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Tuesday, January 14, 2025

GRICE ED AOSTA

 

Grice ed Aosta: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di dio in gioco -- logica e sovversione – la scuola d’Aosta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Aosta). Filosofo italiano. Aosta, Valled’Aosta. Grice: “I like Aosta; my favuorite piece of his philosophising is strangely nott he one on paronymy – or the worn-off paralogism on God’s existence; rather, the more obscure “De casu primi angeli,’ on the fall of the most beautiful angels of all! And more seriously – the previous ‘de casu diaboli’ – his rambles on ‘Dialectica’ – or dialettica, as the Italians prefer; you see axioma was Elio Gelliio thinks in “Notti attiche’ – and Varrone – the ‘proloquium,’ from ‘proloquor’ of course – the ‘pro’ suggests something like a ‘prae-miss’ – This is all very stoic, but we are not sure if Aosta knew this!”  Grice: “Aosta would of course be familiar with Augustin’s De Dialectica, where ‘proloquium’ means ‘pro-positio,’ something Quine abhorred!” -- Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta– Canterbury), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI. Sant'Anselmo d'Aosta Anselm statue canterbury cathedral outside Una statua di Anselmo d'Aosta collocata all'esterno della cattedrale di Canterbury.   Arcivescovo di Canterbury, santo e dottore della Chiesa    Nascita Aosta MorteCanterbury Venerato da Chiesa cattolica e Chiesa anglicana Canonizzazione Autorizzazione all'elevazione del corpo concessa da Papa Alessandro III Attributibastone pastorale[1] e nave. Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta – Canterbury), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Una targa a memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta casa natale ad Aosta, via Sant'Anselmo.Anselmo nacque a (o nei pressi di) Aosta, allora parte del regno di Arles  al confine con la Lombardia. La sua era una famiglia nobile, anche se in declino,[9] imparentata con la casa Savoia[10] e con ampi possedimenti terrieri. Suo padre, Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un longobardo, apparentemente molto dedito agli affari e non particolarmente affettuoso verso il figlio; sua madre, Ermemberga (o Eremberga),[11] apparteneva a un'antica famiglia nobile burgunda ed era legata da rapporti di parentela a Oddone di Savoia; risulta che fosse una madre di famiglia pia e virtuosa. Fin da bambino Anselmo espresse un forte sentimento religioso e un'altrettanta forte sete di conoscenza; il suo biografo Eadmero di Canterbury riferisce che, vivendo in una zona montuosa, il giovinetto si formò l'ingenua convinzione che il paradiso, in cui Dio stesso doveva risiedere, si trovasse in cima alle montagne.A. venne affidato a un istitutore, suo parente, che però si rivelò tanto severo da produrre in lui uno stato di infermità, dal quale guarì lentamente grazie alle cure materne. La sua educazione successiva venne affidata ai benedettini di Aosta.[1] All'età di quindici anni Anselmo espresse il desiderio di diventare monaco; il padre tuttavia, fermamente intenzionato a fare del ragazzo il proprio erede, si oppose a questa decisione e i monaci del convento locale, non volendo contrariare Gandolfo, respinsero la domanda d’A. La delusione e la frustrazione per il rifiuto causarono una forte reazione nel giovane, che, sempre secondo il biografo, pregò Dio di ammalarsi in modo tale da impietosire i monaci e convincerli così ad accoglierlo; una crisi psicosomatica effettivamente si verificò, ma questo non bastò a far sì che Anselmo venisse accettato nel monastero.[12] In seguito l'ardore religioso del giovane si raffreddò e, benché egli rimanesse intenzionato a ottenere il suo scopo in un futuro più o meno lontano, poco alla volta le passioni mondane lo coinvolsero e, soprattutto dopo la morte della madre (che avvenne nel 1050),[5] si dedicò sempre più spesso a interessi di carattere materiale.[12] Nel frattempo i suoi rapporti con il padre si facevano sempre più tesi, e infine, all'età di ventitré anni,[8] Anselmo partì, accompagnato da un servo, con l'intenzione di oltrepassare il colle del Moncenisio alla volta della Francia. Superate le Alpi, Anselmo e il suo compagno girovagarono per tre anni tra la Burgundia e la Francia prima di giungere ad Avranches, in Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo venne a sapere dell'abbazia benedettina che era stata fondata a Bec nel 1034, dove insegnava il famoso dialettico Lanfranco di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco vi si recò, riuscendo nel 1060 ad esservi ammesso come novizio.[Il ventisettenne Anselmo si sottometteva così alla regola benedettina, che nel corso del decennio successivo ne avrebbe influenzato significativamente il pensiero. L'abbazia di Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I progressi di Anselmo negli studi furono rapidi e brillanti e il giovane entrò presto nelle grazie del maestro, tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne nominato abate dell'abbazia di Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo intrapreso la vita monastica da appena tre anni) venne eletto a succedergli quale priore dell'abbazia di Bec.Alcuni dei monaci più anziani, ritenendosi maggiormente in diritto di ricoprire la carica di priore, si considerarono offesi dalla sua promozione; tuttavia ben presto le sue doti di cortesia, il suo senso della misura nel gestire la carica e le sue competenze di insegnante gli valsero l'affetto di tutta la comunità monastica.[12]  Nei quindici anni in cui fu priore a Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla sua carica e l'aspirazione all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era solito rimanere desto durante la notte, impegnato nella preghiera o nella scrittura. Risale infatti a quegli anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua attività di scrittore, che aveva principalmente il fine di munire i suoi allievi all'interno del monastero (ma anche alcune nobildonne laiche al di fuori di esso) di testi su cui meditare e pregare. La composizione di due delle sue opere teologiche più rilevanti, il Monologion (Soliloquio) del 1076 e il Proslogion (Colloquio) del 1078, avvenne proprio in quel periodo. Nel 1078, alla morte del fondatore dell'abbazia di Bec, Erluino, Anselmo gli succedette come abate venendo consacrato il 22 febbraio 1079 dal vescovo di Évreux. Fu con riluttanza che Anselmo accettò la carica, che avrebbe comportato ulteriori responsabilità e doveri sottraendogli tempo alla riflessione e alla preghiera; la resistenza di Anselmo fu vinta dalle insistenze unanimi dei confratelli.[1]  Anselmo fu molto apprezzato come abate per via del suo acume, della virtuosità con cui conduceva la sua vita e della sua capacità di rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e fuori il monastero; la nuova carica lo portò a stringere rapporti con l'Inghilterra, dove l'abbazia normanna aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino a Canterbury, di cui Lanfranco era diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare dalla nobiltà e dalla corte inglesi, oltre che dallo stesso re Guglielmo il Conquistatore; divenne così il candidato naturale a succedere a Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17] A. fu anche costretto a battersi per conservare l'indipendenza dell'abbazia di Bec dalle autorità civili ed ecclesiastiche. Nonostante la rilevanza dei suoi impegni di amministratore e di guida, e la puntualità con cui li assolveva, Anselmo rimase per tutta la vita innanzitutto un intellettuale:[3] nel periodo in cui fu abate di Bec portò avanti una significativa attività pedagogica e didattica e, tra il 1080 e il 1085, compose il De grammatico (Sul significato della parola "grammatico") e i tre dialoghi sulla libertà, il De veritate (Sulla verità), il De libertate arbitrii (Sulla libertà della volontà) e il De casu diaboli (La caduta del diavolo).[19] Sotto Anselmo, Bec divenne uno dei centri di studio e insegnamento più importanti d'Europa, attirando studenti da tutta la Francia, dall'Italia e da altri Paesi. La cattedrale di Canterbury, sede dell'arcivescovato di Canterbury, in un'incisione del 1821. Quando, nel 1089, morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II d'Inghilterra confiscò i possedimenti e le rendite della sede arcivescovile di Canterbury e si astenne dal nominare un successore di Lanfranco. Anselmo, che pure desiderava tenersi lontano dall'Inghilterra per non far pensare che aspirasse al ruolo vacante di arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di Ugo d'Avranches a recarsi oltremanica nel 1092. Fu costretto a trattenervisi per quasi quattro mesi, e in un'occasione, giungendo in Canterbury alla vigilia della Natività della Beata Vergine Maria, venne salutato entusiasticamente dalla folla come prossimo arcivescovo; quando ebbe esaurito i suoi impegni, il re gli negò il permesso di rientrare in Francia. Nel 1093, però, Guglielmo cadde gravemente malato ad Alveston e, desideroso di fare ammenda per la condotta peccaminosa alla quale attribuiva la causa del suo male, ordinò che Anselmo venisse nominato arcivescovo di Canterbury all'inizio di marzo. Nei mesi successivi, tuttavia, Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo di non essere adatto, in quanto monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e adducendo come scuse anche l'età e alcuni problemi di salute. Il 24 agosto Anselmo sottopose a Guglielmo le condizioni alle quali avrebbe accettato l'arcivescovato (condizioni peraltro in linea con il programma della riforma gregoriana): che Guglielmo restituisse le terre confiscate; che accettasse la preminenza di Anselmo sul piano spirituale; che riconoscesse Urbano II come Papa, in opposizione all'antipapa Clemente III. Guglielmo era estremamente riluttante ad accettare tali richieste e, benché la situazione favorisse Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere solo alla prima. Arrivò al punto di sospendere i preparativi per l'investitura di Anselmo, ma infine, sotto la pressione della volontà pubblica, fu costretto a portare a termine l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia ad accordarsi con Anselmo raggiungendo un compromesso vantaggioso per la monarchia: la restituzione delle terre rimase l'unica concessione fatta dal re all'arcivescovato. A. ottenne dunque il consenso dei suoi ex confratelli ad essere dispensato dai doveri che lo legavano all'abbazia di Bec, rese l'omaggio feudale a Guglielmo, e il 25 settembre 1093 si insediò a Canterbury, ricevendo le terre precedentemente confiscate all'arcivescovato; il 4 dicembre dello stesso anno venne consacrato arcivescovo di Canterbury.[24]  È stato messo in dubbio che la riluttanza di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera: mentre studiosi come R. W. Southern sostengono che avrebbe davvero preferito rimanere a Bec, altri, come Sally Vaughn, sottolineano che una certa recalcitranza nell'accettare importanti posizioni di potere ecclesiastiche era d'uso nel Medioevo, dal momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il desiderio di succedere a Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato un ambizioso carrierista; inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva gli obiettivi di Guglielmo e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il suo eventuale arcivescovato oltre che per il movimento riformista gregoriano.[26]  Arcivescovo di Canterbury sotto Guglielmo II Scena raffigurante Anselmo costretto quasi a forza ad accettare il bastone pastorale, simbolo della carica di vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra gravemente malato. Prima ancora della fine di quello stesso anno 1093 ebbe luogo uno dei primi conflitti tra Anselmo e Guglielmo: il re era in procinto di avviare una spedizione militare contro suo fratello maggiore, Roberto II di Normandia, e avendo bisogno di fondi aspettava una donazione dall'arcivescovo di Canterbury; Anselmo mise a disposizione 500 sterline, che il re rifiutò chiedendo una somma due volte maggiore. Più tardi, un gruppo di vescovi convinse Guglielmo ad accettare la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere di aver già donato il denaro ai poveri. Quando si recò ad Hastings per benedire la spedizione che si accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo rinnovò le pressioni volte a tutelare gli interessi di Canterbury e della Chiesa inglese, oltre che, più in generale, a riformare il rapporto tra Stato e Chiesa secondo la visione della «teocrazia pontificia» espressa da papa Gregorio VII: Anselmo concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la sua autonomia e autorità, dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua missione e per la sua investitura; questo andava in direzione opposta rispetto alla visione di Guglielmo la quale, in continuità con quanto già sostenuto dal suo predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato che sulla Chiesa. La figura di A., in effetti, è vista dagli storici tanto come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come quella di un politico intelligente e capace, determinato a conservare i privilegi della sede episcopale di Canterbury. Nuovi attriti sorsero subito dopo, quando, come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il pallio dalle mani del Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel periodo, infatti, la legittimità di papa Urbano II era messa in discussione dall'antipapa Clemente III. Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato esplicitamente l'autorità di papa Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV di Franconia, si era fatto eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da coloro che rimasero fedeli a Gregorio e ai suoi successori come "Antipapa". Guglielmo vietò ad Anselmo di partire per Roma, dove si trovava la sede di Urbano II, riconosciuto dal regno di Francia così come da Anselmo stesso; non sembra che il re d'Inghilterra fosse incline a riconoscere l'autorità di Clemente III, ma insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo di Canterbury di partire per Roma fosse subordinata al suo riconoscimento ufficiale di Urbano II, riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la questione venne convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno in cui Anselmo, tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile della dottrina della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come unico vero successore di Pietro. Il concilio nazionale di Rockingham, che fu un momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la questione dell'investitura rimase insoluta. Anselmo, allora, inviò in segreto a Roma alcuni messaggeri. Urbano II, in risposta, mandò a Canterbury un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad Anselmo in sua vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la questione, e infine il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in cambio del diritto di autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di ricevere lettere del papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più alcun legato se non su esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che Anselmo venisse deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II senza che ci fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di Canterbury. Il re tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del pallio, ma senza esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare personalmente il pallio all'arcivescovo, ma anche questo gli venne negato: si raggiunse un compromesso facendo in modo che Gualtiero, in rappresentanza del Papa, deponesse l'oggetto sacro sull'altare della cattedrale anziché consegnarlo ad Anselmo con le sue mani; Anselmo indossò quindi da solo il pallio nel corso di una cerimonia solenne che si tenne nella cattedrale di Canterbury nel giugno 1095. Nei due anni successivi non ci furono aperte dispute tra Anselmo e il re, anche se questi fece del suo meglio per impedire che Anselmo portasse avanti una riforma della Chiesa in senso gregoriano. Nel frattempo, nel 1094, Anselmo aveva ultimato la composizione dell'Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull'incarnazione del Verbo), il cui dedicatario era proprio Urbano II. Dopo l'insuccesso di una campagna militare diretta a sedare una rivolta in Galles, Guglielmo accusò Anselmo di avergli fornito una quantità insufficiente di truppe e gli ordinò di comparire presso il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò e chiese al re di potersi recare a Roma per chiedere consiglio al Papa, ma ciò gli venne negato. Nel corso di un negoziato che si tenne a Winchester, Anselmo venne messo di fronte a due possibilità: partire, ma in questo caso non avrebbe più potuto fare ritorno al suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma avrebbe dovuto pagare un risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore appello a Roma. Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non sottomessa ad alcuna autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097 lasciò l'Inghilterra diretto a Roma. Guglielmo si impossessò immediatamente delle rendite della sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente Anselmo conservò la carica di arcivescovo. Primo esilio  Ritratto di Anselmo nel Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in dicembre, e passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di Romans; nella primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio in compagnia di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal Papa con grandi manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva essere coinvolto più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a Guglielmo II, non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una lettera di rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica. Anselmo passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora abate del monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur Deus homo (Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in Inghilterra.  Incisione della prima metà del XVI secolo raffigurante Anselmo d'Aosta. Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua, dove fu raggiunto da papa Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari un concilio destinato a risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa greca a proposito della processione dello Spirito Santo; più in generale, tra gli obiettivi del sinodo era quello di ricondurre a una comune posizione teologica i due grandi ceppi ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del 1054. Ad Anselmo, che già si era espresso sull'argomento nell'Epistola de incarnatione Verbi, fu chiesto di partecipare alla discussione e il Papa gli assegnò un ruolo importante nella disputa: espose infatti la posizione della Chiesa latina, secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre quanto dal Figlio, in modo così convincente da risolvere la disputa e persuadere i rappresentanti della Chiesa greca (i suoi argomenti in seguito sarebbero stati raccolti nel testo De processione Spiritus Sancti, Sulla processione dello Spirito Santo). Anche il caso individuale di Anselmo venne sottoposto all'attenzione dell'assemblea, la quale avrebbe scomunicato Guglielmo se non fosse stato per l'intercessione di Anselmo stesso. Anselmo e i suoi compagni, a questo punto, sarebbero volentieri rientrati a Lione, ma venne loro ordinato di trattenersi in Italia per partecipare a un altro concilio, che doveva tenersi a Roma verso il periodo di Pasqua del 1099. Durante questo sinodo venne nuovamente ed energicamente sottolineata la posizione della Chiesa contro l'investitura del potere spirituale da parte dei laici, contro la simonia e contro il concubinato dei religiosi. A Roma si verificarono ulteriori attriti tra Urbano II e Guglielmo di Warelwast, rappresentante di Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove minacce di scomunica al re se Anselmo non avesse riottenuto la sua carica; tuttavia, ancora una volta, la questione venne rimandata e, a causa della morte di Urbano in luglio, rimase di fatto insoluta. Infine, nel corso dello stesso anno 1099, Anselmo poté tornare a Lione; durante il soggiorno in questa città portò a compimento il trattato De conceptu virginali et originali peccato (Sull'Immacolata Concezione e sul peccato originale) e la Meditatio de humana redemptione (Meditazione sulla redenzione dell'uomo). Ritorno in Inghilterra sotto Enrico I Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di caccia il 2 agosto dell'anno 1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I, il quale invitò Anselmo a tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo consigliere. Enrico cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria rivendicazione del trono, a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore Roberto.  Di ritorno, in settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il problema delle investiture si pose subito e in modo grave: il re, che pure inizialmente era stato del tutto conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse l'omaggio feudale e che si assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad arcivescovo di Canterbury.[40] Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a queste richieste, dal momento che il papato (proprio con il recente concilio di Roma) aveva vietato agli ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di ricevere da questi l'investitura a cariche religiose. Enrico e Anselmo inviarono messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse al re di investire personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio. Nel frattempo i due riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli ostacoli al matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di Sassonia, ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per qualche tempo pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione a tale matrimonio e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova regina.[11] Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte delle truppe di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a favore di Enrico e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica, contribuì a volgere la situazione in favore del sovrano inglese, causando la ritirata del rivale.[12][41]  Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non era intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale. Un nuovo gruppo di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra diretto verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno del re nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati di Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12] Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, A. lascia l'Inghilterra. Secondo esilio A. si trattenne a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma nel periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse con Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale, ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, A. ricevette un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in Inghilterra se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le pratiche dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e dell'omaggio. Anselmo dunque rimase a Lione, dove stese il De processione spiritus sancti. A. si trattenne a Lione fino al marzo 1105, quando il Papa scomunicò Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che aveva insistito affinché il re continuasse a praticare l'investitura da parte di laici, insieme ad altri prelati investiti da Enrico o da altri rappresentanti del potere temporale, mentre si limitò, per il sovrano, a minacciare la scomunica. A., che non sperava più in un aiuto concreto del Papa, si recò in Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo personalmente di scomunica, con lo scopo di costringerlo una volta per tutte a raggiungere un accordo sulla questione delle investiture. Anche grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne revocata (cosa che A. fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette poi rendere conto a papa Pasquale II) a patto che essi tenessero sempre conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici; le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso: nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale consideravano il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di ulteriori azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana, avrebbero dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai laici. La lettera del Papa autorizzava A. anche a revocare la scomunica di coloro che erano stati investiti da laici o che a laici avevano reso l'omaggio feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina d'Inghilterra da tutti i loro peccati. Il ritorno di A. a Canterbury comunque fu rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute dell'anziano arcivescovo; il 15 agosto A. incontrò Enrico a Bec; il re aggiunse alle concessioni fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a suo tempo da Guglielmo II e promise di risarcire il clero inglese dei danni economici patiti a causa della lotta per le investiture. Così, i due si riappacificarono. Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece trionfale ritorno in Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei principi inglesi tenuta il 1º agosto risultò il "concordato di Londra", che formalizzava e annunciava pubblicamente il compromesso tra Enrico e A.: nessun vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da un laico, ma il fatto di aver reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a nessuno di ricoprire la carica di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali vacanti (alcune delle quali erano vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II) vennero assegnate, e Anselmo, riprese le funzioni di arcivescovo di Canterbury, consacrò tutti i nuovi vescovi. Anche nella fase finale della sua vita Anselmo continuò ad occuparsi dei doveri di arcivescovo e, contemporaneamente, a meditare e a scrivere testi di teologia, come il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (Sulla compatibilità della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio con il libero arbitrio). A. lavorò per innalzare il livello spirituale del regno e, in particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu inoltre coinvolto in una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di Canterbury su quella di York, disputa che non sarebbe stata superata (con la riaffermazione della supremazia di Canterbury) se non dopo la sua morte. Anselmo morì il 21 aprile 1109, mercoledì santo, e venne sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue spoglie vennero però esumate durante i disordini a sfondo religioso che ebbero luogo durante il regno di Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le tracce.  La tomba di A. all'interno della cattedrale di Canterbury. Il processo di canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso Becket (uno di coloro che ne continuarono l'opera volta a garantire l'indipendenza della Chiesa inglese dal potere politico) e venne portato a termine da papa Alessandro III nel 1163. Anselmo fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio 1720.  Pensiero Oltre ad aver svolto un importante ruolo politico nella disputa sulle investiture in Inghilterra, A. d'Aosta fu anche un pensatore di grande spessore nell'ambito della filosofia cristiana medievale, considerato uno dei principali esponenti della riflessione di area europea[3], il principale filosofo dell'XI secolo e il primo grande pensatore del Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena.  Influenze Il lavoro di Anselmo è caratterizzato da una grande originalità e sono rari, nella sua opera, i riferimenti a pensatori del passato: ciò rende difficile identificare le influenze che hanno contribuito a dar forma al suo pensiero. Posto che la fonte principale della riflessione di Anselmo è l'autorità della Bibbia, è tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel neoplatonismo cristiano di Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento; l'importanza dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi giudicata tutto sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare l'importanza rivestita da Aristotele e dal suo traduttore e commentatore Severino Boezio nel determinare certi aspetti dialettici della filosofia di Anselmo, oltre che, tra le altre cose, la sua concezione del male come privo di positività ontologica e la teoria dei futuri contingenti che garantiscono la compatibilità della prescienza di Dio con la libertà umana. L'influenza del maestro Lanfranco probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla dialettica, determinante.  Rapporto tra ragione e fede Nella riflessione di Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la ragione svolge un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana del rapporto che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la ragione e la fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la dimensione della ricerca razionale ha infatti un posto molto rilevante.  A. riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse essere necessariamente la fede nella rivelazione delle sacre scritture, e che, quindi, si dovesse credere per comprendere piuttosto che comprendere per credere ("credo ut intelligam"); in altre parole sosteneva, ispirandosi alle parole di Isaia, se non hai fede, non capirai» ("nisi credideritis, non intelligetis"), che il fondamento di ogni conoscenza dovesse provenire dalla fede, e che solo su di essa potesse innestarsi il lavoro della ragione, volto all'approfondimento e alla comprensione dei dogmi.  Anselmo tuttavia riponeva grande fiducia nella capacità della ragione di portare avanti con successo questo suo ruolo di chiarificazione e comprensione dei dati di fede: come disse il medievista francese Étienne Gilson, egli giudicava «presunzione non mettere per prima cosa la fede, negligenza non fare successivamente appello alla ragione. Dunque, benché fosse per lui impensabile sottomettere o subordinare i misteri della fede alla dialettica, cioè alla logica, Anselmo riteneva che fondandosi saldamente sulla rivelazione fosse possibile usare la ragione per approfondire la comprensione di tali misteri o, anche, per dimostrare inconfutabilmente la necessità di accettarli come tali. In effetti per lui esistevano dogmi non suscettibili di esatta comprensione razionale, come ad esempio quello della Trinità, ma riteneva che fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite ragionamenti per analogia, una parziale comprensione di tali dogmi e che, inoltre, fosse possibile provare razionalmente la necessità di abbracciarli. Una significativa espressione anselmiana, che può essere considerata il suo motto filosofico, è «la fede in cerca della comprensione. Con ciò A. intendeva riaffermare la priorità della fede e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i contenuti della rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la ragione prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la ragione. Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione, in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori evidenziano come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e legati all'ambito morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici e legati all'ambito della ricerca razionale.  Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a posteriori: il Monologion Monologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il Monologion, Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione cristiana o non vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare l'esistenza di Dio e dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di procedimenti razionali a posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo sensibile e sviluppate con procedimenti razionali). La dimostrazione dell'esistenza di Dio proposta da A. nel Monologion è di ascendenza platonica, ed è ispirata almeno in parte al neoplatonismo di Agostino d'Ippona. Il fondamentale presupposto di tale prova infatti, a parte la constatazione che le cose del mondo sono caratterizzate da gradi diversi di perfezione, è la convinzione che se le cose sono più o meno perfette (o comunque presentano una certa caratteristica positiva con grado maggiore o minore di intensità), ciò dipende dal fatto che tali cose partecipano in maniera più o meno diretta di un ente assolutamente perfetto (o che comunque possiede quella certa caratteristica positiva al massimo grado). Iniziale miniata da un manoscritto del Monologion risalente al XII secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a proposito del bene: dal momento che possiamo constatare che esistono nella realtà molti beni, diversi tra loro e buoni in grado maggiore o minore, dobbiamo secondo Anselmo dedurne con certezza che essi sono buoni in virtù di un solo principio del bene assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in diverso modo e in diverso grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé e per sé, mentre ogni altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca a un livello gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58]  Dopodiché, avendo dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene, Anselmo applica il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la stessa esistenza, così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da assoluta perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature finite ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza). Secondo Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il processo di causazione degli enti da un essere primo. La seconda parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi degli attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio. Alcuni di questi attributi divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di tutti gli esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena esposto. Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli attributi di Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio, anche le caratteristiche di eternità e intelligenza. Alla luce del carattere creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone poi una rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo), tradizionalmente inteso come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e come intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica era intermediario tra l'Uno e il Mondo. A. giunge alla conclusione che ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di Dio. Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature. Anselmo, discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o Logos) umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini delle cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più aderiscono alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce l'essenza delle cose, e le cose sono modellate su di esso. La terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana dell'amore. In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che formano una sola essenza e una sola divinità; questo può essere reso più comprensibile alla ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana: come l'anima umana, pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre facoltà (memoria, intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente unitario, si compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo). L'autore analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone di considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di tutte le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le caratteristiche che è meglio avere piuttosto che non avere. Con ciò, Dio comunque possiede tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri principi; inoltre la molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio sia composito, dal momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con tutti gli altri e con la stessa essenza divina in una suprema unità e semplicità. Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori: il Proslogion Proslogion e Argomento ontologico.  Statua di A. ad A., in via Xavier de Maistre. Sullo sfondo, i campanili della cattedrale di A.; a destra si intravede il seminario maggiore. Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque valet cogitari esse aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit.» «O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto quanto si possa pensare; poiché infatti è lecito pensare che esista qualcosa di simile. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile.»  (A., Proslogion seu alloquium de Dei existentia) Anselmo rimase parzialmente insoddisfatto della dimostrazione dell'esistenza di Dio e dell'indagine sulle sue caratteristiche per come esse erano state condotte nel Monologion: egli aspirava infatti a costruire un argomento più semplice e interamente autosufficiente in grado di portare alle stesse conclusioni. Un simile argomento, ricercato affannosamente e infine trovato, venne esposto nel Proslogion (il cui titolo, originariamente, era stato Fides quaerens intellectum, cioè «la fede in cerca della comprensione»)L'argomento del Proslogion (noto anche, secondo una denominazione attribuitagli da Immanuel Kant, come argomento ontologico) è del tipo a priori: è cioè basato su una definizione di Dio ricavata dalla fede e sviluppata secondo un procedimento razionale che aspira ad essere valido in sé, anteriormente a ogni dato di esperienza.  