risplenderanno! In te ritorna! Esulta!  CORO esterno (allontanandosi gradatamente)  (Nell'avello dei padri discendi,  Dormi in pace, figliuolo dei re.  Prega il ciel che i presagi tremendi  Sian dai Goti sviati per te.  La tua vita ha troncato il destino,  Sulla reggia or si libra il dolor.  Piombi almeno lo sdegno divino  Sovra il capo all' infame uccisori)  Ama (quasi in delirio) Dove sono? Ah, già fissato,  Scritto in cielo è il fato mio! Non dagli uomini, da Dio,  La pietà sperar si de!  Sve. Tu dagli uomini, da Dio,  Maledetta sei da me!     Una sala nel Castello di Pavia. — Una porta in fondo.  Teodato solo.   Teo. E ancor non riede... Inebbriante meta  Cui da tanti anni ascosamente anelo,  Splendida larva di mie notti, alfine  Io ti raggiungo! Pur mi costi! A mezzo  Volgea la notte, ed io sognava... ahi, truce  Terribil sogno! - Mi cingea la chioma  La corona regale, e sovra il trono  D'Amalasunta al fianco io m'era assiso  Al sinistro chiaror delle pallenti  Faci di morte... e innanzi a me sorgea  Dell'ucciso Alarico insanguinato  L'orrido spettro, e mi guardava come  Quando nei petto il suo pugnai gli infisse  Lausco!... e con la man parea dal soglio  Strapparmi a forza!... ed io tremava. - Oh vile  Debolezza dei core!... D'un delitto  A me che monta, se ciascun l'ignora?  No, più non tremo. - Già la notte sparve  E con essa svanir fantasmi e larve!  Nei cupo orrore di notte bruna  Quando la luce nel ciel fuggì,  Fosca sibilla fin dalla cuna  A me lo scettro predisse un dì.  E da quel giorno speme funesta  Per anni ed anni rinchiusi in cor;  E nel silenzio d'aspra foresta  Solo, spregiato, vissi fìnor.  Sangue mi costa quel serto, è vero:  Ma la mia sorte compir si de. Colpe e delitti sprezza il pensiero  Se ad essi è premio poter di re.  Se al soglio stendere la man poss'io  Che a me il destino - vaticinò,  Sui vinti popoli - lo scettro mio  Dall'Alpi al Brennero distende. Laureo, £ varano e Teodato.   Lau. Possente è quest'oro che tutto conquide!  Teo. Che rechi?   Sva. Trionfi ; - la sorte ci arride.   L\u. La credula plebe venduta esultò.   Il trono or t'aspetta.  Teo. Calcarlo saprò.   Lau. «Ma pria che tu cinga la chioma del serto,  »0 prence, rammenta chi un trono t'ha offerto.  «Dell'opra tremenda qual premio sperai,  «Teodato, scordarlo potresti? Teo. Giammai. Sva. Non scordar quella notte e il pugnale che nell'ombra celato ferì. Lau. Non scordar che un destino fatale nello stesso delitto ci unì. Teo. Io la mente, le braccia voi siete in quest'opra di sangue e d'orror;  Se compirla, o guerrieri, saprete  A voi dono possanza e tesor! Cadde Alarico. Ma quel sangue è poco, Altri deve saziar l'ira del seno. Lau. Altri?... t'intendo. Teo. Amalasunta e Sveno. Nella pianura di Pavia, commosse  S'adunano le turbe.Amalasunta Oggi il serto mi cinge! Sva. I miei guerrieri io stesso condurrò. l jA u. Popolo e prenci A1 tuo trionfo acclameranno.  Sva. Quando   L'ora fìa giunta, la fatale accusa  Profferisca il tuo labbro! AU - A noi la cura Lascia del resto.  Teo. La superba donna   Ed il suo drudo, d'uno stesso colpo  Atterrati cadranno. - mia vendetta! Ad essi morte...  ^AU. Il soglio a te s'aspetta.   Teo., Lau. e Sva. (a tre)   Sol d'Italia, di luce funesta  Splendi in questo bel giorno sereno.  L'atra gioia che m'arde nel seno,  La mia sorte rischiara così.  Potrò alfine, a me intorno prostrata,  Calpestarti, empia turba di schiavi.  Vili e ignavi! Già l'ora è sonata,  Di vendetta già corrono i dì.  (partono per opposti lati) La gran pianura di Pavia: si scorge a grande lontananza la città  presso a cui scorre il Ticino, e più lontano ancora la ca-  tena degli Appenini. Da un lato s'innalzerà un trono for-  mato di trofei d'armi.   