Grice e Casati: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- ovvero,
dell’amicizia – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casati;
he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or
‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that
there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but
the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that
stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of
Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a
typical Renaissance man of a philosopher, as he should!” Studia a
Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso
Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza). Si occupa di
fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di
questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità
(Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza). Buchi e altre
superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando
il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il
nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e
topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico
che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando
diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione
scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa
sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi si annoverano la
teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria
'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica:
la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione spaziale
immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti
materiali, la teoria del futuro "strizzato" nella metafisica
del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro
contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta
di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che
appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o
prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat",
l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre,
le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non
materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è
stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento geometrico,
in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra linea di
ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in questo
settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una
sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei
"micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria
generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un
progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura normativa,
in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione di
filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia,
che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della
rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La
scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità
insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri
incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi
di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza);
Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere,
Laterza); Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia,
Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente
diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo,
Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI
UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e
definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA
VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto
visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti
materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE
E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed
immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il
problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore
della teoria della somiglianza Somiglianza e rappresentazione.
Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della
percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in.
LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione
canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun
luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie
percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario
iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio
nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto
di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice
e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I
CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il
fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e
immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL
PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità.
La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo
rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE
E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica.
Riferimento e generalità. La teoria che Grice e Casati propongono può
chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma
‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di
Grice e C. sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale -- 'che
p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come
emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si
può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di
sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione
conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come
creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una
qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il
campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono
create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere
d’arte, come per esempio la produzione di gesti che conducono alla
disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”.
L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto
conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di
suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che
le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una
conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare
oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche
fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante
per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare
una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4.
Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto
che i due competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e
quella dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto
sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria
metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per
una “comunicazione” semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di
“messaggi” nel senso della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti
che hanno un legame preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi,
anche se sono oggetti utilitari, devono far coesistere questo fatto con una
sovrapposizione di altri elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto
all’interno di un contesto sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto
di discussione in quanto sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette
di inquadrare alcuni dei fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non
dice che l’artista debba creare l’opera sulla base della formulazione di
un’intenzione di inserirsi in una conversazione specifica (che è molto
probabilmente quella comune nella sua epoca), ma dice piuttosto che l’opera
deve essere in grado di esser vista come creata allo scopo di inserirsi in una
conversazione qualsiasi. Questo fatto impone dei vincoli importanti sulla
struttura delle opere d’arte. Si tratta di oggetti che devono portare dei segni
chiari dell’intenzione che li ha animati. La teoria metacognitiva sembra
tagliata su misura per performances artistiche come le opere di Duchamp. In
realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono particolarmente interessanti
proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti di tutte le opere
d’arte. La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono a sopravvivere al
tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e
comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici contengano un
messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di essere
riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non dipende
dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai parametri
generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una conversazione, di
generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile conoscere i termini
della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi
come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il prodotto
all’interno di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria spiega perché
le opere d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono venir apprezzate
da comunità che sono distanti dalla comunità originale del creatore. La teoria
spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che hanno. I prodotti
artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare la novità -
attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da artefatti
utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro forma
apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la
possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è
riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed
economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per essere
un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione per cui
tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti artistici
sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la maggior
parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte e arte
demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli
artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state
scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di
interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva
riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata
l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria spiega
perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso
dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero
dell'arte.) Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da C. Spiega
l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose siano considerate
arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci con un fondamento
nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo oggetto massimalmente
“conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti amano parlare del
loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è particolarmente arduo da
spiegare in una teoria della comunicazione o dell’espressione). La teoria
spiega perché i quadri hanno le etichette e i pezzi di musica dei titoli. La
teoria spiega perché le opere d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo
per l’autore, come inviti alla conversazione scollegati dalla persona
dell’autore. La teoria è compatibile con svariate strategie che possono venir
messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che è alla base dell’opera vada
a buon fine: sospensione delle routines (Bullot), esposizione in spazi
privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza che gli artisti
producano con un occhio di riguardo alle possibili conversazioni sulla loro
opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto immediato, il problema
dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono oggetti creati con lo
scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La clausola principale è
metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione appropriata di creare
un’opera che sia riconoscibile come... La clausola esclude casi in cui certi
artefatti siano di fatto moneta per lo scambio conversazionale, come le teorie
matematiche, senza essere opere d’arte. Dove interviene lo studio della
cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti
sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire spunti per la
conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione
meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul
contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una
antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa
direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione
La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che
cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è
un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e
all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una
teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è
una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di
risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici.
Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di
fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19
riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta
un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che considera
le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma
dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione di
controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria
metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo
oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente
articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un
oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione
sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi
comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste
uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio. L'arte come idea e come
esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair
of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and
eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course,
various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman
readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the
eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text
might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski
for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments
for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds
particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus
and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their
relationship see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in
Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of
their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE
EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA
SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E
NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o
CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant,
‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of
erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans
has, of course, various thematic functions and will have resonated in various
ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative,
namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced
in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma
insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen.). ‘First came
Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh yourhfulness,
Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus
indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in first place, he
slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then deliberately trips the
man who was in second place, in order the Euryalus may come up from behind an
win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. -- ‘He
was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is
ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell
Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer to a bull’s mate
at Georgics. Indeed, Servius, ad Aen. writing in a different cultural climate,
was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC
SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON
NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his
earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY
SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as
PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear
in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an
effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a
number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus
first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself
upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair.
Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem
miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes
Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora
puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat
pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. Nisus, son of
Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior, swift with the
javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to accompany Aeneas.
And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s followers, none
who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at the beginning
of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love, and rushed
into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the emphaisis
on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard on his
fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE and
fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and is
continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and
especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which
recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM
TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS
SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly
presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND
EURYALUS’S (235-6: Likewise the question
that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive
resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT
DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase
DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning men’s
desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put this
yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira
cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire
to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could
also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction
of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is
notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely
protective for for the youth. Tum vero exterritus,
amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit
perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli,
mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia
sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum, VIRGILIO (si veda), Æn. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the
shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who
did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE
was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky
above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy
friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus
and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms
befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as
sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of
Thebes constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece.
Note also that “meme … figis?” seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314
(mene fugis?. So too Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te
regione reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis
sylvae simul et VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might
recall the scene were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26)
points to parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as
well as as to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of
Thebes, see Plut, Amat. Pelop, Athen. and the probable allusion at Pl. Smp.
When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body
to join him in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum
super exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte
quievit. Fortuanati
ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo,
dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus
habebit. (Vir. Aen.). Then he hurdled himself, pierced through
and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful
death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you
from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the
immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The
praise of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring
– cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’
he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as
parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s
words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS
OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied
in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman
praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother
and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE 1142 = CIL 6.
25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI QUA EST, EA GLORIA
MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 = CIL: a woman praised
by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182.
HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and
granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too Senece quotes the lines as an
illustration of the fact that great writers can immortalize people who
otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for
Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one
that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and
everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so
renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5
VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO
SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes
Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and
eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context –
that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE
FRIENDSHIP, putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND
PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the
relationship between ACHILEES AND PATROCLUS, at least, was openly described as
including a sexual element by classical Greek writers (see n. 92), and with
characteristic cluntness by Martial (11.43), wh cjites the pair as an
illustration of the special pleasures of anal intercourse. The relationships
between Cydon and CClytius, Cycnus and Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on
Eneas’s shield) all demonstrate that pedersastic relationships enjoy a
comfortable presence in the world of the Aeneid. Niusus and Euryalus are thus
HARDLY ALONE. Some scholars have even detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s
depiction of the relationship between Aeneas and Evander’s son Pallas. See e.
g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo and Lloyd have independently described
erotic elements in the relationship between the young Evander and Anchises, a
relationship that, they argue, is then replicated in the next generation, with
Pallas and Aeneas. But their
relationship is more complex than the rather straightforward attraction of
Cydon for beautiful boys, of Cycnus for the well-born young Phaethon, and even
of Jupiter for Ganymede. For while those couples conform unproblematically to
the Greek pedrerastic model (one partner is older and dominant, the other young
and sub-ordinate), Nisus and Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem
progresses they are transformed from a Hellenic coupling of Erastes and
eromanos into a pair of ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent
in the pederstaist paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the
rwo rushed into war side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen
9. 182), and they certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them
from their bold plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS
ISTIS, PRAEMIA POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe
an enemy leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!”
(STATE VIRI, 376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S”
severed heads pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO
471-2 . In other words, although Euryalus is the junior
partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of
being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a
VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a
further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the
pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the
MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of
Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek
poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic
relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and
temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet,
while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle
poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the
Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even
as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a
much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the Homeric
epics to pedersastic relationships on the classical model. The relationship
between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek writers to have a
seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck – from the Myrmidons), Pl.
Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin,
adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly suggesting
a passionate and deeply intense bond between the two, does not represent them
in terms of the classical pederastic model. See further, Clarke, Achiles and
Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and Halperin p.
75-87. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of
Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel
for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT
AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are
strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly,
together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric
based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the
weighty dialogue between Jupiter and June where it is agreed that Trojans and
Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic
relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this
would have been unthinkable in a cultural context in which same-se
relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it
still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus,
and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a
male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas
with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship
that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be
considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female
relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This
tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that
in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between
Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe o
their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY
could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find
HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also
Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not
extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female
relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the
would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that
corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered
stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship
that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is complex.
Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance Aeneas’s
relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s experiences
are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the commitment
to her first husband that makes her a prototypical univira, her involvement
with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the moral framework
poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and Euryalus
does ot. This distintion revelas something about the relative degrees of
problematization of the two types of relationships in the cultural environment
of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no day shall
ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of Aeneas dwells
upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans father holds
sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an adulterous couple ina
Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the epitome of friendship
along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and Oreste e Palade. Luigi
Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la
conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto,
segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo –
logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Casini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale de naturismo – il concetto di
natura a Roma – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like
Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so
did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’
rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto
Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di
natura”. I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si
sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali
nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla
diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a
proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero,
non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in
tale contesto Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue
ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra
rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della
fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca
philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte attorno
al darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza);
Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana,
Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo, Laterza --
razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia”
(Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino);
“Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del
Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il
concetto di creazione (Il Mulino). La lista di autorità e
l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.
Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella
cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo
passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura
romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni
storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni politiche del
Sette-Ottocento. Giuseppe Bottai o delle
ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa -
La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo
Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico dell'economia
corporativa - Il «bolscevico» epurato Mutevolezza e instabilità Scienza», ricerca»,
«arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi:
il fascio di Londra e la sociologia (Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax
romana in Albione - «Aristòcrate» - Dottrina del fascismo - Il postfascismo e
la «rivouzione mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si
parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi -
Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile
vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà
ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi
pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il passaggio del fronte –
Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni
Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche - Ideologie in crisi –
Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti,
Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be - Anni di prova) -
Indice dei nomi Order Zoogonia e "Trasformismo" nella
fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a). Like
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Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend
Bookmark 10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of
the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127.
Dordrecht: Kluwer (review) British
Journal for the History of Science The "Enciclopedia italiana".
Fringes of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Like Recommend
Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the
History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark 10 Rousseau e
l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Like
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Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark 5
Newton in Prussia Rivista di Filosofia Newton 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la
philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The
Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor
Institution, British Journal for the History of Science 17th/18th Century
French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la
"Sacra famiglia" Rivista di Filosofia Lumi e utopie in uno studio di
Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia The New World and the Intelligent Design
Rivista di Filosofia Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for Theism Like
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Filosofia Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia Kant:
Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica, astronomia, relatività:
Boscovich a Roma; « Rivista di Filosofia Introduzione All'illuminismo da Newton
a Rousseau Laterza; Like Recommend
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Giornale Critico Della Filosofia Italiana L'iniziazione Pitagorica Di Vico
Rivista di Storia Della Filosofia; Like
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1976. Jean-Jacques Rousseau Toland e l'attività della materia Rivista di Storia
Della Filosofia British Philosophy, Misc L'eclissi della scienza' Rivista di
Filosofia Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra Studi
Filosofici Il mito pitagorico e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia
Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia Rivista di Filosofia; Like
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Welt um 1700 Early Science and Medicine History of Science Like Recommend
Bookmark L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un Mito. 1998. Pythagoreans
Like Recommend Bookmark 16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de
l'Histoire» Rivista di Filosofia La filosofia a Roma Rivista di Filosofia
Vico's initiation into the study of Pythagoras Rivista di Storia Della
Filosofia Pythagoreans Topic Order Teoria e storia
delle rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia
Semantica dell'Illuminismo Rivista di Filosofia Cheyne e la religione naturale
newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana Newton's Physics and the Conceptual Structure
of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History of
Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark 1 Diderot and the portrait
of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie Diderot Like
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Rivista di Filosofia Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi.
1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la
metafisica Rivista di Filosofia Leopardi apprendista: scienza e filosofia
Rivista di Filosofia Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista
di Filosofia Il metodo di Foucault e le
origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia Rousseau e Diderot
Rivista di Storia Della Filosofia Diderot « philosophe » Revue Philosophique de
la France Et de l'Etranger Continental Philosophy 1 citation of this work Like
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Italiana La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di
Filosofia L'empirismo e la vera
filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 8The Newtonian moment in Italy: A
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Classical Mechanics Like
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di Filosofia Freud Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A
study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana
Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia Newton: the classical scholia History of Science; 1 reference in this
work 15 citations of this work Diderot et le portrait du philosophe éclectique
Revue Internationale de Philosophie Morte e trasfigurazione del testo Rivista
di Filosofia L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific
Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer
(review) British Journal for the History of Science Éléments de la philosophie
de Newton (review) British Journal for the History of Science 2Isaac Newton
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of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Il momento newtoniano in
Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Rousseau e
l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Topic
Order 5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia saac Newton 1
citation of this work Like Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de
Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L.
Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire
Foundation, Taylor Institution, (review)
British Journal for the History of Science. 17th/18th Century French
Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who wrote and read
the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and normatively be
directed at either male of female objects. If this configuration is held to be
NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be represented as NAATURAL,
and it is thus worthwhile to consider the role played by the discourse of
NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This question is both
hughe and complex.Important discussions include Boswell, 1Foucault, 1986,
150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but one thing is clear: the
ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual practices, displays
significant differenct from more recent discourses. Boswell, for example,
observes that while “what is supposed to have been the major contribution of
Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the sole ‘natural’ and
hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a common belief of amny
philosophies of the day’ at the same time, ‘the term UNNATURAL was applied eto
everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal contracts between friends (Boswell).
‘The objection that homsosexuality is ‘unnatural’ appears, in short, to be
neither scientifically nor morally cogent and probably represents mnothing more
than a derogatory epithet of unusual emotiona impact due to a confluence of
historically sanctioned prejudiced and ill-formed ideas about ‘nature.’”Thus,
as Winkler notes, the contrast between nature and non-nature, when deployed in
ancient writings simply ‘does not posess the same valence that it does today’ Winkler,
p. 20 Moreover, nearly all of the texts that offer opinions on whether specific
secual practice is in accordance with nature are works of philosophy. The
guestion does NOT seem to have seriously engaged the writers of texts that
directly spoke to and reflected popular moral conceptions (e. g. graffiti,
comedies, epigram, love poetry, oratory). For this important distinction
between the morallyity espoused by a philosopher and what we might call popular
morality, see the introduction and chapter 1. In short, as Richinlin warns us, the question
I ‘something of a red herring, since the concept of nature takes a larger and
more ominous form in our Christian culture than it did in AAncient Rome,
whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin, p. 533. But it may
nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary exploration of how the
rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN PHILOSOPHERS to sexual practices,
particularly those between males.In other words. I would like to go a step or
two beyond that ‘nature’ is generally used by Roman moralists to justify what
they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always bearing in mind, however, that to
the extent that it was mostly taken up by philsoeophers, the question of
‘natural’ sexual practice seems not to have played a significant role in most
public discourse among Romans. Nonphilosophical texts sometimes do deploy the
rhetoric of NATURE in conjunction with sexual practices, at least insofras they
as they offer representations of ANIMAL bheaviour, one possible component in
arguments about what is natural.2-6, and Win3, on Philo’s description of
crocodiles mating. kler, 2See for example Boswell, 137-43, 15 It will come as
no surprise that Roman writers images of animals’ sexual practices are
transparetntly influenced by their own cultural traditions. Thus in no Roman
text do we find an explicit appeal to animal bhehaviour in order to condemn
sexual practices between males as unnatural.Such an argument does occasionally
appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c (martua parag Omenos en ton
therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux aptomenon arena arrenos dia to
me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To Be sure, Musonius Ruffus’s
condemnation of sexual practices between males as para phusin might imply a
reference to animal practices, and it is possible that in some work now lost to
us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps in being explicit on the
point. A Juvenalian satire does make reference to animal behaviour in orer to
condemn cannibalism (claiming that no animas eat member s of their own species
Juv. And in a passage discussed later in this appendix, Ovid has a character
argue that NO FEMALE ANIMAL experiences SEXUAL DESIRE for other females. These
claims are as unsupportable as the claim that sexual practices between males do
not occur anong nonhuman animals.This is obvious to anyone who has spent time
with dogs. With regard to the academic-study of the question, the remarks of
Wolfe, Evolution and Female Primate Sexual Behaviour, in Understanding
behaviour: what primate studies tell us about human behaviour Oxford, p.are as
illuminating as they are depressing. ‘I have taked with several (anonymous at
their request) primatologists who have told me that they have observed both
male and female homosexual bheaviour during field studies. They seemed reluctant
t publish their data, however, either
because THEY FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my ccolleagues might thank that I
am gay’) or because they lack a framework for analysis (‘I don’t know what it
means’). On the latter point Wolfe insightfully comments that the same problem
affects our attempts to understand ANY sexual interactions among primates.
‘Because the alloprimates do not possess language, it is impossible to inquir
into their sexual eroticism. In other words, homosexual and heterosexual behaviours
can be observed, recorded, and analysed, but we cannot infer either
homoeroticism or heteroeroticism from such behaviours (p. 131). But the fact
that we do find animal behaviour cited by Roman authors to CONDEMN such
phenomena as cannibalism and same-sec desire among females, but not SAME-SEX
desire among males, merely proves the point. These rhetorical strategies reveal
more about ROMAN cultural concerns than about actual animal behaviour. A poem
in the Appendix Vergiliana introduces us to a lover hhappyly separated from his
beloved Lydia. In the throes of his grief he cries out that this miserable fate
NEVER BEFALLS ANIMALS: A bull is never without his cor, nor a he-goat without
his mate. In fact, sighs, the lover: ET MAS QUACUMEQUE EST ILLA SUA FEMINA
IUNCAT INTERPELLATOS SUMPAUQM PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS FACILIS NAUTRA
FUISTI CUR EGO CRUDELEM PATIOR TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The lover is
melodramatically weepy and that consideration partially accounts of his
ridiculous claim that male animals are never to be seen without their mates.
Still, amatory hyperbole aside the verses nicely illustrate the tendency to
shape both natura and animal bheaviour into whatever form is convenient for the
argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting that the best way to appease one’s
angry mistress is in bed, portrays sexual behaviour among early human beings
and animals s as the primary force that effects RECONCILIATION (Ars. The poet
offers a lovely panorama in which animal behaviour is invoked as a POSTIIVE
paradigm for specific human practices: unting otherwise scattered groups (2.
473-80) and mollifying an angry lover (2. 481-90). Less than two hundred lines
later, the same poet invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM, again in support
of a characteristically human concern: discretion in sexual matters. IN MEDIO
PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE PUELLA SUOUS
CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT VESTE PUDDAN
LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE ALIQUID LUCE
PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to a close, Ovid
holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM VEROS PARCE PROFITEMUR
AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE. And we are reminded of the
strategies of this pasage’s broader context. If you want to keep your
girlfriend happy, do not kiss and tell: that is the argument in service of
which animal behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to Ovidian
passages illustrate the utilyt of arguments from the animal world. Just look
ant the animals and see how much we resemble them; just look at the51-5. animals and see how far we have come.An
epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We
huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal
intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by
women are really no better than mere animals (A P 12 245 PAN ALOGON soon bivei
monon oi ligkoi de ton allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes
hosoi de guanxi kratountai ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends
on the eye – and rhetorical needs – of the beholder. OS it is that Roman
writers show how Roman they are through the picture they paint of sexual
practices among animals of the same sex. Ovid himself, in his Metamorphoses,
imagines the plight of young girl named Iphis who has fallen in love with
another girl. In a torrent of self-pity and self-abuse, she expostulates on her
passion, making a simultaneous appeal to NATURA and to the animals that is
reminiscent of Ovid’s sweeping review of animal bheaviour in the Ars amatorial
just cited. But this time the paradigm is an emphatically negative one. SI DI
MIHI PARCERE VELLENT PARCERE DEBUERANT SI NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM
SALTEM ET DE MORE DEDISSENT NEC CACCAM VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT
OVES ARIES SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA
UNCTA FEMINA FEMINEO ONREPTA CUPIDINE NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with
Lydia’s lover, so here we have the melodramatic expostulations of an unah[py
lover, and similarly her view of animal behaviour does not correspond to the
realities of that behaviour. Still, these arguments are pitched in such a way
as to invite a Roman reader’s agreement, and the sexual practices invoked as
natural and occurring among the animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to
the sexual practices and desired SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female
never leaves the male, heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable
way of unting different social groups, and females never lust after females),
or to specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and
we should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It
cannot be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the
context of a girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for
another girl, the mythic compendium in which this natrratie is found is
peppered with stories involves passion and sexual relations between males. Both
Orfeo (after losing his wife Euridice) and the gods themselves (whether married
or not) are represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting
the BRIEF springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met.
10. 83-5 ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE
MARES CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories
that Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once
loved by Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and
Hyacinth (Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy
Athis and his Assyrian lover Lycabas (Met. A passage which echoes of Virgil’s
lines on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that the
stunning but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many
admireers of both sexses (Met. None of Ovid’s characters arever questions the
NATURAL status of that kind of erotic experience or invokes the animals in
order to reject it. Aulus Gellius preserves for us some anecdotes that further
demonstrate the manner in which animal bheaviour could be made to conform to
human paradigms. Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in love with
beautiful boys (one oft them even died of a broek heart after losing his
beloved) Gellius exclaims that they were acing “in amazing human ways” 606C-D
and Plin N H 8 25-8 for this and other tales of male dolphins falling in love
with human boys. Gell 6 8 3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS
FORMA LIBERALI IN NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET
HUMANIS MODIS ARSERUNS. Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more
about ‘human ways’ than about dolphins. The elder Plini, who alo relates this
story regarding the dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants
by observing that they are nonly the largest land animals but the ones closest
to human beings in their intelligence and sense of morality. In particular,
they take pleasure in love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way
of illustration of the ‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites
two examples: ONE MALE FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a
young Syractusan man named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he
tells of a MALE GOOSE who fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of
another who loved a female musician whose beauty as such that she alstro
attracted the attention of a ram. -4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE
TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM IN AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM
SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE IN EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS
NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51 QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI
NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM
TEMPORE ET ARIES AMASSE PRODITUR. Plin N H 8 1. MAXIMUM EST EPLEPHANS
PROXIMUMQUE HUMANIS SENSIBUS QUIPPE INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET
IMPERIORUM OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE
VOLUPTAS 8 13Turing to the concept of NATURA as it applied to sexual pracyices by
ancient writers, we being with basica basic problem. The very term NATURA has
various referents in those texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the
way things are or to the INHERENT nature OF something, sometimes to the way
things SHOULD be according to the intention ordictates of some transcendent
imperative. Thus Foucault speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in
philosophical discourse. The general order of the world, the orgginal state of
mankind, and a behaviour that is reasonably adapted to natural ends.Fouctault,
p. 215-6. See also the discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes
between ‘realistic’ and ‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le
concept de nature a Rome: la physique, Paris). The first two of these axes are
evident in a wife-variety of Roman texts. Departures from what is observably
the usual PHYSICAL constitution of various thbeings could be called NONNATURAL
or UNNATURAL even by nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake
with feet, a bird with four wings, and a sexual union between a woman (the
muthis Pasiphae) and a bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA
NATURAM UT EST MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr.
176.113-5 snakes with feet, birds with
four wings. Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims
that breech births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we
should be born head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA
NATURAM EST RITUS NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian
argues that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some
dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE
CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself opines that being carried about
in a litter is ‘contra natural’a, since nature has gives us feet and we should
use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA
CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS AMBULAREMUS. Finally, the belief
that physical disabilities and disease are UNNAUTARAL, and thus, implicitly,
that a healthy body displaying no marked derivations from the form illustrates
what nature designed or intended, surfaces in a number of texts, arnign from Celusus’
mdical treatise to Ciceroo’s philosophical works to declamations attributed to
Quintilian, to a moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2 1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld. Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM.
Celsus Medic 3 21 15. On fluids that are retained in the body contra naturam.
Cic Off 3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM. Gell. 4 2 3 Labeo defines morbus
asHABITUS CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM.
Cf. D. 21 1 1 7. D. 4Along the same lines, some ancient writers also suggest
that to harm a healthy body with poisons and the like is unnatural.Quint Decl.
Min. 246.3 the plaintiff refers to a substance as a venenum QUONIAM
MEDICAMENTUM SIT ET EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen Epist 5. 4. To torment
one’s body and to eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As for the third of the
axes described by Foucault, anthropologists and others have long observed that
proclamations concerning practices that are in acoordance with nature often
turn out to reflect specific cultural traditions. As Winkler puts it, for nature
we may often read culture.Winkler p. 17. In the same way Edwards p. 87-8
discusses a passage from Seneca (Epist 95.20=1) discussed in chapter 5, having
to do with women who violate their ‘nature.’ She concludes that ‘Seneca was not
reacting to naturally anomalous bheaviour. He was taking part in the
reproduction of a a cultural system.’ So too Veyne, p. 26. ‘When an ancient
says that something is unnatural, he does not mean that it is disgraceful
(monstrueuse) that that it does not conform with the rules of society, or that
it is perverted OR ARTIFICIAL”. Roman sources of various types certainly
support that contention. Thus, for example, violations of traditional
PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND RHETORIC which are surely among the most intensely
cutlrual of human phenomeno are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art
Don. 4 4 4 PLINIUS AUTEM DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM UNUM IN QUO VIS SUA
EST CONTRA NATURAM – Serv Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI. NAM VELLI ET REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET REVULSUS USURPATUM EST TANTUM
IN PARTICIPIIS CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10, pr. 9 –
tof the rhetorician Musa. OMNIA USQUE AD ULTIMUM TUMOREM PERDUCTA UT NON EXTRA
SANITATEM SED EXTRA NATURAM ESSENT. One legal writer invokes the rhetoric of
NATURA to justify the principle of individual ownership (joint possession of a
single object is said to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5 CONTRA NATURAM QUIPPE
EST UT CUM EGO ALIQUID TENEAM TU QUOTE ID TENERE VIDEARIS. Interestingly,
another jurist argues that the principle underlying the institution of slavery
– that one person can be owned by another – is actually ‘unnatural’ (D. 1. 5.
4. 1. SERVITUS EST CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS DOMINIO ALIENO CONTRA
NATURAM SUBICITUR. In a Horatioan satire we read that NATURA sees it that no
one is every truly the ‘master’ of the land that he legally owns, and Natura
puts a limit on how much one can inherit (Hor. Sat. 2. 2. 129-30, 2.3.178). Sallust
describes the violation of the cultural and more specifically philosophical
tradition priviliengy the SOUL over the BODY as UNNATRUAL.Sall. Cat. 2. 8. QUIVUS
PROFECT CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI, ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise,
practices violating Roan ideologies of MASCULINITY are represented as
INFRACTIONS NOT of cultural tranditions s but of the natural order. Cicero’s
philosophical tratise DE FINIBUS includes a discussion of the parts and with
some clarity functions of the BODY that illustrates the relation between NATURE
and MSASCULINITY with some clarity Our bodily parts, Cicero argues, are
PERFECTLY DESIGNED to fulfil their functions, and in doing so they are in
conformance with nature. But there are certain bodily movesmesns NOT in accord
with nature (NATURAE CONGRUENTES> If a man were to walk on his hand or to
walk backwyasds, he would manifestbly be rejecgting his identity as a human and
thuswould thus be displayeing a ‘hattred of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5
35. CORPORIS IGITUR NOSTRI PARTES TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA
AD NATURAM SIT APPARET. The claim that walking on one’s hand is unnatural
nicely illustrates the gap between ancient and more recent uses of the rhetoric
of nature – cfr. Dodgson). The next illustration Cicer o offers of bodily
moveents not in accord with natura concerns correctly masculine ways of
deporing oneself. QUAMOBREM ETIAM SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS,
QQUALES PROTERVORUM HOMINUM AUT MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT
ETIAMSI ANIMI VITIO ID EVENIANT TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA
VIDEATUR ITAQUE A CONTRARIO MODERATI AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE
CORPORIS APTI ESSE AD NAUTRAM VIDENTUR (Cic. Fin 5. 35-6. Deemed ‘agaist
natture’ are certain ways of carrying oneself that are ‘wanton’ and ‘soft,’
movements lthat, like walking on one’s hand or stepping backwards, clasi the
with thvident purporse of the body’s various parts. Implicitly then, nature
wills men’s bodies to move and to function in certain ways. Men who violate
these principles of masculine comportment are acting BOTH EFFEMINATELY (as we
saw in chapter 4, militia is a standard metaphor for effeminacy) AND
UNNATURALLLY. Cultural traditions regarding masculinity – here, appropriate
bodily gestures – are identified with the natural order.Similar conddemnations
of inappropriate bodily comportment, marked as EFFEMINATE, abound: walking
daintily, scratching the hair delicately wih onefinger, and so on (see chapter
4 in general and see Gleason for a general discussion of physiognomy and masculinity
in antiquity. How, then is the rheotirc of nature applied to same-sex
practices? One scholar has recently suggested that the elder Pliny describes
men’s desires to be anally penetrated as occurring ‘by crime against nature’ Taylor,
p. 325. But that is probably a misinterpretation of Pliny’s language. IN
HOMINUM GENERE MARIBUS DEVERTICULA VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or
CCCELERE naturae FEMINIS VERO AOBRTUS Plin N H. The phrase DEVERTICULA VENERIS
which one might translate (by-ways of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague.
There is no reason to think that it refers to specifically, let alone
exclusively, to the practice of being anally penetrated. Moreover, the phrase
SCELERA NATURA or SCELERE NATURAE, rather than ‘crime against nature,’ is most
obviously transated as ‘crime OF NATURE,’ that is, a crime perpetrated BY
NATURE.This is indeed the way Plinio uses the phrase elsewhere, noting that we
ought to call earthquakes ‘moracles of the eart rather than crimes of nature’
(NH 2 206 – UT TERRAE MIRACULA POTIUS DICAMU QUAM SCLEREA NATURAE. See Beagon.
In other words (pace Taylor and Rackham Loeb Classical Library translation, I
take the genitive NATURAE to be subjective rather than objective. I have not
found any parallels for such an objective use of a genitive noun dependent upon
scelus. In any case, Pliny is not implying that all sexual desires or practices
between males are unnatural: in this same treatise, significantly called the
HISTORIA NAUTRALIS or Natural Investigations’ he reports the story of a male
elephant who fell passionately in love with a young man from Syractuse as an
illustration of the obviously natural power of love of love (amoris vis) among
elephants; likewise, he reports the story of a gosse who loved a beautiful
young man.Plin N H 8 13-4, 10.51More explicitly referring to those men who take
pleasure in being penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules
menwho have wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking
makeup, participating in women’s religious festivals, and even taking husbands,
and notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2
139 40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES
MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries
wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in
order to render them more suitable for playing the receptice role in
intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and
the natural standard they they violate is apparently the principle that mature
males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr.
PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM GREGES HABENT
EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT AMPUTANT. Firmicus
Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA NATURAL (5. 2. 11),
and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the assumption that men’s
‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be penetrated. NATURALIA
VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In short, nature’s ditactes
conveniently accorded with cultural traditions, such as those discouraging men
from seeking to be penetrated, or those deterring them from engaging in sexual
relations with other men’s wives: in a poem that urges on its male readers the
principle that NATURA places a limit of their desires, Horace remocommends, as
implicitly being in line with the requirement of nature, that men avoid
potentially dangerous affaris with married women and stick to their own slaves,
bh male and female.Hor. Sat.. NONNE CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se
chapter 1 for further discussion of this poem. Cf. Sat. 1. 4.
113-4: NE SEQUERER MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI POSEEM. In one of his Episles Seneca provides a lengthy and revealing discussion
of ‘unnatural’ behavours that include a reference to sexual practices among
males. He beings, however, by despairing of ‘those who have perverted the roles
of daytime and nightime, not opening their eyes, weighed down by the preceding
day’s hangover, until night begins its approach. Sen Epist 122 2 SUNT QUI
OFFICIA LUCIS NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT OCULOS HESTERNA GRAVES
CRAPULA QUAM ADPETERE NOX COEPIT. These people are objectionably not simply
because of their overindulgence in goof and drink but because they do not
respect the proper function of night and day.Comparing them to the Antipodes,
mythincal beings who live n the opposite side of the globe, he asks. Do you
think these people know HOW to live when they don’t even know WHEN to live?
122.3 HOS TU EXISTIMAS SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI NESCIUNT QUANDO?and
this pervesion of night and say, is, in the end, ‘unnatural’. INTERROGAS
QUOMODO HAEC ANIMAO PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET TOTAM VITAM IN NOCTEM
TRANSFERENDI? OMNIA VITA CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA DEBITUM ORDINEM DESERUNT
(Sen Epist.). He then proceeds to tick off a serioes of bheaviour
that are similarly CONTRA NATURAM. First, people who drink on an empty stomach
‘live contrary to nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE
QUI IEIUNI BIBUNT QUI VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET AD CIBUM EBRII
TRANSEUNT. Young men nowadsays, Seneca continues, go to the baths before a meal
and work up a sewat by drinking heavily; according to them, only hopelessly
philistine hicks (patres familiae rustici … et verae volupatigs ignari) save
their drinking for after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS HOC
ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE
INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC
FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC
PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment,
with its contrast between URBAN AND RUSTIC life, austerity and luxyry, is a
valuable reminder of us. The standard violated by those who drank betweofre
eating was what we would call a cultural norm. But for Seneca they were
violating the dicates of NATURE, abandoning the proper order (debitum ordinem)
of things. This important point bust be borne in mind as we turn to the next
practices that come under Seneca’s fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM
VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT CONTRA NAUTRA QUI
SPECTANT UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS VEL VISERIOUS
POTEST? NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM CONTUMELIAE
SEXUS ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist 122. 7). The concept of the proper order is very much in evidence here, and
here again the order shows unmistakable signs of cultural influence. Just as
those who turn night into day or drink wine before they eat a meal are engaging
in unnatural activities, so men who wear women’s clothes live contrary to
nature – yet what could be more cultural than the designation of certain kinds
of clothing as appropriate only for men and others as appropriate only for
women? Moving on to his next point, Senceca continues to focus on extermal
appearance. Men who attempt to give the appearance of the boyhood that is in
fact no longer theirs also ‘live contrary to nature’. Again the order of things
has been disrputed. Boys should be boys, men should be men. But these
particular men want to LOOK like boys in order to find older male sexual
partners to penetrate them. Such is the thenor of Seneca’s decorous but blunt
phrase, ‘so that he may submit to a man for a long time’ (ut diu virum pati
possit’). If we filter out Seneca’s moralizing overlay, this detail gives us a
fascinating fglimpse oat Roman realities. These MEN scorned by Seneca acted
upon the awareness that MEN would be more likely to find them desirable if
their bodies seemed like those of BOYS (not men): young, smooth, irless.
Moreover, the very fact that these men made the effort suggests that th actual
age of the beautiful ‘boys’ we always hear of may not have mattered to their
loveers so much as their youthful APPEARANCE.Cf. Boswell, p. 29, 81. All of
this is very much a matter of CONVENTION, of CULtURAL traditions concerning the
‘proper order’ of things, but Seneca insistently pays homage to NATURA.Cf.
Winkler, p. 21. “Contrary to nature means to Senea not ‘outside the order of
the kosmos’ but ‘unwilling to conform to the simplicity of the unadorned life’
and, in the case of sex, ‘going AWOL rom one’s assigned place in the social
hierarchy’”. The importance of this order is especially clear in the climactic
illustrations of those who live ‘contrary to nature’. These are people who wish
to see see roses in winter and employ artificial means to grow lilies in the
cold season; who grow orchards at the tops of towers and trees under the roofs
of their homes (this latter proving Seneca to a veritable outburst ofm moral
indignation)., and those who construct their bathhouses over the waters of the
sea Sen. Epist 122 21 NON VIVUNT CONTRA NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN
MARI IACIUNT ET DELICATE NATARE IPSI SIBI NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA
FLUCT AC TEMPESTATE FERIANTUR. Finally
Seneca returns to the example of unnatural practices that sparked the whole
discussion: those who pervert the function of night and day aengage in the
ultimate form of unnatural behaviour (Sen Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA
CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM VELLE NOVISSIME IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET SOMNI
TEMPUS EST QUIES EST NUNC EXERCEAMUR NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That the
practice ofs of growing trees indoors, of building bathhouses over the sea, and
of sleeping by day and partying by night should be considered unnatural makes
some sense in relation to notions of the ‘proper order’ of things. Plants
should e outdoors, buldings should be on dray land, and people should sleep at
night. But that thes practices should be cited as the most egregious examples
of unnatural bheaviour – they constitute the climax of Seneca’s argument –
demontrastes just how wide the gap is between ancient moralists and their
modern counterparts on the question of what is natural. With regard to mature
men who seek to be penetrated by men, the third of Seneca’s examples of
unnatural behaviour, Seneca makes in passing a surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET?
122.7. The clear implication is that a nature man
certainly ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for
penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS
AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is
suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING
PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized
as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual
practices BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical
suggestion FOR A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact.
He slips the comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly
(it makight ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then
instantly moves on to other, less controversial arguments. FOR as opposed to
Seneca’s suggestion that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’
from ‘indignity,’ the usual Roman system of protocols governing men’s sexual
behaviour required the understanding that A BOY is different from A MAN precisely
because they COULD BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to
masculine or male status (see especially chapter 5 on this last point). But
Seneca, waxing Stoic, here voices a dissenting opinion, as does the first
century A. D. Stoic philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we
find the remark that sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’
(‘para-physical’) Muson, Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be
be put in the context of Musonius’s philosophy of nature. According to
Musonious, every createure has its own
TELOS beyond the goal of simply being aalive En a horse would not b e fully
living up to its telos if all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7
Lutz)., while the TELOS or goal of a human being is to live the life or arete
or VIRTUS. Thus, “each one’s nature (phusis) leads him to his particular
virtuous quality (arete), so that it is is a reasonable conclusion that a human
being is living in accordance WITH nature NOT when he lives in pleasure, but
rather when he lives in virtue” 108.1-3 Lutz). Elsewhere he opines that human nature
(phusis – anthropine phusis, natura humana, Hume, Human Nature) is not aimed at
pleasure (hedone, 106.21.3 Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to be
avoided in EVERY way, as being the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By
implication, then, eating, drinking, and aopulating are not in themselves evil,
but they can easily become sgns of a life of luxury, and if those activities
aconstitute the goals of our existence, we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL
AS A HUMAN BEING, namely, the practice of virtue, or reason, and consequently,
not living IN ACCORDANCE WITH NATURE, but against her (paa phusin). Thus, as
part of a regime of SELF-CONTROL (MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not
addictive behaviour or weakness of the will) Musonius argues that a man should
engage in a sexual practice only within the context of marriage for the purpose
of begetting children. Any other sexual relation, even within marriage should
be avoided. T”Those who do not live licentiously, or who are not evil, must
think that only those sexual practices are justified which are consummated
within marriage and for the creation of children, since these pratcttices are
licit (NOMIMA). But such people must think that those sexual practices which
hunt for mere pleasure are unjust and illicit, even if they take place within
marriage. Of Other forms of intercourse, those committed in moikheia (I e. a
sexual relation with a freeborn woman under another man;s control) are the most
illicit. No more moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES,
since it is a DARING ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse
with with females apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of
these are too shameful, because done on account of a lack of self-control. If
one utside to behave temperately
(TEMPERANTIA, CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a
courtesan, nor with a free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s
own slave woman (Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1,
Musonius’s final remark reveals the extent to which the sexual morality that he
is preaching is at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion
that men should keep their hans off prostitutes and their own slaves the only
surprising statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He
elsewhere aargues against the obviously widespread practices of giving up for
adoption or even exposing unwanted children (Lutz), of EATING MEANT (here he
explicitly contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather
than the other way around (Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz), of using
wet nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands sexual
freedoms not granted to wives (Lutz). Thus his condemnation of sexual practices
between MALES is issued in the context of a condemnation of ALL SEXUAL PRATICES
other than those between husband and wife aimed at procreation (strictly
speaking, vaginal intercourse when the wife is ovulating) and also in the
context of a a suspicion of all luxury oand of pleasures beyond those relating
to the bare necessities of life. Thus he condemns sexual relations between
males as contrary to nature (the implication being that the two sexes ARE DESIGNED
TO UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE), while sexual relations
between malesand female outside of marriage are criticized as ‘illicit
(para-noma) and as signs of lack of self-control. Here Musonius is obviously
manipulating the ancient contrast between law or convention (nomos) and nature
(phusis) and interprestingly procreative relations within marriage are
ultimately given his seal of approval not because they are more ‘natural’ than
tother sexual practices, but because they are ‘licit’ or ‘conventional’
(nomima), just as adulterious relations are most ‘illicit’ of unconventional
(paranomotatai). In other words, Musonius invokes the rhetoric of nature only
by way of secondary support.. A male-male relation is no more ‘moderate’ than a
adulterious relationa dn anyway, he adds, they are ‘unnatural’. But a relation
between a man and another man’s wife, while implicitly ‘natural’,is in the end
more ‘illicit’ than a male-male relation. Even for the Stoic Musonious, NATURA
may NOT be the ultimate arbiter. Interestingly, when he describes sexual
practices between males as being against nature, Musonius does not appeal to
animal bheaviour as does Plato in his Laws (836c). Indeed, such an argument
sould have ill-suited Musonius’s argument elsewhere that humans are different
from other animals and should not takem them as a MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he
argues that wise men ill not attack in return if attacked – such revenge is the
province of MERE ANIMALS – Lutz) – and that, while among animals an act of
copulation suffices to procude offspring, human beings should aim for the
lifelong union that is marriage (88.16-17 Lutz). Finally, there is an important
distinction to observe between Musonius’s remark concerning sexual practices
between males and later Christian fulminations against ‘the unnatural vice’
which came to be a code term for ‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go
so far as to condemn such relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think
about the implications of his words, relations between MALES do not even
constitute the ULTIAMTE sexual crime. He declare that ADULTEROUS relations are
‘the most illicit of all’ (paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than
relations between males which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore
Musonius’s approach to the problem of sexual behaviour differs from later
Christian moralists in a fundamental respect. As Foucault puts it, according to
Musonius, ‘to withdraw pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach
pleasure from the conjugal relation in order to propoeseother ends for it, is
in fact to debase the ESSENTIAL composition of the human being. The defilement
is not in the sexual act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate
it from marriage, where it has its natural form and its rational purpose” Foucault
CICERONE (vedasi) ro in a passage from one of this major philosophical works,
the Tusculan disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca
and Musonius Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the
extreme suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan
Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that
the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who
describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero
notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem
liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS
AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI
RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET
LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy.
NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than
to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE.
Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in
perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion
which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM
FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO
CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO
NOMINE ALIO POSSIT APPELARI TANTAE
LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These
words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire
(QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with
boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion
with women, so that when men DO INDULGE
IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE –
that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour
and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In
fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural.
Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always
love, and would love the same thing: one person would not be deterred from
loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety
– ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM
AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s
remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more
than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration.
In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa
woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to
preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL
SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem
to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly
Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to
which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build
buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT
FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s
claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to
be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables 4 16
discussed in chapter 5 implies, whitout actually using the word NATURA, that
males who desire to be penetrated (molles mares) and females who desire to
penetrate (tribades) have A FLAWED DESIGN. When Prometheus was assuming these
people’s bodies from CLAY, he attached the genial organs of the opposite sex in
a drunken slip-up. But his more popularizing account only specifies that those
males who DESIRE to be penetrated are anomalous. It does not designate those
men who seek to penetrate other males as unnatural. On this model, a sexual act
in which a master penetrated his UNWILLING MALE slave is NOT UNNATURAL. By contrast, according the
philosophers discussed here (Musonius most expliclty) this act would be
unnatural. But on the whole very few
Roman writers seem to have taken this kind of argument to heart. In general,
ROMAN MEN’S BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for
purposes OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only
organ suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment
in an epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL
WITHIN with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS
GENITALS. This is objectionable because it will speed up the process of his
maturation and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries
to talk some sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO
NATURE. DIVISIT
NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE TUA Mart. The comment is of course a witticigm. Note the logical contradiction
that this playful invocation of nature creates. If the penis is designed by
nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s anus in the
way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same time use
his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl? See
chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with Martial’s
humorous invocation of the paradigm of nature with regard to masturbation. but
if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is designed by
nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to Martial’s
readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer tha man
onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona,
dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the
passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus,
reflects the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and
NATURAL sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover,
that neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving
Roman text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a
boy is ‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act
(SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited
in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS
MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE
FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM.
Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman
readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149
“Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the
‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean
by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and
women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic
particles that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to
them are an integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident
in such diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things,
Martial’s epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep
in mind when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero.
These are the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of
love, Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and
Musonius arguing that men should engage only in certain kind of sexual
relations and only with their wives, the goal being the production of
legitimate offspring and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell
u something about the world in which these three philosophers who made them
lived, and about what men and women in that world were actually doing. Seneca
for example is hardly fulminating about imaginary fices) but they tells us even
more about Cicero, Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical
allegiances We have every reason to believe that comments like their rpersented
a minoriy opinion. Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed
that A MASTER has absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is
precisel that man shoes VOICE dominated the public discourse on sexual
practice. Moreover, as Winkler (p. 21) trenchangly observers, Seneca’s
condemnation of such ‘unnatural’ behaviour as growing hothouse flowers or
throwing nightime parties, ‘though articulated as universal, is OBVIOUSLY
DIRECTED AT A VERY SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE WHO CAN AFFORD THE SORT OF
LUXURIES Seneca wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It is telling, too, that
Cicero himself never makes this kind of APPEAL TO NATURA in the SEXUAL
INVECTIVE sscattered throughout the speeches he delivered in the public arenas
of the courtroom, Senate, or popular assembly, and that the argument appears
NOWEHERE ELSE IN the considerable corpus of Seneca’s moral treatises. Likewise,
it is worth noting that Musonius Rufus’s who makes the most extreme case, not
only wrote his treatise in GREEK rather than Latin, as if to underscore its
distance from he everyday beliefs and practices of Romans, but as a philosopher
omitted to stoicis in a way that Cicero and and Seneca are not. As Haexter
reminds us, Cicero proposes manydifferent rhetorical and philosophical
positions in his speeches, letters, and dialogues, and Seneca’s epistles to
Lucilius offer a tentative and experimental mixture of Stoicism and other
philosophical schools (many of his earlier letters end with quotations from
Epicurus, for example). In any case, Boswell, cp. 130 citing ancient sources
claiming that the very founder of stoicism, Zeno, engaged in sexual practices
with males (perhaps even exclusively) tnote that many ancient stoics actually
seem to have considered the question of sexual praticess between males to e
ETHICALLY NEUTRAL. Finally, It is worth noting that both Seneca and Cicero were
thought not to have practiced what they prached. In a discussion of how
Seneca’s behaviour often stood in contracition to his own teachings, the
historian DIO CASSIUS observes that although he married well, Seneca also
“takes pleasure in older lads, and teachers Nero do to the same thing, too”.
Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has praton gamon te epiphanestaton egme kai
meikarious exorois exaire kai tauto kai ton Nerona poietin edidaxe. The
historian goes on to insutate that Seneca fellated his partners, speculating on
the reason why refused to kiss Nero. One might imagine, Dio notes, that this
was because he was gisuted by Nero’s penchant
for oral sex. But that makes no sense given Seneca’s own relations with his
boyfriends (61 10 5 o gar toi monon an
tis hupopteuseien hoti ouk ethele toiouto stoma philein elegxketai ek ton
paidikon autou pseudos on). The younger
Pliny (Epist. 7.4) informs us that Cicero addresses a love poem to his faithful
slave and companion Tiro. Of course neither of these pieces of information
tells us anything about Cicero’s or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem
could have been a literary game and the stories a out Seneca that constituted
Dio’s source may well have been unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see
McDermott and Richlin. P. 223, Canatarella p. 103 assumes that they actually
ENJOYED A sexual relationship)). On the other hand, is it not impossible that
Cicero actually DID experience DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the
company of MATURE MALE SEXUAL PARTNERS. And abovre all it is important to
recognize that later generations of Romans (the younger Pliny and Dio) were
willing to IMAGINE THOSE THINGS HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s
comments on Cicero remind us of the
cultural context in which a philosopher’s allusion to NATURA must be placed. Paolo
Casini. Keywords: naturismo, naturalismo, natura, nazione, patto sociale, la
legge naturale, l’uomo, contra natura. “antica sapienza italica” razionalismo,
la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Casotti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del volere – filosofia fascista
– scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casotti;
of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade
or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT
you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course
reminds me of my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a
human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning
‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa
sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione
idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla
dottrina gentiliana dell'attualismo.
Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in
vista di un rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso
professionale in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di
Gentile, da lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e
Torino. Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola
Italiana. Motivazioni personali, unite
all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo portano il ad
allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche
precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una
filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis
philosophia” dell'aristotelismo aquinista.
Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando
l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento
rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il
rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa
dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità,
concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita,
incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che
consente il passaggio dalla potenza all'atto.
Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna,
rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua
filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come
disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno
speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e
adattare alle difficoltà del contesto.
Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze,
Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia
e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e
Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau,
Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale,
Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva,
Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano,
Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La
Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia,
La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà,
Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte
e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia,
La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico, Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra C. e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia
nel pensiero di C., «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e
Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa,
«Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un
Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale , L ' Idea
Nazionale. vedere C., Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola , 1920,
nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli
insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la...
Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale
riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova
pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923.
Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola,
Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his
career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a
conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924.
There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with
a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and
director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance
in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he
is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin;
he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He
produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually,
he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or
end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that later
became more widespread among Italian philosophers. AQUINO Saggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di creazione, quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di autoeducazione, va meditata, seriamente, se non si vuol
correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli attivisti. Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine attività al posto del termine autoeducazione,
e il termine spontaneità al posto del termine creazione, che conviene solo a
Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire,
nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro:
nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - naturalistico, anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia
di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al
mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare
ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella
maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri
nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un
periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e
soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con
sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che
doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San
Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo
le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non
fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o
non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non
si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E'
cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso
giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale
osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo
povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia
dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere
rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a
cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una
realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che
discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e
toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e
censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano
prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor
fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.
Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active,
qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di creazione, quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di autoeducazione, va meditata, seriamente, se non si vuol
correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche
di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli attivisti. Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière.
Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine attività al posto del termine autoeducazione,
e il termine spontaneità al posto del termine creazione, che conviene solo a
Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire,
nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro:
nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - naturalistico, anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso
d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno
questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un
rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango
di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono
essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande
Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia
potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi,
è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri
lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto
essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate,
intorno all'educazione, dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche
così come le abbiamo prese e tentato di rivivere, emana già una luce che non
può essere, come i nostri avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo
che preceda la notte d'un passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che
precede il giorno nuovo pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel
riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un
pericolo per la libertà e l'originalità della ricerca scientifica s'è già
risposto, e nel nostro volume Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione,
filosofia e filosofie nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare,
per finire, che non certo la pedagogia cattolica si può accusare di scarsa
originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle figure che giganteggiano
già nella storia della moderna educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui
grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista, si comincia appena
adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia cristiana aspettano solo
chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al pubblico studioso, con quello
stesso amore che altri mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle
scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più
abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore
(Piacenza) Convento di S. Francesco, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. I
saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario
intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna.
Eccezion fatta pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla
XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli
Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e
Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a
tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato,
anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo
ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina
al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi
a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge
colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di
sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in
quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in
ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma
c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo De
magistro, è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto
quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: che cosa è l'educazione?
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: come è possibile
l'educazione?. Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che
cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo
rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna
cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi
tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è
offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte
quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi,
nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre
l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente
essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è
possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente
l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto
fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che
possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve
queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro,
cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non
significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti
pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate
cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la
ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua
rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più
moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. Posto così, il problema dell'
educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche
pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il
formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno
sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine trasmettere
o comunicare o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire
l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora
parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o
cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò
che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la
scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano trasmettere, nel
significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto
interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto
impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è
impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia
spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato
problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la
difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due
soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa,
e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di
ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo
meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la
maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su
salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza
(mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava
interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a
dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello
stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando,
cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al
discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più
tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la
dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione:
dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la
concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che
immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo
via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al
soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la
sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall'
insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir
meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua
essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che
potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne
aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto
diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una
profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita
attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in
un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava
anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto
soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere
subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso
l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a
ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente
scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De
Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto
conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un
modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa,
come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della
pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui
s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S.
Agostino, né più né meno d’AQUINO (si veda), incomincia da questa domanda.
“Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro
soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro
agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra
appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che
tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la
parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni
grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il
veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al
discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la
strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce
e si svolge normalmente l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e
geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla
quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche
sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera
che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una
magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo
col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione
della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a
volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere
più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro
possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come
ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo intuitivo od oggettivo,
ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte,
del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per
sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa
stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli
spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione
l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il
camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco
devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente,
anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla
cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito
tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete:
né più né meno della parola trisillaba parete [Cfr. S. agostino: De Magistro
Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio,
parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo
inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non
conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci
servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le
conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola
latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio
perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi.
Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di
altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi,
per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola capo la prima volta
che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con
quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere
il suo significato [Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno
intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il
linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal
procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli
qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire
ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la
possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro
allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere
veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili,
invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della
mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono
date Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo
attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose
intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore. E che cos'è
questa verità? ...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto
abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio;
chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre,
quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà [cap.
XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria
autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il
sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta,
una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e
si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del
platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della
reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro
al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra
soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto
l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può
insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità,
ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il
fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto
l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la
possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha
preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti
geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e
tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci
desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è
infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà
precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma
la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non
le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del
problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III
L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il
problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o,
meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a
noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora,
il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare
l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso
le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di
teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più
recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del
Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di
alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci
permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo
il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il
che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che
passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De
unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto
quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le
tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di
polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente
insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è
ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi
problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da
augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce
in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior
esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella
questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella
questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell'
altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra
maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro
uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale
quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più
probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina
averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica
intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa
domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità
dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine
all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può
essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo
che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo
come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con
intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa
essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. Quod intellectus omnium hominum
est unus et idem numero [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1°
pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate
dallo stesso Arcivescovo nel 1277: Quod scientia magistri et discipuli est una
numero... Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro,
all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270
dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione
riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di
interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare,
adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In
sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da
un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale
interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni
speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi
attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma
doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente
attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò
nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari
oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli
soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli
averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano
diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria:
differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al
massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo
a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo,
qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.
Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben
merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi,
l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare
oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo
antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi
dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se
l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e
nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo,
almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal
difficoltà della comunicazione fra maestro e scolaro che tanto aveva
tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno
collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella
maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in
ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al
trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia
e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in
modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso
titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria averroistica
accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era
dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria
capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema
dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro,
costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli
averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella
quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di
creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non
basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze
circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e
fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la
pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al
principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto
pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto
pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità,
riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare
una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé
con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria
dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si
considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si
riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori
arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche
condannate affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non
conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi
gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma
alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i
commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di creazione da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle
intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che
sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta
insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce
in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il
De Magistro d’AQUINO (si veda). IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle
due diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a
discutere la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che
riguarda la teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si
riferisce alle teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, l'averroismo
è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti
fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè,
dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò
ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da
quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi
nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce
dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et
secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero
aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse
habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc
quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove
bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale
appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a
differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e
molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si
può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro,
non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo
all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire,
s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro
individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non
sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la
scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per
natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel
fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo
che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico;
mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il
maestro, quindi, non comunica né trasmette scienza nel senso vero e proprio
della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e
ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla
luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come
adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua
chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il
vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui
giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un Io unico per tutti i soggetti
particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare
la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già
faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie
moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro
deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare
il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e
separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste
singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del
pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro?
Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa
difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il
termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta
di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale continuatio vel unio come
la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa
attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, immanente.
Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di
contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede
appunto se sia possibile rendere immanente un intelletto unico nei singoli
soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è
ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla
teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, ...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro... [De Mag. Art. I ad 6.tum ...docens non dicitur
transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia
quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria
dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema
della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti
pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che
se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in
rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non
è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in
generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa
prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è
Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui
che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato,
considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio,
e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di
idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il
problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che
le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e
da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti
individuali. Accanto a questa dottrina AQUINO (vedasi) ne ricorda, per
criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica,
se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri
credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza,
virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi
soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte
le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. Quidam vero e
contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab
exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem
manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu
in materia latentes [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della
Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella
secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che
la materia acquista per partecipazione delle Idee. Sic etiam ponebant, quod
agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit
materia corporalis per participationem specierum separatarum [S. Theol. I, q.
117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è
efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di
questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia
concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non
consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin
dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè
precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come
sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica. La
dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la
dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto
contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una
idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un
medesimo idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza
ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di
stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la
luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e
la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che
il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che
già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe
aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno
che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi
di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa
scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza
oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più
chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e
autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in
senso averroistico, AQUINO (si veda) ha effettivamente innanzi a sé già i
motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra
mentalità, la pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e
all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in
questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma
che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere
sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le
altre, si capisce, quella riguardante la possibile comunicazione fra maestro e
scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come
potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento
fondamentale contro l'efficacia didattica dei segni ond'è intessuto il
linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi
significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a
insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni. A ciò S.
Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più
importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la
quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può
considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza,
dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché,
per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività
conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune forme
o categorie come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza,
la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità e
dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo il
tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica
della conoscenza, che non è affatto un innatismo simile a quello, poniamo, di
Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio apriorismo capace di richiamarci
quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai
minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale
distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in
parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'a priori nella conoscenza,
distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra a priori ed a posteriori].
Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un a priori nella conoscenza,
sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe
tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza (benché,
eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione
dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro,
ma solo in potenza ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in
sé alcuni germi di scienza quaedam scientiarum semina, cioè alcune,
virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata
dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le categorie. Che contengono
già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata,
presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali
dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali
nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi
di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in
potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per
escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia
contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è
nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del
pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza,
e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed
esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o,
meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo
il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non
sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli
insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed
implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto
possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo AQUINO (si veda) uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza
umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una attività
sintetica. A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i
suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus
implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per
officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando ].
L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante
quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei
primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività
unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza,
come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il
processo del ragionamento. Tanto che se si propongono ad alcuno cose non
incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si
produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede. VI. Sia concesso prima
di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria d’AQUINO (vedasi) riguardante
i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è
mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e
radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato
contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un
segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai
potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza
relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome
dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto
dei principi si sono messe le categorie di Kant, l' io di Fichte o i momenti e
gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema
ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'io,
resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in
quanto è sembrato che l' io solo fosse un principio immediatamente per sé noto,
e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si
deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e
qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella
quale si trovano i principi primi della teoria tomisticoaristotelica, la quale
sotto questo aspetto è dunque tanto moderna e critica come qualsiasi altra.
Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere,
mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della
conoscenza intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha
bisogno di un motore (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza
all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale
dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per
una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i
primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave
lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte
non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le
conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece,
scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre
cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi
principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e
deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare,
sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per
effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il
maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: inquantum proponit discipulo ordinem
principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem
collativam [S. Theol. loc. cit].
Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume
intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o,
meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per
sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori,
disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della
esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove
conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza
sensibile ci offre. Coi concetti di uno, di essere, ecc. (primi principi) io
non posso formare i concetti di animale, di vegetale, di uomo ecc. se
l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali,
animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io
formo appunto il concetto di animale, vegetale, uomo ecc. Processo che S. Tommaso descrive così: Cum
autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia,
quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam
acquirit scientiam eorum quae nesciebat... Non basta, cioè, che ci siano i
primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre
ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente
umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste
particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che
ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del
maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo:
presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità
delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero
proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa
ricavare direttamente le cognizioni stesse [...cum proponit ei aliquas
propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus
dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia
vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis manuducitur
in cognitionem veritatis ignotae. S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo,
S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro aliqua auxilia
vel instrumenta aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro
uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che
facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la
solerzia di chi li adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria
agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità
all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà
di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi
lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto
avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per
intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che
non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha
creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero
nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero causassero, cioè
producessero qualche cosa ...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus
aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint [De Mag Art. I
(in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche
il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la
bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci
di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è
appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie,
averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione
dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col
non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa
d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che
ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e
capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita
proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la
giustificazione. Ma, e quel tale, difficile problema della comunicazione fra
maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse,
mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto?
Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che
saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio
di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa
parlare, in genere, di passaggio della scienza dal maestro allo scolaro? Un
oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso
oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando
sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa
scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e
contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del
maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra
loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre
anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come
due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto
unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza
passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri
come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo
animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla
scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche
oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo
sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno
dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti,
nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo
della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza,
anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una
scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e
basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale
apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del
modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol
dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né
uno di numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce
l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche
dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto
è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di
medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo
altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo
intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico
per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e
fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi
intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé,
tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa
questo? Soltanto che ...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo
operatur ars, et per eadem media, quibus et natura [De Mag. Art. I (in corp.)]
il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o
sia identica alla natura. Come la natura chi soffrisse per il freddo
riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che
l'arte imita la natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della
scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose
ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto
[Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la
somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell'
insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte
non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal
problema della comunicazione? Com'è possibile che il maestro, imitando la
natura, possa, sia pur non trasmettere nel senso materiale della parola, ma
anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla
sua? Ecco, come S. Agostino, anche AQUINO (vedasi) non mette in dubbio
che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il
linguaggio e siano i SEGNI ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla
difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la
materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e
l'interiorità della scienza. Poiché il segno del linguaggio ha, per S. Tommaso,
una fisionomia tutta speciale: è sensibile, sì, ma d'una, se vogliamo così
chiamarla, sensibilità affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle
qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile
della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il fantasma
o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di
quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma
linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o
percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei
concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una
relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi
concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: il calore
dilata i corpi. Che è quella legge? Niente altro che una forma. Nella natura é
la forma di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella
natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia,
come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere.
Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei
singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la
sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque,
arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e
percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto,
osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare
e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge
universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso
condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi
ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione. Si noti, però, la
difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato
sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a
formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne
seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella forma
che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e
come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto
non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le
difficoltà e incertezze che ne seguono. Ma si prenda, invece, la stessa
legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce
del maestro, con queste precise parole: il calore dilata i corpi. Anche qui
essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole.
Segni tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b,
c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole il calore
dilata i corpi si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla
legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più
come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma
come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle
parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne
fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la
legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile
vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma
non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole il
calore dilata i corpi (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far
finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il
processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere
turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima
attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la
legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto
regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente
intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche
ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di
svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il
processo, ne ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso,
no. È questa, forse, una delle più originali caratteristiche della
pedagogia delineata d’AQUINO (si veda) Per la quale, a differenza di ciò che
succede in moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né
eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi intuitivi od oggettivi escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono
variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S.
Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima
puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo
scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole
dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza
nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e
dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili".
Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano
scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori
dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De
Mag. Art. I (ad XI.nium). IPSA VERBA DOCTORIS AVDITA VEL VISA IN SCRIPTA HOC
MODO SE HABENT AD CAVSANDVM SCIENTIAM IN INTELLECTV SICVT RES QVÆ SVNT EXTRA
ANIMAM QVIA EX VLTRISQVE INTELLECTVS INTENTIONES INTELLIGIBILES ACCIPIT QVAMVIS
VERBA DOCTORIS PROPINQVIVS SE HABEANT AD CAVSANDVM SCIENTIAM QVAM SENSIBILIA
EXTRA ANIMAM EXISTENTIA INQVANTVM SVNT SIGNA INTELLIGIBILIVM INTENTIONVM. E
sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius)
che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto
che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già
astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o
"intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli
oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere
senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere
dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente,
attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato
finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari
forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo,
è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e
sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo
scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli
elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli
elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può
anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce
se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del
maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e
farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al
nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del
maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che
la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e
valore. È risolto, così, quel tal problema della comunicazione fra
maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati
del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile
del linguaggio, o, in genere, dei segni fonici, mimici o grafici di cui si
serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e,
insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza
nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera causa di scienza allo scolaro -
San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i segni del maestro, ma
il lume intellettuale e i primi principi dello scolaro stesso, il quale scopre
la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già
ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così
formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale
consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea,
che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo
sostituire. L'opera del maestro altro errore che AQUINO (vedasi) combatte
continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro non è
già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume
intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera
superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano
l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo
riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di
Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.
L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la
natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento
rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso
un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi
si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più
brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo
paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni
abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un
fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il
centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di
se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno,
siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde
senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci,
intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione;
ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la
dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla
differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: acquistar
scienza da sé ed esser maestro di se stesso. Che cosa vuol dire acquistar
scienza da sé secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che
abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi.
Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile
egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua
mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura,
esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a
proposito della gravitazione e della dilatazione. È questa, così
ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui
estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da
parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della
esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a
che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che
chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato.
Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè,
la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De
Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar
confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma
se questo processo é, innegabilmente, acquisto di scienza, è poi anche insegnamento,
o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si
svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme
intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle
forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono
soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di
chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli
non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un
altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso
soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne
consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le
forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come
possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente
esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge
della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei
corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e
non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura
legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non
avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina)
per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene
due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto
l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per
potersi parlare di vera e propria azione (azione perfetta) é necessario che
l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non
accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)].
Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una
malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non
contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce
la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio
d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è
necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da
essere una vera e propria azione (azione perfetta) occorre che nell’agente sia
già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade
soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in
sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà
poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio
è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la
causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene
sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme
pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere
di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene - un'astratta
escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S.
Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo.
Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo
all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice
insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che
dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a
quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente,
l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo
ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente
nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo
normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita
elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di
camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che
l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare,
uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche
dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo
migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e
che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà
l'autodidatta merita lode ...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la
ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si
segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più
perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento [De Mag. Art.
II (ad 4.tum.) quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit
perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad
sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per doctrinam].
Né si creda che quel ridurre a scienza più speditamente, sia solo una
sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così importante
che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la differenza
fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie
moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è la
scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente
realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito
sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo
genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che
non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma in potenza o come pura possibilità di conoscere, non già come atto,
o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa
reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma
in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può
dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è
la pura possibilità di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere
in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la
scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una
pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il
figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla possibilità di vivere.
Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in
atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa. Ecco la
differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo
questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un
germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa
o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la
realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel
quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab
aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi
rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco,
quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e
l'autodidattica, fra lo scoprire e l'imparare. Si capisce che per coloro i
quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga
l'inventio: se prima non abbiamo scoperto o tratto dal nulla la scienza, che
cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è
vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè,
scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che
cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà
la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure
forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire
come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la
scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il
valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento,
poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore
a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si
potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle
rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico
dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno,
non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della
scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo
atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre
vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in
una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e
concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di
dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria
della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve
saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume
Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1930]. Basti qui
ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si
ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della
scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui
il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina
intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto
che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua
funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più
elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere
umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i
primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca
puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai
Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la
Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I geni
di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come
procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta
e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce,
soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto,
l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto
stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola
come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come
per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede
tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto
l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende,
senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente
divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova
nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli
che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre
il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la
legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione
per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione. Taluno,
certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a
nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a
ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il
Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità.
Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e
fondata sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò,
la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di
tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo
in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era
il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto
osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e
organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica
povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le
intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna
cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi
come quello di attività o libertà e quello di autodidattica, quasiché per
essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto medioevalisti,
come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo scorso, con tanta
efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa pedagogia così
affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi, l'effetto
che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso un antico più
vero e, perciò, più moderno del moderno: l'effetto di una novità addirittura
rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in tante altre
questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato? Diciamo, piuttosto:
una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale (Relazione presentata alla
XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze, 1927) In due
sensi può parlarsi di educazione naturale o soprannaturale: quanto al contenuto
e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel primo significato, soprannaturale l'educazione
che ha per oggetto nozioni od atti che non si riducono alla natura umana e che
non sono una semplice esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel
secondo significato, soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare
nozioni od atti, normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza
ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali
procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco
un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce
via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della
castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira,
dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi
naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto,
giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non
soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella
maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura
umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle
stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate,
colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria
disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se
stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un
Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo,
invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di
un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di
educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale
per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura
umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel
contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della
parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo
mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele
deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando
istruisce nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due
casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e
viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il
metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo
tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti
considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e
attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia
vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono
agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così
numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o
mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti
che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe,
nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la
discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e
quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino
allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro
inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e
risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le
lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i
rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo
che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così
profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con
quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non
parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto
soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto.
Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e
neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi
limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe
abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto
trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli
studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero
umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in
un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che
tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso,
naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo,
in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi
colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa
stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come
l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto,
l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle
forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione
sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la
moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come
effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le
piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa
legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi
naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la
pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia
del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita,
nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica,
la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del
bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando errori la filosofia e peccato
le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze,
ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la
scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei
suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo
sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della
civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi. Ma, oltre
questo naturalismo ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della
natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha
pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre
questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di
educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro naturalismo
niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo, non si
limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie
necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce
allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti
leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua
propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima
analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che
l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento
delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante
natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita,
quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo,
ma respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una
educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale
nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono,
per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua
effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per
essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini
siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini
arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno
nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza
umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i
viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può,
è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed
ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che
nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo educato? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta
da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo
Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in
ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo
tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i
fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante,
si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono
come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale
si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione.
Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non
è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per
educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che
intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.
Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a
portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e
alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli
scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci
lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo
facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è
obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci
delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli
ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non
conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non
insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro
innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la serenità soltanto
tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare
uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come
nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in
maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i
fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata
l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine
al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate! Ma poi,
badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che
la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione
universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci,
tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo -
fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io
dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne
smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si
vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo -
uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e
affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose
abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia -
quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere -
l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di
fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare
realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che
esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è
persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è
stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano,
irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la
natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto
educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e
ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa,
inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un
fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora
abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche
di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi.
Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più
facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta.
Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla
mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato attento, se i
ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non
lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la
chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro
imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi
che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare
andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha
già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle
idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni,
le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il
maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,
sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche
il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di
nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la
parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene,
la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una
critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è
sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà
servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che
si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal
maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno,
atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un barbaro che
vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee semplici, che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e semplificare, tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare,
anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo
stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo intuitivo che
innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è disattento, se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se non vuole
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di
immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima
analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta
l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la
genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome
i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo intuitivo possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che sapere scolastico
è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo
a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione
scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni
istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità
pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon
andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano
messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui
l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori
possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi;
supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o
limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un
Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i
più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti
dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un
altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno,
falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita
risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da
circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in
fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i
sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più
ideali e favorevoli condizioni. Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà
dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione
della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà
della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro
l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la
storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di
questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti,
pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono
abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi
verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla
cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale
sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione,
e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le
ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente
istruzione morale: che, cioè, il non rubare, non dire il falso testimonio, non
desiderare la donna d'altri e simili precetti della morale naturale siano
appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad
altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione.
Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse
dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si
sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei
precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli;
e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare
abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante,
appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la
temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non
significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia
moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il
vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o
novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e
la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù
non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il
tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima
base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali
debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che
le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari.
Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad
organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne,
tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i
muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più
specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio
della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica
in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze
naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso,
avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata
dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria,
sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove
maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il
fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla rigida
aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della finestra;
posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il mal di
ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero del
vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa,
né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come
un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito
loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che
un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato
a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e
dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi
progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di
peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai
abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono, secondo
la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si ottiene,
non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe, ma,
tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla scuola
sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga
educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto
quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda
l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui
sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà,
fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto
effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare, anzi
della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che cosa
è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza
quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose, l'evoluzione
stessa dell'universo, risponde il positivista. È la razionalità del
reale, lo sviluppo dello spirito, dell'io immanente ed onnipresente, risponde
l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono
lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi
procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione
intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad
ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra
conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti,
e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come
per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa,
spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo
educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza
che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto
non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa
stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo
allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi
naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti
e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. Materia,
spirito, evoluzione o storia, sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali
esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni
nostra esperienza concreta. Ma sono nomi oscuri e contorti, che non
possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così
perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il
giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o
la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra
possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha,
invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e
nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa
sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei
suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di
cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che
compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano
anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo
nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il
delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo
potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che si
compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà. La
pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare
nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e
compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli
uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze
della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui
attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi
speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la
pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa
importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale,
l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile
e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire
assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una
educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna
contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale
nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale: utile
nello stesso senso in cui i teologi parlano della utilità della
rivelazione. Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è
d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi,
appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la
sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le
resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi
della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al
bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare
all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze
inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la
fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di
genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta
educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un
solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale
volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di
macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il
genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione
naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per
realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il
suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le
sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la
sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante
tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi
intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della
pedagogia. Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico
nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata il 17 dicembre 1924. È importante che il
lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo
studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono com'è ovvio assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi. Domando
scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così
poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove
si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e
nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da
quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi
capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un
organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti,
tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come
l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come se mi perdonate il
brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani,
mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è
dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità
riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la
curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da
un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più
mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole
di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano
qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare
nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano
immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non
abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto
dei discorsi sull'anima della scuola, sulla sacrosanta necessità di educare
oltreché istruire, sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione
un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei
discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana
nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
forse per ironia di concetto, nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa
che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le
nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da
rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui
capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria
soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla
punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e neanche
tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo non
poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde
traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma
è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la
noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali,
l'analfabetismo morale insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni
scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o
interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali
e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti
cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non
dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza
d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non
averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati
deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di
cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma GENTILE (si veda):
i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel
loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che
accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto
spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora
paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un
mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del
mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina
eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come
la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome
tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le
lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae
dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di
amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel
volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una
larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che
l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli
edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito
e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il
pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali
idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come
notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli
istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola
universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti
si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non
presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da
sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro
futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro
tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello sforzo gioioso base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente
orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi ponga mano ad esse, ossia
chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si
guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a
guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una cultura nel senso
di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello
spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della
scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza
un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse
in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella
stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la
formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un
lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel
mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza
interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed
eccoci a quello che dicevamo prima sull'analfabetismo morale, ben più
pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee
il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o
l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e
difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il
bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina
spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari,
e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le
sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica,
e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e
di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli
anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o
iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad
apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca
d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei
propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo
ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra
nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe,
forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti
menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni
vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina romana,
le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi,
sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e
medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli
eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il
biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro
pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare
non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E
quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel
miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se
non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il
maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle
agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi
intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con
mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione
intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi
anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione
politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato
che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del
raccoglimento e della meditazione, va a divertirsi in un modo più o meno
discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle,
ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè,
del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore
dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso,
l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio moralmente
analfabeta che nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli
arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla
rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro
quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli
sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia
che portano necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla
corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono
incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e
disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed
ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e
del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui
ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza
delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai
professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle
prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà
e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina
in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella
con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico,
quello dello stellone, non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della
stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste,
nei libri: se non aveva il fattaccio con morti e feriti, non si scuoteva.
Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei
metaforici morti e feriti che sono i bocciati alla scuola media. Da quanto
tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi
pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i
padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro
figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo
denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese
fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più
andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni
socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi
in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole,
erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse
presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti?
Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come
parlare al muro. C'è voluto il manganello dell'esame di Stato colle conseguenti
bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile
della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli
e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un
problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per
altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La
gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia
importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e
ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da
anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra
razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri
provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure
necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni
di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città:
quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono
ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre
nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi
ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto
e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro
popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola,
l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già
bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete
in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel
conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli
ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima
linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta
come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun
carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze,
opponendo ai divertimenti dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello
spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il
Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le
conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa
farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel contatto
più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo la
debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che
tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni
preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete,
è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani
generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se
aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato
ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere
abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla
coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera
fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e
l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori
energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse
adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma
possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio
dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari
passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta
da noi, che è poi la ragione per cui non c'è parsa inutile, fra i troppi
istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa
parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia
risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè,
che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero
invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate.
Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come
tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar
la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi
doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami, amministrare
con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative a torto
trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di prim'ordine; tutte
cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo
toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero fondo della
questione. Giacché il cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha troppo buona
memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini del
Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della
Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore
Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe
risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la
corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe
stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale
ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene,
l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea
delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato
ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i
difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale:
rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento
brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo
passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni
dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del
Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la
cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se
stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in
quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le
critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il
realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del
Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi
scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la
formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il
nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele
critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo
XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il
realismo entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e
nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non
riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che
va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo
spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente
trovato quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal
medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di
celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le
sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro
il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro
l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola
razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento
sulla salda base dei fatti e delle notizie e bandire tutto il resto come
chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori
energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo
burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi
pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già
Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico,
derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da
una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa
loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura,
una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema educativo dei
loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come quando
inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana
oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata
dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva
accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul
“ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con
cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie
d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva
consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse
sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere
fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto
questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il
neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver
rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma,
viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar
tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi
naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma
nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso:
Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise
attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure
per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore:
che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della
sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri,
deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno
egoista? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo
decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo
riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una
cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente
a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri
preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare
a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori;
anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno
all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di
sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non
se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi,
nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare.
L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso
parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura
scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche
tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica
prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est
necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite
per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia
cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla
filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via
su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia
divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza
fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché
il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile
anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve
riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il
circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo,
nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro
che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal
terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della
storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata
categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in
ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da
proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente
prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui
radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali
e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata.
Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha
avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco
perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno
dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che
facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai
disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura
non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini? Problema, si noti bene, assai più facile
in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli
forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società
moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche
ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni
della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni
intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del
giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille
servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo
le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle
scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li
lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare,
insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo
antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri
beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni
dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti
agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia
fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di
attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che
rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo
è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre rinunciare
a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la gloria, la
fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava compenso a tutte
le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo aveva conosciuto
comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta attività sociale,
la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la sapienza
mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per fine le
attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo
accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di
dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo
risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni
da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione
della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma
aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini
doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della buona novella queste
moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono
retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma
avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti
privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior
fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della
perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di
un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli. Né questo deve indurci
a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo
all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite
d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre rivendicato,
contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della ragione; la
fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica cultura in quegli
stessi conventi ch'erano patrimonio dei poveri e degli ignoranti, sono lì per
dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo specialissimo la
povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa non ha mai
accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto distruggere i
beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna primitiva, così,
pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana, quando non
addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i
valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza sono
pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in quanto
forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che di esse
orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano, perdono il
loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa rettamente usare,
al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa, nemica della
ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le condizioni
materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica del
razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione
intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più
ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo
ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito
eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che
tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza
(razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa
disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite
nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più
sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai
grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile
d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo,
impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene,
da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo
ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che ecco la vera parola barbara distruzione della libertà
umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto
del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non
avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da
dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che
sono di Dio appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro
interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del
proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni
fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la
brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita
irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe
esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti
“divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati
alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo,
con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta
della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e
suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe
arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i
grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la
prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha
affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più
profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica
che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da
spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni,
considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la
partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura,
la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? Oggi si raccomanda il metodo attivo, si
biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del
lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni
medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano
del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi
si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i
pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e
cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le
considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella
parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti
da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non
si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i
manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della
educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza
avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla
propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce
ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti
deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero
effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in
base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero
fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi,
che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di
educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali
indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo”
spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace
per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi? E che il benedettino,
il francescano, il domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e
non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi”
spirituali non meno ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere
un'idea guardando a qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo
completamente se non là dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti
alla sua piena realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle
congregazioni insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi
brillantissimi: ma si consideri che quelle congregazioni, in quanto si
proponevano d'esplicare una larga azione sulla società laica circostante,
dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi consacrati dall'opinione
pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era possibile, ai propri fini. Così i
gesuiti trassero tutto quel bene che si poteva trarre, da un punto di vista
cristiano, dall'umanesimo letterario e dalla vita moralmente corrotta che nelle
classi sociali dirigenti si accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa
loro se la scuola umanistica era, per intima costituzione, una scuola
oppressiva, e se, in fatto di morale pubblica e privata, il mondo e la famiglia
s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai collegi con una serie di lezioni
ben altrimenti significative? Ma si guardi il rovescio della medaglia, si
prenda l'educazione gesuita nella formazione del gesuita, così come, risalendo
nei tempi, si prende l'educazione francescana nella formazione del francescano
e l'educazione benedettina nella formazione del benedettino, si prendano, cioè,
tutti quei sistemi educativi in quanto hanno la libertà di foggiare interamente
l'educando secondo i propri principi informatori. E poi si dica quale
educazione laica, in qualsivoglia condizione, saprebbe, non solo plasmare,
nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la cattolica, tanta e così varia
ricchezza di spiriti quante sono le diverse famiglie religiose; ma, quel che
più conta, indurre in una tal moltitudine di persone un dispregio dei propri
comodi e dei propri interessi, un amore della sofferenza e del sacrificio, una
devozione al dovere, una infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita
se non al di là della sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle
legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria
spesa in servigio di superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa
opinione mondana ammira quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili,
della suora di carità o del missionario. Né bisogna poi credere che, anche
nelle difficili condizioni presentate dal dover trattare con gente già imbevuta
d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che
la Chiesa impartisce a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa
meno della pedagogia razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle
anonime folle che, anche nei tempi più difficili per la religione, si stringono
intorno alla Chiesa e ne ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote,
la parola, il consiglio, l'ammonimento che trasformano anche la disperazione
della più sventurata esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a
Dio, nella nobiltà d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore
torbide della storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è
travolta dal turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla
e gli stessi nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare,
quando la burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano
dovuta ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io
concluda questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani
una conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una
conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie
scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il
nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e
sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i
maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama
là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo
dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete
pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti
ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose
crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della
pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete
uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole
universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò
è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto
l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome
di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che
creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e
"filosofie" nelle scuole medie L'introduzione dell'insegnamento
religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato
secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e
coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo
di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita
nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli
scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio,
amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto
lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio,
quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo
quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire
maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa
o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica;
cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto
dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa. È
bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i
problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne
condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso
cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di
circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di
cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal
considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non
aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema
filosofico che della questione stessa sta al fondo. Per convincersene
basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può
dire, sulle bocche di tutti. Che
significa si domandano molti questa dottrina cristiana che deve essere
d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano
escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli
autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma
allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove
andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è
vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma
che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre
l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni
vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il
Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo!
Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla
quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza,
anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare;
l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno,
ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto
necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche
il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il
suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere
questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un
individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera
tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte
le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno
al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la
civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato. E, poste queste
premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso.
Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio
secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e,
afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e
voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa
pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e
sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia
col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati
sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa
più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente
devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante
spettacolo. Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la
filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo
quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori
e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi
timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se
ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei
secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma
giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento
e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima
cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente
parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta
avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi
stordiscono, sulle piazze, la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al
presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e
su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si
vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per
relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe
inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi
quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e
guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della
ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di
chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati
sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la
nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci
sia avvenuto d'incappare. Cominciamo con l'osservare subito che la questione
che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono
nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente
tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti
amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca
neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di
filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda,
invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi
diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse
concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità,
diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare
insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della
religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei
diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno
di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono
queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e
lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa
antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in
alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da
una parte ed AQUINO (si veda) dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro
armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica.
Contro, si capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi
filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso
e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della
immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la
verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi,
offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a
preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo
noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla
o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della
filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo moderno non
ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo
sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o scolastico,
“tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una
semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa
piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del
filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono
parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera
ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande
effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò
accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in
questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere
ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di
progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.
Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la
filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica,
come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed
artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra
filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di
vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa
da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese,
diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione
cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e
ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini
parziali e frammentarie. E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo:
quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o
antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica
o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci
danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E
tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in
una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico,
materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale
nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie
tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si
estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i
libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per
importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella
dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente
completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per
esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né
si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di
ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole
e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule,
pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti
costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire,
non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire
ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto
pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è,
evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o
s'impara a memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice
“siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e
vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della
filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele od AQUINO (si veda), come
quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere
davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere
pappagallescamente “siamo scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere
tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto
Empirico, di Aristotele e d’AQUINO (si veda). Ma pretende, invece, che i suoi
uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti
in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li
riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è
certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già
scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant od AQUINO
(si veda). Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in
nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero
non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare
nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la
libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se
non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser
libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa
fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici
poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i
filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro
filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici
esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale
processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la
verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza
mutare una virgola, l'una e l'altra Summa d’AQUINO (si veda). Onde, la facile
accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò,
diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica
fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per
l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla
quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e
cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico,
infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la
parola e non la cosa, i libri, e siano pur d’AQUINO (si veda), e non la
dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di pensiero
col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli altri
“siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una dottrina
senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai
creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto processo di pensiero,
nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della ragione e
dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia. Il quale,
poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno, non potrà
certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene arrivarci
nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non smettendo mai di
pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando, dialettizzando e
così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e le forme
attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e
originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso.
Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca
dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o
scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il
pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono
d'insistere. Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula
in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi
dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno,
ben inteso, finché colui che esamina la dottrina proposta non sia in
condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la
propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed
esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli
erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così
vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può
afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a
raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì
appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche
o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e
in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato
dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera
la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o
scettica. Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e
dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da
poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina
insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e
formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che
se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una
oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto
la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica,
materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e
restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista
e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della
libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di
studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant,
Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba
esser più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o
idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal
quale non è dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina
restringendola in alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo
tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da
accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo,
una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile,
nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo
o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può
prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una
dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero
umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino
l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con
l’attività e la libertà del pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni
tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per
essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato
oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia
tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la
loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei
sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di
non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non
avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche
altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo
medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina
rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior
modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura
quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica,
né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale
dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri
e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere
inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono,
dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la
filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da
ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così
come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una
dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o
arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che
mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe
nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio
avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di
essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti
filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una
rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione
religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono
trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito
e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia
molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia
scolastica che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi
termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è
ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica,
laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la
filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre
altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver
adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della
Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di
questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la
ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione
religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli
argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che
una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica.
Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare
filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del
discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne
occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che,
perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e
l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica
appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né
più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si
possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire,
nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è
soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità
delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo
avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre
riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché
solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della
persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle
quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che
riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò,
nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche
col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro
la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più
notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente
pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di
oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già
detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori
del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre
debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità
e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano,
si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una
sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre
un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora,
a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo
scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua,
il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia
della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il
discepolo a “crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame
più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si
rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo,
esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il
gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da
mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte
dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e
colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto
diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto
diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra
loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se,
infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un
orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto
lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta
dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina
non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in
quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità.
E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è
proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo
cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel
tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un
simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza
dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui
dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno
invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre
nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una
cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E
viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo
fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici
fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può
aversi dalla conoscenza della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci:
il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la
vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la
verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte
le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata.
Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma
si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo,
allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i
principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a
questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti
differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di
esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e
la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono,
infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma
di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa
fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria
filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non
è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo
scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera
alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto
mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è
evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche
quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre
esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto
quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente
potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso
principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo,
l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro
programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si
uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della
verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate
quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la
loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi sono
liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la
verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e
precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo,
cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la
filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla
libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché,
però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di
scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia
l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo:
essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le
filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non
v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono
filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione,
anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora,
quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè
il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e
si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che
nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro, e di
compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso
modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali
democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra
costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si
diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria
dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi
uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la storia
della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta
larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza
di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai
giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il
concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero
umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia.
Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S.
Tommaso, di Kant e di Hegel, di Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare
entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del
kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un
dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta
variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele ed AQUINO (si veda),
Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a
rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista
in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista
evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma
prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso,
sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme,
circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza
sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un
filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che
l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del
vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per
risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa
dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in
luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una
dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur
questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di
giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più
intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non
precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che
cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono
davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi
dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono,
parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o
no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la
storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle
aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano,
come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia
scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte,
la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella
di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la
propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la
scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di
dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto
d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente
accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici
riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per
la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel
secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né
caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o
colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al
XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da
molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e
codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e
cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci
mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non
meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime
- non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima
“novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così
via. Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che
l'arte d’ANNUNZIO (si veda), o di MARINETTI (si veda) è superiore a quella
d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte
moderna: ora, dai tempi antichi, dei greci, ad oggi si sono effettuati
innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in
progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai
ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale,
dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre
ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo
nelle scienze naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si
vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è
l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia
dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove
il professore X od Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di
Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di
negare tale analogia fra la storia della filosofia e quella dell'arte con
l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento individuale
dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non trasmissibile,
e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la
filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che può e deve,
quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si dimentica che progresso
possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso filosofico, il
quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto
come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni umane, proprio
colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni, cioè, in una
parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale,
intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da
individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce
sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista
sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché
se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere
arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno
d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere
espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi,
il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento
individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la
verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde
segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter
l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché,
nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e
la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non
ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai
grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe
saputo scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi
filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche
che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione
cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le
sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di
filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e
che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo
capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E
può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della
filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo
scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la
vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo
la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta,
invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare,
senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico,
idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni
sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale
necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il
sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si
rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi
consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio,
dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione
risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano
di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola
moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e
il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il
pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più
ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data
dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o
“giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina
e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla”
storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i
bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel
primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare
come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma
è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema
simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo
l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto
l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare”
nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare
una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che
mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne
le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno
garantito il successo, corredando il tutto con un grande apparato di erudizione
critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo,
poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della verità molto più
severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è
sollecita più della formazione mentale, che della brillante informazione ed
erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: necessaria
non norunt, quia superflua didicerunt: il che la conduce a limitare, nella
scuola, più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto
si compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo
scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla
necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto
sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla
storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita.
Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci. Ma
l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla
scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta.
Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la
maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura
filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle
tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a
raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi
antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di
richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora
ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è
una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo
di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in
ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di
Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi,
formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita?
Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare,
possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi
filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così
vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha
perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la
società è organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di
seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato
anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può
dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che
hanno di specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita
dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile
a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi
filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé
ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi
e nelle scienze stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è,
invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono
costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo
il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della
verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E
il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada solo per le mani di
alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la maggior parte del genere
umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente
conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono
certamente la maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai
cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito
umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica,
sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno
che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione
del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine
di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le
hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata
sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua
vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che
in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver
affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il
cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema.
Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro
sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il
cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde
precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione
divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che
si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non
è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma
nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con
diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il
cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto
poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo
attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo,
sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre
filosofie di cenacoli intellettuali, quasi a darci una riprova della
costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed
assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del
cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta
la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per
opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad
esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione
e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico?
Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a storia
d'errori, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia
scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana della
civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di
Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre
dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni
dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di moderna
è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere
quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia
moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica
quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano,
lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza,
volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che
è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di
certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la
scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione
apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile,
ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare,
per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e
progredire: Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus
est : ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che
consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso
infinito. Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia
moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e
disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un
suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola
alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più
intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una
dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le
altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante
autorizzata della verità e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e
soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca
scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento
dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del
giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non
l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio,
non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad
essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il
meccanismo. Pedagogia cattolica Credo che a parlare di un'opera come
questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano di Crispolti,
possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa
libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di
più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche di Crispolti non
hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una
discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o
dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il
Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e
nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai
alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver
appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del
bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto
della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita.
Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni
alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti
alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non
credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per
annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza
in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa;
ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope
professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente
del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si
celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone
poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa,
talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da
una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come Crispolti,
ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a
ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano
col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato
quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa
di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con
piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se
così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero
riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart,
bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici.
Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”,
nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita,
prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente
lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello
spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze
che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare
il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine
sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo
cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una
presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è
manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno
tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano
lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano,
risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo
stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il
secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema
morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a
penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto
la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che
egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto
filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi”
e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina
religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta
a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se
con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto
metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una
dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della
storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del
procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui
c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche
s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con
mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla
formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo
intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci
perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba
avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una
educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga
conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito
umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia,
delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui
nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il
Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha
affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice
aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è
quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro
e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far
fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è
rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai
“laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio
vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita. Si
direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue
lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una
malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva
sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle
concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo,
grande importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o
rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al
senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di
siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è,
secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la
religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima
analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli
esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il
coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un
villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a
ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi,
o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di
applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste
loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o
cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale,
pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una
conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è
disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche
senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta
di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto,
condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad
esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane
troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o
quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non
essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché
così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo
delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto
programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla
morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di
perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in
contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la
religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari
raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la
grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso
dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù”,
definì or non è molto CROCE (si veda) il concetto sostituito dalla più recente
speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile
sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui rovine si erga
la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità
stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve
sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi
nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo
concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del
problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché non
raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta,
correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con
un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore
che tutte le supera e le fonde (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono,
nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa,
essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il
sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti
umani. Ma, giustamente ammonisce Crispolti, la santità eminente non è da tutti.
Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione
dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può
venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla
negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a
santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio timore,
temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità
naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio,
l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca
la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. Eppure ogni
metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché
i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri (ibid.) e
questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità,
ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce: che cosa
avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il
calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui una qualità terrena
che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli
esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più
facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura. E
allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più
alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato
innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria
coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello
di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una politica della virtù. Poiché
Crispolti rammenta certo che sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo e
che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie
della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la
saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben
intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese
contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore
dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati
perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa
preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto
ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è
una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a
mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e
consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi,
seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla. La strada più modesta è
appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da
quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella di CROCE
(vedasi). Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine
morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta
dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della
parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio
terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì
quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come
poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente
avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano:
allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé,
soddisfazione, che le rende tutte più o meno passionali perché presentano
all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio
sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse
sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per
sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio.
Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare,
facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso
ricorrere già ad una politica della virtù: non perché si sia facilitata la
virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica,
ma perché, esorbitando la virtù pura dai mezzi di educazione umana, si è
ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù umane e perciò già
in sé stesse passionali. Conclusione di tutto ciò è dunque per il
Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti
umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente
quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio
possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere
anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando
due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal
fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio
riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo
dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su
l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal
proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui
il rinvigorimento del corpo non è già la formazione del robusto ed agile
animale, bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare
il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei
propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva Crispolti,
parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere
religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel
compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle
menti giovanili lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento
degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo...
cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro
progressiva vigoria. E quindi ai troppo facili satireggiatori della ginnastica
cattolica, il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica,
ben vi può essere anche una cucina cattolica, da quando in alcuni giorni della
settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa
non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il
mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su
qualsiasi attività umana? Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che,
sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della
persona umana, questa diventi superba? No certo, se teniamo presente che la
pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella
superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà;
cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente
pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben
osserva Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'ansia
costante e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di
potervi scoprire dei pregi e provarne compiacenza. È un concetto negativo
dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella
tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a
Beatrice), secondo cui invece l'umiltà è concepita in forma positiva, come un
avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di
precauzioni e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver
tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la
propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio.
Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale
assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio,
si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido col solo riverire la
verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la
difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di
qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi. Ogni cosa nel mondo dello
spirito è frutto di umiltà, le grandi opere sorsero sempre in un'ora di umiltà,
ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di
noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la
scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io. La filosofia qui rincalza la
religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole.
Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente
appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà. Questa
introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della
pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato,
che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di
preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti
leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere
automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della scienza,
dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum
pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana
sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a
renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di
fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di avvicinarsi
quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del carbonaio. Non fa
nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio e delle
discipline umane; al solito, noi non possiamo tentare Iddio pretendendo ch'egli
estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in casi
eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le
somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare
l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la
sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa
quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti,
la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra
l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. Le quali
sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da
tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula
stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere
che si chiude; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i
nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano
all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura
oltre la giovinezza e la maturità degli anni. Ch'è, in fondo, lo stesso
principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la
pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che
meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un
potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a
beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione
del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo
risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette
precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali
di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti
ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che,
cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o
della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione
dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere secondo
spirito e verità è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della
religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro
applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla
diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare
un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso:
essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento
sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento
religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno
illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga
religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale. Qualcosa
di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura
estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione
pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove
Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi
una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai
propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su
l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui
il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'aNNUNZIO
(vedasi) o ad un PASCOLI (vedasi)? La ragione è sempre la stessa: pretendono
gli artisti cattolici di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni
artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro. Tutta la fatica,
secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di
soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore
della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od
avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di LEOPARDI (si
veda) così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno
come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se
stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti
gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni
interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma
della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta i figli delle tenebre
sono stati più prudenti dei figli della luce. Ciò è quanto dire che, dal punto
di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito
tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda
applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti,
viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e
pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione
dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a
una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di
esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è
sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana:
della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i
pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti parchi e lontani
da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così
facilmente il nido alla vanità gli scrittori classici: umili tutti coloro che
non pensarono a scriver bene, ma presi da alti pensieri, da alti affari o da
alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la
parola si facesse umile innanzi a quello riuscirono, perciò solo,
necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non
soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì uomini in qualunque
campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia
dovuto umilmente ubbidire: talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a
far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di
Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi
dell'estetica moderna quale si è affermata da Croce in poi avrebbe in più per Crispolti
questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione
dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita. Ma
sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta
finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva
a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico
e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta
ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni
intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel parlare delle
ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e
lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò
riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là
porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi,
scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche.
Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale,
Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine
della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per
attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data
dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni
spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più
propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una
concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il
nostro chiama appunto il fine. Ma ciò non implica soltanto superiorità
gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il
legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con
tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la
filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi,
cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la
educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai
accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista
del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi
pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non
è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo
proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente
dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze
filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera
tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al
fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi
moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su
senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del
fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti,
oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo
fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: voi vedrete — dice il Nostro — che in
tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente
di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole
esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli
incomincia a pronunziare. È il principio del “punto di partenza” da trovare
nell'animo dell'alunno. Ma Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare
che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione assoluta del
mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la
pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il
fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni
- il mondo spirituale dell'adulto. Crispolti giustifica qui, in certa guisa,
l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre
simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena
che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le
ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla
piacevole urbanità con cui Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una
quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere,
come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere
ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua
lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il
pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i
preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non
per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e
d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari
di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua
specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver
dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice
piaga che Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e
quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto,
secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è
istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati
efficaci per l'uomo, come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse
nessuna via di mezzo. E invece non si è pensato alla differenza di abitudini
mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi
interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo
pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre
la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla
scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo
inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo
i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale
la cura di fare il resto. La più elevata e piacevole erudizione delle donne è
quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per
un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle
partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare
in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma
l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile (p. 200). Non importa se per
questa via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente
fra loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo
campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle
singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo;
elevazione per cui la donna non pretenda di scoprire né di classificare, ma
giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far
camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e
con amore (p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui,
non nel far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto
capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e
del valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna è una
difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma
dell'animo (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con
qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai,
sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore
ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile
rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in
quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella
repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con
l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora
necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra
gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie
di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla
moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i
quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione
mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati,
seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al
dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti
torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti
fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la
diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di
pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati.
Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo
intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso
pratico? Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza
posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista,
ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla
ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle
scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la
vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la
mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna
verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle
parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle
lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di
sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta. E
che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti
la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che nella maggior
parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte
tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo
d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni più spicce non sono sempre,
in educazione, né le più efficaci né le migliori. Crispolti qui si è fatto
prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli esempi che arreca a
conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur
forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre sapere in materia di
dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed efficaci nel governo
degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel campo dottrinale, sia pur
della cultura politica stessa. Dove giusta è l'osservazione, ma ingiusta la
conseguenza pedagogica che Crispolti sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo,
anzitutto, di far la vecchissima questione se davvero quegli uomini dovessero
dirsi meno colti di altri, o se, invece, la vera cultura politica non fosse
proprio da parte loro e da parte degli altri soltanto l'apparenza libresca di
esso o la morta erudizione. Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema
che possono offrire qualche maggior interesse di novità, Crispolti aveva qui
proprio nel cattolicesimo un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui
la innegabile grandezza di quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale
educativo. Il secolo XIX infatti (per restringere solo ad esso il discorso)
produsse queste grandi personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione:
ferocemente chiuse o addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non
interessasse la loro opera pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso
gli ideologues !). E che siffatte
personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica,
non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi,
prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e
pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio,
dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi
alla morte di Napoleone si domanda: fu vera gloria? e non sa rispondere se non
col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli,
due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, dove
è silenzio e tenebre la gloria che passò: lo sgomento del Manzoni temperamento
insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che
cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi nel
richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano
edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità
e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia
pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è
andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento,
innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un
Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte
all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i
suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica
richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di
grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo
meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che
aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno
attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura
e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il
suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi personalità
poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito in sé, le
deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica accademica
sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e lasciarono
crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito altri
pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano
carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come
eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti
pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile
raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti
formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra
anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi
personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare
incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono
spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro
attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato
a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della
sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le
perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze,
dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico
e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è
una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per
sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima
una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio
dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni
ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale
della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi
schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico)
ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica
delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da
formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono
essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino
opposte. Non è ancora spenta l'eco delle
discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione
dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi
autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato
il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel
quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate
libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni
altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che I Diritti
della Scuola hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, I Diritti della Scuola
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto, doveva trattarsi, come pare ovvio,
d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della chiesa cattolica.
Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924
sembrano invece, al redattore de I Diritti, ispirati a una ben diversa
concezione. Non arido dottrinarismo o meccanico formalismo ma poesia e quasi
canto della fede, doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa,
ma l'opera religiosa di MANZONI (si veda) e le figure più edificanti del suo
romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il
significato di quelle espressioni è, sempre secondo i Diritti della Scuola,
molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: La tendenza era
dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse al cuore
del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più
puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri.
Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste
letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la
luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà
percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco
l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei
dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico,
anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e
poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del
maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si
impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve)
dalla lettera dei sacri testi. Noi non vogliamo rivolgere a I Diritti
della Scuola alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre
volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con
noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile
trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata,
quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i
suoi ministri. L'argomentazione de I Diritti si basa tutta su un presupposto, pacificamente
e...tacitamente ammesso come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo,
sano di cervello, potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la teologia,
la liturgia, i dogmi e i misteri costituiscono, non già la religione ma un suo irrigidimento:
il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica,
ma un arido dialogo, e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili
con l'anima ingenua, le aspirazioni sante, i sentimenti puri del fanciullo e
dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare
nella scuola che arido dottrinarismo o meccanico formalismo: se volete la poesia
e il canto della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere
o lasciare. Se tenete il decreto Gentile, insegnerete la religione secondo la
teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del
Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'arido
dottrinarismo che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi
didattici o alla circolare, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e
l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la chiesa, i sacerdoti, la
teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni
così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con
molto rispetto ma con molta fermezza, I Diritti della scuola. Ripetiamolo
ancora: sarebbe ingiusto addossare a I Diritti la responsabilità d'un cuore
così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un
pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi
cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al
canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma
brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai
sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo,
assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone
davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale
è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre
scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli
apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più
begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come poesia e come canto
ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più difficile
contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò
nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro
modo poeti non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del resto,
appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta cultura
profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione dei suoi
Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre scritture è
accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è evidente che
nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una volta, o tutta
collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo nelle parole: è
nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli assistenti, nel
colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del tempio, elementi
organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che riescono quanto
mai plastici, sensibili ed intuitivi e parlano all'animo anche delle persone
più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi sono
proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui si
riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della
Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro
trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso
raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità
costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura
medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo intuitivo
e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e
il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando
ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là
da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è,
neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il
movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità
ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno
progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni
Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la
volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi
testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una
parte notevole. Per gli amatori di curiosità pedagogiche ricorderemo gli
esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la
partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta
che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite coltivati,
pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via dicendo.
Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono ben lungi
dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità rispetto alla
teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i fanciulli al
servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote parrocchie
dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine, gli
inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo
montessoriano. E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento
della teologia o del catechismo, che sarebbe, in fondo, una teologia elementare
per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia
è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è
l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può
afferrar bene l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato
così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare
stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della liturgia
(cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a nostra
disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina) produrrà
sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche scienziato, non è
una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di senso e intelletto,
né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio pensiero con stimoli
sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso coloro i quali non sono
né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato di completare la propria
cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una
anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di arido formalismo e di
dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto
urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità
che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto,
la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride
in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non
solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali
neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È
difficile il concetto della transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la
donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della
resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un idiota o un
deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo giovanneo, dette
dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra
parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso
costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico, intuitivo ed attivo
condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui
viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta,
costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi
una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza
di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del
maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di
poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile,
sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento
genuino della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione
fra il decreto Gentile e la circolare dello stesso ministro, o i programmi
didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica
nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la
"poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e
connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così
geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti
suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o GIOBERTI (si veda). Che
se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i
programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà
delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia
italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è
il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei
filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in
poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la
nota de I Diritti è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo
d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il
cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità
filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono
passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì,
colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che
minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due
bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo energicamente
il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano riservate. Lo
scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le ragioni
d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte delle
filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La
Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della
pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie
163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary.
Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere
soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee
(Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non
addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato
che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi
altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su
Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in maniera
molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo
filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o corporale, o
fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia tras-mettere,
nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere trans), poiché il
complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come Peacocke nota, in un
atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto di tal genere è tanto
impossibile "tras-portarlo" dall'anima del soggetto Socrate all'anima
dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile che il soggetto Socrate
trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che
Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade! XI suo soggiorno in
Italia* Terminata la sua opera, Schopenhauer non si decise a
tornare nel Nirvana, come torse si sarebbe potuto credere; al contrario
senza nemmeno aspettare le prove di stampa, egli partì pel paese più bello e
più ottimista che vi sia sotto il sole, per la. véna terra promessa, per
il paese dei paesi, per la bella Italia, Con ragione si è detto che !
abitudine di vedere la vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il
cielo splendido d’im paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso diventano
Ja causa d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pessimismo che
persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto che
Schopenhauer non ismani il suo pessimismo è una prova convincente, se prova ci
vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo pessimismo era piuttosto
comprensibile nel freddo settentrione; ma é un altro conto ritenerla in
mi paese ove tutto sorride, ove la natura stessa c* invita a prendere con
leggerezza resistenza ed a gettare lontano da noi ogni cura, ove Paria stessa
respira la leggerezza di cuore, ove il dolce far niente è il programma di
vita degPindigeni, T resoconti del suo viaggio in Italia sono tutt ? altro
che blandi. Schopenhauer, più si faceva vecchio, pili si rinchiudeva in
se stesso, e non vi sono nè giornali nè lettere che possano colmare
questa lacuna nella sua biografia. D’ora innanzi era il suo espresso
desiderio di sfuggire alla pubblicità. Non voglio che la mia vita privata formi
mPesea per la curiosità fredda e
maliziosa del pubblico , così rispose molti anni più tardi a coloro che
lo esortavano a fornire maggiori informa’ zioni su se stesso ai dizionari
biografici. I suoi notiziari presero il posto del giornale, ma siccome
contengono piuttosto riflessioni suggerite dagli avvenimenti senza
raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti del suo viaggio che
poca luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere
scritto una grand'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il risultato.
Non era tanto indifferente in quanto alla accoglienza della sua opera
quanto voleva far credere. Il trattato sulla Quadruplice
Radice era stato ben accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5 autore
l’attenzione generale più di quanto sogliono farlo le dissertazioni
universitarie; era giustificabile che sperasse che la sua opera maggiore
dovesse suscitare almeno lo stesso interesse. Egli corresse le prove di stampa
che gii furono mandate ed a petto k pubblicazione, sfogando intanto i
suoi sentimenti in linguaggio poetico. Unv er schami e Vers
e. A us ] anggehegten, tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s
einpor aus meinetn innern Herzen, Es festzuhaHen haMch lang
gemngen, I>och weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen. Mogi
Euch drtim irnrner, wie Ilir wollt, gebar cleri, Des Werkes Le ben
kòimt ihr nìcht gefahrden; Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini
ermehr vernichterq Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten.
Nel frattempo visitava le principali città <MP Italia
settentrionale; frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare
la lingua italiana die egli già sapeva assai bene. E* in Italia die egli s 5
invaghì cosi profondamente della musica di Rossini, di cui andava spesso
a sentire le opere. Degli autori italiani egli predilìgeva, -— ed è
questo un fatto abbastanza curioso, — PETRARCA (vedasi), il poeta di
Laura e dell 5 amore. Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco il mio
caro PETRARCA (si veda). Non vi e
in tutto il mondo un poeta che lo abbia mai superato nella profondità e
nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno dritto a al cuore.
Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi e le sue can- a
zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle orrende contorsioni d’ALIGHIERI
(vedasi). Trovo il fiume naturale delle parole, che sgorgano dal cuore, molto più opportuno del linguaggio ricercato
ed affettato di Dante, a Petrarca è sempre stato e rimarrà per sempre il
poeta del mio cuore. Quello che
concorre a confermarmi nella mia opinione è il tempo a presente, a quanto
pare, tanto perfetto che osa parlare con disprezzo a di Petrarca. T T na
prova sufficiente sarebbe il confronto di Dante e Petrarca nel loro costume intimo e non
ricercato, cioè in prosa, eon- K frontando per esempio i bei libri di
Petrarca, ricchi di pensieri e di verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu
mundi, De rimediu ufrius- z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed
asciutta di Dante. Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al gusto rii
Schopenhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi della crudeltà. ed
il penultimo canto come una glorificazione della mancanza del sentimento
d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun affetto per Ariosto e
Boccaccio; anzi più volte espresse la sua meraviglia in quanto alla fama
europea di quest’ultimo, il quale dopo tutto non aveva scritto che Delle
ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, ma li
considerava come autori tli seeoncVordine; egli non riteneva il Tasso
degno d'essere posto come quarto in una linea coi tre grandi poeti italiani.
Per quanto riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente attirato
dalla scultura e dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non potrebbe
sorprendere e non sarebbe in contraddizione coll 1 indole generale della
sua mente* se la sua intimità con Goethe non lo avesse fatto entrare
nello studio dei colori. Schopenhauer non volle mai ammettere che i
due anni possati in Italia fossero stati per lui due anni felici,
sosteneva, che mentre gli altri viaggiavano per divertimento, egli lo
faceva per raccogliere nuovi materiali in appoggio del suo sistema, e nel suo
notiziario scrisse has- stoma di Aristotile : 6 TQ aAuTCtfO
orò TU fiSìl. Però ricordava con piacere questi due anni, dico con
piacere e s'intende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli ultimi
giorni della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che la sua
voce tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto, non era
interamente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la seguente
nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce qualche
contentezza. Appunto perchè ogni felicità è negativa, accade che
non ce ne avvertiamo affatto,
quando ci troviamo in uno stato di benessere; lati sciamo tutto passare dinanzi
a noi liscio, e con dolcezza fino a che tf questo stato è passato. La
perdita soltanto* che ci si fa sentire con chiarezza, pone in rilievo la felicità,
svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che abbiamo
trascurato di assicurarci, ed il rimorso si aggiunge alla privazione, b
Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia- In quel tempo
vi èanche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili. E J strano che
essi non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel genio di Byron
la più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi sarebbero andati
d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè Leopardi. Un dialogo
secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il giovane conte erano confrontati,
fu pubblicato nella rivista contemporanea del 1858, e Schopenhauer non si
diede pace prima che non sì fosse assicurato di averne una copia. Gli
procurò una vivissima soddisf azione il trovarsi associato col giovane che egli
ammirava così profondamente (ed a cui, diciamolo tra parentesi, Io scrittore De
Sanctis, non ha reso giustizia); gran parte della sua soddisfazione,
proveniva vinche dal fatto die egli vedeva elio la sua filosofia si era
fatto strada fino in Italia. Non avveniva spesso che egli fosse contento di
quanto sì scriveva sulle sue opere, non trovava mai che lo avessero letto con
sufficiente attenzione; ma quest 1 uomo, così diceva, lo aveva assorbito in
sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò a Venezia per la prima Tolta,
e pii scrisse : chiunque si trova repenti nani ente trasferito in un
contrada totalmente straniera, ove
prevale un modo di vivere e di parlare differente da quello a cui e pii è
abituato, ha il sentimento di chi inaspettata mente ha messo il piede nel F
acqua fredda. Egli avverte subito la differenza di tempera tura, sente una
forte influenza che agisce dal di fuori e che lo rende infelice; egli si trova
in un elemento estraneo in cui non
sa muoversi comodamente, A questo si aggiunga che egli si accorge come ogni cosa attira la
sua attenzione e che teme di
essere a ne Ir e gl i osservato da tutti. Ma dal momento che si è ealmaio, che
ha incominciato ad assorbire la. nuova temperatura e ad abituarsi al nuovo ambiente, egli si trova
bene come difatti si trova un uomo
nell’a equa fresca. Egli si è assimilato a!1 J elemento, ed averir do
perciò cessato di occuparsi della propria persona, rivolge la sua a
attenzione esclusivamente a ciò che lo circonda: ed ora, appunto perche lo
contempla con oggettività neutrale, egli si sente superiore al suo ambiente come prima se ne sentiva
schiacciato, Viaggiando le impressioni dlogni genere abbondano, ed il
nutria s mento intellettuale ci viene in tale quantità che non ci rimane
tempo c per la digestione. Ci rincresce che le impressioni le quali si
succedono a rapidamente non possano lasciare una impronta permanente. In
real- tà però avviene qui quello che ci accade quando leggiamo.
Quante volte ci lamentiamo di non essere capaci di ritenere la millesima
parte di quanto abbiamo letto! W confortante però in ognuno dei due casi
il sapere che ciò che abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra mente un'impressione, prima d'essere
dimenticato, impressione che concorre a formare e nutrire la mente, mentre
ciò che riteniamo a memoria serve soltanto a riempire i vuoti della testa
con materie che ci rimangono sempre estranee, perchè non le abbiamo mai
assorbite; il recipiente dunque potrebbe anche essere rimasto vuoto come
prima. Schopenhauer era d’opinione elle, viaggiando, possiamo riconosce-
re quanto areno radicate le opinioni pubbliche e nazionali., e quanto sia
difficile di cambiare il modo di pensare d T un popolo, Mentre cerchiamo
d'evitare uno scoglio, ne incontriamo un altro; mentre fuggiamo i pensieri
nazionali di un paese, in un secondo ne troviamo degli altri, ma non dei migliori. Il
cielo ci liberi da questa valle di miseria! \ i a gg ian do veciiamo 1a
vita umana sotto ni olle fori ne diverse : ed è questo appunto che rende i
viaggi così interessanti. Ma, vinggiando, non vediamo che il lato esteriore del
la v if a u ni ana ; cioè ne scorgiamo soltanto quello che se ne vede
generalmente. D'altra parte non
vediamo mai la vita interiore del popolo, il suo cuore ed il suo centro,
cioè il campo in cui Vazione del popolo si svolge, in cui il suo carattere
si manifesta, quindi, viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio
dipinto con un orizzonte vasto che abbraccia molte <i cose, ma che non
li a personaggi spiccati. Di lì, nasce pure la stantìi ehezza del viaggio. Schopenhauer
studiò profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la loro religione. Di
quest’ultima dice: La religione cattolica è un ordine per ottenere il
cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo doverlo guadagnare. I
preti sono i mediatori di questa transazione. Ogni religione positiva dopo
tutto non fa che usurpare il trono che per diritto spetta alla filosofia;
i filosofi quindi la coniti attera uno a sempre, anche se dovessero
considerarla come un male neccessario ed inevitabile, un appoggio per la debolezza
morbosa della maggior purte degli uomini. a La nuda verità non ha
la forza di frenare le menti rozze e di cote stringerle ad astenersi dal male e
dalla crudeltà giacche esse non santi no afferrare queste verità. Di lì il
bisogno di storne, di parabole e di dottrine positive. In dicembre ièlS la
sua grande opera vide la luce per la prima volta. Schopenhauer ne mandò
una copia a Goethe. Poi nella primavera del 1819, egli si trasferì a Napoli;
Goethe accusò ricevuta del dono per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle
predilette del vecchio poeta. Goethe ha ricevuto il tuo libro con
grande piacere, scrive Adele, a Egli immediata mente divise V opera
voluminosa in due parti e corniliciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi mandò il
biglietto qui unito, dieendomi che egli ti ringraziava molto e credeva che
tutto il libro .dovesso esser buono, giacche aveva sempre la fortuna di aprire
i libri nei posti più notevoli;
così egli mi disse d'avere letto le pagine indicaie ed egli spera di poferii
scrivere quanto prima la sua opinione completa. Intanto egli desidera che
io ti dicessi questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi disse che il di lei padre
leggeva il tuo libro con un interesse che lessa fino allora non aveva mai
osservato in lui. Egli le Ka detto che ora aveva. un divertimento per tutto
ranno, giacché intendeva leggere il tuo libro da capo in fondo e credeva
che ciò lo avrebbe occupato per un anno. Disse a me ch’egli si sentiva proprio
felice di saperti sempre a lui
devoto, nonostante il vostro disaccordo sulla teoria dei colori. Disse
pure che nel tuo libro gli piaceva sopra tutto la chiarezza della rappresentazione e del linguaggio, sebbene la
tua lingua differisce da quella degli altri e che occorresse prima
avvezzarsi a chiamare le cose come tu lo vuoi. ila, continuò, quando una
volta si é pervenuto a queste, allora la lettura procede con facilità e comodo.
Anche la disposizione della materia gli piaceva ; solfante la forma
immaneggiabile del libro non a gli dava pace, e si convinse che F opera
dovesse consìstere di due vo- a fumi. Spero di rivederlo solo ed allora
egli mi dirà iorse qualche cosa di
più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il solo autore che Goethe legga in
questo modo e con tanta serietà Nondimeno Schopenhauer ritenne F opinione che
Goethe non lo legasse con sufficiente attenzione ; che il poeta avesse
già speso il poco interesse che aveva per le questioni filosofiche. A Napoli
Schopenhauer fu principalmente in rapporto con giovani inglesi.
L’elemento inglese aveva per lui, durante tutta la sua vita, un fascino
speciale; credeva che gl"Inglesi erano quasi giunti ad esse)e il più
gran popolo del mondo, e che soltanto alcuni loro pregiudizi si
opponevano, acciocché infatti lo fossero. La sua cognizione della loro
lingua ed il suo accento erano tanto perfetti che anche gl T Inglesi
stessi per- qualche tempo lo prendevano per un loro cOmpatriftta, un
errore die sempre lo esalta. Tutto quanto vide, concorse a confermare ed
a sviluppare il suo sistema filosofico. Rimase specialmente colpito dal
quadro di un giovane artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di
questo quadro illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime
che, secondo il nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé
stesso. Il quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse
piange alla Corte di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie
sventure, Questa è l’espressione più alta idi e possa avere la compassione
di se stesso. Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e
forza dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della
bellezza delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo
quinto et La ventina e la prima parte della trentina sono per Fintelletto
quello che è il 'uose di maggio
per gii alberi, questi durante la stagione prh <t maverile emettono
soltanto dei bottoni che poi diventano frutti L’esteriore, di Schopenhauer
doveva essere caratteristico, ma la sua bellezza stava nell 9 animo e non nella
faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche nella vecchiaia, nella
gioventù rischiaravano quella testa potente col loro sguardo acuto e limpido.
Verso quel tempo un vecchio signore a lui perfettamente estraneo, gli si
accosto in istrada per dirgli che egli, Schopenhauer, sarebbe stato un
giorno un grand’uomo. Anche un italiano, che pure non lo conosceva, venne da
lui e gli disse: € Signore, lei deve aver fatto qualche grande opera; non
so cosa sia, a ma lo vedo nel suo viso. Un Francese che alla tal)le
cVhote, gli sedeva dirimpetto, ad un tratto esclama, Je ooudrais savorice qu il
penrse de nous autres j nous devom par altre hien petit s à ses yeiux ! Un inglese
rifiuta assolutamente di cambiare posto con le parole: Voglio stare qui,
perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. Nel riposo egli rassomiglia
va a Beethoven; entrambi avevano la stessa testa quadrata, ma il cranio
di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la misura elle
ne fu presa dopo la sua morie e che recai un’idea delle prò pozioni
straordinarie eli questa testa, E notevole la distanza che correva tra un
occhio e V altro; egli non poteva portare occhiali ordinari. Era di
statura media, tarchiata e muscolosa, aveva le spalle larghe ; In sua
bella testa era portata da un collo troppo breve per esser bello* Capelli
biondi e ricci Liti circondavano la sua fronte e cadevano sulle sue spalle;
quando era giovane, mustacchi biondi coprivano la sua bocca ben formata,
che coll'accrescersi degli anni perdette la sua bellezza a misura che
perdeva i denti. Il suo naso era di bellezza speciale e cosi pure le sue
piccole mani. Egli stesso faceva una distinzione fra la fisionomia,
intelletuale e morale à- un uomo; cercava la prima nelPocchio e nella fronte,
la seconda nelle forme della bocca e del mento. Era soddisfatto della sua
fisionomia intellettuale, ma non della sua fisionomia morale. Veste
sempre bene e con eleganza, il.suo contegno era aristocratico e leggermente
altero. Portava Senili re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano
sempre dello stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non
pareva mai strano, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il
popolo in istrada spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo
esteriore animato dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu
fatto il suo ritratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto
ci parla dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni
virili. Velia biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline!
troviamo runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a Roma. Allora
era un'epoca di misticismo per Parte e per la religione della Germania,
epoca che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte un Cornelius ed un
Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal loro console ad ornare
la di lui villa sul monte Pine io, avevano l'abitudine di riunirsi
quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel caffè Greco, diventato
il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà. Il poeta Ruekert ed il
novelliere L, Schefer, ottimisti per professione, frequentavano allora quella casa.
Molti degli uomini più importanti della Germania allora viventi, si trovavano
nella eterna città. Schopenhauer, come gli altri, frequentava il caffè
Greco, ma pare che il suo spirito mefistofelico fosse un elemento
disturbatore per i visitatori ordinari che desideravano che egli si
allontanasse. Un giorno egli annunciò alla società che la nazione tedesca
era la più stupida di tutte, ma che era in un punto a tutte superiore,
cioè che era arrivata al pùnto di poter fare a meno della religione.
Questa osservazione suscitò una tempesta ili disapprovazioni, ed alcune
voci gridarono: fuori! alla porta mettetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il
filosofo evitò il caffè Greco, ina le sue opinioni sui Tedeschi rimasero
inalterate. La patria tedesca in me
non si è allevato un patriota , disse un giorno ; e spesso anda dicendo ai suoi
compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si vergoigmva di essere tedesco,
piaceli è questo popolo era tanto stupido, a Se io pensassi così della mia nazione , rispose
un Francese, almeno non lo direi. Questo Schopenhauer è un
sala miste) (N&rr) insopportabile, scrive Bòhmer. Questi filosofi
antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero essere tutti quanti rinchiusi pei
bene comune, Schopenhauer non menava una vita santa ed ascetica, uè
pretese die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le donne; considerava
ibi more sessuale come una delle manifestazioni più caratteristiche della
volontà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava con Byron : Più che vedo gli uomini meno mi piacciono; tutto sarebbe
bene se potessi dire lo stesso delle donne. Egli differiva dagli uomini
ordinari, parlando di ciò che gli altri sopprimono. I suoi discepoli
troppo zelanti die credevano vedere qualcosa di divino in tutte le sue azioni,
trassero alla luce del giorno anche questi suoi discorsi e quindi
attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le idee di
Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; Non v ? è passione
più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa nessun’ultra merita
d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di questa forza, per la carne non vi sarebbe più salute! E di lì nacque senza dubbio il timore di Sdì
operili auer di non poter raggiungere il
Nirvana , come egli disse con rincrescimento al dottor Grwinner. In
mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza femminile gli giunse ad
un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi e a, in cui era
implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di sua madre, era
minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in Germania; ia
perdita del suo avere era il male che Schopenhauer temeva maggior-
mente., il male che egli sapeva di poter sopportare più difficilmente,
tenuto calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a guada' gnarsi
il. pane; la sua intelligenza non era di quelle che si possono dare in
affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva ereditata gli parve
sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché s ! era tutto dedicato a
suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on (lem was Einer hai, egli
scrive : Non. istimo indegno della mia penna di raccomandare hi cura
della fortuna che si è acquistata per
lavoro o per eredità. E 5 un vanfaggio inapprezzabile il possedere fin da
principio quanto occorre per vivere, sia anche solo e senza famiglia,
comodamente ed in vera im.1L pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto
stato rende huomn esente ed immune
dalla privazione e quindi dalla servitù universale, sorte caie ninne dei
mortali. Colui soltanto che dal destino fu favorito in questo modo è veramente nato uomo libero, giacché
soltanto egli è vwr j.arix, padrone del suo tempo e delle sue facoltà e
può dire ogni mattina ; il giorno
è mio. Per questa ragione la differenza tra colui che hn mille ai a
scudi d’entrata e colui clie ne La centomila- è molto minore di quella che corre tra il primo e colui che non La
nulla. La fortuna ereditari si acquista un sommo valore, quando cade in mano
ad un uomo il quale, dotato di capacità intellettuali d’ordine elevato,
segue tendenze incompatibili col lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo
ricevette da! destino un doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma
egli coniti pensa cento volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando
cosa che nessun altro potrebbe
effettuare, e producendo qualcosa pel bene ed anzi per V onore comuni, TTn altro in
questa condizione privilegìata con tendenze filantropi eh e saprà meritarsi la
gratitudine d elee l’umanità. D’altra parte sarà un pigro spregevole colui che
si trote va in possesso d’ una fortuna ereditaria e non cerca in nessun
modo, neppure acquistando a fondo qualche scienza, di rendersi utile all’umanità,
a Questo ora- è riservato al più alto grado di perfezione iute Ilei- ft
tuale che noi al solito chiamiamo genio; il genio solo si occupa escili-
sivamente dell’esistenza e della natura delle cose, per poi esprimere a i
suoi concetti profondi, secondo la propria inclinazione, per mezzo dell’arte,
della poesia e della filosofia. Pei uno spirito di questo genere il commercio
non interrotto con sé stesso, co’ suoi pensieri e colle sue opere è un bisogno urgente. Ad esso è cara
la. solitudine, e l’ozio è il suo bene maggiore; il resto non gli è
indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di tal uomo soltanto possiamo dire
con ragione che abbia in sé stesso
il suo punto di gravità. Cosi si spiega perchè queste persone tanto rare, anche se hanno il miglior
carattere del mondo, non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel
bene comune quella a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono
tanti altri; giacche dopo tutto
possono consolarsi d’ogin cosa finché hanno sé stessi. In loro vive un elemento d'isolazione tanto più
attivo quanto meno gli altri possano dar loro soddisfazione; questi altri
uomini, essi non li considerano interamente come loro pan; e dal momento
che corniticiano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine
di camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da
loro diversi; nei loro pensieri ne
parlano come di terze persone, dicendo: essi, loro, e mai noi. Tln uomo munito di questa ricchezza interiore
non chiede al mondo esterno nulla, all* infuori d'un dono negativo, cioè la
libertà di svilappare e di migliorare le sue facoltà intellettuali, di godere
la sua ricchezza interiore, vale a
dire di essere interamente a sé in ogni gioì no. in ogni ora e durante tutta la
sua vita. Quando un uomo è destinato a lasciare l’impronta del suo intelletto
all’intera razza umana, egli non può conoscere che una sola gioia, cioè
quella di vedere le sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di
compiere l’opera e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito.
Ogni altra, cosa « è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i
tempi le menti più elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio,
ed il valore di quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri
Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la libertà è un cordiale
più fortificante del Tokay, Pieno dei più cupi presentimenti egli si portò
con fretta in Germania, (tra zi e alla
sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio- nej riuscì a
salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire non volle
prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa ed Adele
rimasero quasi senza un centesimo, Questo incidente dimostra die
Schopenhauer non era filosofo (/truche e poco pratico; egli certamente
non avrebbe inciampalo, guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli
univa il senso pratico, una combinazione molto rara, la cui origine egli faceva
risalire a suo padre negoziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il
vero filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo
pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi
che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le richieste
del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati per essere
messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro ed
intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che pensa.
Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,
Few use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy
oì thè tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they
do. Sfortunata
incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre nè filosofo, nè
poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una guida
sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si tramuti in
Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die welt as will
–volere – filosofia fascista -- la
volonta di potere, un invento della sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler
---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e casalegno,
paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del
linguaggio.”
Grice
e Cassio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo
italiano. Tribuno della plebe della Repubblica romana C. (a destra), Marco
Giunio Bruto (col volto girato) e gli altri congiurati pugnalano Giulio Cesare
alle Idi di Marzo; particolare del dipinto di Camuccini, Morte di Giulio Cesare.
Nome originale. Nascita: Roma Morte: Filippi Coniuge: Tertulla Figli: C. Gens: Cassia
Tribuno militare sotto Marco Licinio Crasso Questura. Tribunato della plebe. C.
Roma – Filippi) è stato un filosofo e politico
romano, tra i promotori della congiura che causò l'uccisione di Gaio GIULIO (si
eda) Cesare. Appartenne alla gens Cassia, una famiglia patrizia riuscita ad
accedere al consolato. C., dopo il matrimonio con Tertulla, figlia di Servilia,
sembra avvicinarsi al partito degl’optimates guidato da CATONE (si veda)
Uticense. Moneta coniata da Longino. Prende parte alla guerra contro i
Parti, al fianco di Marco Licinio Crasso, salvandosi dal disastro di Carre, e
riuscendo a respingere una loro successiva invasione che si era spinta fin
sotto le mura di Antiochia. Nominato tribuno della plebe, allo scoppio della
guerra civile si schierò dalla parte di Pompeo, che gli affidò il controllo di
parte della sua flotta nelle acque del Mediterraneo. Dopo la battaglia di
Farsalo e la morte di Pompeo in Egitto, egli decise di beneficiare della
clemenza di Cesare: lo raggiunse dunque in Cilicia, vicino Tarso, da dove il
dittatore sta pianificando l'attacco a Farnace. Nonostante il suo rapporto con
Cesare si consolida, C. decide d’allontanarsi dalla corrente politica di Cesare
per essere uno degl’organizzatori del complotto che portò costui alla
morte. Dopo l'assassinio del dittatore, C. insieme a Bruto, figlio di
Servilia, fugge da Roma, timoroso delle rappresaglie messe in atto da MARC’ANTONIO
(si veda), luogotenente di Cesare, e dall’emergente OTTAVIANO (si veda), futuro
primo imperatore di Roma con il nome di Augusto. Come si apprende da
un'epistola scritta a CICERONE (si veda) poco prima della battaglia di Modena,
C. ottenne brillanti successi in Oriente. Recatosi ad Apamea, dove è assediata
dai cesariani una legione pompeiana al comando di Quinto Cecilio Basso, riuscì
a convincere i capi cesariani sul posto, Lucio Staio Murco e Quinto Marcio
Crispo, a defezionare con le loro sei legioni e passare dalla sua parte. Poco
dopo giunse dall'Egitto Aulo Allieno con altre quattro legioni, che a sua volta
si unì a Cassio. Secondo alcune fonti Marcio Crispo tuttavia rifiutò di
servirlo. C. disponeva ora di numerose legioni e si mosse per affrontare il
cesariano Publio Cornelio Dolabella, che in precedenza aveva vinto e ucciso il
cesaricida Gaio Trebonio. Tuttavia i due cospiratori non riuscirono a
farla franca. Nel frattempo era stata emanata la lex Pedia, che condannava
all'esilio i cesaricidi. Cassio e Bruto vennero affrontati nella
battaglia di Filippi da MARC’ANTONIO (si veda) ed OTTAVIANO (si veda). C. fu
sconfitto da Marco Antonio; pensando che anche Bruto fosse stato sconfitto
diede ordine ad un suo schiavo, Pindarus, di ucciderlo, usando la stessa daga
con cui aveva pugnalato Cesare; Bruto, nonostante la parziale vittoria ottenuta
su Ottaviano, fu successivamente raggiunto ed accerchiato dagli uomini di Marco
Antonio. Il 23 ottobre del 42 a.C. Bruto, vedendosi sconfitto, si
suicidò. Plutarco riferisce che Cassio era seguace di Epicuro.
Cassio viene definito da più fonti come Ultimus Romanorum, l'ultimo dei romani
a incarnare i valori e lo spirito romano: il riferimento è in Tacito, che cita
a sua volta lo storico Cremuzio Cordo: «Sotto il consolato di Cornelio Cosso e
Asinio Agrippa fu sottoposto a giudizio Cremuzio Cordo per un reato di nuovo
genere, noto allora per la prima volta: negli annali da lui scritti, dopo aver
elogiato M. Bruto, aveva chiamato Cassio l'ultimo dei romani"[5].
Letteratura Dante lo pone nell'ultimo girone dell'Inferno (Inferno), la
Giudecca, ove si puniscono i traditori dei benefattori. Assieme a Giuda
Iscariota ed a Marco Giunio Bruto, è costantemente maciullato dalle fauci di
Lucifero. Cassio è uno dei protagonisti della tragedia Giulio Cesare di Shakespeare.
Note ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, Syme, La rivoluzione romana Cassio,
epistola a Cicerone ex castris Taricheis, in Charles Chaulmer, Les Epitres
familières de Ciceron en latin et en françois., edd. Antoine e Horace Molin, 1689 ^ Broughton, T. Robert S., The Magistrates
of the Roman Republic, Annales, Sermonti, Inferno, Rizzoli. Bosco e Reggio,
La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988. Voci correlate Gaio Giulio
Cesare Marco Giunio Bruto Battaglia di Filippi Marco Antonio Augusto Ultimus
Romanorum Altri progetti Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Càssio Longino, Gàio (uomo politico e questore), su sapere.it, De
Agostini. Gaius Cassius / Gaius Cassius Longinus, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Gaio Cassio Longino / Gaio Cassio Longino (altra
versione), su Goodreads. V · D · M Guerra civile romana V · D · M Guerra civile
romana V · D · M Cesaricidi Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Età augustea Categorie: Politici romani del I
secolo a.C.Morti nel 42 a.C.Morti il 3 ottobreNati a RomaCassiiGovernatori
romani della SiriaMorti per suicidioPersonaggi citati nella Divina Commedia
(Inferno)EpicureiCesaricidi[altre] Cassio, one of those who assassinated Giulio
Cesare, was a follower of the philosophy of The Garden. He converted to the sect after an earlier interest in the Porch, and
defended his new philosophy in correspondence with his friend Cicerone. Gaio Cassio
Longino. Cassio.
Grice
e Cassiodoro: -- vide under Briuzi
--. noble Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Cassiodoro," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia
Grice
e Castelli
Grice
e Castiglioni Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi
Baldassarre Castiglione (disambigua). Baldassarre Castiglione Raffaello,
Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1514-1515 Signore di Casatico Stemma
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 (50 anni) Luogo
di sepoltura Santuario delle Grazie Dinastia Castiglione Padre Cristoforo
Castiglione Madre Luigia (Aloisia) Gonzaga Consorte Ippolita Torelli Figli
Camillo Anna Ippolita Religione Cattolicesimo Baldassarre Castiglione, anche
chiamato Baldassar e Baldesar (Casatico, 6 dicembre 1478 – Toledo, 8 febbraio
1529), è stato un umanista, letterato, diplomatico e militare italiano, al
servizio dello Stato della Chiesa, del Marchesato di Mantova e del Ducato di
Urbino. Casatico, ingresso di Corte Castiglioni, luogo di nascita di
Baldassarre, con stemma della famiglia La sua prosa e la lezione che offre sono
considerate una delle più alte espressioni del Rinascimento italiano[1].
Soggiornò in molte corti, tra cui quella di Francesco II Gonzaga a Mantova,
quella di Guidobaldo da Montefeltro a Urbino e quella di Ludovico il Moro a
Milano. Al tempo del sacco di Roma fu nunzio apostolico per papa Clemente VII.
La sua opera più famosa è Il Cortegiano, pubblicata a Venezia nel 1528 e ambientata
alla corte d'Urbino, presso la quale l'autore aveva potuto vivere pienamente la
propria natura cortigiana. Tema cardine del libro è la trattazione, in forma
dialogata, di quali siano gli atteggiamenti più consoni a un uomo di corte e a
una "dama di palazzo", dei quali sono riportate raffinate ed
equilibrate conversazioni che l'autore immagina si tengano durante serate di
festa alla corte dei Montefeltro attorno alla duchessa Elisabetta
Gonzaga. Biografia Le origini e la formazione Baldassarre
Castiglione Tiziano, Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1529 circa
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 Cause della
morte febbre Luogo di sepoltura Grazie (Curtatone), Santuario delle Grazie
Etnia italiana Religione cattolica Dati militari Paese servito Marchesato di
Mantova Ducato di Urbino Unità Cavalleria Battaglie Assedio della
Mirandola 1510 voci di militari presenti su Wikipedia Manuale Figlio di
Cristoforo Castiglione (1458-1499), uomo d'armi alle dipendenze del marchese di
Mantova Ludovico Gonzaga e di Luigia Gonzaga (1458-1542), Baldassarre nacque a
Casatico, nel mantovano, il 6 dicembre del 1478[2]. Proveniente da una famiglia
dedita per necessità al culto delle armi e al prestar servizio presso signori
più potenti[3], all'età di dodici anni fu inviato, sotto la protezione del
parente Giovan Stefano Castiglione[4], alla corte di Ludovico il Moro, signore
di Milano, ove studiò alla scuola degli umanisti Giorgio Merula, per quanto
riguarda il latino, e Demetrio Calcondila, per il greco[5]. Si impratichì
invece della letteratura italiana, appassionandosi in particolar modo a
Petrarca, Dante, Lorenzo il Magnifico e Poliziano, sotto l'umanista bolognese
Filippo Beroaldo[6]. Per quanto riguarda l'esercizio e la pratica delle armi, si
formò insieme a Pietro Monte[7]. Purtroppo il soggiorno milanese, funestato
negli ultimi anni dalla morte della duchessa Beatrice d'Este e del padre in
seguito alle ferite riportate nella battaglia di Fornovo del 1495, dovette
terminare e costrinse il Castiglione, in quanto figlio primogenito, a occuparsi
degli interessi familiari a fianco della madre[2]. La parentesi
gonzaghesca Nel 1499 tornò a Mantova al servizio di Francesco II Gonzaga,
marito di Isabella d'Este[N 1], anche se, secondo la Cartwright, Castiglione
non fu mai attratto dalla personalità rude del marchese[8]. Qui, proseguendo la
tradizione familiare, si mise al servizio di Francesco II quale cavaliere,
seguendolo prima a Pavia e poi nuovamente a Milano, dove assistette all'entrata
trionfale di re Luigi XII di Francia il 5 ottobre[5]. Rientrato a Mantova,
Baldassarre si prestò a servire il suo signore come funzionario marchionale (fu
castellano di Castiglione nel Mantovano durante la ridiscesa di Ludovico il
Moro a Milano[9]) e, nell'autunno 1503, lo seguì nel Mezzogiorno ad affrontare
gli spagnoli nella battaglia del Garigliano, subendo, in quel 29 dicembre, una
cocente sconfitta[2]. Al servizio del Ducato d'Urbino Una corte
cosmopolita Raffaello, Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro, 1506 circa
Nel frattempo il duca d'Urbino Guidobaldo da Montefeltro, rientrato in possesso
dei suoi domini dopo la morte di Alessandro VI[10], scese a Roma per rendere
omaggio al nuovo papa Giulio II[5]. Con la diretta conoscenza di Roma, di
Urbino e del duca Guidobaldo, Castiglione provò «il fascino, tanto diverso, ma
egualmente profondo, delle due città»[4] rispetto alla più provinciale Mantova.
Grazie anche all'interesse della duchessa Elisabetta Gonzaga, ottenne così di
essere dispensato dal servigio al signore gonzaghesco per trasferirsi nella più
promettente e amena città marchigiana[11], anche se ciò suscitò nel marchese
Francesco II un certo risentimento verso il suo ex servitore[12]. Così, nel
1504, iniziò forse il periodo più felice per il nobile Castiglione, entrando al
servizio di una corte più fastosa ed elegante di quella mantovana. Pur
militando per il duca d'Urbino ed essendo a capo di un manipolo di cinquanta
uomini[2][13], egli poté frequentare la corte urbinate, vero centro cosmopolita
di ingegni e centro d'eleganza: «A Urbino il Castiglione s'incontrò con
un comitato di persone egregie, quali innanzitutto le due nobili dame, la
duchessa Elisabetta Gonzaga e madonna Emilia Pio, cognata della prima, e poi
con uomini d'ingegno come Ottaviano Fregoso [...] Federico Fregoso poi
arcivescovo di Palermo, Cesare Gonzaga, cugino del Castiglione, Giuliano de'
Medici, il minore dei figli di Lorenzo il Magnifico...» (Russo, p.
510) Luigi Russo ricorda poi anche il conte Ludovico di Canossa e l'ormai
celebre letterato veneziano e futuro cardinale Pietro Bembo[14]. Alla corte
urbinate il Castiglione poté vivere appieno la sua natura cortigiana,
dedicandosi alla letteratura e al teatro. Nel primo caso, si occupò
dell'allestimento scenico prima dell'egloga Tirsi (1506), poi nel 1513 de La
Calandria, l'opera teatrale dell'amico e futuro cardinale Bernardo Dovizi da
Bibbiena[2][15]. In secondo luogo, raffinò ulteriormente la sua attività
cortigiana, ponendo le basi per l'esposizione teorica del buon cortigiano nell'opera
omonima. Le ambascerie e le missioni militari Tiziano, Ritratto di
Francesco Maria Della Rovere, 1538 circa La residenza a Urbino non fu però
statica: impiegato dal suo signore quale ambasciatore, fu nell'autunno/inverno
1506[16] in Inghilterra alla corte di Enrico VII Tudor per ringraziare il
sovrano inglese della concessione a Guidobaldo dell'onore di far parte
dell'Ordine della Giarrettiera[17][18][19]. Fu in quest'occasione che dedicò al
sovrano inglese la Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini Ducis[2].
Ancora, nel maggio 1507 fu a Milano per rappresentare il duca presso Luigi XII
di Francia[20], ma fu spedito anche a Roma come ambasciatore, visti gli
strettissimi legami feudali che intercorrevano tra la Santa Sede e il Ducato
d'Urbino, ora che il titolo ducale era passato a Francesco Maria I della
Rovere, parente di Giulio II (1508)[21]. Nel frattempo, agli inizi del ducato
di Francesco Maria, Castiglione era stato nominato dal nuovo duca di Urbino
podestà di Gubbio affinché i suoi cittadini rimanessero fedeli alla causa
roveresca, riuscendovi[22]. Durante questi anni l'umanista partecipò anche alle
imprese belliche del papa guerriero, quale per esempio l'assedio della
Mirandola che si svolse dal 19 dicembre 1510 al 20 gennaio 1511 o la presa di
Bologna da parte delle truppe urbinate[2]. Dimostratosi devoto alla causa del
suo signore, questi gli concesse il 2 settembre 1513 il castello di Nuvilara,
nel Pesarese, col titolo di conte[22][23][24]. Presso la Roma di Leone
X Raffaello, particolare con Leone X Fu questa l'intellighenzia
artistico-culturale ereditata dal nuovo pontefice, Leone X, dalla Roma di
Giulio II. Figlio di Lorenzo il Magnifico e amico del duca e di
Castiglione[25], ebbe come ambasciatore di Francesco Maria proprio quest'ultimo,
che doveva rimanere nella capitale della cristianità per seguitare a fare gli
interessi rovereschi[26]. I tre anni che Baldassarre Castiglione passò alla
festosa corte pontificia fecero credere al cortigiano mantovano di «avere la
sensazione che la corte [pontificia, n.d.r.] fosse quasi un duplicato di quella
urbinate»[2]: l'aver ritrovato gli antichi amici del periodo montefeltrino, la
loro frequentazione, l'essere entrato in contatto con Raffaello e con
Michelangelo, stabilendo rapporti cordiali con loro, gli fecero credere del
ritorno all'epoca felice delle feste e delle conversazioni che spesso
Castiglione intratteneva con la colta duchessa Elisabetta Gonzaga. Come scrive
il Mazzuchelli a tal proposito: «Il Conte quivi egualmente servì il Duca
ed attese a' geniali suoi studj, conversando frequentemente col Bembo, col
Sadoleto, col Tibaldeo, e con Federigo Fregoso, e coltivando i più chiari
Professori delle belle arti, cioè Raffaello d'Urbino, Michelangelo Buonarroti,
e altri principali Pittori, Scultori ed Architetti.» (Mazzuchelli, p.
19) Inoltre, a partire dal 1513, l'autore iniziò la stesura del
Cortegiano, dando principio della sua attività anche di scrittore[27].
Purtroppo, la politica del nuovo pontefice rovinò questa chimera. Leone X,
infatti, desideroso di elevare la sua famiglia, dichiarò decaduto il duca
Francesco Maria a favore del nipote Lorenzo II, nonostante il parere negativo
del fratello del pontefice, Giuliano de' Medici duca di Nemours[28].
L'installarsi dei nuovi signori, la fuga del duca a Mantova e la dichiarata
fedeltà alla causa roveresca da parte del Castiglione lo costrinsero a lasciare
Roma per far ritorno nei suoi vecchi domini di Casatico[15][29]. Il
secondo periodo mantovano Tiziano, Ritratto di Federico II Gonzaga, 1529
circa Rientrato a Mantova, il 15 ottobre 1516 sposò la quindicenne[30] Ippolita
Torelli, figlia di Guido Torelli e di Francesca Bentivoglio[25]. Ristabiliti
cordiali rapporti col signore di Mantova Francesco II Gonzaga, Castiglione
trascorse degli anni abbastanza tranquilli (si ricorda una gita a Venezia in
compagnia della sposa e della corte gonzaghesca[31]) finché nel 1519, divenuto
marchese di Mantova il giovane Federico II, fu rimandato a Roma per consolidare
la posizione del nuovo signore presso papa Leone X[32]. Nel contempo contribuì
anche alla causa roveresca facendo sì che, non appena morì Leone X, il collegio
cardinalizio lo reintegrasse nei suoi domini appena riconquistati con le
armi[33]. Al servizio del papato Rimasto vedovo nel 1520, Castiglione si
fece prete per provvedere ai propri bisogni materiali[2] e ricevette la
conferma del suo nuovo stato col breve del 9 giugno 1521 da parte del pontefice
medesimo[4]. Mandato a Roma al conclave che elesse Adriano VI nella speranza
che venisse nominato pontefice il cardinale Scipione Gonzaga[2], servì sotto
Federico Gonzaga ancora come cortigiano e comandante militare[34][35], ma non
c'era più la felicità e il brio della corte urbinate e della Roma
medicea: «Non c'è più l'entusiasmo, la baldanza, la serenità fiduciosa di
quegli anni giovanili; ormai per lui le fatiche non sono più piaceri come lo
erano allora; alla lieta spensieratezza del giovane è subentrata la gravità
dell'uomo che ha vissuto, lavorato e sofferto, dell'uomo quale noi conosciamo,
calmo, equilibrato ed un poco triste per tutto quel male che è intorno a lui,
ma che lo ha lasciato puro di ogni macchia.» (Bongiovanni, p. 40)
Tutto questo cambiò quando, nel 1523, fu eletto al soglio pontificio il
cardinale Giulio de' Medici col nome di Clemente VII. Nunzio in
Spagna Tiziano, Ritratto di Carlo V seduto, 1548 «jeri N. Sign. [i.e. il
papa Clemente VII] mandò per me, e con molte buone parole e troppo a me
onorevoli fecemi un discorso dell'amore, che egli sempre mi avea portato per
merito mio, e della fede che avea in me; ed estendendosi molto sopra questo, mi
disse che adesso gli accadea farmi testimonio della confidenza, che aveva della
persona mia: e questo, che essendogli necessario mandare un uomo di qualità
appresso Cesare [i.e. l'imperatore Carlo V], dove si ha da trattar la somma
delle cose non solo della Sede Apostolica, ma d'Italia e di tutta la
Cristianità, dopo lo aver discorso tutti quelli, di chi egli si potesse servire
in questo luogo, non avea trovato persona da chi sperasse esser meglio servito
che da me; e però desiderava che io mi contentassi di accettar questa impresa,
la quale era la più importante che in questo tempo avesse per le mani.»
(Baldessar Castiglione, Lettere, vol. 1, p. 133) Con queste parole l'umanista
riferiva a Federico Gonzaga della nomina, annunciata il 19 luglio 1524 da parte
del papa, a nunzio apostolico in Spagna presso l'imperatore Carlo V[2]. Sciolto
dal legame con il marchese di Mantova, il 7 ottobre del medesimo anno[2][36]
egli partì da Roma per occuparsi di quest'incarico. La missione non era delle
più facili, in quanto il giovane imperatore era in lotta con il re di Francia
Francesco I per la supremazia in Italia, dove si giocava anche la sicurezza e
la credibilità dello Stato Pontificio. Sconfitto il re di Francia nella
battaglia di Pavia del 1525, Clemente VII, che per arginare lo strapotere
imperiale si era alleato ai francesi, fu invaso dalle truppe spagnole e
tedesche dando origine al terribile sacco di Roma del 1527. Il letterato fu
accusato ingiustamente dal papa di non aver saputo prevedere l'evento[37],
nonostante col cardinale Salviati avesse presentato un memoriale con cui il
pontefice si congratulava della vittoria imperiale[38]. Gli ultimi anni li
dedicò alla stampa del Cortegiano, uscito a Venezia per interesse del Bembo nel
1528, e alla disputa con Alfonso de Valdés riguardo all'ortodossia
cattolica[2]. Interno del santuario di Santa Maria delle Grazie La morte
Colpito da attacchi febbrili, Castiglione, riabilitato dalla Curia, morì a
Toledo l'8 febbraio 1529[2]. Fu inizialmente sepolto, per volontà
dell'imperatore che aveva sempre avuto grande stima di lui, nella cappella di
Sant'Ildefonso nella Metropolitana di Toledo[39]. Ai parenti che giunsero in
Spagna, l'imperatore Carlo rimpianse solennemente con queste parole il nunzio
appena scomparso: (ES) «Yo vos digo que ha muerto uno de los mejores
caballeros del mundo.» (IT) «Io vi dico che è morto uno dei migliori
gentiluomini del mondo.» (Aneddoto di Carlo V riportato in Ferroni, p. 7
e in Russo, p. 510) Dopo sedici mesi l'anziana madre, volendo adempiere
alla disposizione testamentaria del figlio, fece trasferire la sua salma a
Mantova per tumularla, accanto a quella della moglie, nel santuario di Santa Maria
delle Grazie, alle porte della città, nella tomba allestita da Giulio
Romano[40]. Nella colonna di sinistra a lato del sarcofago è inciso l'epitaffio
latino dettato da Pietro Bembo: (LA) «Baldassari Castilioni Mantuano
omnibus naturae dotibus plurimis bonis artibus ornato Graecis litteris erudito
in Latinis et Hetruscis etiam poetae oppido Nebulariae in Pisauren[si] ob
virt[utem] milit[arem] donato duab[us] obitis legation[ibus] Britannica et
Romana Hispanien[sem] cum ageret ac res Clemen[tis] VII pont[ificis] max[imi]
procuraret quattuorq[ue] libros de instituen[da] regum famil[ia][N 2]
perscripsisset postremo eum Carolus V imp[erator] episc[opum] Abulae creari
mandasset Toleti vita functo magni apud omnes gentes nominis qui vix[it]
ann[os] L m[ense]s II d[iem] I Aloysia Gonzaga contra votum superstes fil[io]
b[ene] m[erenti] p[osuit] ann[o] D[omini] MDXXIX» (IT) «A Baldassare
Castiglione mantovano, adorno di tutte le doti naturali e di moltissime belle
arti, erudito nelle lettere greche e in quelle latine e italiane anche poeta.
Avuto in dono per il suo valore militare il castello di Novilara nei pressi di
Pesaro, portate a termine due legazioni in Inghilterra e a Roma, mentre
conduceva quella in Spagna e curava gli interessi del pontefice massimo
Clemente VII, completò di scrivere i quattro libri del Cortegiano; infine, dopo
che l'imperatore Carlo V ordinò che venisse creato vescovo di Avila, concluse
la sua vita a Toledo godendo di grande rinomanza presso tutti i popoli. Visse
anni 50, mesi 2 e 1 giorno. La madre Luigia Gonzaga, superstite contro il
proprio desiderio, al figlio benemerito pose questo monumento nel 1529.»
(Epigrafe di Baldassare Castiglione, riportata in Mazzuchelli, pp. 23-24)
Discendenza Baldassarre e Ippolita ebbero tre figli:[2][41] Camillo
(1517-1598), condottiero Anna (1518 - ?), sposò Alessandro dei conti d'Arco e
quindi il conte Antonio Ippoliti di Gazoldo Ippolita (1520 - ?), sposò Ercole
Turchi di Ferrara Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Baldassarre Castiglione
Cristoforo Castiglione Antonia da Baggio Cristoforo
Castiglione Polissena Lisca Alessandro Lisca Amante
da Fogliano Baldassarre Castiglione Antonio Gonzaga Luigi
Gonzaga Luigia Gonzaga Luigia Gonzaga Francesca
degli Uberti Gianfrancesco degli Uberti Bianca Gonzaga
Pensiero Uno scrittore non professionista Panoramica del
Palazzo dei duchi di Urbino, ove Castiglione visse parte della sua vita
Castiglione non fu uno scrittore professionista al pari di Pietro Bembo o di
Ludovico Ariosto. La sua testimonianza letteraria, a partire dall'opera
maggiore fino alle prove minori, era inquadrata da un lato nel tentativo di
celebrare un modello di cortigiano ideale in un'epoca in cui il principato era
diventato la realtà quasi assoluta nel contesto geopolitico italiano dell'epoca;
nel secondo, invece, era quella di un'esibizione della sua cultura personale ai
fini sempre della cortigianeria. Come scrive Giulio Ferroni: «la sua cultura
ricca e varia non è però [...] la cultura di un professionista: la letteratura
è per lui espressione del suo essere gentiluomo e un modo di partecipare alla
vita della società nobiliare»[15]. Semmai, piuttosto, se si prende il
Cortegiano quale misura del mondo castiglionesco, si può anche parlare di
doverosa testimonianza di un mondo che non c'è più, «un luogo mitico, immagine
di una felicità perduta»[27][N 3] devastata poi dalle guerre per il potere e il
dominio tra gli uomini[N 4]. Lasciando parola all'autore stesso: «...e
come nell’animo mio era recente l’odor delle virtú del duca Guido e la
satisfazione che io quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così
eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino, fui
stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io
feci in pochi giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che
dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati.» (Castiglione,
Dedica, I, p. 13) Il perfetto cortigiano In un'epoca in cui la
cortigianeria era divenuto il nuovo modello del vivere sociale presso i potenti
Castiglione fu, nella schiera dei principali letterati dell'epoca, il
«precettista della vita di corte»[42]. Nel quadro della corte feltrina e poi
roveresca, il Castiglione delinea una serie di modi di porsi e di comporsi da
parte del cortigiano, oltreché a precise indicazioni sulla sua condotta e alla
sua formazione culturale e fisica. In sostanza, il Cortegiano si presenta quale
«moderno erede della pedagogia umanistica»[43] in quanto l'uomo che vi si
raffigura è «un uomo versatile e aperto, duttile e completo; è esperto di armi
e di politica, ma sa anche di lettere, filosofia ed arti, è raffinato ma senza
affettazione, è coraggioso e valente, ma senza ostentazione»[43]. In sostanza,
è un trattato di pedagogia rivolto a chi vive nel mondo ristretto ed elitario
delle corti. Grazia e sprezzatura Bernardino Campi, Baldassarre
Castiglione Doti fondamentali su cui si deve poggiare il cortigiano per
Castiglione sono la grazia e la sprezzatura. La grazia del cortigiano, propria
di una specifica classe aristocratico-nobiliare[44], è essenziale alla vita di
corte in quanto «la grazia, le maniere gentili e amabili sono dunque le
condizioni che permettono al gentiluomo di conquistare "quella universal
grazia de' signori, cavalieri e donne"»[45]. Sempre seguendo il
ragionamento di Maria Teresa Ricci, «la grazia appare dunque come una specie di
abilità che ha per scopo di piacere e convincere. Il cortegiano, come
l'oratore, deve saper commuovere, persuadere, convincere gli altri. Egli deve
essere in grado di dare sempre una "buona opinione" di sé»[46]. In
sostanza, deve saper apprendere questa capacità per poter vivere nell'ambiente
di corte. La grazia però è connessa con la cosiddetta sprezzatura, ossia la non
visibilità dello sforzo con cui il cortigiano fa manifesto della grazia
acquisita, qualità contrapposta all'affettazione, ossia «l'ostentazione di un
comportamento ricercato, di cui risulta sottolineata l'innaturalezza e
artificiosità»[47]: «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca
questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula
universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che
si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e
come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una
nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e
dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza
pensarvi.» (Castiglione, I, XXVI, p. 45) Il Castiglione però propone,
nonostante la naturalezza della sua teoria, una vita che sia mimesi di quella
reale: il cortigiano agisce «in un teatro delle apparenze»[48] nel quale invece
è l'affettazione a dominare sulla sprezzatura e non l'incontrario.