Schema logico dell'argomento ontologico Chi nega l'esistenza di Dio (come lo stolto del Salmo: «che disse in cuor suo: Dio non esiste».) deve avere il concetto di Dio non si può infatti negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure, per negarla devo pensarla avere il concetto di Dio significa: pensare un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore ("aliquid quo nihil maius cogitari possit") ma poiché «si potrebbe pensare un ente che, oltre agli attributi riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello dell'esistenza, e quindi fosse maggiore di lui.» questa, allora, sarebbe un'idea maggiore di quella di Dio quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla di maggiore, essendo il maggiore di tutti gli enti, non può non avere la caratteristica dell'esistenza: esistere senza dubbio sia nell'intelletto sia nella realtà ("existit ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re"). L'argomentazione di Anselmo prende dunque le mosse dalla definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore». Egli sostiene che chiunque, incluso lo «stolto» che, secondo i Salmi  «disse in cuor suo: Dio non esiste», comprende tale definizione, anche se non comprende che l'oggetto di tale definizione esiste; comunque, nel comprenderla, si forma mentalmente il concetto di un ente sommamente grande, del quale sia impossibile pensare qualcosa di maggiore.  Ora, sostiene Anselmo, il concetto di «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore» esiste nella mente dello «stolto» (o di chiunque altro) come nella mente del pittore esiste l'immagine di qualcosa che egli è in procinto di disegnare, ma che ancora non esiste al di fuori del suo pensiero.  Tuttavia, qualcosa che esiste solamente nella mente di qualcuno non è tanto grande quanto qualcosa che esiste anche nella realtà esterna, nel mondo effettivo delle cose: pertanto ciò di cui non può essere pensato nulla di maggiore non sarebbe tale se non fosse dotato di un'esistenza effettiva anche fuori dalla mente di chi si forma quel concetto. Il che conduce alla conclusione per cui esiste necessariamente qualcosa di cui non può essere pensato niente di maggiore, e che non può essere pensato se non come esistente. Si tratta in fondo di una dimostrazione per assurdo[69], basata in gran parte sull'approccio apofatico della teologia negativa, in base al quale è doveroso per la mente umana riconoscere l'esistenza di Dio come suo limite.  Sic ergo vere es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari possis non esse; et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super Creatorem.» «Dunque esisti in modo così vero, o Signore, mio Dio, che non si può neppure pensare che non esisti. E giustamente. Se infatti una mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe sopra il Creatore.»  (A., Proslogion seu alloquium de Dei existentia) Come il Monologion, il Proslogion contiene numerosi capitoli nei quali l'autore indaga gli attributi di Dio: partendo dalla definizione della divinità come ciò di cui non può essere pensato il maggiore, A. conclude che Dio deve essere necessariamente l'essere supremo, e quindi supremamente buono, giusto e felice. Sempre in relazione al Monologion, risulta ora tanto più giustificata l'idea che Dio debba essere caratterizzato da tutte le peculiarità che è preferibile avere piuttosto che non avere. In effetti risulta che un Dio come questo, che (in accordo anche con gli insegnamenti della Bibbia) è necessariamente onnipotente, deve essere impossibilitato a fare il male perché è anche assolutamente benevolo; questo non è però contraddittorio dal momento che, per Anselmo, la capacità di fare il male non è in realtà una vera potenza, quanto piuttosto un'impotenza (il che è coerente con la sua interpretazione del male come privazione, cioè come pura negazione dell'essere e del bene, non dotata di un'autonoma positività ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che Dio non possa fare il male o contraddirsi.  Nei capitoli conclusivi del testo, Anselmo ribadisce e approfondisce l'analisi degli attributi divini iniziata nel Monologion, aggiungendo inoltre un accenno all'identità di esistenza ed essenza in Dio il quale prefigurava, anche se da lontano, i risultati che avrebbe raggiunto più tardi AQUINO (si veda).  Le critiche di Gaunilone all'argomento ontologico e la risposta di Anselmo. Gratias ago benignitati tuae et in reprehensione et in laude mei opusculi. Cum enim ea, quae tibi digna susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis apparet, quia, quae tibi infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia per le lodi del mio opuscolo. Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»  (A., Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone obietta:  in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire, ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto «ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit quam cogitari): l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta. Per spiegare come sia possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni senza cogliere i significati. Gaunilone, un monaco benedettino contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente (Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo, il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia appendice, L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su diversi punti e accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare nell'osservazione di Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un concetto come quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di pensarlo come esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non può essere pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che non si può passare direttamente dal piano del pensiero al piano dell'esistenza. Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» è un concetto inaccessibile a un intelletto umano, sostanzialmente superiore alle sue forze: chi ascolta e comprende tale concetto, afferma Gaunilone, non lo comprende in realtà più di quanto secondo Anselmo lo «stolto» comprende l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi pensare Dio come ciò di cui non può essere pensato il maggiore è possibile solamente a posteriori, e cioè questa concezione di Dio (di per sé giudicata legittima) deve essere sviluppata a partire da argomenti simili, per esempio, a quelli platonizzanti del Monologion[80].  Nella sua risposta alle obiezioni di Gaunilone (il quale peraltro loda il Monologion e tutte le parti del Proslogion diverse dall'argomento ontologico) Anselmo si stupisce di ricevere critiche da qualcuno che è uno stolto ma un cattolico. Rispondendo quindi «al cattolico», Anselmo ravvisa nelle parole di Gaunilone una certa confusione tra «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», limite innegabile del pensiero, e «la cosa più grande di tutte», che essendo un concetto impreciso può ancora essere negato senza cadere in contraddizione. Nella parte principale della sua replica alla replica Anselmo aggiunge che «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» non è un concetto incomprensibile per l'intelletto umano, a meno di fingere di non capire il concetto stesso che si vuole negare, «perché se anche ci fosse qualcuno abbastanza sciocco da dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore non è niente, non sarà così impudente da dire di non riuscire a capire o pensare quel che sta dicendo. O se invece si trovasse qualcuno di questo genere, non solo il discorso è da respingere (respuendus), ma lui stesso da coprire di sputi (conspuendus)». L'esperienza delle cose del mondo, del resto, rende evidente che gli enti posseggono le diverse perfezioni in diversi gradi e che, dunque, è possibile stabilire una gerarchia di grandezza in cui di ogni cosa è possibile pensare qualcosa di maggiore finché si giunge a qualcosa di cui, appunto, non si può pensare niente di maggiore. È stato fatto notare che con questa operazione, però, Anselmo dà parzialmente ragione a Gaunilone e riconduce la prova a priori del Proslogion alla prova a posteriori del Monologion, ammettendo che il concetto di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» si origina dall'esperienza. In tal modo l'autosufficienza della prova del Proslogion può risultare compromessa, ma viene stabilita tra esso e il Monologion una continuità che fa delle due opere altrettanti momenti di un unico argomento per l'esistenza di Dio, in cui tale esistenza viene dimostrata inizialmente a partire da osservazioni empiriche, assicurando nel contempo la legittimità della definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e quindi viene dimostrato che a partire da tale definizione risulta che Dio non è concepibile se non come dotato dell'esistenza.  Anselmo dialettico: il De grammatico e gli altri scritti logici L'aspetto del pensiero di A. legato alla logica (la quale nel Medioevo era indicata indifferentemente come dialettica o anche come grammatica, in una prospettiva paragonabile a quella della moderna filosofia del linguaggio) ha un'importanza non trascurabile, anche se tale importanza è stata rivalutata solo dalla critica della seconda metà del XX secolo.   A. ritratto in una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica uno strumento utile per il teologo: già nel Monologion il suo approccio si era caratterizzato per l'attenta disamina delle possibili ambiguità legate a espressioni come «[esistenza] per sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel Proslogion Anselmo aveva compiuto operazioni simili; ora, nel De grammatico, egli analizza nello specifico il problema della paronimia, ossia dello scambio di due parole dal suono simile ma prive di attinenza nel significato: si trattava di capire se la parola "grammatico" (così come tutti gli altri «denominativi», cioè quelle parole che derivano da una radice da cui differiscono solo per la desinenza, in questo caso "grammatica"), corrispondano a sostanze o qualità.  In effetti, sostiene Anselmo, pare ugualmente possibile sostenere che "grammatico" sia sostanza (essenza) o che sia qualità (accidente):nel primo caso perché "grammatico" indica un uomo, e a ogni uomo corrisponde una sostanza; nel secondo perché "grammatico" indica una particolare caratteristica dell'uomo in questione. A. afferma però che non ci troviamo di fronte a una contraddizione, dal momento che i due modi di intendere la parola si riferiscono a due punti di vista ben diversi: è infatti necessario, prosegue, distinguere la significatio di un termine, cioè il piano del suo significato, dalla sua appellatio, cioè il piano del suo riferimento. Pertanto "grammatico" è una significazione della grammatica, ma il suo riferimento è all'uomo. Inoltre, aggiunge Anselmo, per se (cioè in modo diretto, cioè sul piano della significazione) la parola "grammatico" significa una qualità, ma può anche fare riferimento per aliud (cioè in modo indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una sostanza. Alcuni commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo prefigurava la teoria della suppositio che sarebbe stata approfondita dai dialettici del XIII secolo e successivi.  In altre opere di carattere logico, abbozzate da Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava altre possibili ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in filosofia e teologia: considerò con particolare attenzione i concetti e i termini necessitas ("necessità"), potestas ("potenza", "capacità"), voluntas ("volontà"), facere ("fare", ma anche "far fare", "patire") e aliquid ("qualcosa")[89].  Il problema del male, dell'onnipotenza divina e del libero arbitrio nella trilogia sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia della libertà», composta dai dialoghi De veritate, De libertate arbitrii e De casu diaboli, Anselmo analizza le questioni etiche legate alla rettitudine[19] da un punto di vista teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato anche nelle opere successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era stato invece quello adottato nei testi precedenti).  