Sveno, indi Gualtiero. GuA.Chi veggio? Sveno in questo loco? stolto!   Fuggi! t'invola ai colpi della sorte! Altro scampo non hai... Taci?  Sve. Io t'ascolto.   Non ti comprendo.  Oua. E che mai speri?   Sve. Morte!   Agli infelici altro non resta in terra.   Così tradirmi!... Iniqua donna! Gua. E sei   Uomo... e guerriero!  Sve. Un dì lo fui! - M'atterra   Or la sventura. - Ahimè!... perchè vivrei?...  (con 'profonda tristezza)  Della sua fede immemore  E dell'amor giurato,  Essa i legami infrangere  Volle del mio passato.  Ma nel troncar quei vincoli  Ch'eterni io pur credea,  Senza pietà la rea  Anche il mio cor spezzò.  Fonte d'amare lagrime  È l'avvenir, lo sento. Verranno per la misera  I dì del pentimento.  Ma di quel giorno infausto,  Forse lontano ancora, La sanguinosa aurora,  Gualtiero, io non vedrò!  [squilli di trombe; sì comincia a sentire in lontananza il suono   di una marcia trionfale che si va sempre più avvicinando)  Gua. Odi?  Sve. {con rabbia) Ei trionfa! Folgori Non ha per gli empi il cielo!  Or gli omicida ammantansi  Della virtù col velo.  Gua. Che parli?   Sve. Un fero dubbio   Mi tormentava il petto.  Ora in certezza cangiasi  L' orribile sospetto.  Gua. Che far vorresti?   Sve. Nulla.   Io spettator - qui resto.  Gua. Ti uccidi!   Sve. Il voto è questo   Più ardente del mio cor! Al suono di marcia trionfale si avanzano i guerrieri, i principi,  i sacerdoti, i congiurati, il popolo.Indi preceduti da una  schiera di guardie Amalasunta e Teodato rivestiti  delle insegne reali; poi Lausco, Starano ed altri guer-  rieri. Sveno e Gualtiero si confondono tra la folla; il  popolo manda grida festive.   Coro generale   Giunta è l'ora - dei Goti la stella   S'oscurava nell'italo cielo;   Ma fra breve più fulgida e bella La vedranno i nemici brillar. E nel fango dovranno gli ignavi   Sempre schiavi - servire e tremar!  Lau., Sva. e Congiurati (a bassa voce tra di loro)  (Nel silenzio, nell'ombra celati   Già a piombare la folgore è presta...   Dee quel serto di luce funesta Di Teodalo sul capo brillar. Pronti all'opra; già l'ora è suonata;   Gli empi schiavi dovranno tremar!)  Ama. Popolo e prenci, udite il mio pensiero   Or tutti voi che a me giuraste fé,   Del mio talamo a parte e dell'impero Ognun saluti in Teodato il Re!  Tutti Viva, viva Teodato! Rintroni TUTTA ITALIA DI CANTI E DI SUONI E dei Rardi l'accento ispirato dica al mondo i dettami del fato. Teo. (in piedi sul trono)   Su, mescete in colmi nappi! La mia gioia ognun divida.   Ogni volto qui sorrida   Del contento del suo re! Lau. Sva. e Coro   Su, libiamo e repente rintroni  Tutta Italia di canti e di suoni ;  E dei Bardi l'accento ispirato  Narri al mondo i dettami del fato!  Sve. (slanciandosi di mezzo alle turbe Or tutti ascoltatemi:  Vo' bevere anch'io! Le tazze spumeggiano,  Esulta il cor mio.  Qui dove è sepolta  La salma tradita,  Unirò, i sacrileghi,  La morte alla vita!  Ama. Sciagurato!   Teo. Quai detti! Che sento!   Tutti Vanne, fuggi: raffrena il tuo accento!  Sve. Di cantici e suoni (con impeto)   Rintroni la reggia,  Il vin che rosseggia  È sangue d'un re!  Su, datemi un calice,  Lo vuole il destino;  Al prence assassino (additando Teodato)  Bevete con me!...  Teo. (alzandosi furibondo)   Ah... è troppo! - Guerrieri! Addotto in ceppi  Ei venga, e tosto sia dannato a morte!  Ama. (gettandosi ai piedi di Teodato)   Deh, pietade, pietà della sua sorte!  Ei delira, infelice.  Guerrieri e Popolo A morte! A morte!  Teo. (con voce terribile respingendo Amalasunta)  Per lui preghi? Invan lo speri.  Temi or tu lo sdegno mio.  Tutti io leggo i tuoi pensieri,  E tuo sposo e re son io!  (* guerrieri si slanciano contro Sveno)  Ama. Deh, fermate, o ciel. Teo. Popolo!   