L'esaltazione delle lettere Nella discussione dialogica del Cortegiano emerge
poi la supremazia artistica e formativa delle lettere tra le qualità del
cortigiano. Per Castiglione «la vera gloria degli uomini è quella che si
commenda "al sacro tesauro delle lettere"»[49] in quanto tutti gli
antichi, compresi i conquistatori e i politici[50], ne seguirono le orme per
una gloria duratura nei secoli. Consigliere del principe L'umanista
olandese Erasmo da Rotterdam propose un modello pedagogico e politico in buona
parte simile a quella del Castiglione Nel IV libro del Cortegiano si tratta dei
rapporti tra cortigiano e principe. Il discorso, tenuto da Ottaviano Fregoso,
tratta di un argomento che risulta «inatteso, in qualche modo disomogeneo con
le prime tre parti dell'opera»[51]. Il tono del discorso, infatti, risulta
molto più serio e concreto, in quanto il Fregoso (sotto il quale si cela
l'animo dell'autore) denuncia la degenerazione delle corti dovuta a cortigiani
inetti e all'immoralità dei principi. Sarà dunque il cortigiano perfetto,
quello delineato nei primi tre libri, a dover “correggere” questo stato di
cose, educando e consigliando il principe sulla strada della virtù. Il modello
del principe di Castiglione, che si rifà ancora all'Umanesimo quattrocentesco
di Coluccio Salutati e Matteo Palmieri e che trova riscontri nella pedagogia
erasmiana dell'Institutio principis christiani[52], è quanto mai lontano da
quello machiavelliano: se entrambi concordano sulla necessità della virtù del
principe per governare, Castiglione si propone di allontanare dall'immoralità
il principe, la stessa che invece Machiavelli dichiara essere necessaria per il
governo dello Stato nei casi di necessità: «Il fin adunque del perfetto
cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il
guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori talmente
la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e
sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor
o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far
cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della
grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion
viciosa ed indurlo al camin della virtú.» (Castiglione, IV, 5, p.
241) Come fanno notare Salvatore Guglielmino ed Hermann Grosser, però, il
modello politico del cortigiano castiglionesco è simbolo di una crisi di valori
per cui il suo campo d'azione presso il principe non è quello di un primus
inter pares, quanto solo quello di un mero consigliere, preludio alla
trasformazione del cortigiano nel mero secretario custode dei segreti
indiscutibili del principe[53]. La dama di corte Raffaello,
Ritratto di Elisabetta Gonzaga, 1504-1505 Corrispettivo dell'uomo di corte deve
essere la dama di palagio, che nell'opera assume una posizione rilevante grazie
alla figura della duchessa Elisabetta Gonzaga, della cognata Emilia Pio, di
Costanza Fregoso e Margherita Gonzaga[54]. Secondo quanto disposto dal Castiglione
nel III libro della sua opera, la dama di palazzo (o di corte) deve essere
istruita nelle belle lettere, nelle arti, nella musica e nella danza, oltre ad
essere al contempo una buona moglie ed una buona madre di famiglia[55][N 5]:
deve essere dunque una donna «honesta», vocabolo che non indica l'onestà come
virtù morale, quanto l'adozione di certi valori etici e sociali da cui ci si
aspetterebbe da una donna di buoni costumi così come delineati nell'opera. Per
quanto riguarda la dama non ancora sposata, sarà necessario che essa ami
soltanto chi è disponibile a maritarsi con lei e deve rivolgere le attenzioni
maschili a discorsi virtuosi ed onesti, disdegnando invece le promesse d'amore
fatte in modo vago e senza alcun preciso intento di mantenerle[55]. Fulcro
della perfezione della donna di corte è rappresentato dalla duchessa Elisabetta
Gonzaga, come delineato da Uberto Motta: «Elisabetta è la segreta
sorgente a cui Castiglione riconduce le ragioni più intime della sua scrittura:
nei temi, nei generi e nelle forme. Da lei, e dall’incontro con lei, viene
fatta discendere la scoperta e la rivelazione di un nuovo modo di essere al
mondo: la duchessa è una donna unica, l’esclusivo prototipo della virtù e del
valore, la sola compagna all’altezza del fine animo di Guidubaldo, e a dispetto
degli infortuni politici dello stato, e delle tristezze procuratele dallo
sterile matrimonio e dalla vedovanza.» (Motta, Sotto il segno di
Elisabetta. Il mito della duchessa) La questione della lingua All'inizio
del '500, davanti alla rinascita dell'interesse del volgare dovuto
all'umanesimo omonimo, ci si pose quale dovesse essere il veicolo comunicativo
da utilizzare fra gli italiani e quali dovessero essere i modelli di questa
lingua. Secondo Uberto Motta, Castiglione si pone nella linea
dell'anticiceronianesimo appreso alla scuola milanese del Calcondila e del
Merula[56], rispondendo a quella che i critici vaglieranno come teoria
cortigiana, opposta a quella che in quegli anni Pietro Bembo stava elaborando e
che vedrà la luce con le Prose della volgar lingua del 1525. Claudio Marazzini
sintetizza così la teoria cortigiana: «la differenza tra questo ideale
linguistico e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della lingua
cortigiana non volevano limitarsi all'imitazione del toscano arcaico, ma
preferivano far riferimento all'uso vivo di un ambiente sociale determinato,
quale era la corte»[57]. Infatti tale posizione viene esplicitata da Federico
Fregoso nel Cortigiano nel I libro: «Però io laudarei che l’omo, oltre al
fuggir molte parole antiche toscane, si assicurasse ancor d’usare, e scrivendo
e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri
lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia.»
(Castiglione, Cortegiano I, XXIX, p. 49) Opere Il Cortegiano Lo
stesso argomento in dettaglio: Il Cortegiano. «Il tempo che egli passò in
Urbino fu dunque quello che maggiormente influì a dare quasi il segno all'arte
sua. Il libro del Cortegiano vide la luce assai appresso, ma non può negarsi
che l'atteggiamento che egli prende di fronte alla sua arte, di lì sia
venuto.» (Bongiovanni, pp. 75-76) Edizione inglese del 1603 a
partire da quella di Thomas Hoby del 1561 La sua fama è legata a Il libro del
Cortegiano, trattato in quattro libri in forma dialogica. Scritto in varie fasi
tra il 1508 e il 1524[58], il Cortegiano si ambienta nel 1507, quando il duca
Guidobaldo era ancora vivo, e fu stampato nel 1528 a Venezia[27]. Nel signorile
ambiente della corte di Urbino si svolgono, in quattro serate, dei dialoghi in
cui si disegna l'ideale figura del perfetto cortigiano: nobile di stirpe,
vigoroso, esperto delle armi, musico, amante delle arti figurative, capace di
comporre versi, arguto nella conversazione. Tutto il suo comportamento doveva dare
impressione di grazia e eleganza. Simile a lui la perfetta "dama di
palazzo". Serve così a comprendere non una realtà d'epoca, ma le
aspirazioni di una classe a una vita contraddistinta da un elegante ordine
razionale, un'idea di bellezza che desse alla vicenda terrena un significato
superiore ed eterno. L'opera ebbe immediata e generale fortuna in Europa e
servì da modello, anche come prosa, benché non conforme ai precetti di Pietro
Bembo: nel Cortegiano si espone anche un ideale di compostezza armoniosa nel
campo della produzione in prosa, contraddistinta da elevatezza di impianto
generale, ricchezza e fluidità, duttilità a registri diversi di
scrittura. Tirsi Frontespizio delle opere latine e volgari di
Baldesassar Castiglione, presso Giuseppe Comino, Padova 1733 Il Tirsi è
un'egloga in 55 ottave[59], elaborata insieme al cugino e amico Cesare Gonzaga,
che celebra i vari letterati presenti alla corte urbinate, riconoscibili
tramite i versi che sono stati da loro scritti. La scena si apre con il lamento
del pastore Iola per il rifiuto dell'innamorata ninfa Galatea di unirsi a lui,
quando interviene Tirsi che esalta una divinità locale (dietro cui c'è
Elisabetta Gonzaga) e tutti coloro che si sono posti sotto la sua
protezione[60]. Il chiaro retaggio virgiliano dell'opera è dovuto al fatto che
i personaggi che vi compaiono appaiono tutti nelle Bucoliche del poeta
mantovano[61], ma vi si intravedono anche stilemi tratti da Orazio, Ovidio e
Catullo, oltreché la metrica adottata nell'Orfeo del Poliziano[62]. Fu stampato
per la prima volta nel 1553 a Venezia a cura di Anton Giacomo Corso[63].
Rime La produzione in ambito poetico è alquanto esigua, anche se nell'epitaffio
mortuario del Bembo si parla di «litteris [...] hetruscis etiam poetae». Le
rime, concentrate nel periodo urbinate[64], per Castiglione appaiono «come
strumento di estrinsecazione dell'identità del cortigiano»[65] e risentono del
petrarchismo cortigiano[65] oltreché dall'influenza poetica classica[66].
Constano di due canzoni e di cinque sonetti[67], stampati dall'abate Serassi
nel 1771 nel secondo volume delle Lettere[68]. Carmina Consistono in
un'egloga intitolata Alcon, dedicata in morte dell'amico Domizio Falcone[69] e
basata su metri e tematiche estratte dalle Bucoliche e dalle Georgiche
virgiliane[70], in un poemetto col titolo Cleopatra, in elegie e in
epigrammi[68]. Furono raccolti per la prima volta da Giovanni Antonio e Gaetano
Volpi nell'edizione delle Opere volgari e latine del 1733 in numero di
diciotto, cui ne fu aggiunto un altro inedito nell'edizione delle Poesie
volgari e latine del 1760 curata da Pierantonio Serassi per un insieme di
diciannove carmi. Per la precisione, i titoli sono i seguenti: Alcon,
Cleopatra, Prosopopoeia Ludovici Pici Mirandulani, De Elisabella Gonzaga canente,
Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem, Ad puellam in litore
ambulantem, Ad eamdem, De morte Raphaelis pictoris, De Paullo canente, De
viragine, Ad amicam, Epitaphium Gratiae puellae, Insignium domus Castilioniae
descriptio, Hippolytae Taurellae coniugis epitaphium, Eiusdem tumulus, Ex
Corycianis, In Cupidinem Praxitelis, De Julio Caesare, De amore[71].
Epistole Oltre alle sedici epistole in volgare[72], tra le lettere degne di
menzione si ricordano il De Vita et Gestis Guidubaldi Urbini Ducis, panegirico
in prosa del duca d'Urbino presentato ad Enrico VII d'Inghilterra in occasione
della morte di Guidobaldo e tentativo di realizzare la figura ideale di
principe; e la Lettera a Papa Leone X, che tratta delle antichità romane e del
modo con cui i romani costruivano i loro edifici[73]. La fortuna
Torquato Tasso Traduzioni del Cortegiano In Europa il nome di Baldassarre
Castiglione è intrinsecamente legato alla sua opera più celebre, Il libro del
Cortegiano, quale modello di comportamento presso le corti. Castiglione trovò
terreno fertile in Spagna dove già nel 1536 il poeta Juan Boscán tradusse Il
Cortegiano in spagnolo[74], mentre nel 1537 fu traslato in francese da Jacques
Colin d'Auxerre (Le courtisan), nel 1561 in inglese da Thomas Hoby (The
courtier)[2][75] e nel 1565 in tedesco dal bavarese Laurentz Kratzer[76].
Seguirono traduzioni anche in latino del Cortegiano, come quella di Hieronimus
Turler la quale fu pubblicata a Wittenberg nel 1561[77]. Secondo Beffa-Negrini
e lo scrittore veronese Benini, nel XVII secolo, vi fu la traduzione dell'opera
anche in lingua russa[78]. Nel corso dei secoli Criticato parzialmente da
Torquato Tasso nel suo dialogo Il Malpiglio overo de la corte a causa delle
forti discordie che intercorrevano tra quell'ambiente e il poeta d'origine
bergamasca (ma anche per il mutato cambiamento sociale intercorso)[79], l'opera
di Castiglione fu posta all'Indice dei libri proibiti nel 1576: il figlio di
lui, Camillo, ricevette notizia direttamente dalla Santa Sede[80]. Neanche la
versione "ripulita" di Antonio Ciccarelli permise al Cortegiano di
essere tolto dai libri proibiti, come riconfermato da papa Sisto V nel
1585[81]. Comunque Il Cortegiano continuò a circolare e, con la fine dell'età
della Controriforma, fu visto nel XIX e nel XX secolo come l'emblema stesso del
Rinascimento[82]. Opere Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano,
a cura di Giulio Carnazzi, Milano, Fabbri Editore, 2001 [1995], SBN TO01070935.
Baldassarre Castiglione,Il Libro del Cortegiano, a cura di Ettore Bonora,
commento Paolo Zoccola, , Mursia, Milano 1972 Baldassarre Castiglione e Cesare
Gonzaga, Rime e Tirsi, a cura di Giacomo Vagni, Bologna, I Libri di Emil, 2015,
ISBN 978-88-6680-136-8. URL consultato il 14 maggio 2020. Baldessar
Castiglione, Lettere ora per la prima volta date in luce e con annotazioni
storiche illustrate, a cura di Pierantonio Serassi, vol. 1, In Padova, presso
Giuseppe Comino, 1769, SBN VIAE003906. Omaggi poetici e letterari Il poeta
Matteo Bandello ha dedicato a Baldassarre Castiglione la Novella XLIV della
Prima parte (1554).[83] Note Esplicative ^ I rapporti tra il Castiglione
e Isabella d'Este furono sempre improntati ad armonia per spirito di vedute e
per interessi comuni. A rappresentare l'amicizia ormai consolidata, Isabella
decise di partecipare in prima persona al corteo nuziale del Castiglione con
Ippolita Torelli. Cfr. Bongiovanni, p. 60. ^ De instituenda regum familia
("Sull'istruzione della corte dei regnanti") è il titolo latinizzato
che il Bembo dà a Il Cortegiano. ^ Per un discorso più ampio, cfr. Motta 2003,
pp. 69-168. ^ In Ferroni, p. 9. non a caso si parla di un tentativo di
«esaltare [con] questo sogno [...] un modo di rispondere alle rovinose
"mutazioni" dell'Italia contemporanea». ^ Finucci, p. 92: «Le donne
sono presenti inoltre perché necessario, lo si metterà ben in chiaro, "non
solamente all'esser ma ancor al ben esser" (3, 40, 246) dell'uomo, della
famiglia e della corte, quindi ai valori familiari, sociali e politici che costituiscono
la società che qui con cura viene messa in scena dall'autore.»
Bibliografiche ^ Motta, Baldassarre Castiglione: «L'opera, all'indomani della
prima edizione (1528), si afferma, a livello internazionale, come autentico
capolavoro e nuovo punto di riferimento nella letteratura etica e politica,
sulla scia dei sublimi modelli antichi di Aristotele e Cicerone, di cui,
consapevolmente, aggiorna e puntualizza la lezione.» Mutini. ^ «La
guerra come duro scotto di privazioni e di sangue, o come gioco millantato e
fastoso, era il loro appannaggio: la morte e la finzione costituivano i termini
di un'alterità in cui si celebrava, in mancanza di una struttura sociale
subordinante, l'assoluta devozione al signore...» (Mutini)
Cian. Mazzuchelli, p. 16. ^ Cartwright, 1, p. 12. ^ Bongiovanni, p. 25. ^
Cartwright, 1, p. 27: «But loyally as Castiglione served his master, Francesco
Gonzaga's personality, it is evident, never attracted him», ossia «A parte che
Castiglione servì lealmente il suo signore, la personalità di Francesco
Gonzaga, è evidente, non l'entusiasmò mai». ^ Cartwright, 1, p. 28. ^
Cartwright, 1, p. 38. ^ Mazzuchelli, pp. 16-17. ^ Martinati, p. 12. ^
Martinati, p. 13. ^ Russo, p. 510. Ferroni, p. 7. ^ Martinati, p. 16. ^
Mazzuchelli, p. 17. ^ Martinati, p. 14. ^ Cartwright, 1, p. 188: (EN) «Henry,
by the grace of God, King of England and France, Lord of Ireland, Soveraign of
the Most Noble Order of the Garter...Forasmuch as we understand that the right
noble prince, Gwe de Ubaldis, Duke of Urbin, who was heretofore, elected to be
one of the companions of the said noble Order» (IT) «Enrico, per la
grazia di Dio, Re d'Inghilterra e Francia, Signore d'Irlanda, protettore del
nobilissimo ordine della Giarrettiera...Dato che noi intendiamo che il giusto
nobile principe, Guidobaldo, Duca di Urbino, che era fino a questo momento,
eletto ad essere uno dei membri del suddetto nobile Ordine...» ^
Martinati, p. 18. ^ La coppia ducale era senza figli per l'impotenza di
Guidobaldo e così, il 18 settembre 1504, Guidobaldo fu costretto ad accettare
come successore Francesco Maria Della Rovere, nipote del pontefice. Cfr.
Cartwright, 1, p. 107. Mazzuchelli, p. 18. ^ Martinati, p. 24. ^
Bongiovanni, p. 31. Mazzuchelli, p. 19. ^ Martinati, p. 23. Ferroni,
p. 8. ^ Bongiovanni, p. 141. ^ Martinati, p. 28 e sgg. ^ Cartwright, 1, p. 411; p. 415: «Ippolita married at fifteen, and died
four years later, before she was quite twenty». ^ Mazzuchelli, p.
20. ^ Martinati, p. 35. ^ Martinati, p. 41. ^ Mazzuchelli, p. 21. ^
Bongiovanni, p. 39. ^ Cartwright, 2, p. 248. ^ Mazzuchelli, p. 22. ^ Martinati,
p. 47. ^ Mazzuchelli, p. 23. ^ Martinati, p. 56. ^ Pompeo Litta, Famiglie
celebri di Italia. Castiglioni di Milano., Torino, 1835. ^ Russo, 1, p.
257. Guglielmino-Grosser, p. 282. ^ Ricci, p. 237. ^ Ricci, p. 237. Il
testo del Cortegiano è tratto dal capitolo II, par. 17. ^ Ricci, p. 238. ^
Ferroni, p. 78, n. 15 §1. ^ Ferroni, p. 9. ^ Russo, p. 520. ^ Russo, pp.
519-520. ^ Ferroni, p. 93. ^ Scarpati, p. 435: «La rete dei valori e dei
disvalori che si disegna non è dissimile da quella tracciata da Erasmo». ^
Guglielmino-Grosser, pp. 282-283. ^ Finucci, p. 91. Ferroni, p. 88. ^
Motta 1998, p. 694. ^ Marazzini, p. 266. ^ Motta, Il libro del Cortegiano. La
genesi del testo. ^ Vagni, p. 773. ^ Vagni, p. 734. ^ Vagni 2015, p. 187. ^
Cartwright, 1, p. 159. ^ Vagni 2015, p. 192. ^ Vagni 2015, p. XXVI. Vagni
2015, p. XXV. ^ Vagni 2015, p. XXX. ^ Mazzuchelli, p. 32. Mazzuchelli, p.
33. ^ Motta, La produzione poetica. I carmi latini. ^ Cartwright, 1, p. 144. ^
Mazzuchelli, pp. 33-34. ^ Mazzuchelli, p. 30. ^ Mazzuchelli, p. 34. ^ Pozzi. ^
Loewenstein-Mueller, p. 349. ^ Burke, p. 64. ^ Cartwright, 2, p. 439. ^
Cartwright, 2, p. 440. ^ Cfr. il saggio di Cox, pp. 897-918. ^ Cartwright, 2,
p. 443. ^ Cartwright, 2, p. 446. ^ Cfr. Burke, IV di cop. ^ La prima parte de
le Novelle, In Lucca, per il Busdrago, 1554. Bibliografia (FR) Roland Antonioli
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Scarpati, Dire la verità al Principe, in Aevum, vol. 57, n. 3, Milano, Vita e
Pensiero, settembre-dicembre 1983, ISSN 0001-9593 (WC · ACNP). Giacomo Vagni,
L'onorata schiera della duchessa Elisabetta. Ipotesi attributive sul Tirsi di
Baldassar Castiglione e Cesare Gonzaga, in Aevum, vol. 87, n. 3, Milano, Vita e
Pensiero, settembre-dicembre 2013, pp. 733-758, ISSN 0001-9593 (WC · ACNP). URL
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Baldassarre Castiglione, su internetculturale.it. URL consultato il 20 maggio
2020. In particolare: Sotto il segno di Elisabetta. Il mito della duchessa, su
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spagnola a una cultura degna della nuova condizione imperiale, su
journals.openedition.org, 2 dicembre 2015. URL consultato il 20 maggio 2020.
Predecessore Signore di Casatico Successore Cristoforo Castiglione 1499 – 1529
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Grazie (Curtatone)[altre] Grice e Castiglioni
Grice e Castrucci: la ragione
conversazionale el’implicatura conversazionale del guerriero indo-germanico -- sul
conferimento di valore – scuola di Monterosso al Mare – filosofia ligure --
filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Monterosso al Mare). Filosofo ligure. Filosofo
italiano. Monterosso al Mare, La Spezia, Liguria. Grice: “Castrucci is wrong.”
Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove
si è formato negli studi filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola
di Vallauri e di Grossi, laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in
quell'ateneo il ruolo di ricercatore universitario di filosofia del diritto. A
Firenze è entrato in contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area
di Autonomia Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha
scritto la sua tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze).
Insegna a Genova e Siena. I suoi studi riguardano principalmente la
filosofia politica e la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto
alcuni aspetti costitutivi della dimensione contemporanea, tra i quali si
possono ricordare: i presupposti antropologici del politico; i fondamenti dello
jus publicum europaeum, la critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua
ricerca riguarda inoltre le origini e le forme del pensiero giuridico europeo
moderno, la ricostruzione delle linee fondamentali della teoria dello Stato
tedesca del primo XX secolo, le radici giuridiche e teologiche della tradizione
culturale dell'Occidente. C. ne ha sviluppato autonomamente la concezione del
manierismo politico nei propri scritti sulla filosofia politica
convenzionalista del XVII secolo. Nel corso della sua ricerca ha approfondito in particolar modo filoni di pensiero
riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo inoltre alla
diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra, con cura
editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e giudizio. Uno
studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”, “forma”, “potenza”
sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica europea di cui,
nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo storico-genealogico e vengono
indagate le implicazioni teoriche. La convenzione, o per meglio dire l’ordine
giuridico convenzionale, è il concetto che corrisponde al modo in cui la
razionalità giuridica affronta il problema di un ordine giuridico tecnico, artificiale,
positivista, svincolato da quelle premesse di valore di tipo teologico o
metafisico o naturale che avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea
in questo senso la storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale
e non naturale) nel quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco
procede fino alla crisi della cultura del primo Novecento. Accade in
questo quadro che il primato classico dell'idea filosofica di forma venga
sostituito da quello, tipicamente moderno, dell'idea di decisione. La decisione
si contrappone così alla forma. Confrontandosi con i campi diversi della
filosofia politica, dell'etica e della letteratura, l'analisi incontra figure
significative di filosofi e scrittori come Benjamin, Musil, Valéry. Il
complesso apparentemente discorde delle loro voci, che C. analizza, porta
all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate rispetto all'impostazione
“formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana, a lungo prevalente nel
campo dell'estetica e della teoria del diritto. Nello sviluppo storico e
genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono infine riconoscere,
secondo C., le linee di un'antropologia politica fondata su basi
individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione
individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio
problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale
tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella
comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia
radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in
tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o
radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea
di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di
Nietzsche. L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di
riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica
della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea
aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi
distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra
questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso
filosofico di C., la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche
convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel
pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer,
Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più
recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali
di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno
suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno col quale si riferiva a
figure storiche naziste come Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento
di C. "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho
combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e
Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione
di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice
filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera
Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio
storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del
principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva
dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere
un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente
provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la
grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da C., annunciando di aver "dato
mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del
caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo
aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente,
ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la
sospensione, C. non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo
dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso, mentre l'iter
procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in
seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta
penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine
convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e
"Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè
Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè); Considerazioni
epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione
alla filosofia del diritto pubblico di Schmitt, Torino, Giappichelli); Hume e
la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica:
Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di
Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea
prima di Thomas Hobbes, C., Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos
della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il
nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio
sul problema della prassi giudiziale, C., Milano, Giuffre). Le radici
antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del
Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum
europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas,
in Filosofia politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un
totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di
Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della
forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento,
Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e
pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno
nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè);
Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti
intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma,
potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).
HOMO ABSCONDITUS L’IDEOLOGIA TRI PARTITA DEGLI INDOEUROPEI
il Cerchio Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA
DEGLI INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli
studi di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle antiche
civiltà euro-asiatiche. La struttura fondamentale del pensiero religioso e
sociale delle popolazioni uscite dalla comune radice indoeuropea.
dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in Sacerdoti. Guerrieri e
Contadini che è presente nelle origini di Roma così come nei miti
iranici, germanici e celti, si rivela essere lo specchio di
un'armonia divina, in cui gli stessi dèi sono così suddivisi, classificati
e diversamente adorati. È la dimostrazione di come, nelle civiltà
tradizionali, anche l'aspetto sociale e politico dipenda radicalmente
dalla dimensione mitico-religiosa. e il mondo del divino diviene
l’archetipo che dà forma a tutta la società degli uomini.
DUMÉZIL è una figura fondamentale nel panorama culturale
europeo. Filologo e storico, riavviato gli studi attorno alla civiltà
indoeuropea nelle grandi civiltà precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la
Grecia, le popolazioni celtiche e germaniche. Ha lasciato una
bibliografia sterminata, solo parzialmente tradotta in italiano,
fra cui ricordiamo almeno La religione romana arcaica, Gli Dèi dei
Germani, Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli
Indoeuropei. HOMO ABSCONDITUS Dumézil L’ideologia
tripartita degli Indoeuropei Con un saggio introduttivo
di RlES il Cerchio Iniziative editoriali L'idéologie
tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di
Mera. Walters Art Museum, Baltimora. II Cerchio Srl La
riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil.
Calmette rinvenne i primi due Libri dei Veda, u n documento coni p
letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella
Biblioteca Reale di Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala,
Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza di una
lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della
riscoperta del pensiero indoeuropeo. Il primo dossier indoeuropeo
Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di compiere
nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti dell’antica
mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei Germani al
Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare alle origini
spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolarmente due
pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la celebre opera
di Creuzer Simbolik undMvlhologie
der altea Vòfker, tradotto in francese; infine Gòrres pubblica il suo
Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui questo precursore del
romanticismo religioso cercò di d imostrare che i miti dell’India,
dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina comune su Dio, l’Anima e
l’immortalità. Sulla scia dei loro maestri i mitografi romantici si
lanciarono alla ricerca delle prime idee religiose dell’infanzia umana.
Oltre a ciò questa corrente si occupò dell’espressione e delle modalità
di trasmissione del messaggio religioso sin dalle origini dell’umanità.
A questa corrente romantica si oppose la ricerca storica e filologica,
rappresentata da Miiller, da Bopp, da Chézy e da tutta la linea degli
specialisti in filologia comparata che studiarono scientificamente i
testi dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col pensiero dell’India
e dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Miiller occupa un posto di
primaria importanza. Specializzatosi in sanscrito, in grammatica
comparata ed in filosofia del mito ad Oxford, istituì una Cattedra
divenuta celebre: egli credette che la filologia comparata fos se la chiave che
avrebbe permesso di aprire le porte della storia delle religioni. Ai suoi
occhi la lingua è un testimone autentico del pensiero. Miiller sostenne
che in origine l’uomo ha agito, e per descrivere i suoi atti inventò il
linguaggio. Da allora i miti non sono altro che la personificazione degli
oggetti e delle azioni che 1 ’uomo ha dovuto esprimere e
descrivere. Continuando le sue ricerche in direzione delle origini,
Miiller tradusse i Veda, testo in cui credeva di trovare il primo
pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli antichi Ariani. Così
secondo il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte del pensiero
religioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le ricerche
di Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of
thè Easl (che potè terminare prima della propria morte, lasciando così
agli studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri dell’antica
Asia. Il dossier indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco:
scoperta della corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue
indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica ariana come
pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer tentò
d’intraprendere un vasto studio comparato attorno al mito romano della morte
rituale ed al mito nordico del dio Balder. Tutta la sua opera, The Golden
Bough cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusioni
sono deludenti. Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il
metodo frazeriano, Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per
volgersi verso la linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono
A. Meillet e J. Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances
de vocabulaire enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in «Mémoires
de la Société Linguistique), Vendryes ha sottolineato le corrispondenze
esistenti tra parole indo-iraniche da una parte ed italo-celtiche
dall’altra. Si tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla
religione, c vi sono anche parole mistiche relative all’efficacia degli atti
sacri, alla purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’offerta fatta agli
dèi, all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla protezione
divina ed alla santità. Questa scoperta fu molto importante, poiché
dimostra l’esistenza di una comunanza di termini religiosi presso i
popoli che in seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli
Italici ed i Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso alle
due estremità del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella Gallia ed
in Italia, è un dato molto significativo, benché la scomparsa di questo
vocabolario presso popoli come i Germani e gli Scandinavi non abbia
mancato di incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha constatato che questi
termini religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic disponevano
di collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi,
il Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e trasmettere
questo vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi sacri ed
alle preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa c di una
fonte importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il mondo
indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic
veicolava grazie ad un linguaggio comune. La scoperta dell’eredità
indoeuropea Alla luce delle ricerche dì Vendryes, Dumézil ha
compreso quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di
vent’anni di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di
penetrare gli arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La
pubblicazione de L'idéologie tripartie des Indo-Européens è il compimento di
una lunga marcia ed il punto di partenza per tutte le scoperte
.successive. L’esame del problema flamen-brahman c dei flamini maggiori a
Roma condusse Dumézil ad una conclusione decisiva: «/ più antichi
Romani, gli Umbri, avevano portato con toro in Italia la stessa
concezione conosciuta dagli Indo-Iranici e su cui notoriamente gli Indiani
avevano fondato il loro ordine sociale ' Era la scoperta e la messa
a fuoco di un’eredità indoeuropea, di una ideologia funzionale e
gerarchizzata, alla sommità della quale si trova la sovranità religiosa c
giuridica, seguita dalla forza fisica che s’incama nella guerra, mentre
al terzo livello si situa la fecondi- tà-fertil ità, sottomessa alla
sovranità ed alla forza ma indispensabile al loro mantenimento c
sviluppo. Munito di questa griglia di lettura lo studioso francese si c
avventurato nello studio di tutta la documentazione disponibile. Si tratta di
uno studio comparativo il cui oggetto c il dato indoeuropeo.
Durante il III c II millennio a.C. delle bande di conquistatori si
spostarono verso l’Atlantico, il Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate
erano fatte di diversi dialetti provenienti da una lingua comune, il che
suppone un fondo intellettuale e morale identico, ed un minimo di civiltà
comune. Popoli senza scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato pochi
documenti. Solo gli Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II
millennio a.C., hanno adottato una scrittura cuneiforme che consentì loro
di conservare degli archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza del
vocabolario religioso legato all’organizzazione sociale, alle pratiche cultuali
ed ai comportamenti religiosi. Parecchi fatti presuppongono l’esistenza di una
religione che rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una
concezione dell’origine, del presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les
épopees despeuple indo-européens, Gallimard, Paris (Trad. italiana,
Einaudi, Torino). Volendo spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil
ha elaborato il proprio metodo comparativo, che lui stesso chiama
«genetico)}. La prima fase del lavoro consiste nel mettere in evidenza
delle corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di
tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed
articolazioni essenziali. Questo schema viene proiettato nella preistoria, al
fine di comprendere la curva dell’evoluzione religiosa. Possedendo
delle corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle
civiltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione
delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia,
della filologia, della sociologia, della liturgia e della teologia
arcaica, lo storico giunge a comprendere le grandi linee del pensiero di questi
popoli e la loro evoluzione, sino alle soglie della storia. Grazie a
questo lavoro lungo ed arduo si è riusciti a stabilire un’archeologia del
comportamento e delle rappresentazioni. Dumézil non ha preteso di
resuscitare la religione degli Indoeuropei come venne vissuta nei tempi
preistorici. Si è accontentato piuttosto di delineare lo schema
concettuale delle società collegate tra loro nello sviluppo della storia,
e si è servito di questi schemi per giungere a spiegare i testi ed i fatti che
resistevano ad ogni spiegazione. Nelle civiltà indoeuropee il
nostro autore trova una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono
queste i tre varna dell’India: i brdhmana, sacerdoti incaricati del
sacrificio e custodi della scienza sacra; gli ksatriya, guerrieri
incaricati della protezione del popolo; i vaisya, produttori dei beni
materiali, del nutrimento. Secondo il Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre
«caste» sono molto antiche. In Iran l 'Avesta menziona tre gruppi di
uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guerrieri, i radaci.star montatori di carri; gli
agricoltori-allevatori, chiamati vàstryò.fsuycmt. Una struttura identica ha
lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro discendenti, gli Osseti del
Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi, la loro aristocrazia militare
ed i loro boairig, gli allevatori DUMÉZIL, L ’heritage des indo-curopéens
à Rome, Gallimard, Paris di buoi. L’analisi delle origini di Roma
condotta da Dumézil si è riveata particolarmente illuminante. Queste
tre funzioni sono attività fondamentali e indispensabili per la vita
normale della comunità. La prima funzione, quella del sacro, regola i rapporti
degli uomini fra loro e sotto la garanzia degli dèi, determina il potere
del re e traccia i limiti della scienza, inseparabile dalla manipolazione
delle cose sacre. La seconda funzione, quella relativa alla forza fisica,
interviene nella conquista, nell’organizzazione della società e nella sua
difesa. La terza ricopre un vasto ambito, quello della sussistenza degli uomini
e della conservazione della società: fecondità animale ed umana,
nutrimento, ricchezza e salute. Dumézil ha dimostrato che la società
indoeuropea era governata in profondità grazie ad una mentalità fondata
su una struttura trifunzionale. La teologia si trova al centro del
mondo indoeuropeo. Una delle grandi prove di ciò è la lista degli dèi
ariani di Mitanni trovata su una tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa,
capitale dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa tavoletta
contiene il testo di un trattato concluso nel 1380 a.C. tra il re hittita
Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della
loro alleanza ognuno dei re invoca i propri dèi: il re di Mitanni invoca gli
dèi considerati i protettori della società ariana: Mithra-Varuna, India e
i Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che ritroviamo in India ed in
Iran. In quest’ultimo paese è la riforma di Zarathustra e la formulazione
delle sei entità divine - gli Immortali Benefici - che illustra in maniera
illuminante questa teologia strutturata su tre piani ed articolata in tre
funzioni. Dai Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto
all’Italia ove ha rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio)
in Umbria ed a Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus.
Questi dati indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad una
teologia delle tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta
un’associazione di tre coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi
Mitra e Varuna, signori del primo livello, si dividono la sovranità di
questo mondo e dell’altro: Indra, scortato dai Marut, un battaglione di
giovani guerrieri, proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin
sono distributori di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armenti; si
tratta dunque di una teologia tripartita. Il documento di
Hattusadel 1380 a.C. ci mostra che questa teologia è anteriore alla redazione
dei Veda e che fa parte della tradizione ariana arcaica; d’altra parte,
la presenza dello schema trifunzionale nella teologia di Zarathustra ed
il suo riflesso sugli «Arcangeli» raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda
conferma l’attaccamento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i
sacerdoti che i popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si
rinviene anche in Italia, presso i Celti, i Germani e gli
Scandinavi. Conclusioni E stato necessario tutto il XIX
secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c
stato quello di aver consacrato un 'intera vita all’interpretazione di questa
documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr
c di James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al
dominio del culto e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del
vocabolario del sacro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli
italo-ccltici dall’altra, hanno fornito allo studioso l’idea di studiare più a
fondo i paralleli attorno alle divinità ed ai sacerdoti, poiché questi
popoli sono i soli tra gli indoeuropei ad aver conservato per molti
secoli i loro collegi sacerdotali. Questa nuova via fu illuminante,
poiché ha condotto alla scoperta di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli
inizi della storia dei popoli italici, celtici, iranici cd indiani.
L’assenza di vestigia archeologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a
punto un metodo comparativo genetico fondato sull’archeologia delle rappresentazioni
c del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce
dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio
egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -
della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale
che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei
della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:
classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori. Mezzo
secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa visione nuova del
mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle vestigia della
civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreggiare di più d’un
millennio i lempora ignota. Julien Ries Università di
Louvaìn-la-Neuve Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà
menzione de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni,
della loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo
qui impiegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non
interessa molto i problemi qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi
considereremo è quella dello spirito. Al pari degli Indiani vedici,
come ci vengono presentati dai loro inni, gli Indoeuropei non furono
uomini senza riflessione e senza immaginazione, tutt’altro. Esattamente da
vent’anni ormai la comparazione delle più antiche tradizioni, dei diversi
popoli parlanti lingue indoeuropee, ha rivelato un fondo considerevole di
elementi comuni, elementi non isolati ma organizzati in strutture
complesse delle quali non ci è offerto un equivalente in altri popoli del
mondo antico. L'esposizione, che ci si appresta a leggere, è consacrata
alla più importante di queste strutture. L’obiettivo essenziale è
quello di guidare lo studente, tramite una serie di riassunti ordinati e
consequenziali, attraverso una mole di argomenti poco agevoli a causa
della loro eterogeneità e del loro frazionamento. Nello stesso
tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati una prima e
provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma una messa a
fuoco alla correlazione generale che solo uno sguardo d’insieme può
imporre ai risultati parziali. Un problema che per anni è stato
capitale e in primo piano - penso al valore trifunzionale delle tre tribù
romane primitive - si trova qui limitato in un secondo livello; al
contrario, le numerose applicazioni ideologiche delle tre funzioni, le cui
segnalazioni si trovano disperse nelle pubblicazioni più svariate,
acquisteranno ora, io spero, potenza grazie ad un parallelismo che farà
risaltare il loro semplice riavvicinamento. Questo doppio disegno non
prevederànote a piè di pagina: si è preferito costruire una sorta di
commentario bibliografico distribuito secondo i paragrafi del libro,
indicando i testi affinché ognuno riepiloghi o perfezioni a proprio piacimento;
oppure segnando c datando su ogni punto importante i progressi o le
svolte della ricerca; o ancora, rinviando ad altri paragrafi per
segnalare correlazioni che non avrebbero potuto ingombrare l’esposizione
discorsiva iniziale. Non si è tenuto conto che dell’opera
principale dell’autore e di un certo numero di colleghi francesi e
stranieri che, pur senza voler formare una scuola, si dedicano da più o
meno tempo alle stesse materie con metodi simili e che si tengono costantemente
in contatto tra loro. Altre visioni sul pensiero degli
indoeuropei, incompatibili con questa, non saranno qui esaminate, non per
disprezzo ma perché le dimensioni del presente libro sono ristrette e l’intento
è costruttivo e non critico. Tuttavia, nelle note finali si
troveranno riferimenti a numerose discussioni. Il mio caro
collega Renard mi ha permesso di presentare nella collezione Latomus,
poco tempo dopo Les Déesses latines, questa nuova esposizione in cui il popolo
romano non interviene che prò virili parte. Egli ha così voluto
confermare, sensibilmente ai nostri studi, cd io lo ringrazio, la
necessaria alleanza tra studi classici e indoeuropei, tra metodi filologici e
comparativi, che ho sempre invocato con augurio. Uppsala. Parigi. Le
tre funzioni sociali e cosmiche Le classi sociali in India
Uno dei tratti più sorprendenti delle società indiane post-rgve-
diche è la loro divisione sistematica in quattro «classi», dette in sanscrito i
quattro «colori», varna, le prime tre delle quali benché diverse sono
pure perché propriamente arya, mentre la quarta, formala indubbiamente dai
vinti della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è quindi
irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea non si
Lralterà qui ulteriormente. I doveri di ognuna delle tre classi
arya servono per definirle: i brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano
la scienza sacra e celebrano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i
guerrieri, proteggono il popolo con la loro forza e con le loro armi; ai vaisya
è affidato l’allevamento e l’aratura, il commercio e più in generale la
produzione dei beni materiali. Si costituisce così una
società completa e armonica presieduta da un personaggio a parte, il re,
rdjan, generalmente nato e qualitativamente estratto dal secondo livello.
Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono conchiusi tutti su
loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e a un codice rigoroso
d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi è dubbio che il sistema non
sia una creazione propriamente indiana posteriore alla maggior parte del
Riveda-, i nomi delle classi non sono menzionati chiaramente che
nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X libro della
raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una tale creazione non è nata
dal nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di una pratica
sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M. Apte, fece una
collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del Riveda
(principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai tempi della
redazione di questi inni la società fosse pensata composta da sacerdoti,
guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non erano ancora designati dai
nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostantivi astratti, nomi di nozioni
di cui i nomi di questi uomini non sono che i derivati) erano già
composti in un sistema gerarchico che definiva distributivamente i principi
delle tre attività. Brc'ihmun (al neutro) «scienza e utilizzazione delle
correlazioni mistiche tra le parti del reale visibile o invisibile», kyatrei
«potenza», vis «contadinanza» o «habitat organizzalo» (la parola c apparentala
al latino vTcus e al greco (w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del
popolo nel suo raggruppamento sociale e locale». È impossibile
determinare in quale misura la pratica si conformasse a questa struttura
teorica: vi era forse una parte più o meno considerevole della società che
indifferenziata o altrimenti classificata sfuggiva a QUESTA
TRIPARTIZIONE? L’ereditarietà all’interno di ciascuna classe non era
forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale più flessibile
c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente ci è accessibile
solo la teoria. 2. Le classi sociali avestiche Da un
quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie- gel, di E.
Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno nella sua forma
ideologica la tripartizione sociale era una concezione già acquisita
prima della divisione degli «Indo-Iranici» in Indiani da una parte ed
Iranici dall’altra. In diversi passaggi VA vesta menziona i
componenti della società come gruppi di uomini o di classi (designate da una
parola che si riferisce al colore, pistra): i sacerdoti, àBuurvan o uBravun
(cf. uno dei sacerdoti vedici, Vdtharvan), i guerrieri, luBciè.star
(«guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio guerriero
Indra) e gli agricoltori-allevatori, vàstryó.fsuyant. Un solo
passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi, pongono come
quarto termine alla base di questa gerarchia, gli artigiani, huiti, altri
indizi (come il fatto che raggruppamenti triplici di nozioni sono talvolta
messi maldestramente in rapporto con le quattro classi, cf. SBE, V, p. 357) ci
portano a considerarla una aggiunta a un antico sistema ternario.
Nel X secolo della nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele
testimone della tradizione, racconta come il favoloso re Jamsed (lo Yima
Xsaéla dell’A vesta) istituì gerarchicamente queste classi: separò inizialmente
dal resto del popolo gli *asravctn «assegnando loro le montagne per
celebrarvi il loro culto, per consacrarsi al servizio divino e restare nella
luminosa dimora »; gli *artesfar, posti dall’altra parte, «combattono
come dei leoni, brillano alla testa delle armate e delle province, grazie
a loro il trono regale è protetto e la gloria del valore è mantenuta »;
quanto ai *vùstryós, la terza classe, « loro stessi arano, piantano e
raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimprovera, non sono servi benché
vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo alla calunnia».
A differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito
questa concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un
modello, un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare
l’essenzialità dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideologia in
cui noi ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante della famiglia
iranica, molto importante poiché si è sviluppato non in Iran ma a nord del Mar
Nero, fuori dalla morsa degli imperi, iranici o altri, che si sono succeduti
nel Vicino Oriente, testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui
costumi insieme a molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a
qualche altro autore antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta
sino ai nostri giorni grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale,
originale e pieno di vitalità, gli Osseti. Secondo Erodoto
(IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano l’origine della loro
nazione: «Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di allora
deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di una figlia
del fiume Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre figli,
Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais. Quando erano
in vita caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti d’oro: un
carro, un giogo, un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi t/uyòv mi cràyapiv
mi (piàÀT|v). A questa vista il più anziano si affrettò a prenderli ma quando
arrivò l ’oro si mise a bruciare. Così si ritirò e il secondo si fece avanti ma
senza migliore successo. Avendo i primi due rinunciato all 'oro
bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si spense. Lo prese con sé e i
suoi due fratelli, davanti a questo segno, abbandonarono la regalità
interamente all'ultimogenito. Da Lipoxais sono nati quegli Sciti che sono
chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh- atai; da Arpoxais quelle dette
Katiaroi e Traspies (variante: Trapies, Trapioi) e in ultimo, dal re,
quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si chiamano Skolotoi, dal nome
del loro re » Mi sembra certo che bisogna, al pari di E.
Benveniste, rendere yévoq con «tribù». Gli Sciti contano quattro tribù,
una delle quali è la tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la
stessa struttura: è chiaro infatti che questi quattro oggetti si
riferiscono alle tre attività sociali degli Indiani e degli «Iranici
deH’Iran»; il carro e il giogo (E. Benveniste ha analizzato un composto
avestico che associa queste due parti della meccanica dell’aratura)
evocano l’agricoltura; l’ascia era con l’arco l’arma nazionale degli
Sciti; altre tradizioni scitiche conservate da Erodoto, come pure l’analogia
coi dati indo-iranici conosciuti, incoraggiano a vedere nella coppa lo
strumento e il simbolo delle offerte cultuali e delle bevande sacre.
La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla
tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli ambasciatori
degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno a non
attaccarli: «Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per
buoi, un carro, una lancia, una freccia e una coppa (iugum bovum,
aratrum, hasta, sagitta et patera). Ce ne serviamo con i nostri amici e
contro i nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i frutti della terra che
ci procura il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli dèi libagioni di vino;
quanto ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con la freccia e da
vicino con la lancia». 4. La famiglia degli eroi Narti
È interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica
della società nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n
frammenti ma in numerose varianti da circa un secolo e che una grande impresa
folklorica russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistematicamente raccolto.
Gli Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i Narti, erano divisi
essenzialmente in tre famiglie. «/ Boriatee - dice una tradizione
pubblicata da S. Tuganov nel 1925 - erano ricchi in armenti; gli Alcegatce
erano forti per intelligenza; gli /Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo
e vigore ed erano forti per i loro uomini». I dettagli del
racconto che giustappongono od oppongono a due a due queste famiglie,
soprattutto nella grande collezione degli anni ’40, confermano pienamente
queste definizioni. II carattere «intellettuale» degli Alaegatae
riveste una forma arcaica, non appaiono che in circostanze uniche ma frequenti:
c nella loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui si
producono le meraviglie di una Coppa magica detta la «Rivelatrice dei
Narti». Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto,
è rimarchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t)
«bravura», che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle parlate scitiche,
la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbiamo visto, del
fondamento della classe guerriera. I Boriala; e il principale tra
essi, Burafscrnyg, sono costante- mente e caricaturalmente i ricchi, con
tutti i rischi e i difetti della ricchezza e in più, in opposizione ai poco
numerosi vExsaertaegkatae, sono una moltitudine di uomini. 5.
Gli Indoeuropei e la tripartizione sociale Riconosciuta così come
retaggio comune indo-iranico, questa dottrina tripartita della vita
sociale è stata il punto di partenza di un'inchiesta che prosegue da più
di vent’anni e che ha portato a due risultati complementari che possono
riassumersi in questi termini: 1) al di fuori degli Indo-Iranici i popoli
indoeuropei conosciuti in età antica o praticavano realmente una
divisione di questo tipo oppure, nelle leggende in cui spiegano le proprie
origini, ripartivano i loro cosiddetti «componenti» iniziali fra le tre
categorie di questa stessa divisione: 2) nel mondo antico, dal paese dei
Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Libia e dall’Arabia agli Iper borei,
nessun popolo non indoeuropeo ha esplicitato praticamente o idealmente
una tale struttura o se l’ha fatto è stalo dopo un contatto preciso,
localizzabile c databile, che ha avuto con un popolo indoeuropeo. Ecco
qualche esempio a sostegno di questa proposizione. Il caso più completo è
quello dei più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti e gli Italici, il che
non è sorprendente una volta che si c prestata attenzione (J. Vendryes)
alle numerose corrispondenze che esistono nel vocabolario della
religione, dell’amministrazione e del diritto, tra le lingue
indo-iraniche da una parte e quelle ilalo-celli- che dall’altra.
Se si ordinano i documenti che descrivono lo stato sociale della
Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme ai testi che ci
informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al cristianesimo, ci
appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico del sanscrito rcij- o
del latino réf*-), un tipo di società così costituita: 1) Al di
sopra di tulli c forte oltre ogni limile, quasi super-nazionale come la classe
dei brahmani, vi c la classe dei clruicli (*dru-uid), cioè dei sapienti,
sacerdoti, giuristi, depositari della tradizione. 2) Segue poi
l’aristocrazia militare, unica proprietaria del suolo, \a flciith irlandese
(cf. il gallico vlata- c il tedesco Gewcdt), propriamente la «potenza», esatto
equivalente semantico del sanscrito ksatrà, essenza della funzione
guerriera. 3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini
liberi ( ciirif.;) che si definiscono solamente come possessori di vacche
( bó). Non è sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R.
Thurney- scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che
questa ultima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che designa lutti
i membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono protetti dalla
legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle assemblee -
airecht - e ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato in -k di una
parola imparentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito city a, àrya\
antico-persiano ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo», da *arya-ka-).
Ma poco importa: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente lo schema
reale o ideale delle società indo-iraniche. La Roma storica, benché
risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali: l’opposizione tra patrizi
e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione
precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi benché rivestila
di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres, Titienses - e
ancora in qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci suggerisce chiaramente
la leggenda delle origini. Secondo la variante più diffusa, Roma si e costituita
da tre elementi etnici: i compagni latini di Romolo e Remo, gli
alleati etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i nemici sabini di
Romolo comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato nascita a la TRIBU
I -- Ramnes, i secondi alla TRIBU II – i Luceres c i terzi alla TRIBU III
– i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora costantemente ognuno
di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA TRIBU III: I Sabini
di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU II. Lucumone c la sua
banda sono i primi specialisti dell’arte militare arruolati come tali da
Romolo. LA TRIBU I: Romolo è il semi-dio, il rex-augur beneficiario della
promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y urbs e il fondatore
istituzionale della respublica. Talvolta la componente etnisca è
eliminala, ma l’analisi «tri-funzionale» non viene meno poiché Romolo c i suoi
Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi sacri e di
guerrieri esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito Livio (1,9;
2-4), “deos et virtutem” e non gli mancano temporaneamente che opes (e le
donne) che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro, 1,1) i Sabini
riconciliati che si trasferiscono a Roma c cum generis suis a vitas opes
prò dote socicint. Eliminando così gli’etruschi, il dio Marte in
persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico dell’impresa
che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La ricca vicinanza –
“viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza – “inopes” -- e non
aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte del loro sangue – “sanguinis
auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho messo nel tuo cuore, Romolo,
una disposizione conforme alla natura di tuo padre -- “patriam mentem”,
cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione, ciò che domandi, saranno
le armi a donartelo – “arma dabunt”. Dionigi di Alicarnasso che segue la
tradizione delle tre razze, ripartisce tra quelli gli stessi tre
vantaggi: le città vicine, sabine o altre, sollecitate da Romolo per
mezzo di matrimoni, rifiutano di unirsi a questi nuovi venuti « Che non
sono da considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv
Èpyov)». A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e di
depositario dei primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari di
professione come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e illustre
in materia di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq). Ma è Properzio, nella
prima elegia romana che da a questa dottrina delle origini, e nella forma
delle tre razze, l’espressione più complete. Nel momento in cui nomina, con
Romolo, le tre tribù primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite
le correlazioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere
i caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della
materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i compagni di Remo e di suo fratello (il
nome di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon
(Lucu- mo); TRIBU III. Tito Tazio. Il testo di Properzio merita di
essere esaminato più da vicino. L’intenzione di Properzio all’inizio di
questa elegia è di opporre (c un luogo comune dell’epoca) l’umiltà delle
origini all’opulenza della Roma d’Ottaviano. Dopo qualche verso che
introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati in tre
parti ineguali, seguite da una conclusione: -- sul pendio dove si
elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo
focolare, immenso reame. La Curia, il cui splendore copre oggi
un'assemblea di toghe preteste, non conteneva che senatori vestiti di
pelle e dalle anime rustiche. Era la tromba che convoca, per i colloqui,
gli antichi cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro
senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna
scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a
cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al culto
ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che con
fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno oggi
giorno grazie a un cavallo mutilato. Vesta era povera e trovava il
suo piacere in asinelli coronati di Fiori. Delle vacche scarnite
portavano in processione degli oggetti senza valore. Dei
maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti crocicchi e il pastore,
al suono della cennamella, offre in sacrificio le interiora di una
pecora. Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle correggie villose:
è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci scatenati. Ancora
primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi terribili. Ci si batteva
nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo campo e stabilito
(pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del generale) da un
comandante con un berretto di pelle, LYGMON. E la ricchezza di TATIUS era
essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si formarono i T1TIES, i RAMNES e
i LU CERES, originari di Solonio; è da là che Romolo Lancia la sua quadriga di
cavalli Bianchi. Il percorso di questo sviluppo è ben chiaro. Cme una
favola verso la sua breve morale, tende verso l’ultimo distico che prima
di menzionare il «radunatore» Romolo, nell’apparato dei suoi
trionfi, enumera sotto i loro nomi le tre tribù riunite. Al verso 31,
hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che sono stati
precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione erudita,
Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del verso 30 e
i Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes,
conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati simmetricamente alla
menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto di comando di questa
società composita ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al verso 9, o insieme a lui in
frotres al verso 10. In altre parole, prima di mostrarli trasformati
(hinc) sotto Romolo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia
col presentare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza
ancora separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine. TRIBU
I: Le genti di Remo e di suo fratello. TRIBU II. L’etrusco Lucumone e –
TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega così come le feste dei versi 15-26,
appartenenti ai futuri Ramnes, siano quelle che la tradizione considera
anteriori al sinecismo e praticate già, nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma
non è tutto. Non è meno lampante che le tre successive presentazioni delle
future tribù siano caratterizzate secondo tre funzioni. Dal verso 9 («Remo») al
verso 26, Properzio non evoca che il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE
POLITICA (v. 9-14; semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora
il senato e l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di
solennità e di dèi stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a
febbraio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno
sfarzo). TRIBU II: Dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon») il poeta evoca le
forme primitive della GUERRA che rimangono elementari («un berretto
di pelle») anche col primo tecnico militare. TRIBU III: Nel
solo verso 30 (« Tatius ») Properzio evoca la forma puramente pastorale della
RICCHEZZA primitiva. La nettezza delle articolazioni del testo e,
in conseguenza, delle intenzioni classificatorie di Properzio, il
confronto nel distico 29-30 di Lucumo come generale e di Tazio come ricco
proprietario di armenti, mettono in risalto il fatto che, benché
concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di
epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente. TRIBU I: I
Ramnes, raggruppati intorno ai «fratelli», dediti soprattutto al governo
e al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio
e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori. Le
divisioni degli Ioni Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi
ateniesi erano stati inizialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo
nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono
molto chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni
o, come dice Plutarco, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma questi tipi sono
molto probabilmente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri o «guardiani»,
agricoltori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf. Platone, Timeo, 24 A).
