Grice e Cesarotti:
implicatura conversazionale e ragione conversazionale – scuola di Padova –
filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Padova).
Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Melchiorre
Cesarotti Voce Discussione Leggi Modifica Modifica wikitesto
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Melchiorre C., opera di Romano Petrelli precedente al 1847. Il busto fa parte
del Panteon Veneto, conservato presso Palazzo Loredan, Campo Santo Stefano,
Venezia. Melchiorre C. (Padova – Padova) è stato un FILOSOFO, scrittore,
traduttore, linguista e poeta italiano. Biografia Infanzia e giovinezza
Figlio di Giovanni (Zanne) - prima avvocato e poi funzionario pubblico[1] - e
di Medea Bacuchi, C. nacque nel 1730 a Padova da una famiglia di antica origine
nobile ma da tempo entrata nel "ceto civile". Studiò nel
seminario della sua città, dove ebbe come guida il matematico Giuseppe Toaldo,
di cui divenne amico.[1] Qui ottenne il titolo e il privilegio di abate[1] -
prese gli ordini minori senza diventare sacerdote[2] -, e fu poi accolto come
giovanissimo professore di retorica[1] e belle lettere nei primi anni cinquanta
del Settecento. Nel 1750 divenne membro dell'Accademia dei
Ricovrati.[1] Nel novembre 1760 lasciò Padova per trasferirsi a Venezia
come precettore presso la famiglia Grimani, incarico che mantenne per otto
anni.[1] Qui entrò in contatto con le personalità più in vista nel mondo
culturale come Angelo Emo, i fratelli Gasparo e Carlo Gozzi, Carlo Goldoni e
Angelo Querini. Esordi e fama Pietro Longhi, Ritratto di Melchiorre
C., precettore dei Grimani di San Luca, XVIII secolo. Maturò nell'ambiente
culturale veneziano l'esperienza che gli diede una fama europea, ovvero la
traduzione in italiano dei Canti di Ossian (Poems of Ossian), pubblicati tre
anni prima dallo scozzese James Macpherson;[1] a quest'opera dedicò oltre un
decennio, pubblicando una prima edizione incompleta nel 1763 e poi quella,
definitiva e completa, nel 1772. Pubblicò a Venezia un volume[3] che
conteneva, oltre alle traduzioni di due tragedie di Voltaire (La morte di
Cesare e Maometto), due dissertazioni teoriche intitolate Ragionamento sopra il
diletto della Tragedia e Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte
poetica, quest'ultimo poi ripudiato ed escluso dall'edizione definitiva delle
Opere (1808). L'edizione del 1762 presentava anche un Ragionamento sopra il
Cesare e un Ragionamento sopra il Maometto, a partire dai quali, probabilmente,
l'abate era giunto alla stesura del saggio di carattere generale[4] Era infine
incluso un componimento in giambi latini, Mercurius. De Poetis tragicis, opera
che, passando in rassegna la storia delle varie letterature, assegnava a
Voltaire la corona di miglior tragico. Nel 1768 venne nominato professore
di lingua greca ed ebraica presso l'Università di Padova,[1] cattedra che
mantenne fino al 1797 quando passò, sempre nella stessa università a quella di
belle lettere, ovvero di eloquenza. Appartengono a questo periodo le sue opere
più note: come traduttore dal greco (Demostene, Omero, cfr. infra), e dalle
lingue moderne (ancora l'Ossian, Gessner, Young), e come teorico dell'estetica
(Saggio sulla filosofia del gusto, 1784) e della lingua (Saggio sopra la lingua
italiana, 1785). Dopo aver ottenuto la cattedra presso lo Studio
patavino, i Riformatori dell'Università commissionarono a C. la traduzione di
opere greche. L'abate si applicò quindi alle versioni di Demostene, che videro
la luce in sei volumi tra il 1774 e il 1778, edite da Penada a Padova[5]. In
margine a questo lavoro C. scrisse numerosi testi critici, tra cui la Lettera
ai Riformatori (scritta nel 1775 ma, dato il suo carattere letterariamente
audace, pubblicata solo nel 1807 all'interno degli Opera omnia di C.) e una
lettera anteposta al sesto tomo del Demostene, dove, criticando le traduzioni
letterali, aveva modo di enunciare i difetti dell'oratoria demostenica[6],
tanto da comunicare la rinuncia, nel secondo testo citato, a tradurre ogni
singola orazione di Demostene. Di quelle non tradotte erano stati volti in
italiano i passi ritenuti meritevoli di lode[7]. Appena concluso il
lavoro su Demostene, C. presentò al magistrato degli studi un Piano sistematico
relativo allo spirito delle traduzioni e agli autori greci[8], in cui l'abate denominava
Corso ragionato di letteratura greca la progettata scelta giudiziosa[9] di una
serie di traduzioni dal greco. C. si proponeva di pescare a piene mani nel
vasto panorama degli autori greci e volgarizzare squarci tratti dagli scritti
politici, filosofici, dialogici e dalle epistole. Il progetto rimase
incompiuto, al punto che l'abate tradusse solo i testi di argomento politico,
apparsi nei due volumi del Corso ragionato di letteratura greca (edito nel 1781
a Padova in due volumi). Il Piano ragionato di traduzioni dal greco, redatto
probabilmente nel 1778, rimase inedito fino al 1882 quando fu pubblicato da
Guido Mazzoni. Nel 1779 divenne segretario a vita della classe di belle lettere
del nuovo Istituto di scienze, lettere ed arti (che aveva sostituito
l'Accademia dei Ricovrati), assumendo di fatto il controllo
dell'istituzione.[1] Al principio degli anni ottanta molti discepoli si
erano ormai radunati attorno al maestro, in quella che fu una sorta di famiglia.
La fama di C. era diffusa a livello internazionale, come dimostra la sua vasta
corrispondenza con illustri intellettuali di tutta Europa e il ricorso alla sua
autorità in riviste e scritti stranieri. Di indole sedentaria, l'abate non
aveva mai lasciato la Repubblica di Venezia sino al 1783, quando accettò
l'invito a Roma dell'ambasciatore veneto Andrea Memmo. Nella città capitolina
fu nell'Accademia dell'Arcadia (nel 1777 era entrato a farne parte con il nome
arcadico di Meronte Larisseo) e frequentò il salotto della contessa d'Albany.
Conobbe inoltre Antonio Canova, il quale gli fece visitare la basilica di San
Pietro e i Musei Vaticani[11]. Rapporto con Alfieri Vittorio
Alfieri Nel giugno di quello stesso 1783, C. aveva incontrato a Padova Vittorio
Alfieri, che quell'anno dava alle stampe le sue prime dieci tragedie. Alfieri,
ammiratore della traduzione ossianica, cercava dall'abate lumi per
impossessarsi di uno stile tragico: le loro personalità, opposte sul piano
umano e artistico, si scontrarono inevitabilmente. Davanti a C. e alla sua
scuola Alfieri lesse La congiura de' Pazzi, tragedia lontanissima dal modello C.ano
fondato sulla ragione e sulla moderazione -, e il professore padovano la
criticò in una missiva che l'Astigiano negò di aver ricevuto. Due anni dopo la
loro contrapposizione artistica si espresse più chiaramente: C. scrisse una
lettera su Ottavia, Timoleone e Merope, cui il drammaturgo rispose[12]. A
questo punto calò il silenzio, rotto solo nel 1796 quando l'abate scrisse ad
Alfieri una lettera di presentazione per Isabella Teotochi Albrizzi, animatrice
di un celebre salotto veneziano frequentato negli anni dallo stesso C. -,
missiva non immune da una vena di sarcasmo riscontrabile anche nella replica
dell'Astigiano. Il biografo ottocentesco Giuseppe Vedova affermò che una nota
presente nella Dissertazione sopra la tragedia cittadinesca dell'abate Pier
Antonio Meneghelli, pubblicata nel 1795, e apertamente ostile nei riguardi di
Alfieri, fosse opera di C., un'ipotesi tuttavia non dimostrabile[13].
Moderato impegno civile Da sempre sostenitore delle idee illuministe, C. fu
come molti spiazzato dall'esito violento della Rivoluzione francese. All'arrivo
delle truppe napoleoniche in Italia si schierò in favore di Bonaparte:[1] per
lui scrisse nel 1797 un sonetto encomiastico, e fece anche parte della
delegazione inviata ad accogliere il generale vittorioso. Entrò nella
Municipalità di Padova come membro aggiunto libero del Comitato di Pubblica
Istruzione. In questa veste scrisse nel 1797 l'Istruzione d'un cittadino a'
suoi fratelli meno istrutti, testo pensato per il popolo e decisamente lontano
dalle idee radicali dei rivoluzionari, nonostante appoggiasse la causa democratica
e fosse stato commissionato dal Comitato[14]. All'Istruzione fece seguito Il
patriotismo illuminato. Entrambi gli scritti apparvero a Padova, il 19 maggio e
il 10 luglio rispettivamente, per i tipi di Pietro Brandolese. Nel breve
periodo della Municipalità destinata a terminare la sua avventura in quello
stesso anno contribuì anche al piano di riforma dell'Università[1] e delle
scuole, presto abortiti in ragione della mutata situazione politica. C. fece
pubblicare il suo contributo al piano di riforma dell'Università nell'edizione
completa delle sue opere, con il titolo Saggio sopra le instituzioni
scolastiche private e pubbliche, cui premise un Avviso degli editori redatto di
suo pugno. Privo di accese idee politiche, dopo il Trattato di
Campoformio (1797) sostenne gli austriaci, salvo tornare sui suoi passi al
ritorno dei napoleonici.[1] Ultimi anni Villa C. a Selvazzano
Dentro in provincia di Padova Nel 1803 si cimentò in una festa teatrale , l'Adria consolata, testo
composto in occasione del genetliaco di Francesco II d'Asburgo-Lorena, musicato
da Ferdinando Bertoni e messo in scena alla Fenice lo stesso anno[15]. A
Napoleone C. dedicò un discusso poema celebrativo, la Pronea (1807), duramente
commentato dal Foscolo: misera concezione, frasi grottesche, verseggiatura di
dramma per musica, e per giunta gran lezzo di adulazione, scrisse l'11 novembre
1807 a Giovanni Battista Niccolini[16]. Si ritirò negli ultimi anni nella
tranquillità della sua villa[17] di Selvazzano,[1] da lungo tempo di proprietà
della sua famiglia, dove ospitò i discepoli e gli amici più cari tra i quali
Giuseppe Barbieri,[1] Ippolito Pindemonte, Isabella Teotochi Albrizzi, Giustina
Renier Michiel, Francesco Rizzo Patarol e forse anche Foscolo, e impiantò uno
dei primi giardini all'inglese in Italia. Nella sua casa di Padova (sita
accanto alla Basilica di Sant'Antonio, nell'attuale via C.) nel maggio 1805
ricevette la visita di Madame de Staël che, di passaggio in Veneto al termine
del suo lungo tour italiano, sostò a Padova tre giorni per potersi intrattenere
di cose letterarie col C.. Morì il 4 novembre 1808. Le sue ossa e il suo
cenotafio furono posti nella Basilica di Sant'Antonio di Padova.[18]
Traduzioni letterarie Frontespizio della traduzione C.ana dell'Elegia
scritta in un cimitero campestre. C. è noto per la sua opera di traduttore di
Omero (pubblicò tra il 1786 e il 1794 una versione in prosa[1] e una in versi
dell'Iliade, per poi cimentarsi in un rifacimento in endecasillabi sciolti dal
titolo La morte di Ettore, 1795[19]); tradusse anche il Prometeo incatenato
eschileo, sette Odi di Pindaro (entrambi i lavori apparvero nel 1754), tre
tragedie di Voltaire, il Maometto (tradotto tra il 1755 e il 1758), La morte di
Cesare (1761) e la Semiramide (1771), la farsa in prosa Oracle (alla fine degli
anni Ottanta), di Saint-Foix, l'Elegia scritta in un cimitero campestre di Gray
(1772) nonché opere di Demostene, satire di Giovenale e scritti di altri
oratori greci (questi ultimi confluiti nel Corso ragionato di letteratura
greca, 1781-1784)[20]. Tuttavia la traduzione che gli diede una fama
europea gli capitò tra le mani quando Charles Sackville, esule britannico
incontrato a Venezia, gli fornì tutte le informazioni riguardanti l'attività di
James Macpherson intorno al mitico bardo Ossian[21]. Dei Poems of Ossian
pubblicati da Macpherson nel 1762-63, C. diede alle stampe una prima traduzione
parziale nel 1763, intitolata Poesie di Ossian cui fece seguito nel 1772 la
traduzione dell'intero corpus di canti. La sua versione, stilisticamente
innovativa e di grande suggestione letteraria, attrasse l'attenzione dei
letterati in Italia e Francia, suscitando numerosi imitatori. Fu per suo
tramite che Goethe entrò in contatto con l'Ossian; e lo stesso Napoleone
apprezzava l'opera al punto da portarla con sé anche in battaglia[22]. Nelle
Poesie di Ossian, C. riesce nell'intento di convertire tutti gli elementi e i
principi della nascente lirica incentrata sulla natura e sui sentimenti,
mantenendo una saldatura tra tradizione e nuovi temi poetici, di fatto dando il
la al Romanticismo italiano[21]. Scritti teorici Voltaire Nel 1762 C.
licenziò in un unico volume il Ragionamento sopra il diletto della Tragedia e
il Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'Arte Poetica[3]. Con il
saggio sulla tragedia C. contesta le teorie di Dubos[23] e Fontenelle[24], e
modella il ragionamento su quello dell'opuscolo Of Tragedy[25] di Hume (1754),
pervenendo a conclusioni affatto personali. Per C., il cui modello di perfetta
tragedia si trova nel teatro illuminista di Voltaire, il diletto tragico deriva
dalla completa illusione che coglie lo spettatore, dapprima intorbidato dalle passioni , mosso dalla pietà
e oppresso dal dolore, poi, attraverso la ragione, spinto a trarre insegnamenti
morali e a vincere il terrore di subire un destino simile a quello
rappresentato dagli attori sul palcoscenico. C. concilia quindi l'estetica
sensistica e quella classicistico-razionalistica: l'emozione viene sublimata
dalla ragione, cosicché la tragedia veicola tramite le vicende inscenate un
messaggio istruttivo per lo spettatore e per la società[26]. Importanti
furono anche le sue riflessioni sulla lingua. Pubblicato dapprima nel 1785 con
il titolo di Saggio sopra la lingua italiana, poi mutato nell'edizione
definitiva (1800) in Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua
italiana, il trattato di C. costituisce una delle voci più autorevoli e
intelligenti del dibattito linguistico italiano del Settecento. Scritto in un
periodo di contatti linguistici con la Francia, il trattato affronta il tema
del prestito linguistico, teorizzando la possibilità che esso possa portare ad
un arricchimento della lingua, inserendosi nel dibattito sorto fra i
tradizionalisti impegnati a conservare la purezza della lingua e dei principi
letterari e i rinnovatori ansiosi di liberare la lingua dai modelli tipici
della Crusca. C. critica, nella prima parte, i pregiudizi vigenti sulla
purezza della lingua e tende ad evidenziarne il collegamento con la storia
della civiltà, poi nella seconda sezione distingue il genio grammaticale,
ovvero la norma linguistica immutabile, e il genio retorico, che essendo legato
alla contingenza può mutare. Infine, sostiene che i prestiti linguistici come i
francesismi si possano accettare nella lingua italiana, a condizione però che
essi non vadano in contrasto con le norme del genio grammaticale, ossia che
nella lingua di destinazione non sia già presente un termine equivalente.
L'edizione completa della sua opera, in 40 volumi in ottavo, iniziò ad uscire a
Pisa nel 1800 e fu completata postuma nel 1813[1] per cura dell'allievo
prediletto e successore alla cattedra padovana, l'abate Giuseppe
Barbieri. Intitolazioni Targa a C. sulla facciata di Palazzo de
Claricini a Padova, dove spirò Padova volle dedicargli un'importante via
cittadina e ricordarlo con la statua nr. 32 dello scultore Bartolomeo Ferrari
in Prato della Valle. Opere principali Elogio dell'abate Giuseppe Olivi ed
analisi delle sue opere con un saggio di poesie inedite del medesimo, Padova
1796, per li fratelli Penada. Sulla tragedia e sulla poesia, a cura di Fabio
Finotti, Venezia, Marsilio, 2010, ISBN 978-88-317-0745-9 Pronea. Componimento
epico, testo critico e commento a cura di Salvatore Puggioni, Padova, Esedra,
2016. Note Del Negro 2015, 93-94. ^ E. Mattioda, Nota biografica, in
M. C., Le poesie di Ossian, Roma, Salerno, 2010,XXX. Il Cesare e il
Maometto. Tragedie del Sig. di Voltaire, trasportate in versi italiani con
alcuni Ragionamenti del traduttore, Venezia, Giambattista Pasquali, 1762. ^ Ranzini,
Verso la poetica del sublime, Ospedaletto 1998114 e ss.. ^ F. Lo Monaco, Il
Demostene di C., in Aspetti dell'opera e della fortuna di Melchiorre C. (a c.
di G. Barbarisi e G. Carnazzi), Milano 2002, vol. I, pp. 205-206. ^ F. Lo
Monaco, cit. 208-210. ^ Il traduttore a chi legge, in Opere di Demostene,
trasportate dalla greca nella favella italiana, e con varie annotazioni ed
osservazioni illustrate dall'ab. Melchior C., pubblico professore di lingua
greca nell'Università di Padova e socio della Reale Accademia di Mantova,
Padova, Penada, vol. VI, 1778 IV-VI. ^ G. A. M[AGGI], Vita di Melchior C., in
Opere scelte di Melchior C., Milano, Società Tipografica de' Classici Italiani,
1820, vol. I, XXIX. ^ G. Benedetto, C. e gli oratori attici, in Aspetti
dell'opera..., cit., 184. ^ Piano ragionato di traduzioni dal greco, in Prose
edite e inedite di Melchior C., a c. di G. Mazzoni, Bologna, Zanichelli, 1882.
^ C. Chiancone, La scuola di C. e gli esordi del giovane Foscolo, Pisa 2012 98
e ss.. ^ Ranzini, Verso la poetica del sublime, cit., op. 161-165. ^ G. Vedova,
Biografia degli scrittori padovani, Padova, Minerva, 1832, vol. I 597-598; Ranzini,
Verso la poetica del sublime, cit. 160 e 169n. ^ G. Santato, Studi alfieriani e
altri studi settecenteschi, Modena 2014, 163. ^ G. Folena, C., Monti e il
melodramma tra Sette e Ottocento, in L'italiano in Europa, Torino 1983 333-334.
^ Epistolario, vol. II (Luglio 1804-Dicembre 1808), a cura di Carli, in
Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, Firenze, Le Monnier, 1952, vol.
XV, 286. ^ Fabris Genealogia Curiosità Villa C. Fabris a Selvazzano Dentro,
Padova, su fabris-genealogia.it. URL consultato il 3 aprile 2013 (archiviato
dall'url originale il 30 aprile 2014). ^ Antonio Isnenghi, Guida della Basilica
di S. Antonio di Padova, Padova, 1857, 28. ^ La critica tendeva a considerare
la versione poetica come provvisoria, in vista dell'edizione definitiva, ma
Michele Mari ha mostrato che La morte di Ettore è a tutti gli effetti un'opera
a sé stante, e ha identificato così tre Iliadi C.ane; M. Mari, Le tre Iliadi di
Melchiorre C., in Giornale Storico della Letteratura Italiana, CLXVII (1990) 321-395.
^ Vedere la Nota biografica di E. Mattioda, in M. C., cit. XXX-XXXI. Le muse,
Novara, De Agostini, 1965, Vol. III, 215. ^ Thiesse, Anna-Marie, La creation
des identites nationales. Europe XVIII-XX siècle, Parigi, Éditions du Seuil,
1999, 52, ISBN 2020342472. ^ Nelle Réflexions critiques sur la poésie et la peinture (1719)
aveva sostenuto che il piacere tragico deriva dall'avversione umana per la noia
e l'inazione. ^ Secondo le Réflexions sur la poétique (1685) la tragedia
diletta perché lo spettatore sa che l'azione rappresentata non sta avvenendo
realmente. ^ Contestando Fontenelle e Dubos, Hume asserì che la passione
subordinata si muta in quella dominante, costituita dal piacere. ^ Ranzini,
Verso la poetica del sublime, cit. 27-34. Bibliografia Gennaro Barbarisi e
Giulio Carnazzi cur., Aspetti dell'opera e della fortuna di Melchiorre C., 2
volumi, Milano, Cisalpino, 2002, ISBN 88-323-4611-7. Claudio Chiancone, La
scuola di C. e gli esordi del giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS, 2012, ISBN
978-88-467-3449-5. Antonio Daniele cur., Melchiorre C., Atti del convegno
Padova 2008, Padova, Esedra, 2011, ISBN 978-88-6058-041-2. Piero Del Negro cur.,
Clariores. Dizionario biografico dei docenti e degli studenti dell'Università
di Padova, Padova, Padova University Press, 2015. Fabio Finotti cur.,
Melchiorre C. e le trasformazioni del paesaggio europeo, Trieste, EUT, 2010,
ISBN 978-88-8303-288-2 Gianfranco Folena, C., Monti e il melodramma tra Sette e
Ottocento, in L'italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento,
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Padova a Selvazzano, Padova, Provincia di Padova, 2008. Salvatore Puggioni, C.
e Mairan: sulle origini della mitologia olimpica, in L’indagine e la rima.
Scritti per Lorenzo Braccesi, II, a cura di F. Raviola; con M. Bassani, A. De
Biasi, E. Pastorio, Roma, L’ERMA di Bretschneider, 2013 1135-1156. Paola
Ranzini, Verso la poetica del sublime: L'estetica tragica di Melchiorre C., Ospedaletto, Pacini, 1998,
ISBN 978-88-7781-234-6. Guido Santato, Alfieri e C. e Il pensiero politico di
Melchiorre C., in Studi alfieriani e altri studi settecenteschi, Modena,
Mucchi, 2014 131–155 e 157-187, ISBN 978-88-7000-622-3. Voci correlate Elogio
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in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica
su Wikidata (EN) Melchiorre C., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Giorgio Patrizi, C., Melchiorre, in
Dizionario biografico degli italiani, vol. 24, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1980. Modifica su Wikidata Melchiorre C., su BeWeb, Conferenza
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italiani[altre]LINGUE E LETTERATURE CAROCCI C. Linguistica e antropologia
nell'età dei Lumi cur. Roggia Carocci Roma Publié avec le soutien du Fonds
national suisse de la recherche scientifique. C.. Filosofia, Linguistica e antropologia
nell'età dei Lumi Filosofia, Linguistica e antropologia del linguaggio. Il
discorso intorno alla lingua occupa una posizione cardinale nel dibattito
italiano. Come nota Simone, pochi momenti della storia della filosofia italiana
sono così costantemente animati dall’attenzione verso i fatti linguistici'.
Come in passato, le questioni linguistiche non smettono in questo periodo di
impegnare grammatici, filologi e letterati, ma in più vengono a occupare una
posizione del tutto inedita al centro del discorso filosofico, e lo fanno
secondo quella modalità di apertura e libera circolazione delle idee che è
tipica di un secolo in cui non si dà vera soluzione di continuità tra il
discorso specialistico e le mille forme più o meno apertamente divulgative di
cui si alimenta il dibattito pubblico. Il discorso sulle lingue diventa così
anche parte di un sentire comune all’Italia colta. In questo pervasivo
interesse per il linguaggio si possono isolare due direttrici maggiori,
concettualmente distinte benché di fatto largamente comunicanti. La prima
oppone orizzontalmente lingua a lingua, portando verso il grande tema
settecentesco della diversità e individualità, insomma del genio degli idiomi,
nonché verso una comparazione interlinguistica che viene sempre più integrando
nel proprio orizzonte lingue esotiche come le orientali, le amerindiane, le
africane. L'altra direttrice collega invece, verticalmente, le lingue (e il
linguaggio, inteso come facoltà umana) al pensiero e al mondo, portando verso
una teoria della conoscenza fortemente condizionata, quando non sostanziata,
dai segni linguistici. È probabilmente proprio in questo nesso organico tra
linguaggio e pensiero che si può cogliere una delle note più peculiari della
riflessione illuminista, che al SEGNO attribuisce non solo e non tanto la
funzione di trasmettere il pensiero, ma più ancora quella di plasmarlo, e di
permetterne il funzionamento. Le basi di questa interpretazione vengono poste
nell’ambito delle reazioni anticartesiane di fine Seicento e inizio Settecento:
l'empirismo lockiano in Inghilterra, le speculazioni di Wolff e Leibniz in
Germania, di Vico in Italia, di Condillac in Francia costituiscono altrettante
vie alla costruzione di un'epistemologia che vede nella elaborazione e nella
manipolazione dei SEGNO un tutt'uno con il pensiero, e un fondamento della
cognizione: nell’ANIMA umana (diversamente da quanto accade in quella divina)
le idee non possono fissarsi né essere manipolate altrimenti che per via
linguistica, ed è quindi il linguaggio ciò che più propriamente distingue gli
uomini dagli animali. Ne derivano almeno due corollari, che corrispondono anche
ad altrettanti robusti filoni della riflessione linguistica che attraversa il
secolo dei Lumi. In primo luogo, se il linguaggio gioca un ruolo attivo nel
pensiero, ne consegue che a diverse lingue si devono associare modi diversi di
pensare e sentire. La modalità di organizzazione e di strutturazione interna di
ogni singola lingua deve cioè ripercuotersi sul modo stesso in cui i suoi
parlanti si rappresentano il mondo e si rapportano a esso: nel genio della
lingua italiana si rispecchia il genio delle nazioni che le parlano. In secondo
luogo, se il linguaggio è l'indispensabile strumento attraverso cui si
costruisce la cognizione (e non invece la trascrizione di una RAZIONALITÀ data
4 priori -Grice, Speranza --, una volta per tutte), allora linguaggio e
pensiero devono avere una storia comune, e un' indagine sulla formazione del
linguaggio non può che essere a un tempo anche un'indagine sul progresso
dell’ANIMA umana e della sua emancipazione dal senso. Troviamo questi due
indirizzi emblematicamente al centro dei due celebri concorsi banditi
dall'Accademia delle scienze di Berlino, rispettivamente nel 1759 e nel 1771:
il primo (per cui fu premiato l’orientalista Johann David Michaelis) aveva appunto
come oggetto il tema dell'influenza reciproca delle idee sulla lingua e della
lingua sulle idee; il secondo (vincitore Herder), il tema dell'origine naturale
delle lingue. Più volte in passato si è fatto ricorso al termine e al concetto
di antropologia per descrivere la curvatura di questa riflessione sul
linguaggio, che vede nelle lingue altrettante finestre aperte sulla mente degli
uomini e dei [Su questi concorsi, cfr. le ricostruzioni di Cordula Neis (2003)
e Avi Lifschitz. Per quanto abbiano avuto grande risonanza e suscitato un vasto
dibattito, attirando la partecipazione di alcune delle intelligenze pià
qualificate del Continente, i concorsi rappresentano piü che altro due momenti
di sintesi rispetto a temi che erano all'ordine del giorno della filosofia del
linguaggio europea da svariati decenni, e avevano già conosciuto elaborazioni
influenti, tra cui quelle diversissime di Condillac e Rousseau, e quella più
appartata ma profondamente influente di VICO (si veda).] popoli che le
parlano’. Si tratta naturalmente di un’antropologia largamente speculativa,
tributaria del grande mito settecentesco della ricerca delle origini come
momento rivelatore dell’essenza delle cose; ma che interseca il suo percorso
con quello di un più vasto programma di rilettura del mondo antico, classico ed
ebraico, a sua volta aperto ai dati provenienti da lingue e culture lontane per
cercare l’antico nel remoto geografico, la filogenesi nella geografia. Non
altro che antropologica, del resto, può essere definita la stessa indagine
delle diversità di pensiero linguisticamente codificate nelle diverse comunità
umane. Ora, se si fa astrazione del caso di Vico, poderoso per ampiezza e
profondità di riflessione ma a lungo guardato con diffidenza in patria, questo
grande movimento europeo, che, con parole di GENSINI (si veda, guarda al
linguaggio come questione di generale rilevanza per la teoria della conoscenza
e non più solo come un affare interno all’ Zize dei letterati, arriva a
investire l’Italia piuttosto tardi, ovvero tra gli anni Settanta e Ottanta del
xvi secolo, quando vedono la luce in Italia quasi simultaneamente le opere sul
linguaggio di Beccaria, Soave, Ortes, Valdastri, C.. Nel giro della quindicina
d’anni compresi tra l’uscita delle Ricerche intorno alla natura dello stile di
Beccaria (peraltro già anticipate nel notevole Frammento sullo stile uscito sul
Caffè), e quella del Saggio sulla lingua italiana di C., questi autori
pubblicano libri che parlano in buona parte un linguaggio comune, basato sugli
sviluppi del pensiero di Locke, Condillac e almeno in parte Leibniz e dei loro
continuatori europei francesi e tedeschi*. Il senso di questo philosophic turn
si trova ben sintetizzato in una lezione pronunciata da C. nei primissimi anni
Settanta: se la lingua va considerata non solo l'interprete della mente, ma
direi quasi la sua educatrice e la sua artefice, non c’è affatto da stupirsi se
i più importanti filosofi della nostra epoca hanno reclamato a sé con migliori
auspici tutto intero lo studio delle lingue sfuggito dalle mani dei grammatici,
che come quei molesti e infecondi custodi delle bellezze asiatiche [sci/. gli
cunuchi] le avevano fino ai nostri tempi [Cfr. almeno Formigari, Ricken, Neis.