Sve. indegno! Teo. L'ultima ora per gli empi suonò! donna, io t'accuso! (ad Amalasunta)   (al popolo) Per sete di regno  Del sangue del figlio costei si macchiò !  Ama. cielo, e tu il soffri!?  Lau., Sva. e Congiurati (tumultuando)   Discenda dal trono!  Di cingere il serto più degna non è!  Sve. Ah, l'empio trionfa!  Tutti Non speri perdono!   Discenda dal trono!  Congiurati Teodato fia re! Ama. (strappandosi la corona e calpestandola)  M'uccidete! il patibolo è presto.  Ecco il serto... ai miei pie lo calpesto!  Ma tu, vile che esulti, paventa!  Già la folgore piomba su te!  Sve. Sì, m'uccidi ! Ma larva cruenta (a Teodato)  Me nei sogni, alle veglie vedrai!  Sì, m'uccidi, ma ovunqne ne andrai  Ombra irata verronne con te!  Teo., Lau., Sva., Congiurati e Coro   Traditori, tremate! Egual sorte  Vi riserba al supplizio, alla morte!  Empii entrambi! Tremendo, funesto,  Vi colpisce lo sdegno del re!  (Amalasunta e Sveno sono trascinati dai guerrieri, mentre  il popolo ed i Congiurati acclamano Teodato.)  Sala semidiroccata di un castello sul lago Trasimeno. In fondo  a destra una scalinata conduce alla terrazza di una vecchia  torre da cui traspare un lembo di cielo, solcato da neri nu-  voloni. - A sinistra pure sul fondo due porte le quali apren-  dosi lasciano vedere il lago. - È notte tempestosa. Una lam-  pada rischiara debolmente la scena. Amalasunta seduta, immersa in un cupo silenzio:  alcune Damigelle le stanno intorno.   Dam. (parlando fra loro)   Oh, come rugge la tempesta. Udite? Con sinistro fragor, del lago i flutti  Solleva il vento sibilando, e l'etra  La folgore rischiara...  Ama. Ahi... triste idea! Dam. Favella seco stessa... Ah, la ragione  L'infelice smarriva, il dì fatale  Che qui all' esiglio la dannar.  Ama. Lo sento...   Me chiama il figlio... e, nel lenzuol funebre  Avvolto, un uomo gli è d'accanto..: oh il veggio!  Sveno... Sveno tu sei! Che parli? E puoi  Maledirmi così? Ah no, non fìa! Troppo il vivere è grave all'alma mia! Dam. Geme e soffre... l'atroce sventura [fra loro)  Di sua mente il sereno offuscò.  Così buona, sì candida e pura  Già tremendi dolori provò, (le Dam. partono)  Ama. (inginocchiandosi)   Signor, che col sangue hai redento  Dei mortali feroci il destino,  D'una misera ascolta il lamento,  Su lei volgi lo sguardo divino.     Figlio, amici, corona perdei!...  Deh, mi togli, o Signor, questa vita.  Tu che padre pei miseri sei,  Deh, perdona alla donna tradita!  (si sente un fragore d'armi che va sempre -più avvicinandosi)   Sveno seguito da alcuni guerrieri romani ed Amalasuitta.  SvE. (accorrendo ad Amalasunta)   Ti riveggo... oh gioia!  Ama. (indietreggiando con terrore) Ognora  La sua larva appar così. Sve. Di salvarti è tempo ancora. Per salvarti io venni qui!  Oh quante montagne stanotte ho varcato,  Per aspri sentieri, dei lampi al chiarori Tra gli ermi dirupi la mano del fato  »I passi guidava del mio corridori  Coll'oro corruppi gli sgherri inumani;  Dell'empio i disegni svelarono a me...  Fra poco a svenarti verranno gli insani.  Qui corsi a salvarti o morire con te.  Ama. Deh, taci! Vaneggi che parli di morte?   Quest' oggi serena ci arride la sorte.  Sve. (con affetto e rapidamente)   Vieni... fuggiam! Propizia  É la tempesta a noi.  Vieni... i miei fidi attendono,  Salvare ancor ti puoi!  In altre terre profughi  Scampo securo avremo.  Là, ignoti al cielo e agli uomini,  Vivere ancor potremo!  (dal fondo entra Gualtiero)  Ama. (sempre delirando e sorridente)   Taci... che l'onda aspetta. Azzurro è il ciel sereno. Sull'agile barchetta, Vieni, ci culli il mar' Vedi, soave e placido  Tramonta il sole, o Sveno. Della mia vita il tramite  Voglio così troncar!  Sve. (disperatamente)   Infelice!... non m'ode... o sventura!  Ah, ritorna in te stessa!...  