Plutarco 0 Solone 23), per una falsa etimologia del nome ordinario
ricollegato ai sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia agricoltori e
pastori. È probabile che le tre classi della Repubblica ideale di
Platone - filosofi che governano, guerrieri che difendono e il terzo
stato che produce ricchezza - con ogni loro armonizzazione morale o
filosofica, così prossima talvolta alle speculazioni indiane, siano state
ispirate in parte dalle tradizioni ioniche, in parte da ciò che si sapeva
allora in GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei pitagorici
che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o preellenico.
10. La tripartizione sociale nel mondo antico A questi schemi
concordanti si è cercata invano una replica indipendente nella pratica o nelle
tradizioni delle società ugrofinniche o siberiane, presso i Cinesi o gli
Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo- tamia sumerica o accadica, o
nelle vaste zone continentali adiacenti agli Indoeuropei o penetrate da
essi. Ciò che salta agli occhi sono delle organizzazioni indifferenziate
di nomadi in cui ognuno è sia combattente che pastore; delle organizzazioni
teocratiche di sedentari in cui un re-sacerdote o un imperatore divino è
contrapposto ad una massa spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua
umiltà; oppure ancora delle società in cui lo stregone non è che uno
specialista fra tanti altri senza preminenza, malgrado il timore che la
sua competenza suscita. Niente di tutto questo ricorda né da vicino
né da lontano la struttura delle tre classi funzionali gerarchizzate e non vi
sono delle eccezioni. Quando un popolo non indoeuropeo del mondo
antico, ad esempio del Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa
struttura è perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato
vicino a lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti,
Hittiti, Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse
lungo diversi percorsi. E il caso ad esempio dell’Egitto «castale»
in cui i Greci del V secolo credevano di aver trovato il prototipo,
l’origine delle più vecchie classi funzionali ateniesi che sono state
menzionate poco fa. In realtà questa struttura si è formata sul Nilo grazie al
contatto con gli Indoeuropei, che apparendo in Asia Minore e in Siria
nella metà del secondo millennio prima della nostra èra, rivelarono agli
Egiziani il cavallo e tutti i suoi usi. Solamente dopo questa
data il vecchio impero dei Faraoni si riorganizza per poter sopravvivere,
formandosi ciò che non aveva mai avuto: un’armata permanente e una classe
militare. Il più antico testo «multifunzionale» del tipo di quello che
sarà conosciuto da Erodoto (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui
Thaneni si vanta di aver fatto un vasto censimento per conto dei suo Faraone
Thutmosis IV (J.H. Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth
Dynasty): «M uste ring ofthe whole land before his Majesty making
an in- spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs
and all thè craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small
cattle, by thè military scribe, beloved of his lord Thaneni »
Ora, Thutmosis IV (1415-1405) è giusto il primo Faraone che abbia
mai sposato una principessa arya dei Mitanni, la figlia di un re dal nome
caratteristico di Artatama. Sembra che la differenziazione di una classe
di guerrieri col suo statuto «morale» particolare, unito ad una sorta di
alleanza flessibile a una classe ugualmente differenziata di sacerdoti,
sia stata la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro la ragione
e il mezzo della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e cuneiformi
ci hanno trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle vecchie
civiltà questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi come
quei conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mondo comparvero ai
capi e ai popoli degli imperi che schiacciarono. Essi li
designavano con un nome - marianni - che in effetti gli Indoeuropei
usavano: i mdriya, incuiStig Wikander seppe riconosce- 26
re nel 1938 i membri dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo
studiato da Otto Hofler presso i Germani. 11. Teoria e
pratica La comparazione dei più antichi documenti indoiranici,
celtici, italici e greci, se da una parte permette di affermare che gli
Indoeuropei avevano una concezione della struttura sociale fondata sulla distinzione
e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni, dall’altra parte non può
insegnare grandi cose sulla forma concreta - o sulle diverse forme - in
cui si sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora generalizzare
ciò che è stato detto più sopra a proposito degli Arya vedici. È
possibile che la società sia stata interamente ed esausti vamen- te
ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la
distinzione avesse solamente portato a mettere in risalto qualche clan o
qualche famiglia «specializzata», depositaria nell’un caso dei segreti efficaci
del culto, nel secondo delle iniziazioni e delle tecniche guerriere e
nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie deH’allevamento, mentre il
grosso della società, indifferenziata o meno differenziata, si affidava
alla direzione degli uni o degli altri, secondo le necessità o le
occasioni. Si è infine liberi di immaginare moltissime forme
intermedie, ma queste non saranno che punti di vista dello spirito.
Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la sopravvivenza di
formule molto precise: così, nel Rgveda i «33 dèi» riassumono una società
divina concepita ad immagine della società aryae sono talvolta scomposti
in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari; oppure, a Roma, le 33
comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè 3 per 10) riassumono le 3
tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce- res e Titienses, completate
da 3 àuguri. 12. Le tre funzioni fondamentali Così, non
è il dettaglio autentico e storico dell’organizzazione sociale tripartita
degli Indoeuropei che interessa di più il comparatista, ma il principio
di classificazione, il tipo di ideologia che essa ha suscitato, realizzato o
formulato, e di cui non sembra essere più rimasta che un’espressione tra
tante altre. Diverse volte nell’esposizione che si è letta è stata
incontrata una parola importante: quella di funzione, di tre funzioni, e
bisogna così intendere certamente le tre attività fondamentali assicurate
da gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per il
sostentamento e la prosperità della collettività. Ma il dominio
delle «funzioni» non si limita a questa prospettiva sociale. Alla riflessione
filosofica degli Indoeuropei esse avevano già fornito - come sostantivi
astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi delle tre classi nella
riflessione filosofica degli Indiani vedici e posl-vedici - ciò che può
essere considerato, secondo il punto di vista, come un mezzo per
esplorare la realtà materiale e morale o come un mezzo per mettere ordine
nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla società.
L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali della
struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938, da E.
Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla
seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una
parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli uomini
tra di loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto, amministrazione),
e così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai suoi delegati in
conformità con la volontà o il favore divino e infine, più generalmente, la
scienza c l’intelligenza, allora inseparabili dalla meditazione e dalla
manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza fisica brutale
e l’impiego della forza, uso principalmente ma non unicamente guerriero.
È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza
funzione, che ricopre delle province numerose fra le quali intercorrono dei
legami evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben definito: fecondità
umana, animale e vegetale, ma, nello stesso tempo, nutrimento e
ricchezza, santità e pace (con le gioie c i vantaggi della pace) e anche
voluttà, bellezza c l’importante idea del «gran numero», applicata non
solo ai beni (abbondanza) ma anche agli uomini che compongono il corpo
sociale (massa). Non sono queste delle definizioni a priori ma insegnamenti
convergenti di molte applicazioni dell’ideologia tripartita.
Gli indologi hanno familiarità con questo uso straripante della
classificazione tripartita sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda,
nel suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del
pensiero cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di nozioni
solidali che antitetiche -1’India ha messo le tre classi della società, coi
loro principi, in rapporto con numerose triadi di nozioni preesistenti o create
per la circostanza. Queste armonie, queste correlazioni importanti per
l’azione simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta un senso molto
profondo, talvolta artificiale e altre volte puerile. Così, ad
esempio, le tre «funzioni» sono distributivamente connesse ai tre guna
(propriamente, «figli») o «qualità» - Bontà, Passione, Oscurità - delle
quali la filosofia sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili formano la
trama di tutto ciò che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori
dell’universo, le si vede non meno imperiosamente collegate ai diversi metri e
melodie dei Veda o ai diversi tipi di bestiame o a comandare
minuziosamente la scelta dei diversi tipi di legno con cui saranno fatte
le scodelle o i bastoni. Senza arrivare a questi eccessi di
sistematizzazione, la maggior parte degli altri popoli della famiglia
presentano aspetti di questo genere che, ritrovandosi molto simili su diverse
altre parti del globo, hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni,
agli Indoeuropei. Non si potrà presentare in questa sede che qualche
inventario. 13. Triadi di calamità f.triadi di delitti
Da circa vent’anni E. Benveniste ha individualo presso gli Iranici c gli
Indiani delle formule molto simili in cui un dio è pregalo di
allontanare, da una collettività o da un individuo, tre flagelli, ognuno
dei quali si riconnettc a una delle tre funzioni. Per esempio, in
una iscrizione di Pcrscpoli (Persep. d 3) Dario domanda ad Ahuramazdà di
proteggere il suo impero «r/a// ’esercito nemico, dal cattivo anno e
dall'inganno» (quest’ultima parola, drau- ga, nel vocabolario del Gran Re
designava sopralutto la ribellione politica, il misconoscimento dei suoi
diritti sovrani; ma si riferiva anche al peccalo maggiore delle religioni
iraniche, la menzogna). Parallelamente, al momento delle cerimonie vcdichc del
plenilunio c del novilunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule
che, diversamente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per
esempio Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo
nucleo comune: «Conservami dalla soggezione, conservami dal
cattivo sacrificio, conservami dal cattivo nutrimento». L’enunciato
indiano è parallelo a quello iranico, con la riserva che, al primo
livello, il re achemenide parla di inganno e il ritualista vedico di
sacrificio malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad evoluzioni
divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra più for- maliste -
delle religioni delle due società. Mi è stato possibile dimostrare
in seguito che i più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui usi
sono talvolta così sorprendentemente simili a quelli vedici, utilizzavano la
stessa classificazione tripartita delle maggiori calamità. La principale
compilazione giuridica dell’Irlanda, il Senchus Mór, comincia con questa
dichiarazione ( Ancient Laws oflreland, IV 1873, p. 12): Vi sono tre
tempi in cui si produce il deperimento del mondo: il periodo della morte
degli uomini (morte per epidemia o per carestia, precisa la glossa), la
produzione accresciuta di guerra e la dissoluzione dei contratti
verbali». I malanni sono così ripartiti fra le tre zone della salute o
del nutrimento, della forza violenta e del diritto. I Galli non
hanno inserito nei loro libri giuridici delle tali formulazioni astratte, ma un
testo che parrebbe essere la trasposizione romanzesca di un vecchio mito, il
Cyvranc Lludd a Llevelis è consacrato all’esposizione delle tre
«oppressioni» dell’isola di Bretagna e al modo in cui il re Lludd vi mise
fine. Queste calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sapere»
è tale che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione, fosse
anche a bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rapporti umani; 2)
ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due draghi, il drago
dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi» col primo,
cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono tali da
paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re accumula
in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di vivande», fosse
anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte seguente e porta via
tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta come le tre oppressioni si
sviluppino qui negli ambiti della vita intellettuale, dell’amministrazione
della forza e infine del nutrimento; in più, considerate in
30 base ai loro agenti e non in base alle vittime, esse
definiscono tre delitti: abuso di un sapere magico, aggressione violenta e
furto di beni. Sembra che il più antico diritto romano ugualmente
considerasse i delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen,
occentu- tio), violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e
in furto {furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla
tripartizione C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente
artificiale, prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta
tragico, una distinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in
«furto, violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila,
yor|TEÌa). Benveniste ha raffrontato la classificazione avestica dei medicamenti
( Vidèvdàt, VII, 44: medicine del coltello, delle piante e delle formule
d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del Riveda sui poteri medici
degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori di chi è cieco (male
misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e di chi ha una
frattura (violenza)». È lo stesso procedimento che nella III
Pythica di Pindaro il centauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire « le
dolorose malattie degli uomini» (versi 40-55: incantesimi, pozioni o
droghe, incisioni) ed è stato sospettato che dietro questi fatti
paralleli si celi l’esistenza di una «dottrina medica» tripartita
ereditata dagli Indoeuropei. Se i vecchi testi germanici non applicano questo
schema classificatorio ai malanni, ai delitti o ai rimedi, è vero che
l’utilizzano in altre circostanze: il Canto di Skirnir nell 'Edda è un
piccolo dramma in cui il servitore del dio Freyr costringe, malgrado la
sua volontà, la gigantessa Gerdr a cedere ai desideri amorosi del suo
maestro. Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il suo
amore con dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente,
minaccia di decapitarla (str.) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo
terzo tentativo non gli rimane che minacciarla con gli strumenti della sua magia,
bacchette ( gambantein ) c rune (str. Elogi tripartiti Quando un poeta
indiano vuole fare brevemente l’elogio totale di un re, passa in rassegna
le tre funzioni in tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il
re Dilàpa merita di essere chiamato padre dei suoi sudditi « perché assicura
loro buona condotta, li protegge e li nutre». Con delle formule
generalmente meno concise, l’epopea irlandese procede allo stesso modo. In un
bel lesto, il Paese dei Viventi, cioè l’altro mondo, la dimora dei morti
divenuti immortali, è caratterizzalo dall’assenza di morte in base ai tre
aspetti seguenti: «.non vi è né peccato né errore...] vi si mangiano
pasti eterni senza servizio; l'intesa regna senza lotte ».
L’originalità del paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto è
buono e facile, ma questa idea si analizza e si esprime nel pensiero
dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbondanza
alimentare); la seconda funzione, di tipo violento, considerata come un
male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale al massimo grado (J.
POKÒRNY, «Conio’s abcnteucrliche Fahrt» ZCP XVII, 1928, p. 195).
In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re Conchobar, u n
lesto del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi erano «pace e
tranquillità, saluti cordiali», «ghiande, grasso e prodotti del mare», «controllo,
diritto e buona regalità» (K. MEYER, «Milleil. aus irischen
Handschriflen» ZCP, III, 1901, p. 229): cioè il contrario della guerra,
della carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i
quali il re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo
impero. 16. Le tre funzioni e la «natura delle cose» Si
può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo naturali, così
troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile disposizione delle cose perché
il loro accumulo e la loro somiglianza provino un’origine comune c resistenza
di una dottrina caratteristica degli Indoeuropei. Una
riflessione anche elementare sulla condizione umana e sulle risorse della vita
collettiva non dovrebbe forse mettere in evidenza, in ogni tempo c in
ogni luogo, tre necessità, cioè una religione che garantisse
un’amministrazione, un diritto c una morale stabile, una forza
protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di produzione, di alimentazione
e di gioia? E quando l’uomo riflette sui pericoli che incontrac sulle vie
che si aprono alla sua azione, non è ancora a una qualche varietà di questo
schema che si riporta? Basta uscire dal mondo indoeuropeo, in cui queste
formule sono così numerose, per constatare che, malgrado il carattere
necessario e universale dei tre bisogni ai quali si riferiscono, esse non
hanno la generalità o la spontaneità chesi suppone: al pari della di visione
sociale corrispondente, non le si ritrova in alcun testo egizio, sumerico,
accadico, fenicio e biblico, né nella letteratura dei popoli siberiani, nè
presso i pensatori confuciani o taoisti così inventivi ed esperti di
classificazioni. La ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per
una civiltà, sentire vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una
cosa; portarli alla chiarezza della coscienza e riflettere su di essi, farne
una struttura intellettuale e uno schema di pensiero è tutta un’altra.
Nel mondo antico solo gli Indoeuropei hanno fatto questo cammino filosofico
e così si percepisce nelle speculazioni e nelle produzioni letterarie di tanti
popoli di questa famiglia, che la spiegazione più economica, come per la
divisione sociale propriamente detta, è ammettere che il percorso non è
stato fatto e rifatto indipendentemente in ogni provincia indoeuropea
dopo la dispersione, ma che è anteriore alla divisione ed è opera di pensatori
dei quali i brahmani, i druidi e i collegi sacerdotali romani sono in
parte i diretti eredi. Meccanismi giuridici triplici Una delle
applicazioni più interessanti ma più delicate è quella che in riferimento
alla concezione indoeuropea chiarifica presso i diversi popoli (India, Roma,
Lacedemoni) i quadri e le regole giuridiche. Lucien Gerschel, ricordando il
diritto romano, ha dimostrato che questo, così originale nei suoi
fondamenti e nel suo spirito, conserva nelle sue forme un gran numero di
procedure in tre varianti a effetti equivalenti (che si spiegano
solitamente, ma senza prove, come creazioni successive dell’ uso e del pretore)
che almeno qualcuna di queste sorprendenti «tripartita» si modella sul
sistema delle tre funzioni qui considerate. Citerò unodei migliori
esempi: un testamento può essere fatto con lo stesso valore sia
nell’assemblea strettamente religiosa dei Comitia Curiata, presieduti dal
gran pontefice; sia sul fronte di una battaglia davanti ai soldati; sia
tramite una vendita fittizia a un «emp- torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV,
27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1). Gerschel non pretende che sia
esistito a Roma un «diritto sacerdotale», un «diritto guerriero» e un «diritto
economico», o che i tre tipi di testamento abbiano avuto delle assisi
sociali o degli effetti differenti, non più dei tre tipi di affrancamento
o delle altre tricotomie giuridiche che si possono interpretare in questo
senso. Questo quadro così incredibilmente frequente, questa triade
di possibilità a effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che
si distribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che «i creatori
del diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della
vita collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto
volentieri tre processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti ciascuno
dal principio (religioso; attualmente o potenzialmente militare; economico) di
una delle tre funzioni ». 18. Le tre funzioni e la psicologia
La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I sistemi filosofici
indiani dosano nelle anime, come nella società, dei principi come la
legge morale, la passione, l’interesse economico (dharma, kCimu, artha) \
Platone attribuisce alle tre classi della sua Repubblica ideale -
filosofi governanti, guerrieri, produttori di ricchezze - delle formule
di virtù che distribuiscono e combinano la Saggezza, il Coraggio e la
Temperanza; in un’espressione apparentemente tradizionale e legala
all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la mitica regina Medb,
depositaria e donatrice della Sovranità, pone come triplice condizione a
chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di «essere senza gelosia,
senza paura, senza avarizia» (Tdin Bó Cualnge ed. Win- disch, 1905, pp.
6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi brillante- mente
interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo per eccellenza,
Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione di tre
principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale. Si
tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza antichissima; nei
trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9; Pdrask. G.
S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole concepire un bambino
maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin e a Indra
(quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le varianti) e a nessun
altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo seguente, alla lista arcaica
indo-iranica degli dèi che incarnano e patrocinano la prima, la terza e
la seconda funzione. Un’altra via di sviluppo per il pensiero
trifunzionale è stata quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali
quanto i loro tre principi sono stati legati figurativamente e solidalmente a
degli oggetti materiali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li
rappresentava. Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia
principalmente portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani
e un ventaglio di colori. Ci si ricordi della leggenda tramite cui
gli Sciti, secondo Erodoto, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro
caduti dal cielo - carro e giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o
arco) come arma guerriera, coppa cultuale - hanno dei valori nettamente
classificatori secondo le tre funzioni. Ora, questi oggetti
non erano solamente mitici: erano conservati lutti insieme dal re e ogni anno
venivano solennemente portati attraverso le terre scitiche. Anche la leggenda
irlandese attribuisce alla penultima razza che avrebbe occupato l’isola, e che
in realtà è costituita dagli antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé
Danann, «Le tribù della dea Dana»), un gruppo di oggetti talismani: il
«calderone di Dagda» che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso;
due armi terribili, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile
e la spada di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai
infine, sede della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati
doveva essere scelto come re (V. HULL«Thefourjewels oftheT.D.D» ZCP,
XVIII, 1930, pp. 73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano
allo stesso modo dei gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che
vedremo ben presto e che sono distribuiti secondo le tre funzioni.
20. Colori simbolici delle funzioni presso gli Indo-Iranici
Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità sono già
segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro)
gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola sanscrita
varna e alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq «screziato»,
russo pisat' «scrivere»), che con sfumature diverse designano il colore. Di
fallo è un insegnamento costante nell’India che brdhmunu, ksatriya,
vaisya e sùclru siano rispettivamente caratterizzati (e le spiegazioni non
mancano) dal bianco, il rosso, il giallo e il nero. Di certo che vi è
stata un’alterazione in seguilo alla creazione delle caste inferiori ed
eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di cui rimangono tracce nei
rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S. IV, 2, 6) e senza dubbio anche
uno nel Riveda («nero, bianco e rosso è il suo cammino » dice X, 20,9 di
Agni, il più triplice e trifunzionale degli dèi), sistema formato semplicemente
da tre colori senza il giallo e dove vi era il nero (o blu scuro) a
caratterizzare i vaisya, gli allevatori-agricoltori. In effetti
anche l’Iran ha mantenuto questa ripartizione: una tradizione
«mazdeo-zurvanita» che è stata progressivamente stabilita e interpretata
da H. S. Nybcrg (1929), G. Widengren, S. Wikan- der (1938) c R. C.
Zaehner (1938, 1955) descrive nella cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti
come bianca, quella dei guerrieri come rossa o variopinta e quella degli
agricoltori-allevatori come blu scura. Altri Indoeuropei praticavano lo
stesso simbolismo. V. Basanoff ha intelligentemente i nterpretato in questo
senso un rituale hiltita di evocatio in cui i diversi dèi della città
nemica assediata sono pregali di lasciarla e di giungere presso gli
assedianti attraverso tre cammini - il che suppone tre diverse categorie di dèi
- avvolti uno in una stoffa bianca, il secondo in una stoffa rossa e il terzo
in una stoffa blu ( Keilischrifturk aus Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK,
Deralte Orient, XXV, 2,1925, pp. 22-23). 21. Colori simbolici
delle funzioni presso Celti e Romani Tra i Celti della Gallia e
dellTrlanda il bianco è il colore dei dm- idi e il rosso, nell’epopea
irlandese, è quello dei guerrieri; a Roma un Albogalerus caratterizza il
più sacerdote tra i sacerdoti, il flamen diu- lis, mentre il paludumentum
militare è rosso come il drappo sulla testa del generale o come la trabea
dei cavalieri o dei sacerdoti armati che sono i Salii. Un
sistema completo a tre termini del simbolismo coloralo s’incontra due
volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è quello dei colori
delle fazioni del circo che assunsero grande importanza sotto l’impero e nella
nuova Roma del Bosforo, ma che sono sicuramente anteriori all’impero c che gli
studiosi di antichità romane ricollegano del resto alle origini stesse di
Romolo. 36 Le speculazioni esplicative di
questi antichisti sono molteplici e intrise di pseudo-filosol'ia e di
astrologia, ma una di queste, conservata da Giovanni il Lido, De mens. IV, 30,
si riferisce a delle realtà romane e afferma che questi colori, che sono
quattro, in epoca storica erano inizialmente tre ( albati, russati,
viricles) in rapporto non solo con le divinità Jupiler, Mars e Venus
(quest’ultima solo apparentemente sostituita a Flora) i cui valori funzionali
sono evidenti (sovranità, guerra, fecondità), ma anche con le tre tribù
primitive dei Ramnes, Lucercs e Titienses. A proposito di
questi ultimi si è ricordalo più sopra che erano, nella leggenda delle
origini, sia componenti etnici (Latini, Etruschi, Sabini) che funzionali
(derivati da uomini sacri c governanti, da guerrieri professionisti e da ricchi
pastori) e che in un altro passaggio {De magistrut. 1, 47) Giovanni il
Lido interpreta come paralleli alle tribù funzionali degli Egiziani e
degli antichi Ateniesi. Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran
numero di esempi antichi e moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di
questa triade di colori: quasi lutti provenivano dall’area di espansione
indoeuropea o dai suoi confini, o dalle regioni che furono esposte
all'influenza degli Indoeuropei e alcuni hanno chiaramente un valore
classificatorio del tipo qui considerato. 22. Le scelti- dei
tigli di Feridùn Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle
narrazioni molto diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone
qualche esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui ultimogenito
raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro simboli
delle tre Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradizione
dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V Avesta chiama
©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani Feridùn. Eccola
nella traduzione data da M. Molé a un passaggio dell 'Àyàtkar i
JàmcispTk: «Da Frètòn nacquero tre figli; Salm, Tòz ed Eric erano i
loro nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire ad ognuno di essi: «Io
sto per dividere il mondo tra di voi, che ciascuno di voi mi dica ciò che
gli sembra bello affinché io glielo doni». Salm chiese grandi
ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei Kavi (cioè il
segno miracoloso che distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la
religione. Frètón disse: «Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha
chiesto». Ed egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il
deserto a Toz e l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric».
Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la stessa divisione
geografica con un altro criterio, anche se col medesimo senso. Esposti a
titolo di prova a uno stesso pericolo (un dragone minaccioso), ognuno dei tre
fratelli si rivela in accordo con la propria natura e col proprio
«livello funzionale»: Salm fugge, Tòz si precipita ciecamente all’assalto e
Iraj evita il pericolo senza combattere, con l’intelligenza e il nobile
sentimento che ha della dignità regale della sua famiglia.
23. La scelta del pastore Paride È un tema simile, presente
fra i Greci d’Asia Minore e forse influenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che
ha fornito la materia del «giudizio di Paride», piacevole racconto dalle
pesanti conseguenze poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua
ricchezza e il suo valore, Troia finisca per soccombere ai Greci.
Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di sé tre dee
(che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un giudizio eminente;
secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul, V. 1300- 1307) ognuna
si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della propria attività:
Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena con l’elmo sul
capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la «potenza del
desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide, Troiane, v. 925-931) ogni dea
tenta di accattivarsi il giudizio promettendo un dono: Era promette la
sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vittoria e Afrodite la donna più
bella. Paride sceglie male e assegna il premio ad Afrodite, scelta
che causerà ben presto il rapimento dell’incomparabile Elena e,
malgrado dieci anni di combattimento, la fine di Troia, distrutta da una
coalizione di uomini e divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le
meno accanite. Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi
moderni. Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed
austriache raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla
leggenda greca, che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma generalmente
«bene») fra tre offerte nettamente funzionali; oppure tre fratelli che si
spartiscono tre doni funzionali dei quali solo uno, quello della «prima
funzione» assicura a chi lo possiede un destino pienamente «buono». Ecco per
esempio la forma originale rigorosamente ricostruita da Gerschel, delle
leggende tedesche sull’origine dello «Jodeln» (Johlen). «Res,
il vaccaro di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre esseri sovrannaturali
in procinto di fare il formaggio: a un certo punto il latticello è versato in
tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo secchio è verde e nel terzo è
bianco. Res apprende che deve scegliere un secchio e berne il latticello;
allora uno dei vaccari fantasmi aggiunge: «Se scegli il rosso sarai talmente
forte che nessuno potrà combattere con te». Il secondo vaccaro disse a
sua volta: «Se tu bevi il latticello di colore verde possiederai molto
oro e sarai ricchissimo». Il terzo infine spiegò: «Bevi il latticello
bianco e tu sarai Jodeln meravigliosamente». Res rifiutò i due primi doni e si
decise per il latticello bianco, diventando un perfetto Jodler ».
Gerschel rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse varianti un
effetto magico (tutte le bestie vengono incontro allo jodler e.
l'accompagnano; tavole e panche danzano nella sua capanna: le vacche si alzano
sulle loro zampe posteriori e danzano; la vacca più selvatica si addolcisce e
si lascia mungere facilmente, etc.). Talismani di Roma e di
Cartagine Verso la fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio
organizzato su un tale tipo di schema la garanzia della sua vittoria
finale: una testa di bue, poi una testa di cavallo (trovate dagli
scavatori di Di- done sul sito in cui si ergeva, con Cartagine, il tempio
della «sua» Giunone) avevano, a detta di loro, garantito alla città africana l’
opulenza e la gloria militare. Ma in virtù della testa d’uomo che gli
spalatori di Tarquinio avevano un tempo trovato sul Campidoglio, nel sito
del futuro tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più alta
promessa, quella della sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora
questa sorprendente interpretazione, ha ricordato che presso gli Indiani
vedici uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori delle
vittime ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme alle
teste delle due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno in
apparenza, essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare
l’importante altare del fuoco, in mancanza del santuario permanente che
non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico
la tripartizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema
di grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in
India, in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio
o di un uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III
capitolo) un personaggio della «seconda funzione», un guerriero.
Indra, il dio guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei
Brahmano e nelle epopee la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è lunga e
varia. Ma il quinto canto del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo schema
delle tre funzioni: Indra uccide prima il mostro Tricefalo, morte
necessaria poiché il Tricefalo c un flagello che minaccia il mondo, ma tuttavia
morte sacrilega poiché il Tricefalo ha il rango di brahmano e non vi è crimine
peggiore del brahmanicidio e di conseguenza Indra perde la sua maestà, la
sua forza spirituale, tejas (1-2). Poi, essendo stato generato il mostro Vrtra
per vendicare il Tricefalo, Indra s’impaurisce e contravvenendo alla
vocazione propria del guerriero conclude con Vrtra un patto infido che
viola, sostituendo alla forza l’inganno; di conseguenza perde il suo
vigore fisico, baia. Infine, tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma
del marito, adesca una donna onesta in adulterio e perde così la sua
bellezza, rùpa (12-13). L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è
l’unico a rintracciarne la storia completa, ma lo fa secondo fonti
perdute in lingua scandinava - conosce un eroe di tipo molto particolare,
Starkadr (Starcatherus), guerriero modello in ogni punto, servitore
fedele e devoto ai re che 1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli
è infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita
prolungata sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in
ognuna di esse egli commetta una penalità. Ora, il quadro di queste
tre penalità si distribuisce chiaramente secondo le tre funzioni. Essendo
al servizio di un re norvegese l’eroe aiuta criminalmente il dio Othinus
(Ódinn) a uccidere il suo signore in un sacrifìcio umano. Trovandosi
poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosamente dal campo di battaglia
dopo la morte del suo signore abbandonandosi, in quest’unica occasione delle
sue tre vite, alla paura panica (Vili, V). Servendo infine un re danese,
assassina il suo signore procurandosi per mediazione centoventi libbre d’oro,
cedendo eccezionalmente per qualche ora all’appetito di questa ricchezza di cui
fece altrove, in atti e discorsi, professione di disprezzo.
Essendosi così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che
cercare la morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili,
Vili). Il carattere e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti
quelle di Eracle. Nelle esposizioni sistematiche che sono fatte -
relativamente tarde ma non inventate - la vita intera dell’eroe greco
(concepito da Zeus e Alcmene durante tre notti) è scandita da tre
mancanze che hanno un effetto grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di
questecomporta il ricorso all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1)
Euristeo re di Argo comanda ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il
diritto in virtù di una promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di
Era: Eracle commette tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito
formale di Zeus e l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di
disubbidienza agli dèi, Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso
dalla demenza ed uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna
penosamente alla ragione, si sottomette e compie così le Dodici Fatiche,
aggravate da altre fatiche (cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito,
Eracle attira suo figlio Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello
ma con l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il
carattere fortemente antieroico di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una
malattia psichica da cui non si libera: viene così informato dall’oracolo
che deve vendersi come schiavo e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo
di questa vendetta (cap. 31). 3) Benché infine legittimamente sposato
aDeianira, Eracle cerca di sposare un’altra principessa, poi ne
rapisce una terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il
terribile disprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di Nesso e i
terribili e irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può liberarsi, dietro
un terzo ordine di Apollo, che con la propria apoteosi, col rogo
(cap. 37-38). Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli dèi;
morte vile e perfida di un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale e
oblio della propria donna: i tre errori fatali di questa gloriosa carriera si
distribuiscono sulle tre zone funzionali esattamente come i tre peccali
di Indra e con la stessa specificazione (concupiscenza sessuale) della
terza, alterando l’essere stesso dell’eroe. Ma queste alterazioni,
progressive e cumulative nel caso di Indra, sono invece successive nel
caso di Eracle: le prime due possono essere riparate mentre la terza
trascina alla morte. In una tradizione avestica, senza dubbio
ripensala e ri-orientata dallo zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo,
Yima, è punito per un unico grande peccalo (menzogna o, più lardi,
orgoglio c rivolta contro Dio e usurpazione degli onori divini) e viene
privato in tre tempi dello x' arvnah, di quel segno visibile e miracoloso
della sovranità che Ahu- ra Mazda pone sul capo di coloro destinati ad
essere re. I tre terzi di questo x v arvnah successivamente sfuggono per
collocarsi nei tre personaggi corrispondenti ai tre tipi sociali dell’
agricoltore-guaritore, del guerriero e d c\V intelligente ministro di un
sovrano (Dènkart, VII, 1, 25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl
XIX, 34-38). 26. Il problema del re Questo rapido
excursus è sufficiente per mostrare le direzioni e i diversi ambili in
cui l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha utilizzato la struttura
tripartita; ancora una volta dobbiamo ora volgerci, come per le altre
applicazioni di questa struttura, verso i popoli non indoeuropei del
mondo antico per ricercare se intorno a un eroe si è prodotto un tema
epico o leggendario, la messa in scena di una lezione morale o politica,
la giustificazione colorita immaginifica di una pratica o di uno stato di
fatto. Al momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da
Gilga- mesh a Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi
della Cina, dalla saggezza araba agli apologhi confuciani, nessun
personaggio storico o mitico ha rivestito in alcun modo l’uniforme
trifunzionale in cui si trovano al contrario molte figure degli Indoeuropei. È
dunque probabile che questa divisa sia solo indoeuropea e che solo in
questa vasta partedel mondo, e prima della loro dislocazione, gli Indoeuropei
abbiano intellettualmente scandagliato, meditato e applicato all’analisi
e all’interpretazione della loro esperienza, e infine utilizzato nei quadri
della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità fondamentali
e solidali che gli altri popoli si accontentavano di soddisfare.
Terminando quest’esposizione molto generale vorrei sottolineare ancora
che il riconoscimento di questo fatto così importante non ci fornisce il
mezzo per rappresentare lo stato sociale effetti voo le istituzioni (senza
dubbio variabili da provincia a provincia) degli «Indoeuropei comuni».
Noi non possediamo che un principio, uno dei princìpi e dei quadri
essenziali. Una delle questioni più oscure rimane ad esempio il rapporto
fra le tre funzioni e il «re», del quale ci è assicurala l'esistenza antichissima
nella parte senza dubbio più conservatrice degli Indoeuropei, cioè presso gli
indiani vedici (/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-).
Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata
una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così qualche fluttuazione nella
rappresentazione e definizione delle tre funzioni c notoriamente della prima: o
il re è superiore, o per lo meno esterno alla struttura trifunzionale, e allora
la prima funzione è centrala sulla pura amministrazione del sacro, sul
sacerdote piuttosto che sul potere, sul sovrano e i suoi ministri; oppure
il re (re-sacerdote più che governatore) è al contrario il più eminente
rappresentante di queste funzioni. Oppure si presenta una
mescolanza variabile di clementi presi dalle tre funzioni e in special
modo dalla seconda, dalla funzione e dalla classe guerriera da cui solitamente
proviene: il nome differenziale dei guerrieri indiani, ksutriyu, non ha
forse per sinonimo quello di ràjanya, derivato dalla parola ràjanl
Queste difficoltà, insieme ad altre, potranno essere meglio formulale, se
non risolte, quando avremo indirizzato lo studio su ciò che fu l’armatura
più solida del pensiero di questa società arcaiche: il sistema divino, la
teologia e i suoi prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in thè age of thè Rig
Veda?», Bull, of thè Decenti College Research Institute, II, pp. 34-36. Per brahman vedi L. RENOU, «Sur la nolion de bràhman», JA. Questa
interpretazione, facile da conciliare con i fatti iranici segnalali da
W.B. HENNTNG,' «Brahman», TPS, 1944, pp. 108-118, rende caduco il senso
ammesso nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il «Brahman» di P. THIE- ME,
ZDMG, 102, 1952, non ha fatto avanzare l’analisi e non altera il
risultato dello studio di Renou. Circa i rapporti del brahman e del
flamen, vedi la mia discussione con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in
RHR, CXXXVIII, 1950, pp. 255-258 eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò
prossimamente la questione di questi rapporti. Come xsaQra in avestico,
ksatrd è ambiguo in vedico e appartiene per certi impieghi al vocabolario
del «primo livello»; ma la concordanza dell’uso classificatorio del
sanscrito ksatriya per designare l’uomo del secondo livello, di X5a0ra
come nome dell’arcangelo sostituito nello zoroastrismo a Indra, dio del
secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e infine di /Exscert-ieg come nome
della famiglia degli uomini differenzialmente “forti” nell’epopea degli
Osseli (vedi sotto, 4), garantisce che fin dai tempi indo-iranici questo
termine fosse una designazione tecnica dell’essenza del secondo
livello. § 2. DUMÉZIL, «La préhistoire
indo-iranienne des castes», JA, CCXVI, 1930, pp. 109-130. B ENVENISTE,
«Les classes sociales dans la tradilion ave- stique», JA, CCXXI, 1932,
pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran», Pubi, ile la Soc. cles
Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions in- do-iraniennes
su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550; H.S. NYBERG, Die
Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL, JMQ, pp. 41-68 (=
JMQ it. pp. 24-45). § 3. L’interpretazione è stata
progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al § 2,
partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le premier homme... I, 1918, pp.
137-140. § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle tradizioni
degli Osseti vedi il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il risultato
delle grandi inchieste degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije Nartskije
Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in osseto: Narty kailcliitce ibid. 1946). Il
testo citalo di Turganov è nell’articolo «Klo takie Narty?»,/zv. Oset.
histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p. 373. § 5.
Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco (1949), pp. 15-19 e
BGDSL, 78, 1956, p. 175-178. § 6. JMQ, pp. 110-123 (=JMQ il. pp.
77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra, T.G.E. POWELL ha ripreso la
mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a Stage in thè Hnquiry», J. ofthe R.
Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79: « Of
greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f
society among thepeoples concerned [Indiani, Italici, Celti ],providing in
thehighest rank a class oflearned and sacred men, in tlie second
warriors, and in thè lo- west thè ordinary people » etc. Circa il
nome di aire apparentato ad aiya, io credo che bisogna rinunciare
all’etimologia che accosta il nome dell’eroe irlandese Eremon al dio
indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in conseguenza sopprimere l’ultimo
capitolo del mio Troisième Souverain, 1949. § 7-8. Questa analisi è
stata fatta progressivamente in JMQ, pp. 129-1 54 (= JMQ it., pp.
90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp. 230-263); JMQ IV, pp. I 13-134. In
parte qui riproduco il riassuntode L'heritage... pp. 127-130 e 190-209.
Gli Umbri distinguevano nella società i rappresentanti delle tre funzioni: «Ner
- et uiro - dans les sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp.
183-189. § 8. Delle obiezioni a questa analisi sono state
lungamente esaminate in NR, cap. II (= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in
L’heritage... pp. 196-201 e 229-23 1. Ho anche fatto notare che se Ranmes
è utilizzato - «superbum Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen.,
IX. 327) è perdesignare un re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe
essere all’origine del nome della gens Lucretia, una delle più militari
delle leggende dei primi tempi della Repubblica (e proprietaria del cognome
Tricipitinus, che senza dubbio allude a un mito del Tricefalo); che il
radicale di Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir., Ili, 1930, pp. 75-80) si
trova in altre parole in rapporti diversi ma convergenti con la
fecondità, l’amore, la voluttà: questo conferma l’orientamento differenziale di
ognuna delle tribù verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato
delle allusioni letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti,
come componenti di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ
IV, pp. 121-136; REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici
e quello di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità
della fusione dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a
questa ma differente, vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ,
pp. 252-253 (=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi doriche sono di un
altro tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ it.). Un recente
studio di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults, myths, oracles
andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta delle difficoltà
che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente proposto di riconoscere la
tripartizione sociale indoeuropea nei testi micenei: TPS, 1954, pp.
18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture, Oxford 1954,
pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica di Platone, vedi JMQ, pp.
257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più antiche tradizioni degli
Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale quadripartita della società
(sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), la città ideale di
Platone non potrebbe forse essere, nel senso più stretto, una
reminiscenza indoeuropea? Essa è costituita dalla concatenazione armoniosa di
tre funzioni, tò (pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ
XpimOtTlCTTUCÓV «CUStO- dum genus, uuxiliarii, questuarti», come traduce
Marsilio Ficino, cioè i filosofi che governano, i guerrieri che combattono e il
terzo-stato, agricoltori e artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La
solidarietà dei primi due gruppi al di sopra del terzo è fortemente
marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce
conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia, evita la confusione,
7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita politica, è
assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una «formula di
virtù» particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov;
alla temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i
«guardiani» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare, per quel
po ’ che li si è praticati, i trattati politico-religiosi dell’India:
stessa definizione dei tre stati sociali; stessa solidarietà dei primi
due, ubhe vlrye; stesso anatema contro la confusione, varnanàm samkaram,-
stessa esortazione ad attenersi al modo di azione a cui si appartiene, stessa
distribuzione dei doveri e delle virtù dello stato. I legislatori indiani
e la Repubblica si fanno eco: none forse perché essi recitano la medesima
canzone ancestrale?... Che si pensi a tutte le vie per le quali questa
«filosofia indoeuropea» tripartita ha potuto discendere fino a Platone: non
solo le tradizioni sulle origini degli Ioni, ma i contatti molteplici con
quel conservatore di dottrine, non ariane, ma anche ariane, che fu
l'impero degli Ac he me nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti della scienza dei
sacerdoti traci e frigi si sono depositati e in cui non mancavano le
triadi; il pitagorismo, su cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono,
a non trascurare le componenti «iperboree»; infine il folklore...» Cf.
qui sotto § 18, per le applicazioni psicologiche della divisione
tripartita nell’India e in Platone. § 10. Cf. i riferimenti
al § 5. Sui marianni (egiziano ma-ra-ya-na\ cuneiforme mar-ya-an-nu ; forse
come l’ha proposto Albrighl, dall’accusativo plurale arya mdrycin + la
terminazione hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN, «New light on thè
Maryannu as chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung, 1951, pp.
308-324. I libri fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische
Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confrontare con
O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una delle grosse
differenze tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germani consiste nel
fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre il secondo a
Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della «funzione guerriera» presso
i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92, n. 1 e più specificata- mente,
J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II, 1957, §§ 405-412. § 11.
Un’interpretazione delle corrispondenze del tipo «33» fra Roma e l’India
vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (= JMQ it., pp. 389-405),
L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono ripartiti frai tre piani
del mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE, pp. 7-9) essi stessi in
rapporto con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ it. pp. 42-43 ). Il
carattere indo-iranico dei «33 dèi» è garantito dalla concezione avestica
dei «33 ratu» (spiriti protettori o prototipi delle diverse specie di esseri):
JMQIV, pp. 158-159(=JMQ it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S.
Wikander. § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur
les classes socia - les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE
ha per la prima volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in
cui il fatto era ben conosciuto, che l’ideologia tripartita supera largamente
l’organizzazione sociale che finalmente non appare più se non come
un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro articolo,
per riassumere l’insegnamento di questo («Symbolisme social dans les
cultes gréco-italiques» RHR, CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione della
societe'i in tre classi, sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un
principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena coscienza e che presentava ai
loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto naturale. Questa
classificazione regge così profondamente l’universo indo-iranico che il
suo dominio reale supera largamente le enunciazioni esplìcite degli inni
e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529 e segg.] che
varie rappresentazioni sono state con formate e che sono fuori dalla sfera
propria del sociale, al punto che ogni de finizione di una totalità concettuale
tende inconsciamente a riflettere il quadro tripartito che organizza la
società degli uomini. Da parte sua, G. Dumézil, in una serie di brillanti studi
ha riportato sino alla comunità indoeuropea l’origine di questa classificazione,
scoprendola nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e
principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella religione
romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto alla tripartizione
sociale sono esaminate in «Les métiers et les classes fonclionnelles chez
divers peuples indoeuropéens» che sarà pubblicato quest’anno in Anna-
les. Economies, Sociétés, Civilisations. § 13.
BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les classes sociales», JA CCXXX,
1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de calamités et triades de délits à
valeur trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens», Ltito- mus,
XIV, 1955, pp. 173-185. § 14. BENVENISTE, «La doctrine médical des
Indo-Européens», RHR, CXXX, 1945, pp. 5-12; Dumézil, art. cit. al
paragrafo precedente, p. 184, n.2. § 15. JMQ, pp. 114-115 (= JMQ
it., p. 80) Les trois fonctions et le droit romain selon L. Gerschel»,
frammenti di una memoria inedita di L. G., pubblicata in appendice a JMQ
IV, pp. 170-176.
§ 18. Per Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171
-172) «Dopo aver scoperto la formula tripartita della società,
Platone si volge sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo
ritrova gli stessi elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni
di armonia comandano le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista
della giustizia, non differisce in niente dallo Stato giusto; ha in sé
l'equivalente dei saggi, dei guerrieri, degli uomini ricchi: questi sono i
principi della conoscenza, della flussione e dell ’appetito, xò
à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che effli subordina in
modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i due primi dominino
insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte più
considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze; poiché
apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi spirituali
che convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso modo
l’India, con l’instabilità delle rappresentazioni e delle formulazioni
che le è propria, compone l’anima o meglio l'involucro dell’anima, di tre
guna al pari della società e dell'universo: queste qualità, che furono
inizialmente luce, crepuscolo e tenebra, sattva, rajas e tamas, sia perla loro
presenza isolata che per la loro combinazione, costituiscono gli
individui e lo Stato: talvolta il senso della legge morale, della
passione e dell’interesse, dharma, kama e artha, si uniscono in una
triade equivalente a quella dei guna e il loro equilibrio lodevole o
biasimevole definisce i tipi umani; talvolta, seguendo uno schema
prettamente indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o l’ignoranza
fonte di errori, che si disputano il nostro effimero edificio e questa semplice
enumerazione disegna una terapeutica...» Per l’Irlanda e la regina Medb
vedi JMQ, pp. 115 -116 (= JMQ it., pp. 80-82); è la stessa Medb che commenta
chiaramente la sua seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valoroso
in guerra e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega
in questi termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono
mai stata senza un uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle
costanti competizioni intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e
conferisce. Nella lontana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul.
Hon., espone magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o
delle tre anime) c ritrova, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di
Medb (ma col «timore» al primo livello: si metuis, sipraua cupis, si
duceris ira; seruitiipaliere iugum. Per «Zoroastro tripartito» vedi K. Barr,
«Irans profet som xéXeioq avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich, 1952,
pp. 26-36. § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi JMQ,
cap. VII (sopprimendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici (la Vacca
magica per il dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai pcrlndra, ilearro
a tre ruote che serve agli Aévin per portare la loro benevolenza al mondo: p.
es. RV, I, 161, 6) e scandinavi (P anello magico per Odinn, il martello
per Pórr, il cinghiale dalle setole d’oro per Freyr) vedi Tarpeia, IV
(«Mamurius Veturius»), pp. 205-246. § 20. Nei rituali vedici
vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero ai vaiéya: per
costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo diversamente colorato, bianco
per un brahmano, rosso per uno ksatrya e per un vaiéya, giallo secondo
certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8) e nero secondo altri (
Gobhila G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per la tradizione iranica
vedi in ultimo luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp. 118-125 (testo del Grande
Bundahisn c del Denkart, pp. 321-336 e 374-378). Per il rituale hittita
vedi BasaNOFF, Euocatio, DUMÉZIL, Rituels cap. Ili («Albati, russati,
virides») e IV («Ve- xillum caeruleum»); J. DE VRIES, «Rood, wit, zwart»,
Volkskimde, II, 1942, pp. 1-10. § 22. MOLE, «Le partage du monde dans la tradition des Iraniens», JA,
CCXL, 1952, pp. 456-458. § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans
quelques traditions grecques» Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L.
Febvre ), I, 1954, pp. 25-32, dove sono studiate in questo senso il
«Kroisos-Logos» di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e del
Sileno; L. GERSCHEL, «Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de
légendes germaniques», RHR, CL, 1956, pp. 55-92, in cui sono
esaminati due tipi imparentati di leggende, una che comporta l’opzione proposta
a un individuo fra tre «offerte funzionali» (es. l’origine di «Jodeln»
citata nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si spartiscono
tre doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del
dono della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT
D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon
esempio). GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition
fonctionnelle dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77. L’estrema
antichità e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e pratiche
augurali di Roma (la parola augur è indoeuropea) sono state stabilite in
diversi articoli: «L’inscription archaique du Forum et Cicéron, De
divin., Il, 36», RSR, XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951, pp. 17-29, prolungata da «Le iuges auspicium et les
incongruités du taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953, pp. 249-266;
Rituels..., cap. II («Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè- res
regiones caeli de Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M.
Niedermamì), 1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria indoeuropea,
vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp. 126-151.
§ 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo ancora
L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Febvre), II,
1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste alle
ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo sacerdotale
rivestito delle sue insegne sacre e con gli strumenti di culto, ma cede
alla terza, a quella di tutte le donne di Roma che portano i loro bambini
- la «parte germinativa» di Roma - condotte dalla sua propria madre e da
sua moglie. § 26. Sulla diversità delle posizioni del re in
rapporto alle tre funzioni, vedi la mia comunicazione al Vili Congresso
Internazionale di Storia delle Religioni (Roma 1956), «Le rex et les
flamines maiores», riassunta negli Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul re
germanico nella prospettiva trifunzionale vedi J. DE VRIES, «Das Kònigtum
bei den Germanen», Saeculum, VII, 1956, pp. 289-309.
49 Capitolo secondo Le teologie
tripartite 1. Espressione teologica dell’ideologia delle tre
funzioni Le teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono
essenzialmente degli accumuli incoerenti di dèi stratificati dai flussi e
riflussi fortuiti della storia. In ogni luogo su cui siamo
sufficientemente informati è facile riconoscere un gruppo centrale di divinità
solidali che si definiscono le une con le altre e che si spartiscono le
province del sacro, secondo il piano spiegato nel capitolo precedente. Questi
gruppi sono stati per lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati
o mal compresi. Il loro riconoscimento - e notoriamente
quello del gruppo italico e mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma
soprattutto a partire dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei
nostri studi; all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli,
talvolta penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo
specialista dei diversi ambiti. 2. Gli dèi caratteristici
delle tre funzioni negli inni e nei RITUALI VEDICI I
sacerdoti dell’India vedica, in un certo numero di circostanze rituali
importanti, associano (per delle invocazioni, delle offerte o delle
enumerazioni classificatorie) i due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna,
il dio guerriero per eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi sempre
designati al duale con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin, guaritori,
datori di discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al secondo livello,
evidentemente per analogia col raggruppamento binario del primo e terzo
livello, Indra compare associato a un altro dio, spesso variabile (Vàyu,
Agni, Surya, Visnu). Abbiamo già visto (I § 18) questo insieme divino
(Mitra-Varuna, i due ASvin, Indra con Agni o Sùrya), invocati per ottenere
la formazione di un feto maschio, obiettivo più importante in questi tempi
arcaici che non oggi. L’ordine di numerazione mette gli ASvin al
secondo posto, prima di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un
avvenimento che è propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione
differente dell’ordine che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento
costituisce la lista dei principali «dèi in coppia» invocali al momento
culminante della spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico);
sono Indra-Vàyu, Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV,
1, 3-5) ed è lui che comanda il piano di un certo numero di inni del Riveda
ispirati da questo rituale. Il contesto di questi inni è sovente
istruttivo, garantisce e illustra il valore funzionale di ogni livello divino:
per esempio in I, 139 Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza,
vicino a loro c nella stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine
tecnico che designa il battaglione dei giovani guerrieri divini: la
strofa di Mitra-Varuna (2) è riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè
dell’Ordine cosmico e morale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece
presentati come i signori delle due varietà di «vitalità», srlyah e
prksah. Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono
qualificati come nani, «Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8)
è detto che «con l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto
un’elevata efficienza »; quanto agli Asvin, « donano gioia a molti» (3,
slr. 1). 3. Lis ti-: ascendenti e discenden ti Più
spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente è rispettato.
Ecco inizialmente due casi molto «puri» in cui Indra è solo al suo
livello. 52 Nel rituale arcaico e minuzioso
d’erezione dell’importante altare del fuoco, al momento in cui si tracciano i
sacri solchi che devono limitare l’area, viene fatta un’invocazione alla vacca
mitica, Kàmadhuk («quella che quando la si munge dona ciò che si
desidera»). L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda,
nel senso discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori
funzionali: «Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a
Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra),
alle creature, alle piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12). In una
tale numerazione ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed
eventualmente degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non
possono patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che corrispondono
rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre nature. In un
sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli stessi dèi sono
invocati nell’ordine ascendente con un complimento collettivo ed esauriente
(Taittir. Sarnh., II, 3, 10, 1 b): «tu sei il soffio degli dèi Asvin...
tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio di Mitra-Varuna... tusei il
soffio di Tutti gli Dèi!». Con Agni associato ad Indra, nell’ordine
discendente, si osserva la stessa sequenza all’inizio di un lesto speculativo
molto interessante ( RV, X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante
nell’ordine delle strofe): è il famoso inno panteista, messo nella bocca
di un personaggio che è senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si
presenta come il supporto e l’essenza comune di tutto ciò che
esiste. La prima strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu,
con gli Àditya e con Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mitra-Varuna;
sono io che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due Asvin!». È degno
di nota che nelle strofe seguenti, analizzando la propria polivalenza o, come
ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in cui «glidèi l’hanno
introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in risalto, come parti della
sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6 =AV str. 4, 3, 5) il
nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli dèi e dagli uomini»
e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh- man, rsi), infine l’arco
«la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c il combattimento.