Cfr. Gensini. Le opere a cui si fa riferimento, oltre alle due citate, sono
rispettivamente F. Soave, Ricerche intorno all Istituzione naturale di una
societa e di una lingua, e all'influenza dell'una e dell'altra, su le umane
cognizioni, Riflessioni intorno all'istituzione d'una lingua universale (1774),
oltre all’edizione del Saggio filosofico di Loke; G. Ortes, Riflessioni sugli
oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane, per rapporto alle
lingue (1775); I. Valdastri, Corso teoretico di lingua e di logica italiana]
tenute rinchiuse in un carcere domestico, e dopo aver donato a tale studio
titolo e autorità di scienza, l'hanno a tal punto arricchito con le loro
riflessioni che ormai viene riconosciuto come una provincia rinomata tra le più
importanti del regno della metafisica’. Benché non destinate alla stampa,
queste parole assumono ai nostri occhi un sapore pressoché programmatico. Tra
gli autori citati sopra, in effetti, è senza dubbio C. quello il cui discorso
sul linguaggio ha raggiunto maggiore notorietà e diffusione, fino a incarnare
agli occhi degli storici, non meno che dei contemporanei e successori
immediati, la quintessenza stessa della via italiana alla filosofia delle
lingue nel Settecento. Su questo ruolo, magari solo parzialmente giustificato
sul piano strettamente documentario, ha inciso indubbiamente il prestigio di
una figura prolifica e letteralmente cardinale in molti campi del panorama
intellettuale italiano, non meno che il fatto che quel discorso, almeno nella
sua parte pubblica e più nota, si innestasse direttamente su quello che era da
secoli il dibattito nazionale per eccellenza, ovvero la questione della lingua.
L'impressione di una sorta di ruolo conclusivo e di sintesi di questa breve
stagione che le date citate sopra sembrerebbero assegnare al trattato di C. è
peraltro largamente fuorviante: non solo perché non è dato sapere fino a che
punto C. conoscesse le opere degli altri autori implicati in questa svolta (e
anche quando siamo sicuri che le conosceva, come è il caso di Beccaria, non è
affatto sicuro che ne abbia tratto stimoli fondamentali), ma soprattutto perché
l’elaborazione delle idee contenute nel Saggio, a cui resta affidata la sua
fama di linguista, risale nella sua parte propriamente filosofica a un
quindicennio prima, allorché, fresco ancora della fama procuratagli dalla
traduzione dell’ Ossian, gli era stata offerta la cattedra di Lingue antiche
presso lo Studio di Padova. I corsi e le lezioni universitarie scritti in
latino a partire dal 1769, e da cui è tratta la citazione sopra riportata, sono
rimasti pressoché inediti: solo una piccola selezione fu pubblicata postuma
dall’allievo Giuseppe Barbieri, alla periferia della monumentale edizione delle
Opere del Maestro‘. Integrare questi testi nel dossier C.ano significa da un
lato allargare di molto l’area su cui si esercita la riflessione linguistica
dell’abate padovano, ottenendo un quadro molto più attendibile dell'ampiezza e
della portata (ma anche dei limiti) della sua riflessione linguistica,
dall’altro s. M. C., De naturali linguarum explicatione, in C. (1810 59-60),
traduzione dal latino in C. (in corso di stampa, v, acr. 1). 6. Cfr. C. (1810).
aprire una finestra sulle modalità di penetrazione del dibattito linguistico
europeo nell’ Italia dei Lumi. C. conosceva almeno dai tempi del suo
apprendistato al Seminario di Padova le idee di Vico, Condillac e Locke (nonché
quelle di Leibniz, verosimilmente) attraverso la mediazione del suo mentore
Giuseppe Toaldo e di Antonio Conti; probabilmente aveva poi anche incontrato di
persona Condillac di passaggio a Venezia nell’aprile del 1765, e di sicuro ne
seguiva con interesse il lavoro, come risulta dalle lettere. A un'antropologia
vichiana aveva fatto ampio ricorso quando si era trattato di tradurre e
interpretare il mondo e il linguaggio pseudoarcaici dell’ Ossiaz*. Al momento
di salire in cattedra, è quindi proprio a quell’antropologia linguistica
dell’antico che si rivolge per dare al proprio insegnamento un indirizzo
moderno e filosofico; è su questo nucleo originario che vengono via via
integrate le numerose letture antiquarie ed erudite sull’ebraico e sulle
antiche lingue mediorientali, che lo porteranno a incontrare testi
fondamentali, come quelli di Charles de Brosses e del citato Johann David
Michaelis. Accanto alla ricostruzione filologica dei rapporti tra le lingue del
Medio Oriente e del Mediterraneo antichi, i temi al centro di queste lezioni
universitarie sono gli stessi che contemporaneamente animano il coevo dibattito
europeo: l’origine del linguaggio, la differenza tra lingue antiche e moderne,
labus des mots e il ruolo del linguaggio nella produzione degli errori di
pensiero, l’origine e il radicamento linguistico di istituzioni sociali e
culturali quali la mitologia, la religione, e in ultima analisi lo stesso
vivere associato. Si può tranquillamente dire che all’altezza della stesura del
Saggio, insomma, questi temi erano già stati elaborati e assimilati da tempo:
avevano un'estensione ben più ampia di quella che siamo soliti attribuire alla
riflessione dell’abate padovano, ed erano disponibili a essere almeno in parte
ripresi e rifusi in una trattazione sintetica e organica, orientata sulla
lingua italiana. L'occasione per questa rielaborazione viene dallo scioglimento
dell’Accademia della Crusca e dalla sua rifondazione all’interno dell’Accademia
fiorentina voluta da Pietro Leopoldo. Sarà questo evento a fornire a C. lo
stimolo per riprendere in mano e stringere in unità una serie di annotazioni
sulla lingua raccolte negli anni, dando loro la forma che oggi conosciamo e
presentandole via via sotto forma di relazioni all’ Accademia Patavina, di cui
era segretario, prima di dar loro 7. Cfr. Chiancone (2012, 56): a questo lavoro
(insieme a Roggia, 2014) rinvio anche per la questione dell’insegnamento
universitario di C., di cui si dirà più avanti. 8. Roggia (2013 147-91);
Battistini (2004). forma di trattato?. Si chiude così, sostanzialmente, il
ciclo della vera e propria linguistica C.ana: proprio nel momento in cui il
successo del Saggio consegna il suo autore al fuoco della polemica. Tutti i
saggi contenuti in questo volume, tranne uno, nascono dalle comunicazioni
tenute al convegno di studi Melchiorre C.. Linguistica e antropologia nell'età
dei Lumi, tenutosi all’ Università di Ginevra il 23-24 maggio 2018. Ai
contributi presentati a Ginevra si è aggiunto un saggio scritto per l'occasione
da Andrea Dardi. Oltre a collocarsi nel solco di una ricerca che chi scrive
porta avanti da alcuni anni, quell’incontro nasceva dalla constatazione che la
molta attenzione critica toccata all’abate padovano dai primi anni Duemila in
poi, con addirittura quattro convegni di studio espressamente a lui dedicati,
avesse lasciato fuori proprio il linguista'°. Ricomposti in unità, i contributi
vengono ora a disegnare una traiettoria unitaria, articolata in quattro parti,
secondo un percorso di progressivo avvicinamento o messa a fuoco, e di
altrettanto progressivo e speculare allontanamento. La prima sezione (/#quadramento)
ha appunto la funzione di disegnare uno sfondo alle tematiche al centro del
volume. Si apre con un’ampia messa a punto storiografica di Giorgio Graffi, che
a partire da una discussione delle diverse letture date della linguistica
sei-settecentesca dai primi del Novecento a oggi, discute la collocazione di C.,
terminando con un affondo sull’interpretazione e le radici di una delle sue
formule più note, ovvero quella del doppio genio (retorico e grammaticale)
delle lingue. Subito dopo, Claudio Marazzini fa la storia della fortuna critica
di C. in ambito italiano, dalle vicende editoriali ottocentesche della sua
opera maggiore fino alle interpretazioni datene in anni più prossimi a noi e
alle ragioni di quella che è stata giudicata di volta in volta l’attualità del
pensiero C.ano. La seconda parte (Reti, relazioni) declina in termini di
rapporti di pensiero il tema della collocazione di C. all’interno della rete
intellettuale dell’ Europa del Settecento. Le linee portanti del discorso
coincidono con quelle che collegano l’abate ai maestri o ai contemporanei che
più ne hanno influenzato il pensiero: Leibniz e il leibniziano de Brosses, 9.
Si veda per questo la ricostruzione di Daniele (2011b). 10. Rispettivamente a
Gargnano del Garda, 4-6 ottobre 2001 (cfr. Barbarisi, Carnazzi, 2002); Padova,
4-5 novembre 2008 (cfr. Daniele, zorra); Padova, 6-7 febbraio 2009 (cfr.
Finotti, 2010). Di un terzo convegno padovano (Melchiorre C. e la cultura
padovana e veneta tra Sette e Ottocento, Università di Padova, 23-24 maggio
2008) non sono invece disponibili gli Arti. ma anche Michaelis e Beauzée
(nell’ampia sintesi di Stefano Gensini), Vico (nel saggio di Andrea
Battistini), Condillac (nel contributo di Franco Arato). La sezione è tuttavia
aperta da un intervento di Silvia Contarini dedicato al giovanile Saggio
sull'origine e i progressi dell’arte poetica, ovvero l'incunabolo, ancora tutto
orientato alla poetica, di questo initerrotto discorso
antropologico-linguistico sulle origini. Oltre a chiamare in causa un autore di
primo piano e piuttosto negletto dagli studi C.ani quale Helvétius, il
contributo ha il merito di portare in primo piano un legame, quello tra temi
linguistico-antropologici e temi estetici, che appare del tutto naturale per il
C. del Saggio, e di fatto trasversale alla sua riflessione linguistica. Il
discorso portato avanti in questa parte del volume va in realtà ben oltre le
figure di primissimo piano nominate sopra: com'è ben noto a chi lo studia, il
Settecento è un secolo in cui la capillarità e la rapidità della comunicazione
culturale rendono estremamente difficile ragionare in termini di filiazioni
dirette e di debiti di pensiero certificabili. Spesso formule e idee appaiono a
tal punto condivise tra autori diversi, e magari tra loro lontani, da far
talvolta pensare a una sorta di koinė intellettuale. È il problema
impeccabilmente affrontato dal contributo di Andrea Dardi che inaugura la terza
parte del libro (Questioni), quella in cui la vicinanza prospettica all'oggetto
si fa massima nell’esaminare alcuni aspetti specifici del pensiero linguistico C.ano.
Nel caso di Dardi si tratta del concetto di idea accessoria, fondamentale per
la semantica e per la stilistica settecentesche, la cui storia viene inseguita
dalla prima apparizione nella Logique di Port-Royal fin dentro al Saggio C.ano.
Porta invece su uno dei temi fondanti della filosofia del linguaggio
settecentesca il saggio di Francesca Dovetto, dedicato al rapporto
lingua-realtà e alla questione dell’arbitrarietà o iconicità dei segni: un tema
a cui C. conferisce una curvatura tutta personale, in stretta connessione con
quelli contigui del mutamento linguistico e dell’intrinseca storicità delle
lingue. A questi sono appunto riservati i due saggi successivi: il primo, di
chi scrive, è dedicato più latamente a rintracciare e a sistematizzare nei
limiti del possibile i numerosi spunti di riflessione intorno al mutamento
delle lingue che si affacciano nell’opera di C.; il secondo, di Daniele
Baglioni, concerne l’etimologia, uno dei fili rossi che collegano la prima
esperienza didattica dell’abate al trattato maggiore, dove la scienza
dell’origine e derivazione delle parole viene caricata di inedite valenze
retoriche e stilistiche. Con la terza e ultima parte, il discorso torna infine
ad allontanarsi da C., in una ricerca da un lato delle radici cinquecentesche
del suo pensiero, dall’altro di una sua possibile eredità primo ottocentesca,
riportando il discorso all’alveo italiano della questione della lingua. Nella
prima direzione, Alberto Roncaccia studia l’apporto del naturalismo linguistico
di Benedetto Varchi al Saggio sulla filosofia delle lingue, riportando
l’attenzione sulla necessità di una storicizzazione che non sia troppo
schiacciata sul Settecento. Più complesse da seguire sono le tracce
dell’eredità ottocentesca del pensiero C.ano. Se Marazzini nel suo contributo
mette in luce, attraverso i riscontri obiettivi delle edizioni e ristampe, una
fortuna non interrotta del Saggio lungo tutta la prima metà del secolo, è pur
vero che l’avvento del purismo prima e del manzonismo poi non hanno certo
contribuito a creare un ambiente favorevole all’attecchimento di un pensiero
così intimamente settecentesco come quello dell’abate padovano. Così l’analisi
di Sara Pacaccio si configura più che altro come un puntuale riscontro di come
il rapporto tra C. e Manzoni non possa che essere innanzitutto la misurazione
di una distanza: l’abate incarna precisamente quel modello di linguistica
(filosofica e francesizzante) e di impostazione della questione della lingua
(antifiorentina e italiana) che Manzoni identifica come il proprio principale
bersaglio polemico. Quanto a Leopardi, dal quale ci si poteva forse aspettare
una certa sintonia in nome di una comune radice empirista e settecentesca, il
saggio di Alessio Ricci mette in luce importanti differenze di impostazione su
temi cruciali: più che contestarlo come fa Manzoni, Leopardi semplicemente
sembra ignorare C., o almeno il C. linguista. Come si vede, non é sempre
un'apologia del pensiero C.ano quella che emerge da queste pagine: non solo
l'analisi della presenza di C. in Leopardi e Manzoni, di cui si è detto da
ultimo, lascia vedere più ombre che luci, ma contributi come quelli di Daniele
Baglioni e Andrea Battistini sono piuttosto fermi nel rilevare da un lato i
limiti di un'etimologia praticata senza il necessario supporto di un'attenzione
da grammatico ai fatti di lingua, dall'altro una perdita netta di penetrazione
e forza speculativa nel confronto con il pur fondamentale Vico. Questo, d'altra
parte, non toglie nulla al rilievo di un'esperienza che resta quanto di più
lontano dalla pura mediazione culturale, e che attraverso i saggi raccolti in
questo volume viene forse per la prima volta esplorata in tutta la sua apertura
e complessità. Ci viene restituito così un pezzo non secondario di storia della
linguistica italiana, che è poi anche un pezzo di storia intellettuale europea
in quell'eccezionale frangente in cui (per citare la plastica non meno che
celebre formula C.ana) l Europa intellettuale funzionò come una gran famiglia i
cui membri condividevano un patrimonio comune di ragionamento, facendo tra loro
un commercio di idee di cui niuno ha la proprietà, tutti l’uso. BARBARISI,
CARNAZZI, Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre C., Cisalpino,
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Lepschy cur., Storia della linguistica, vol. 11, Il Mulino, Bologna 313-95.
Parte prima Inquadramento La linguistica del Settecento: problemi storiografici
-Graffi (Verona). La filosofia del linguaggio è stata oggetto di
interpretazioni contrastanti, dopo la pubblicazione di Cartesian Linguistics di
Chomsky. Nonostante lo studioso avesse dichiarato che my concern here is not
with the transmission of certain ideas and doctrines, but with their content
and, ultimately, their contemporary significance, è un dato di fatto che tale
testo sia stato recepito come un lavoro di storia della linguistica. Ad
esempio, Simone nota che, comunque sia, sta di fatto che il vero incipit
moderno degli studi sul pensiero linguistico seie settecentesco sta lì, e che
molte delle aree di studio ormai prese correntemente in considerazione in
quest'ambito sono state definite o per lo meno indicate in quel saggio. Questa
assunzione di Cartesian Linguistics come punto di riferimento da parte della
storiografia linguistica sul Seicento e il Settecento ha avuto alcuni effetti
negativi, di cui il responsabile non è ovviamente Chomsky. In molti casi,
infatti, la discussione si è concentrata soprattutto sulla sostenibilità o meno
delle sue tesi, più che sui contenuti effettivi della linguistica del periodo
in questione, con il risultato di far dimenticare, in larga parte, i lavori su
questo tema usciti nella prima parte del xx secolo, che conservano ancora un
notevole interesse e che può essere utile confrontare con quelli di mezzo
secolo dopo. Negli ultimi decenni, essendo ormai tramontata l’epoca degli
scontri tra chomskiani e antichomskiani, come H. Grice e Speranza, sono invece
usciti vari lavori che hanno fornito una valutazione più equilibrata della fase
di storia della linguistica che qui ci interessa. In questo contributo, vorrei
dunque tracciare una panoramica e un bilancio di alcuni studi sulla linguistica
del Settecento. Nel PAR. 2, discuterò il quadro suggerito da Cartesian
Linguistics assieme a quelli proposti in lavori ad esso esplicitamente
alternativi e, come vedremo, alternativi anche tra loro: mi riferisco a
Rosiello (1967), Aarsleff (1982) e Simone (1990). Mi dedicherò poi (PAR. 3) ad
alcuni studi risalenti alla prima metà del secolo scorso, ossia Brunot (1939),
Sahlin (1928), Harnois (1929) e Francois (1933), la cui impostazione e le cui
conclusioni confronterò con quelle dei lavori esaminati in precedenza.
Successivamente (PAR. 4), accennerò ad alcuni degli studi che ho definito più
equilibrati rispetto a quelli del PAR. 2: Pariente (1985), Formigari (2001),
Raby (2018). Infine (PAR. 5), mi occuperò di un aspetto del pensiero
linguistico del C. che è stato anch'esso oggetto di interpretazioni diverse,
ossia la distinzione tra genio grammaticale e genio rettorico introdotta nel
Saggio sulla filosofia delle lingue, che a mio parere presenta analogie non
trascurabili con alcune osservazioni in materia che si trovano nel grammatico
enciclopedista N. Beauzée. Di Cartesian Linguistics e della discussione
suscitata da quest'opera darò qui un resoconto sommario, rimandando, per
maggiori dettagli, a Graffi (2001; 2006). In sintesi, le tesi di Chomsky
sostenute in quell’opera possono essere così riassunte: con la Grammaire e la
Logique di Port-Royal ha inizio una tradizione di linguistica cartesiana che
prosegue con i grammatici collaboratori dell’ Encyclopédie (C. C. Du Marsais e
N. Beauzée) e giunge fino a Humboldt. Notiamo, per inciso, che Chomsky non cita
mai Condillac, né in Cartesian Linguistics né nel capitolo storico di Language
and Mind (Chomsky, 2006). Le radici della linguistica cartesiana si trovano,
secondo Chomsky, nella parte v del Discorso sul metodo, in cui Descartes
afferma che è il linguaggio, con le sue proprietà di creatività illimitata e indipendenza
dagli stimoli, a dimostrare che gli esseri umani differiscono essenzialmente
sia dagli animali che dalle macchine. Secondo Chomsky, le opere dei Signori di
Port-Royal e dei loro successori sviluppano questa prospettiva presentando il
linguaggio come una capacità universale della mente umana, la cui funzione
primaria è l’espressione del pensiero e non la comunicazione. Linguistica
illuminista di Rosiello (si veda) è in gran parte frutto di ricerche precedenti
all’uscita di Cartesian Linguistics: tuttavia, essendo stato pubblicato poco
dopo il libro di Chomsky, finì coll'essere considerato sostanzialmente come una
risposta a quest’ultimo (che, del resto, Rosiello criticava nell’introduzione
al proprio lavoro). Al contrario di Chomsky, Rosiello non vede affatto una
continuità tra i Signori di Port-Royal da un lato e grammatici o filosofi come
Du Marsais, Beauzée e Condillac dall’altro. Infatti, anche se tanto i primi
quanto i secondi usano l’espressione grammatica generale, la loro concezione
del linguaggio e della linguistica è opposta: razionalista e deduttivista in
Port-Royal, empirista nei linguisti detti da Rosiello illuministi. Dal punto di
vista teorico, le simpatie di Rosiello vanno decisamente all’ impostazione
empirista. Una posizione opposta sia a quella di Chomsky che a quella di Rosiello
(almeno per quanto riguarda la valutazione di Port-Royal da parte di
quest’ultimo) è sostenuta da Aarsleff, in vari saggi poi raccolti in Aarsleff
(1982). Aarsleff
di fatto capovolge l’interpretazione della linguistica di Port-Royal come razionalista,
affermando che there is ample proof that Port-Royal grammar and logic were
accepted by Locke, who quoted them often with approval (ivi, 4) e che Locke was
very sympathetic to the Jansenists of Port-Royal; he owned their works and read
them (ivi, 104). Questa impostazione
anticartesiana sarebbe poi stata assunta anche dai linguisti enciclopedisti,
come Du Marsais (Du Marsais rejected innate ideas out of hand. To be a
universal grammarian, it is enough to be a rationalist, 106), e avrebbe
raggiunto il suo culmine con Condillac. Nelle discussioni linguistiche del
Settecento, osserva Aarsleff (ivi, 107), Condillac is by all odds the most
important figure . Significantly, Descartes name is notably absent from all
discussions that specifically deal with language, though references to the
masters of Port-Royal and to Locke occur frequently. Aarsleff si spinge fino a
tracciare un parallelo tra la visione portorealista del linguaggio come
espressione del pensiero e le ipotesi avanzate da Condillac sull’origine del
linguaggio nel suo Essai sur l'origine des connoissances humaines (Condillac,
1947): It is a fact that Condillac's Essai caused an immediate revival of
universal grammar without the slightest sense of conflict, and the topic was at
once completely fused with interest in the origin of language that the term grammaire
générale was soon used for both. This fusion also reached all aspects of the
subject matter of universal grammar; what the latter did atemporally, the study
of the origin of language did on the scale of time, as a theoretical problem in
development the Port-Royal Grammar had
assumed that some word classes, such as nouns and verbs, were primary in
relation to others. Pronouns, for instance, were mere handy abbreviations or
convenient substitutes for nouns. In the terminology of the Port-Royal Grammar,
they had been invented to fulfill that function. Study of origin of language
converted this question into that of which parts of speech came first and how
the others were introduced and formed (Aarsleff). Secondo Aarsleff, dunque, la linguistica di
Port-Royal non è cartesiana e la tradizione della grammatica generale da essa
iniziata viene ripresa nel Settecento da Du Marsais e Condillac (a Beauzée,
Aarsleff dedica pochissimo spazio), che la inseriscono nel quadro gnoseologico
lockiano; questo spiega anche perché il termine grammatica generale sia di uso
costante presso tutti questi studiosi. Tratterd in questo paragrafo anche il
capitolo di Simone (1990) della Storia della linguistica curata da Lepschy,
nonostante sia abbastanza posteriore agli studi di Chomsky, Rosiello e Aarsleff
e, come si è visto supra, PAR. 1, contenga una valutazione meno critica di
Cartesian Linguistics: esso ha peró in comune con questi altri lavori la
tendenza a ricercare gli elementi di continuità o di rottura nelle varie fasi
del pensiero linguistico del Seicento e del Settecento. Simone dà anzitutto una
valutazione abbastanza riduttiva della Grammaire di Port-Royal, che a suo
parere rappresenta, in rapporto alla ricerca dei suoi tempi, un'opera
singolarmente isolata e intenzionalmente arretrata (Simone, 1990, 336). Per
quanto riguarda i grammatici dell Encyclopédie, Simone afferma invece: Dal
punto di vista dottrinale, la porzione linguistica dell Encyclopédie è un tentativo
di sintesi tra l'orientamento logicizzante della classica grammatica generale
francese e quello empiristico derivato da Locke attraverso Condillac. Du
Marsais (erroneamente catalogato, in molte occasioni, come un grammatico
generale) rappresenta molto nettamente questo secondo atteggiamento .
Dall'altro lato, peró, la sua concezione dell'ordine naturale (come ordine
logico spontaneo, che riflette i ritmi del pensiero e non affatica la mente) lo
colloca stretto contatto con la tradizione logicizzante. Non diversa è la
posizione di Beauzée, che oscilla tra una concezione dell’analisi linguistica
moderna e attenta ai fatti e una nostalgia logicizzante (ivi 381-2). Per quanto
riguarda invece Condillac, Simone sostiene che sviluppa una linea di pensiero
lockiana, ma per molti aspetti vicina a Vico, come ad esempio per quanto
riguarda il genio delle lingue (cfr. 370) e l’origine del linguaggio e delle
parti del discorso (ivi, 376). Tracciamo ora un confronto tra le
interpretazioni della linguistica del Sei-Settecento proposte dai quattro
studiosi di cui abbiamo parlato, in particolare per quanto riguarda la storia
del concetto di grammatica generale. Un solo punto è comune a tutti:
contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia linguistica fino alla metà
del Novecento (come vedremo anche infra, PAR. 3), la linguistica scientifica
non nasce all’inizio dell Ottocento con Bopp, ma le sue origini vanno
retrodatate almeno di un secolo e mezzo. Su tutti gli altri punti, invece, la
posizione di Chomsky è isolata: tanto Rosiello, quanto Aarsleff, quanto Simone
negano che si possa parlare di una linguistica cartesiana che procede,
sostanzialmente senza soluzione di continuità, dalla parte v del Discorso sul
metodo, attraverso Port-Royal, fino alla linguistica illuminista (e meno che
mai a Humboldt, possiamo aggiungere). Alla base di queste opposte
interpretazioni storiche sta certamente un contrasto teorico: Chomsky è
dichiaratamente razionalista (come si vede fin dal sottotitolo di Cartesian
Linguistics) ededuttivista gli altri tre studiosi sono empiristi e induttivisti
sia pure con motivazioni in parte differenti; ma, a parte questa comune base
teorica, le ricostruzioni proposte da Rosiello, Aarsleff e Simone si
contrappongono sotto vari punti di vista. Infatti, mentre Aarsleff sostiene che
c’è una continuità tra la grammatica di Port-Royal (di cui comunque nega il
carattere cartesiano) e la linguistica degli enciclopedisti e di Condillac, una
tale continuità é decisamente negata da Rosiello e da Simone, che peró danno
una valutazione diversa dei rapporti tra i vari linguisti del Settecento: per
Rosiello non c’è una differenza sostanziale tra Du Marsais e Beauzée, da un
lato, e Condillac dall'altro, mentre Simone trova nei primi due un
atteggiamento logicizzante assente invece nel secondo. I due studiosi italiani
danno inoltre una valutazione diversa delle origini del pensiero linguistico di
C.: Rosiello (1961, 97, nota 45), richiamandosi a un saggio di Carlo Calcaterra
(1946), condivide la tesi ivi esposta dell'assoluta dipendenza delle idee del
Cesarotti dal sensismo enciclopedistico con esclusione dell’ influenza
vichiana, influenza invece sostenuta da C. Trabalza ; Simone (1990, 380)
sostiene invece che il Saggio sulla filosofia delle lingue di C. si richiamava,
oltreché a Condillac e a de Brosses, anche a Vico. La linguistica del
Settecento nella storiografia della prima metà del secolo scorso Tra gli studi
della prima metà del Novecento dedicati alla linguistica settecentesca,
accenneró qui alle pagine di Cassirer (1964 81-99), al volume di Sahlin (1928),
a cui ha abbondantemente attinto anche Chomsky per Cartesian Linguistics, a
quello di Harnois (1929), nonché alle parti della monumentale Histoire de la
langue française di F. Brunot e collaboratori dedicate a questo argomento. Del
rapporto tra la tradizione della grammatica generale e i grammatici italiani
del Settecento si occupa in dettaglio Trabalza (1908), con alcune osservazioni
relative anche al C. che può essere interessante riprendere. Secondo Cassirer,
tanto le teorie linguistiche di impostazione razionalista quanto quelle di
impostazione empirista, nonostante le loro differenze di fondo, convergono su
un punto: la concezione del linguaggio come rappresentazione del pensiero. Ad
esse si contrappone la concezione di Vico e dei suoi eredi, che insiste invece
sull’origine emozionale del linguaggio. Il saggio di Herder sull’origine del
linguaggio rappresenta il punto di passaggio dalla concezione del linguaggio
come specchio del pensiero, propria dell’ Illuminismo, a quella, propria del
Romanticismo, del linguaggio come forma organica (cf. Cassirer, 1964, 97). Sahlin, com'è chiaro dal
suo titolo, si concentra invece sul ruolo di Du Marsais nella storia della
grammatica generale, della quale l'enciclopedista avrebbe rappresentato il
punto culminante, mentre dopo di lui la grammatica generale dégénérera au point
de n'étre guére autre chose que de vagues spéculations métaphysiques sur les
opérations de l'esprit, et son objet sera d'analyser la pensée par le moyen du
langage, plutót que d'analyser et d'expliquer les faits du langage (ivi, 4). Questa evoluzione negativa, a parere
dell'autrice, comincia già con Beauzée, per culminare con Condillac, Court de
Gébelin e Domergue (cfr. ivi 4-5). Le radici del pensiero di Du Marsais,
secondo Sahlin, si trovano in Descartes e Port-Royal ( Du Marsais reproduit
sans commentaire dans sa Logique les préceptes de Descartes et d'Arnauld , 15),
ma su di esse si sono innestati tanto l'empirismo di Locke quanto il
razionalismo di Leibniz (Entre Arnauld et Du Marsais se placent en effet deux
philosophes qui ont exercé une influence notable sur la grammaire générale
française, à savoir Leibniz et Locke, 17). L'origine portorealista della
grammatica generale appare incontestabile anche ad Harnois (la grammaire de
Port-Royal est à l'origine d'une période historique qui a son unité, comme le
sont toutes les grandes œuvres à influence prolongée, Harnois, 1929, 18), che
ne sottolinea anche il carattere cartesiano: De plus l'esprit de Port-Royal est
trés fortement imprégné de cartésianisme. Arnauld, Nicole, Lancelot sont
résolument rationalistes parce que cartésiens (ivi, 21). À differenza di Sahlin, Harnois non considera
l’opera di Beauzée e di Condillac come uno scivolamento della grammatica
generale verso una speculazione metafisica, ma, al contrario, come un
progressivo affrancamento della grammatica da un' impostazione logicizzante. Infatti, Beauzée segna un
très net progrès sur la Grammaire de Port-Royal parce qu’il considère à côté de
la science grammaticale un art grammatical (ivi 38-9) e Condillac se sépare de
Port-Royal lorsqu'il considère la pensée sous le point de vue de sa formation,
les idées sous le point de vue de leur acquisition. Cela est tout à fait
nouveau (ivi 30-1). Tanto Brunot quanto il suo collaboratore François non hanno
dubbi nel trovare le origini della grammatica generale (o filosofica) nel cartesianismo
di Port-Royal: Après une courte période, où la méthode de Vaugelas régna seule,
l'influence de Port-Royal commença à se faire sentir. Le Cartésianisme entra
dans la grammaire (Brunot, 1939, 57; cfr. François, 1933 900-1). Per i due
storici della lingua francese, però, questo avvento del cartesianismo nella
grammatica non rappresenta un progresso, ma un regresso: Bientòt toutes les
recherches tourneront de l'observation à la spéculation philosophique
déductive. L'école historique de Ménage et de Du Cange, vaincue, cédera à
l'école rationaliste. Ce cartésianisme linguistique a été certainement une
cause de retard pour le développement de la science (Brunot, 1939, 58). Anche
François, come Sahlin, sostiene che la dottrina di Du Marsais procède de celle
de Port-Royal, mais, fécondée par Leibnitz, elle la dépasse et la transforme.