Gua. (che in quel frattempo avrà spiato dalla porta in capo  allo scalone, accorrendo rapidamente)   V affretta!  Già d'armati risuona il fragor!  Sve. (tentando trascinare Àmalasunta) Vieni, ah vieni. Ama. La lieve barchetta. Sovra il mare ci culli. Gua. Oh terror!   Sve. A forza si tragga! Alcuni Romani (accorrendo da una porta laterale)  È tardi! t'arresta!  Già cinto è il castello.  Sve. La morte ci resta!   Coro di Goti (interno)   S'atterrin le porte!  Gua. Più speme non v'è!   Sve. (sguainando la spada)   Guerrieri, a pugnare venite con me!  {Sveno getta un ultimo sguardo sopra Àmalasunta quasi  assopita, e parte con Gualtiero ed i guerrieri)   Si ode il lontano cozzo delle armi ed il fragore della pugna.  Damigelle accorrendo atterrite.   Dam. Regina, regina. Deh, sorgi... ti desta;   Non odi dell'armi la furia funesta?  Ama. Voi piangete?... sul mio ciglio   Ora il pianto inaridì...   (t7 rumore si va sempre più avvicinando)  Non sapete? Aveva un figlio. Era bello... eppur morì. Molti ROMANI attraversano la scena fuggendo nella mas-  sima confusione e gridando)  Guerrieri romani   Fuggite! I nemici già infranser le porte!...  Fuggite! v' attende terribile morte.  (partono; le donne fuggono anch'esse; la scena resta deserta)  Ama. (sempre immobile e sorridente)   Dalla madre l'han diviso;   Poca terra il ricoprì.  E la madre dell' ucciso  Più non piange da quel dì!...  (il fragore della mischia è al colmo. Sveno mortalmente  ferito si precipita sulla scena, e va a cadere ai piedi  di Amalasunta.Sul limitare della porta in fondo  compare Teodato colla spada sguainata, seguito da  Lausco e Svarano.)  Amalasunta, Sveno» Teodato, Lausco, Svarano.   La scena è rischiarata dai lampi.   Ama. (nel vedere Sveno moribondo, quasi destandosi da un  sogno)  Tu Sveno!... che miro?...  Sve. (con voce morente) Salvarti. voli' io. L'estremo sospiro... tu accogli del cor. Ama. (alzando le mani al cielo disperatamente)   morte, a che tardi?  Teo. (con feroce ironia, avanzandosi)   Fia pago il desio!...  La morte che chiedi, io t'arreco!  Sve. (tentando sollevarsi) Oh furor !   Teo. Col tuo drudo ai danni miei  Qui tessevi inganni ancora. In mia possa alfine or sei...  Di tua morte è giunta l'ora!...   (sguainando il pugnale)   Questo ferro, ah tu noi sai,  Il tuo figlio uccise un dì!  [Sveno con supremo sforzo a/ferrando la spada si solleva  per slanciarsi su Teodalo, ma fatti alcuni passi ricade  al suolo e muore, - La tempesta rumoreggia colla mas-  sima violenza)  TEp. {gettando il suo pugnale ai piedi di Amalasunta)  Or lo prendi. - A te il serbai,  Or che il fato si compi !  Ama. (afferrando il pugnale e sollevandosi in tuono profetico  e solenne)   Godi!... ma ascoltami:  Vicina a morte,  Io la tua sorte  Predico a le!  Ancora un anno...  Poscia al cospetto  Del cielo - giudice  T aspetto - o Re!  (si uccide e va a cadere presso il cadavere di Sveno.)  Lau., Sva.   Un anno!  Teo. (tremante) I delitti han forse un confine   Che il piede dell'uomo varcare non può?.Guerrieri Goti (prorompendo sulla scena con faci ed armi  insanguinate)  Del sangue degli empi-rosseggian le sale;  Già cadder svenali -dal nostro pugnale,  E il popol di schiavi - che Italia rinserra  Fra i re della terra - Teodato acclamò! Alberto Burgio. Keywords: dialettica ostrogota, filosofia ostrogota, filosofia aria, filosofia occidentale – Grice: the east and west --. “Those in a position to know” ostrogoto, longobardo, ario, ariano, mistica, scuola di mistica, lingua, religione, l’italia longobarda, l’italia ostrogota --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Burgio” – The Swimming-Pool Library. Burgio.

 

Grice e Burtiglione.

 

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