È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale (si è parlato
in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema utilizza nelle sue
espressioni il più antico sistema concettuale degli Arya: con la sua
esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la sequenza
Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin riunisce i patroni e le
espressioni teologiche delle tre funzioni. Gli dei arya dei Mitanni
Talvolta leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso
possibile comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in diversi testi
dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a un documento
molto importante. È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo
parlante sia il futuro «indiano-vedico», che un dialetto molto vicino a
quelli che si possono chiamare «para-indiani», invece di emigrare verso
Est, verso l’Indo e il Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino
alla Palestina, incorrendo in un destino brillante ma effimero e lasciando sue
tracce in molti scritti cuneiformi. Mentrei loro fratelli
orientali, autori degli inni vedici, sfuggono alla storia, questi,
circondali da popoli archivisti e armati di una scrittura, sono localizzabili e
databili con una grande precisione. Sono loro che hanno fatto tremare e
talvolta crollare antichi reami del Vicino Oriente con le loro bande di
guerrieri specialisti, di cui si c parlato più sopra, quelli che i testi
babilonesi ed egiziani chiamano marianni. Il gruppo più
interessante di questi «Para-Indiani» è quello che, inquadrando e
dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella metà del secondo
millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri- ta dei Mitanni, che
per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto trattare da pari a
pari. Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli
scavi hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un trattato
concluso da questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei Mitanni,
il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli aveva
inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo
benefattore nella debita forma. Il testo enumera le maledizioni celesti in
cui egli accetta di incorrere se mancherà alla parola. Secondo l’uso, i due
contraenti convocano come garanti tutti gli dèi che i loro due imperi
riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a un gran numero di dei
sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità locali o babilonesi,
s’incontra una sequenza che è stata immediatamente identificata dagli
indianisti e su cui i filologi hanno lungamente lavorato, esaminando le
particolarità grafiche e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può
rendere con sicurezza nel modo seguente: «Gli dèi
Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il dio Indura [var. Inclar],
i due dèi Nàsatyu. Per più di trentanni, senza aver preso in visione i
documenti vedici principali citati, si sono proposte per questa riunione di dèi
delle spiegazioni strane (W. Schulz, 1916-17) o insufficienti (S.
Konow, 1921 ). Il danese A. Christensen con un’analisi serrata si è avvicinato
alla verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya non
compaiono a Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come
interessali di questa o quella clausola particolare, ad esempio matrimoniale,
del trattalo, ma poiché erano «dèi principali» della società arya.
Sfortunatamente egli ha «pensato» questo stato maggiore solo nel quadro
dualista dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’Iran, reale ma meno
importante nell’India vedica, c l’ha ripartito artificialmente, contrariamente
alle indicazioni del testo, in due gruppi, Mitra-Varuna da una parte e
Indra-Nàsatya dall'altra. E solo nel 1940, grazie a un dossierve
dico delle tre funzioni e ai testi vedici che associano gli stessi dèi
presenti nel trattalo di Bogazkòy, che è apparsa l’interpretazione più semplice
che io ho riassunto in questi termini nel 1945: «A Boguzkòy,
sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che patrocinano ciò che è sacro e ciò
che è giusto, dèi della regalità coi suoi necessari ausiliari, sacerdoti
e giuristi, Indura e i Nàsatyu, rappresentanti duplici di uno stesso tipo di
dèi, non sono sullo stesso piano: a un secondo livello vi è Indura, dio
della funzione guerriera e dell’aristocrazia militare dei marianni; poi, a un
livello ancora inferiore vi sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu.
Nominando questi dèi insieme e in quest’ordine, il re fa due operazioni
precise: vincola con se stesso tutta la società del suo reame, presentata
nella sua forma regolare, ed evoca le tre grandi province del destino e della
provvidenza. Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni
che accettu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla
sua persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e
oblio, odio generale da parte degli dèi ». Connotati degli dèi
caratteristici delle tre funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA
Non sarà inutile, per agevolare il lettore nelle analisi
particolari che seguiranno, precisare ora in qualche parola, nella
prospettiva delle tre funzioni, gli orientamenti e i limiti di questi
diversi dèi che gli archivi di Bogazkòy, confermando le formule degli inni e
dei rituali indiani, comprovano essere un raggruppamento formulare
pre-vedico. Ecco come questi valori sono stati riassunti nel mio piccolo
libro Les dieux des Indo-Européens (1952). «Non è un caso se
il primo livello è spesso rappresentato da due dèi: nella sovranità che
questi antichi indiani concepivano vi erano due facce, due metà
antitetiche ma complementari e ugualmente necessarie, incarnate e patrocinate
da due «re», Mitra e Varuna. Se dal punto di vista dell'uomo Varuna è un
signore inquietante, terribile, possessore della màyà, cioè della magia
creatrice delle forme, armato di nodi e di reti, che opera cioè
avvinghiameli immediati e irresistibili, Mitra, il cui nome significa
Contratto, e anche Amico, è rassicurante e benevolo, protettore degli
atti e dei rapporti onesti e stabiliti, estraneo alla violenza. L'uno,
Varuna, dice un testo celebre, è l’altro mondo; questo mondo è invece
Mitra. Varuna è più despota, più dio stesso se così si può dire; Mitra è
quasi un sacerdote divino. Più che della prima funzione, Varuna sembra
avere maggiori affinità con la seconda, violenta e guerriera; Mitra, per la
tranquilla prosperità che dischiude grazie, alla terza. L'opposizione è così
netta che da tempo si sono potuti sottolineare i tratti quasi demoniaci
di Varuna: non è forse l’àsura per eccellenza ? E nelle forme
post-vediche della religione, come già in molte strofe del Rgveda, gli
usura non sono forse dei misteriosi demoni? In Ind(a)ra si riassumono tutte
altre cose: i movimenti, i seni zi, le necessità della forza brutale che
applicate alla battaglia producono vittoria, bottino e potenza. Questo
campione vorace, armato di folgore, uccide i demoni e salva l’universo, per compiere
le sue imprese si inebria di soma che dona vigore e furore. Egli è il
danzatore, nrtti; il suo splendido e ardente seguito è formato dai Marut,
trasposizione atmosferica del battaglione dei giovani guerrieri, màrya. Per lui
e per essi si esprime una morale dell'exploit e dell'esuberanza che si
oppone all'onnipotenza immediata e rigorosa, come alla benevolente
moderazione che si riunisce nel primo livello. Gli dèi canonici
dell'ultimo livello, i Ndsatya o Asvin, non esprimono che una parte del
dominio complesso tipico della terz.a funzione. Sono soprattutto datori
di salute, giovinezza e fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli
infermi, degli amanti, dei figli senza fidanzata o del bestiame sterile.
Ma la terza funzione è molto più di tutto questo, non solo salute e
giovinezza ma nutrimento, abbondanza in uomini e in beni, cioè massa
sociale e ricchezza economica, attaccamento al suolo, a questa gioia
tranquilla e stabile dei beni, che si esprime in sanscrito con
l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono spesso rinforzati al loro
livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono altri aspetti della terza
funzione, come la vita animale, l’opulenza, la maternità ( Pùsan,
Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT ed altre dee
madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale, collettivo, totale
(«Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una classe particolare di dei)
espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili, 35 oppone come
etichetta della terza funzione ai singolari neutri bràh- man e ksatrà,
caratteristici delle due funzioni supreme». Abbiamo qui un buon
esempio di struttura, una teologia articolata difficile da pensare come formata
da un assemblaggio di pezzi e frammenti: l’insieme c il piano
condizionano i dettagli; ogni tipo divino nel suo orientamento proprio esige la
presenza di tutti gli altri e non si definisce che per rapporto agli
altri, con la vivacità che solo l’antitesi produce. Il riconoscimento di
questa sequenza divina e del suo carattere prc-vcdico ha permesso di
compiere, nel 1945, un passo decisivo nell'interpretazione delle
religioni iraniche c di rendere conto di un tratto importante della teologia
aveslica da tempo osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici delle tre
funzioni nella riforma ZOROASTRIANA Sotto il nome di
Zoroastro si è avuta una profonda riforma che ha notevolmente alteralo il
paganesimo ancestrale, somma di una serie di riforme progressive
nello stesso senso. Tuttavia, considerando il risultato storicamente attestato
di questo processo riformatoree il punto di partenza preistorico,
determinabile poiché era sicuramente vicino allo schema vedico e
pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttrici del movimento appaiono
immediatamente. Nell’Ave.vra nongàthico, dove è mitigato
l’intransigente monoteismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura Mazda -
senza dubbio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello che
l’India chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto rango
che portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra,
Indra, Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra
(al pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto
differente, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati
ancora sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui i Nàsatya
seguono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una riforma che
(operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e destinata a imporre
uniformemente a tutta la società mazdaica la morale elevata del primo
livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato, demonizzato i patroni divini
che tradizionalmente rappresentavano e giustificavano altri comportamenti come
lo scatenamento guerriero c l’orgia, meno sanguinante ma certo non meno
libera, dei culti della fecondità. 7. Le Entità zoroastriane
Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro, quella delle
Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso schema. Il tratto
saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte associate al Gran
Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome collettivo, ma sono
quelle che si vedranno in seguilo costantemente raggruppate in un ordine
fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Benefìci (o Efficaci). Si è
discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste Entità siano già delle
creature o delle emanazioni separate da Dio - una sorta di arcangeli - o
semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo non cambia niente quanto al
problema delle loro origini che qui ci interessa. La lingua e lo stile delle
Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità volontaria e raffinata, ma
fortunatamente per orientarsi si dispone di talune considerazioni che non
dipendono dalle incertezze di parola per parola. 1) Il senso e la
struttura grammaticale dei nomi che designano le Entità forniscono
qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengono quasi tutti i nomi di una o
più Entità sono assai numerose per permettere delle osservazioni statistiche -
frequenza relativa di ogni Entità, frequenza delle loro associazioni diverse -
che rivelano dei tratti molto importanti del sistema. Per esempio, se
l’intenzione, la forma e lo stile di questi inni lirici non costringono
il poeta a presentare le Entità in lista nel loro ordine razionale, come
faranno più tardi i testi rituali in prosa, tuttavia la tavola delle
frequenze di menzione delle Entità, prese separatamente e in conseguenza
delle importanze relative che i poeti le attribuiscono, riproduce
esattamente l’ordine gerarchico che esse avranno in seguito sotto il nome
di Amaste Spanta: questa gerarchia dunque esisteva già. 3) Un altro elemento
d’interpretazione è fornito dalla lista degli «elementi materiali» che la
tradizione associerà, parola per parola, alla lista delle Entità,
gemellaggio a cui gli inni stessi fanno allusioni certe e precise. 4) Infine,
nell’À vesta non gàthico, ad ognuna delle Entità è opposto un arcidemone
che in molti casi le chiarifica. Il quadro è il seguente: Entità
astratte Elementi materiali arcidemoni opposti PATROCINATI VohuManah
bue (Il Buon Pensiero) Asa (l’Ordine) fuoco XsaGra (la Potenza) metallo Àrmaiti
(il Pensiero terra Pio) Haurvatà( acque
(l’Integrità, la Salute) AmarstàJ (la piante Non-Morte,
l’Immortalità) Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti
nelle ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si
interpretino le Entità, questo quadro suscita delle domande: perché
questi gli eletti e Il Cattivo Pensiero Indra
Saurva NàqaiOya La Sete La Fame
non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non disponendo
che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno in qualche modo
sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute con rimmortalità, che
quasi senza eccezioni è nominata insieme ad essa? Perché questi posti
precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni che sono antichi dèi
funzionali condannati dalla riforma? Un confronto delle Entità
zoroastrianc con la lista vedica e mitannica degli dèi funzionali, mostra dove
bisogna cercare la soluzione d’insieme. 1 ) Le ultime due,
fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso a poco inseparabili,
ricordano per le nozioni così simili che esprimono, per gli elementi materiali
associali c per il loro posto gerarchico, i gemelli Nàsatya,
indissociabili, donatori di salute e di vita, ringiovanitori dei vecchi,
tecnici delle virtù medicali contenute nelle acque c nelle piante.
2) Prima di queste, la terza Entità è la Terra in quanto madre, nutrice e
modello della padrona di casa iranica: ricorda così la dea variabile
(Sarasvatl, notoriamente) che si vede talvolta unita ai Nàsatya nelle
enumerazioni vedichc che segnalano la terza l’unzione. Così il dominio
delle tre ultime Entità zoroastrianc, designate tutte da sostantivi femminili,
mentre quelle superiori sono nominale da neutri (cf. in vcdico vis,
femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello della terza
l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della terza
funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazione (ridotta a
un unico personaggio) delle due divinità canoniche della stessa funzione,
i Nàsatya. 3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè
la stessa parola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che
lin da Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda
l'unzione, come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta, }>
fornisce differenzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il
«metallo» che gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma
dei lesti espliciti lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc
a lui opposto, Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra,
personaggio complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua
qualità di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda
funzione. 4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o
menzionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi significativi:
ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano aria-) che corrisponde al vedico
ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale, patrocinato dagli dei
sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli sono propri)
dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il «Buon Pensiero», in
una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratura non gàlhica, è
presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del benevolo e
amichevole Mitra, vicino all’uomo e a «questo mondo», in opposizione a Varuna
che è «l’altro mondo». Yasna XLIV contiene a questo proposito due
strofe rivelatrici, le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e
il nostro scenario più vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto
come fa Rgveda IV, 3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di
cui si parlerà nel capitolo seguente). L’elemento materiale associalo a
Vohu Manah c il bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c da tempo
riconosciuto (A. Christensen) che il bue era sotto la protezione
particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e
dell’arcidemone Indra ricorda che molti inni del Rgveda inscenano delle tenzoni
tra i 1 sovrano Varuna e il guerriero Indra, depositari di due morali, la cui
divergenza sfocia facilmente in un conflitto. 9. Intenzione
di questa riforma zoroastriana Altri particolari dello stesso
genere arricchiscono e sfumano il confronto, ma questi sono sufficienti
per fondare la soluzione del problema delle origini degli Amasa Spanta che io
ho estesamente sviluppato nel 1945 nel mio libro Naissance d’Archanges: la
lista delle sei Entità dello zoroastrismo monoteista c stata ricalcala,
copiata, dalla lista degli dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico;
più esattamente, da una variante di questa lista, come si trova in India, che
ai cinque dèi maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella
terza funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copiatura?
Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non hanno
semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»? Senza
dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quella struttura
trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia come mezzo
di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza dubbio perché
gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro predicazione e
che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa
forma di pensiero e bisognava dunque fornire un sostituto esatto di ciò
che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché così presentata la
lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici della riforma, come
si è visto, era distruggere la morale particolare dei gruppi di guerrieri
e allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e purificata dalle
funzioni sacerdotali. Elevando, ad esempio, al posto in cui
infieriva sino allora l’autonomo Indra, l’esemplare figura di una «Potenza»,
XSaGra, devota alla santa religione, si portava ai sostenitori
dell’antico sistema un colpo più rude della semplice negazione del dio pagano o
della semplice soppressione di questa provincia della teologia. In un
certo senso si può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo delle
Entità, sia consistita nella sostituzione di ogni divinità della lista
trifunzionale con una equivalente, che conservava il suo rango ma che
essenzialmente era privata della propria natura e animalo da un nuovo
spirito, dallo spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio
unico. Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli
studiosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi,
questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili. Si
spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il
dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino
uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo indiano dei due
primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra e Varuna
sono i principali. Questa analogia, che è un fatto incontestabile e
che B. Geiger e K. Barr hanno avuto ragione di mettere in risalto
ampiamente, non ha comunque risolto il problema delle origini delle
Entità: esse non sono gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani
vedici, ma gli equivalenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli
energicamente riportati al tipo unico di una «santità» esigente: dèi sovrani
certo, ma anche, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che
li completano. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le
spiegazioni CRONOLOGICHE Questa spiegazione degli Amasa
Spanta, immediatamente ammessa da molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli
ampiamenti e alcuni li ritroveremo al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui
limitarmi e sottolineare la principale conseguenza del punto di vista
comparativo. Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica mitannica
e vedica degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci è
precluso ogni tentativo di spiegare questa lista e questa gerarchia con
avvenimenti storici o della preistoria recente dei tempi vedici.
Indra non è, non può più essere considerato come un «gran dio» che,
ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conquista sarebbero
«in procinto» di sostituire a un più antico «gran dio» Varuna che in seguito
avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più vecchio dio
Mitra. Se così fosse, come comprendere che questa situazione,
effimera per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di dèi che
retrocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso stadio di evoluzione,
disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando per secoli allo stesso
massimo il progresso di uno dei termini e allo stesso minimo la
soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e
nei rituali propriamente vedici e ancora, nel politeismo iranico che si
lascia leggere in filigrana sotto la teologia di Zoroastro? La
«storia» non può essere stata in questo punto tre volte identica, aver avuto
degli effetti intellettuali così simili in queste tre società
precocemente separate. La sola interpretazione plausibile è che
egli Indo-Iranici ancora indivisi, qualunque fosse il loro punto di
partenza, erano arrivati ai limiti delle loro Terre Promesse in possesso di una
teologia in cui i rapporti di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano
già come li ritroviamo negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il
raggruppamento degli dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato
fortuito di avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico,
un’analisi e una sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così
fortemente come la «destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve,
presuppone una struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è
pensato di ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di
Varuna rispetto a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in
cui questi dèi si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno
stesso in cui Indra si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che
messe in scena della tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione
sovrana e la funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne
risenta pienamente i benefici. I miti collegati ai signori
divini delle funzioni devono, almeno in parte, illustrare con chiarezza
la divergenza delle funzioni e devono farlo senza i riguardi e i
compromessi che la pratica sociale impone: è chiaro, ad esempio, che se
la sovranità magica assoluta e la pura forza guerriera fossero portate
agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di fatto in certi momenti
della vita della società a causa di tali conflitti si producono
usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia dei
rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande
maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dialogato i poeti
sono portati a questo estremo, che i politici evitano saggiamente e per meglio
definirli, per «vederli» e «farli vedere», li hanno opposti come rivali. Stando
così le cose, si tratta di un esercizio retorico sicuramente antico,
poiché come si è visto lo zoroastrismo ha scelto Indra scomunicato,
demonizzato, per farne l’avversario parti- col are di Asa, cioè dell’Entità
in cui, purificato, sopravvive *Varuna. Comunicazione tra gli dèi delle
tre funzioni Questa osservazione deve essere completata da un’altra
inversa. La definizione funzionale dei tre livelli divini è statisticamente rigorosa
(la letteratura vedica è assai abbondante perché la statistica vi possa
trovare un appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali funzioni
sono intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate, ma anchenella
maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invoca gli dèi di un solo
livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religione le effusioni della
pietà, della speranza e della confidenza talvolta debordano dal quadro
teorico del catechismo e questo è soprattutto vero per l’India, in cui
gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi storicamente osservabili (e questa
tendenza è già sensibile negli inni), hanno così spesso portato a riconoscere
l’identità profonda dell’essere sotto la diversità delle apparenze o
delle nozioni e, per esprimere concretamente questo dogma dei dogmi, a
conferire agli uni gli attributi degli altri. In più, nella
pratica, ciò che interessa l’uomo pio è sicuramente la diversità dei
soccorsi che può ricevere e delle porte mistiche a cui può bussare, ma è
anche e soprattutto la solidarietà e la collaborazione di tutti gli dèi
che gli rispondono. Infine, nelle opere stesse per le quali gli
uomini chiamano gli dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc
funzionale si trovino interpellati da degli specialisti che gli sono
estranei. L’esempio maggiore è quello della pioggia che gonfia le acque del
suolo, che fornisce direttamente o indirettamente il tipo di ricchezza
pastorale e agricola, la salute stessa, di cui si occupano gli dèi della
terza funzione; ma essa c ottenuta grazie alla battaglia celeste,
strappata sotto forma di fiume o di vacche celesti agli avari demoni
della siccità, e questo è il compito, il gran compito di Indra c dei suoi
aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut. Congiungere il cielo e la
terra e assicurare la sopravvivenza del mondo è anche l’interesse degli
dèi sovrani c l’operazione tecnica si svolge infine grazie allo
specialista Parjanya. Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a
lare sempre questa giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c
comune c quindi la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande
guerriero Indra sia così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma
della sua azione, in quanto donatore di fecondità e di ricchezza. Ma
il lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare il modo
violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per liberare le acque:
egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cerchia dei Pfisan o dei
Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra
gli Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia
tripartita, l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora
c deve essere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c necessario
ricercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c sufficientemente
conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli usi rituali o
da formulari. Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha
immediatamente portalo a risultati nei domini italici e germanici. Ma
allo stesso tempo, in questi domini in cui gli specialisti, nella loro
autonomia, avevano da lungo tempo costruito delle maestose c dotte
spiegazioni di ogni cosa.la nuova interpretazione ha dovuto rimettere i n
questione molti pseudo-fatti, dimostrando la fragilità di molte
pseudo-dimostrazioni, in modo tale che spesso non è stata considerata la
benvenuta. In sintesi, le opposizioni sono soprattutto nate dal
fatto che le «filologie separate», sia scandinava che latina, si erano
abituate a pensare cronologicamente - secondo una cronologia ipotetica e
soggettiva - la preistoria, la «formazione» dei quadri teologici
complessi, presentati dai documenti antichi, mentre questi quadri, guardati in
base alla prospettiva comparativa che a grandi linee viene qui
ricordata, s’interpretano immediatamente, per l’essenziale, come
strutture concettuali che esprimono la distinzione e la collaborazione delle
tre funzioni esplicitate dagli Indoeuropei. Jupiter, Mars, Quirinus e
Juu-,Mart-, VOFION(O)- Le due società italiche di Iguvium e Roma -
l’una umbra e l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci
informano, presentano due varianti di una triade in cui i due primi termini
sono identici: Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus
nella più antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a
non cercare per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata
sul caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia
locale: com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti
possano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili?
14. La triade precapitolina L’esistenza della triade romana,
che si è anche voluto contestare ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal
fatto che questi dèi sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti
da tre sacerdoti senza omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo
sacerdotum: Festo, Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede
ridotto e sacerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7
amines maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa
triade capitolina, vero fossile nell’epoca storica, respinto dall’attualità di
una triade differente formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rimasta
legata a molti rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche.
66 Una volta all’anno, in una cerimonia la cui
fondazione era attribuita a Numa (Tito Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores
attraversavano solennemente la città in uno stesso carro e facevano
congiuntamente un sacrificio alla dea Fides. I sacerdoti Salii che conservavano
tra i dodici ancilici indiscernibili il talismano caduto dal cielo cui
era stata attribuita la fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et
Quirini (Servio, ad Aen., Vili, 663). Il tragico rituale
della devotio, con il quale il generale romano, per salvare il proprio
esercito, si immolava agli dèi sotterranei contemporaneamente
all’esercito nemico, era introdotto da una formula, da un’enumerazione di dèi
che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo trascritto esattamente e che dopo
Janus, dio di ogni inizio, nominava innanzitutto l’antica triade: Giano,
Jupiter, Mars Pater, Quirinus, poi Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la
conclusione di un trattato, secondo Polibio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali
prendevano come testimoni prima Jupiter, poi Mars e infine
Quirinus. Il carattere comune di queste circostanze, in cui la
triade precapitolina è presentata come tale, è che il corpo sociale di Roma è
interessato nel suo insieme e nella sua forma normale: mantenimento della fides
pubblica, senza cui la coesione sociale è impossibile; protezione
continua o urgente; impegno diplomatico. Il sacrificio a Fides è
particolarmente rivelatore poiché è la sola circostanza conosciuta in cui
i tre flamines maiores agiscono insieme; ma lo fanno in maniera ostentata
e l’unità del carro, l’unità dell’operazione sacra, provano che si tratta
di mettere sotto la garanzia di Fides l’unità delle tre «cose» che
Jupiter, Mars e Quirinus patrocinano distributivamente; tre «cose» la cui
sintesi o aggiustamento sono essenziali per la vita di Roma. Quali sono
queste «cose»? 15. Valore di Jupiter e di Mars nella triade
precapitolina La risposta non necessita di grandi sforzi, sempre
che si preferisca il sentimento dichiarato dai Romani stessi contro le
ricostruzioni ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli epigoni di W.
Mannhardt o da archeologi poco coscienti dei limiti della loro arte;
sempre che non si dimentichi che questi dèi sono stati associati e
gerarchizzati a Iguvium e a Roma poiché rendevano dei servizi
differenziati e complementari; e infine, a condizione che si attribuisca
un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre flamines maìores, a ciò
che insegna l’ufficio di questi sacerdoti. Se si osserva questa regola, e
queste precauzioni, si riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello
stesso tempo il Dius (nel capitolo seguente si mostrerà il senso di
questa sfumatura), onorato dagli atti del flamen dialis, e dal suo
comportamento pieno di innumerevoli precetti positivi e negativi, è il dio che
dall’alto del cielo presiede all’ordine e all ’osservazione più esigente del
sacro, garante della vita, della continuità e della potenza romana.
Quanto a Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegnamento dei
migliori testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio combattente di
Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al pari del
vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non di più)
dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno bisogno di essere
forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o invisibili,
possono minacciare. Questa forza è sempre rimasta la forza che dona
la vittoria, sin dai tempi favolosi delle origini e fino al declino
dell’impero, nella schiacciante maggioranza degli impieghi
conosciuti. 16. QuiRINUS Per Quirino, l’unico
«invecchiato» fra i tre dèi in epoca storica, gli eruditi antichi hanno
generosamente costruito, su dei pressapochi- smi etimologici allora
correnti, delle teorie contraddittorie che complicano il lavoro; ma
fortunatamente disponiamo degli uffici adempiuti dal suo flamen e di molti
altri fatti cultuali, del suo nome e di qualche indicazione oggettiva
degli antichi. Queste diverse fonti informative forniscono un
quadro complesso ma coerente. I ) Siamo a conoscenza di tre
circostanze in cui officia il flamen quirinalis. Ai Robigalia del 25
aprile sacrifica un cane in un campo nei pressi di Roma e allontana così
(verso le armi da guerra, aggiunge Ovidio) la ruggine che minaccia le
spighe. Ai Consualia del 21 agosto sacrifica sull’altare sotterraneo di
Consus, dio del grano messo in provvista ( condere ); il 23 dicembre
sacrifica sulla «tomba» di Laren- tia, la cortigiana che incarna in una
celebre storia la voluttà, la ricchezza e la generosità e che ha meritato di
ricevere un culto, legando la sua fortuna a quella del popolo romano. La
festa propria di Quirino, i Quirinatici del 17 febbraio, coincide con (e
probabilmente è) l’ultimo atto dei Fornacalia, cioè delle feste curiali
della torrefazione del grano. Nelle altre due circostanze rituali
in cui appare, Quirino è associato alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale
personificata: una iscrizione ci insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia,
Quirino e Ops figurano tra le divinità onorate senza dubbio contro gli incendi
(C/L I 2, p. 326). La leggenda che giustifica l’esistenzadei Salii di
Quirino, dimostra che il voto fondante questo collegio è stato fatto per la
stessa ragione del voto che istituiva la festa di Ops e di Saturno.
Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale del
dio, attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in rapporto con
le sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità agricole Consus e
Ops, con la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si spiega il
fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava
seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito non spettasse al rex
o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe
aspettato, ma al flamen quirinalis. 2) Il nome di Quirino è
sicuramente inseparabile da quello dei Quirites, cioè dall’insieme dei
Romani considerati nelle loro attività civili in opposizione totale a ciò
che essi sono in quanto milites (un aneddoto ben noto di Cesare lo
prova). P. Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites con
curia (volscio couehriu), come «gli uomini riuniti nei loro quadri sociali»,
essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di questa entità della
«massa sociale organizzata» ( *co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e prsé
soddisfacente, è stata resa molto probabile da V. Pisani ( 1939) e indipendentemente
da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato come il nome dell’omologo
di Quirinus nella triade umbra di «Jupiter, Mars, Vofionus» possa essere
il compimento fonetico rigoroso di un *Le- udh-yo-no «patrono della
massa» (cf. il tedesco Leute, latino liberi, «massa di uomini liberi,
bambino di nascita libera» etc.), esatto parallelo e sinonimo dal latino
*Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari della coltivazione del
suolo, aspetti considerati dalla terza funzione. 3) Ma lo stile di
questa pace è marcato dall’impronta romana e contribuisce al sorprendente
meccanismo che in qualche secolo ha conquistato e romanizzato l’Italia,
il Mediterraneo e il mondo antico e stabilisce il pesante beneficio della
pax romana. Per i Romani non si è mai trattato di una pace gioiosa e cieca
ma vigile, in cui le armi erano deposte ma conservate; in cui i civili
Quirites erano anche mobilitabili, i milites del domani; in cui i comitia
legiferanti non erano che l’ exercitus urbanus senza il suo
equipaggiamento, ma pronto nei suoi quadri: una pace, infine, in cui si
pensava molto alla guerra. È questo regime, questo stato di spirito
che Quirino governa e che esprime eccellentemente un tratto del suo
statuto: uno dei flamines minores, il Portunalis - senza dubbio connesso
al dio delle porte ( portele ) delle città, prima di essere quello dei porti
(j)ortus ) - ha l’incarico di ungere le «.armidi Quirino» (Festo s
.v.persillum, p. 238, Lindsay), cioè di compiere il gesto di ogni
mobilitazione alle armi: le quali possono anche non essere utilizzate, al
momento, ma verso le quali può sopraggiungere improvvisamente l’esigenza
di ricorrervi. Questa ambivalenza Quirites-milites dei Romani,
questa concezione militare della pax romana, spiegano sufficientemente
come Quirino possa essere stato considerato una varietà di Marte e come
i Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano scelto per tradurre
il suo nome quello di un vecchio dio guerriero, differente da Ares,
’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo contesto su due
note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un tempo «assurde»,
ma alle quali la nuova prospettiva «trifunzionale» ha conferito pieno valore
(ad Aen. I, 292; VI, 859): «... Marte è detto Gradivus quando è in
furore (Cum saevit) quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A
Roma possiede due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino,
cioè di guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),'
l'altro sulla via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio
guerriero o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte
che presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro
Roma mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio
fuori Roma. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari
di Roma Questa rapida esposizione, spogliata dalle
innumerevoli discussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i
punti, basterà a dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade
precapitolina, l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni
termine. Cielo ed essenza stessa della religione come supporto di Roma;
forza fisica e guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace
vigilante: queste etichette definiscono tre ambiti complementari che
disegnano una struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque
italica, e quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi
risalente ai tempi indoeuropei. Non sarà inutile ricordare
qui i valori funzionali di cui appaiono rivestite, nei racconti sulle
origini di Roma, le tre componenti etniche, base leggendaria delle tre
tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi compagni sono i depositari del potere
sovrano e degli auspici; i suoi alleati etruschi, sotto il comando di
Lucumone, sono gli specialisti dell’arte militare; i suoi nemici, Tito
Tazio e i Sabini, sono provvisti di donne, ricchi in bestiame e in più
detestano la guerra e fanno di tutto per evitarla. Una variante frequentemente
attestata (l’abbiamo ricordata in I § 7) minimizza la componente etrusca
e concentra le due prime caratteristiche su Romolo e i suoi compagni.
Sotto questa forma la triade precapitolina si divide molto adeguatamente
tra i due gruppi di avversari e futuri associati: Romolo è costantemente
il protetto di Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere- trius e
Jupiter Stator in battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in sé i
favori dei due primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme
leggendario soltanto) è considerato come un dio sabino, il «Marte sabino»
portato in dote da Tito Tazio a Roma nella riconciliazione finale, allo stesso
modo del nome collettivo dei «Quirites» (ma questa pse- udo-sabinità dei
Qui riti e di Quirino, benché conf orme al carattere dei Sabini della
leggenda, portatori della terza funzione, si spiega col gioco di parole,
popolare tra gli eruditi di Roma, «Quirites-Cures»), Si sa che
un’altra forma della leggenda, incompatibile con questa, fa di Quirino il nome
postumo di Romolo, riunendo così sul solo fondatore i tre termini della
triade divina in base agli auspici, alla filiazione e all’apoteosi.
18. Varianti della triade Jupiter, Mars, Quirinus Della
leggenda delle origini, Varrone (De ling. lat., V, 74) e Dionigi di
Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato un aspetto importante: all’epoca della
riconciliazione di Romolo con Tito Tazio e dell’entrata dei Sabini di
Tito Tazio nella comunità, ormai completa e in via di sviluppo, ognuno
dei due re istituisce dei culti e mentre Romolo fonda solo il culto di Jupiter,
Tito Tazio instaura Quirinus e un gran numero di dèi e dee che hanno
rapporto con la vita rurale, la fecondità e il mondo sotterraneo.
Questa tradizione è molto interessante perché sottolinea ciò che è
stato già segnalato a proposito dell’India (II, § 5); la molteplicità degli
aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa «terza funzione» che Tito
Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli «dèi di Tito Tazio» (che non
sono certamente sabini ma romani, a dispetto della colorazione etnica della
leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle triadi che non sono
altro che varianti della triade canonica «Jupiter, Mars, Quirinus», come
Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con Quirino) o Flora. 1
tre gruppi di culto della Regia, della «casa del re», che corrispondono senza
dubbio alle tre camere che ancora si trovano giustapposte nelle rovine, sono: 1
) culti assicurati dai personaggi sacri del più alto rango, il rex (a
Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del flamen dialis (a Jupiter
stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium Marti.?, 3) culti del sacrarium Opis
Consivae, la dea dell’abbondanza. Questa collocazione dei tre
livelli funzionali manifestava sensibilmente che la stessa forma di religione
che si analizzava e che si dissociava nelle persone dei tre grandi flamines,
creava al contrario una sua sintesi quando passava nelle mani del rex,
quando era il rex che l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma,
nel nome di Roma, come gestore delle forze sacre. Quanto alla
triade «Jupiter, Mars, Flora» (rimpiazzata più tardi da Venere) sembra
essere stata lei a patrocinare i tre carri delle corse primitive (in
relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori bianco, rosso,
verde; vedi sopra I, § 21 ). Flora meritava due e tre volte questo posto,
per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di lei un
doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a Roma stessa,
senza dubbio più alla massa romana che all’entità politica patrocinata da
Quirino. Un’altra variante della triade - «Jupiter, Mars, Romulus,
Re- mus» - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla
fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica indo-iranica
affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la protezione del terzo
livello. 19. Gli dèi delle tre funzioni in Scandinavia
Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello stesso tipo, quel
la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente, come ultimo termine, Njòrdr e
Freyr). Anche questa triade, al pari di quella precapitolina romana, è
stata spiegata - in modo molto variabile - secondo schemi di evoluzione, come
il risultato di compromessi e sincretismi tra culti successivamente
comparsi. Lacritica a questo tipo di spiegazioni facili e
seducenti, che credono di basarsi logicamente sui dati archeologici, ma che vi
si sovrappongono arlifi cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora
essere fatta poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia
volentieri. Nel piano ridotto del presente libro dovremo semplicemente
prescinderne ma dichi arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm
(1925,1946, 1953), da E. Wessén ( 1924) a E. A. Philippson (1953), i
numerosi tentativi fatti per dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa
recente (sostituito a *Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran
dio» è Pórr (sempre che non sia Freyr), non potevano riuscire a
dispetto dell’intelligenza, dell’erudizione e del talento dei loro
autori. Ci limiteremo dunque ai fatti e quindi all’esistenza stessa
della triade in quanto tale. E questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che
Adamo di Brema ha vi sto regnare nel tempio di Uppsala e di cui fornisce
la descrizione del meccanismo trifunzionale (Gesta Hammaburgensis eccl.
Pontificium, IV, 26-27); è lei che appare dalle formule di maledizione come dai
poemi eddici o dagli scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga); è
lei che si sprigiona dal racconto della battaglia escatologica ( Vòluspà,
53-56) in cui ognuno dei tre dèi lotta contro uno dei maggiori avversari che
soccombe sotto i suoi colpi; è lei che si spartisce i gioielli divini
(Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che rappresenta l’intera mitologia in
cui le altre divinità - salvo la dea Freyja, strettamente associata a
Freyr e Njòrdr e che li completa - sono come comparse che circondano
questi «primi ruoli» e che si definiscono in rapporto ad essi. Ci si
ricorderà che nella leggenda delle sue origini Roma si è ridotta spesso a due
componenti, benché comprendesse tre tribù che rappresentavano tre
funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni, detentori di cleos et
virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri, il dominio di
Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini erano quelli che
apportavano delle specialità loro connesse, cioè le donne e le ricchezze,
opes. Il quadro scandinavo della formazione della società
divina completa è dello stesso tipo: i componenti riuniti per una
riconciliazione ed una fusione conseguente a una guerra terribile, sono due,
gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr è il più
eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù
eminenti e i soli nominati individualmente. La distinzione
funzionale degli Asi c dei Vani è chiara e costante. I Vani, specialmente i due
dèi e la dea che ne incarnano al massimo la tipologia, anche se capita
loro di essere o di fare altre cose, sono innanzitutto dei ricchi (Njòrdr,
Freyr, Freyja), donatori di ricchezze e patroni del piacere (Freyr,
Freyja), della lascivilà stessa, della fecondità e della pace (Nerlhus,
Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed economicamente al suolo che
produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al mare in quanto luogo della
navigazione e della pesca (Njòrdr). A questi tratti dominanti si oppongono
quelli dei principali Asi. Né Ódinn né Pórr certamente si disinteressano
delle ricchezze del suolo, ecc., ma da quando la mitologia scandinava ci è
conosciuta i loro centri sono altrove: l’uno è un mago potente, signore
delle rune, capo della società divina; l’altro è il dio col martello,
nemico dei giganti ai quali peraltro assomiglia (si pensi al suo
«furore»); è il dio tuonante (nel suo stesso nome) che accudisce il
contadino e gli dona la pioggia e anche nel folklore moderno è come un
solloprodollo della sua bellicosità in maniera atmosferica e violenta, non
terrena c progressiva. Il senso da attribuire a questa distinzione
tra Asi e Vani è il problema centrale che domina tutte le interpretazioni delle
religioni scandinave c di quelle germaniche, anche laddove le spiegazioni
cronologiche c storiche (di storia immaginaria) affrontano con vivacità
le spiegazioni strutturali e concettuali. I fatti riuniti
dall’inizio di questo libro apportano un grande sostegno agli strutturalisti:
il parallelismo delle teologie indo-iraniche e italiche ci fa
precisamente attendere, presso i popoli imparentati, una teologiaed
unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che oppone per meglio
definirli e che ricompone per creare un insieme vitale: 1 ) delle figure
divine che patrocinano ciò che è sotto il magistero degli Asi, Ódinn e
Pórr, l’alta magia e la sovranità da una parte, e la forza brutale
dall’altra; 2) delle figure divine del tutto differenti che patrocinano ciò che
è sotto il magistero dei tre grandi Vani, la fecondità, la ricchezza, il
piacere, la pace, etc. etc. 21. La guerra degli Asi e dei Vani e la
guerra dei Protoromani e dei Sabine formazione di una società
TRIFUNZIONALE COMPLETA La frattura iniziale, che separa i
rappresentanti delle due prime funzioni e quelli della terza, è un dato
indoeuropeo comune: lo stesso sviluppo mitico (separazione iniziale,
guerra e poi indissolubile unione nella struttura tripartita gerarchizzata) si
ritrova non solo a Roma, sul piano umanoenei racconto delle origini
dell’Urbe(guerrasabinae sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi
canonici del terzo livello, gli Asvin, non erano inizialmente degli dèi, ma
entrarono nella società divina come terzo termine al di sotto delle «due
forze» (ubhe virye) solamente in seguito a un conflitto violento
conclusosi con una riconciliazione e un’alleanza. Come si
potrà prevedere, i dettagli di queste leggende sono stati scelti e
raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le «funzioni» rispettive delle
diverse componenti della società e i procedimenti specifici che queste
«funzioni» attribuiscono ai loro rappresentanti. L’analisi comparata della
leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani e Sabini e della
leggenda scandinava sulla «prima guerra nel mondo» degli Asi e dei Vani
(a cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe 21-24 della
Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e conferito un senso
sia all’una che all’altra. Ambedue sono formate da un dittico, da
due scene in cui ciascuno dei due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio
limitato e provvisorio poiché è necessario che il conflitto finisca senza
vittoria e con un patto liberamente consentito) ed è debitore di questo
vantaggio alla sua specificità funzionale. Da una parte i ricchi e
voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società (le donne!) degli
Asi, inviando loro la donna chiamata «Ebbrezza dell’Oro»; dall’altra
parte Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto
l’irresistibile effetto magico e di panico. Allo stesso modo i
ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi la vittoria occupando la
posizione-chiave dell’avversario, non col combattimento, ma acquistando
con l’oro Tarpeia (in una variante, grazie all’amore cieco di Tarpeia per
il capo sabino); dall’altra parte Romolo, grazie a un’invocazione a
Jupiter (Stator) ottiene dal dio che l’armata nemica vittoriosa venga
improvvisamente, e senza motivo, invasa dal panico. 22.
Sviluppo della funzione guerriera presso gli antichi Germani
Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi conseguenze che ha
determinato ben presto, e non solamente presso gli Scandinavi ma fra
tutti i Germani, una deformazione della struttura delle tre funzioni e della
teologia corrispondente. Da nessuna parte, certamente né a Roma né
in India, gli dèi del primo livello, Varuna e Jupiter, si
disinteressavano della guerra: se è vero che non combattono propriamente
come Indra o Marte è anche vero che mettono le loro magie al servizio
della parte che favoriscono e sono loro, in definitiva, che attribuiscono
la vittoria, la quale, se è in effetti conquistata con la Forza,
interessa soprattutto l’Ordine per le sue conseguenze. Non ci
si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire nelle battaglie, senza
combattere molto, ma gettando sull’armata che ha condannato un panico
paralizzante, il «legame dell’esercito» herfjò- \)urr (cf. i lacci di cui
è armato Varuna). Ma è certo che la parte della «guerra» nella sua
definizione è di gran lunga piu considerevole che nella definizione dei
suoi omologhi vedici o romani: in lui - e anche nell’omologo germanico di
Mitra che esamineremo nel prossimo capitolo e che è interpretato da Tacito come
Marte - si constata più di una osmosi, un vero e proprio ribaltamento e
straripamento della guerra nell’ideologia del primo livello. All’epoca in
cui si sono formate le loro epopee, gli «eroi odinici» - Sigurdr, Helgi e
Haraldr Den- te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e
nell’aldilà sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie
guerriere, che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in
certi luoghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario, ad
averperso il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli
uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici
contro i giganti e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha
giustificato e popolari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato Freyr
dal la parte agricola della sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra
essere stata spinta all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i
quali così Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di
Uppsala. «Thor presici et in aere, qui
tonitrus et fulmina, ventos ymbre- sque, serena et fruges gubernat. Alter
Woclan, id est furor, bella gerit hominique ministrai virtutem contro
inimicos. Tercius est Fritto (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens
mortalibus... Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur,
sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi». Anche se si
ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi di Uppsala fosse più
ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle brevi osservazioni di
Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio principale poiché figura nel
mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un martello che ha scambiato per
uno scettro e perché, tuonante, lo ha as- similato a Giove), non vi è
ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo scivolamento della guerra
nel dominio di «Wodan» e lo scivolamento inverso di «Thor» al servizio
dei contadini sono dei fatti. Ma se ne comprende l’origine (come su altri
punti relativi alla Scandinavia) e dove lo stesso fenomeno si osserva, i
valori dei tre dèi restano essenzialmente vicini a quelli dei loro omologhi
indiani e romani. Stato del problema presso i Celti, i Greci e gli
Slavi Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di diverse
ragioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi religiosi
non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strutture teologiche
corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e
di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato di cose è
particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui
l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi. In
Grecia, dove la religione non è essenzialmente indoeuropea, il
raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore Paride resta ad
esempio un gioco letterario e non forma evidentemente un’autentica
combinazione religiosa. In Gallia, dove la classificazione degli
dèi riportata da Cesare (e confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé
Danann) ricorda per molti versi la struttura delle tre funzioni,
quest’analogia con la filiazione, e i ritocchi che suggerisce, suscitano
più problemi invece che risolverli. Quanto al paganesimo degli Slavi,
questi sono così poco conosciuti perché i tentativi di spiegazione
tripartitapossano essere altra cosa che brillanti ipotesi. Ma
la concordanza delle testimonianze sui tre domini, indo-iranico, italico e
germanico, in cui le antiche religioni sono state descritte in maniera
sistematica dai loro stessi rappresentanti, è sufficiente a garantire che
sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita aveva dato luogo a una
teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge- rarchizzate che
esprimevano i tre livelli; e ad una «mitologia eziologica» che giustificava la
differenza e la collaborazione di queste divinità. Divinità che
sintetizzano le tre funzioni Ci limiteremo a segnalare nella teologia un
altro utilizzo frequente della struttura tripartita, non analitico ma
sintetico. Vi sono infatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a
definire, in opposizione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come
onnivalenti, domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di
espressione si è prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per
esempio nelle civiltà mediterranee, quando una divinità patrona o eponima di
una città ha assunto un’importanza a svantaggio di altri dèi o di équipes
divine: così, presso gli Ioni di Atene, dove sembra che una teologia
tripartita (Zeus, Athena, Poseidone, Efesto) concernesse innanzitutto le
quattro tribù funzionali (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani),
è Atena che in epoca storica domina la religione. Così,
seguendo la felice osservazione di F. Vian, durante le piccole Panatenee, ella
riceveva successivamente degli omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e
Niké, vocaboli che evocano le funzioni di salute, sovranità politica e
vittoria. Allo stesso modo, nello zoroastrismo si è prodotta la tripla
titolatura Buone, Forti, Sunte dei geni tutelari, le FravaSi, che sono in
effetti trivalenti. Dee trivalenti. Tuttavia, tra queste figure sembra che
bisogni far risalire alla comunità indoeuropea un tipo di dea la cui
trivalenza è così messa in evidenza e che è intenzionalmente congiunta
agli dèi funzionali: questa dea, che per il suo stesso sesso e per il suo punto
d’inserimento nelle liste è connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in
tutti e tre i livelli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il
teologhema di una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità
degli specialisti mascolini.Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle
liste trifunzionali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora,
gli epiteti di SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la
definiscono chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente
l’uno dall’altro, sia io che H. Lommel abbiamo proposto di
interpretare come un’omologa di SarasvatT e come l’erede della stessa dea
indo-iranica, la più importante delle dee del \'Avestu non-gàthico,
anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e triplice di Anàhità,
fa evidentemente riferimento alle tre funzioni: «l’umida, la forte,
l’immacolata», AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublimazione dello stesso
prototipo che io penso che lo zoroastrismo puro abbia creato la sua quarta
Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente al terzo livello (dopo XsaSra,
«Potenza» e prima di Haurvatà(-Amar,?là(, «Salute» e «Immortalità») e
benché non in possesso di una tripla titolatura, porta un nome che significa
«Pensiero-Pio», aiuta Dio nella sua lolla contro il Male ed ha come
elemento materiale la terra nutrice differenzialmente associata.
Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone era onorata sotto il triplice
epiteto di Seispes Mater Regina, i due ultimi epiteti riportano alla teologia
della Giunone romana (Lucina, etc.; Regina) patrona della fecondità regolata c
dea sovrana; ma a Roma la specificazione guerriera manca, mentre era in
evidenza nella figura di Giunone lanuvia e certamente era espressa dal primo
epiteto, l’oscuro Seispet- (rom. sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra
svà-ksatra, svu-pati, eie.). Infine, nel mondo germanico, considerando i
Germani continentali, sembra che una dea unica e polivalente (se non
onnivalente), *Friyyò fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui
abbiamo parlato più sopra; se la specificazione guerriera non è attestata, il
poco che si sa di essa la mostra sovrana (Frea, nelle leggende che
spiegano il nome dei Lombardi) e «Venus» ( *Friyya-dcigaz, «Freitag»),
Presso gli Scandinavi questa multi valenza è esplosa: la dea si è
raddoppiata in Frigg (esito regolare di *Friyyó in nordico), sposa
sovrana del signore magico Ódinn, e in Freyja (nome rifatto su Freyr),
dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa. In Irlanda
un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea eponima del luogo più importante
fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani del 1 ’ Ulster con 1 a
piana che la circonda, dovette avere pri miti- vamente questo carattere
sintetico, analizzato in base alle tre funzioni, poiché è sfociata in tre
personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei tempi. Una Veggente, sposa
di un uomo dei primi tempi chiamato Ne- med, «il Sacro», che muore per
un’emozione profonda in seguito a una visione; poi una
Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il suo generalissimo e
che muore uccisa; infine una Madre che accresce meravigliosamente la
fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e che muore durante
l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possibile determinare quali
rapporti avesse nella religione con gli dèi maschi della stessa funzione.
26. Le teologie tripartite e i loro elementi Dopo aver preso
una visione globale dei sistemi teologici indo-iranici, italici e germanici che
esprimono l’ideologia delle tre funzioni, abbiamo riconosciuto che sono
abbastanza paralleli per giustificarne la spiegazione nei termini di un’eredità
indoeuropea comune. Non è che l’inizio: senza perdere di vista la
struttura d’insieme, l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su
ognuno dei tre termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa
in se stessa, poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram
ite la comparazione tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di
determinare come gli Indoeuropei concepivano, suddividevano e
utilizzavano ciascuna di esse. Note ai paragrafi Sulla
necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di vista e di
riconoscere le strutture teologiche di cui studia i frammenti, vedi principalmente
L’heritage..., cap. I («Matièrc, objet et moyens de étude») - al quale
rimando una volta per tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II
(«Structure et cronologie»), § 2-3. Il riconoscimento del
raggruppamento arcaico «Milra-Varuna Indra e i Nàsatya», l’inventario
delle circostanze in cui appaiono, sono state fatte progressivamente in:
JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it, pp. 38-39); NA pp. 41-52; Tarpeia, 1947, pp.
45-56 (dove sono studiati in dettaglio sei inni del Riveda fondali su
questa struttura); «Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com- me palrons
des trois fonclions cosmiqucs et sociales», Studia Linguistica, II, 1948
pp. 121-129; JMQ IV, pp. 13 - 35 ( «Les dieux palrons des trois f
onctions dans le Rg Veda et dans le AlharvaVeda»); in queste due ultime
esposizioni la divisione degli dèi in tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è
interpretata nello stesso senso (cf. DIE pp.7-9). § 4. La
discussione delle spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova formano
il primo capitolo di NA, pp. 15-55 («les dieux Arya de Mitani»), Il
carattere indiano degli Arya di Mitani è reso probabile dalla forma del numero
«uno» (aika: sanscrito eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT
ha interpretato senza difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al
vcdi- co (JAOS, 67, 1947, pp: 251-253). In seguilo G. Widengren ha
sottolineato in questi nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del
nome di Varuna (nel trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che
rinforza questo parlare di iranico: Numen, II, 1955, pp. 80-81 e note
167, 170. § 5. DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una
faretra cassila c stata interpretata come rappresentante in alto Mitra c
Varuna, nel mezzo Indra (o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una
scena di medicazione miracolosa conosciuta dal Rg Veda : «Dieux cassiles et
dieux vediques, à propos d’un bronze du Lourislan» RHA, 52, 1950, pp.
18-37. Riprenderò prossimamente il problema a partire da una migliore
fotografia (la scena c le insegne di «Mitra e Varuna» devono essere
spiegate altrimenti: non vi sono degli altari ma un vaso raffigurante una
lesta di leone) e con degli altri documenti sui «gemelli» §
6-9. La spiegazione degli Amai a Spanta costituisce la materia di NA,
cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti, che sembrava creare allora difficoltà,
è stala spiegata in seguito in Tarpeia, cap. I (=JMQ il.pp. 305-313).
Questa interpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE, «Une
legende indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos
de Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947, pp. 10-18; J.
DUCHE- SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80; Onnazd et Ah rimati,
1953, p. 23; The Western Response to Zoroaster, 1958 pp. 38-51 (vedi
specialmente pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER
(vedi sotto, nota al III cap. § 13); J.C. TAVADIA «From Aryan Mythology to
Zoroastrian The- ology, aReviewofDumézil’sResearches», ZDMG, 103, 1953,
pp. 344-353; K. Barr, Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G. WlDENGREN, «Stand
und Aufga- ben deriranischenReligionsgeschichte», Numen, I, 1954, pp.
22-26; S. Har- TMAN in molti articoli specialmente «Ladisposition de
l’Avesta», Orientatili Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e inoltre da altri
importanti iranisti. È stata invece rigettata senza discussione da I.
Gerschevitch e W. Lentz e non è menzionala nei libri di W.B. Henning e R.C.
Zaehner. § 10. Questo tipo di spiegazione è stata estesa alle
Entità già gathiche come SraoSa e ASi (considerale come sublimazioni
degli dèi prezoroastriani equivalenti agli dèi vedici Aryaman e Bhaga):
vedi qui sotto, III, § 8; poi al non gathico Rasnu e alla Fravasi
(considerate come figure purificate corrispondenti a Visnu e ai Maj'ut): «Visnu
et les Marut à travers la réforme zoroa- striennc», JA, CCXLII, 1953, pp.
1-25; infine a Busyastà (considerata come una demonizzazione della dea
Aurora): Déesses latines et mythes vécliques, 1956, pp. 34-37.