La base de la science du langage et de l'étude des langues doit étre l'analyse
de la pensée (ivi 903-4), ma, al contrario della stessa Sahlin, ne dà una
valutazione sostanzialmente negativa, in quanto avec Du Marsais, la grammaire
générale s'enfonce toujours davantage dans l’abstraction > (ivi 902-3).
Un'analoga critica è rivolta a Beauzée, il quale, secondo François, néglige les
faits pour construire des systèmes, sauf à chercher ensuite la justification
des systémes dans les faits (ivi, 907). Anche l'opera di Condillac ostacola il
ritorno a un metodo corretto per lo studio delle lingue, che, nella visione di
Brunot e di Frangois, non puó che essere quello storico: Peut-être une nouvelle
méthode allait-elle finir par s'en dégager, qui raménerait aux saines
traditions de Du Cange et de Ménage. Mais Condillac parait, et du méme coup
raméne, et l'étude des origines, et la grammaire proprement dite, aux
traditions de Locke et de Port-Royal (ivi 940-1). In sintesi, si puó vedere come il carattere
cartesiano della grammatica generale non sia mai negato dagli studiosi di cui
ci occupiamo in questo paragrafo, anzi talvolta sia esplicitamente affermato (è
il caso di Brunot), accennando anche a un’influenza di Locke (François) e di
Leibniz (Sahlin, Frangois) sui suoi sviluppi. Allo stesso modo, mentre è
assunta una sostanziale continuità tra Port-Royal e la linguistica illuminista
(o enciclopedista), vengono anche sottolineate (soprattutto da Harnois) le
differenze e le innovazioni rispetto all'impostazione portorealista che si
trovano in Beauzée e soprattutto in Condillac. La ricostruzione della storia
della grammatica generale da parte degli studiosi della prima metà del
Novecento non presenta dunque grandi discordanze; il punto di contrasto sta
invece nel giudizio sulla grammatica generale stessa, che è negativo da parte
di Brunot, di Frangois e anche di Harnois, ma non di Sahlin. La differenza di
queste valutazioni è evidentemente dovuta al fatto di considerare l'approccio
storico alla linguistica come l'unico autenticamente scientifico conformemente
ai canoni impostisi nell’ Ottocento, con il trionfo della linguistica storicocomparativa.
Passiamo ora alla ricostruzione della storia della grammatica italiana nel
Settecento svolta da Trabalza. A suo parere, Port-Royal e Vico rappresentano i punti
di biforcazione tra grammatica empirica e grammatica filosofica (cfr. Trabalza,
1908 367-8); entrambi, però, ebbero scarso seguito in Italia (ivi, 377). Il
giudizio di Trabalza sulla grammatica filosofica è comunque negativo, il che è
ovvio, data la sua impostazione crociana; ma quello sui grammatici italiani del
Settecento rispetto a quelli francesi ben diverso e decisamente sconfortato: mentre
in Francia si perfezionava il disegno del signor di Portoreale, e venivano i Du
Marsais, i Beauzée, i Condillac, i Girard, noi ci facevamo compatire (ivi, 395);
la grammatica ragionata si propago ben presto nelle scuole, non escluse le
prime classi delle elementari, ma anche in uno stato di pronta, quasi immediata
degenerazione (ivi, 430). Tuttavia,
Trabalza non manca di sottolineare l'originalità del contributo di C., che
considera influenzato sia dai grammatici francesi che da Vico: Né VICO (si
veda) né Herder ebbero tra noi non dico la preminenza sulle dottrine logiche
dei francesi, ma un equivalente grado di efficacia, nonostante che un seguace
del Vico e dell’ Herder, il C., raccogliesse intorno al suo Saggio, che in
parte deriva dagli scritti loro, non lievi simpatie (ivi, 414). Il valore del
Saggio nella vera parte filosofica, nella quale certo s'ispiró ai pensatori
francesi, ma trasfuse un poco di quanto poté far proprio del pensiero
vichiano.LA LINGUISTICA DEL SETTECENTO: PROBLEMI STORIOGRAFICI Possiamo dunque
concludere questo paragrafo dicendo che l’esistenza di una linguistica
cartesiana, se con questo termine si vuole indicare una sostanziale continuità
tra Port-Royal e i linguisti del Settecento, è di fatto riconosciuta dalla
storiografia linguistica della prima metà del secolo scorso, che non oppone un deduttivismo
di Port-Royal a un induttivismo dei grammatici di epoca illuminista, come fa
Rosiello, né tantomeno associa la grammatica di Port-Royal a Locke invece che a
Cartesio, come fa Aarsleff. Sotto questo aspetto, studiosi come Sahlin e gli
altri di cui abbiamo parlato in questo paragrafo sembrano vicini alle posizioni
di Chomsky, ma sotto altri aspetti il quadro da loro delineato è molto più
articolato: le concezioni di Du Marsais, Beauzée e (soprattutto) Condillac
presentano differenze considerevoli sia tra loro che rispetto a quelle di Port-Royal,
che non possono essere trascurate e di cui è necessario rendere conto. Per
quanto riguarda poi C., rimane aperto il problema della possibile influenza di
Vico sul suo pensiero linguistico. 4 Continuità e differenziazioni della grammatica
generale: alcuni studi recenti Per poter valutare correttamente gli sviluppi
della grammatica generale nel Settecento, è necessario allargare il nostro
quadro di riferimento al secolo precedente, quando questa espressione e questa
nozione cominciano a diffondersi, soprattutto ad opera dei Signori di
Port-Royal. In particolare, è necessario porsi ancora il problema
dell'effettivo cartesianismo di questi studiosi e del loro rapporto con la
tradizione grammaticale precedente e successiva. A proposito della Grammaire di
Port-Royal, come si ricorderà, Aarsleff sostiene che è più vicina a Locke che a
Descartes, e Simone che si tratta di un’opera isolata e arretrata rispetto alla
ricerca del suo tempo. A mio parere, entrambe queste conclusioni non sono
accettabili, come mostra anche la ricerca storiografica più recente. L’impianto
fondamentalmente cartesiano della Grammaire e della Logique di Port-Royal è
stato rilevato, tra gli altri, da Pariente (1985), che osserva come molte delle
concezioni di Port-Royal abbiano precise corrispondenze nelle Meditazioni
metafisiche dello stesso Cartesio. Un esempio è quello dell’analisi
portorealista della proposizione incidente determinativa (nei nostri termini,
la frase relativa restrittiva): l’assimilation de l'incidente déterminative à
une affirmation, qui ne s'explique pas pour des raisons purement logiques, est
imposé à Arnauld par son adhésion au cartésianisme, et précisément par les
conclusions des Réponses données par Descartes à certaines des Objections qu'il
lui avait adressées (Pariente, 1985, 72). Per quanto riguarda poi la pretesa
arretratezza dei Signori di Port-Royal, notiamo che le novità da loro
introdotte rispetto alla tradizione precedente sono numerose. Limitandomi a un
semplice elenco, e rinviando per maggiori dettagli a Graffi (2006 932-41),
citerd le seguenti: 1. l’identificazione esplicita della frase con il giudizio;
2. l'analisi del verbo come la parola il cui uso principale è di significare
l’affermazione ; 3. il concetto di proposizione incidente , che di fatto
equivale a quello di frase dipendente relativa e completiva, fino a quel
momento assente dalla grammatica. Queste innovazioni, assieme ad altre,
verranno riprese da tutti gli studiosi che si collocano nella prospettiva di
ricerca della grammatica generale: alcuni di loro le correggeranno (è il caso,
ad esempio, dell’analisi della frase in soggetto, copula e predicato, ripresa
tale e quale da Condillac, ma modificata da Beauzée), ma nessuno potrà evitare
di farvi riferimento. Come scrive Raby (2018, 8): La lecture en série des
grammaires générales produites en France entre 1660 et le début du x1x* siècle
convainc rapidement de la forte cohérence du programme mis en œuvre, et du rôle
matriciel joué par la Grammaire générale et raisonnée. Esiste quindi una continuità tra il modello
portorealista, le cui basi cartesiane sono abbastanza evidenti, e la tradizione
grammaticale successiva: etichettare questa continuità come linguistica
cartesiana può essere discutibile (soprattutto se si estende questa etichetta a
Herder e a Humboldt, come fa Chomsky), ma negarla mi pare impossibile. Come scrive ancora la
Raby: Tous les auteurs de grammaires générales admettent les deux postulats
suivants: il existe une faculté rationnelle universelle définie indépendamment
de la structure des objets du monde; la proposition, expression d'un contenu représentatif
résultant de l'opération mentale de jugement, est l'instrument permettant
d'appréhender de façon scientifique la diversité des langues (ivi, 49). Secondo Formigari, queste affinità concettuali
tra i vari studiosi per quanto riguarda il rapporto tra linguaggio e pensiero
hanno un'estensione ancora più vasta, essendo comuni tanto ai razionalisti che
agli empiristi: per tutto il Seicento e oltre, l'idea di una struttura profonda
comune a tutte le lingue è largamente condivisa anche dagli empiristi o
sensualisti, come Locke, Condillac e altri autori. Gli universali del
linguaggio sono intesi come risultato empirico della sostanziale uniformità
organica degli uomini e della conseguente uniformità di rappresentazioni
costituite sulla base di sensi e procedimenti mentali genericamente umani anche
se relativamente condizionati da tempi, luoghi e circostanze (Formigari, 2001, 149).
Possiamo aggiungere che è molto difficile tracciare una chiara linea di demarcazione
tra razionalisti ed empiristi (o sensisti) anche per quanto riguarda le analisi
di determinate strutture grammaticali. Mi permetto di ripetere, a questo
proposito, quanto ho già scritto qualche anno fa: il sensista Condillac assume
la stessa posizione dei razionalisti di Port-Royal in merito almeno a due
problemi, ossia la concezione della proposizione (identificata con il giudizio)
e la sua analisi tripartita (in soggetto, copula e predicato), mentre su
quest’ultimo punto Beauzée (che è certamente più legato di Condillac
all’impostazione razionalista) accoglie le innovazioni di Du Marsais,
sostenendo che le parti costitutive della proposizione sono due, cioè il
soggetto e il predicato (Graffi, 2004, 48). Il fatto che questi filosofi e
grammatici adottino un quadro di riferimento comune non può però far
dimenticare le considerevoli differenze che esistono tra di loro, già rilevate,
nella prima metà del Novecento, da Sahlin e da altri, e in tempi più recenti da
Simone, ma trascurate da Chomsky (grazie anche al suo disinteressarsi di
Condillac). Ancora una volta, il recente lavoro della Raby ci sembra
particolarmente utile. La studiosa francese mette infatti bene in luce, tra
l'altro, il diverso modo in cui i Signori di Port-Royal, Beauzée e Condillac
concepiscono il rapporto tra linguaggio e pensiero: Dans les grammaires
générales de notre corpus, on peut identifier trois configurations des
relations entre grammaire et logique, exemplifiées respectivement par les
œuvres de Port-Royal, Beauzée et Condillac: logique et grammaire sont deux
disciplines parallèles, ordonnées et complémentaires: la logique décrit la
pensée que le langage exprime; la logique naturelle est le lieu d’interface
entre la pensée et son expression par le langage, ces trois éléments ayant
chacun leur autonomie relative; la pensée n'étant accessible que sous sa forme
linguistique, la grammaire est le fondement de la logique (Raby, 2018, 53). Spesso, queste differenti concezioni del
rapporto tra linguaggio e pensiero corrispondono a diverse interpretazioni
della stessa analisi di una data struttura grammaticale. Un caso tipico è
rappresentato dalla frase (o proposizione) semplice: come si è appena detto,
tanto i Signori di Port-Royal quanto Condillac la analizzano in tre elementi,
cioè soggetto, copula e predicato. Il fondamento concettuale delle due analisi
è però completamente diverso. Secondo la Grammaire di Port-Royal, la copula
asserisce l’inerenza di un'idea, il predicato, a un'altra idea, il soggetto:
essere è l'unico verbo autentico, perché la funzione specifica del verbo è
quella di asserire tale inerenza. Il linguaggio dunque, nella visione
portorealista, esprime il pensiero, come dice la Raby. A volte, questa
espressione non è perfetta: ciò avviene per la tendenza generale degli esseri
umani ad abbreviare le loro espressioni, come avviene quando si dice Pierre vit
invece che Pierre est vivant, fondendo cioè il verbo con il predicato (cfr.
Arnauld, Lancelot, 1966, 96). Condillac invece inserisce l'analisi tripartita
della frase nel quadro della sua dottrina genetica del linguaggio, che si
sviluppa gradualmente dal primitivo langage d'action: in questo quadro, essere
è il primo verbo a manifestarsi, con un significato simile ad ‘avere delle
sensazioni’, ‘avvertire’. L'uso originario di essere è quindi alla prima persona
singolare, in quanto indica la sensazione individuale, immediata; più tardi,
questo uso si estende ad altri esseri, e il verbo prende allora anche la forma
di terza persona; infine, si aggiunge l’indicazione delle qualità di questi
esseri, e si avranno dunque frasi come i/ est homme, il est grand, il est petit
ecc. (cfr. Condillac, 1782, parte II 60-2). In sintesi, potremmo dire che la
continuità della grammatica generale consiste, da un lato, nel ricorso ai
medesimi strumenti di analisi dei fenomeni grammaticali, e, dall’altro,
nell’assunzione di una relazione di rappresentazione tra linguaggio e pensiero;
le differenziazioni al suo interno si riconducono invece al modo in cui questa
relazione è interpretata. Una nozione che, a mio avviso, illustra bene tanto la
continuità della grammatica generale quanto le differenti posizioni che si sono
manifestate all'interno di questo quadro concettuale nel secolo e mezzo circa
della sua storia è quella, nelle parole di C., di il genio della lingua. C.
distingue tra il genio grammaticale e il
genio rettorico, nei termini seguenti. Questo genio degl’italiani è biforme, e
può distinguersi in due, l'uno de’ quali può chiamarsi genio grammaticale, e
l’altro rettorico: il primo dipende dalla struttura meccanica degli elementi
della lingua, e dalla loro sintassi; l’altro dal sistema generale dell’idee e
dei sentimenti che predomina nelle diverse nazioni, e che per opera dei
filosofi improntò la lingua delle sue tracce. Del significato dei due tipi di genio
sono state date diverse interpretazioni, a volte anche da parte degli stessi
studiosi. Ad esempio Rosiello (1961), in un saggio che forse rimane la
ricostruzione più documentata della storia del sintagma genio della lingua,
interpreta il genio grammaticale come l’aspetto logico, simbolico,
convenzionale, del linguaggio e il genio retorico come il rapporto tra cultura
e lingua, rapporto che si risolve nella determinazione dello stile creativo e
personale (Rosiello, 1961, 101). In altre parole, i due concetti C.ani
corrisponderebbero rispettivamente a ciò che modernamente si suole definire
aspetto strutturale e aspetto stilistico della lingua (Rosiello, 1967, p.89).
In Linguistica illuminista, tuttavia, Rosiello propone un’altra
interpretazione, ricorrendo all'opposizione di Hjelmslev (1943) tra schema e
uso del linguaggio, o a quella (in parte equivalente) di Coseriu (1952) tra
sistema e norma: il genio grammaticale di C. corrisponderebbe dunque allo
schema (o al sistema) e il genio retorico all'uso (o alla norma). A mio parere,
entrambe le interpretazioni di Rosiello devono essere, almeno parzialmente,
riviste; a questo fine, può essere utile ripercorrere nuovamente la storia del
sintagma genio della lingua rifacendoci anche a qualche altro testo oltre a
quelli esaminati dallo stesso Rosiello. Rosiello (1961, 91), come più tardi
Simone (2002, 416), fa risalire l’origine del sintagma in questione a
Port-Royal, in particolare al passo della Grammaire ove si legge che il dépend
du genie des Langues de se servir de l'une ou de l'autre maniere. Et ainsi nous voyons
qu'en Latin on employe d'ordinaire le participe; Video canem currentem; et en
François le relatif: Je voy un chien qui court (Arnauld, Lancelot, 1966, 70; il
passo compare identico nella prima edizione del 1660). Genio delle lingue sarebbe dunque inteso negativamente
e riferito a quel settore particolare delle singole lingue che non è
riconducibile a un sistema logico generale, comune ai vari idiomi (Rosiello,
1961, 91) o come una sorta di deposito degli oggetti che risultano scomodi per
la teoria del linguaggio (Simone, 2002, 417). L'espressione ricorre però, senza
connotazioni negative, anche in una lettera di Leibniz a Oldenburg, databile
tra il 1673 e il 1674. È difficile stabilire se Leibniz mutuasse tale
espressione dalla Grammaire di Port-Royal, oppure se l'avesse coniata
autonomamente; quello che mi interessa notare è che il filosofo e matematico tedesco
la usa per riferirsi non alle lingue naturali, ma alla lingua perfetta che
cercava di costruire, cioè la characteristica universalis: Qui linguam hanc
discet, simul et discet Encyclopaediam, quae vera erit janua rerum. Quicumque
de aliquo argumento loqui aut scribere volet, huic ipse linguae genius non
tantum verba, sed et res suppeditabit (in Gerhardt, 1899 101-2). Dato che non
si può pensare che Leibniz volesse attribuire alla characteristica universalis
aspetti di deviazione dal sistema logico generale o che risultano scomodi per
la teoria del linguaggio, ritengo che con genio della lingua si volesse
riferire piuttosto a ciò che oggi chiameremmo la struttura della lingua. Più
tardi, soprattutto a partire da Condillac (cfr. Simone, 2002 4178), genio della
lingua (o, meglio, delle lingue) perde ogni connotazione negativa e comincia ad
avere una larga diffusione. Per Condillac (1947, ILI.XV.143, 98), chaque langue
exprime le caractère du peuple qui la parle: e in questo particolare carattere
consiste il suo genio. Condillac è più volte citato da C., che però gli
rimprovera, in proposito, di non avere fatto spiccare in tutto il suo lume la
sua solita aggiustatezza e sagacità , in quanto non ha distinto tra i due tipi
di genio, grammaticale e retorico (cfr. C. 1943, 113). Una distinzione simile
si trova invece nella voce Langue redatta da Beauzée per l Encyclopédie di
D'Alembert e Diderot. Di genio delle lingue aveva già parlato Girard (1747), il
quale affermava che ogni lingua ha il proprio genio, ma suddivideva le lingue
in tre tipi, cioè analoghe, traspositive e miste. Le prime sono quelle che ordinairement
suivent, dans leur construction, l’ordre naturel et la gradation des idées
(Girard, 1747 23-4), cioè collocano il soggetto prima del verbo, il verbo prima
degli avverbi ecc.; ne sono esempi il francese, l'italiano e lo spagnolo. Le
lingue del secondo tipo sono invece quelle che a volte cominciano la frase con
il complemento oggetto, a volte con il verbo, a volte con un avverbio ecc., non
seguendo que le feu de l'imagination ( ):
ne sono esempi il latino e le lingue slave. Le lingue miste sono un tipo
intermedio tra i primi due: Girard cita come esempi il greco e il tedesco, che
hanno sia l'articolo (come il francese, l'italiano o lo spagnolo, ma non il
latino e le lingue slave) che le desinenze di caso. La nozione di genio delle
lingue diventa dunque la base per una classificazione tipologica ante litteram
(cr. Simone,
2002, 419). Beauzée riprende la classificazione di Girard, con qualche modifica
(mantenendo cioé solo la distinzione tra lingue analoghe e traspositive e
suddividendo queste ultime in due sottotipi, libere e uniformi), ma riconduce
anch'egli le differenze interlinguistiche ai diversi tipi di genio: elles [le
lingue] admettent toutes, sur ces deux objets généraux, des différences qui
tiennent au génie des peuples qui les parlent, et qui sont elles-mêmes tout à
la fois les principaux caracteres du génie de ces langues, et les principales
sources des difficultés qu’il y a à traduire exactement de l’une en l’autre.
Par rapport à l’ordre analytique, il y a deux moyens par lesquels il peut être
rendu sensible dans l’énonciation vocale de la pensée. De-là la division la
plus universelle des langues en deux especes générales analogues et
transpositives (Beauzée, 1765, 257). Poco dopo, perd, Beauzée parla di una
seconda caratteristica distintiva > del genio delle lingue: Pour ce qui
concerne les différentes especes de mots, une méme idée spécifique les
caracterise dans toutes les langues: mais, dans le détail des individus, on
rencontre des différences qui sont les suites nécessaires des circonstances où
se sont trouvés les peuples qui parlent ces langues; et ces différences
constituent un second caractere distinctif du génie des langues (ivi, 258).
Beauzée non etichetta in modo specifico né l’una né l’altra di queste caratteristiche
distintive, ma con la prima di esse si riferisce alle differenze sintattiche
tra le lingue, manifestate dall’ordine delle parole, mentre con la seconda
sembra piuttosto alludere alle differenze lessicali: Un premier point, en quoi
elles different à cet égard, c'est que certaines idées ne sont exprimées par
aucun terme dans une langue, quoiqu'elles ayent dans une autre des signes
propres et trés énergiques. Une seconde différence des langues, par rapport aux
diverses especes de mots, vient dela tournure propre de l'esprit national de
chacune d'elles, qui fait envisager diversement les mémes idées (ivi 258-9). In sintesi, potremmo dire che la prima
caratteristica del genio delle lingue riguarda la loro sintassi, o, se si
preferisce, la loro morfosintassi, mentre la seconda riguarda l'aspetto
lessicale, pià condizionato del primo dalle particolarità storiche ed etniche
dei parlanti le varie lingue. Questo secondo senso è forse quello in cui genio
delle lingue era inteso, almeno prevalentemente, da Condillac (cfr. anche
Simone, 2002, 418). Torniamo ora a C.. Non mi pare privo di significato il
fatto che il nostro autore, poche pagine prima di introdurre la distinzione tra
genio grammaticale e genio retorico, introduca quella tra due diversi tipi di
costruzione: La costruzione, rispetto all’ordine, è di due specie: diretta, e
inversa; l’una si attiene all’ordine analitico delle idee, l’altra al grado
della loro importanza, e dell’interesse che ne risente chi parla: la prima
serve meglio all’intelligenza, l’altra parla più vivamente all’affetto (C.,
1943, 65). L'erudito padovano non procede a una classificazione tipologica
delle lingue come quella tracciata da Girard o da Beauzée, ma il lessico da lui
utilizzato è molto vicino a quello dei due grammatici francesi: Beauzée (1765, 258)
afferma che le lingue analoghe sono celles dont la syntaxe est soumise à
l’ordre analytique, parce que la succession des mots dans le discours y suit la
gradation analytique des idées; e il feu de l’imagination di Girard ricorda
molto da vicino l’ affetto del C.. Naturalmente è presente in modo chiaro anche
il pensiero di Condillac, come quando il C. afferma, nelle righe che seguono
immediatamente il passo citato, che la sintassi inversa è figlia spontanea
della natura, la diretta è frutto della meditazione e dell’arte; tuttavia,
abbiamo visto come C. rimproverasse allo stesso Condillac di non aver distinto
i due tipi di genio, mentre questa distinzione si trova, di fatto, in Beauzée.
Per riassumere quanto esposto in questo paragrafo, direi dunque che genio della
lingua è utilizzato già da Leibniz per indicare quello che nei nostri termini
potremmo chiamare la struttura della lingua stessa, e assume un senso più
specifico di struttura morfosintattica in Girard. In Condillac, invece, tende
ad indicare piuttosto la componente lessicale delle lingue. Beauzée, infine,
attribuisce al genio delle lingue tanto la prima quanto la seconda di queste
caratteristiche, operando una distinzione che corrisponde in buona parte a
quella di C. tra genio grammaticale e genio retorico. Il primo dei due geni
corrisponde quindi all'aspetto morfosintattico, il secondo a quello lessicale,
delle varie lingue. Conclusioni e problemi aperti La conclusione è dunque che
la tradizione della grammatica generale da Port-Royal fino alla fine del
Settecento presenta tanto continuità quanto differenze. Le prime consistono
nelle analisi di vari fenomeni sintattici, primo tra tutti la struttura della
proposizione; le seconde nella concezione del rapporto linguaggio-pensiero, e
possono essere spiegate in base alle diverse posizioni gnoseologiche dei vari
studiosi, ad esempio, razionalisti nel caso di Beauzée, sensisti in quello di
Condillac (più difficile da determinare la posizione di Du Marsais). Questo
ricorso a uno stesso insieme di tecniche di analisi da parti di studiosi di
differente orientamento gnoseologico ed epistemologico non rappresenta un
unicum nella storia della linguistica. Casi del genere, infatti, si verificano
anche nell’ Ottocento: ad esempio, uno dei più decisi avversari dei
neogrammatici, cioè Schuchardt, riconosceva che le leggi fonetiche sind im
Grunde die Arbeitsregeln für die Etymologen, aggiungendo subito dopo che keinesfalls
eròffnen sie uns klare Einblicke in das Innere des Sprachlebens; es sind keine
der Sprache innewohnenden Gesetze (Schuchardt, 1928, 205). In sintesi, direi
che tutte le interpretazioni della linguistica del Settecento di cui si è
parlato nel PAR. 2, pur essendo, ciascuna nella sua prospettiva, innovative e
stimolanti, hanno come limite di fondo quello di non tenere conto della coesistenza
di tecniche condivise, da un lato, e di impostazioni gnoseologiche diverse,
dall’altro. Questo ha come conseguenza il presentare la linguistica cartesiana
come una linea di pensiero unica, che si arresta solo agli inizi del XIX
secolo, oppure, al contrario, l'opporre sotto ogni aspetto i Signori di
Port-Royal e i linguisti dell’epoca illuminista, quando invece i secondi in
molti casi si basano sulle analisi dei primi. Di conseguenza, mi paiono più
attendibili, dal punto di vista storiografico, le interpretazioni recenti, di
cui abbiamo trattato nel PAR. 4, e, sotto vari aspetti, anche quelli risalenti
ai primi decenni del secolo scorso (cfr. PAR. 3). Dell'altro problema
storiografico ricordato nel PAR. 2, ossia l'influsso del pensiero di Vico su
quello di C., di fatto escluso da Rosiello ma invece sostenuto da Trabalza e
più recentemente da Simone, non ho qui la possibilità neppure di accennare una
soluzione. Mi limito a osservare che, se la ricostruzione che abbiamo tracciato
nel PAR. 5 è corretta, le radici del concetto di genio delle lingue in C., con
la distinzione tra genio grammaticale e genio retorico, potrebbero anche
trovarsi soltanto nei linguisti illuministi francesi. Ma la questione, è
chiaro, richiede una trattazione più approfondita. AARSLEFF H. (1982),
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genio delle lingue? Riflessioni di un linguista (con l'aiuto di Cesarotti e
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Bice Mortara Garavelli, vol. 1, Edizioni dell’ Orso, Alessandria 415-29.