La scelta della forma dialogica, debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non priva di una sua originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di rendere più vivace la discussione dei problemi teologici e al vantaggio di poter risolvere dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa inoltre corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali consistevano sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti legati da rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di idee. Il De veritate De veritate (A.). Il De veritate (primo in ordine logico, anche se non è chiaro in che ordine cronologico furono composte le tre opere) analizza in particolare il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la giustizia. A. propone una teoria della verità in cui sono compresenti una matrice platonica (per cui la verità delle cose e delle affermazioni particolari risiede nella loro partecipazione alla verità in sé) e la tesi della verità come corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la verità sta nell'aderenza delle asserzioni allo stato delle cose); la nozione di verità per come la intende Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio perché per l'appunto essa è ricondotta sia alla corrispondenza di linguaggio e realtà sia all'aderenza di un'azione al suo fine teleologicamente proprio (che nel caso del linguaggio è esattamente quello di significare la realtà); traducendosi in un più ampio concetto di rettitudine, la verità può quindi essere propria anche della volontà (la volontà vera è volontà retta) e delle azioni (le azioni vere sono azioni buone), oltre che dei sensi, delle essenze stesse delle cose eccetera. Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal momento che tutte le cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità suprema che, evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è ugualmente fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste deve esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del male. La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando che, se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi, l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il male vengono considerati da due differenti punti di vista. In conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità, giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente alla rettitudine della volontà. La rettitudine della volontà è poi direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le altre nella partecipazione a Dio. Il De libertate arbitrii De libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al problema della grazia e del male. Fin dalle prime pagine dell'opera Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere senza condizionamenti se peccare o non peccare: se, infatti, la facoltà di peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne risulterebbe inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male (cioè non potendo peccare), non sarebbe libero. A. sostiene al contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni, che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è «potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa». La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole, sarebbe nostro dovere volere).La libertà dunque è tanto più libera (tanto più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta. Questo comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo; tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio di libertà ma un esempio di corruzione della libertà.  Infine A. spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto) ed è dunque solo con l'intercessione della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo delle sue potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio. In conclusione l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e interamente autonoma che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e gli uomini ricevono da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta dell'uomo, aiutata dalla grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio. Il De casu diaboli De casu diaboli. Il De casu diaboli tratta dei problemi legati alla rettitudine e alla libertà con particolare riferimento, come da titolo, alla caduta del diavolo – cioè al momento della narrazione biblica in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una certa misura di esistenza (e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella facoltà che gli avrebbe consentito di raggiungere la sua piena realizzazione adeguando la sua volontà a quella di Dio) scelse di non perseverare nel conservare la sua volontà aderente a quella divina, lasciò che la sua libertà si corrompesse e abbandonò quindi la rettitudine per tentare di assomigliare a Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo dunque prende tale esempio come questione paradigmatica per un'analisi dell'origine e della natura del male.La sua ricerca prende le mosse ancora una volta da un'attenta analisi logico-linguistica, volta in questo caso a chiarire il significato del termine nihil ("nulla"): afferma A. che tale termine non indica, per il semplice fatto di esistere, una realtà positiva, e che anzi esso significa per negazione (sottraendo una proprietà e non aggiungendola). Il nulla dunque è un ente puramente razionale, perché "nulla" indica non tanto una realtà quanto la negazione di una realtà; ciò avviene, secondo un esempio riportato da Anselmo stesso, analogamente al modo un cui si dice di qualcuno che è cieco anche se la cecità non è tanto una facoltà quanto la negazione della facoltà della vista. A. fa così propria la concezione, già espressa da un Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo di Ambrogio, del male come privazione, ovvero nega la positività ontologica del male stesso: come bisogna parlare del nulla come negazione dell'esistente e della cecità come negazione della vista, bisogna parlare del male come mancanza di bene. Dunque Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di scegliere se perseguire la giustizia (adeguandosi alla volontà divina) o se perseguire la felicità (ribellandosi e tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò la rettitudine e compì un moto di allontanamento da Dio; compì cioè un'ingiustizia che, però, non era nient'altro che una negazione della giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo, Anselmo dunque sviluppa la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere umano è creato da Dio ed è dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui piena realizzazione si ha nella conservazione della rettitudine – cioè nell'adesione alla legge che Dio, con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia al momento del peccato originale anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la sua libertà; e non gli è possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a un nuovo dono di grazia da parte di Dio. Come A. avrebbe approfondito nel De concordia la volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di perseguire la rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale rettitudine se non in virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della grazia concessa da Dio è fondante. Un capolettera decorato da un manoscritto del Cur Deus homo. La necessità di un Dio-uomo redentore: il Cur Deus homo Cur Deus homo. Nel dialogo in due libri Cur Deus homo A. spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità facendosi uomo. Il testo contiene anche, come è reso inevitabile dal suo soggetto, un'apologia del dogma cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per l'appunto, si è fatto uomo in Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani; tuttavia non è questo il suo tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è un testo di ampio respiro che di fatto conclude, insieme al successivo De concordia, l'esposizione della visione teologica di Anselmo.Il testo si apre con una chiarificazione metodologica, in cui Anselmo ribadisce la sua posizione sul rapporto tra ragione e fede: come già si era riscontrato nel Monologion, e in accordo con la consueta dinamica dell'intellectus fidei (comprensione della fede), egli tratta sempre la fede come il necessario punto di partenza di ogni riflessione teologica ma giudica «negligenza» astenersi poi dal portare a compimento razionalmente tale riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a spiegare il carattere necessario della volontà divina: Dio, sostiene l'autore, è dotato di una volontà spontanea e autonoma (non è cioè soggetto né a costrizioni né a impedimenti) ma tale volontà è talmente rigida nella sua assoluta immutabilità da far sì che essa possa essere considerata necessaria; si può dire, ad esempio, che è necessario che Dio non menta perché la volontà di Dio, tesa per sua stessa natura verso la verità (e da cui anzi la verità stessa trae la sua natura) è invariabile e incorruttibile nella sua costanza, e non può in alcun modo rivolgersi verso la menzogna. Si è già visto che questa non può secondo A. essere considerata una limitazione della potenza divina.  È proprio per via della necessità e assoluta immodificabilità del piano che Dio aveva predisposto per l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito alla perdita dell'immortalità dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso necessario un intervento di Dio per redimere l'uomo dal peccato originale e ripristinare tale immortalità (sotto forma della possibilità di vivere in eterno nell'altra vita). Dopodiché, risulta necessario che la remissione da parte di Dio dei peccati dell'uomo passi attraverso un'effettiva espiazione: se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia, senza che il peccato ricevesse una giusta e proporzionata punizione, il disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine e, in generale, la legalità dell'universo morale umano e divino risulterebbe compromessa. Bisogna dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che peccando gli ha negato – anche se resta inteso che le azioni dell'uomo non aggiungono né tolgono nulla a Dio, dato che è impossibile privare dell'onore un Dio che coincide con lo stesso onore e con tutte le altre qualità positive: restituire a Dio l'onore che gli è dovuto significa semplicemente ripristinare la sottomissione, venuta meno con il peccato originale, della volontà umana a quella divina. Tuttavia l'uomo, che anche prima della caduta in quanto creatura era incapace di compiere il bene se non in virtù della partecipazione al bene supremo di Dio, non può espiare la sua colpa da solo: gli è impossibile rendere a Dio la giusta soddisfazione, perché la bontà di ogni azione di riparazione sarebbe comunque dovuta a Dio. È così che Anselmo dimostra che il salvatore dell'uomo deve necessariamente essere di natura divina; quindi egli procede ad argomentare che, per la precisione, egli deve essere un Dio-uomo. Risulta infatti che a rendere soddisfazione a Dio non può essere qualcuno che sia inferiore a Dio, e d'altra parte è necessario che ad espiare il peccato dell'uomo sia un uomo: pertanto le caratteristiche che le scritture attribuiscono a Gesù, vero uomo e vero Dio, partecipe in ugual modo e nello stesso tempo di entrambe le nature, sono esattamente quelle necessarie a spiegare razionalmente la redenzione dell'umanità dal momento che, come scrive il filosofo Giuseppe Colombo, «Dio (per sé preso) non deve nulla a nessuno e l'uomo (per sé preso) non può nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal peccato in virtù della sua natura divina e perciò privo di doveri e di debiti nei confronti di Dio, offrì volontariamente e liberamente la sua vita innocente a Dio stesso e così facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale dell'umanità. La compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De concordia Il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la compatibilità della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della grazia, con il libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia del De concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema dell'apparente inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina con la libertà umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a maggior ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere libero e non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In primo luogo, egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da quella logica, dal momento che quella ontologica ha una priorità su quella logica: se infatti qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del sole) allora lo è anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge necessariamente); tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in cui avviene, avviene necessariamente) può anche non