§ 11. DIE, pp. 22-23. § 12. Gli attacchi più vivi sono venuti
dai latinisti della scuola primitivi- sta; vedi a proposito di H.J. ROSE,
RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e Déesses latines..., 1956, pp. 118-123. I
germanisti ostili hanno in generale preferito “ignorare”; tuttavia ho
recentemente avuto una gradevole discussione - la prima - con K. HELM, BGDSL,
77, 1955, pp. 347- 365; 78, 1956, pp. 173- 180. Un grande numero di
«risposte alle obiezioni» si trovano disseminate nelle prefazioni, note e
appendici dei miei libri. Le ultime in ordine di tempo che hanno un
valore generale sono; «Examen de criliques réccnles; John Brough, Angelo
Brelich», RHR, CLII, 1957, pp. 8-30. § 13.1 latinisti che
dissertarono su Quirino dimenticano solitamente Vo- fionus che riduce di
troppo la loro libertà d’ipotesi. Perla triade umbra
vedi «Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium», RP, XXVIII, 1954,
pp. 225-234 e «Notes sur le début du riluel d’Iguvium», RHR, CXLVII,
1955, pp. 265-267. La triade romana è comparsa proprio a
fornire il titolo comune degli studi sulle tecnologie trifunzionali
indoeuropee, pubblicati dal 1941 al 1948. § 14.
L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un articolo
che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des
flami- nes majeurs», RHR, CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in
seguito JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp.
72-101. § 15. Contro il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ
it., pp. 191-217) e Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR.,
pp. 71-76 (= JMQ it. pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio
dei prima, di tutti i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei
summit): DIE, pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR,
CXXXVIII, 1951, pp. 209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia.
La spiegazione del complesso Quirino è stata formata in tre tempi: 1)
JMQ, pp. 72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ it„ pp. 49-53, 58-66,
101-104); 2°), NR, pp. 194-221 (=JMQ it., pp. 264-285) e Tarpeia, pp. 176-179; 3°) JMQ, pp. 155-170 (specialmente pp. 167, 169 e n. 2, 170).
Vedi anche L. GERSCHEL, «Saliens de Mars et Saliens de Quirinus»,
RHR, CXXXVIII, 1950, p. 145-151. Ho sostenuto numerose discussioni,
special- mente: «La triade Jupiter-Mars-Janus?», RHR, CXXXII, 1946, pp.
115-123 (con V. Basanoff); REL, XXXI 1953, pp. 189-190 (con C. Koch);«A
propos de Quirinus», REL, XXXIII, 1955, pp. 105-108 (con J. Paoli);
«Remarques sur les armes des dieux de troisième fonction», SMSR, XXVIII,
1957, pp. 1-10
(con A. Brelich). Generalmente ogni nuovo avversario non tiene alcun
conto delle risposte fatte ai precedenti; è ancora il caso di J. BAYET,
Histoire psychotogique et historique de la religìon roinaine, 1958, p.
118 (che tratta anche della triade romana JMQ senza considerare la triade
umbra di Jupiter Mars Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino,
le considerazioni nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un
senso più profondo e una data più antica di quanto non si facesse
generalmente (vedi «La bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication
de l’histoire romaine» Annales, Economie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952, pp.
145-154). Sulle etimologie proposte per Vofionus, vedi RP, XXVIII, 1954, p.
225, n. 4 e p. 226, n. 1; la spiegazione con *leudhyono- sitrova in
Pisani «Mytho-etymologica», Rev. desEtudes Indo-Européennes (Bucarest),
I; 1938, p. 230-233 e in BENVENI- STE, «Symbolisme social dans les cultes
gréco-italiques», RHR, CXXIX, 1945, pp. 7-9. § 17. Una
questione connessa è quella della realtà o della non realtà di una
componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto al nostro
punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti storici, e in
più, una risposta affermativa non genererebbe affatto l’interpretazione
funzionale delle leggende sulle origini, di cui bisognerebbe solamente
ammettere (la qual cosa è ordinaria) che presentano l’avvenimento
«ripensato» in un quadro ideologico ed epico preesistente, tradizionale; ma è
anche chiaro che questa interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo
non rinforza la tesi dell’autenticità storica del sinecismo originale che
incontra diverse difficoltà. In L’heritage, si troverà riassunta la lunga
discussione del capitolo III di NR («Latins et Sabins, histoire et myhte»
non tradotta in JMQ it.: vedi p. 263), condotta principalmente in
funzione della tesi di A. PlGA- NIOL, Essai surlesorigines de Romei 1915)
che dominava allora gli studi. Da quattordici anni che questa discussione
è stata pubblicata ho letto molte affermazioni calorose, arroganti e irritate
sulla presenza sabina lontana dalla fondazione di Roma, ma non ho visto
segnalare alcun fatto archeologico che non fosse già stato prima
esaminato e che facesse pendere decisamente la bilancia; cf. JMQ IV, p. 182
(sugli argomenti che si sono voluti demandare alla strana disciplina
della «geopolitica») e RE XXXIII, 1955, pp. 105-107 (su un curioso
argomento che J. Paoli ha creduto di poter ricavare dalla triade umbra). Quanto
a me, continuo a trovare soddisfacente nel suo principio la spie-
83 gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo
latino-sabino da T. MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti.
Schr. IV, pp. 22-35. In una memoria intitolata «Céramiques des premiers
siècles de Rome, VIII-V siècles», manoscritto che si trova analizzato nei
Comptes Renclus de l’Académie des Inscriptions, 1950, p. 287-295, F.
Villard si è pronuncialo per l’omogeneità della popolazione romana
dell'ottavo secolo. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi JMQ,
pp. 144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella
citazione di Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus,
1953, pp. 109-110. Per la triade
«Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs cultes de la Regia, les trois fonclions et
la triade JMQ», Latomus. Per la triade «Jupiter, Mars, Flora
(o Vcnus)», vedi Rituels..., p. 54 e p. 60, note 37-40. Per Romolo-Remo
come corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre
l’utilizzazione delle tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di
Martianus Capella è stata esaminala in «Remarques sur Ics trois premières regione
s erteli de Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder- memn)
1956, pp. 102-107. § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue
ricerche a una visione strutturale delle religioni germaniche. Quando è
uscito MDG, 1939, egli avvertì la parentela della mia concezione e della sua e
la complementarietà dei nostri argomenti. Da allora, benché divisi su
qualche dettaglio, siamo d’accordo, credo, su tutte le maggiori
questioni: che ci si riporti alle sue chiare, obiettive c generose esposizioni
del suo Altgermanische Relìgionsgestiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai
suoi articoli: «Dcr heutige Stand der gcrmanischen Rcligionsforschung»,
Gemi. - Roman. Monatsschrift, N.F., II, 1951, pp. 1-11 ; e «L’élat
acluel dcséludes sur la rcligion germanique», Diogene, 18, aprile 1957, pp.
1-16; altri articoli che toccano le questioni qui trattale: «La valeur
religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314, 1952, pp. 18-27; «Die
Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol. Stand., 1952, pp.
172-180; «La loponymiect l’hisloire des religions»,RHR, CXLVI, 1954, pp.
207-230; «Uber das Wort Jarl und seine Vcrwandlen», NC, VI, 1954, pp.
461-469. Nell’opera collettiva Deutsche Philologie ini Aufriss, Miinchen,
1957, la sezione «Die altgermanische Religion» (col. 2467-2556),
redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e specialmente scandinavo,
un’eccellente interpretazione, originale c ripensata, nel quadro che io
ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo stesso schema: «L’élymologic
du terme germanique *ansuz, dieu souverain», Études Germuniques, 1953,
pp. 36-44 e «La religion germanique primitive, rcflccl d’une slruclurc sociale»,
Le Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1 miei MDG, oggi felicemente esauriti, hanno
sofferto di essere stali pubblicati agli esordi delle ricerche sulla
tripartizione indoeuropea: non era che una prima vista d’insieme e un programma
carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle quali si sono verificate c altre
no; presto pubblicherò una seconda edizione interamente rimaneggiata. Non
ho qui ancora il posto per esaminare la teologia dei Germani continentali
(specialmente Tacito, Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio
c Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn bisogna
aggiungere l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R.
Otto, 1932): vedi J. De Vries, op. cit., II, § 405. § 21.
Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini di
Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione
in «giganto- machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8,
1924, e la presentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142. §
23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23. PerglidèigallidiCesaree i
loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti (in ogni caso molto
alterati) con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR, pp. 22-27 eP.-M.
DuvaL, Lesdieux de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33, 94. R. JAKOBSON
ha tentato di interpretare nel quadro delle tre funzioni il poco che si conosce
degli dèi slavi: art. «Slavic Mythology» in Funk and
Wagnalls StandardDictionary pfFolklore, II, 1950, pp. 1025-1028. Sembra che
il paganesimo dei Baiti possa essere un giorno favorevole alla nostra
inchiesta. § 24. Sulla tripla titolatura di Alena alle Panaatenec,
vedi F. VlAN, La guerre dea géants, le mytheavant l’époque hellenistique,
1952pp. 257-258. § 25. Su SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome
triplo di Anàhità, vedi Tarpeia, pp. 55-66; H. Lommel ha trovato indipendemente
la corrispondenza Sa- rasvatl-Anàhità c l’ha pubblicata in Festschr. F.
Weller, 1954, pp. 405-413. Per i dati latini, irlandesi e germanici vedi
«Iuno, S.M.R.», Eranos, LII, 1954, pp. 105-119 e «Le trio des Macha» RHR.
L’esplorazione di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo indoeuropeo
implica tre compiti molto considerevoli, a tult’oggi progrediti in maniera
assai discontinua. Non è stalo possibile giungere rapidamente a risultati
sistematici che al primo livello. Se importanti aspetti del secondo e del
terzo sono stati determinati in breve tempo, essi non sono tuttavia che
un insieme strutturalo ancora in fase di approfondimento. Non si è potuto
dunque fare altro che dare per essi degli orientamenti generali e, sopratutto,
delle indicazioni sui metodi di lavoro. Varuna e Mitra, ASa e
Vohu Manah Il principio fondamentale intorno a cui si
organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia della prima funzione è già
stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che
sono state confrontate, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e Varuna, che
la rappresentano, ed c ancora questa coppia che presuppone la coesistenza di
due figure, il «Buon Pensiero» e 1’«Ordine», che gli corrispondono in
testa alla lista delle entità sostituite da Zoroastro agli dèi
funzionali. Questa dualità è stata spiegata in molte maniere dai
commentatori indiani e dalle diverse scuole mitologiche degli ultimi cento
anni. Attualmente è stata fatta luce su ciò che in parte si può dedurre
dai loro stessi nomi: se la parola Veruna, apparentata o no al greco
oùpavóq, wpavoq, resta oscura (la si è interpretata con radici che
significano «coprire», «legare», «dichiarare»), al contrario, Mitra è
sicuramente, come ha spiegato Meillet in un celebre articolo (1907), per
la sua etimologia, il Contratto personificato. Nella grande maggioranza
dei casi, tra questi dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè
con una forma grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti
non fanno differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari solidali
del più grande potere, e quando non nominano che uno dei due, non si
fanno scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attributi di
questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia della
funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, costituisce per
gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo piano nella
credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente, anche nel
lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il poeta o il
liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere i due dèi
per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà. In tale caso
le diverse immagini che appaiono sono tutte dello stesso senso: Mitra e
Varuna sono i due termini di un gran numero di coppie concettuali e di
antitesi, la cui sovrapposizione definisce due piani, ogni punto del
piano potremmo dire, richiamando sull’altro un punto omologo; e queste
coppie tanto diverse possiedono tuttavia un’aria di parentela così netta
che di ogni nuova coppia assegnata all’insieme si può provare a colpo sicuro
quale sarà il termine «mitria- co» e quello «varunjco». Fra
le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà difficile estrarne una
da cui il resto può essere derivato e senza dubbio questo tentativo, una
volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto meglio procedere a un
breve inventario, osservando e definendo l’antitesi in rapporto alle
principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5). Quanto ai loro
domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è vicino
all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si ritrova
nettamente fra le Entità zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°);
passando al limile, dei testi affermano che Mitra è questo mondo mentre
Varuna Valtro mondo, come è certo che ben presto Mitra rappresentò il
giorno e Varuna la notte. Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali
del soma e del fuoco, mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche.
Nelle modalità d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto» e
stabilisce tra gli uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago,
signore della màyà, la magia creatrice delle forme, e in possesso dei «nodi»
con cui «afferra» i colpevoli con una presa irresistibile.
Nondimeno essi si oppongono per il foro carattere : l’amichevole Mitra è
benevolo, dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna è impietoso,
violento, a volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applicazioni illustrano questo
teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che è cotto a vapore, a
Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il soma
inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò che
è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc.. Tra le
funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha più affinità
per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guerra e la conquista,
tra le province stesse della sovranità, Mitra è piuttosto - come diceva con
qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il potere spirituale, mentre
Varuna è il potere temporale, in lutti i casi rispettivamente il brdhman e lo
ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.) ha anche scoperto nel Riveda
un’affinità differente, di Varuna per l'élite e di Mitra per la massa, il
popolo comune. I sovrani Mitra e Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed
è attuale sia l’uno che l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il
nome di Varuna, ciò non avviene perché egli è «in procinto» di prendere
un’importanza maggiore rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché,
semplicemente, la specificazione magica e inquietante della sua azione sollecita
all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro dominio del
giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c mai
conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una costante
collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora indo-iranico, ha
fornito la chiave per qualche difficoltà o enigma delle mitologie
occidentali. A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e patriottico, in
cui il cosmo e le sue diverse parti richiedono attenzione e riflessione
solo nella misura in cui possono essere utili o nocive all’ Urbe, non ci si può
aspettare di osservare la bipartizione nelle sue generalità. La lontananza
del cielo, l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i Romani
totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue specificazioni,
la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica “dius”, “dius fidius”
-- il dio luminoso e garante della fides, della lealtà e dei giuramenti --
non è più che un aspetto di Jupiter, è vero che sembra esservi stata
tutt’altra situazione nei primordi. Certo, i due dèi erano strettamente
associati e il nome del primo flamine e più vicino a “dius” che a “jupiter”.
Ma il dominio strettamente giuridico che “dius” si accolla, nella sovranità,
porta a considerare il resto – gl’auspici su cui Roma vive, la direzione
mistica della politica romana, i miracoli salvifici della storia romana -- come
più propriamente caratteristici del suo grande socio. Allo stesso
modo, nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una specificazione
nettamente mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli appartengono,
mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica di “jupiter”,
“summanus”. È probabile che questa teologia complessa abbia
risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso
tempo, della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la
creazione del suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade
«Jupiter O.M, Giunone Regina, Minerva» all’antica triade «Jupiter, Mars,
Quirinus». Lo “jupiter” del Campidoglio sembra essere stato quasi subito
imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé tutta la sovranità;
ma forse i due piani tradizionali complementari sono ancora segnalati
nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” -- cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè
il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono
questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia
vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E Tyr Ma è nel
mondo germanico che l’analogia indiana è particolarmente illuminante. Né
«Mercurio» (cioè *Wópanaz ) nella Germania di TACITO (vedasi), né Ódinn
nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino a loro vi è quello
che Tacito, per delle ragioni comprensibili e interessanti, chiama Marte (cioè
*Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Questo dio, omonimo del vedico Dyauh e
del greco Zeus, e che al pari di questi due o del Dius Fidius latino
evoca l’idea del cielo luminoso, è generalmente considerato nei suoi
rapporti con *Wópanaz come un dio più antico, impallidito di fronte a un
nuovo venuto. Benché sia strano che, a otto o dieci secoli di distanza,
Tacito da una parte e i poeti scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e
registrato, proprio allo stesso stadio, l’avanzamento di uno e
l’arretramento dell’altro, le considerazioni comparative ci incoraggiano a dare
un senso strutturale a questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio
eclissato a causa dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per
cui Mitra, teoricamente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei
poeti e come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini
hanno più attenzione per la sovranità magica che per quella
giuridica. La grande originalità del mondo germanico è quella
segnalata da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte.
Essa perviene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in
cui abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione guerriera.
La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo definisce
(Gylfaginning). «Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È molto
intrepido e coraggioso, ha un grande potere sulla vittoria in battaglia. Perciò
è bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono più coraggiosi
degli altri e che non hanno paura di niente, si dice proverbialmente che sono
figli di Tyr » Questa «marzializzazione» del sovrano giurista dei
Germani non è senza analogia con quella che a Roma ha fatto di Quirino,
dio canonico della terza funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle
opere di pace, una varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale ha
reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con la riforma di Servio - i
Quiriti hanno coinciso coi milites e sono diventati «i militi in congedo
tra due appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso il Mars
tranquillus, il Mars qui praeest paci aspettando di saevire. In altre
condizioni, meno formali e più violente, le società germaniche antiche hanno
esteso all’amministrazione dei tempi di pace i quadri della guerra e
l’hanno riempita dei costumi e dello spirito guerriero. A Roma 1 ’exercitus
urbanus che costituiva l’assemblea legislativa, si riuniva al Campo di Marte ma
senza armi. Che si rileggano, al contrario, i passi coloriti in cui TACITO
(vedasi) (Germania) descrive il Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le
loro bande, le armi brandite o battute in segno di voto, le forme tutte
militari del prestigio e deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si
formulava il diritto e si regolavano i processi. Qualche secolo più tardi
l’antichità scandinava non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci
si riunisce in armi, si approva alzando la spada o l’ascia o battendo la
spada sullo scudo. Non è dunque sorprendente che il dio al centro di
queste riunioni giuri- dico-gueiTiere, erede del dio giurista
indoeuropeo, rivestisse l’uniforme dei suoi ministri e li accompagnasse nel
loro passaggio, facile e costante, dalla giustizia alla battaglia e che
gli osservatori romani lo avessero considerato come un Marte. Alcune
dediche trovate in Frisia sono rivolte a un Mars Thincsus che compie
l’esatto legame tra lo stato indoeuropeo probabile e il risultato
scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel Tyr di cui è stato notato che il nome
segnala, nella toponimia, gli antichi luoghi del Ping. Sembra
inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli antichi Germani abbiano così
riconosciuto, a parte ogni questione dell’apparalo guerriero, l’analogia
profonda tra la procedura del diritto - con le sue manovre e le sue
astuzie, con le sue ingiustizie senza appello - e il combattimento
armato. Ben utilizzato, il diritto è un mezzo per essere il più forte e
per ottenere vittorie che spesso eliminano l’avversario così radicalmente
come in un duello. Quando si dice che Tyr, in seguito a un’astuzia giuridica,
per aver rischiato la sua mano destra come pegno di un’affermazione utile
ma falsa, « è divenuto monco e non è chiamato pacificatore di uomini»,
non si tratta che della controparte, del completamento morale di un fatto
materiale: la riunione del Ping in armi, con intenzioni di potenza (più
che di equità) che vede la guerra in ogni luogo. Queste
indicazioni molto generali aiuteranno a comprendere come un Tiuz-Mars abbia potuto formarsi a partire da
un dio indoeuropeo il cui dominio specifico era il diritto e il cui carattere
si è purificato e moralizzato, aiutato dalla civilizzazione progressiva.
5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e Bhaga vicino a
Mitra Ma negli inni del Rgveda il giurista Mitra e il magico
Varuna, benché sembrino dividersi equamente il dominio della sovranità,
non sono isolati. Essi non sono che quelli più frequentemente nominati
dal gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi, la Non-Legata, cioè la
Libera, l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e delle funzioni degli
Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di menzione di
ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e del loro
legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la struttura che disegnano.
Non è qui possibile beninteso riassumere molto brevemente queste
analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono stati pubblicati in due
tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura epica è conservato il
ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due principali tra loro, vanno a
coppie e in seguito arriveranno sino a dodici. Nel Rgveda sembra che vi
sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di seie una prima
estensione a otto, per addizione di due dèi eterogenei. Di questi
sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia; di ognuna delle altre due coppie è
facile vedere che un termine agisce sul piano e secondo lo spirito di Mitra,
mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agisce sul piano e secondo lo spirito di
Varuna, di modo che è legittimo e comodo chiamare queste figure
complementari «sovrani minori». Ma questa cifra di sei sembra essere
stata estratta, per ragioni di simmetria, da un sistema più breve di quattro
dèi sovrani, in cui il sovrano «vicino agli uomini» Mitra, aveva solo due
assistenti, mentre Varuna rimaneva solitario nelle sue lontananze. I nomi
e le distribuzioni di questi Àditya primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman +
Bhaga; 2) Varuna. Il principio della stretta associazione di Aryaman,
Bhaga, Mitra, provato dalle statistiche delle menzioni simultanee, è semplice:
ognuno di questi dèi esprime e precisa lo spirito di Mitra su ognuna
delle due province che i nteressano 1 ’ uomo, quelle che il diritto
romano ritroverà con un altro orientamento, più individualista,
distinguendo le perso- nae e le res. Sotto Mitra, il cui nome e il
cui essere definiscono il tono e il modo generale d’azione che si conosce
(giuridico, benevolo, regolare, orientato verso l’uomo), Aryaman si
occupa di preservare la società degli uomini ari a cui deve il suo nome,
mentre Bhaga, il cui nome significa propriamente parte, assicura la
distribuzione e il godimento regolare dei beni degli Arya. 6.
Aryaman Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no
politicamente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li
protegge non in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli
aspetti principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti:
1 ) Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrattuali
tra Arya. È il «donatore», protegge il «dono» (il che lo obbliga a
interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme
complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der
Frenullinx im Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto di
farne il centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il
resto. Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matrimoni: c
pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti
(subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciulla giovane
o una donna per il celibe (A V ). La sua preoccupazione per i cammini e per la
libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui il cui cammino non può essere
interrotto»; RV) non deve essere negata o minimizzata come è stato fatto da B.
Geiger, H. Giintert c P. Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di
strofe di inni e da un lesto liturgico che lo definisce come il dio che
permette al sacrificante «di andare ove e^li desidera» e di « circolare
felicemente » ( Tait- tir.Samh., II-, 3, 4, 2). 2) La sua
cura nei riguardi degli Arya ha anche un aspetto liturgico: nei tempi antichi è
lui che ha munto per la prima volta la Vacca mitica e di conseguenza, nel
corso dei tempi, si tiene a fianco dell’officiante e munge la Vacca
mitica insieme a lui (RV, 1,139,7, col commento di Sàyana). A lui si
domanda anche (RV, VII, 60, 9) di espellere sacrificalmente dall’area
sacrificale, tramite delle libagioni (uva-yuj-), i nemici che ingannano
Varuna. Poco curiosi dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano
di un’altra forma di servizio che è, al contrario, la sola di cui
l’epopea conservi un ricordo molto vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro
mondo Aryaman presiede il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome
chiarisce abbastanza l’origine: sono infatti una rappresentazione degli antenati
morti, e Aryaman è il loro re, che prolungano così nel posl-mortem la
felice promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il cammino che porta
presso i Padri, riservato a quelli che durante la propria vita hanno
praticato esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è
chiamato «il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata). 7. Bhaga
Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a lui che
ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una parte (RV,
VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo nominano o che
impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha permesso di constatare che
questa parte è dotata di qualità richieste alla metà dell’amministrazione
sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare, prevedibile, senza sorprese,
giunge a scadenza perlina sorta di gestazione (il bambino pronto perla nascita
«rut> giunge Usuo bhd^a»: RV, V, 7, 8); essa è il risultalo di
un’attribuzione senza rivalità, implicante un sistema di distribuzione
(verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco Sou|.iov); infine è
acquisita e conservata nella calma, è la retribuzione degli uomini
maturi, assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11
; IX, 97, 44). L’altra varietà della parte, imprevedibile, violenta,
«varunica», che si conquista con la battaglia o con la corsa, è designata
da un’altra parola che sin dai tempi indo-iranici aveva una risonanza
combattiva e che ha giustamente fornito ai teologi vedici il nome del
«sovrano minore varunico» simmetrico di Bhaga, Amsa. 8.
Trasposizione zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa e A$i
Abbiamo la certezza che questa struttura era già indo-iranica: come
in Iran la lista degli dèi canonici delle tre funzioni è stala sublimata dallo
zoroastrismo puro in una lista di Entità che gli corrispondono termine per
termine (vedi II § 8); così gli dèi sovrani minori associati a Mitra hanno
prodotto due figure complementari non comprese nella lista canonica delle
Entità, ma vicine, le cui statistiche dei ruoli mostrano l’affinità
esclusiva dell’una rispetto all’altra, e di tutte e due rispetto a Vohu
Manah (sostituito di Mitra); e anche nei testi in cui questo dio
ricompare, in relazione a MiGra, mentre niente lo lega ad Asa (sostituto
di *Varuna). In più, per il loro nome come per la loro funzione, queste
due Entità - Sraosa, VObbedienza e la Disciplina, e Asi, Retribuzione -
sono ciò che ci si può attendere da un Aryaman o da un Bhaga ripensati
dai riformatori. E facile vedere punto per punto che Sraosa è per la
comunità dei credenti ciò che Aryaman era per la comunità degli Arya, la
chiesa che rimpiazza la nazionalità. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la
personificazione «derfrommen Gemeinde», il termine «genio protettore»
sarebbe più esatto ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è
«capo nel mondo materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e
materiale» {Greater Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria) presiede
all’ospitalità come già faceva l’Aryaman vedico (e già indo-iranico; cf.
persiano èrmdn, «ospite», da *airyaman), quando è concessa, si sa,
all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII, 14 e 34). Se
non lo si vede più occupato, specialmente delle alleanze matrimoniali e della
libera circolazione sui sentieri, nondimeno la sua azione sociale sulle
anime è precisata: egli è il patrono della grande virtù della vita in
comune, di quella che assicura la coesione, cioè la giusta misura, la
moderazione ( Zdtspram); è anche il mediatore e il garante del famoso patto
concluso tra il Bene e il Male (Vasi XI, 14) e il demone che gli è
personalmente opposto è il terribile Aesma, il Furore, distruttore della
società ( Bundahisn). Rimane una precisa traccia mitica della
sostituzione di Sraosa a un dio protettore degli Arya: secondo il Menók
iXrat, XLIV, 17-35 è lui il signore e il re del paese chiamato Eràn vèz.
(avestico Airyanam vaèjò), quel soggiorno degli Arya da cui, dice l’A
vesta, sono venuti gli Iranici ( Vidèvdat, I, 3). 2)11 ruolo
liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato in Sraosa: Yasna LXII,
2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e cantare gli inni e tutto
l’inizio del suo Yast (XI, 1-7), unicamente consacrato 96
all’elogio della preghiera e all’ esaltazione della loro potenza,
si giusti- fica per questo ricordo. Simmetricamente, alla
fine dei tempi, al tempo del supremo combattimento contro il Male, è
Sraosa che sarà il sacerdote assistente nel sacrificio in cui Ahura Mazda
stesso sarà l’officiante principale (.Bunclcihisn). Infine, come
l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della dimora in cui vanno -
attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti che hanno correttamente
praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruolo decisivo nelle notti che
seguono immediatamente la morte: egli accompagna e protegge l’anima del giusto
sui sentieri pericolosi che la conducono al tribunale dei suoi giudici,
di cui egli stesso è parte {Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.). Asi è
sempre una «distribuzione» come lo era Bhaga ma la nuova religione, che
conferisce più importanza all’aldilà che al mondo dei viventi, gli domanda
soprattutto di vegliare sulla giusta «retribuzione» post-mortem degli
atti buoni o cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c palesemente
nei testi post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei suoi
meriti, non dimentica nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di
riempire la sua casa di beni. L’analisi di questa concezione,
già indo-iranica, della sovranità che non altera la grande bipartizione
ricoperta dai nomi di Mitra e Va- runa, ma dona solamente a Mitra due
assistenti che l’aiutano a favorire il popolo arya, illumina una
particolarità della religione romana di Ju- pitcr che sfortunatamente è
conosciuta solo nella forma capitolina di questa religione. Jupiler O.M,
in cui si concentra tutta la sovranità, sia quella «diale» che quella
propriamente «gioviana» (vedi sopra § 3), ospitava in due cappelle del
suo tempio due divinità minori, Juvenlas e Terminus. Una
leggenda giustificava la coabilazione singolare di questi tre dèi
facendola risalire alla fondazione del tempio capitolino, ma questa
leggenda (che utilizzava del resto un vecchio tema legalo al concetto di
Juvenlas) non prova evidentemente che l’associ azione fosse più antica.
L’analogia indo-iranica ci incoraggia a considerarla come
preromana. Infatti, secondo degli slittamenti tipici della società romana,
Ju- ventas e Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli comparabili
a quelli di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice la
leggenda eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la stabilità sul
suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la durata e Bhaga la
stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da questa
leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto questo: Juventas è
la dea protettrice degli «uomini romani» più interessanti per Roma, gli
iuvenes, parte essenziale e germinati va della società; Terminus garantisce la
spartizione regolare dei beni, dei beni sopratutto immobili, catastali,
appezzamenti di terreno, non delle greggi erranti che presso i nomadi
indo-iranici o tra gli indiani vedici costituivano la ricchezza essenziale. Nel
mondo scandinavo un tale schema di sovrani minori non si è ancora
lasciato identificare, al momento. Non è che intorno a Ódinn non vi
fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di loro, non avessero avuto
l’incarico di esercitare dei frammenti specializzati della sovranità, ma queste
specificazioni e l’analisi della funzione sovrana che suppongono sono
originali e i loro rappresentanti non hanno omologhi indo-iranici e neppure
romani. Vi è Hoenir, riflessivo e prudente e che secondo la fine della
Vòluspó è proiezione mitica di una sorta di sacerdote; vi è Mimir,
consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che rimane pensante e parlante anche
dopo la sua decapitazione; oppure Bragi patrono della poesia e
dell’eloquenza. Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili
e Vé, sicuramente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in
scandinavo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma
si conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e
tutt’altra soluzione sarà proposta più avanti. 11. Condizioni
dello studio teologico della seconda e TERZA FUNZIONE I
procedimenti di analisi e di statistica che hanno permesso di dispiegare
e di esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente e poi
progressivamente nell’organizzazione intema della teologia della prima
funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e al
momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dubbio questa
differenza è propria della natura delle cose; per i suoi stessi concetti
(i nomi dei personaggi divini sono in gran parte etimologicamente chiari e
molti sono delle astrazioni animate) la prima funzione si prestava
facilmente alla riflessione psicologica e non bisogna dimenticare che i primi
filosofi, appartenenti al personale di questa funzione, erano dei sacerdoti e
non potevano evitare di applicarvi con predilezione la loro analisi. La
controparte è che nel Rgveda questa teologia così ben sviluppata non si
raddoppia in una mitologia ricca in proporzione: di Mitra non è quasi
«raccontato» niente; di Varuna si dice molto di più, ma la lista delle
scene in cui interviene è ridotta e in generale si tratta di potenze e
qualità degli dèi sovrani più che della loro storia, del loro tipo
d’azione piuttosto che di azioni precise compiute da loro. Al
contrario, la funzione guerriera e la funzione di fecondità e prosperità
si basano in gran parte su immagini: più che grazie a dichiarazioni di
principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei famosi benefici
che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi taumaturghi. Così
queste due province divine sono più adatte a degli sviluppi mitologici che a
una messa a fuoco teologica; o forse è meglio dire che la dottrina si
abbellisce, si dissimula e si altera sotto il rigoglio dei
racconti. Per il comparatista questa differenza comporta grandi
conseguenze. Senza che questo fatto capitale sia stato ancora pienamente
enunciato, il lettore ha già potuto osservare che è il confronto delle religioni
vedica e romana il più adatto a stabilire o suggerire, grazie al
conservatorismo della seconda, dei fatti indoeuropei comuni, mentre la
religione scandinava non interviene che a titolo di conferma dopo che il
percorso comune è già stato riconosciuto e assicurato. Ora, allo
stato delle nostre conoscenze, la religione romana presenta ancora una teologia
ben costituita: nel raggruppamento «Jupiter Mars, Quirinus» o nel
raggruppamento trasversale di «Jupiter, Juventas, Terminus», essa ha registrato
coscientemente delle articolazioni concettuali molto chiare.
Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere che la religione romana non è
più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza Roma, i suoi
dèi - e questa volta non solo gli dèi sovrani, ma anche Marte, Quirino,
Ops, eie. - sono stati spogliati di ogni racconto e limitati
asceticamente alle loro essenze, alla loro propria funzione. Se dunque (per la
determinazione del quadro generale tripartito e per l’esplorazione dei
primo livello) il confronto di una teologia vedica facilmente determinabile, e
di una teologia romana immediatamente conosciuta, ha permesso i risultali netti
coerenti, c sempre più completi che si sono appena letti, la stessa cosa non
avviene quando si passa ai due livelli seguenti. India o i
Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della propria natura che mediante
delle avventure alle quali Marte e Quirino non corrispondono, se non per
mezzo della loro scarna definizione c per ciò che è possibile intravedere
dalle dottrine e dai culti dei loro sacerdoti: i documenti e i linguaggi delle
due religioni che sono i principali sostegni del comparatista non si combinano
più. Mitologia ed epopea La difficoltà sarebbe probabilmente
irriducibile senza un altro fallo, ancora più importante per i nostri
studi, di cui i precedenti capitoli del presente libro hanno già discretamente
fornito qualche esempio. Le idee di cui vive una società non danno luogo
solamente a delle speculazioni o a immaginazioni relative agli uomini. La
teologia e la mitologia sono raddoppiate dalle «storie antiche»,
dall’epopea in cui degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei
principi che gli dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da
loro. Certo, ben altri fattori contribuiscono alla formazione dell’epopea
di un popolo, ma è raro che questa non abbia avuto, in alcuni dei suoi
grandi temi c dei suoi primi moli, un rapporto essenziale con l’ideologia
che dirige le rappresentazioni divine dello stesso popolo. Per i nostri
studi comparativi indoeuropei questa felice circostanza gioca a nostro
favore in due maniere: la seconda è stata da me riconosciuta nel 1939, mentre
la prima è stala scoperta nel 1947 dal mio collega svedese Stig Wikander.
Da una parte, la più grande epopea indiana, il Mahàbhcirata,
sviluppa le avventure di un insieme di eroi che corrispondono parola per
parola ai grandi dèi delle tre funzioni della religione vedica e prevedrà, di
modo che l’India presenta, con questo enorme poema c col Riveda,
lina doppia edizione rispondente, a due differenti bisogni e con
sensibili varianti, alla sua «ideologia in immagini». Dall’ altra parte, se
Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha ridotto i suoi esseri
teologici alla loro scarna essenza, ha conservato al contrario, per costituirla
in seguito, la storia meravigliosa e ragionevole delle proprie origini, un
antico repertorio di racconti umani, colorati e molteplici, paralleli a quelli
che avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le raccolte mitiche
degli dèi. Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in
storia da Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea preromana
e italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe perduto senza
traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra tesi possono trovare
argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il comparatista questa discussione
non incide: in ogni caso, il primo libro di Tito Livio contiene una
materia ideologicamente conforme al sistema degli dèi romani e drammaticamente
comparabile all’epopea e alla mitologia dell'India. Per tentare di guadagnare
qualche chiarimento sui dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della
seconda e terza funzione è dunque necessario introdurre questi nuovi elementi
nel lavoro comparativo. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S.
Wikander Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il
Mahàbhdra- ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo
di cinque fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli tratti
notevoli presentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti c
cinque, Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo
regime di poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya
ma attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito
per più di un secolo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito la
soluzione soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di tutto
l’intrigo del poema. In realtà i «figli di Pàndu» non sono i
suoi figli. Sotto il peso di una maledizione che lo condanna a morte nel
momento in cui compirà l’alto sessuale, Pàndu si assicura una posterità
con un procedimento eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in seguilo
ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito: le era
sufficiente invocare un dio perché questo sorgesse immediatamente davanti a lei
e le donasse un figlio. Dietro preghiera di suo marito invoca dunque
in successione diversi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono
Dharma, «la Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il vecchio
concetto del giurista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.
I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna. Suo
marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie, di
questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri prende
dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati i due
inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ultimi dei cinque
«figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò ben presto che la
lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin - riproduceva
nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi dei tre
livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che
rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al
secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora
più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri
doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni
epiche dei figli, come in effetti accade. Yudhisthira è il re,
mentre gli altri Pàndava sono solamente degli ausiliari; un re giusto,
virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza specialità o virtù guerriere,
come si conviene a un rappresentante della «metà di Mitra» della
sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme.
Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori
dei loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la
grande virtù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente le due
classi superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve
immediatamente in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza
aberrante ma della trasposizione epica della concezione vedica,
indo-iranica e prima ancora indoeuropea, che completa la lista degli dèi
maschi, tra i quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni, con
una dea unica ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la vedica
Sarasvatl che comprende in se stessa la sintesi delle tre funzioni. Sposando
DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due gemelli servizievoli,
l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125 formulava quando faceva
proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl): «Sono io che sostengo
Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sostengo i due Asvin», o che ancora
si ritrova nella triplice titolatura (con un’ulteriore specificazione
della terza funzione) della principale dea dell’Iran, «l’Umida, la Forte,
l’Immacolata». Questa scoperta è stala il punto di partenza di un’
esplorazione di tutto il poema, soprattutto dei primi libri (che
precedono la grande battaglia) ed è stata certamente chiamata a rinnovare
i nostri studi: per la sua abbondanza, la sua coesione e la sua varietà,
la trasposizione epica permette, partendo dal sistema trifunzionale, da
ogni funzione e dalle molte rappresentazioni connesse, uno studio più
profondo e più avanzato di quanto non lo permettesse l’originale
mitologico conosciuto sopralutto dalle allusioni dei testi lirici. D’altra
parte, sin dal suo articolo del 1947, Wikander ha stabilito un punto
molto importante: la struttura mitologica trasposta nel Mahàbhdruta è
sotto molti aspetti più arcaica di quella del Rgveda poiché conserva dei
tratti sfumali in questo innario ma che le analogie iraniche provano come
fosse indo-iranica. Per tale ragione uno dei primi servigi apportati da
questo nuovo studio è stato quello di rivelare nella funzione guerriera
una dicotomia che il Rgveda ha quasi completamente dimenticato a tutto
vantaggio di Indra. Infatti, come è già stato dimostrato da lavori
anteriori della scuola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi
prevedici, di due tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici,
BhTma e Arju- na, rendono possibile un’osservazione dettagliala e
certamente una parte dei caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere
restituiti a Vàyu per un periodo più antico. Questi due tipi sono
facilmente definibili in qualche parola. L’eroe del tipo Vàyu è una
sorta di bestia umana dotato di un vigore fisico mostruoso, le sue armi
principali sono le sue braccia, prolungale talvolta da un’arma che gli è
propria: la clava. Non è bello né brillante, non è molto intelligente c
si abbandona facilmente a disastrosi eccessi di furore cieco. Infine, opera
spesso da solo, fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore
designato, per cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei
demoni e dei geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un
uomo compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia
delle armi perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno
specialista delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e
soprattutto socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura
e generalissimo naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa
distinzione è conosciuta anche dall’epopea iranica, nella persona del brutale
Kó>rasàspa armato di mazza e legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo
dell’eroe più seducente come ©raètaona. In Grecia ricorda
l’opposizione tipologica di Ercole e Achille, ma soprattutto permette di
dare una formulazione più precisa, in Scandinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr
e più in generale a quelli della prima e seconda funzione. E stato segnalato,
nel secondo capitolo, che Ódinn si era annesso una parte importante della
funzione guerriera.Vediamo ora che si tratta principalmente (senza che la
discriminazione sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra rimane il dio
tuonante dello sconvolgimento atmosferico) della parte che presso gli
Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte di *Vàyu
era piuttosto quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero
delle spedizioni solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più
chiaramente se si considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a
ciascuno di questi dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr sono
belli, luminosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico «eroe di
Pórr» conosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza dei giganti,
un gigante ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale, errante e
solitario, vera replica scandinava di Bhlma o Ercole. 16.
Caratterizzazione funzionale dei Pàndava Nei primi libri del Mahàbhàrata i
poeti, sicuramente consapevoli di questa struttura, si sono cimentati nel dare
delle rappresentazioni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro
diverse maniere di reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due.
Nel momento in cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto
esilio che avrà fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno
la loro rivincita, il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il
volto col suo abito per non rischiare eli bruciare il mondo col suo
sguardo corrucciato». Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non
vi è uomo uguale a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le sue
braccia, inorgoglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro i
nemici un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna sparge la
sabbia «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro
i nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra:
Nakula, il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di
cenere dicendo: « Che io non possa mai trascinare sulla mia strada il cuore di
una donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si imbratta il
viso (II, 2623-2636). I cinque fratelli scelgono un mascheramento
per soggiornare in incognito alla corte del re Virata: Yudhisthira, eroe
della prima funzione, si presenta come un brahmano; il brutale Bhlma come
un cuoco-macellaio e un lottatore; Arjuna, coperto di braccialetti e
orecchini, come un maestro di danza; Nakula come un palafreniere esperto
nella cura dei cavalli malati, mentre Sahadeva come un bovaro, informato
di lutto ciò che riguarda la salute e la fecondità delle vacche.
Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono
interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzione nella
coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato
l’importanza del criterio qui rivelato. Sempre restando prima di
tutto degli abili medici che ignorano l’agricoltura (il che ci porta a
far risalire indietro di molto questa concezione), Nakula e Sahadeva si
dividono le due principali province deH’allevamento, riservandosi
rispettivamente l’uno la protezione delle vacche e l’altro quella dei
cavalli, che nel Rgvedu forniscono loro il loro secondo nome collettivo,
Aévin, un derivato di àsva, «cavallo». Abbiamo così il primo
modello delle formule che si osservano anche altrove a proposito degli
omologhi funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad
esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie
all’interno del genere «salubrità», sotto le acque e le piante; così pure,
almeno parzialmente, tra il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la
distinzione nell’uniforme beneficio dell’«arricchimento» si compie secondo le
due fonti della ricchezza, il mare e la terra. Si nota qui
chiaramente come la considerazione dell’epopea metta in risalto dei
tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il travestimento di
Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è arcaico e di un
arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il «danzatore» e i
suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut che si adorna il corpo
di ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da caviglia che li fanno apparire
come dei ricchi pretendenti. Comune alle più vecchie mitologie c alla sua
trasposizione epica, questo tratto è certamente da riconnetlerc all’insieme del
«Mànnerbund» indo-iranico. E forse, nello stesso ordine di idee, la
trasposizione epica lascia intravedere un aspetto che gli inni fanno passare in
silenzio e che riguarda la morale particolare di questi gruppi di
giovani, quando essa insiste sul carattere «effeminato» del travestimento
scelto da Arjuna. Pàndu e Varuna Progressivamente sono stale
individuate altre corrispondenze tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la
mitologia vedica c prevedica, sempre con lo stesso vantaggio che l’epopea,
narrazione ampia e continua, facilita in ogni caso l’analisi che, al
contrario, c infastidita dal lirismo degli inni c dalla loro retorica
dell’allusione. Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia
assente dalla trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore,
inattuale, morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina,
diviene re. Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del
suo figlio maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri
originali e improbabili che i libri liturgici e un inno attribuiscono anche a
Varuna; a uno di questi caratteri deve il suo nome: pàndu significa
«pallido, giallo chiaro, bianco», e infatti un incidente di nascita, o meglio,
del concepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la pelle insanamente
pallida o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi rituali come sukla
«bianchissimo» e atigaura «eccessivamente bianco». L’altro aspetto c di
più ampia portata: Pàndu c condannalo all’equivalente dell’impotenza sessuale,
condannato a perire (e così in effetti perirà) se compie l’atto d’amore;
ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV, IV, 4, 1 : rituale della
consacrazione regale) è presentato come uno divenuto momentaneamente
impotente, devirilizzato (evirazione che si fa a vantaggio dei suoi
parenti; il che ricorda il mito importante del greco Urano castrato dai
suoi figli). Il lavoro insomma è appena cominciato. Sia io che
Wikander speriamo di estrarre da questa riserva importante del materiale
abbondante e abbastanza chiaro per delucidare molte incertezze e
difficoltà che sono ancora irrisolvibili sul piano degli inni e per
fornire alla ricostruzione indoeuropea degli elementi privi di
ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia
delle tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano
non sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente
gerarchizzati; essi si succedevano nel tempo e progressivamente
costituiscono Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un
altro ordine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano «gioviano» semi-dio,
creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e poi sovrano
«diale», umano, pio, regolatore (prima funzione del tipo Mitra); 3) infine, un
re strettamente guerriero (seconda funzione). In più, il sovrano gioviano
non è altro che uno dei due gemelli sopravvissuto alla coppia ma
profondamente trasformato. Questa doppia singolarità schiude nuove
prospettive all’inchiesta comparativa ma inizialmente considereremo i
rappresentanti delle due prime funzioni che non implicano problemi
inediti. 20. Romolo e Numa e i due aspetti della prima
funzione Nella tradizione annalistica i due fondatori di Roma,
Romolo e Numa, formano un’antitesi abbastanza regolare, sviluppata nello
stesso senso di quella di Varuna eMitra nella letteratura vedica. Ogni
cosa si oppone nel loro carattere, nei loro fondamenti e nella loro
storia, ma in un’opposizione senza ostilità: Numa completa l’opera di
Romolo donando all’ ideologia regale di Roma il suo secondo polo,
necessario quanto il primo. Quando nel VI canto d t\VEneide
(VIRGILIO (vedasi), negli Inferi, Anchise li presenta tutti e due in qualche
verso al suo figlio Enea, definisce Romolo come il bellicoso semidio creatore
di Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore della potenza romana e
della sua Crescita continua (et huius, nate, auspiciis illa inclita Roma
impe- rium terris, animos aequabit Olympo)\ poi Numa come il
re-sacerdote portatore di oggetti sacri, sacra ferens, coronato di olivo
che fonda Roma donandogli delle leggi, legibus. Tutto si
ordina intorno a questa differenza - «l’altro mondo e questo qui» - in
cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa, equilibrano eccellentemente
gli auspicio, in cui l’uomo non fa che decifrare il linguaggio miracoloso
di Giove. Si verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due
tipi di sovrani ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di
Varuna e Mitra (vedi III, § 2). Ugual mente importanti, sia l’uno che
l’altro nella genesi di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella
stessa metà del mondo. Ingenuamente Plutarco mette nella
bocca del secondo, quando spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni
del rifiuto del regno, una osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si
attribuisce a Romolo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire
che è stato nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione
particolare della divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono
stato nutrito e allevato da uomini che voi conoscete». I loro modi
di azione non differiscono di molto e la differenza si esprime in maniera
sorprendente in ciò che si possono chiamare i loro dèi prediletti.
Romolo stabilisce solo due culti che sono due specificazioni di
Jupiter - quel Jupiter che gli ha donato la promessa degli auspici -
Jupi- ter Feretrius e Jupiter Stator che si accordano nel fatto che Giove
è il dio protettore del regnum, ma relativamente ai combattimenti e
alle vittorie; e la seconda vittoria è dovuta a una prestidigitazione
sovrana di Giove, a «un cambiamento di vista» contro il quale nessuna
forza può niente e che capovolge l’ordine normale e consueto degli avvenimenti.
Al contrario, tutti gli autori insistono sulla devozione particolare che Numa
rivolge a Fides. Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è
sentimento più elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di
stato che nei rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa
verità Numa, il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides
Publica e istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli
delle altre divinità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il primo a
costruire un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più grande giuramento,
il giuramento di Fides. Si vede bene come questa distribuzione sia
conforme all’essenza delle due divinità sovrane antitetiche, Varuna e
Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due dèi si oppone allo stesso
modo: Romolo è un violento, descritto dagli annalisti come un tiranno, secondo
il modello greco ed etrusco, ma con dei tratti sicuramente antichi: « Vi erano
sempre vicino a lui - dice Plutarco ( Romolo) - quei giovani chiamati Celeres a
causa della loro prontezza nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in
pubblico che preceduto dai littori armati di verghe, con le quali
respingevano la folla, cinti di corregge con cui legavano sul posto
quello che lui ordinava di arrestare». A questo sovrano, così materialmente
«legatore» come Varuna, si oppone il buono e calmo Numa, la cui prima
iniziativa una volta di venuto re fu quella di sciogliere il corpo dei
Celeres e come seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Tito Livio, I,
20) i tre flamines maio- res. Numa è privo di ogni passione, anche di
quelle sti mate dai barbari, come la violenza e l’ambizione (Plut. Numa).
Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte per la funzione
guerriera, quelle dell’altro per la funzione di prosperità. Anche
nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre trionfi, prescrive ai
Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16, 7). Numa si
assegna il compito di disabituare i Romani alla guerra (PI ut. Numa) e la
pace non è rotta in alcun momento del suo regno (ibidem, 20, 6); offre un buon
accordo ai Fidenates che compiono razzie sulle sue terre e istituisce in
questa occasione, secondo una variante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul
rispetto delle forme che impediscono o limitano la violenza (Dionigi di
Alicamasso; Plutarco, Numa). Distribuisce ai cittadini indigenti i
territori occupati da Romolo «per sottrarli alla miseria, causa quasi
necessaria della perversità, e per spingere verso l ’ag ricoltura lo
spirito del popolo, che domando la terra si addolcirà»-, divide tutto il
territorio in vici, con ispettori e commissari che lui stesso controlla «
giudicando i costumi dei cittadini in base al lavoro, premiando con onori
e poteri coloro che si distinguono perla loro attività, biasimando i
pigri e correggendo le loro negligenze» (Plut.). Limitiamo a ciò la
comparazione che potrebbe comunque proseguire dettagliatamente, poiché è
evidente che gli annalisti si sono ingegnati a spingere in ogni direzione
l’opposizione tra i due re, l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e
forse ucciso da questi) senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico,
gravis, sepolto piamente dai senatori, antenato di numerose genti.
Delle pretese gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno
potuto introdurre più di un dettaglio e in di verse epoche in queste
«vite parallele inverse» e sicuramente in quella di Numa. Ma
è chiaro che queste stesse innovazioni si sono uniformate a un dato
tradizionale, la cui intenzione era di illustrare due tipi di re, due
modelli di sovranità, quelli stessi conosciuti dall’India sotto i nomi di
Varuna e Mitra. Tullo Ostilio e la funzione guerriera Dopo la
funzione sovrana la funzione guerriera, dopo Romolo e Numa, vi è Tullo
Ostilio, che Anchise presenta ad Enea ( En .) come colui «che riporterà
alle armi, in arme, i cittadini divenuti casalinghi e disabituati ai trionfi».
Arma, come auspicia e sacra per i suoi predecessori, segnala qui
l’essenza del suo carattere e della sua opera: militaris rei institutor
dirà Orosio e prima di lui Floro: «La regalità gli fu conferita in base
al suo coraggio: è lui che ha fondato tutto il sistema militare e l'arte della
guerra; di conseguenza dopo aver esercitato in maniera sorprendente la
iuventas romana osò provocare gli Albani». 22.1 miti di Indra e la
leggenda di Tullo Ostilio È in questo caso che il confronto tra l’epopea
romana e la mitologia ha dato i risultati più inattesi e ha permesso di
ampliare lo studio dettagliato della funzione guerriera indoeuropea, il
cui solo confronto della teologia esplicita non lasciava intravedere che
i maggiori aspetti: nelle loro «lezioni» ma anche nelle loro affabulazioni,
i due episodi solidali che costituiscono la «storia» di Tulio - la
vittoria del terzo Orazio sui treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio
che salvano Roma del pericolo che correva il suo nascente imperium, uno per
la subordinazione di Alba, l’altro per la sua distruzione - rispecchiano
da vicino i due principali miti di Indra che la tradizione epica
presenta spesso come conseguenti e solidali, cioè la vittoria di Indra e
di Trita sul Tricefalo e la morte di Namuci. Non è possibile qui che
mettere in un quadro schematico le omologie, pregando il lettore
interessato di riportarsi al libro in cui gli argomenti e le conseguenze
sono lungamente esposti. A, a) (India). Nell’ambito della loro
rivalità generale coi demoni, gli dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a
tre teste che è tuttavia il «figlio dell’amico » (nel Riveda) o il cugino
germano degli dèi (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e
cappellano degli dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il terzo» dei tre
fratelli Àptya, a uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide,
salvando gli dèi. Ma quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di
un brahmano, comporta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che
la liquidano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati nell’eliminazione
delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio, di quella
che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima. b) (Roma).
Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si disputano
Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli Orazi e i tre
gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella degli Orazi e
che, anche nella versione seguita da Dionigi d’Alicarnasso, sono cugini germani
degli Orazi). Nel combattimento ben presto non rimane che un
Orazio, ma questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando Vimperium a
Roma. Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini rischia di produrre
un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché i Curiazi hanno
accettato per primi l’idea del combattimento, la responsabilità cade su
di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue famigliare è ripartita
subito, trasferita, su un episodio che non ha paralleli nel racconto
indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha maledetto per la
morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare
quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio:
la data di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle
campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni
riguardavano (da là la leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a
Roma, macchiati dalle inevitabili morti della battaglia. B,
a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità conclude un patto di
amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo «né di giorno né di
notte, né col secco né con l'umido ». Un giorno, approfittando a tradimento di
un momento di debolezza, in cui Indra è stato messo dal padre del
Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi attributi: forza, virilità,
soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso gli dèi canonici della
terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli rendono la sua forza e gli
indicano il sistema per mantenere la parola data pur violandola: egli non
deve che assalire Namuci all’alba (quando non è né giorno né notte) e con
della schiuma (che non è né secca né umida). Indra sorprende così Namuci
che non sospetta c lo decapita in maniera bizzarra, «burrificando» la sua
testa nella schiuma. b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi,
il capo degli Albani, Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di
Tulio, in virtù della convenzione. Ma segretamente tradisce il suo
alleato e durante la battaglia contro i Fidenati si ritira con le sue truppe su
un’altura, scoprendo il fianco dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa
dei voti alla divinità della terza funzione, Quirino, e diventa
vincitore. Benché al corrente del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi
abbindolare e convoca al pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non
sospettano. Là sorprende Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena
unica nella storia di Roma, lo squartamento. Rapporti della funzione
guerriera con le altre due Attraverso questi miti e queste leggende è
tutta una filosofia della necessità, dell’impeto cdei rischi della
funzione guerriera, che si esprime, come pure una concezione coerente dei
rapporti di questa l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo
servizio; e con l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che tuttavia non
rispetta affatto e che non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e
nei pericoli, come potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi
invalidi questa azione disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i
rapporti di Indra e Tulio Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della
funzione sovrana non procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli
inni vedici in cui Indra sfida Varuna, vantandosi di
sconfiggere la sua potenza (e gli Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo
oppongono Ódinn e Pórr in un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a
Roma uno scandalo vivente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la
ten ibile vendetta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende contro
questo re troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo tempo.
Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia a
continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una lunga
malattia; dice allora LIVIO (vedasi): lui, che fino a questi tempi aveva
creduto che niente è meno degno di un re che applicare il proprio spirito
alle cose sacre, improvvisamente si abbandonò a tutte le superstizioni, grandi
e piccole, e propagò anche fra il popolo delle vane pratiche... Si dice
che il re stesso consultando i libri di Numa vi trovò la ricetta di certi
sacrifìci segreti in onore di Jupiter Elicius. Egli si appartò per celebrarli.
Ma sia all’inizio che nel corso della cerimonia commise un errore
rituale, di modo che, invece di veder comparire una figura divina, irritò
Jupiter con un'evocazione mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e
la sua casa» Queste sono le fatalità della funzione
guerriera. Se Indra, il grande peccatore Indra, non perviene a questa
drammatica fine è perché egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi
servigi sono ciò che più interessano gli uomini. Quanto ai gemelli -
che Roma nel Lazio non era l’unica a onorare, poiché la leggenda prenestina
poneva una coppia nei tempi delle sue origini - l’epopea romana li mette
al posto d’onore nella persona di Romolo e Remo. Vi è una differenza
totale tra il Romolo re, che abbiamo visto opposto a Numa nella seconda ed
ultima parte della sua carriera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre
Quirinus. Questa differenza risalta in effetti a proposito della stessa
fondazione, nella disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo
cessa allora di essere «uno dei due gemelli», il socio fedele e senza contesa
di suo fratello, per diventare il re prestigioso, creatore, terribile,
tirannico e istitutore di quegli uomini che portano davanti a lui delle corde,
pronte a «legare» nel senso letterale del termine, al pari del suo
omologo del pantheon vedico, Varuna, armato di lacci. La
corrispondenza tipologica dei gemelli dell’epopea romana e degli dèi
gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la lista trifunzionale
indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da Alba, e alla fondazione
dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati da un pastore,
vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo da un gusto
marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa definizione
pastorale l’evoluzione della proto-civilizzazione romana (scomparsa del
carro da guerra) ha eliminato la «parte del cavallo» (in evidenza nella
parola ASvin), non rimane quindi che la «parte del bue e del montone»,
per situare maggiormente Romolo e Remo nell’economia rurale. I
Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente tenuti a distanza dagli dèi
perché troppo «mescolati agli uomini» ( Éat. Brùhm.) e nella letteratura
posteriore saranno considerati come degli dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è
di più basso e fuori-casta, in rapporto alla società ordinata. Così
vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi è in essi niente
di «sovrano», nessun rispetto per 1’ordine. Devoti ai più umili,
disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del re
(Plutarco, Romolo, 6, 7). Il gruppo che li seguirà nella loro rivolta
sarà un gruppo di pastori (Livio) o un’assemblea di indigenti o schiavi
(Plutarco, Romolo, 7, 2) prefiguranti l’eterogenea popolazione dell’Asilo (
ibidem, 9, 5). Sono raddrizzatori di torti: come i Nàsatya passano
il loro tempo a riparare le ingiustizie degli uomini o della sorte. Essendo
semplicemente degli dèi i Nàsatya compiono le loro liberazioni, restaurazioni e
guarigioni per mezzo di miracoli, mentre Romolo e Remo non possono
ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro amici contro i
briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore maltrattati
da quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più celebri servigi
dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello di aver
ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa di Romolo e
Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso modo quella di aver
riabilitato il loro vecchio nonno che era stato privato della regalità di
Alba. I due Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono insieme
ma tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricorda quella dei
Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è figlio di un uomo. La
disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma considerevole: uguali
per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua carriera diventando un
dio - il dio canonico della terza funzione, Quirino -1’altro perirà
precocemente non ricevendo più che i soli onori abituali attribuiti ai morti
eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II 395-6): « ut quam sunt
similes! At quamformosus uterque! Plus tamen ex
illis iste vigoris habet ...» Certe azioni estranee ai Nàsatya -
mal conosciute come tutta la loro mitologia - sembrano ricordare dei
tratti della leggenda di Romolo e Remo, talvolta solo con una inversione
(protettori e non protetti) che testimonia come essi siano degli dèi e i
gemelli romani degli uomini. Uno dei servigi frequenti dei Nàsatya è di fare
cessare la sterilità delle donne e delle femmine; ora, Romolo e Remo sono
i primi capi dei Luperci, un compito dei quali è di rendere madri le
donne romane con la flagellazione (una leggenda eziologica, che pone
l’origine di questo rito dopo la fondazione di Roma c il ratto delle
Sabine, dice che è stato destinato inizialmente a far cessare una
sterilità generale). In tutto il Rgveda il lupo è un essere mal visto,
è il nemico; l’unica eccezione si trova nel ciclo dei Nàsatya: un giovane
uomo aveva sgozzato cento c un montoni per nutrire una lupa e per
punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera della lupa i
gemelli divini resero la vista allo sfortunato. Nella storia di Romolo e Remo,
c solo in essa a Roma, non è più in quanto nutrita ma come nutrice che la
lupa occupa il posto eminente che ben si conosce. Nei riti e nelle
leggende dei Luperci (OVIDIO (vedasi), Fasti), nel racconto sulla
giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8) le corse giocano un
ruolo considerevole; ugualmente le corse in carro ncl4 mitologia
degli ASvin. Un aspetto sfortunatamente oscuro della festa
rustica di Palcs (il «cavallo mutilato», curtus equos), come pure il
concetto stesso della dea «Pales», così strettamente legato a Romolo e Remo e
alla fondazione di Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in
forze la giumenta detta «Pula del w.f» (vis, principio della terza
funzione e anche «clan») che durante una corsa si era spezzata le gambe.
Questo confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro
carriera «preromana», Romolo e Remo corrispondono così precisamente
ai Nàsatya come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corrispondono
a Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo muore verrà deificato
sotto il nome del dio canonico della terza funzione, Quirino, ritornando
quindi al suo valore primigenio e, sia dello di sfuggita, questa notevole
convergenza spinge a rivedere l’idea generalmente ammessa che l’assimilazione
di Romolo a Quirino sia secondaria e tardiva. 25. La terza
funzione, fondamento delle altre due Riguardo l’ordine di
apparizione delle tre funzioni nell’epopea delle origini romane - 3, 1, 2
- c la trasformazione dello stesso Romolo da «Nàsatya» in «Varuna»,
queste non sono senza paralleli c rivelano un aspetto della struttura
trifunzionale che ancora non abbiamo avuto occasione di segnalare.
Vediamo qui come una conferma del fatto certo che, se è vero che la terza
funzione è la più umile, nondimeno essa è il fondamento e la condizione
della altre due. Come vivrebbero maghi e guerrieri se i
pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella leggenda iranica, Yima al
pari di Romolo diviene un re prestigioso e eccessivo sfidando Ahura Mazda
- dopo essere stato differenzialmente, nella primaparte della sua vita,
un buon «eroe della terza funzione» dai ricchi pascoli, sotto cui la malattia c
la morte non affliggevano ne l’uomo né la bestia né le piante ( Yust,
XIX, 30-34). Nell’epopea osscla, i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei
quali il secondo uccide il primo in un eccesso di gelosia, genera poi la
famiglia degli i£xsaertaegkalae (la famiglia dei Forti, dei Guerrieri)
che sono usciti secondo certe varianti dalla razza di «Bora», cioè dai Boratae
(una famiglia di ricchi). È la stessa filosofia che si esprime nei
rituali indiani sulla stessa area sacrificale: devono essere riuniti tre
fuochi corrispondenti alle tre funzioni; un fuoco che trasmette le
offerte agli dèi, un fuoco che difende contro i demoni e un fuoco padrone della
casa; ora, quest’ultimo presenta i caratteri di un «fuoco vatéya» che è
il fuoco fondamentale acceso per primo e che serve per accendere gli
altri. 26. Sviluppo della ricerca Il lettore è
stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui sono classificati i
risultati ma, per la teologia e la mitologia di ognuna delle tre
funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo si è l'atto penetrare
nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si batte ancora con
la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure ordinarie che non sono
solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzioni, delle reinterpretazioni dei
dettagli alla luce dell’insieme meglio compreso e generalmente delle
riflessioni critiche sui bilanci anteriori. Prima di prendere congedo la guida
deve ricordare che, per importante o centrale che sia l’ideologia delle tre
funzioni, essa è ben lungi dal costituire tutta l’eredità indoeuropea
comune che l’analisi comparativa può intravedere o ricostruire. Un gran numero
di altri cantieri più o meno indipendenti sono aperti : sugli «dèi
iniziali», sulla dea Aurora e su qualche altro, sulla mitologia delle crisi del
sole, sulle varietà del sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti
fondamentali del pensiero religioso, la comparazione, e specialmente la
comparazione dei fatti indo-iranici e romani, ha già permesso c
permetterà di riconoscere delle coincidenze che è difficile attribuire al
caso. Note ai paragrafi § 2. La struttura bipolare
della sovranità è l’argomento di MV; il capitolo III di NA studia i fatti
iranici (Vohu Manah c Asa). A proposito di questi ultimi la critica di W.
LENTZ, «Yasna 2<f», Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz., non regge; non più
dei poeti del Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle Gàthà avevano la
preoccupazione, in tutte le circostanze o in molte circostanze, di
caratterizzare differenzialmente Vohu Manah c Asa; questo è vero per lo
Yasna 28 in cui ogni strofa nomina contemporaneamente le due Entità
esattamente come RV, V, 69, in cui ogni strofa nomina simultaneamente i
due dèi senza cercare di distinguerli. Per Vohu
Manali vedi G. WlDENGREN, The f>reai Vohu Manah and thè Apostle ofGod,
1945. Per
Mi9ra e Ahura Mazda nella nuova prospettiva vedi MV, cap. V, § v (da
correggere dopo WlDENGREN, Numen, I, 1954, p. 46, n. 148); J.
DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana (sul
Mesoromazdés di Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon F
oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS, Varuna, I ( Varuna linci die
Was- ser), 1951, sarà esaminata ulteriormente i n un quadro
comparativo. § 3. MV, cap. IV. § 4. MV, cap. VII: si
hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, e di
W. BETZ (vedi sopra, nota a II, §§ 19-20) «Die altgerm. Religion. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien
Aryaman, 1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre degli Aditya, in
quanto «madre e figlia» di uno di essi, vedi Déesses latines et mythes védique,
1956, cap. III. Rifiutando e caricaturando in ZDMG la rettifica che avevo
proposto alla sua interpretazione (1938) di ari (non importa quale
«Fremdling», ma già con una nota di nazionalità, l’insieme o un membro
del mondo arya - alleato o avversario), P. THIEME compie il tour de force
di discutere senza menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto
naturale di questa rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo
sintetico, intuitivo, etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una
analisi completa e dettagliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò
successivamente questa curiosa risposta nel JA e spero che P. Thieme
userà più fair play nello studio che sta preparando, mi dicono, su
«Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice). DIE, pp. 50-51, riassumendo Le
troisième souverain. § 7. DIE, pp. 51-52. Sugli Àditya Daksa e
Amsa, ihid., pp. 55-58. § 8. DIE, pp. 59-67; K. Barr, Àvesta, 1954,
pp. 184-185, 193, 215. § 9. DIE, pp.68-75. Per Juventas è stato
segnalalo un notevole riscontro nel mondo celtico: come Juventas rifiuta
di lasciare il colle capitolino in favore di Jupiter O.M., che è obbligato ad
ospitarla per sempre nel suo tempio, così l'irlandese Mac Oc («il Giovane
Figlio»), antico dio protettore della gioventù, si impone nel tumulo in cui
vive il vecchio dio sovrano Dagda e si fa concedere «un giorno e una
notte », poi arguendo che il giorno e la notte fanno la totalità del
tempo, rifiuta di uscire e resta maestro del luogo («Jeunessc, éternité,
aube», Annales d’histoire économique et sociale, 1928, pp. 289-301.
§ 10. DIE, pp. 76-77. § 11. Vedi la prefazione di
Aspects... § 12-24.1 servigi che bisogna richiedere alla
pseudo-storia delle origini romane comparata con la mitologia indiana o
scandinava, sono stati ben presto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces; Servius et la Fortune, 1943, pp. 112-119;
riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in «Mythes romains», Revue de
Paris, die. 1951, pp. 105-118. Sull’epoca in cui I’affabulazione
definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza dubbio tra il 350 e il
280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono inseriti), vedi
L’héritage..., p. 181, n. 49. § 13. L’interpretazione dell’intrigo
del Mahcibhàrata è stata data da S. WlKANDER in un suo articolo
fondamentale, «Pandava-sagan och Mahàbhàratas myliska
fòrutsattningar», Religion neh Bibel, VI, 1947 pp. 27-39, in gran parte tradotto e commentato nel niio JMQ IV, pp. 37-85;
cf. WlKANDER, «Sur le fonds commun indo-iranien des épopées de la Perse
et de l’Inde», NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel dominio
germanico un caso parallelo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di
Njordr) è stato studialo in La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I,
V-VIII), du mythe au roman, 1953. Mentre il presente libro era in stampa,
in Orientalia Sue vana, sotto il titolo «Nakula e Sahadeva». WlKANDER faceva
considerevolmente avanzare l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi
sotto § 24). § 14. Su Vàyu-Indra, vedi «Pàndava sagan...», pp.
33-36; è il risultalo dei lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des
altea Iran, 1938, pp. 75, 300, 317; di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini
alten Iran, 1938, pp. 188-215; di S. WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV
ha riconosciuto il dio indo-iranico * Vayu nel nome generico dei
«giganti» (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse- ti, weijug (da
*Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, VI, 1956, pp. 450-457, che io
ho commentato in «Noms mythiqucs indo-iraniens dans le folklore des
Osses», JA, CCXLIV, 1957, pp. 349-352. § 15. Aspects..., pp. 9, 70,
80. § 16. JMQ IV, p. 56. «Pàndava-sagan...», p. 36; JMQ IV,
pp. 59+60, 67-68. § 18. Pandu come trasposizione di Vanina, vedi
JMQ, IV, pp. 77-80. La trasposizione di un mito vedico (duello di Indra c
del Sole, la ruota del carro del Sole «infossata») è stata riconosciuta nel
racconto della morte di Karna, fratello uterino e nemico dei Pàndava,
figlio del Sole come essi lo sono degli dèi delle tre funzioni: «Karna et
Ics Pàndava», Orientalia Suecana, III ( =Do- num natal. H.S. Nyberg),
1954, pp. 60-66. Una trasposizione (dei passi di Visnu al servizio di
Indra) è segnalata in «Les pas de Krsna et l’exploit d’Arjuna»,
Orientalia Suecana, V, 1956, pp. 183-188; e altri due (i sovrani minori
Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferenza fatta
all’Università di Copenhagen nel nov. 1956, pubblicala quest’anno nell’
Inclo-1 ninian Journal («La transposilion des dieux souverains dans le
Mahàbhàrata»), Il personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella
stessa prospettiva. § 19. Le leggende romane sugli inizi della
Repubblica presentano due croi che ricordano, per la forma e il senso
delle mulilazioni, il dio cieco monco della mitologia scandinava, cioè i
due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi sono Orazio Coclite («il Ciclope») c
Muzio Scevola («il Mancino»), i due salvatori di Roma nella guerra contro
Porsenna; la comparazione è stata sviluppata in MV cap. IX e ripresa
diverse volle, specialmente ne L’heritage. c Loki, 1948, pp. 91-97. Sui primi
redi Roma vedi il riassunto degli studi anteriori in L’heritage..., pp.
143-159; un notevole «ritocco» parallelo al «ritocco» zoroastriano degli
dèi trasporti in Entità della tradizione romana nel De Republica di
Cicerone, è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc et Ics rois
romains de Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463. 119
§ 20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane..., pp.
146-154. §21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L ’héritage..
Aspetta: «La geste deTullus Hostilius et les mythes de Indra»; cf. pp.
3-14 dello stesso libro, studio dell’Indra vedico come «solitario» a dispetto
dei suoi associati ( ekci -) e come «autonomo» (sva-). La bibliografia degli
studi comparativi sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39 e completala
in Aspetta. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli
Nàsa- tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, «Harlekintracht...»,
Orientalia Sueca- na, II, 1953, pp. 96-97; Aspetta..., pp. 20-21. Non ho
ancora pubblicato su questa interpretazione dei gemelli romani il libro
preparato nel 1951-1952; è comparso solo un frammento: «Le turtus equos
de la fète de Pales et la muti- lationde lajument ViSpala», Ercinos, LIV
(=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956, pp. 232-245. Altre corrispondenze tra
dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli indoeuropei sono state segnalale
in La saga de Hadinf>us, 1953, pp. 114-130, 151-154.1 Dioscuri greci
sono solo parzialmente comparabili. Sembra che altri aspetti della terza
funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e del commercio;
piacere) abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma, Anco Marzio,
successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III («Jactanlior Ancus») e
la discussione con J. Bayet in JMQ IV, pp. 185-186 (dove importanti questioni
di metodo sono toccate). § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi iniziali», vedi
«De Janus à Vesta», Tarpeia, pp. 31-113 (=JMQ it., pp. 287-353), DIE, pp.
84-105; in Rituels..., pp. 33-39, sono state rilevate delle concordanze tra
il culto di Vesta c imiti vedici di Vi- vasvat; in Déesses latines et
mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno chiarificaio e giustificaio
le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas; vedi anche RENOU, Études
védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les Hymnes à l'Aurore du Riveda,
pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65), della silenziosa Diva Angerona,
dea degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf. Atri operosa con la
preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna Primigenia
prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del
sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in «Suouetaurilia»,
Tarpeia (= JMQ it., pp. 355-388) si è stabilito lo stretto parallelismo di questo
sacrifico triplice, offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio
di un loro, di un montone c di un capro a Indra «Buon Protettore»); in
Rituels in- doeuropéeus à Rome (oltre a qui sopra, I, § 21), i Fordicidia
sono stali resi chiari, nei dettagli dei riti, dal sacrificio vedico
della «Vacca dagli otto piedi»; l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c
di templi quadrati, orientali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il
fuoco rotondo (di riserva e di accensione, «fuoco del padrone di casa»,
attaccalo alla terra) e il fuoco quadrato (che dirige verso gli dèi le offerte
degli uomini) sull’ara sacrificale ve- dica; i rapporti rituali degli
equidi, c in special modo del cavallo, con ciascuno dei tre livelli
funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a Roma che
nell’India vedica; in «Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pubblicarsi in
REL, XXXVI, 1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei Parilia, i
pisciculi vivi gettati nel fuoco durante i Volcanalia e la prescrizione
bigarum victricum clexterior del Cavallo di Ottobre sono chiarificati dai
dati vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, § 1, per
Jlamen-brahman ): «Meretrices et virgines dans quelques légendes
politiquesde Rome et des pe- uples celtiques», Ogcnn, VI, 1954, pp. 3-8;
«Remarques sur le ius feriale », REL, XXXIV, 1956, pp. 93-111; REL, XXXV,
1957, pp. 126-151, contiene uno studio su augur, inaugurare, augustus.
NOZIONI: «A propos de latin ius». RHR, CXXXIV, 1947-48, pp. 95-112;
«Ordre, fantasie, changemente dan les pensées archaiques de l’Inde et de
Rome, à propos de latin mos», REL, XXXII, 1954, pp. 139-160; in «Maiestas
elgravitas, de quelques diffé- rences entre les Romains et les
Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28 e XXVIII, 1954, pp. 9-18; queste
sono invece due nozioni prettamente romane che sono state analizzate
contro la scuola primitivista; su gratus, gratin eminentemente spiegate con un
usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5), vedi L.R. PALMER, «The Concept
of Social Obligation in Indo-European», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. M.
Niedennann), 1956, pp. 258-269. E. BENVENI- STE ha delucidato comparativamente
un gran numero di nozioni religiose e sociali, vedi in special modo
«Symbolisme social dans les cultes gré- co-italiques» RHR, CXXIX, 1945,
pp. 5-16 (vedi una conferma di un dato importante nel mio Rituels...)',
«Don et échange dans le vocabulaire in- do-éuropéen», L'Année
Sociologique, 1951, pp. 7-20 e «Formes et sens de pvaopai»,
Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A. Debrunner). Storia
degli Studi e bibliografìa Dopo lo scacco del saggio intelligente
ma prematuro fatto dalla scuola di Adalbert Kuhn (1812-1881) c di
Friederich Max Miiller ( 1823-1900) teso a ricostruire la mitologia
comune degli Indoeuropei, l’impresa fu per un certo tempo dichiarata
illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di Mannhardt, gli studi si
spostarono sui rituali e le credenze agricole, popolari, di un tipo
abbastanza uniforme per tutta l’Europa e ci si applicò a ridurvi, senza
pretendere di stabilire filiazioni né parentele particolari, un gran
numero di culti e miti delle diverse religioni e in special modo quelle
dei popoli classici. Da un’altra parte, per effetto della crescente
settorializzazione delle specialità, gli studiosi dei diversi domini,
indiano, greco, latino, germanico, etc., rifiutando ogni considerazione
comparativa, costruirono per spiegare la genesi e lo sviluppo delle
religioni da loro studiate delle ipotesi che presero sovente per dati di
fatto e che non si accordavano che per un punto: la riduzione a poche
cose, per non dire a niente, dell’eredità conservata dal passato comune
indoeuropeo. Rari autori continuavano a parlare di «religione
indoeuropea» come ad esempio A. CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p.
154-240. Tuttavia nel secondo quarto di questo secolo si produssero
delle reazioni. In Germania bisogna citare prima di tutto: H. GUNTERT,
Der Arische Weltkonig und Heiland (1923); R. OTTO, Gotlheit und
Got- theilen derArier (1932); F. CORNELIUS, Indogermanische
Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che prosegue
brillantemente, degli articoli c dei libri di F.R. Schroder.
A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso ho fatto un
primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con dei mezzi
filologici insufficienti e rimanendo prigioniero, per la spiegazione, delle
concezioni mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le
crime des Lemniennes 1924 e qualche articolo di cui non vi sono grandi
cose da ritenere; il Leproblème des Centaures, 1929 e Flamen-Brahman,
1935, i cui frammenti rimangono utilizzabili). Non è che a partire dal 1938
che, inizialmente solo e poi, dopo il 1945, raggiunto e spesso superato
da altri ricercatori, spero di essere riuscito a delineare dei tratti
importanti della struttura dell’eredità indoeuropea comune, in una coscienza
più chiara delle condizioni c dei mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta
non si riporta ad alcun sistema preconcetto di spiegazione, ma utilizza
gli insegnamenti della sociologia e dell’etnografia, come pure il ricorso
all’analisi linguistica dei concetti. Essa ha due postulati:
ammette che tutto il sistema teologico e mitologico significa qualcosa,
aiuta la società che lo pratica a comprendersi, ad accettarsi, ad essere fiera
del suo passato, confidante nel presente e nell’avvenire; ammette anche
che la comunità di lingua, presso gli Indoeuropei, implica una misura
sostanziale dell’ideologia comune alla quale deve essere possibile
accedere grazie a una varietà adeguata del metodo comparativo.
Una circostanza, sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva attirato
l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricerche: il
vocabolario religioso degli Indo-Iranici da una palle c quello dei Celti
e degli Italioti dall’altra presentano un gran numero di concordanze precise e
che sono loro proprie. Un articolo-programma del
1938 «La préhistoire des flamines majeurs», RHR, CVIII, pp. 1 88-200 ha
dimostrato che questa parentela prossima non si riduce al vocabolario ma
si estende alla struttura della religione. E dal 1938, in ogni tipo di
materia, è in effetti la comparazione dei dati vedici o indo-iranici e dei dati
romani che ha fornito i primi risultati precisi sui quali è stato
possibile fondare delle comparazione più vaste. Così illuminati, i
fatti germanici (benché il vocabolario religioso sia interamente differente) si
sono ben presto rivelati anch’essi notevolmente fedeli al passato
indoeuropeo. Benché conformandosi ai grandi quadri indoeuropei, il
dominio celtico pone ancora, in seguito allo stato della documentazione,
un gran numero di problemi irrisolti. La Grecia - per effetto senza
dubbio del «miracolo greco» e anche perché le più antiche civiltà del
Mare Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti dal Nord
- contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più considerevoli
dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto agli altri
popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli Slavi, non si
è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali lavori in cui è stata progressivamente analizzata
l’ideologia tripartita degli Indoeuropei che il presente libro espone
sono i seguenti': Mythes etdieuxdes Gennains,
essaid’interprétation comparative 1939 (citato MDG) Mitra-Vurunu,
essai sur deux représentations indoeuropéen- nes de la souveraineté 1940,
II ed. (citato MV) Jupiter Mars Quirimis, essai sur laconception
indoeuropéenne de la société et sur Ics origines de Rome, 1941 (citato
JMQ) Naissance de Rome (=JMQ II) 1944 (citato NR) Naissance
d'Archanges, essai sur la formation de la théologie zoroastrienne (=JMQ
III), 1945 (citato NA) Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ
IV) L ’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux
séries «JMQ» et «Mythes Romains», 1949 Le troisième
Souverain, essai sur le dieu Aryaman, 1949 Les dieux des Indoeuropéens,
1952 (citato DIE) Rituels Indoeuropéens à Rome, 1954
Aspects de lafonction guerrière chez les Indoeuropéens, 1956
Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus, XXV, 1956 Una
traduzione italiana di una versione migliorata in diverse parti di JMQ e
di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ IV, è stata pubbl icata
nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars Quiri- I
Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di JMQ. NR. NA ehc
sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard. Aspettando,
l’edizione italiana dei primi due Corniscc un’idea delle correzioni
giudicale necessarie: le parli che non sono state tradotte sono da
eliminare. ìtus (citato JMQ it.) 2 . Delle questioni di metodo, che io qui
non affronto, si trovano discusse nelle prefazioni della maggior parte di
questi libri e, più sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage
... («Materia, oggetto e metodi di studio»). 2 AUre
abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage zur Geschichte der
Deutschen Sprache und Literatur: FFC = Folklore Fellows Communications; J
A = Journal Asiati que; JAOS = Journal of thè American Orientai Society;
JP = Journal de Psichologie: NC = la Nouvelle Clio; REL = Revtte des
Etudes Lalines; RHA = Revtte Hittite et Asianique; RHR = Revtte de l
’Histoire des Religions; RV = Riveda; RP = Revtte de Philologie. RSR =
Recherches de Science Religieuse; SBE = Sacred Books of thè East; SMSR =
Studi e Materiali di Storia delle Religioni ; TPS = Transaction of thè
Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir Celti sche Philologie; ZDMG
= Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen Gesellschafl. Aryaman e
Paul Thieme Mentre correggo le seconde bozze di questo libro
(maggio 1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra (nota
al cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue speranze
che esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti dell’articolo del
JA, concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato nello
stesso paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione provvisoria su
Mitra and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle note di I e II i
numeri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P. Thieme, Der Frem- dling
im Rig Feda; S = il mio Troisième Sauveraine, 1949; Z = P. Thieme, Ari,
«Fremder», ZDMG. Ma è soprattutto nei confronti del dio vedico, e prima ancora
indo-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme rivela la sua debolezza.
In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero», qualunque sia) c del senso
che ne risulta per aryó («l’ospitale»), Aryaman non può essere che il
«dio dell’ospitalità)). È così? E ancora, sarebbe necessario che
negli inni o nei rituali questa definizione si verificasse sul suo
centro, intendo dire, in occasione del ricevimento di un ospite designato
come tale. Ora, non soltanto non vi è un testo rgvedico che riunisca il
nome dell’ospite, àtithi e quello d’Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia,
Aryaman non è né invocato né menzionato ritualmente all’arrivo di un
visitatore. Non bisogna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso,
se il concetto di ospitalità è stato sentito tanto importante da essere
personificato in uno dei due dèi sovrani, e nel più considerevole dopo
Varuna e Mitra, che questa origine non abbia avuto nessuna occasione per esprimersi
chiaramente. Mitra, il contratto personificato, è certo come dio molto
più del contratto, ma si trovano dei testi in cui questo legame è
manifestato e sottolineato con delle parole senza ambiguità.
Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti- co
Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono
irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo due. Prima di Thieme
molti vedisti avevano notato, con delle conclusioni talvolta eccessive o
errate, i rapporti tra Aryaman e il matrimonio. 1 testi allegati sono
abbastanza numerosi". Per piegarli alla sua tesi, Thieme è stato
indotto a far loro subire dei trattamenti poco raccomandabili. In tutto il
dossier vedico vi sono dei documenti più chiari e più netti, altri più
oscuri o più indeterminati. Il metodo ordinario è d’informarsi all’inizio
sui primi e con questi chiarificare o precisare in seguito i secondi. Per
il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in A V, 1, 60, la formula
destinata a procurare un coniuge, la descrizione che fa di Aryaman la
prima strofa: tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah
asyci icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye Ecco arrivare
Aryaman con i riccioli sciolti, cercando per questa fanciulla un marito e
una moglie per chi non è sposato». Non meno esplicito vi è in/l V,
XIV, 1, inno rituale del matrimonio, la strofa 17 che riguarda la giovane
donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam
urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti sono
riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, seguiti da
un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente errata. «Noi
sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il trovatore dei
mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui (= dalla tua casa
di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale). Vicino a questi testi ve
ne sono altri che riguardano ancora siala «ricerca della sposa» che
diversi episodi precisi del rituale delle nozze, nei quali Aryaman interviene
sempre, ma associato ad altri dèi e di conseguenza con un ruolo non
immediatamente identificabile. Ciò che in questi casi incerti può
orientare l’interpretazione è evidentemente la descrizione e la definizione che
su di lui hanno dato i testi espliciti del dossier: egli cerca da ambedue
le parti gli elementi delle coppie coniugali e fa delle buone alleanze
matrimoniali. Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda
categoria di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e
per tradurli inserendo tra parentesi, a favore della loro
indeterminazione, la sua concezione di Aryaman («die Gastlichkeit», «der
Gott der Ga- stlichkeit», «der Gott gastlicher Aufnahme») e in seguito,
in dieci righe che conclude allusivamente, pretende che ciò che dice sui
testi meno determinati permetta-infine! - di ridurre alla loro «vera»
portata questi testi la cui precisione lo imbarazza 13 Von hier aus wirdes nun
erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1, 14.1.17, Mp. 1.5.7, die
H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu- chungdes Verhàltnisses zwischen
Aryaman und E he gestellt hat, in ih- rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen.
Als einer der Genien des Hau- shalts, der auch
bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman als «Gattenfìnder» (A V.
14, 1.17) und Ehevermittler (A V.) schlechthin in Zauberspriichen
genannt, die anscheinend durch die Erwàhnung eines so vornehmen Gottes,
der im R Vin der Gesellschaft des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt,
wirken wollten.» Al di fuori dello stesso procedimento che consiste
nel mascherare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è
tendenzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale
del matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente 12
F„ §§ 118-124; S. pp. 73-79. 13 F„ § 124. adatti a chiarire
la funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che Aryaman non vi
figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un « gran nome» della
mitologia, è una spiegazione che generalizzata permetterebbe all’esegeta di
sopprimere in ogni maniera le testimonianze imbarazzanti. Infine, la
definizione di Aryaman come «einer derGenien des Haushalts», è stata
utilizzata, pefitio principii, usando la libertà fornita dai testi meno
determinati. Bisogna aggiungere che alcuni di questi testi resistono al senso
che si vuole loro dare. Quando Aryaman ad esempio è pregato, ancora in un
inno di matrimonio, «di ungere (forse la novella sposa) fino alla
vecchiaia» (o «affinché ella non invecchi»)' 4, Thieme, ricordando che «in ogni
paese del mezzogiorno» 15 il bagno di ospitalità comporta un’unzione
d’olio, traduce intrepidamente: Mòge Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme)
[Dich= die Braut ] inir der Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht
altseist ( = inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di questa
traduzione sono leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale
d’ospitalità e il dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso
inattendibile; come si può mai dire alla giovane sposa: « Che il dio dell
'ospitalità ti unga con olio affinché tu non abbia l'aria invecchiata »?
Viceversa se si vede in Aryaman il protettore del rapporto che si forma,
è naturale che egli sia pregato di garantire alla sposa lunga vita o
vigorosa vecchiaia. E non è tutto. Thieme assimila costantemente
l’ospitalità e il matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite e quella
che riceve la fidanzata. Ora, le due cose sono differenti: a dispetto del
riferimento a Mrs. Stevenson 16, l’atto della donna che entra in casa di
suo marito per rimanervi, può identificarsi, nei riti, con l’atto del
visitatore che dopo essere entrato straniero se ne andrà, benché
incaricato del dovere di contraccambiare, ma sempre straniero?
L’accoglienza fatta alla futura madre può forse essere più ospitale,
nello spirito e nei riti, delle ceri- 14 RV, X, 85, 43:
a nati prajath janayatu prujàpatir àjarasàya sùm anaktv
aryamù... Geldner: «Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis
zurhohcn Alicr soli nns Aryaman verschinelzcn». 15 Nell'India
vedica? 16 F., p. 125, n. 1. monie che in seguito
legalizzeranno il neonato come membro della stessa famiglia? Se
bisognasse avvicinare ad altre cose questa procedura sui generis del
matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto all’adozione che
all’ospitalità? Le nostre parole «accoglienza, Aufnahme», creano
un’ambiguità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non rischiava
di sentire vivamente. Io resisto particolarmente all’interpretazione
datadaThiemead AV, 14,1,39-sempre riguardo il rituale nuziale 17 :
aryamnó agnini pàryetu pùsan [var. ksiprdm] prdtiksante
svasuro devaras cu. «Sie umschreite das Feuer des Aryaman (der
Gastlichkeit), o Pùsan'*, es sehen entgegen Schwàher und Schwager.»
Sono certamente meno ben informato di Thieme sui rituali vedici: quando
un ospite entrava in una casa gli si faceva fare anche questa circumambulazione
del focolare, che trova il suo esatto corrispondente, come molti altri tratti,
nel matrimonio romano (dove ha valore di rito d’incorporazione) e non
nell’ospitalità romana? Se è così m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce
dai testi precisi sul ruolo di Arya- Piuttosto, secondo la variante
«schnell». In S., p. 78, vi è una cantonata nella traduzione che dopo dieci
anni non so ancora se la devo attribuire a un’ inavvertenza del mio
manoscritto o delle mie correzioni delle bozze:,f vósuro devàsra.ica è
reso con «i suoceri e i cognati» invece de «i7 suocero c i cognati» il
plurale della seconda parola avendo determinato meccanicamente, da me o dal
tipografo, il plurale della prima. Questo testoche sotto la protezione di
Aryaman f a intervenire dopo la giovane sposa il padree i fratelli dello
sposo, prova che nel matrimonio Aryaman si interessa a ben di piti che
l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è interessata da questo nuovo
membro che le procura un’alleanza con un’altra famiglia (cf. Aryaman
qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119
di S. ho commesso una svista più umiliante ma senza conseguenze per i miei propositi,
considerando svasurah di RV, X, 28, 1 come padre della moglie (possibile
nel sanscrito classico ma non nel vedico) emettendo la strofa in bocca al
marito. E l’inverso. La moglie parla e si sorprende che il padre di suo
marito non sia venuto al festino preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh
«ogni altro ari, tutto il resto dell'insieme ari » (e non facendo sparire
la parola essenziale «altro», « jederunde- re, niimlichjeder ari»,
Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di questo testo, per i
rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente a condizione che si
rimpiazzi «genero» con «nuora» (e co.si « prendere moglie» con « prendere marito
» e «ha scelto la jigliadel suocero» con «è stato scelto dai figli del
suocero»). man nel matrimonio, l’espressione «fuoco di Aryaman» per
designare eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si forma il
legame mi sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo ruolo.
Sono queste le principali ragioni per le quali non mi è possibile dedurre
il ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione che
esige l’ipotesi di Thieme. L’Airyaman avestico è invocato (
Yasna 54, 1) per sostenere «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon
Pensiero; è detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni
resistenza, vincitore dei nemici (ibid., 2); la preghiera che è invocata
dopo di lui è onnipotente e guaritrice (Yast); Aryaman stesso è l’eroe di una
scena mitica in cui questa preoccupazione di guarigione è al primo posto:
quando Angra Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le 99.999
malattie, il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la
«Formula Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina)
si avvicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che doveva
divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo 19 .
Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non tenta la
scommessa ma lascia intendere che tutto questo è un’innovazione, un uso
fuori dal dominio di un dio sentito come importante: «Man hai also von
Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der AV von A/yaman», dice lui
facendo allusione alla fine del § 124 che ho citato 20 Temo che questa sia una
maniera troppo rapida per eliminare un elemento preciso del dossier. La
stessa cosa avviene per altri aspetti di Aryaman e per i suoi rapporti
con le strade, ad esempio, strumento utile di comunicazione sociale 21 :
ci si riferisca all’analisi del mio Troi- sième Souverain. Ciò che
precede è sufficiente per far capire che Aryaman è fondamentalmente più
di un dio dell’ospitalità. Infatti nell’ ospitalità senza dubbio, ma
anche nella conclusione dei matrimoni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti
sociali all’interno di un gruppo di uomini in cui bisogna che non solo
l’ospitalità ma anche il matrimonio siano possibili. S.Per il trattamento
insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F., vedi S. L’Airyaman
iranico protegge in una maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di
uomini e donne della «buona società», definita dopo la riforma
zoroastriana solamente in base alla religione e non alla
nazionalità. Bisogna dunque che il concetto di arya - nel nome di
Aryaman sia altra cosa rispetto a quello detto da Thieme: minore in
estensione, poiché il matrimonio non è possibile con alcun ospite, ma più
ricco in comprensione, poiché oltre all’ospitalità comporta altre forme
di legami e in special modo l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è
così costretti a introdurre in questo arya-e quindi in ari, un valore di
nazionalità. Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto
[in S] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende conto di tutti
i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi ai quali si
adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di Thieme,
rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il dossier
di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente impone una
traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia riconsiderato nella
difesa che mi oppone. Questo è RV: uta svàsyd ardtyd arir hi
sa utdnydsyd ardtyd vrko hi sah La costruzione e il
senso sono limpidi: «[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è
l’ari. [Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.»
Questi versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti
equivalenti, quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono
di conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita, ari :
vi è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è
proprio, imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, esteriore,
straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo
che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comportamento è selvatico.
Così ariè. precisato negativamente come un tipo di nemico distinto da
questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al di fuori del gruppo i
cui membri sono degli svà\ positivamente ari è definito come intemo a
questo gruppo. La traduzione e il commentario fatto da Thieme a questo
passaggio devono essere citati per intero 12 : «/ Schutze] vor
eigener, voranderer (i.e. vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was die
arati ist) istjaderFremdling (der den Frieden be- droht), sie istja der
Wolf. Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der Spre-
izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl nurstili-
stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in Abrede stel-
len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist ja ein
Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor an- derer
drdti-sie istja ein Wolf». La prima interpretazione, quella che
l’autore preferisce poiché sopprime le difficoltà, fa una violenza
inammissibile all’ordine e al rapporto delle parole: mantiene come tale
una delle due opposizioni equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in
solidarietà; riducear/e vrka a un’unità (non essendo vrka che un rinforzo
del «cattivo» ari) di cui svà e anyà sarebbero lesuddivisioni. La
filologia non hatali diritti. La seconda interpretazione orienta
l'opposizione tra svà e anyà in un senso che non è il suo: svà non si
applica a ciò che è presso me temporalmente e accidentalmente senza
essere a me, ma segna un legame permanente ed essenziale con me. In più, questa
traduzione suppone, dalla parte àeW'ari nemico, un comportamento speciale,
quello dell’ospite che una volta ricevuto in casa si comporta male e «
minaccia la pace » come dice Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi
ma questi rischi si realizzano raramente e in ogni modo nessun testo
del RV vi fa allusione: sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto
di una preghiera e che, in questa preghiera, fossero messi sullo
stesso 32 P. 27, già II, 1956, p. 109. Se, come io penso, ari ha già il
valore etnico (ario, ariano), si concepiscono gli impieghi elogiativi,
sottolineati da Renou, che vanno nella direzione élite, capo, etc.] piano, in
contrapposizione, i rischi costanti che fa correre il vrka barbaro e
brigante. Questo testo è dunque decisivo contro il senso troppo
esteso di ari e impone un senso ristretto. Nei suoi Etudes védiques et
pàninéennes. Renou mi sembra abbia ben riassunto l’insegnamento del testo nella
formula: «.vrka il nemico straniero, ari il nemico interno». Questo
delimita ari, sia il buono che il cattivo: amico, ospite, sposabile,
correligionario, rivale, nemico, Vari porta alla considerazione di chi lo
menziona, la nota svà, che esclude la nota anyà n . Ili
Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet contro di me:
fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui ad alcune
osservazioni che faranno vedere a quale livello si situa il dibattito.
Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni credito ai miei
argomenti, Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre punti, che io
commetto molteplici e grossolani errori di grammatica utilizzando gli
inni vedici. Lo credo volentieri, ma vediamo che cosa mi rimprovera: Io tratto
dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in cui si incontra la
sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi sovrani, Varuria, Mitra e
Aryaman e dove, a causa di un verbo o un aggettivo che sono appunto al
duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in un solo personaggio mitico
che chiama «Freund, Gasljreund» e che ora preferisce chiamare «The contract
(God Contract) which is hospitality (God Hospitality )». È nel
riconoscere questo mostro, di cui non vi sono altre tracce nella letteratura
vedica, che mi sono rifiutato, nel 1949 (S., pp. 42-47). Non ho cambiato
parere: è inverosi- Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono
altre ragioni) per fare scartare il paragone etimologico con diana (l'opposto di
svà) che è stato portato in appoggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur
Bedeutung des Ariernamens», KZ, 68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il
fatto che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya
lùrusah, «il vincitore dell'un lontano e vicino» dimostra che lo svà di
IX, 79, 3 non deve essere compreso in un senso stretto né senza dubbio locale.
Il concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia
condizione: Vari per «un» ariano è sia svà che para. 135
mile che in questi due soli passaggi la triade ceda il posto a una
coppia «Varuna e Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra Aryaman».
Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman vdrsistham
ksatrdm àsiithe, «o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ottenuto la più alta
sovranità». Perché si dice che il verbo è al duale? Il poeta vuole
sottolineare la stretta affinità di Mitra e Aryaman (che è fondamentale
come spesso ho detto) nei confronti di Varuna, di modo che si debba
tradurre «o Varuna, o Mitra e Aryaman»? Non lo so, ma la soluzione meno
accettabile è di fondere in un solo essere Mitra e Aryaman, poiché la
strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente i tre dèi al nominativo e
questa volta con due aggettivi e due verbi che sono correttamente al
plurale. Noto che K. Geldner comprende come me: «ihr habt die hòchste
Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A rya- man» - i tre vocativi essendo
esattamente paralleli, come Thieme mi rimprovera di avere detto.
L'altro testo è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me
asya vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd. La prima parte non è ambigua:
«Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la parola] di Vai- yasva e
conoscete questa [parola] mia». La seconda è meno chiara, un aggettivo al
duale (sajósusà, «in accordo») precede i tre nomi divini. Geldner
risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò che segue, ma come
attributo a ciò che precede, ai due Asvin: « Horet aufden Vyasvasohn,
ihrHerren, und seid meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und mit euch)
Varuna Mitra Aryaman». Non so se ha ragione o se si può trovare una
giustificazione più sottile, ma come lui penso che gli dèi dell’ultimo
verso, qui come altrove, siano ire. Tratto dei plurali come dei duali. Si
tratta di RV, III, 54, 18, aryamd no dditir yajmydsah, «Aryaman, Aditi
[sono] degni (plurale e non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo
sacrificare ad Aryaman, ad Aditi. Thieme consentirà forse a credere che
ho consultato la traduzione di Geldner: Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert»,
con la nota corrispondente: Den Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an
die iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che più m’interessava perii mio
argomento (S., p. 68) è che in questo lesto della «terza funzione» (la
fine della strofa domanda abbondanza di bestiame e di bambini), il
gruppo degli dèi sovrani distacca, in qualche modo come i suoi soli
delegati espliciti, la loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme
non ho preso la precauzione di ripetere in termini di grammatica una
precisazione che ogni vedista conosce. Il mio commento si è limitato a
dire: Sembrerebbe che ancora qui sia l’iniziativa di Aryaman che
orienta l'azione collettiva degli Àditya verso questa grazia speciale».
Non è abbastanza chiaro? Tratto un singolare come un duale. Si
tratta del lapsus segnalato più sopra che, in A V, XIV, 1, 39 (S mi ha
fatto scrivere e non mi ha fatto correggere «i suoceri» invece del suocero»,
come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io abbia pensato
ai «due suoceri». Mi reputa così ignorante da poter credere che io abbia preso
un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o, per un nominativo duale?
La stessa parola, sotto la stessa forma non è forse correttamente
tradotta la seconda volta che la si incontra (S)? La spiegazione che mi
parrebbe più plausibile è che, essendo poco leggibile il mio manoscritto,
il compositore abbia congetturato i «suoceri» secondo i cognati che
seguono immediatamente, o che meccanicamente abbia messo allo stesso numero
queste due parole così analoghe [pères e frères nel testo. N.d.T.]. Può
anche darsi che il lapsus risalga al mio manoscritto. Mi dispiace molto
ad ogni modo che nella sovrabbondanza di correzioni che ho dovuto fare
sulle bozze quello mi sia scappato e che l’errore mi sia saltato agli
occhi solamente qualche mese dopo la pubblicazione. È in maniera sleale
che Thieme orchestra questo scandalo in due pagine e anche il mio errore
su svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito. Nondimeno Thieme
dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio argomento la menzione
del suocero e dei cognati (della moglie) in A V, XIV, 1,39 e quella del
suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari», 1 conservano
tutto il loro valore dimostrativo, com’è stato mostrato qui sopra a n.
18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel matrimonio, non si interessa
solamente ai giovani sposi, ma ai parenti per l’alleanza che la loro unione
stabilisce e l’altro indica (cosa ammessa da Thieme nel 1957; Z, p. 213!)
che le alleanze matrimoniali si compiono all’interno dell’insieme ari. Insomma,
Thieme grida «all’interpretazione errata!» per mascherare il gioco di prestigio
altrimenti grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi
che stabiliscono il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio'. Il libro è in
seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste ed
utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle figure e ai
rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché Thieme
denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di senso, una traduzione
possibile ma che non ha il suo favore 2, caricaturando le mie esposizioni 3 e
inventando delle contraddizioni peravere un motivo di risentimento in più
4, etc. etc. L’obiettivo di questo triplo assalto grammaticale si
scopre a pagina 17: «IJ'eel il my duty to warn especially Lutinists, who
cannai be expecled lo judge on thè meriti of Dumez.il' s indological araumenti,
agama trusting hispresentation oflhe Jacts oJ'Vedic religion loo
confidently, andagainst believing ihal only his "expla-
naiions" need be discussed». Non ho questa pretesa. Domando solo senza
grandi speranze che latinisti o indologi, di St. Andrews o di Yale, che
vogliano discutermi lo facciano lealmente. 2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I,
141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV, X, 89,9; ctc. p. 67, in RV VII,
82, 5, Thieme rende correttamente duvasyatil Ha sicuramente ragione, ad
ogni modo, a rimproverarmi la riga di S.,(Mitra offre dei sacrifici a Vanirla),
in cui ho esagerato la frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La
religion védique, III, p. 138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna
sono del resto esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al
secondo come il sacerdote al dio che onora»): duvasyati significa sempl
icementc «rendere gli onori dovuti»; bisogna correggere in que.slo senso Les
dieux des Indoeuropéens: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è come un sacerdote di
Varuna. 3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho detto dei rapporti tra
il contratto e l'amicizia, Mitra- Varuna', non è compreso. Non ho fatto
la lezione a Meillet; ho semplicemente utilizzato i progressi che, dal
suo articolo, i sociologi hanno fatto compiere alla teoria del contratto
presso i popoli semi-civilizzati. Allo stesso modo, p. 82, la mia
concezione dei rapporti tra i diversi dèi sovrani si è deformata: che si
confronti il capitolo II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia dei
nomi divini (Varuna, Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo
quando è evidente (Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses
latineset mythes védiques): qualunque sia quella di Varuna (e non credo
molto a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente,
l’insieme del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure
divine: un dio non c prigioniero del suo nome. 4 P. es., p. 74, n.
54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e 136, a
proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà facilmente che essa
non esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo così futilmente in
contraddizione., sono accusato per due parole di «mislranslations, wich might
have been avoided by looking up thè PW or any other good dictionary;
Thieme vorrà rifarsi a A.B. Keith, HOS XVIII, p. 167-168, di cui ho
adottato la traduzione (e vi sono ragioni per preferire questa
interpretazione a quella di Thieme). P. 9; Thieme non tiene conto della
differenza d’intenzione tra Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A
dispetto del suo titolo indiano il primo libro non tratta un soggetto indiano 1
; si propone di dimostrare che presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e
fra i Germani in special modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi della
prima funzione la cui articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne
ha scoperto per Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano
con una campionatura abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabilire
«gli insegnamenti degli inni stessi» e dei Bràhmana - che altri (dopo
Bergaigne e Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In Le Troisième
Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un problema specificatamente
indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovuto riprendere tutti i testi,
discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da scrivere sul mio
libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di essere e di
rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei soggetti, a dei
bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della materia hanno
corrisposto dei procedimenti differenti. Quanto alle tesi stesse di
Thieme, le esaminerò nella Revue de l'Histoire des Religions e mi
sforzerò di rispondere con un’argomentazione serena a questa scherma da
gladiatore. Enumererò gli apporti positivi poiché ve ne sono. E
dimostrerò come sotto le apparenze del rigore filologico Thieme
misconosca costantemente le prospettive, ignori i dati statistici più evidenti
e distrugga i rapporti più probabili e sulla via così sgombra si avanzi
con una sovrana fantasia verso le pagine sorprendenti che terminano il suo
libro. In attesa, a coloro che sarebbero impressionati da questo
meccanismo, non posso che consigliare di rileggere, circa i grandi
Àditya, l’ammirevole esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia
su molti punti, ma attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture
del pensiero, onesta e intelligente. I J.C. Tavadia si era
inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più leale riparazione. L’editoria
italiana ha accolto con favori e fortune alterne l’opera di un autore
tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu Dumézil, persona
acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di rado pungente ma
sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano che l’inchiesta
scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre che ai colleghi
che accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore nostrano troverà di
piacevole lettura la traduzione della intervista francese: Un banchetto dì
immortalità. Conversazioni con Didier Eribon, Guanda, Milano. Spetta
alle Einaudi l’esordio di Dumézil nel panorama editoriale del nostro
dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola” che non senza travaglio di
intelletti e di coscienze (si legga il carteggio Pavese - Martino, La collana
viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha
contribuito a diffondere autori importanti come Jung, Kerény,L.
Frobenius, Leeuw, Eliade. Jupiter, Mars, Quirinus, Torino, è una traduzione di
parti dell’originale, più capitoli di altri volumi come Naissance de
Rome, Naissance d'Archanges, e Jupiter, Mars, Quirinus. Il catalogo della
Einaudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a rioccuparsi
di Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata, 1982 (= Mythe
et epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei. Spetta alla
Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti, a cominciare
dalla raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli Eroi.
Leggende sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della
Bompiani, Milano 1976), fino a Gli dèi dei Germani; Matrimoni Indo-europei; Le
sortì del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso gli
Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo libro, condotta sulla
precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi
della Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura del guerriero, Tonno). E
infine bisogna ricordare anche «...Il monaco nero in grigio dentro
Varennes», che è però un divertissement enigmistico-letterario sulle
profezie di Nostradamus. Il catalogo della Rizzoli (Milano)
si è arricchito di due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili,
come La religione romana arcaica, eStorie degli Sciti; mentre II Melangolo
(Genova) ha tradotto due volumi quali Idee romane, e Feste romane.
Recentemente le edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto La saga di
Hadingus. Dal mito al romanzo. Fra le poche opere italiane su questo
autore ricordiamo Rivière, Dumézil
egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una
bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil cf. la rivista Futuro
presente diretta da Alessandro Campi (numero monografico “Georges Dumézil
e l’eredità indo-europea”): oltre a un dibattito su Dumézil in base alle aree
storico-geografiche consuete nella sua ricerca (Roma, Indo-Iranici,
Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle persistenze
del modello trifunzionale nella società medioevale - suddivisione in oratores,
bellatores, laboralores - e la traduzione di un articolo di Dumézil in risposta
alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia
germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni Storici, ristampato in Id.,
Miti, emblemi, spie, Einaudi, Torino) su un argomento, le presunte
simpatie per la cultura nazista, già affrontato da A. Momigliano, Rivista
storica italiana. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi
indoeuropei cf. A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi
dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni di Ava/lon e “Indoeuropeistica e
cultura europea”, in L 'Europa di fronte all'Occidente, Il Cerchio,
Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni sociali, religiose,
economiche, amministrative, giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi
indoeuropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee,
I-II, Einaudi, Torino; si veda anche E. Campanile, “Antichità
indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue indoeuropee,
Il Mulino, Bologna, e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeuropeo e il sacro, Jaca
Book-Massimo, Milano. Un argomento dibattuto da decenni come la nozione di
“lingua poetica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle diverse
letterature - Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di
una fraseologia comune ed ereditaria) è stato di recente affrontato in un libro
eccellente di G. Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea, Leo
Olschki, Firenze. Ries La riscoperta del pensiero religioso
indoeuropeo L’opera magistrale di
Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche. Le teologie tripartite. Le
diverse funzioni nella teologia, nella mitologia e nell 'epopea
Storia degli Studi. Aryaman e Paul Thieme Bibliografia italiana di Dumézil.
Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords: sul conferimento di valore, il guerriero indo-germanico – Pound, conferire
valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di
speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The
Swimming-Pool Library.
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