TRABALZA C. (1908), Storia della grammatica italiana, Hoepli, Milano. C.
attuale e inattuale. Marazzini* Il titolo di questo intervento andrebbe
probabilmente precisato con un riferimento esplicito al solo C. linguista,
perché il mio discorso non toccherà la critica letteraria, la poesia, lo stile,
l’estetica, la filosofia del gusto e via dicendo. Ho sempre avuto in mente
soltanto il riferimento a un unico libro, cioè il Saggio sulla filosofia delle
lingue, che continuo a ritenere il più importante di C., quello destinato a
segnare in maniera indelebile, più di tutti gli altri, un campo di studi e di
ricerche nella storia della tradizione italiana. Ma questo giudizio riguarda
già il tema della vitalità o inattualità delle idee dell’autore, su cui
torneremo tra poco. Possiamo notare che al Saggio sulla filosofia delle lingue
non è mai mancata la fortuna editoriale, nemmeno nel periodo in cui C. ha goduto
di minore stima. Se consideriamo che l’edizione definitiva è quella del 1800,
nelle Opere complete, e che quasi immediatamente il clima culturale dell’Italia
cambiò per lo spirare del venticello del purismo, facendo scivolare C. nella
categoria dei lassisti, così come lo vedevano l’abate Velo e il conte Galeani
Napione, mentre prendeva piede l’opinione che avesse troppo concesso al
francesismo, dobbiamo tuttavia notare che persino nella prima metà
dell’Ottocento, quando è facile rintracciare critiche nei suoi confronti,
uscirono diverse nuove edizioni del Saggio sulla filosofia delle lingue. Nel
1801, o più verosimilmente nel 1802, abbiamo la stampa presso l'editore
padovano Pietro Brandolese, che riprende l'edizione 1800 di Pisa. Piemonte
Orientale. della Crusca. 1. La scheda del libro datato 1801 si ricava dal
catalogo dell’ Università degli studi di Napoli L'Orientale, e non compare
consultando direttamente OPAC-SBN. La scheda descrive così il libro: *Saggio
sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana dell'ab. C.
nuovamente illustrato da note e rischiaramenti apologetici aggiuntovi il Saggio
sulla filosofia del gusto all'Arcadia di Roma 5.
edizione In Padova: presso Pietro Brandolese, 1801 [8],
236 p.; 8°. Sul front.: A norma di quella fatta in Pisa l'Anno 1800. Però, tra
i libri della biblioteca di Google, questa v edizione del Saggio è riprodotta
solo con la data 1802, non 1801 (penso a un errore della scheda, visto che
quella di Google Nel 1820 abbiamo l’edizione milanese della Società Tipografica
dei Classici italiani, e nel 1821 quella dell'editore Silvestri’. Ci sono poi
diverse edizioni concentrate, cosa curiosa, nell’ Italia meridionale, a Napoli:
nel 1818 (ed. De Bonis), 1831 (dai Torchi del Tramater*), nel 1835, nel 18536.
Quella del 1853 è ora a sua volta digitalizzata, e quindi facilmente
raggiungibile, anche se l'esame del libro non aiuta per nulla, perché non vi si
trova nessuna indicazione, nessun commento, nessuna dichiarazione di interesse
o di condanna per il contenuto, ma soltanto il nudo testo. Senz'altro ebbe
scarsa circolazione. Una diminuzione dell' interesse per il Saggio sulla
filosofia delle lingue si ebbe nella seconda metà dell’ Ottocento, ma nel 1908
un segnale di interesse venne non da un editore che riproponesse il testo, ma
piuttosto dallo spazio assegnatogli in un'opera che tutt’ora resta
fondamentale, la Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza, che dedica
appunto un notevole spazio al C., interpretato in chiave fortemente e
riduttivamente vichiana. Nel 1931, Guido Mazzoni, nella voce dell Enciclopedia
italiana, lo collocava in uno snodo della questione della lingua, affermando
che Dal Saggio si puó dire che derivino, da un lato, la reazione del Cesari,
dall'altra, la guerra del Monti contro l'Accademia della Crusca. L'affermazione
è interessante, anche se forse non corrisponde pienamente alla verità storica,
perché Monti si ispirava in parte a C., ma non esplicitava mai chiaè una
riproduzione fotografica, per di più confermata da una scheda OPAC-sBN che
attesta il possesso del libro da parte di diverse biblioteche, tra cui la
Nazionale di Roma, che ha fornito l'esemplare digitalizzato da Google). 2.
L'ed. dei Classici italiani è attestata da una scheda del Polo Sebina del
Friuli Venezia Giulia, ed è così descritta: *Saggi sulla filosofia delle lingue
e del gusto / di Melchior Cesarotti; si aggiunge il Ragionamento sopra il
diletto della tragedia e la Lettera di un padovano al celebre signore abate
Denina. Milano: dalla Societa tipog. dei classici
italiani, 1820, 432 ps 23 cm Contiene: Saggio sulla filosofia delle lingue
applicato alla lingua italiana; Saggio sulla filosofia del gusto. Il libro è
anche nella biblioteca di Google, ma non consultabile (cioè bloccato). Si
consulta invece in Google libri un'analoga edizione digitalizzata della Società
tipografica dei classici italiani, ma con la data ben leggibile dell'anno
successivo: MDCCCXXI. L'editore Silvestri, nella Biblioteca scelta di opere
italiane antiche e moderne , risulta da una scheda OPAC-SBN. 3. Anche questa é
garantita da una scheda OPAC-SBN. 4.E digitalizzata in Google, esemplare della
Biblioteca nazionale di Napoli. 5. Si vende nella libreria Strada Quercia:
l'edizione è attestata da una scheda OPACSBN. 6. Napoli, Pedone Lauriel. È
attestata da una scheda OPAC-SBN che rinvia anche all’esemplare, digitalizzato
e visibile nella biblioteca di Google, di proprietà della Biblioteca Giorgio
Del Vecchio del Dipartimento di scienze giuridiche, sezione di Filosofia del
diritto dell’ Università degli Studi di Roma La Sapienza. 7. Mazzoni (1931, 883).
ramente questo legame. Si pensi che Monti non cita mai C. nella dedica della
Proposta al marchese Trivulzio; quando C. è citato nel corso dell’opera, talora
il suo nome si accompagna a una presa di distanza: così, anche se è lodato
proprio per la sua avversione ai modi toscani, nel vol. 11, parte 11 della
Proposta, nell’ Amor patrio di Dante di Perticari, si dice che C., Baretti e
Bettinelli, furono eccessivamente sciolti, più di quanto non chiedeva il
bisogno e l’onore del bello stile*. L'indice dei nomi, nell’ Appendice alla
Proposta, puntualmente riprende questi due passi annotando che Il Perticari
opina che fosse più sciolto il suo dire che non richiede Ponore del bello stile?.
Del resto, nell’ Agzotatore piemontese del 1838 (fascicolo 1, vol. vii),
Michele Ponza avvisava, dopo aver citato Cesarotti, che quell’autore si era saviamente
scostato dalla superstizione (quanto alla lingua e ai suoi modelli), ma si era poi
fatto incautamente troppo vicino alla licenza ^. Questa era in sostanza
l'opinione media sul C. attorno alla metà dell Ottocento. Torniamo tuttavia
alle edizioni. Una prima fortuna editoriale del Saggio sulla filosofia delle
lingue si concentra, cosa abbastanza curiosa, in anni difficili per la storia
italiana: è del 1943 la piccola ma importante edizione di Spongano; è del 1945
l'edizione di Ortolani, nelle Opere scelte di C.. Di lì in poi le edizioni
diventano ancora più rilevanti: abbiamo le tre ristampe via via corrette di
Puppo nelle Discussioni linguistiche del Settecento della UTET (1957; 1966;
1970), nel 1969 quella presso Marzorati del solo Saggio e nel 1960 l’edizione
di Bigi, nei Classici Ricciardi. Tra l’altro, va segnalato l’interesse per le
varianti del Saggio sulla filosofia delle lingue, che non sono di grande peso,
ma tuttavia esistono, ed erano state ignorate da Puppo e da Spongano, ma furono
registrate da Ortolani e poi da Bigi. Potremmo ancora menzionare due edizioni
più recenti, anche se non mi pare abbiano importanza paragonabile a quelle che
abbiamo citato: ecco dunque la scelta del Saggio sulla filosofia delle lingue a
cura di Caliri, nel 1973, preso un piccolo editore di Reggio Calabria, e
l'edizione di Perolino, per le Edizioni Campus di Pescara, nel 2001,
quest'ultima piuttosto difficile da reperire, ma per fortuna facilmente
consultabile, almeno l'introduzione del curatore, che è stata collocata in
academia.edu. Anche una volta esaminata la fortuna editoriale di C., mi sembra
si possa concordare sul fatto che il recupero agli studi linguistici di questo
8. Perticari (1820, 438). 9. Monti (1826, 247). 10. Ponza (1838, 6). studioso
deve fare riferimento essenzialmente al fondamentale e notissimo intervento di
Giovanni Nencioni, Quicquid nostri praedecessores..., uscito del 1950, poi nel
volume Di scritto e di parlato (Nencioni, 1983). Questo è davvero un passaggio
fondamentale, che non riguarda soltanto C., in quanto nasce dalla proposta di
una rivisitazione complessiva della tradizione linguistica italiana, posta però
in diretta relazione con gli interessi della linguistica moderna. La
rivisitazione di Nencioni coinvolge altri autori, oltre a C.: nell’ordine in
cui vengono proposti da Nencioni (che non segue necessariamente l’ordine
storico), sono Nicolò Tommaseo, Dante del De vulgari eloquentia, poi il C.
insieme a Beccaria, quindi il Foscolo, Vico (citato, sì, ma alla svelta;
torneremo su questo), poi Manzoni e Leopardi. Nencioni andava alla ricerca, nel
pensiero linguistico italiano preascoliano, di elementi che fossero validi e
vivi. L'etichetta era appunto così, pensiero preascoliano senza far riferimento
alla frattura tra linguistica scientifica e prescientifica. Non linguistica
empirica e linguistica moderna, dunque. C. assumeva una funzione importante:
era designato come vero e grande iniziatore del nostro moderno pensiero
linguistico (Nencioni, 1983, 7), una definizione che gli assegnava tutto il
merito necessario per una sua rivalutazione. Come mai C. attirava su di sé
tanta attenzione, per la vitalità e validità del suo pensiero all’interno della
tradizione linguistica italiana che cominciava prima di Ascoli? Quattro erano
gli elementi fondamentali, secondo Nencioni: il riconoscimento da parte sua del
dinamismo della lingua; l’eliminazione di un pregiudizio grave qual era la gara
delle lingue, cioè il primato di una lingua sull’altra; la coscienza del
carattere sempre elaborato della lingua letteraria, e dunque della sua
differenza rispetto alla lingua parlata della comunicazione; in ultimo, la
differenza tra forma esterna e forma interna della lingua, con la piena
valutazione della distinzione tra genio grammaticale e genio retorico. Tutto
questo conduceva al problema del lessico europeo, cioè alla circolazione
internazionale di parole significative per la formazione della nuova società
moderna (cfr. 17). Il recupero di C. alla modernità richiedeva due passaggi,
uno dichiarato e uno che invece rimaneva implicito. Quello dichiarato era la
sottrazione di C. al dibattito sulla questione della lingua, e anzi, di fatto,
la rimozione della questione stessa. Il salto di qualità operato da Nencioni
nella lettura di C. consisteva appunto nel sottrarlo alla cornice, ritenuta
limitante, della questione della lingua, e questo era espressamente dichiarato.
La stessa scelta ritornava laddove Nencioni discuteva il concetto di
europeismo, mettendo però in luce, alla fin fine, anche un limite di Cesarotti,
perché, proseguendo nella lettura del Saggio sulla filosofia delle lingue, di
fronte a certe dichiarazioni intese a porre argine alle eccessive contaminazioni
esterne, non si poteva non riconoscere il profilarsi di una sorta di purismo
moderato. Anziché essere inteso come una forma di cautela, destinata a evitare
gli accessi di altri illuministi più radicali (si pensi ai milanesi del Caffè e
alle loro provocazioni), il purismo moderato veniva interpretato da Nencioni
come uno sviamento dal ben più rilevante europeismo iniziale. A quel punto,
nella ricostruzione di Nencioni, il tema dell’europeismo veniva sottratto a C.,
che non l’aveva saputo condurre fino in fondo, e passava a Leopardi, perché
Leopardi era il linguista che aveva saputo andare dritto, senza esitazioni,
verso l’europeismo. Con Leopardi, l’europeismo si emancipava: il prestito
lessicale poteva essere accolto anche nel caso in cui la lingua possedesse già
un equivalente della parola forestiera. Questa la conclusione: alla fine pesava
la superiorità concettuale di Leopardi. I limiti di C. stavano dunque nel fatto
che era entrato all’interno della questione della lingua, l’aveva innovata, in
parte superata, ma non aveva avuto la volontà o la forza di rompere fino in
fondo il rapporto con i problemi che la tradizione del dibattito di matrice
puristica gli aveva offerto. L’altra parte della ricerca linguistica di C., che
Nencioni non nominava, era quella relativa alla teoria delle origini del
linguaggio attraverso i radicali primitivi: è il tema delle onomatopee, della
formazione del linguaggio, in sostanza tutta l’area del pensiero di C. che
riporta verso Condillac e molto di più verso de Brosses. Del resto Nencioni
aveva citato Vico alla svelta, come ho detto all’inizio. Evidentemente la
lettura di Vico, e anche la lettura di un C. che poteva essere giudicato come
legato a Vico, non interessava Nencioni. La sua rilettura aveva lo scopo di
sottrarre totalmente questi pensatori alla riverniciatura del pensiero idealistico
italiano e della filosofia di Croce. Si pensi, per comprendere questo tipo di
rilettura idealistica, al C. così come presentato da Trabalza nella già citata
Storia della grammatica italiana, dove si forniva una descrizione del suo
sistema abbastanza ricca e completa, ma squilibrata in chiave crociana, con una
forte insistenza sul ruolo della filosofia di Vico, pur se Trabalza dimostrava
in realtà di conoscere anche de Brosses. Questo è un punto fondamentale: il
vichismo e la teoria meccanica delle lingue di de Brosses venivano non solo
facilmente sovrapposte, ma anche scambiate nel loro reale peso e valore,
attribuendo un’ importanza eccessiva al Vico, e per contro un’ importanza
troppo scarsa a quella che è l’influenza ben più determinante della teoria
meccanica di de Brosses, che pure con la teoria di Vico ha qualche somiglianza.
Trabalza si era accorto della forte influenza delle teorie di de Brosses su C.,
ma la interpretava come una limitazione: il povero C., insomma, dopo aver
intuito vichianamente la distinzione tra memoria, rappresentazione e figure,
dopo essersi meritevolmente avvicinato all’espressività e alla irrazionalità,
era ricaduto malauguratamente (questa la lettura di Trabalza) nel meccanicismo
delle teorie d’oltralpe, proprio perché riponeva troppa fiducia in de Brosses.
Questa fiducia aveva guastato in gran parte il buono a cui si era
precedentemente avvicinato grazie a Vico. Fra l’altro, dava fastidio a Trabalza
che la dottrina delle parti del discorso non fosse considerata superflua da C.,
come era riuscito a dimostrare che era stata per Vico. Invece nomi, pronomi,
verbi, avverbi, preposizioni, congiunzioni, secondo C., erano presenti in ogni
lingua, e costituivano realmente la base della lingua universale. La grammatica
dunque non si dissolveva in uno pseudo-concetto, e C. appariva abbarbicato a
una teoria grammaticale anti-idealistica. Fra l’altro, quest attenzione alle
parti del discorso era l'unica ragione che giustificasse la presenza di C.
all’interno di una storia della grammatica italiana come quella di Trabalza,
considerando che il Saggio sulla filosofia delle lingue non è certamente una
grammatica, come del resto non lo è la Scienza nuova di Vico. Il passo che
svela meglio le intenzioni di Trabalza è quello in cui si cerca di dimostrare
che C., quando si orienta verso la grammatica generale, sbaglia strada, ma
quando va verso il genio retorico allora, solo allora, assume un punto di vista
nuovo. Commenta Trabalza: C. era sotto l’influenza del pensiero vichiano, o
almeno in comunicazione con le correnti sprigionate dall’attività del Vico, e
gli studi a’ quali si era dedicato lo avevan condotto a intravvedere, se non a
riconoscere, l’importanza della fantasia, la natura fantastica del linguaggio.
Mi sembra notevole non soltanto il fatto che si dia per certa l’ influenza del
pensiero di Vico, al di là dei richiami documentabili, e la si presupponga
attraverso una (supposta) comunicazione con le correnti spirituali sprigionate
dalla vitalità del pensiero di Vico, vitalità generica, ipotizzata come un atto
di fede. È facile dunque vedere come le attribuzioni di attualità e
inattualità, è quasi banale dirlo, possano mutare nel corso del tempo; ma
evidentemente l’attualità che ci interessa non è quella che poteva essere veicolata
nel momento della maggior diffusione del pensiero crociano. In ogni modo questo
interesse per l'origine delle lingue, che in prospet11. Trabalza (1908, 425).
tiva crociana aveva ancora colpito Trabalza quando aveva presentato Cesarotti
nella sua storia della grammatica, non si rintracciava più in Nencioni, che non
sfiorava l’argomento. Se questo modo di vedere duri ancora, si può forse
valutare già dal programma del nostro convegno, in cui non soltanto la
relazione di Graffi, ma anche le relazione di Gensini e di Battistini, e anche
quella di Baglioni sull’etimologia, riconducono al tema dell’origine delle
lingue e alle etimologie, per le quali C. adottava il principio della
simbologia fonica assunta attraverso le radici originarie, per cui STindicava
lo stare, il rimanere fermi, FLindicava il fluire e lo scorrere, e così via.
Messi da parte argomenti come questi, che forse potevano sembrare di scarso
peso e troppo legati all’erudizione settecentesca, e messa da parte la
questione della lingua, reputata la camicia di forza del pensiero linguistico
italiano, il perno attorno al quale gravitava la ricostruzione storica di
Nencioni era dunque la distinzione tra genio grammaticale e genio retorico, che
sembrava avere ben altre valenze interpretative, condivisibili con la
linguistica moderna. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, questo
argomento attirò anche l’attenzione di altri, per esempio di Luigi Rosiello,
nel libro Linguistica illuminista del 1967, dove C. viene menzionato proprio
per la distinzione tra genio grammaticale e genio retorico. Rosiello osserva
che la definizione di genio delle lingue di C. è di sorprendente modernità dopo
le esperienze fatte con la linguistica strutturale; Rosiello citava C.: Il
genio della lingua non può essere che il risultato del genio particolare di
tutte le sue parti *. C'é dunque un'attenzione dettata dall’attualità dello
strutturalismo, usato in questo caso per rileggere l’autore antico ed estrarne
la parte ritenuta più interessante. Il pensiero di Rosiello, si noti, non è
affatto identico a quello di Nencioni, da cui anzi prende le distanze. Rosiello
scrive che alcuni hanno creduto di vedere adombrata nella distinzione di genio
grammaticale e genio retorico quella humboltiana rispettivamente di forma
esterna e forma interna della lingua. Qui ricorre la citazione esplicita del
saggio di Nencioni, con la relativa critica: Ma questa interpretazione appare
contestabile, in quanto per il C. il genio grammaticale costituisce una vera e
propria struttura logica del materiale linguistico, mentre per Humboldt la forma
esterna è la materiale manifestazione fonetica dello schema trascendentale a
priori (forma interna) secondo il quale ogni 12. Rosiello (1967, 87). 13. 88.
popolo analizza e classifica la realtà; né tantomeno questo concetto kantiano
di forma interna può corrispondere al genio retorico che rappresenta la
variabilità delle condizioni storiche in cui la lingua viene a contatto con la
cultura. Mentre la distinzione di Humboldt implica l’adesione a un particolare
sistema filosofico, quella di C. si pone su un piano di definizioni più
tecniche, più empiriche, che possono essere assunte anche da chi non condivide
i presupposti della filosofia sensista'^. È una sorta di dialogo con Nencioni.
Si puó rilevare che anche Raffaele Simone, nel capitolo sulla linguistica del
Settecento, nell’ importante Storia della linguistica diretta da Lepschy, si
sofferma sul riferimento di Cesarotti al genio delle lingue, con un rinvio
molto esplicito a Condillac: la tematica del genio delle lingue è sicuramente
ripresa da Condillac (a cui del resto l'intero Saggio si ispira) , scrive
Raffaele Simone*. Praticamente nella trattazione di Simone il Saggio sulla
filosofia delle lingue entra solo per la questione del genio. Alla distinzione
tra genio retorico e genio grammaticale aveva fatto riferimento come a cosa
attuale anche Puppo, segnalando che anche oggi, intesa con discrezione, senza
eccessiva rigidezza, potrebbe avere una sua validità: il genio grammaticale
potrebbe corrispondere agli aspetti strutturali della lingua, e il genio
*rettorico a quelli stilistici '*. La sottrazione del Saggio sulla filosofia
delle lingue al dibattito sulla questione della lingua operata da Nencioni é
stata dunque fondamentale, e direi che vi si poteva cogliere anche una presa di
distanza dall'edizione di Spongano, priva di introduzione ma corredata da una
breve postfazione, in cui non soltanto C. era collocato sulla linea di pensiero
di Vico come al tempo di Trabalza (e questo si
giustifica considerando la data d'uscita del lavoro, chiaramente più
influenzato dal pensiero crociano: l'interesse per l'origine del linguaggio è
ancora completamente interpretato nell'ottica vichiana), ma, soprattutto,
Spongano, nel definire il significato fondamentale del libro di C., lo
interpretava iz primis come un tentativo di risolvere la questione della nostra
lingua: per Spongano, le due linee di interpretazione erano ancora: 1. quella
crociana; 2. quella legata 14. Ivi 88-9. 15. Simone (1990, 370). 16. Puppo
(1957, 70). 17. Cfr. Spongano (1943, 156): Il proposito primitivo del C. era
stato quello di risolvere un problema particolare, la questione della nostra
lingua, che in quell'epoca di rinnovamento culturale si riaccendeva con nuovo
ardore.alla questione della lingua. Nencioni interpretava in modo radicalmente
diverso, per portare C. su di terreno differente. Veniamo ora proprio ai due
temi che Nencioni, come abbiamo detto, aveva lasciato da parte, e a cui
guardava secondo me con scarsa simpatia, cioè l’origine delle lingue e la
questione della lingua. Il tema dell’origine delle lingue era ben presente in
Puppo, che aveva fatto ampio riferimento non solo a Condillac, ma anche a de
Brosses, e del resto il tema non era sfuggito a Croce (puntualmente citato da
Puppo'), che non aveva trascurato il richiamo (non banale) alla dissertazione
latina del 1765, De naturali linguarum explicatione, in cui ricorrono alcuni
elementi che si ritrovano nel Saggio. Inoltre Puppo insisteva giustamente sul
fatto che C. molto di più ha tratto da Condillac e de Brosses che non dal Vico'?.
Benché Puppo fosse poi attirato in misura maggiore dagli effetti delle teorie
di C. sulla libertà degli scrittori, sulla loro possibilità di farsi moderni e
di innovare lo stile italiano, cioè alla fine propendesse per
un’interpretazione del Saggio al servizio della letteratura, l’attenzione per
le teorie linguistiche del Settecento era viva e meritoria, così come il
medesimo interesse era vivo nella ricostruzione di Vitale, nel classico manuale
sulla Questione della lingua, che consuona con Puppo nel giudicare secondario
l'influsso del pensiero vichiano, presente in C. tutt’al più come un pallido
riflesso, mentre era riconosciuta più significativa la presenza di Condillac e
di de Brosses. Non a caso, alle spalle del manuale sulla questione della lingua
di Vitale, c’era l’esperienza del Sommario elementare di una storia degli studi
linguistici romanzi, che elementare in realtà non è affatto, e in cui la storia
delle idee linguistiche europee era svolta in maniera accurata. Semmai ci si
potrebbe stupire che Vitale, una volta collocato C. nella sua sede naturale,
cioè nel quadro della questione della lingua, si trovasse a giudicare con
severità proprio l’innovativa soluzione pratica che C. aveva offerto
nell'ultimo libro del suo trattato, che si chiude, com'è noto, con la proposta
del Consiglio nazionale italico. Per Vitale, questa era la parte più fragile e
caduca del suo pensiero, perché non per via legislativa accademica, sia pur
nazionale, poteva rendersi viva e comune in tutti i gradi della nazione la
lingua italiana **. Si noti fra l’altro che vi è un legame tra l’attività del
18. Cfr. Puppo (1957, 59). 19. 20. Vitale (1978, 272). 21. Cfr. Vitale (1955 80-1),
con un cenno al precorrimento di Saussure e all’interpretazione di Nencioni.
22. Vitale. Consiglio nazionale e il tema delle etimologie e dei radicali
simbolici ricavati dalle pagine di de Brosses, perché uno dei compiti del
Consiglio avrebbe dovuto essere la realizzazione del vocabolario etimologico
ordinato non alfabeticamente, ma per radici. Quindi il tema dell’origine della
lingua si rifletteva immediatamente sui compiti lessicografici che C. avrebbe
voluto affidare a questo nuovo organismo nato sulle ceneri della Crusca. Non è
un caso che un avversario del Saggio di C., quale era il Galeani Napione, non
fosse solo ostile alla presunta propensione antinazionale e all'eccessiva
disponibilità per i francesismi, ma anche si schierasse contro quella che
definiva la tanto vana scienza delle etimologie, la quale trovò difensori
acerrimi in un secolo, che si vanta chiamarsi Filosofico. A me pare che tra i
temi di attualità che si dovrebbero rivendicare oggi al Saggio sulla filosofia
delle lingue, lasciata alle spalle l’interpretazione in chiave attualizzante di
marca strutturalista, ci dovrebbero essere proprio questi: le etimologie e il
Consiglio italico della lingua come nuova soluzione alla questione della
lingua, anche perché dalla teoria delle origini era tratta l’idea stessa della
natura del linguaggio, e il Consiglio italico aveva lo scopo di voltare pagina,
aprendo una nuova stagione degli studi linguistici italiani in cui la storia e
la ricchezza delle parlate italiane fornissero materia per una nuova
impostazione delle ricerche, al servizio di un ideale collettivo e nazionale.
L' indagine storica sulle radici è insomma per C. un passaggio fondamentale,
anche se ne parla ricorrendo a materiali di riporto; ma essa si congiunge
all'indicazione positiva per superare la questione della lingua mediante un’
istituzione culturale vera e propria. Nel Saggio sulla filosofia delle lingue
scorre una linfa vitale di natura politica che fa riferimento a temi di
attualità. Si pensi all’affrancamento dalle pastoie cruscanti dell’italiano
paragonato all’affrancamento dalla carta da bollo negli Stati americani in
rivolta contro la madrepatria^*. Non a caso il Consiglio nazionale della lingua
è rappresentativo delle varie regioni italiane, da cui dovrebbero affluire gli
intellettuali per collaborare alle nuove iniziative, ben diverse da quelle
della vecchia Crusca, a cominciare proprio dagli studi etimologici, che la
Crusca aveva lasciato da parte fin dal tempo di Ménage. Molto interessante è la
regolamentazione del Consiglio, pensata a seguito di eventi di attualità. Nel
1783 la Crusca era stata unificata nell Accademia fiorentina seconda. La prima
edizione del Saggio di C. è del 1785. Dunque C. proponeva una riforma 23.