essere necessario ontologicamente (è il caso, ad esempio, di una rivolta popolare). In secondo luogo A. propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la nostra concezione di predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra coscienza temporale delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in un'eternità al di fuori e al di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o futuro, ma tutto è simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e determina gli eventi che per noi sono passati, presenti e futuri da una prospettiva sovratemporale in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando così le cose, non c'è contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini un evento libero in quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina eventi necessari in quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di Dio con il libero arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da un lato, «superbi», considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di essere raggiunte dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che, dall'altro lato, attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella redenzione dell'uomo da negare addirittura la sua libertà. A. assume nella controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà vengono armonizzate: egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De casu diaboli, per agire rettamente è necessario volere rettamente, e per volere rettamente è necessaria una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da solo tale rettitudine della volontà, poiché (mentre si può autonomamente conservare la rettitudine della volontà quando la si ha) non si può volere la rettitudine con il solo libero arbitrio quando non si ha una volontà retta;[118] e dunque se è vero che è Dio, per grazia, a dare all'uomo questa facoltà, è vero anche che sta alla libertà dell'uomo conservarla – i due aspetti non sono quindi contraddittori, bensì complementari.  Il testo prosegue con un'analisi dei significati della parola "volontà" e delle sue interazioni con il concetto di giustizia, e si conclude con una ricapitolazione dei punti già trattati: l'autore ribadisce che la volontà, creata come ente positivo e quindi di per sé orientata a Dio e alla conservazione della sua originaria bontà, è stata corrotta dalla deviazione del volere dell'uomo per un cattivo uso della libertà; pertanto la volontà umana ha perso la rettitudine necessaria a volere rettamente, e ha bisogno che tale rettitudine sia ripristinata dalla grazia divina prima di poter ricominciare ad agire con giustizia, preservando grazie alla libertà la rettitudine della sua volontà. Altri scritti  Miniatura inglese del XII secolo di un capolettera delle Orationes sive meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di diversi altri scritti di carattere teologico, ma pur sempre animati da uno spirito filosofico: l'Epistola de incarnatione Verbi e il successivo De processione Spiritus Sancti trattavano del problema della processione dello Spirito Santo e delle modalità della sua incarnazione; il De conceptu virginali et de peccato originali analizzava le questioni dottrinali dell'Immacolata Concezione e del peccato originale, e inoltre ripercorreva ragionamenti già portati avanti nelle opere precedenti; a ciò si aggiungono meditazioni, preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie di frammenti provenienti da un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui costumi [morali]) in parte spurio che tratta delle affezioni dell'anima. Le preghiere scritte da Anselmo sono raccolte in un'opera nota come Orationes sive meditationes (Preghiere ovvero meditazioni); esse, scritte lungo tutta la vita dell'autore dal periodo di Bec all'episcopato inglese, costituiscono un ulteriore esempio dell'ideale anselmiano di comprensione della fede: benché orientate più alla contemplazione e al raccoglimento spirituale che alla vera e propria filosofia o teologia, il loro scopo è infatti quello di suscitare nel lettore quel sentimento rivolto verso la verità e la rettitudine che è necessario presupposto tanto della teoresi quanto della stessa vita buona. Di A. si è poi conservato un epistolario particolarmente significativo, che testimonia in modo efficace sia della sua personalità che della sua figura pubblica: risulta infatti chiaramente, da una parte, l'affetto, la carità, la sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo infondeva nelle lettere ai monaci suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la sua determinazione nelle faticose e a volte frustranti questioni politiche legate alla sua posizione di arcivescovo. Esercita un'influenza estremamente significativa sulla storia della filosofia sia. La sua riflessione giunse a livelli di estrema profondità in tutti i campi in cui si espresse, anche se è forse vero che tali campi furono relativamente pochi. Infatti alla sua filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista dialettico, fa difetto un'approfondita analisi del campo della filosofia della natura – la quale sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di Anselmo formano un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di certi problemi come quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza nella filosofia, venendo ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione di Anselmo per la dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui, secondo alcuni critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte le pagine più famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion” egli espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Esse, considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la storia della filosofia, genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A  proposito della rilevanza dell'argomento di Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri filosofi, tra cui i più degni di nota sono AQUINO (si veda) e FIDANZA (si veda). Aquino contesta la validità di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio A. fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento, considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento del suo argomentare. Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile alla prova a priori d’A. entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte d’A. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile, allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato (non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione d’A. affermando che in Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di Bradley. Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce inoltre a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica si è rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli scritti d’A. e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere dovrebbero essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore della logica costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni esistenziali, con particolare riferimento al problema del peccato e della salvezza e al concetto di rettitudine. Barth vede A. tra i suoi principali punti di riferimento, ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono altresì degne di nota le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di emendarla da aporie ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di diverso tenore l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il profilo linguistico, alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da Anselmo. In occasione dell'ottavo centenario della morte di A., Pio X promulgò l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra la figura e ne promuoveva il culto. Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica Fides et ratio guardava alla prova ontologica di Anselmo come a un modello di quella complementarità imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”; “De grammatico”; De veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola de incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes Epistolae. Arduino, A., in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati. Probabilmente ad opera dell'arcivescovo Tommaso Becket su delega d’Alessandro III  (in Inos Biffi, Anselmo d'Aosta e dintorni: Lanfranco, Guitmondo, Urbano II, Editoriale Jaca, Simonetta, A., in Trabattoni, Vergata, Simonetta, Filosofia, cultura, cittadinanza – La filosofia antica e medievale, Firenze, La Nuova Italia, Gilson, La filosofia nel Medioevo, Firenze, La nuova Italia, 1973,290.  Anselmo d'Aosta, La caduta del diavolo, a cura di Elia Giacobbe, Giancarlo Marchetti, Milano, Bompiani, Butler's Lives of the Saints, a cura di Michael Walsh, New York, HarperCollins Publishers, St. Anselm's Proslogion, a cura di M. J. Charlesworth, Notre Dame, University of Notre Dame Press, Sadler, Saint Anselm, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. King, (St.) A, of Canterbury, su TUTORweb, Southern, St. Anselm: Portrait in a Landscape, Cambridge University Press, 1992,8.  Tullio Gregory, Franziskus S. 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Che l'argomento d’A.consista principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The nature of necessity, Oxford Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione, trad. Vinay, Silva, Milano).  Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del Proslogion, Jaka, Simonetta. Colombo. A proposito della disputa sull'esistenza di Dio, avuta col benedettino Gaunilone.  Proslogion, Opera Omnia. Cfr. Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza, Senso della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, Colombo. Simonetta. Colombo, Colombo.  Per A,, infatti, anche il sole non è fissabile direttamente dallo sguardo, eppure attraverso la luce del giorno riusciamo benissimo a vedere la sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a cura di Sciuto,2 Bompiani).  «Nam etsi quisquam est tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo maius non possit cogitari, non tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse intelligere aut cogitare, quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente).  Colombo, Colombo, Simonetta, Colombo, Colombo, Colombo, Colombo, Colombo, Giacobbe, Marchetti, Colombo. Tale definizione era stata proposta da Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, Colombo, Simonetta, Colombo, Colombo, Colombo, Colombo, Giacobbe, Marchetti,10.  Colombo,77.  Il quale l'aveva a sua volta ricavata da Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta.  Colombo. Su questi argomenti Anselmo si esprimeva anche nel De concordia. Si veda Colombo,Colombo, Colombo, Colombo, Colombo,Colombo, Colombo, Colombo, Colombo, Colombo, Colombo, Colombo, Simonetta Colombo, Colombo, Colombo, Colombo.  Gilson, Gilson, Colombo, Colombo.  Gilson Abbagnano, Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Torino, Paravia, FUSARO (si veda), A., su Filosofico.net. Colombo, Tomatis, L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a Schelling, Città Nuova: mentre A. intendeva mostrare la contraddizione logica di chi rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di Cartesio è garantire l'autonomia interna del pensiero privandolo di sbocchi al trascendente. È stato rilevato come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso errore di Gaunilone, concependo Dio soltanto in termini positivi come «il più grande di tutti» (maius omnibus), anziché in maniera negativa (nihil maius, «niente di più grande»): cfr. Melchiorre, La via analogica, Vita e Pensiero, Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A. Molinaro, Anselmo, Hegel e l'argomento ontologico, L'argomento ontologico, «Archivio di filosofia», Emanuela Scribano, Guida alla lettura dell'"Etica" di Spinoza, Roma-Bari, Laterza, Colombo, Piergiorgio Odifreddi, Il diavolo in cattedra – La logica da Aristotele a Gödel, Torino, Einaudi, Russell, Storia della filosofia occidentale, traduzione di Luca Pavolini, Milano, Longanesi, Rossignoli, Disegno storico-teorico della filosofia, Torino, Società Editrice Internazionale, Colombo, Potter, Barth and the Ontological Argument, in The Journal of Religion, Caretta e Samarati, Introduzione al pensiero d’A., in A., Una scorciatoia all'assoluto: Proslogion, Novara, Europía, non esistente. Communium Rerum, su Papal Encyclicals, Giovanni Paolo II, Fides et ratio. Eadmero di Canterbury, Vita et conversatio Anselmi, Edimburgo, Vita di S. 