Galeani Napione (1813, 197). 24. Cfr. C. (1800, 213). realistica, che poteva
essere presa sul serio. C. si rivolge alla nuova istituzione, a cui parla in
maniera esplicita, cosi come in maniera esplicita menziona Leopoldo di Lorena,
principe illuminato: Rigenerata [l'Accademia di Firenze, ormai non più Crusca]
al presente sotto un nome più adatto allo spirito ragionativo del secolo; posta
sotto gli auspici d’un Sovrano illuminato, che mira in tutto al vero e al
solido^. Mi pare anche interessante la modalità di selezione degli appartenenti
alla nuova accademia, perché il primo passo è lasciato all'Accademia
fiorentina, che deve scegliere persone di sua fiducia nelle varie città
italiane, almeno nelle principali. Questi poi indicheranno i membri di Consigli
provinciali, mai nomi dei consiglieri provinciali avrebbero dovuto essere
comunque approvati dai fiorentini, e i fiorentini stessi sarebbero stati
chiamati direttori del Consiglio italico per la lingua, mantenendone la
sovrintendenza. Il potere di Firenze restava dunque notevole, probabilmente
maggiore di quanto avrebbero gradito altri federalisti, ad esempio il Galeani
Napione. In compenso la valenza del nuovo organo era chiaramente nazionale,
perché i consigli provinciali sarebbero stati mallevadori all’Italia, con una
funzione nazionale mai prima immaginata da qualcuno in una forma così precisa.
La Repubblica delle lettere sembrava concretizzarsi in una istituzione regolata
e comune a tutti gli Stati della penisola. A me sembra che un simile organismo
sia da considerare come una singolare intuizione in quegli anni di forte
sommovimento politico. Quanto alle questioni relative alla formazione delle
lingue e ai radicali primitivi, cioè al tema ricavato da de Brosses e
trasportato fino ai dialetti italiani, esso si congiunge a una particolare
curiosità verso le lingue primitive, esplorate non alla maniera di Vico,
attraverso una speculazione ipotetica e astratta sulla base di notizie ricavate
da fonti antiche. Al posto di queste speculazioni antiquarie, C. tenta di
utilizzare qualche cosa di più per avere informazioni sulle vere popolazioni
primitive con cui i viaggiatorisono venuti a contatto. Mi ha sempre colpito la
serie di riferimenti presente nel Saggio, e già prima nel discorso De naturali
linguarum explicatione, ai viaggi di La Condamine e alle lingue degli indiani
d'America. Queste notizie, in realtà, non derivano da letture di prima mano, ma
sono riprese di sana pianta da de Brosses; tuttavia dimostrano una curiosità
nuova nel qua25. p.214. 26. 216. Per il termine nazionale, si veda in
particolare ivi 214-5. 27. dro italiano, degna del traduttore di Ossian. C.
cerca esempi nella realtà geograficamente lontana. Lo fa quando cita da de
Brosses i termini del linguaggio infantile usati in luoghi reconditi del mondo,
tratti dalla relazione del filosofo viaggiatore Signor de la Condamine, e da
quelle di varj dotti Missionari rapporto alle lingue d'America, e sopra tutto
dalla traduzione dell'Orazione Domenicale in tutte le lingue del mondo pubblicata
dal Chamberlain ^. I riferimenti
all'esotico ricorrono non di rado nel Saggio sulla filosofia delle lingue: così
il riferimento ai selvaggi d'America e alla povertà delle loro lingue, alla
diversità dei loro idiomi, dovuta all’isolamento, perché solo un popolo
aggregato forma una vera lingua; o quello agli americani che hanno denominato
il leone con l’appellativo di gatto grosso e malvagio:°, agli ottentotti che non
trovarono miglior modo di rappresentar il cavallo che chiamandolo asino
selvatico , dove il riferimento serve a illustrare il metodo di denominazione
con cui dapprima si cerca un termine che esprime somiglianza, e poi gli si
accosta un secondo termine che esprime differenza; o ancora il riferimento,
aggiunto nell’edizione 1800, attinto da Herder, alla lingua dei Caraibi che si
sdoppia per sesso, o quella degli uroni, che ha i verbi doppi, uno per le cose
inanimate, uno per quelle animate. La nostra curiosità verso questi temi
potrebbe essere ridimensionata se si insinuasse che si studia via via quello
che è rimasto in ombra, perché su quello che è già stato illuminato resta assai
meno da dire; ma può essere invece che le cose stiano ben diversamente, e
l'interesse per questi aspetti sia invece un reale cambiamento di prospettiva,
alla base del quale sta anche un recupero globale, totalmente storicizzato, del
pensiero degli autori del passato con cui ci si confronta, nel quadro di un
linguistica che non é la nostra, ma che aveva una sua organicità, meno visibile
se si estrapolano solamente temi ed elementi di sapore moderno, magari
evidenziati in forma di anticipazioni e precorrimenti. Oserei dire che si è
ormai affermato a livello internazionale uno status diverso della storia della
linguistica, con una miglior considerazione di quello che è stato l’apporto
delle teorie nello sviluppo intellettuale e culturale europeo, prima ancora che
italiano: Cesarotti ha assolto molto bene a questa funzione, fornendo un
significativo raccordo tra molte idee nate oltralpe e il dibattito italiano
sulla questione 28. 48, nota. 29. Ivi 16-7, nota d. 30. 46. 31. 32.
Cfr. Ivi 87-8, nota o. della lingua, che rimane tuttavia il terreno sul quale
il suo libro deve essere collocato e giudicato. C., Saggio sulla filosofia
delle lingue applicato alla lingua italiana, in Opere dell abate Melchior C.
padovano, vol. 1: Saggi sulla filosofia delle lingue e del gusto, dalla
tipografia della Società letteraria, Pisa 1-300. GALEANI NAPIONE G. F. (1813),
4/ Signor Abate Saverio Bettinelli, in Id., Dell’uso e dei pregi della lingua
italiana. Libri tre, t. 1, presso Molini, Landi e Comp, Firenze. MAZZONI G.
(1931), voce C., Melchiorre, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed
arti, vol. 1x, Treccani, Roma, 883. MONTI V. (1826), Appendice alla Proposta di
alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, Dall Imperial Regia
stamperia, Milano.NENCIONI G. (1983), Di scritto e di parlato. Discorsi
linguistici, Zanichelli, Bologna. PERTICARI G. (1820), Dell'amor patrio di
Dante, in Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della
Crusca, vol. 11, parte 11, Dall’ Imperial Regia stamperia, Milano. PONZA M.
(1838), Voci buone non registrate in alcuni dizionarii, in Annotatore
piemontese, 8/1, 6. PUPPO M. cur. (1957), Discussioni linguistiche del
Settecento, UTET, Torino. ROSIELLO, Linguistica illuminista, Il Mulino,
Bologna. SIMONE R. (1990), Seicento e Settecento, in G. C. Lepschy cur., Storia
della linguistica, vol. 11, Il Mulino, Bologna 313-95. SPONGANO R. (1943), Nota
a M. C., Saggio sulla filosofia delle lingue, a cura di R. Spongano, Sansoni,
Firenze 155-8. TRABALZA C. (1908), Storia della grammatica italiana, Hoepli,
Milano. VITALE M. (1955), Sommario elementare di una storia degli studi
linguistici romanzi, in A. Viscardi ef al. cur., Preistoria e storia degli
studi romanzi, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano-Varese, La questione della
lingua, nuova edizione, Palumbo, Palermo. Reti, relazioni Mito delle origini e
perfectibilité de l'esprit nel Ragionamento sopra l origine e i progressi
dell'arte poetica Contarini (Udine) Il carattere programmatico, se non
addirittura fondativo, del Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte
poetica rispetto agli scritti di C. del medesimo periodo, come il Ragionamento
sopra il diletto della tragedia, emerge nitidamente nelle ultime pagine, dove
l’autore si passa in rassegna i sistemi teorici che lo hanno preceduto nell’ avviluppato
labirinto della riflessione critica settecentesca: per citarne solo i
principali, si va dalle più prevedibili Réflexions critiques sur la poésie et
la peinture di Dubos (1719) all Essai sur le poème épique di Voltaire (1726), a
Les beaux arts réduits à un méme principe di Batteux (1746), alla dissertazione
del sig. Hume sopra la Regola del gusto (letta nella traduzione francese del
Merian'), fino al tutt'altro che scontato De l'Esprit di Helvétius, sulla cui
importanza si dovrà ritornare. Da quello che si può senza dubbio definire in
senso figurato un osservatorio filosofico-letterario sulla tradizione culturale
europea, C. scrive: Parmi ancora che manchi particolarmente all’ Italia,
un'opera più ampia, più metodica, più universale; in cui prescindendo
intieramente da qualunque esempio, autorità o stabilimento, si cerchino nello
spirito e nel cuore umano le prime tracce della poesia ed accompagnandole passo
passo colla scorta della ragione, senza mai perderla d’occhio, si facciano
scorrer le regole necessariamente dal loro primo fonte, distinguendo quelle che
sono essenziali e di natura da quelle che non sono che di riflesso e di
congruenza; ed esponendole con quel metodo con cui si sono scoperte, senza
imporre e preoccupar l’animo con definizioni, le quali senza premetterle osservazioni
non possono né formarsi né intendersi esattamente; in cui s’insegni a
distinguere e ad appreziare secondo il lor giusto valore le bellezze universali
e di natura dalle locali e particolari; in cui finalmente, escludendo tutte le
ridicole prevenzioni per antichi, moderni, nazionali e stranieri, si esamini la
religione, le leggi e 1. Si tratta di Sur les passions, sur la tragédie et sur
la règle du goût, Schneider, Amsterdam 1759. i costumi di tutti i popoli
cogniti e la influenza che debbono aver necessariamente sopra la poesia, i
pregiudizi ed i vantaggi che ne risultano, e l’uso ragionevole che potrebbe
farsene, e su quest’uso dei rispettivi costumi, non sopra i costumi me-desimi,
si fondi una ragionevole censura de’ principali poeti, che diriga il genio e
fissi il gusto per modo che in mezzo al conflitto di tante varie opinioni e
costumi, e nella immensa distanza di paesi e di secoli, la perfetta poesia sia
universalmente ed egualmente riconosciuta e gustata, e quel ch’ella ha di
straniero serva non a ributtar chi la legge, ma a condirla di novità, e a
renderla più istruttiva e più dilettevole?. C. si spinge fino a delineare il
piano preciso di quest'opera ancora da scrivere, che nelle sue intenzioni
dovrebbe portare a compimento la Storia filosofica della poesia progettata da
Antonio Conti. Concepito in due libri, e il primo libro in due parti, il
progetto di fondo appare per la verità assai più vicino alla storia comparata
dell’ Essai sur les Moeurs et l'Esprit des nations di Voltaire, dove i fatti
letterari vengono considerati in rapporto alle loro condizioni antropologiche,
anche se in questo caso l’analisi poetica riceve con tutta evidenza
un’attenzione maggiore da parte dell’autore, che così si esprime riguardo al
suo lavoro: Nella prima [parte] si supporrebbe che non esista ancora né la
poesia né l’arte poetica e prenderebbesi a rintracciare per quali strade un
ragionatore illuminato di qualsivoglia nazione avrebbe potuto accorgersi della
possibilità d’una tal arte, e come per quelle medesime l’avrebbe perfezionata:
ognuno si vedria nascere e crescere la poesia, per dir così, tra le mani, e
potrebbe assicurarsi della verità dei principi col testimonio del proprio
interno sentimento: nella seconda, prescindendo da qualunque fatto istorico, si
esaminerebbe colla pura ragione quali modificazioni debba ricever la poesia da’
diversi sistemi religiosi, politici e morali de’ vari popoli. Il secondo libro
conterrebbe un'istoria ragionata della poesia di tutte le nazioni ed un'analisi
imparziale delle opere de’ più famosi poeti, la quale serviria di esempio e di
prova di fatto a quanto si fosse stabilito nel libro precedente sopra i soli
ragionamenti*. Tanto più se si considera che all’inizio degli anni Sessanta C.
è impegnato con grande successo a fare la sua parte di scrittore di
avanguardia’, sembrerebbe dunque lecito dare credito all'autore e considerare
il Ragzonamento non tanto uno scritto letterario d’occasione, quanto la solida
pre2. C. (2010b 138-9). 3. p.140. 4. s. Dionisotti (1988, 41). messa di un’opera
teorica di più vasto respiro su cui egli meditò a lungo, anche se molti anni
dopo decise di escludere il saggio dall’edizione completa delle Opere,
considerandolo un frutto alquanto immaturo del suo talento giovanile. La
centralità del Ragionamento nel pensiero di Cesarotti alla vigilia dell’ Ossian
è peraltro confermata dalla corrispondenza con Toaldo del 15 dicembre 1760,
dove si allude al progetto in questione, e più tardi anche da una lettera assai
meno nota indirizzata a Michael Rijkloff van Goens del 23 maggio 1767, che
segna l’inizio dello scambio epistolare con il filologo olandese, attratto
proprio dalle implicazioni filosofiche e antropologiche del Ragionamento, di
cui aveva avuto notizia da due gazzette: l'olandese Bibliotheek der
Wetenschappen en Schoene Kunsten e la tedesca Neue Bibliothek der Schone
Wissenschaften. Scrive C., rallegrandosi dell’opportunità di intrattenere con
il suo nuovo corrispondente olandese un sodalizio intellettuale di natura
letteraria e filosofica sui temi che gli stanno a cuore: È qualche tempo ch'io
medito di ridurre ad un sistema più regolato tutte le dottrine poetiche, e di
trattarle con un metodo, s' io non m'inganno, del tutto nuovo. Le ragioni che
m'indussero a pensar ciò, e l’utilità che risultar potrebbe, a mio credere, da
cotesto nuovo piano, io le aveva già stese in un discorso Preliminare: ma
trovandomi da varie cagioni impedito dal por mano all’opera, pubblicai quel
solo discorso col titolo di Ragionamento intorno l'Origine e i Progressi
dell’arte Poetica, dietro la Traduzione di due Tragedie del Signor Di Voltaire,
accompagnate da un altro Ragionamento intorno al diletto della Tragedia.
Cotesto discorso preliminare sarà quello di cui parla la Gazzetta, la quale
saprei volentieri qual fosse fra le tante che escono, e che ne dicesse. Mi daró
l'onore d'inviarle questo mio libro, quando ella si compiacerà d'indicarmi il
mezzo di farglielo giunger sicuramente, giacché la Repubblica Veneta non ha
verun ministro in Olanda. Quanto poi all'opera stessa, benché distratto da
giornaliere occupazioni, io non la perdo di vista, e ci volgo tratto tratto il
pensiero. Ma ella ben vede che questa è opera di molto lavoro, e di vaste
notizie che abbisognano di tempo e di mezzi per esser raccolte e ordinate.
Pressato dai molteplici impegni letterari e accademici, C. dovette poi
rinunciare a dare forma al saggio teorico di cui van Goens, deluso dal6. Cosi
la Nota degli Editori in calce alla ristampa del Ragionamento sopra il diletto
della tragedia pubblicato nel tomo xx1x delle Opere di C. giustifica
l'esclusione del Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte poetica.
7. Cfr. la lettera del 23 maggio 1767 (che non compare nell’ Epistolario
approntato dal Barbieri), in Contarini (2011, 55). Sul carteggio si veda anche
Contarini (2016). la lunga attesa, gli chiedeva ancora notizie alle soglie
degli anni Settanta, prima che il carteggio fra i due si interrompesse
definitivamente. Ma cid non impedisce di ritrovare nel Ragionamento sopra l'origine
e i progressi dell'arte poetica i lineamenti di un progetto ambizioso, a cui C.
si era rivolto, oltre che sull’esempio di Voltaire, forse anche grazie alla
suggestione di quanto aveva dichiarato Helvétius alla fine del primo libro del
De l’Esprit, quando aveva espresso la necessità di una storia letteraria e
culturale che avesse come termini di riferimento da un lato le origini dell'umanità,
e dall'altro l'état de perfection où se trouvent maintenant les arts et les
sciences, e con parole simili a quelle di C. a van Goens aveva concluso quasi
con rimpianto, dinanzi a un compito tanto gravoso quanto necessario: L'on
ferait, sur ce plan, un nouveau systéme de chronologie, du moins assez
ingénieux que ceux qu'on a donné jusqu'à présent: mais l'exécution de ce plan
demanderait beaucoup de finesse et de sagacité d'esprit de la part de celui qui
l’entreprenderait?. Il riferimento a Helvétius, nominato in maniera esplicita
da C. alla fine del Ragionamento e curiosamente ignorato dalla maggior parte
dei commentatori moderni, non é casuale. Ma prima di affrontare il problema dei
rapporti fra il testo di C. e un libro radicale e a tutti gli effetti
rivoluzionario come il De /'Esprit (censurato dalla Sorbona al suo apparire nel
1758 e condannato anche dal Parlamento di Parigi), che a quell'altezza lascia
tracce signicative anche nella riflessione di Pietro Verri e di Beccaria, è
opportuno dire qualcosa sul contesto del Ragionamento sopra l'origine e i
progressi dell'arte poetica, pià volte oggetto di un'attenzione per cosi dire
orientata da parte degli studiosi. La mia impressione, confermata da alcune
edizioni recenti, è che il Ragionamento tenda a essere letto soprattutto come
una sorta di avantesto dell’ Ossian, alla luce di quello che sarà il primitivismo
del Tournant des Lumières, in un’ottica vicina a quella di Herder e di
Leopardi: una prospettiva che per altro deve la sua persistente fortuna critica
a un fatto letterario incontrovertibile su cui forse non si è forse riflettuto
abbastanza, ovvero la ricezione goethiana dell’ Ossian dentro il sistema
romanzesco del Werther, consegnata poi all’ Ortis. Ma se si rimane alla lettera
del testo e alle sue implicazioni, a me sembra piuttosto che il termine
privilegiato del discorso di C. non sia tanto il tema fortunato delle origini
nei termini del Discours sur l'origine et l'inégalité parmi les hommes 8.
Helvétius (1822, 449). 9. nota 1. 10. Cfr. l'introduzione di Finotti in C.
(2010b 1-34). di Rousseau, che alimenterà poi la vague del primitivismo
ossianico, quanto il paradosso illuministico della perfectibilité de l'esprit
così come affiora in Condillac, in Rousseau, in Voltaire e in Helvétius, per
citare solo alcuni degli autori più significativi da cui C. deriva il suo
manifesto culturale all’inizio degli anni Sessanta. Cercherò dunque di
ripercorrere qui gli snodi principali del Ragionamento ricollocandolo nella sua
cornice originaria, all’interno del dialogo implicito con l’antropologia dei
Lumi, lasciandomi guidare, più che da analogie di superficie, dalle indicazioni
di metodo di studiosi come Jean Starobinski e Georges Benrekassa, che invitano
a rinvenire nei termini linguistici e nei loro contesti di riferimento des
choix discursifs symptomatiques . Si può cominciare con l'osservare, per
esempio, che le #0eurs che danno il titolo al saggio di Voltaire e
costituiscono anche l'orizzonte ideologico entro cui si muove C. posseggono a
quell'epoca un significato sociale e politico che occorre tenere a mente, se si
vuole afferrare la complessità dei problemi e delle relazioni in gioco nel
Ragionamento, le quali portano sulla scienza dell'uomo e sui suoi rapporti con
la realtà esterna, sia storica che antropologica. Come ha osservato Benrekassa,
fin dall'inizio del Settecento l'ambito variegato dei costumi, puri o corrotti
che siano, rappresentano il luogo stesso delle passioni, dove si uniscono
natura e morale, ma il termine assume nel corso del secolo una più decisa
sfumatura antropologica che conduce a une forme de psychologie sociale, a une
problématique de l'homme comme être historique. Nel pensiero filosofico dei
Lumi, erede della tradizione cartesiana delle passioni, la nozione tradizionale
di sostanza pensante (l'anima) viene poco a poco sostituita da modelli
corporei, plus aptes à niveler la différence entre pensée pure et sensation (du
corps) , e in questo spazio di ridefinizione antropologica il termine moeurs
incontra quello altrettanto complesso di civilisation, che rappresenta la
versione dinamica, concreta e materiale, del più antico e statico civilité^. Il
termine moeurs, al pari di civilisation, ha del resto già in sé una connotazione
moralistica relativa alla decadenza dei costumi, derivata da una visione antica
della storia come corruzione, che si rinnova peró a contatto con il dinamismo
psicofisiologico di ispirazione lockiana. Nel suo libro capitale, Jean Deprun
ha spiegato bene come il sentimento di 11. Benrekassa (1995, 12). 12. 5o. 13.
Behrens (2014, 139). 14. Cfr. su questo punto Starobinski (1989 11-60).
privazione, associato al movimento, segni nell'orizzonte dei Lumi l'inizio e la
fine dell'evoluzione umana: se all’inizio è l'urgenza dei bisogni fisici che
spinge l’uomo a progredire e a uscire da uno stato di soggezione, nello stadio
più avanzato della civiltà è di nuovo l’inquietudine, come rimedio alla noia e
desiderio di piaceri vivi, a dirigere le azioni degli uomini all’interno di un
universo culturale percepito sempre di più come artefatto, che, come
rileveranno poi con sempre maggiore frequenza gli {déologues, a fine secolo
lascia intravedere tutte le sue ombre. Già i philosophes mostrano però un
disagio crescente dinanzi a un’interpretazione univoca dell’idea di progresso,
e sia Voltaire che Rousseau, mentre considerano la libertà da ogni forma di
pregiudizio e di intolleranza la forma più compiuta di civiltà, non cessano di
lamentare, come del resto Helvétius, la decadenza delle lettere nelle società
più avanzate. A questa forma di paradosso, tipica del pensiero dei Lumi,
neppure C. sembra sottrarsi nel Ragionamento storico-critico sopra L Iliade di
Omero, dove troviamo una lunga citazione tratta da Arnaud che ripropone il
confronto probabilmente ispirato a Helvétius fra le
passioni sublimi degli antichi e le fantasie minute dei moderni, segno
rivelatore di una civiltà in declino: Se i costumi dei suoi eroi ti sembrano
grossolani, e barbari, pensa che tali erano i costumi del suo secolo, e che
egli aveva a dipingerli, non a riformarli. Inoltre se tu consideri che appunto
la semplicità e la ferocia de’ costumi del suo secolo è ciò a cui dobbiamo i
tocchi originali e forti de suoi ammirabili quadri; che tu vivi in un tempo nel
quale la politezza, il lusso, i bisogni moltiplicati all'eccesso hanno
pressoché cancellati tutti i grandi lineamenti della natura, in cui lo sdegno
non è che risentimenti, l'amor che galanteria, l'amicizia abitudine, il
coraggio timor dell’infamia; lungi dall’ascriver [1]a colpa a Omero di non aver
rappresentati i suoi Eroi coi nostri vestimenti, e colle nostre fisionomie, tu
sentirai la necessità di ricorrere alle di lui opere per apprendere a disegnar le
grandi e forti passioni, quelle passioni di cui le nostre anime abbandonate a
un'infinità, non dirò di desiderj, ma di piccole fantasie non potrebbero
presentarci il modello. Tuttavia bisogna osservare che l'ambivalenza implicita
nell’idea di progresso, che come si è visto non appartiene solo a Rousseau ed è
fatalmente destinata ad accentuarsi nel periodo rivoluzionario, risulta per la
verità piuttosto sfumata nel Ragionamento sopra l'origine e i progressi
dell'arte poetica, dove la decadenza della poesia sembra imputata non al
progresso in sé, quanto 15. Cfr. Deprun (1979). 16. C. (1802 222-3). alla
pratica sterile dell'imitazione dei modelli, sia antichi che moderni, che
allontanano il poeta dal centro emotivo della sua ispirazione, vale a dire
l’uomo stesso, considerato non tanto, o non solo, come espressione della
natura, ma più in generale come soggetto di un'esperienza, portatore dei valori
di una comunità storica e sociale. Prima della nascita dell'antropologia, a
fine Settecento, tutto ció che riguarda il sapere antropologico ed etnologico
si concentra infatti sulla storia, intesa come discorso sull'uomo e sulla
genesi e l'evoluzione delle società. Tale discorso è dunque al contempo lo
abbiamo visto nel passo di Helvétius citato poco fa récit
d'une génèse et philosophie d'un devenir . Sull'esempio dell’ Histoire
naturelle di Buffon, l'antropologia dei Lumi concorre a fare dell’ homme
civilisé il centro del suo interesse, e persino coloro che, come Rousseau e
Helvétius, deplorano la corruzione dei costumi delle età più avanzate, non
cessano di guardare comunque all'educazione come mezzo necessario di perfezionamento
morale e civile: proprio perché la storia è dotata di senso, l'uomo non puó
rimanere allo stato selvaggio senza soffrire di una mancanza essenziale che
deriva dalla sua stessa natura, la quale tende allo stato di civiltà come suo
fine naturale. Da questo punto di vista il Ragionamento non fa eccezione, e il
quadro delineato da C. si inscrive senza sforzo all'interno della riflessione
settecentesca qui riassunta per sommi capi, che sull'esempio lockiano vede nel
piacere e nel dolore i cardini di una storia naturale e culturale percepita
anzitutto in termini fisiologici, dentro le coordinate geografico-antropologiche
dell Histoire naturelle di Buffon. Come in Condillac, in Voltaire, in Rousseau
e in Helvétius, all’origine di ogni progresso umano c'è la percezione, e poi
l'idea sempre più definita, di una mancanza che da concreta diviene astratta,
dando l'avvio al processo storico e culturale delle arti. Lo ricorda già Fontenelle
in uno dei testi cari a C., il saggio Sur la poésie: toute invention humaine a
sa première origine, ou dans un besoin actuellement senti, ou dans quelque
hasard heureux qui a découvert une utilité imprevue . E questa l’idea che presiede al frammento sui
primordi posto all’inizio del Ragionamento, debitore della scrittura per
immagini della Scienza nuova di Vico solo nell’esordio topico sulla dispersione
delle genti succeduta al diluvio, quando gli uomini abbandonati a se stessi, in
preda ai bisogni, lottando colla fame, col freddo, coi disagi, in perpetua
guerra con le fiere, non si distinguevano da esse che per la possibilità di 17.
Duchet (1971, 8). 18. Fontenelle (1766, 270). diventar uomini. A ben vedere,
ciò che interessa C. non è tanto la pittura del mondo primitivo, quanto
l’analisi del passaggio graduale dalle grida della natura (un evidente calco
rousseuiano?°) alla creazione del linguaggio e quindi allo sviluppo dell’arte
poetica, anche se l’attenzione minuta che egli rivolge da subito ai processi
linguistici sembra indicare che l’incontro con il Traité de la formation méchanique
des langues, databile grazie agli studi di Enrico Roggia all’inizio degli anni
Settanta, era in qualche modo già annunciato. Possiamo immaginare infatti che
nella suggestiva fabrique des mots di de Brosses, l’abate avesse modo di
ritrovare quella ricostruzione precisa delle origini del linguaggio e della peinture
imitative, estesa de degrés en degrés, de nuance en nuance che non poteva
desumere da Condillac e da Voltaire. D’altro canto non è senza significato, ai
fini della ricezione di de Brosses, che l’orizzonte ideologico del Traité de la
formation méchanique des langues sia lo stesso dell’ Essai sur les Moeurs e del
Ragionamento, vale a dire la geografia antropologica dell’ Histoire naturelle
di Buffon, e che lo stesso de Brosses abbia intrattenuto un dialogo di un
qualche interesse con Helvétius’*. Ma torniamo al discorso di C. sull'origine e
lo sviluppo del linguaggio, che già a un primo sguardo appare fortemente
debitore delle teorie di Condillac, di Rousseau e di Helvétius. Se in un primo
tempo gli organi informi ed irrigiditi degli uomini primitivi li rendeano ben
più atti a imitare gli ululati dei lupi e i ruggiti de’ leoni, che il canto
degli usignuoli, una volta acchetate le grida della natura coll’ invenzione
delle arti più necessarie, stabilita qualche società, formato un corpo di
lingua , gli uomini, non più spinti dal bisogno ma dal piacere, avranno fatta
maggior attenzione al sibilo de’ zefiri, al gorgoglio de’ ruscelli, onde si
saranno formata la prima idea d'un suono aggradevole*. Nell'economia del
Ragionamento il passaggio decisivo da un accozzamento di suoni per cosi dire
inanimati 19. C.
(2010b, 106). Sull’ influenza di Vico cfr. Battistini (2002). 20. Le premier
langage de l’homme, le langage le plus universel, le plus énergique est le cris
de la nature (Rousseau, 1755 50-1). 21. Sull'influenza di de Brosses rimando alle considerazioni di
Roggia nel volume degli Scritti sulle lingue antiche e sul linguaggio di C. (in
corso di stampa), che si aggiungono a un precedente contributo dello stesso
Roggia (2011 43-66). 22. De Brosses (1765, XV). 23. Come scrive de Brosses
(1765, xv): l'abondance des mots, la richesse d'expressions nette et précises
supposent dans la nation un esprit qui s'exerce depuis long-tems, un grand
progrès de connoissances et d'idées (Buffon, Hist. nat. t. 1, Disc. 1). 24. Cfr. Droixhe (1981). 25. C. (2010b, 106).
all armonia imitatrice, la quale coll’espression degli affetti si fa sovrana
dei cuori? è dunque al contempo causa e conseguenza dello sviluppo delle
passioni: Quindi un amico, o piuttosto un amante desideroso di custodir
l’immagine dell’oggetto amato (come appunto dicesi aver fatto Dibutadi) si sarà
ingegnato di delineare i contorni con qualche rozzo strumento, il quale, dando
luogo successivamente ad altri più perfetti, avrà finalmente prodotta l’arte
maravigliosa di raddoppiar la natura. La ricostruzione mitica delle origini del
linguaggio sembra qui aver assimilato lo schema di fondo dell’ Essa sur
l'origine des connoissances humaines, dove Condillac aveva distinto fra suoni
accidentali, naturali e d’istituzione, indicando al contempo l’importanza della
memoria nel processo imitativo e poi creativo del linguaggio. Tuttavia non è
senza rilievo che C. insiste, sulla scorta di Rousseau, sul ruolo decisivo
delle passioni nel passaggio dai suoni sparsi alle parole: Il medesimo
sentimento di gioia il quale, come abbiam detto, espresse dalla bocca degli
uomini i suoni, avrà pure espresse alcune parole che disposte accidentalmente
in un certo ordine doveano piacevolmente colpirli: la voce ripercossa nelle spelonche
avrà risvegliata l’idea delle consonanze: dall’una e l’altra di queste cose si
saranno avveduti che le parole erano suscettibili di un'armonia diversa da
quella de’ suoni, e più di essa pregevole, poiché quella non parla che agli
orecchi, laddove questa parla di più allo spirito e al cuore. Ma il nesso
intertestuale più forte sembra costituito in questo caso dal capitolo del De
l'Esprit dedicato alle passions fortes, nel quale compare la stessa immagine
del Ragionamento a proposito della nascita dell’arte: Les passions sont dans le
moral ce que dans le physique est le mouvement: il crée, anéantit, conserve,
anime tout, et sans lui tout est mort: ce sont elles qui vivifient le monde
moral. C'est
l’avarice qui guide les vaisseaux à travers les déserts de l'Océan; l'orgueil
qui comble les vallons, aplanit les montagnes, s'ouvre des routes 26. Ivi 107.
27. 28. Quoi qu'en disent les Moralistes,
l'entendement humain doit beaucoup aux passions c'est par leur activité que
notre raison se perfectionne. Les Passions, à leur tour, tirent leur origine de
nos besoins; et leur progrés de nos connoissances (Rousseau, 1755 35-6). 29. C.
(2010b, 107). à travers les rochers. L'amour taille, dit-on, le crayon du
premier dessinateur. C'est donc aux passions fortes qu'on doit l'invention et
les merveilles de l'art; elles doivent donc étre regardées comme le genre
productif de l'esprit, et le ressort puissant qui porte les hommes aux grandes
actions. Il percorso a ritroso
sulle origini dell'arte delineato dal Ragionamento si conclude con l’immagine
eloquente del corpo della poesia , che rappresenta una prima elementare forma
di espressione in versi o in prosa, suscettibile di perfezionamento e di
sviluppo fuori di sé. Poiché infatti la facoltà poetica non può parlare del
mondo senza l’aiuto della Filosofia, un'arte che imita l'uomo e le cose non può
perfezionarsi se non colla perfetta conoscenza della natura delle cose. Questo
è anche il motivo per cui nei primi secoli, sprovvisti di tale conoscenza, lo
sviluppo dell’arte rimase abbandonato al caso e all’istinto medesimo che la
produsse. Spiega C. ricorrendo a un esempio che porta ancora una volta sul
terreno dell'antropologia comparata, nel segno di Lafitau*: Simili a
quell'Americano, quei rozzi poeti doveano servirsi di questa grand'arme da
fuoco come d'un legno, e scagliarlo senz'arte così alla cieca. Niun vincolo tra
l’idee, niuna delicatezza nei sentimenti, niuna scelta nelle parole, niun
disegno nel tutto, niuna proporzione nelle parti. La loro fantasia era come un
caos da cui scappava di tratto in tratto qualche scintilla di luce, che, a chi
avesse potuto accorgersene, serviva a rilevarne meglio la difformità. Dirozzati
poco a poco gli spiriti, cominciò a polirsi anche l’arte, la lingua acquistò
qualche regolarità, forza ed armonia; s’inventarono vari modi d’imitare; si
moltiplicarono le osservazioni. In queste felici disposizioni comparvero alcuni
spiriti particolari, i quali, congiungendo a tutto il Genio Poetico qualche
cognizione dell’uomo in generale, la scienza dei caratteri, usi, costumi de’
suoi nazionali, e la notizia d'altre arti, produssero una nuova specie di
Poesia, appresso la quale quella che dianzi piaceva, non era che un balbettar
di fanciulli o un farneticar di ammalati. Come si vede, l’elogio delle passioni
forti alla maniera di Helvétius non si traduce affatto in un sentimento di
nostalgia nei confronti dello stato di 30. Helvétius (1822, 459). 31. C.
(2010b, 109). 32. 110. 33. 34. 35. Sull’antropologia e l’etnologia
comparativa di Lafitau cfr. in particolare Duchet (1985) e Blankaert (1985).
36. C. (2010b, 110). natura o in un elogio vichiano dell’immaginazione
metaforica dei primitivi, che appare anzi tanto vivida quanto sconnessa e mal
assestata . Osserva inoltre C.
riprendendo una similitudine che appartiene al repertorio di Conti: Simile
appunto ad un vetro colorato, o ad uno specchio mal costrutto, la fantasia
spoglia gli oggetti de’ loro colori naturali e li tinge de’ suoi; gli altera,
l’ingrandisce, gl’impicciolisce, gli difforma e trasforma in mille diverse
guise, ed alle volte, come in uno specchio cilindrico accade, degl’informi e
sconnessi abbozzi di oggetti e d’idee si crea una figura quando regolare e
quando mostruosa. Se poi la religione o l'ignoranza o la tradizion popolare
favorisce queste produzioni, esse prendono una tal forza che la fantasia vi
presta un'intera fede e vi si abbandona. La Ragion poetica del Gravina e le
Prose e poesie di Conti (fra cui l’ inedito trattato Dell imitazione,
pubblicato per sommi capi da Toaldo e da lui giudicato confusissimo ?) sono
senz'altro, come è stato più volte ribadito, all’origine della similitudine
d’autore. Nella Prefazione alle Prose e Poesie, Conti per esempio aveva scritto
a proposito dei procedimenti allegorici dei poeti antichi: Nell'antiche Poesie
non pertanto una cosa si legge, ed un’altra s' intende, in quella guisa,
appunto, che altro è ciò che talor si vede nelle figure colorite sovra una
carta rimirandole in sé, ed altro è ciò che si vede rimirandole ne’ riflessi di
un cilindro di liscio e terso metallo. I riflessi de’ raggi mostrano quei che
debbe farla mente allora che nelle pitture espresse dell'imitazione cerca il
senso nell'allegoria. Di quella comunemente si servirono i Poeti antichi per
istruire senza arroganza, per lodare senza affettazione, per accusare senza
pericolo, e per far le cose grandi e mirabili senza esporle alle irriverenze e
a’ disprezzi*. Confrontando i due passi, non si puó tuttavia fare a meno di
notare come C. rovesci le argomentazioni vichiane di Conti, storicizzandole: la
similitudine originaria viene impiegata per illustrare la natura di un
immaginario nutrito di passioni smisurate e di pregiudizi religiosi, sul quale
Voltaire si era soffermato a lungo, dopo Fontenelle, nell’ Essai sur les
Moeurs. Se lo si guarda da questa prospettiva, allora, il Ragionamento 37. 108.
38. Ivi 108-9. 39. Così Toaldo nella prefazione al Trattato dell imitazione nel
secondo volume delle Prose e poesie (1756) che raccoglie gli inediti di Conti
(1739-56, 11, 109). 40. Conti (1739-56, 1, 14). sembra piuttosto offrire un
contributo al dibattito sulle favole antiche inaugurato dal saggio sull’
Origine des fables di Fontenelle (1684), che, mentre sottopone a verifica i
contenuti di un mito frutto di superstizione e di pregiudizio, finisce nello
stesso tempo per confermarne lungo tutto il Settecento la vitalità poetica, in
forza di un'energia creativa perduta per i moderni. Se l’esito più noto di
questo discorso culturale e letterario è riconoscibile nelle posizioni più
tarde di Schiller e di Leopardi sulla poesia sentimentale, il Ragionamento ci
restituisce l’interrogazione voltairiana circa i contenuti di verità del mito,
dove la battaglia contro gli errori degli antichi arriva alla fine a celebrare
quasi suo malgrado il potere intrinseco dell’illusione poetica.
L'argomentazione è scandita in tre tempi diversi e perfettamente distinti, nei
quali assistiamo di fatto a un progressivo riadattamento delle premesse
iniziali: dal momento che il maggiore pregiudizio è costituito dall’ ammasso
indistinto di religione, leggi, costumi opinioni, usanze e capricci ^ di cui la
poesia si fa veicolo nelle diverse epoche storiche, chi aspira alla gloria di
poeta universale delle nazioni e dei secoli, deve afferrarsi alle grandi e
universali bellezze della natura, e dell’altre servirsi solo come di un
abbigliamento che non deformi, ma rilevi i lineamenti di un volto *. Egli dovrà
dunque dapprima esaminare la massa indigesta degli usi ed opinioni popolari per
poi purificarla, scegliendo tra queste ultime quelle che confrontandosi più
colla ragione, universale a tutti gli uomini, possano più universalmente esser
gustate 4. E poiché alla fine anche le
più strane costumanze non mancano di qualche principio ragionevole, il poeta dovrà
far sentire questo vivamente e nasconder con destrezza l’altre assurdità che
l’accompagnano; ingentilire e nobilitar finalmente anche i pregiudizi, e far sì
che si cangino in virtù +4. In tal modo, conosciuti i pregiudizi per quel che
sono, anche coloro che li disapprovano, incantati e commossi dalla magia
poetica, ringrazieranno quel felice errore che produsse in loro così ragionevol
diletto #. A ulteriore riprova di quella dialettica interna al pensiero dei
Lumi a cui si è già accennato, all’altro estremo del percorso cronologico
delineato nel Ragionamento C. colloca l’ imitazione servile delle epoche moderne,
quando gl’ingegni fecondi s’isteriliscono, sforzati dalla prevenzione 41. C.
(2010b, 115). 42. lvi, 129. 43. 44. 45. a veder coll’altrui fantasia, a sentire
coll’altrui cuore*. Ai pregiudizi derivati dall’ignoranza, tipici dei primordi,
si contrappone così lo sforzo, la languidezza e il gelo nell'anima, degli imitatori
d’imitatori moderni: snervati, scoloriti, contraffatti. Qui la riflessione
teorica discende sul terreno nazionale del dibattito sulla tradizione
letteraria e i suoi modelli, ed è significativo che su questo punto le
considerazioni negative di C. sul petrarchismo siano le stesse di un altro
illuminista voltairiano insofferente ai precetti di stile e di lingua, Giovanni
Ludovico Bianconi, che nelle cosiddette Lettere bavare, uscite a Lucca nel
1763, lamenta con toni analoghi il peso di una tradizione illanguidita, priva
di sostanza e di verità intrinseca**. La denuncia dei pregiudizi degli antichi
si rovescia dunque nella rivendicazione di una poesia moderna per la quale
significativamente C. si appella a Bacone nel rivendicare una nuova forma di
Libertas philosophandi estesa alla letteratura: L'ultimo pregiudizio della
Poesia, non minore degli altri, viene dalle regole e dai precetti dell'arte.
Osserva lo stesso Bacone, colla sua solita perspicacia e solidità, che la
scienza stessa poco o nulla s'avanza; appunto come, dic'egli, quando le membra
e i lineamenti tutti d'un giovine hanno ricevuto troppo presto forma e
compimento, il corpo non vuol più crescere; così la scienza finché è sparsa in
osservazioni ed aforismi puó acquistare aumento e grandezza, ma circoscritta
una volta, e rinchiusa dai metodi, potrà pulirsi forse, e rendersi atta agli
usi degli uomini, ma non potrà più crescere e dilatarsi. E ciò accade tanto
più, quando i maestri di quella dottrina usano un tuono dogmatico, che impone
all’intelletto senza illuminarlo. Così la poetica facoltà sul fondamento di
alcune poche osservazioni ridotta troppo presto in arte, s’isterilirà ed
incepperà da se stessa, chiudendo l'adito alle osservazioni nuove, si toglierà
il suo proprio alimento. Più tardi, il Saggio sulla filosofia delle lingue
tornerà su questo punto decisivo, ribadendo con maggiore convinzione che se
l’arte dei primordi è figlia della povertà, del bisogno, del caso, quella dei
moderni appare frutto dell'abbondanza, della scelta, del lusso; se quella
risulta dall’ impeto d’una fantasia senza guida, questa è la baldanza dello
spirito che sente le proprie forze, mancando così di facilità5°. Ma all'altezza
del Ragionamento, a C. preme soprattutto affermare che la vera arte poetica 46.
C. (2010b, 112). 47. C. (2010b, 113). 48. Cfr. Bianconi (2006, 534). 49. C.
(2010b, 120). so. C. (2001, p.81). non deve i suoi strumenti ad alcuna cosa
esterna, ella li trova tutti nell’animo ove rinchiusa fermenta ?. Piuttosto che una difesa
del genio, che pure ha già a quest’altezza i suoi sostenitori convinti,
l'immagine sembra una riformulazione del precetto delfico caro al Settecento
illuminista, che risuona all’inizio dell’ Essai sur l'origine des connoissances
humaines: Soit que nous nous élevions, pour parler métaphoriquement, jusque
dans les Cieux, soit que nous descendions dans les abimes, nous ne sortons
point de nous mêmes * e del Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité:
La plus utile et la moins avancée de toutes les connoissances me paroît celle
de l'homme et j’ose dire que la seule inscription du temple de Delphes
contenoit un précepte plus important et plus difficile que tous les gros livres
des moralistes*. E difatti subito dopo C.
riporta l'esempio del primo poeta, Omero, che aveva tolto le sue regole dall’osservazione
della natura 4 priori, ovvero dall'esame più o meno esatto dei rapporti eterni
e immutabili tra gli oggetti e l'uomo**, ma risultava totalmente privo di
quello spirito filosofico che trasforma la poesia nel sistema perfetto
dell’arte. Già Fontenelle aveva indicato nella combinaison nouvelle des pensées
connues il carattere peculiare della poesia dei moderni, in grado di cogliere
le relazioni astratte fra le cose, mentre quella degli antichi si fondava
principalmente sul senso elementare della vista, ma questa formula, che gode di
una certa fortuna in ambito illuministico arrivando fino al Leopardi dello
Zibaldone, trova ancora una volta in Helvétius uno dei suoi più lucidi
divulgatori. Nel
capitolo del De l’Esprit dedicato ai processi della memoria, Helvétius
definisce infatti l esprit come la capacité d'assembler des idées nouvelles e
osserva che l'artista per essere tale deve employer la plus grande partie de
son temps à l'observation des rapports divers que les objets ont entre eux, et
n'en consommer que la moindre partie à placer des faits ou des idées dans la
mémoire *. A pensarci bene, la
parte centrale del Ragionamento contro un'arte sterile, soggetta al dispotismo
della tradizione e a favore di un'espressione moderna, vólta alla descrizione
intima dell'uomo e dei suoi rapporti con la realtà, potrebbe essere riassunta
tutta in questa definizione di Helvétius, 51. C. (2010b, 131). 52. Condillac
(1793, 1.1.1.1, 1). 53. Rousseau (1755, 4). 54. C. (2010b, 131). 55. 56.
Fontenelle (1766, 294). 57. Helvétius (1822, 414). destinata a essere ripetuta
più volte nel Tournant des Lumières. Ma vale la pena di ascoltare direttamente
la voce di C. in quello che è forse il punto più vicino allo Zibaldone di tutto
il Ragionamento, dove la vecchia metafora neoplatonica di Conti sulla catena
dell' Essere si piega a descrivere il processo infinito dei rapporti sensibili
fra le cose, che costituisce il serbatoio stesso di una poesia nella quale il
soggetto appare al centro di una rete sensibile di relazioni: Gli oggetti sono
infiniti: le loro parti, le loro configurazioni, le minute differenze che li
distinguono tra loro, le quali non debbono sfuggire all'occhio d'un buon
imitatore, sono innumerabili. Tutti questi oggetti hanno poi tra se stessi
infiniti rapporti. Ogni cosa è simile o dissimile ad un’altra; un’invisibil catena
lega insieme tutti i generi degli enti, e tutti gli enti di ciascun genere, e
li subordina l’uno all’altro. Ma nissun calcolo può giungere a rilevare tutti i
rapporti e le relazioni che questi oggetti hanno con l’uomo. Essi formano un
nuovo mondo intellettuale e sensibile, più vasto e più vario dell’universo
visibile. Che infinita varietà di pensieri, di ragionamenti, di giudizi sopra
la stessa cosa! Chi può sperar di comprendere col suo spirito tutte le
modificazioni possibili dei sentimenti e delle passioni? Da ciò risulta che la
natura può essere risguardata sotto infiniti punti di vista, ed egualmente bene
sotto questi tutti rappresentata; ma che contuttociò ognuno chevoglia imitarla,
per l impulso e '| moto delle forze esterne ed interne che agiscono in lui, è
costretto a non risguardarla, né per conseguenza a dipingerla, che sotto un tal
punto determinato, cioè sotto quello in cui ella gli si presenta, e con quei
colori che gli si presenta. Ma per tornare a Helvétius, è indubbio che nel
tessuto semantico del Ragionamento affiorino tracce sparse di una lettura non
occasionale delle sue pagine. Una delle più significative riguarda la
distinzione fra le virtù di pregiudizio, che in poesia seguono gli usi e dei
costumi del tempo, e le vere virtù, che rappresentano valori morali e civili
universali. Scrive poi l'autore del De l’Esprit a proposito della passione
anacronistica della vendetta, che egli assimila al bisogno e al pregiudizio dei
popoli primitivi: Les anciens élevaient des temples à la vengeance: cette
passion, mise aujourd’hui au nombre des vices, était alors comptée parmi les
vertus. Dans
un siècle trop guerrier pour n'être pas féroce, l'unique moyen d'enchainer la
colère, la fureur et la traison, était d’attacher le déshonner à l’oubli de
l’injure. La peinture de cette passion était donc trop analogue au besoin, au
préjugé des peuples anciens, 58. C. (2010b 111-2). pour n'y être pas considéré
avec plaisir. Mais dans les siècles où nous vivons il est évident qu'en
consultant pareillement notre intérêt, nous ne devons voir qu'avec indifférence
la peinture d'une passion qui, loin de maintenir la paix et l'harmonie dans la
société, n'y occasionerait que des désordres et des cruautés inutiles. Secondo Helvétius ogni epoca produce una
letteratura autonoma espressione dell’ esprit du siècle‘°, e di conseguenza
ogni mutamento nel governo o nei costumi deve necessariamente condurre a una
rivoluzione nel gusto. In tale contesto, che subordina per così dire l’estetica
all’antropologia culturale, il De /'Esprit elabora una particolare declinazione
dell’idea di interesse che sembra aver lasciato un segno duraturo anche nel
pensiero di C.. Benché il termine interesse appartenga di diritto all’orizzonte
ideologico dei Lumi (ne parla per esempio Jaucourt nell’articolo Tragédie dell
Encyclopédie), mi pare infatti di poter affermare che la sfera semantica morale
e civile di termini come intérêt e intéressant, che
Helvétius impiega nell’ampia disamina sulla tragedia nel capitolo XIV del De
l'Esprit citato più tardi nel Ragionamento storico-critico sopra l’Iliade, sia
la stessa che ritroviamo nel discorso di C.. Di là dall'ampiezza della
trattazione rispetto ad altre fonti coeve, il merito di Helvétius è senza
dubbio di essersi soffermato sulla categoria illuministica di interesse
collettivo estendendola al dominio dell’arte: è infatti all’interesse pubblico,
modificato nel corso dei secoli, che egli attribuisce la création et
l'anéantissement de certains genres d'idées et d'ouvrages *. A suo dire, la
fama stessa di alcune opere, di là dal tempo e dallo spazio, si spiega con il
fatto che esse sono plus vivement et plus généralement intéressants pour
l'humanité, ossia arrivano a esprimere valori universali indipendentemente dai
contesti culturali che li hanno ispirati. C. sembra aver assimilato la
sfumatura antropologica e temporale implicita nell'uso dei termini interesse e interessante
da parte di Helvétius, e se ne serve, si direbbe, in un'accezione ancora piü
rigorosa. Proprio in considerazione del carattere peculiare di ogni letteratura
(in senso storico, geografico e antropologico) l'autore del Ragionamento
critica infatti quei popoli che in vece di attendere a sviluppare e coltivare
germi [della pian59. Helvétius (1822 286-7). 60. 289. 61. Cfr. al riguardo
Contarini (2011b, 95). 62. Helvétius (1822, 295). 63. 300. ta poetica] alla
foggia del loro paese vanno a trapiantare nel proprio clima quella precisa ch'è
nata in quel clima straniero, di cui la crederanno un dono particolare,
trasformandola in un prodotto artificiale. Ma vediamo meglio il passo in cui
affiora il lessico di Helvétius, in una forma così connotata da non aver
bisogno di spiegazioni: La tragedia appresso i Greci non era che la
rappresentazione d’una tragedia fatale ed inevitabile, che inorridiva più che
interessasse. La superstizione per gli antichi fece sì che si escludessero dal
teatro molti altri soggetti più delicati, più interessanti, più istruttivi ed
atti a recare nuove spezie di diletto. L'Italia particolarmente non è ancora
ben rinvenuta né praticamente né teoricamente da questo error grossolano,
cosicché si durerà fatica a trovar quattro critici, di quei che si piccano di
buon gusto, che non si facessero scrupolo di dar il titolo di vere tragedie a
molte insigni produzioni di Cornelio o di Racine, e che non preferissero a un
Maometto la più difettosa d' Euripide. In altre parole, ciò che rende possibile
la sopravvivenza di una tragedia anacronistica, fonte di un diletto svaporato
non più naturale, è il pregiudizio dell’abitudine, grazie al quale pur essendosi
cangiato col tempo il sistema della Religione e del Governo, si mantengono ancora
per lungo spazio gli antichi modi e l’antico meraviglioso poetico, appunto come
in un governo, cangiati i costumi, si conservano generalmente le leggi 55. Un
esempio concreto al riguardo è fornito dal Ragionamento sopra il Cesare del
signor di Voltaire, uscito nel medesimo anno del Ragionamento sopra l'origine e
i progressi dell'arte poetica, che ha anche il merito di precisare meglio i
termini del dialogo a distanza con i modelli francesi. Dopo aver definito la
morte di Cesare un fatto cosi grande, e cosi interessante, che meritava bene
d’essere il soggetto de’ migliori Tragici di tutte le nazioni %7, C. si applica
a una disamina sottile delle azioni di Bruto nella tragedia di Voltaire, con il
conflitto fra il dovere filiale e l’amore di patria, tutta condotta sulla
falsariga di quel confronto fra le passioni degli antichi e quelle dei moderni
che costituisce il tema di fondo del De / Esprit; anche se poi, a differenza di
Helvétius e in anticipo su quanto sosterranno più tardi con ragioni diverse
Chateaubriand e August-Wilhelm Schlegel, C. giunge per questa via ad appellarsi
alla verità rivelata del Cristianesimo per 64. C. (2010b, 117). 65. 122;
corsivo mio. 66. 118. 67. C. (20102, 167); corsivo mio. CONTARINI prospettare,
attraverso una serie di efficaci obiezioni al palinsesto voltairiano‘, tutta
l'inattualità delle passioni degli antichi nel sistema morale dei moderni, dove
la virtù romana di Bruto finisce per assumere i colori del fanatismo di libertà:
Ma se mi si replicasse che il Cristianesimo depurato de’ tempi nostri, ci
farebbe abbominare lo spettacolo d’un tal orrore commesso per un zelo mal
inteso di religione, e che a più forte ragione dee ributtarci un simile eccesso
nato dal fanatismo di libertà; che altro è non tradir la patria per il padre,
altro uccidere il padre per la patria, che quanto a Bruto c’è qualche distanza
fra un'espressione entusiastica e vaga, e l'esecuzione d'un fatto di tal
natura; che quand'anche ciò bastasse per suppor che l’avesse eseguito, un tal
sentimento ci farebbe detestare i suoi principi, e non ammirar il suo coraggio
(non distingendosi l’ Eroe dal frenetico, che per la ragion che lo determina);
che finalmente Bruto avrebbe fatto un'azione più che abbastanza eroica,
lasciando eseguir la congiura senza prendervi parte, e sostenendo poscia i
compagni colla sua autorità; se tutto ciò, dico, mi venisse replicato, confesso
con ingenuità, che mi troverei molto impacciato a risponder a un uomo così
insistente?. Vorrei concludere con due considerazioni di carattere generale. La
prima: il Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte poetica, più di
altri testi teorici del periodo, presenta i lineamenti di una poetica di ampio
respiro, alla quale l’autore, a dispetto del rifiuto di ripubblicarlo nella sua
interezza, rimase per certi aspetti fedele, se è vero che la seconda versione
rivista del Ragionamento sopra il diletto della tragedia, pubblicata nel 1806,
ribadisce l’idea, nuovamente affinata in senso etico-pedagogico, che il piacere
estetico deve nascere dall’accordo del risultato drammatico coll’ interesse e
l'istruzione morale7°. La seconda: la poetica antropologica elaborata alle
soglie degli anni Sessanta sembra destinata a trovare un'applicazione pratica
sul doppio versante della traduzione di Ossian e di Omero, intesa come
adattamento o ri-creazione del testo originale. Da questo punto di vista, anzi,
la cornice storica sui costumi e le credenze dei popoli antichi che precede le
traduzioni di Ossian e di Omero sembra avere proprio la funzione di indurre in
primo luogo il lettore a 68. Si tratta in questo caso di obiezioni di
contenuto, rimaste in secondo piano rispetto all'analisi degli elementi
linguistico-stilistici, su cui si veda per es. Matarrese (2002). 69. C. (2010b 173-4).
70. C. (1960, 38); corsivo mio. 71. Cfr. Baldassarri (1983; 1990; 2011). Per
gli aspetti più propriamente metrico-stilistici cfr. Zucco (2002) e Roggia
(2007). 70 MITO DELLE ORIGINI E PERFECTIBILITÉ DE L'ESPRIT considerare la
distanza fra l’originale e l’opera del traduttore, il quale, sedotto
dall’energia poetica dei testi antichi, opera però in una prospettiva diversa,
che potremmo definire in senso moderno di transfert culturale, poiché implica
la dislocazione del contesto semantico verso una nuova costruzione di senso. C.
sembra esserne del resto perfettamente consapevole, quando comunica al
destinatario della sua opera che il progetto di fornire una versione poetica
del testo omerico gli si è cangiato tra le mani, trasformandosi in una assoluta
riforma , e che la libertà del traduttore è andata ben oltre la prima
intenzione di rinfrescarne il colorito lasciando intatte le figure e la
composizione quali uscirono dal pennello del primo maestro 7. E nella Moralita
dell Iliade Italiana, premessa alla riscrittura della Morte di Ettore, precisa
a scanso di equivoci: I lettori debbono però aver presente che io non ho inteso
di architettar di pianta una nuova Iliade, ma di restaurar l’antica,
conservandone quanto v'era di bello e degno a servir d’esempio, togliendone il
più difettoso, o travisandolo in modo che non offenda, racconciandola infine
nella struttura e nei fregi a quel modo che potria supporsi che avrebbe fatto
Omero stesso se fosse nato in questo secolo ch'è quello dell'arte educata dalla
ragione e dal gusto. Nutrita in origine del pensiero settecentesco più
avanzato, l'antropologia letteraria del traduttore di Ossian e di Omero si
presenta nel suo complesso come un percorso articolato, che nel tempo obbedisce
senz'altro a intenti e impulsi di diversa natura; e tuttavia mi sembra di poter
dire che i suoi postulati critici risultano più comprensibili e coerenti nel
confronto con l'ambivalenza produttiva che costituisce la cifra interna della
cultura dei Lumi. Da una prospettiva più strettamente linguistica, inoltre, il
richiamo a un simile orizzonte culturale consente di spiegare meglio anche quel
consapevole riavvicinamento all'antico in senso più filosofico che filologico
che, come ha osservato Roggia, rappresenta l'apparente paradosso dell’ Ossian C.ano,
dove l'intrinseca poeticità dei linguaggi antichi viene posta al servizio di
un'esigenza tutta moderna, ossia la programmatica ricerca di alterità
linguistica rispetto alla prosa e alla ordinaria comunicazione referenziale 7. 72. Cfr. Espagne (2013). 73. C. (1802b 111-v).