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PredecessoreArcivescovo di CanterburySuccessoreArchbishcantarms.png Lanfranco di Pavia Ralph d'Escures Anselmo d'Aosta Padri e dottori della Chiesa cattolica Ordine di San Benedetto Santi della Legenda Aurea di Iacopo da Varagine WorldCat Identitieslccn Biografie Portale Biografie Cristianesimo Portale Cristianesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo. Categorie: Teologi franchi Filosofi franchiArcivescovi cattolici franchi Nati ad A. Morti a Canterbury Arcivescovi di CanterburyDottori della Chiesa cattolicaMonaci cristiani franchiPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso) Santi benedettini Santi Santi franchi Santi per nome Abati benedettini Scrittori medievali in lingua latina. anselmo  “I would call him ‘Canterbury,’ only he was an Italian!”H. P. Grice. Saint, called Anselm of Canterbury, philosopher theologian. A Benedictine monk and the second Norman archbishop of Canterbury, he is best known for his distinctive method  fides quaerens intellectum; his “ontological” argument for the existence of God in his treatise Proslogion; and his classic formulation of the satisfaction theory of the Atonement in the Cur Deus homo. Like Augustine before him, Anselm is a Christian Platonist in metaphysics. He argues that the most accessible proofs of the existence of God are through value theory: in his treatise Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence of a source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good; that same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion, Anselm begins with his conception of a being a greater than which cannot be conceived, and mounts his ontological argument that a being a greater than which cannot be conceived exists in the intellect, because even the fool understands the phrase when he hears it; but if it existed in the intellect alone, a greater could be conceived that existed in reality. This supremely valuable object is essentially whatever it is  other things being equal  that is better to be than not to be, and hence living, wise, powerful, true, just, blessed, immaterial, immutable, and eternal per se; even the paradigm of sensory goods  Beauty, Harmony, Sweetness, and Pleasant Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God is supremely simple, not compounded of a plurality of excellences, but “omne et unum, totum et solum bonum,” a being a more delectable than which cannot be conceived. Everything other than God has its being and its well-being through God as efficient cause. Moreover, God is the paradigm of all created natures, the latter ranking as better to the extent that they more perfectly resemble God. Thus, it is better to be human than to be horse, to be horse than to be wood, even though in comparison with God everything else is “almost nothing.” For every created nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum est. On the one hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal structure of the natures themselves: a creature of type F is a true F only insofar as it is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F, to the extent that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a created nature is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts through reason and will, Anselm infers that prior in the order of explanation to creation, there was, in the reason of the maker, an exemplar, form, likeness, or rule of what he was going to make. In De veritate Anselm maintains that such teleology gives rise to obligation: since creatures owe their being and well-being to God as their cause, so they owe their being and well-being to God in the sense of having an obligation to praise him by being the best beings they can. Since every creature is of some nature or other, each can be its best by being that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational natures fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity; rational creatures, when they exercise their powers of reason and will to fulfill God’s purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how good a being it is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what sort of imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising its natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely independent owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De casu diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that since the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good and every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a privation of being, the absence of good in something that properly ought to have it e.g., blindness in normally sighted animals, injustice in humans or angels. Second, since all genuine powers are given to enable a being to fulfill its natural telos and so to be the best being it can, all genuine metaphysically basic powers are optimific and essentially aim at goods, so that evils are merely incidental side effects of their operation, involving some lack of coordination among powers or between their exercise and the surrounding context. Thus, divine omnipotence does not, properly speaking, include corruptibility, passibility, or the ability to lie, because the latter are defects and/or powers in other things whose exercise obstructs the flourishing of the corruptible, passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action theory begins teleologically with the observation that humans and angels were made for a happy immortality enjoying God, and to that end were given the powers of reason to make accurate value assessments and will to love accordingly. Anselm regards freedom and imputability of choice as essential and permanent features of all rational beings. But freedom cannot be defined as a power for opposites the power to sin and the power not to sin, both because neither God nor the good angels have any power to sin, and because sin is an evil at which no metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the power to preserve justice for its own sake. Choices and actions are imputable to an agent only if they are spontaneous, from the agent itself. Creatures cannot act spontaneously by the necessity of their natures, because they do not have their natures from themselves but receive them from God. To give them the opportunity to become just of themselves, God furnishes them with two motivational drives toward the good: an affection for the advantageous affectio commodi or a tendency to will things for the sake of their benefit to the agent itself; and an affection for justice affectio justitiae or a tendency to will things because of their own intrinsic value. Creatures are able to align these drives by letting the latter temper the former or not. The good angels, who preserved justice by not willing some advantage possible for them but forbidden by God for that time, can no longer will more advantage than God wills for them, because he wills their maximum as a reward. By contrast, creatures, who sin by refusing to delay gratification in accordance with God’s will, lose both uprightness of will and their affection for justice, and hence the ability to temper their pursuit of advantage or to will the best goods. Justice will never be restored to angels who desert it. But if animality makes human nature weaker, it also opens the possibility of redemption. Anselm’s argument for the necessity of the Incarnation plays out the dialectic of justice and mercy so characteristic of his prayers. He begins with the demands of justice: humans owe it to God to make all of their choices and actions conform to his will; failure to render what was owed insults God’s honor and makes the offender liable to make satisfaction; because it is worse to dishonor God than for countless worlds to be destroyed, the satisfaction owed for any small sin is incommensurate with any created good; it would be maximally indecent for God to overlook such a great offense. Such calculations threaten certain ruin for the sinner, because God alone can do/be immeasurably deserving, and depriving the creature of its honor through the eternal frustration of its telos seems the only way to balance the scales. Yet, justice also forbids that God’s purposes be thwarted through created resistance, and it was divine mercy that made humans for a beatific immortality with him. Likewise, humans come in families by virtue of their biological nature which angels do not share, and justice allows an offense by one family member to be compensated by another. Assuming that all actual humans are descended from common first parents, Anselm claims that the human race can make satisfaction for sin, if God becomes human and renders to God what Adam’s family owes. When Anselm insists that humans were made for beatific intimacy with God and therefore are obliged to strive into God with all of their powers, he emphatically includes reason or intellect along with emotion and will. God, the controlling subject matter, is in part permanently inaccessible to us because of the ontological incommensuration between God and creatures and our progress is further hampered by the consequences of sin. Our powers will function best, and hence we have a duty to follow right order in their use: by submitting first to the holistic discipline of faith, which will focus our souls and point us in the right direction. Yet it is also a duty not to remain passive in our appreciation of authority, but rather for faith to seek to understand what it has believed. Anselm’s works display a dialectical structure, full of questions, objections, and contrasting opinions, designed to stir up the mind. His quartet of teaching dialogues  De grammatico, De veritate, De libertate arbitrii, and De casu diaboli as well as his last philosophical treatise, De concordia, anticipate the genre of the Scholastic question quaestio so dominant in the thirteenth and fourteenth centuries. His discussions are likewise remarkable for their attention to modalities and proper-versus-improper linguistic usage. Fin dagli esordi della filosofia medievale, la dottrina dei segni riguarda la questione dell’interpretazione, o addirittura dell'intero mondo reale, inteso come insieme di segni attraverso i quali l’assoluto di Bradley si fa manifesto, e attraverso i quali ci indirizza alla verità. Siamo agli albori di una logica del segno, con Alenino, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Beda il Venerabile. Al principio dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la semantica medievali. Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che la fede possa essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima della ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate) vengo- no articolate così le prove dell'esistenza dell’Assoluto, che costituiscono un momento di notevole interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo d’Aosta sostiene la differenza fra linguaggio (o segno, segnante) e realtà (segnato). Se, secondo il linguaggio si può dire che l’Assoluto non esiste, non lo si può però pensare secondo il reale. Si tratta della cosiddetta "prova ontologica", importante perché distingue fra una verità referenziale e una verità *proposizionale*. La verita proposizionale è limitata a una pura asserzione di *esistenza*, che ha valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel dialogo “De veritate”, la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente (relatum, segnatum) è maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità di un segno (del segnato) -- la significazione -- e verità stretta della proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta -- determina la verità o falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha e beta’ Fido is shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita IN-tensionale della proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da una propria legge logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’, ‘comunicato’ o impiegato o impicato (la significazione) non è mai certa o provata. Questa dipende dalla realtà -- o livello ontologico -- con la quale non può essere coerente. Dunque, la verità della significazione, che può essere detta "semantica" o del segno, non si applica che al comunicato o impiegato della conversazione o discorso umano, che riflette piti o meno la cosa, evvento, o situazione (l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto  è con-sustanziale alla natura, ed è, alla Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”, è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo (il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia* *anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa, “l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf. Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la *causa* (ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il tuo *discorso* (il segnante) stesso o il segnato (la significazione del segnante) o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò che tu cerchi. DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se fosse così, *ogni* discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o vera, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione – l’alpha e beta -- restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il discorso, la  è lo stesso; la signi-ficazione (lo segnato) anche e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra essere dunque il vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa signi-fica esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova dell'esistenza dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul linguaggio che Aosta considera un vero e proprio rispecchiamento della natura, un po' come il logos platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il segno da natura (dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il segno dalla natura è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per questo è perfetto (“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il segno dall’arte permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto necessariamente imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate. Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo cominciato a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un segno dall’arte è applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con l'aiuto del quale noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le cose, e una rassomiglianze o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che il segno de-nota. Ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o dialettica è, di norma, considerata come la solida roccia cui ancorare la filosofia. Infatti nella dialettica riteniamo di trovare garanzia di chiarezza, verità, comprensibilità. Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non molto, stando a quel che argomenta in modo provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla sua dialettica e sovversione – dialettica sovversiva – Aosta rivela l’altra faccia della dialettica, quella perturbatrice, una dialettica che non è stabile e chiara, bensì ingannevole e torbida. Aosta propone, come caso di studio di una dialettica sovversiva che svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a sostegno della prova ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e quello di stilare una ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione, dialettica, e fede – per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da servire al posto di quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è da presumere che Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo. Quindi cercava solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad alcuna sua demonstratio. In soldoni, Aosta, con il suo argomento ontologico  forne all’insipiente -- che nel Salmo 13 sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova cogente dell’esistenza di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e convincere gl’altri credente, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, con un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel destinatario il memento che, sicuramente l’uso della ragione può combattere l’eresia. Ma, al contempo, un *abuso* dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia. Infatti, nel progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge ruoli differenti a livelli differenti. La ragione dialettica, da un lato, per la sua natura normativa, impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la ragione dialettica apre un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiunge mai un limite. Il programma di natura tipicamente dialettica impostato d’Aosta perché possa farci pensare più correttamente al signore ineffabile di tutte le cose anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative. Nell’arco di un dialogo, Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19 volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il problema dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto alla Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire l’incoraggiamento d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo in realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento. La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti, usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale. Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente, per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco” d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale* che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma “il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a negazione ‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf. ‘il re di Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una descrizione vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente usa correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste -- il ‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza non e un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato l’essenza di Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti, per Aosta la prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di Velia e di Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come preferisce Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari possit”. Tanto è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo “non esiste alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che niente maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne* la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini – il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse, tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione, quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto, misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df – quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante. L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo dell’argomento ontologico comporta un problema che innesca una reazione a catena. Si deve dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori l’uno con l’altro – in altri termini, dimostrare la possibilità della loro compresenza in un solo identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua ratio argomentativa può rintracciare tutte le possibili relazioni intercorrenti, per esempio, fra bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado anche di dimostrare che Dio non solo *può* -- il diamante dellla logica modale -- ma anche *deve* -- il quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre questi attributi, pur tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa dar conto del perché l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel modo in cui lo fa. L’algoritmo nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque, Signore, tu non sei solo colui di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei anche qualcosa di maggiore di tutto ciò che può essere pensato. Questa proposizione molecolare richiamano tutte le argomentazioni circa gli esiti di impossibilità della logica contemporanea. Tu possi pensare che esista qualcosa di maggiore di qualsiasi cosa io possa pensare, quindi ciò di cui non posso pensare il maggiore deve essere tale che non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo ben sapeva di iniziare una partita impossibile – la razionalizzazione della fede – nella quale un ruolo chiave era svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur tuttavia impostando come limite ultimo il concetto di quello di cui non puo pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa azzardata che dava in questo *gioco* la possibilità all’antagonista (l’infedele, la stessa ragione che è negativa per vocazione) di contrattaccare arrecando danno con una manciata di domande ben azzeccate, che possono trovarci pronti a fornire comunque una risposta o in subordine occuparci la coscienza con la loro presenza importuna. Possiamo, dunque, senz’altro dire che Aosta ha svolto egregiamente una ricognizione dell’aporia della ragiona trovando anche addentellati significativi circa l’esercizio della libertà intellettuale con un efficace richiamo a Bruno e Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti approntati dall’autore sull’argomento ontologico. Per esempio, vengono riportate queste parole d’Aosta. Così quando si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il maggiore’, senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se la cosa stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere pensata o compresa. Subito si attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via negativa per giungere alla comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un gran che di qualcosa se si sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna farsi confondere da questa limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione dell’assoluto, ma di fornire un fondamento razionale per la verità di una proposizione. E tale operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per via puramente negativa – prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio ad absurdum. Sull’argomento della reductio, si cita un passo tratto dalla Responsio d’Aosta. Si può pensare a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi, c’è un mondo m (pensabile) dove cio di cui non si puo pensare il maggiore esiste. Ora supponiamo che cio di cui non si puo pensare il maggiore non esista nel mondo reale. Allora *è* possibile pensare, in m, qualcosa di maggiore di cio di cui non si puo pensare il maggiore. Ma questa è una falsità logica. L’argomentazione è una reductio ad absurdum e la terza premessa è la premessa da dimostrare *assurda*, il che la rende indisputabile. Riterra  che l’argomentazione funziona se almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza renderlo molto incomprensibile o inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione. Dalla combinazione di questi due passi si ricava che si ritenga che la reductio sia particolarmente adatta per rendere accetta l’esistenza di cose inconcepibili. Rivisitando l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga che Socrate non è mortale; che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono mortali; sicché Socrate è sia mortale che non mortale. Ma la terza premessa è necessariamente falsa e la seconda premessa è vera. Perciò la prima premessa è falsa. La seconda premessa non assume riguardo a Socrate una forma puramente negative. Pertanto in questo caso la reductio ad absurdum non può essere addotta in difesa dell’uso della via negativa. Perciò, anche se vi sono reductiones ad absurdum che possono essere formulate con premesse del tipo via negativa, non si spiega cosa di speciale vi sia nell’argomentazione per reductio ad absurdum da renderla adatta per esprimersi per via puramente negativa, e quindi la legittimità della reduction ad absurdum non suffraga l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è positivo (o φ P) ASSIOMA 1. P(φ). P(ψ) P(φ. ψ) ASSIOMA 2. P(φ) P(φ) (Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1. G(x) ≡ (φ) [ P(φ) φ(x) ] (Dio) DEFINIZIONE 2. φ Ess.x ≡ (ψ) [ ψ(x) N(y) [ φ(y) ψ(y) ]] (Essenza di x) p Nq = N(p q) (Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) NP(φ) P(φ) N P(φ) Poiché ciò segue dalla natura della proprietà. TEOREMA. G(x) G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess. x N (x) φ(x) ] (Esistenza necessaria)  ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) N(y) G(y) quindi (x) G(x) N(y) G(y) quindi M(x) G(x) MN(y) G(y) sibilità) (M = pos- M(x) G(x) significa che il sistema di tutte le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a: ASSIOMA 5. P(φ). φ Nψ: P(ψ) x = x è positivo x ≠ x è negative. Anselmo d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva.: Grice, “Anselmo’s “De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on paronymy: a ‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si puo pensare il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo, eresia.  Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library. Aosta.

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