74. C. (1806, xxx1). Cfr. al riguardo Favaro (2002) e Matarrese (2011). 75.
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vol. 1, Cisalpino, Bologna 283-342. 74 C. nei dibattiti linguistici del suo
tempo di Stefano Gensini* 1. Intorno alla riflessione teorica sul linguaggio e
alle indicazioni operative in tema di questione della lingua, proposte dal C.
nella sua lunga carriera di letterato e docente universitario, è invalso, fin
dai classici saggi di Giulio Marzot (1949), Giovanni Nencioni (1950) e Mario
Puppo (1956; 1966), un giudizio largamente condiviso, che riconosce all’abate
padovano un ruolo storicamente e culturalmente innovativo'. Collocate cronologicamente
(per riprendere la periodizzazione proposta dal Folena*) fra l'età dei filosofi
enciclopedici e quella che conduce alla declinazione filosoficopolitica della
tematica linguistica, riflessioni e idee politico-linguistiche del nostro
autore sembrano assolvere a una funzione di mediazione fra le tradizionali
istituzioni linguistiche e retoriche della cultura italiana e le acquisizioni
della filosofia del linguaggio dell’ Età dei Lumi, diffusesi con una certa
larghezza dal 1750 in poi, grazie all’accresciuta convergenza europea del ceto
intellettuale. Da una parte, dunque, l'accoglimento e la discussione di temi
teorici centrali nei dibattiti francesi, inglesi e tedeschi del tempo
(l'origine delle lingue, il rapporto pensiero-linguaggio, l’intreccio fra le
dinamiche linguistiche e le dinamiche politiche ed economiche della società),
con la conseguente liquidazione delle vecchie ipoteche puristiche a favore di
una matura teoresi della storicità del linguaggio e del suo uso sociale;
dall’altra la ricerca di una soluzione equilibrata alla crisi dell’italiano,
tale da consentire una saldatura fra tradizione e innovazione, indirizzata al
piano della lingua colta e scritta; sono questi i due poli entro cui si sono
mosse, dagli anni * Sapienza Università di Roma. 1. Occorre preliminarmente
dichiarare il debito che gli studiosi del C. contraggono con due classiche
sillogi: il volume ricciardiano curato da Bigi (1960) e le Discussioni
linguistiche del Settecento edite da Puppo (1966), entrambe con ricca
bibliografia. A esse si aggiungono le pagine settecentesche e C.ane di Maurizio
Vitale (1978). 2. Si veda il classico saggio (risalente al 1965) sul
rinnovamento linguistico del Settecento (ora in Folena 1983), da integrare con
le precisazioni offerte in Folena (1986). 3. Rimando per brevità a quanto ho
scritto in proposito in Gensini (2013). 75 STEFANO GENSINI Cinquanta del secolo
scorso, l’analisi e la valutazione critica dell’esperienza C.ana. Grazie
soprattutto al Saggio sopra la lingua italiana del 1785, ripubblicato con poche
aggiunte nel 1800 (come primo volume dell’edizione pisana delle Opere) sotto
l'ambizioso titolo di Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua
italiana, al C. è stato dunque attribuito un ruolo di vero e proprio pioniere
nella storia del pensiero linguistico nazionale, che, sommandosi alla portata
innovativa del suo linguaggio poetico, soprattutto nella traduzione dell’
Ossiaz, e di concezioni estetiche intese a una complessa definizione della
soggettività dell’arte e del tipo di piacere a questa inerente*, fa della sua
operazione linguistica un essenziale tramite rispetto alle problematiche e alla
prassi scrittoria dell’epoca romantica. A distanza di diversi decenni, queste
valutazioni in ordine alla posizione storica della linguistica (e più in
generale della funzione culturale) C.ana sembrano ancora sostanzialmente
reggere. Certo, sia le acquisizioni documentarie (soprattutto quelle
biografiche, con particolare riguardo all’esperienza accademica dell’abate, al
suo concreto lavoro di professore nell’ Università di Padova?) sia la
prospettiva molto più ricca e affinata con cui siamo oggi in grado di guardare
allo sviluppo delle idee linguistiche, nell’Italia del pieno e ultimo
Settecento e altrove‘, consentono di articolare il giudizio, sfumandolo su
diversi punti, con una più chiara stratigrafia delle letture e degli
assorbimenti intellettuali (con alcuni osservati speciali, quali Vico e
Leibniz), con un occhio attento alla diffusione areale dei testi e delle
influenze, con isoglosse che conducono volta a volta da Napoli a Venezia e
Padova, da Padova a Parma, dai ducati a Parigi e alla 4. Va ricordato a questo
proposito soprattutto Bigi (1959), dal quale sono svolte in positivo le
suggestioni lontane di Croce e quelle, più vicine in termini cronologici, di
Walter Binni. s. Si vedano in particolare gli innovativi contributi di Roggia
(2011; 2012; 2014). Per un aggiornato quadro biografico, cfr. Gallo (2008),
mentre il certosino lavoro di Chiancone (2012), dal quale si attende una
revisione complessiva dell'epistolario C.ano, illustra l'imponente sistema di
relazioni (corrispondenti, allievi, amici) al cui centro l'abate padovano seppe
collocarsi. Notevoli contributi critici su vari aspetti pertinenti al nostro
tema si trovano negli Atti del convegno C.ano del 2008 (Daniele, 2011). 6. Il
xvii secolo è stato ampiamente indagato, anche in riferimento all’ Italia,
dagli storici delle idee e delle filosofie linguistiche, cercando di superare
l'orizzonte, importante ma limitato all’ambito letterario, della questione
della lingua. Appartengono a questa fase critica lavori come collettivi come
Formigari (1984) e Formigari, Lo Piparo (1986), i volumi di Marazzini (1984),
Pennisi (1987), Vecchio (1990) e Formigari (1990), i miei contributi, in parte
raccolti in Gensini (1993), quelli di Lo Piparo, raccolti in Lo Piparo (2004) e
altri ancora. Il saggio di Tullio De Mauro (1980) servì da punto di riferimento
metodologico a molte di queste inchieste. 76 C. NEI DIBATTITI LINGUISTICI DEL
SUO TEMPO Francia e così via. Sicché, nell’insieme, può sembrare che quella
posizione un poco solitaria di iniziatore, solitamente riconosciuta al C. linguista,
vada ridimensionata a favore di un quadro più ampio e mosso di idee e
personalità, nel quale il rinnovamento delle teorie linguistiche e delle
proposte culturali si incarna in soggetti diversi, talora in complicate
intersezioni e correnti di idee, e le stesse operazioni di punta svelano raccordi
profondi con la tradizione precedente (nella quale spiccano Gravina e
Muratori). Ma se il bilancio perde qualcosa in termini di nettezza, se il
chiaroscuro subentra a zone di luce che sembravano ormai accertate, il guadagno
critico portato dalla nuova stagione di studi, particolarmente negli ultimi
dieci-quindici anni, sembra notevolissimo. Penso da una parte allo scavo
dell’epistolario, che promette di offrirci uno sguardo nuovo e affascinante sul
sistema di relazioni nazionali e internazionali al cui centro C. si mosse; e
dall’altra a quanto sta emergendo dalla restituzione dell’intero corpus degli
scritti linguistici dell’abate, inclusa la parte, rimasta inedita, del suo
indefesso lavoro di studioso delle lingue antiche, e fra l’altro di
quell’ebraico per lui così ostico. Un corpus che il lungo, paziente lavoro di
Enrico Roggia ora consente di datare con maggior sicurezza in tutte le sue
componenti, di indagare trasversalmente per centri d’interesse e temi, di veder
maturare nelle varie fasi di svolgimento della vita e del pensiero dell’autore.
A questa nuova fase della ricerca sulle idee linguistiche del C. si ispirano le
osservazioni qui raccolte. Dapprima faremo qualche considerazione cronologica e
tematica sull'emergere di problematiche filosoficolinguistiche, in Italia,
dagli anni Sessanta del Settecento in avanti. Affronteremo poi alcuni aspetti
interni della riflessione C.ana, cercando di dipanare almeno qualcuno dei tanti
nodi che la legano ai protagonisti della stagione dell’Illuminismo linguistico.
In particolare, fermeremo l’attenzione sulla sua concezione dello sviluppo
naturale delle lingue che, a nostro avviso, costituisce il perno intorno al
quale ruota la complessa struttura del Saggio, ricavandone qualche valutazione
conclusiva circa la posizione storica del nostro autore. 2. Un primo punto:
guardando attentamente il paesaggio editoriale italiano successivo al 1750 (una
data, che si può credo ragionevolmente assumere come
spartiacque per motivi sia storico-politici sia culturali) ci si rende conto
che la scelta C.ana di promuovere un approccio filosofico alla lingua e al
linguaggio (ben nota è, infatti, la sua propensione a una considerazione
filosofica non solo delle lingue, ma di tutti i contenuti della professione
letteraria) è assai meno isolata di quanto si potesse presumere in tempi ancora
relativamente recenti. Viene spontaneo alla mente, primo fra tutti, il nome di
Vico. Ma il caso della Scienza Nuova (3° ed. 1744) fa in certo modo storia a
sé: è tutto da dimostrare, infatti, che un’opera così complessa fosse vista dai
contemporanei anche o primariamente come l’esposizione di una teoria del
linguaggio ben più appariscenti dovevano apparire le
mitografie delle origini, la serie delle tre Età, l innovativa soluzione data
alla questione omerica; e comunque è solo a un buon tratto di distanza
dall’uscita a stampa del capolavoro che le implicazioni linguistiche del
vichismo si lasciano riconoscere, non allo stato puro peraltro, ma contaminate
(per dir così) dagli stimoli e spesso dal temario di autori ben altrimenti noti
e concettualmente accessibili. Si pensa in secondo luogo a pagine classiche
della questione della lingua come il Saggio sopra la lingua italiana
dell’Algarotti (1750), la Diceria del Baretti (1765) e la stessa, di poco
precedente Rinunzia avanti nodaro di Alessandro Verri (1764), per finire con le
bettinelliane Lettere inglesi (1766): ma se le consideriamo nel loro complesso,
ci accorgiamo che in queste opere il rinnovamento della prospettiva linguistica
è affidato essenzialmente alla critica dei retaggi del conservatorismo
cruscante e a un'istanza di apertura culturale verso la modernità, che si
esprime da una parte nell’accoglimento di parole e forme esprimenti i nuovi
contenuti e le nuove nozioni, dall’altra nella percezione delle ragioni
politiche e istituzionali che tengono l’Italia agganciata al suo passato: la
vera accademia è una capitale, aveva acutamente dichiarato Algarotti dall’alto
di una ormai consumata esperienza internazionale. Se invece da testi del
genere, obiettivamente innovativi rispetto alla stessa tematica muratoriana,
passiamo ad esempio alla Logica per gli giovanetti di Antonio Genovesi (1° ed.
napoletana 1766*), avvertiamo un significativo salto di prospettiva culturale e
di accenti. Emerge qui imperiosa la dimensione della profondità storica del
fenomeno linguistico, in quanto storia di uomini, nazioni, civiltà, promanante
dalla barbarie e tesa verso il futuro motivo vichiano e insieme condillachiano che
Genovesi elabora, 7. Sulla presenza del Vico in C., oltre al sempre prezioso
repertorio di Croce, Nicolini (1947), si rimanda a Battistini (2004 301-60), e
al saggio dello stesso Battistini in questo volume, Le origini del linguaggio
in Vico e C.. 8. Utilizzo la seconda edizione del 1769, stamperia Simoniana,
Napoli. Segnalo che le edizioni venete che ho potuto vedere (in particolare
quella ampiamente circolante di Bassano, per Remondini, Venezia 1784) sono
ridotte, e amputate proprio delle sezioni più interessanti a fini linguistici facendone
la base per un’analisi del funzionamento ordinario, sincronico delle lingue. Di
qui riferimenti importanti alla necessità nel nesso fra parola e pensiero, alla
fisiologica diversità dei processi conoscitivi umani, in relazione a diverse
condizioni climatiche, storiche e culturali, e di conseguenza all’impossibilità
di una traduzione senza residui da una lingua all’altra. Il nesso
clima-ambiente-lingua, ben radicato nella tradizione del xv secolo almeno da
Dubos in poi’, non era sfuggito ad Algarotti, rimanendo però confinato sullo
sfondo di una sorta di relativismo linguistico constatato ma non spiegato per
vie interne; laddove Genovesi, rielaborando la ben nota lezione di Locke
intorno all’abuso delle parole, fa discendere le asimmetrie linguistiche (e
quindi le cautele ch'esse impongono in sede ermeneutica, quando si tratti di
fronteggiare testi lontani da noi nel tempo e nello spazio) da un’analisi
ravvicinata dei processi cognitivi, in cui alla infinita varietà degli aspetti
del reale corrisponde il carattere contingente, e perciò aperto, non pienamente
controllabile, dei percorsi di conoscenza. Non è attraverso de Brosses che
l’abate napoletano giunge ad affermare quanto segue: Tutte le parole son di lor prima origine
figlie o della natura, o del caso, o del bisogno, o della comunicazione de?
popoli, o delle lingue antidiluviane (Genovesi, 1769, 43). Un’impostazione
dunque latamente epicurea del problema delle origini, vicina a quella degli
scritti linguistici di Leibniz e a certe tesi vichiane'5; sicché, risalendo il
corso del tempo, Genovesi identifica la funzione di permanente filtro
dell’esperienza svolta dal linguaggio, accedendo, in certi passi delle Lezioni
di commercio, a una visione schiettamente politica del ruolo che esso svolge
nell’organizzazione delle comunità umane: Chi dice un corpo politico, dice un
corpo di tubi comunicanti. Non v'è società, dove non v’è comunicazione.
Tagliate i canali di comunicazione, e avrete non un corpo associato, ma una
moltitudine di selvaggi sparsi, erranti senza leggi, senza capo, divoranti gli
uni gli altri. È un gran palazzo disciolto in minuti calcinacci (1765-67, II, 259).
9. L'ampio saggio di Mercier (1953) è ancora un’utilissima base per
approfondire questo tema. 10. Per la nozione di epicureismo linguistico
(riferita al modello proposto dal filosofo greco nella celebre Lettera a
Erodoto; cfr. testo e commento nell’aggiornata edizione di Verde: Epicuro 2010)
rimando a Gensini (1999) ed ora ai risultati di Avi Lifschitz (2012), che tocca
molti autori di nostra diretta pertinenza. Il recupero di Epicuro da parte di
Vico era già evidente a Cassirer (1923) e a Pagliaro (1930, 44). Per quanto
riguarda Leibniz, rimando a ciò che ho esposto in Gensini (2016 67-86); ivi
anche un capitolo sulla teoria delle differenze linguistiche in Vico. In
Genovesi l’interna politicità della visione vichiana del linguaggio trova non
solo riscontro, ma articolato sviluppo in termini sia gnoseologici sia
pedagogico-civili. Del resto, tutta la sua operazione culturale ruota intorno
al vero fine delle lettere e delle scienze (come s'intitola il famoso scritto
del 1753) incarnato da un ceto intellettuale che si sente organico a un
importante processo di ammodernamento economico e sociale, e che a tale
obiettivo piega l'organismo linguistico, sottratto pertanto a una visione meramente
grammaticale o retorica. Una diversa, ma equivalente istanza di conversione
filosofica dei temi tradizionali emerge nella riflessione sullo stile di Cesare
Beccaria, dapprima nel Frammento sullo stile (1764) pubblicato sulle colonne
del Caffè, poi nelle ampie e sistematiche Ricerche del 1770, di cui la seconda
e incompleta parte sarà pubblicata postuma solo nel 1809. È lo stesso autore a
spiegarci che il suo profilo di analista giuridico ed economico (non si
dimentichi che nel 1764 aveva pubblicato Dei delitti e delle pene, e che dal
1768 insegnava Scienze camerali nelle Scuole palatine di Milano) non è contraddetto
dagli interessi retorici, perché anche questi hanno a che fare con la scienza
dell’uomo, in quella parte che egli, interpretando un moderno europeismo,
chiama appunto psicologia. Su tale premessa, e con la scorta di alcune letture
chiave come l’ Essai di Condillac, il frammento sul gusto di Montesquieu (che
tanto fascino eserciterà anche sul Leopardi), la voce Élocution di D'Alembert
nella grande Encyclopédie, Beccaria si inoltra in una rilettura della materia
della retorica a partire dai contenuti semantici delle parole, quanto è a dire
dal gioco delle idee principali e delle idee accessorie che s'intrecciano negli
usi linguistici. Il punto di partenza, in chiave diacronica, è la rispondenza
dei mezzi linguistici alla dinamica sensibile, organizzata intorno alla coppia
piacere/dolore, e modulata dalla spinta del bisogno, che guida le combinazioni
sempre più complesse fra parole e idee a misura che cresce la complessità
dell’organismo sociale. Come già in Genovesi, svariati, potenzialmente
infiniti, sono i punti di vista da cui una stessa esperienza può essere
riguardata, e di conseguenza molteplici sono i percorsi che l’associazione
delle idee può prendere nell’uso (Beccaria, 1958, I, 214). Lo stile va dunque
indagato in relazione al modo in cui le idee accessorie arricchiscono,
integrano, diversificano l’idea principale, stabilendo un contatto mutevole fra
la mente del parlante/scrivente e quella dell’ascoltatore/lettore. Si innesta
qui, entro un’argomentazione non sem11. Cfr. in proposito diversi saggi inclusi
in Formigari (1984) e il sistematico lavoro di Pennisi. pre facile da seguire,
ma personale e profonda, una serie di osservazioni assai acute su aspetti della
comunicazione, letteraria e non, certamente di grande interesse per chi, come
Beccaria e i suoi amici, partecipava da protagonista al rinnovamento della
cultura lombarda e nazionale del tempo. Tra queste, il nesso
linguaggio-passioni, il difficile equilibrio fra parlante e ascoltatore che
deve attuarsi nella comunicazione dell’ entusiasmo, il fascino dei contrasti
che spingono l’immaginazione verso il massimo di sensazioni compossibili fra
loro (ivi, 237), la dinamica dell’effetto comico (ivi, 242), l’idea che il
numero delle idee espresse linguisticamente vada bilanciato con le capacità di
assorbimento della mente di chi ascolta, il funzionamento della metafora,
agganciata al percorso della civilizzazione umana, che col tempo perde il suo
effetto originario e si convenzionalizza, salvo rinnovarsi in altra forma senza
mai risolversi in puro orpello retorico. La concezione del Beccaria si assomma,
a me pare, in un principio di indeterminazione del significato delle parole (lo
stile comincia infatti là dove si esaurisce la necessità del senso principale e
comincia il flusso dei sensi accessori, perché la natura ci inonda di fasci di
sensazioni alla volta, presentandoci masse e non elementi) la cui portata
teorica non è stata, forse, ancora del tutto riconosciuta. È attraverso questo
principio ch'egli motiva la dinamica oscillatoria del significato, un tema
corrispondente nella sostanza a quello C.ano dei termini-cifra e dei terminifigura,
e che ritrova, per via non so se diretta o indiretta, l’idea leibniziana (e
anti-lockiana), che nel gioco fra dimensione appellativa (cioè generica) e
dimensione propria (cioè individuale, referenziale) dei nomi, il primato
cronologico spetti alla prima. Gli esempi finora fatti, di due intellettuali
istituzionalmente dediti a discipline economico-politiche che elaborano
importanti idee filosoficolinguistiche e filosofico-retoriche, illustra un
tratto caratteristico della riflessione italiana sul linguaggio nella seconda
metà del xv secolo: il 12. Così già nel Frammento sullo stile (Beccaria, 1958,
I, 171) e poi più ampiamente nelle Ricerche (ivi 253-5). 13. Cfr. 215. 14. Si
veda, nell’ incompiuto capitolo xv1 dell'opera, il serrato confronto fra le
parolenumero, correlate a idee precise, costanti e determinate e le parole
comuni, di senso variabile secondo le disposizioni ele circostanze diverse di
chi combinava il segno, e della cosa a cui era apposto (1958, I, 327). 15.
L'idea è chiaramente esposta nel 1 capitolo del 111 libro dei Nouveaux Essais
sur l'entendement humain, usciti a cura del Raspe nel 1765. È teoricamente
possibile che Beccaria abbia avuto accesso a quest'opera fondamentale. Sul
Beccaria filosofo del linguaggio cfr. i riferimenti contenuti in Formigari
(1990, ad ind.) e Gensini (1993 181-91 e ad ind.). suo nascere in qualche modo
ai margini della professione letteraria, incrociando competenze e temi che
esulano dal suo orizzonte tradizionale. Questo singolare gioco di sponda si
ripete a proposito di altri autori, come ad esempio Galiani, il cui trattatello
Del dialetto napoletano integra un profilo che si era precocemente imposto
anche fuori d’Italia per lavori come il saggio Della moneta (1751) apparentemente remoti da interessi di tipo
linguistico; e, soprattutto, come Gianmaria Ortes (si ricordi il suo trattato
Dell'economia nazionale, 1774) che dall’osservatorio veneziano e da posizioni
ideologicamente distanti dallo spirito riformatore di un Genovesi o un
Beccaria, pubblica nel 1775 quelle Riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui
costumi e sulle cognizioni umane, per rapporto alle lingue che in altra sede mi
sono arrischiato a definire come il contributo filosofico-linguistico più
originale che l’Italia abbia dato in questo periodo storico. Non possiamo qui
soffermarci sul complesso caso ortesiano, ma sia consentito osservare come lo
scrittore veda nel linguaggio, e nelle lingue parlate nelle diverse nazioni, un
accesso privilegiato al mondo della conoscenza, alle diverse prospettive
culturali e morali da cui ciascun popolo guarda, rifrangendolo in forme
profondamente diverse, al sistema delle verità di ragione immanenti
all’esperienza umana. È un tema radicalmente storicistico (per riprendere
l’etichetta che Puppo applicava al C. già nel suo saggio del 1957) che però
Ortes, diversamente da Beccaria e Genovesi, non ricava tanto da una prospettiva
genetica, risalente con Vico e Condillac allo stato primitivo e immaginoso del
genere umano, al suo progressivo diversificarsi nel tempo, quanto da un
approccio sincronico, vorrei dire fenomenologico, alle modalità di
apprendimento e interpretazione del reale proprie dei diversi popoli. Ortes,
come suo costume, non cita mai le sue fonti ed è dunque solo in trasparenza che
si riconoscono, fra i suoi strumenti di lavoro, da una parte la dottrina
dell’arbitrarietà del segno di John Locke e dall’altra una sensibilità tutta
leibniziana al pluralismo dei punti di vista che si riflettono negli usi
linguistici. (E l'influsso di Leibniz si spiega senza difficoltà in un
ambiente, come quello veneziano, dove la mediazione di Conti aveva da tempo
favorito la circolazione del pensiero del filosofo tedesco.) Strumenti, dunque,
ben diversi da quelli naturalistici, genericamente epicurei e
vichiano-condillachiani utilizzati dall'abate napoletano e dal
professore milanese, ma convergenti sia nel rigetto di una concezione
razionalista e universalista del linguaggio, sia nell'accoglimento della
differenza come carattere fondante 16. Cfr. Gensini (2015). A Ortes ha dedicato
attenzione per prima Lia Formigari (1990, ad ind., dell'esperienza linguistica.
Di qui, fra l'altro, un’attenzione alla problematicità della traduzione, ovvero
all’impossibilità di stabilire un sistema di equivalenze lessicali da lingua a
lingua, che è argomento ricorrente anche in Beccaria, come lo sarà ed è
ben noto nell'esperienza e nella teorizzazione di
Melchiorre C.. Accanto a queste voci di pensatori già, al loro tempo, noti ben
oltre i confini delle rispettive patrie, una rassegna degli autori impegnati
sul terreno filosofico-linguistico deve annoverare ancora, in area napoletana,
Diego Colao Agata, cui si deve, nel 1774, un Piano ovvero ricerche filosofiche
sulle lingue e, di lì a qualche anno, Francesco Antonio Astore, che nel 1783
diede fuori un'imponente Filosofia dell eloquenza in due volumi, un'opera
veramente cospicua, affollata di rimandi e citazioni da testi coevi francesi e
inglesi (oltre ai classici e agli italiani), che da sola illustra una capacità
non comune di interlocuzione sovranazionale. In entrambi i libri si avverte la
presenza di Vico e la mediazione di Genovesi (di cui l'Astore fu allievo
diretto), complementari nel consentire una declinazione genetico-storica del
problema linguistico. Sia l'uno sia l'altro autore affrontano preliminarmente
il problema dell'origine del linguaggio, che si sa quanto fosse attuale nel
dibattito europeo, dacché Rousseau, nel suo Discours sur l'origine et les
fondements de l'inégalité parmi les hommes (1754), si era soffermato sullo
stacco esistente fra lo stato di natura dell’uomo e l’avvento di una lingua
pienamente formata, e Beauzée (1765), nella voce Langue della Encyclopédie
(vol. 1x), aveva risolutamente sciolto l'enigma, riproponendo la tesi dell'origine
divina della parola, del resto condivisa da numerosi altri autori, quali
Süssmilch e qualche anno dopo Court de Gébelin. È
interessante osservare come Colao Agata e Astore si attengano invece alla tesi
dell’origine per cause naturali, facente capo per un verso alla già ricordata
tradizione epicureo-lucreziana (che annovera al suo interno anche Diodoro
Siculo e Vitruvio, secondo i quali le lingue quali oggi le conosciamo hanno
attraversato uno stato primitivo corrispondente alla fase barbarica
dell’umanità), per un altro a rami minoritari della tradizione cristiana quali
Gregorio Nisseno o, di recente, il grande biblista francese Richard Simon.
Interessante in par17. Si vedano in proposito Ortes (1775 CI-CII) ele
osservazioni proposte in Gensini (2015 180 ss.). Un motivo analogo nel già
citato cap. xv1 delle Ricerche (cfr. Beccaria, 1958, I, 329). 18. Per notizie
su questa figura appartata di studioso e considerazioni storico-critiche
intorno al suo libro cfr. la nota introduttiva e gli apparati proposti da
Arturo Martone nella sua riedizione del Piano (Colao Agata, 1997). 19. Notizie
e bibliografia sull'Astore in Martone ticolare l’argomentazione del cattolico
Astore che, riprendendo lo schema vichiano della doppia origine, dapprima
dichiara di voler combattere le false teorie dei libertini in materia
linguistica, poi di fatto ne accoglie tutta intera la bibliografia e le
soluzioni. Una vocazione naturalista, dunque, sottende a un po’ tutta questa incipiente
filosofia del linguaggio made in Italy, cui non si sottrae neppure la singolare
figura di Ildefonso Valdastri?°, modenese, che ancor giovane e ambizioso
letterato ducale, a soli ventitré anni antepone un Discorso filosofico sulla
metafisica delle lingue al suo Corso teoretico di logica e lingua italiana
(1783), un libro ragguardevole anche per sede e impegno editoriale, che sarebbe
credo riduttivo iscrivere sotto l’etichetta di un
razionalismo di maniera. Dopo il consueto appello alle Scritture e ad Adamo
divino onomatete, ecco Valdastri dichiarare la sua preferenza per una
spiegazione laica dell’origine del linguaggio, in cui sulla falsariga delle
consuete fonti classiche, mediate col langage d'action condillachiano, si fa
spazio a uno sfondodella storia umana, che si ripete nell’apprendimento
linguistico del bambino, dominato dalle passioni e dal bisogno di comunicare,
dove l’iniziale inopia linguae cede via via all'interiezione accompagnata dal
movimento, all'onomatopea che contraddice (spiega l'autore) l'arbitrarismo
linguistico di Locke, infine al processo combinatorio dell'analogia che
lentamente amplifica le risorse espressive. Su questa base Valdastri innesta
una quantità di considerazioni sull'indole delle diverse lingue, fra le quali
spiccano quelle inerenti la molteplice musica che le caratterizza, cioé la
qualità individuale del profilo fonico e della prosodia, e che nel loro insieme
insistono su un tipico refrain del pensiero italiano, quel principio di
relatività che si muove in senso inverso alle coeve istanze di universalità del
razionalismo francese. Istanze ben più appariscenti nel dibattito
internazionale, che trovano, un anno dopo l'uscita del Corso, pieno
dispiegamento nel Discours sur l'universalité de la langue frangaise (1784) di
André de Rivarol, tanto apprezzato, come si sa, da Federico 11 di Prussia. Ogni
nazione scrive dunque Valdastri offre
egualmente all'Osservatore Filosofo, e al volgare un carattere tutto proprio
nell'ordinaria forma, e condotta delle sue maniere, e costumi, che dipende
nella sua origine dal clima, e dalla forma di Governo, di Religione, di
Pregiudicj, e da altre cagioni, e che riceve talora un'improntz costante dal
fuoco delle guerre, dall'influenza delle civili rivoluzioni, e dall’entusiasmo
di libertà, di politico interesse, e d'onore. Deve dunque imprimere 20. L'unico
studio che io conosco in proposito è quello, risalente al 1999, di Battistini
(poi in Battistini. naturalmente nella lingua che parla, l’idea del carattere,
che la distingue, perché la parola è l'immagine de’ pensieri, o stati
dell'anima, come questi lo sono dell'anima stessa, e degli oggetti naturali.
Siccome tutti gli uomini non concepiscono le cose in un medesimo modo, ne
prendono per esse un interesse medesimo, così non ponno nemmeno parlare in
un'identica guisa, e spiegare una stessa maniera d'esserne occupati, ed affetti
(1783 36-7). Le istanze universalistiche di cui si diceva hanno invece un posto
nel lavoro critico del celebre padre Francesco Soave, figura fondamentale delle
politiche educative, fra Milano, Lugano e Parma, e figura che conviene non
trascurare in questa sede per le sue non poche opere di interesse filosoficolinguistico.
Al tema della possibilità e utilità di una lingua artificiale, aspirante a
facilitare la comunicazione dei popoli, Soave dedicó nel 1774 quelle
Riflessioni intorno all'istituzione d'una lingua universale che avrebbero suscitato,
in seguito, le critiche fattuali e di principio del Leopardi. Ma il suo
scritto-chiave sono le Ricerche intorno all'istituzione naturale di una società
e di una lingua, e all'influenza dell'una e dell'altra su le umane cognizioni,
presentate in latino al celebre concorso dell’Accademia berlinese del 1769, in
cui risultò vincitrice l’ Abhandlung über den Ursprung der Sprache di Herder, e
poi pubblicate in italiano nel 1770 come premessa a una Grammatica ragionata
della lingua italiana che è stata oggetto di considerazione critica in tempi
recenti. Nelle Ricerche Soave riprende con cura un po’ tutti gli argomenti
connessi alla spiegazione sensistica dell’origine del linguaggio, utilizzando a
man salva Condillac e il Traité debrossiano, uscito nel 1765, e cercando una
mediazione rispetto alla già ricordata riserva del Rousseau, ch'egli aggira
sfumando e graduando per quanto possibile l' intervallo tra la fase primitiva e
quella del linguaggio sviluppato. (Vi sono anche cenni alle capacità
conoscitive degli animali, ripresi dall’ Histoire naturelle del Buffon, che non
mi pare emergano in altre voci italiane del tempo). Nella figura del Soave si
riassumono, in certo modo, tutte le istanze filosofico-linguistiche di questa
fase storica, presentate senza slanci originali, ma con una ricchezza
d’informazione e una chiarezza espositiva che certo molto giovò alla diffusione
in Italia delle teorie gnoseologiche e linguistiche dell’empirismo e del
sensismo, che il padre somasco si premurò di emendare dalle parti più
pericolose dal punto di vista dottrinario. Importante fra l’altro la sua
traduzione dell’ Essay come Saggio filosofico su l'umano intelletto (1775) di
Locke, ch'egli conduce sull’ Abridgment di John Wynne (1696) e correda 21. Su
questi aspetti del pensiero di Soave, si vedano Neis (2002) e Fornara (2004),
che ha anche curato una riedizione del testo (Soave di ampie note esplicative e
informative, circa autori e testi che, anche per la scarsa conoscenza della
lingua inglese, avevano scarsa circolazione. 3. Se, lasciandoci alle spalle il
quadro di autori e opere richiamato nel PAR. 2, torniamo adesso agli interventi
del C. in materia linguistica, l’immagine da cui muoviamo non è più quella del
pioniere che si avventura in campi finora ignoti alla cultura italiana, ma
piuttosto quella di un pensatore che, mentre partecipa a un movimento di
letture e di elaborazione concettuale in pieno svolgimento, in esso isola
alcuni temi privilegiati e li connette a un discorso complessivo sul linguaggio
e le lingue, il cui terminale è risolutamente individuato nello stato e nelle
prospettive della lingua letteraria nazionale. Proviamo ad indagare alcuni
aspetti del suo lavoro di linguista che, malgrado il grande avanzamento degli
studi in anni recenti, ci sembrano ancora suscettibili di approfondimento.
Dagli inediti che Roggia ci sta facendo conoscere (C., in corso di stampa),
sappiamo come gli interessi storico e teorico-linguistici del C. siano maturati
nell’ambito dell’incarico ufficiale di professore di Lingue antiche assunto
all’ Università di Padova a partire dall'estate del 1767. Per adempiere ai suoi
compiti di docente di Lingua ebraica, tra l’altro, C. fu costretto a inventarsi
una competenza di ebraista che non aveva e dovette barcamenarsi fra i problemi
classici del dibattito del tempo,quale ad esempio quello relativo alla supposta
derivazione da tale lingua di tutti gli idiomi del mondo conosciuto. Non
mancavano davvero autori e opere autorevoli e di larga circolazione in cuila
tesi tradizionale, che Johann David Michaelis nel 1762 dichiarava ormai
superata, veniva invece ribadita con grande forza. Il celebre Glossarium
universale hebraicum di Louis Thomassin (1697) e il Thrésor di Augustin Calmet,
uscito anche in italiano, congiuntamente a Venezia e Verona, nel 1741, sono
esempi tipici di questo orientamento. Che C. si muovesse con grande cautela su
questo tema si capisce, data la sua formazione in seminario e data la
delicatezza dei suoi doveri istituzionali di docente; ma di certo in direzione
ben diversa andava il suo più importante intervento teorico del periodo, quelle
lezioni De zaturali linguarum explicatione (attribuibili ai primi anni
Settanta) che hanno giustamente attirato l'attenzione degli studiosi recenti.
Ricordiamo che le tesi sostenute in queste lezioni furono ritenute ancora
valide da C. all'altezza della sua opera matura, il Saggio sopra la lingua
italiana del 1785, dal momento che vi fece confluire, esattamente nel secondo
capitolo del 11 libro, una lunga citazione tratta dalla prima di esse, assai
impegnativa sotto il profilo teorico. Ancora nell'edizione 1800 del Saggio,
ormai reintitolato alla filosofia delle lingue, C. non si stancherà di proporre
in nota integrazioni dedicate alla teoria della naturalità delle lingue ivi
sostenuta. È noto come lo stesso abate indicasse nell’ Essai sur / ‘origine des
connoissances humaines di Condillac (1746) e soprattutto nel Traité de la
formation méchanique des langues (1765) del presidente de Brosses le fonti
privilegiate di questo aspetto del suo pensiero; del resto, una lettura a
confronto delle Acroases e dei testi debrossiani consente di individuare a
colpo d’occhio numerose tangenze o in qualche e caso vere e proprie riprese
puntuali. In linea di massima, C. ammette una fase originaria caratterizzata
dall’assenza di capacità verbali, in cui la comunicazione avviene tramite un
condillachiano (e in certo modo anche vichiano) linguaggio d’azione, seguita da
una lenta genesi delle capacità fonico-acustiche: dapprima limitate
all’espressione dei bisogni immediati (fase interiettiva), e successivamente
arricchite dalla fase imitativa dell'onomatopea, destinata a espandersi in
relazione al crescere dei bisogni e delle conoscenze grazie al meccanismo
dell’analogia, quest’ultima operante inizialmente fra corpo fonico e elementi
della realtà, poi all’interno delle combinazioni fra le parole e delle
corrispettive liaisons des idées. Al netto di qualche adattamento personale,
siamo in un’orbita ben nota, vicina fra gli altri al saggio di Francesco Soave
citato poc'anzi. C. arricchisce il quadro con un interessante riferimento alle
affinità fra uomo e animali, che sembrano lasciar intravedere una possibile
risalita di quest’ultime verso il piano del linguaggio (ne aveva parlato in
maniera suggestiva La Mettrie, in un celebre passo dell’ Homme machine); ma
subito dopo piega verso l’idea di una congenita linguisticità degli esseri
umani, attenuata tuttavia dal carattere tutto e proprio naturale, cioè
immanente, materiale, della scoperta della parola. Vengono messe a confronto
due schiere di pensatori: quelli che riducono il linguaggio al mondo del caso e
dell’arbitrio (e vi riconosciamo senza difficoltà la lunga trafila dei
convenzionalisti di scuola più o meno ortodossamente aristotelica e
scolastica); e quelli che fanno dipendere dalla natura la lingua originaria
(fra questi Platone, gli Stoici, Publio Nigidio), fra i quali spicca il nome di
Leibniz. Ora, Leibniz era una fonte riconosciuta di de Brosses, ma c'è motivo
di ritenere che C. potesse aver attinto direttamente ai testi del filosofo
tedesco in relazione al tema che ci interessa. Il punto è importante perché è
esattamente grazie a Leibniz che la concezione che per brevità possiamo
chiamare naturalista si sdoppia, si separa dal naturali22. Per un’analisi
dettagliata del De naturali linguarum explicatione si rimanda a Roggia (2012).
Per un quadro dei rapporti con le idee debrossiane cfr. Nobile smo essenzialista di Platone (residuato ad
esempio nella concezione tedesca della Grundrichtigkeit der Sprache, di
Schottelius e altri) e assume i tratti di fisicità e insieme storicità riflessi
nelle nostre Acroases. Il Traité méchanique esce nel 1765, pressoché
contemporaneamente ai postumi Nouveaux essais sur l'entendement humain, stesi
da Leibniz negli anni 1703-05 ma poi non pubblicati essendo nel frattempo
venuto meno Locke, il suo grande interlocutore. Se una loro conoscenza va (a
quella data) probabilmente esclusa per de Brosses, la cronologia non la esclude
invece affatto per C., vista anche la notorietà e la diffusione di testi e temi
leibniziani nella cultura veneta del pieno Settecento. Ma una fonte testuale
ancor più probabile è a mio avviso la Brevis designatio meditationum de originibus
gentium, ductis potissimum ex indicio linguarum, del 1710, pubblicata nel 1
volume dei Miscellanea Berolinensia (quanto è a dire nella prima serie di
quelle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Berlino che tanta circolazione
godevano al tempo), e ripubblicata nel rv volume dell’edizione Dutens delle
opere (1768), anch'essa largamente diffusa. A parte una gamma notevolissima di
riferimenti al ruolo dell’etimologia e ai riflessi linguistici delle migrazioni
dei popoli, la Designatio comprende una delle più limpide formulazioni della
teoria naturalista elaborata da Leibniz sulla base di Epicuro e del suo grande
interprete seicentesco, Pierre Gassendi: Neque vero ex instituto profectae, et
quasi lege conditae sunt linguae, sed naturali quodam impetu natae hominum,
sonos ad affectus motusque animi attemperantium. Artificiales linguas excipio
[Leibniz fa riferimento alle svariate lingue universali, completamente
convenzionali, divisate da Wilkins, Dalgarno e altri]. At in linguis paulatim
natis orta sunt vocabula per occasiones ex analogia vocis cum affectu, qui rei
sensum comitabatur: nec aliter Adamum nomina imposuisse crediderim (Leibniz,
1768, VI, 2, 2). La nozione di naturale non ha dunque a che fare con un
presunto rispecchiamento di una qualsiasi essenza delle cose (non è mimesis tés
ousias, per dirla col noto passo del Crazi/o), ma con un filtraggio,
psicologico e fonicoacustico, dell’esperienza conoscitiva umana, còlta nella
sua fase aurorale. La combinazione fra elementi psico-affettivi (affectus),
innescati spontaneamente (quodam impetu) dall’attrito con certe circostanze
(per occasiones), e certe voci, vincolate analogicamente, cioè iconicamente, a
quegli affectus, sono per Leibniz, e per i pensatori che a lui si riferiscono,
il nocciolo originario delle lingue storiche: quelle nate paulatim,
gradatamente, dal bisogno, che pertanto si contrappongono ai linguaggi
arbitrari, governati dalla scelta consapevole e volontaria, e dunque istituiti,
il cui prototipo sono le lingue universali, da Becher a Wilkins, da Kalmar al
nostro Soave. Non a caso Leibniz usa a loro proposito il sintagma ex instituto,
ben noto traducente del kata synthéken del De interpretatione di Aristotele,
inteso scolasticamente nel senso di ‘per convenzione. L'umanità primeva cui
Leibniz si riferisce non è dunque una umanità rischiarata dalla ragione, e
neppure è un’umanità adamica, portatrice o interprete della sapienza divina, ma
un aggregato semiferino di individui soggetti a forti passioni, che viene poche
righe sotto descritto in termini di rudis barbaries. Ora, questo implesso di
elementi si ritrova perfettamente non solo nel C. delle Acroases padovane (ove
fra l’altro si prende apertamente distanza, e sia pure con la consueta cautela
della doppia origine del linguaggio, dalla narrazione biblica), ma ancora nel
Saggio della maturità, dove la lingua incoata delle età remote (dunque non una lingua
originaria in assoluto, ma già avviata, derivata da una fase che sfugge alla
nostra umana possibilità di risalimento) è presentata nel modo che segue:
Pressato l’uomo dal bisogno immediato di fissar con un qualche nome gli oggetti
che lo interessano, e di farli conoscere agli altri con ugual prontezza, e
colla minima ambiguità, non potea nella sua rozzezza ajutarsi con altri mezzi
che con quei due di cui la natura gli avea fatto uso spontaneo: la tendenza
all’imitazione e le primitive disposizioni dell’organo vocale (C., 1800 34-5).
Quel che non si ritrova nella fonte leibniziana, ed è certamente dovuto allo
sviluppo che lo studio dei processi della fonazione aveva subito, dal Discours
physique de la parole del Cordemoy (1668) fino a de Brosses, passando per la
ricerca squisitamente tecnica di Dodart, Ferrein e altri, è la descrizione
delle modifiche e degli adattamenti che hanno luogo nel tratto sopralaringeo
nel corso dell’articolazione linguistica, producendo la serie delle vocali e
delle consonanti, diverse da lingua a lingua. Torna però, debitamente 23.
Segnalo che questi elementi tornano e trovano la loro espressione più limpida e
completa nella Epistolica de historia etymologica dissertatio (1711-12),
purtroppo rimasta incompiuta e divenuta nota agli studiosi solo negli anni
Trenta del Novecento (se ne veda un'edizione semidiplomatica in Gensini, 1991).
24. Le si veda in C. (1810). 25.La medesima impostazione del problema nel
Ragionamento preliminare al Corso di letteratura greca (1781). Nella versione
finale, preparata per l’edizione delle opere complete (vol. xx), l'attacco del
testo suona così: La vita delle lingue non è immortale né inalterabile niente
più che quella dell’uomo che ne fa uso. Rozze dapprima e selvagge, poetiche per
necessità, ridondanti per indigenza, crescono colla nazione (C., 1806, I). 26.
Per i riflessi italiani di questo dibattito si veda Dovetto fisicizzato e
reinterpretato nello scenario psico-affettivo che conosciamo, il principio, che
Leibniz a sua volta deduceva dal Crazilo e dagli Stoici, di una ‘forza’ (vis)
intrinseca di certi suoni o combinazioni di suoni. E il caso del nesso sf,
lungamente ragionato da de Brosses, in cui sembra implicita un'idea originaria
di stabilità materiale, che tuttavia si complica e spesso sfuma lungo la marcia
irregolar dello spirito nell'associazione e derivazion dell'idee (nota apposta
all'ed. 1800; cfr. C., 1800, 41). Il riferimento di Leibniz alle crebrae
translationes dei valori originari, che rende spesso irriconoscibile la
derivazione lessicale, e inevitabilmente fa dello studio etimologico una
disciplina non esatta, ma solo conjecturalis, echeggia nell'accenno del C. all’
immenso deviamento delle lingue dalla prima origine, e l' infinito mescolamento
e intralciamento delle medesime (ivi, 40, nota). 4. La teoria dello sviluppo
naturale delle lingue rappresenta credo che questo punto debba essere ribadito una
sorta di scelta di campo a favore di una visione radicalmente storica del
linguaggio e delle lingue. Di fronte a questo passaggio si erano fermati, come
abbiamo accennato piü su, un Beauzée e un Rousseau, e anche si era fermato,
anni dopo, Court de Gébelin nella sua Histoire naturelle de la parole (1776):
ammettere, come aveva fatto Leibniz, uno sviluppo graduale delle lingue
implicava una soluzione all'antinomia posta da Rousseau fra stato originario e
stato maturo delle stesse; al modo stesso in cui se è
consentita una proiezione sull'oggi l'odierna concezione dell'origine gestuale
del linguaggio, promossa da Michael Corballis negli anni Novanta e in seguito
confortata dalla teoria dei neuroni-specchio, prova a dare una risposta al saltazionismo
di Chomsky, Tattersall e dei loro seguaci. Sarebbe dunque errato, anche da un
punto di vista generale, liquidare come meramente archeologica la digressione C.ana,
il cui senso filosofico, abbiam visto, era stato condiviso, anzi talora
anticipato, da altre voci della cultura italiana di medio Settecento. Bisogna
tuttavia ammettere, per evitare di forzare in modo improprio la posizione del C.,
che la teoria dello sviluppo naturale delle lingue subisce, nel quadro del
Saggio del 1785, una vera e propria torsione. E opportuno seguire con
attenzione il dipanarsi di due distinti momenti. 4.1. Il Saggio ha, com'è noto,
una struttura a imbuto, nel senso che parte da una problematica generalissima,
i cui temi pienamente giustificano la scelta della dizione filosofia delle
lingue per l’edizione definitiva del testo, per via via restringersi di oggetto
fino alla focalizzazione esclusiva (applicazione è il termine che C. usa) al
caso della lingua italiana nelle sue attuali contingenze storiche. Ora, quando
ci si riferisce alla coraggiosa concezione dell'uso esposta nella prima parte
del Saggio, con la sua lucidissima e fervida rivendicazione dei diritti degli
utenti di essa parlanti e scriventi storicamente determinati , con il suo rovesciamento del tradizionale
principio di autorità, viene spesso evocata, come fonte delle posizioni cesarottiane,
la dissertazione De l'influence des opinions sur le langage, et du langage sur
les opinions di Michaelis, che aveva vinto (nella sua versione originale in
tedesco) il concorso bandito nel 1759 dall’ Accademia delle scienze di Berlino
ed era stata poi tradotta in francese e divulgata in un’edizione bremense del
1762. Indubbiamente nella dissertazione di Michaelis si incontrano
affermazioni, come la seguente, che per il loro contenuto antiautoritario non
possono non aver affascinato e influenzato il giacobinismo linguistico di fine
secolo: Le langage est un Etat Démocratique: le Citoyen savant n'est point
autorisé à abolir un usage recu avant qui’ il ait convaincu toute la nation que
cet usage est un abus (1762, 148). Ma, a parte il fatto che il Saggio si situa
cronologicamente prima che la parola democrazia acquisti, anche in Italia, il
senso eversivo che assunse in Francia e altrove dopo il 1789, e di cui lo
stesso C. ebbe modo di fruire nei suoi scritti patriottici, il nome di
Michaelis è ricordato, del resto opportunamente, solo a proposito delle
differenze semantiche delle lingue; e la sua influenza si riconosce evidente,
fra 11 e m parte del Saggio, soprattutto nelle zone in cui l'autore si diffonde
a spiegare in che modo la lingua debba far luogo alle innovazioni intellettuali
e come queste, inversamente, giovino all’arricchimento del capitale
linguistico: che sono temi tipicamente michaelisiani, formanti l'oggetto
medesimo della premiata dissertazione. D'altra parte, il capitolo iniziale del
Saggio fa soprattutto leva su una nozione di uso, che, nei suoi aspetti
generali, chiama alla tradizione francese, avviata da Vaugelas e perfezionata
da Beauzée nella voce Langue dell Encyclopédie, nella quale trova una vera e
propria codificazione, destinata a reggere per molti decenni ancora,
riflettendosi, a tacer d’altri, negli scritti linguistici di Alessandro
Manzoni: Tout est usage dans les langues; le materiel et la signification des
mots, l'analogie et l’anomalie des terminaisons, la servitude ou la liberté des
constructions, le purisme ou le barbarisme des ensembles. C’est une vérité sentie
par tous ceux qui ont parlé de l’usage; mais une vérité mal présentée, quand on
a dit que l’usage étoit le tyran des langues. L'usage n'est donc pas le tyran
des langues, il en est le législateur naturel, nécessaire, et exclusif; ses
décisions en font l'essence: et je dirois d’après cela, qu'une langue est la
totalité des usages propres à une nation pour exprimer les pensées par la voix
(Beauzée, 1765, 249). Tuttavia,
se si rileggono in sequenza i celebri *principi in negativo che scandiscono la
prima parte del Saggio, si osserva che ciascuno di essi viene giustificato non
in base a un astratto, per cosi dire atemporale dogma dell'uso, ma in base alla
teoria naturalista-gradualista che ben conosciamo. Essa smonta qualsiasi
ipotesi che vincoli il funzionamento delle lingue a un periodo, a un'autorità o
a un tipo di uso o, peggio, di qualità intrinseca, assunti come privilegiati o
inalterabili: 1t Niunalingua
originariamente non è né elegante né barbara, niuna non è pienamente e
assolutamente superiore ad un'altra: poiché tutte nascono allo stesso modo,
cominciano rozze e meschine, procedono con gli stessi metodi nella formazione e
propagazione dei vocaboli, tutte hanno imperfezioni e pregi dello stesso
genere, tutte servono ugualmente agli usi comuni della nazion che le parla; 2.
Niunalinguaé pura. Non solo non n'esiste attualmente alcuna di tale, ma non ne
fu mai, anzi non puó esserlo; poiché una lingua nella sua primitiva origine non
si forma che dall'accozzamento di varj idiomi, siccome un popolo non si forma
che dalla riunione di varie e disperse tribù; 3. Niuna lingua fu mai formata
sopra un piano precedente, ma tutte nacquero o daun istinto non regolato, o da
un accozzamento fortuito (C., 1800 10-2). Né manca la ripresa del motivo del clima
(settecentescamente inteso come 'ambiente geografico, con le sue
caratteristiche che impattano sulla costituzione fisica dei popoli), chiamato come in
tanta letteratura critica del tempo, fino a Montesquieu a
spiegare le differenze diatopiche degli idiomi: 8. Niuna lingua é parlata
uniformemente dalla nazione. Non solo qualunque differenza di clima suddivide
la lingua in varj dialetti, ma nella stessa città regna talora una sensibile
diversità di pronunzia e di modi (ivi, 17). La notorietà di questi passi ci
esime da più lunghe citazioni. Vi é dunque un rapporto di dipendenza
logico-storica fra l'origine naturale delle lingue, il loro processo lento e
complesso di sviluppo ed elaborazione culturale, e la possibilità stessa di
contribuire a un loro arricchimento. È in questa chiave di ricerca che il
moderato C. trova i suoi accenti piü chiari e sinceri circa la libertà che
caratterizza l'uso linguistico, e il libero consenso che, in barba a ogni
autorità esterna, sempre lo governa. Un passo della seconda parte del Saggio
(che passa in rassegna partitamente prima i tratti del parlato, poi quelli
dello scritto) riassume la tesi di fondo dell’autore: che le lingue non si
formarono sopra un piano concertato e ricevuto generalmente, ma
sull'accozzamento accidentale delle varie abitudini d'uomini liberamente
parlanti, abitudini che a poco a poco si andarono avvicinando e rassettando
alla meglio con un’analogia naturale, che non poté però mai togliere affatto le
irregolarità originarie introdotte dall’arbitrio e convalidate dall’uso (ivi, 90).
Affermazione che è l’ideale (e probabilmente anche la testuale) premessa
dell’attenzione del Manzoni giovane ai modi di dire irregolari della lingua
(1825-26), che sfuggono alle leggi della grammatica, come pure dell’amore del
Leopardi per quei dispetti alla grammatica universale (Leopardi, 1991, 1321 =
Zib. 2419, s maggio 1822) che formano a suo avviso il nucleo della libertà
linguistica e della bellezza dello stile. 4.2. Fin qui la parte generale,
filosoficamente intenzionata, del Saggio. Ma quando la teoria dello sviluppo
naturale delle lingue viene testualmente evocata, nella seconda parte di
questo, l’autore non mira tanto a una discussione filosofico-linguistica, ma a
un’operazione in ultima istanza retorica e stilistica. Una nota apposta alla
terza edizione del Saggio ci ricorda che quello della formazion meccanica delle
lingue non era l’oggetto del suo libro e che la teoria in questione era stata
ripresa sol per servirsene come di base alla sua teoria sulla bellezza dei
termini (C., 1800, 37, nota). E fin dalle prime righe del capitolo, in cui è
spiegato che la lingua scritta soggiace alla giurisdizione della filosofia,
dell’erudizione e del gusto, apprendiamo che la filosofia ci mostrerà in che
consista la vera bellezza ed aggiustatezza delle parole, e i veri bisogni della
lingua; l’erudizione facendoci risalire ai sensi primitivi dei termini, e
informandoci degli usi, costumi, circostanze che diedero occasione ai varj
vocaboli, ce ne farà sentir con precisione l'esatto valore, e l’aggiustatezza,
o la sconvenienza (ivi, 32). Ciò non esclude che questa parte dell'opera abbia
anche un interesse teorico ben nota è ad esempio la discussione intorno
al genio delle lingue, distinto nel doppio versante del genio logico (grosso
modo quel che oggi chiameremmo con Saussure e Coseriu il sistema della lingua)
e del genio retorico (questo cangiante storicamente e soggetto alle dinamiche dell’uso
e del gusto); e attenzione merita anche lo schierarsi del C. a favore della
primazia della costruzione inversa (sostenuta com'é noto da Condillac, Batteux
e Diderot), tipico antidoto contro il razionalismo linguistico che vedeva nel
presunto ordre naturel del francese l’indizio di una originaria vocazione alla
verità e alla chiarezza. Nell’ insieme, però, il suo accurato studio delle
valenze etimologiche delle parole, del modo in cui queste acquistano o perdono
vividezza nell'uso, delle mutevoli capacità mediate
dal gusto di rappresentare icasticamente gli oggetti, ha
la precisa finalità di promuovere un uso elevato della lingua, nella sua
varietà scritta e prevalentemente nella sua declinazione letteraria. Il che non
può in fondo sorprenderci, se è vero che la posta politica del discorso cesarottiano
mira al piano tradizionale della questione della lingua, a un’esigenza di
rinnovamento importante soprattutto per l'apertura, giustamente apprezzata
da tutti i critici, ai linguaggi delle scienze e delle tecniche e a quelli che
Leopardi avrebbe di li a poco chiamati europeismi , ma fatta valere entro precisi vincoli di
tipo diamesico e diafasico. A questo quadro fa riferimento la ripresa del
modello trissiniano della lingua nazionale, fondato sulla prospettiva di
apporti plurali e regionalmente decentrati all’erario comune dell'italiano,
filtrati e garantiti dall'autorità di una nuova accademia, un Consiglio
nazionale certamente più articolato per composizione e pià liberale per
orientamenti della vecchia Crusca, ma pur sempre un'accademia, bilicata cioé
tra erudizione e gusto, saldamente ancorata agli usi di una ristretta élite
intellettuale. La stessa idea di due distinti repertori lessicali, uno
etimologico e uno dell'uso, affacciata nell'ultima sezione del 1v libro, non si
discosta da questo orizzonte, anzi, nell'omaggio fatto al disegno debrossiano
di un repertorio archeologico della lingua, organizzato per radici, si da far
risaltare nel lessico in uso le prime fila d'una lingua naturale (ivi, 218),
resta un passo indietro rispetto allo stesso progetto leibniziano esposto nei
celebri Unvorgreifliche Gendaken betreffend die Ausübung und Verbesserung der
teutschen Sprache (1696-97). Leibniz aveva sagacemente ipotizzato di separare
il Glossarium, cioè il repertorio storico, dallo Sprach-brauch (ovvero dalla
lingua dell'uso sincronico), ed entrambi dalla Cornucopia, riservata alla
vastissima messe delle parole tecniche e scientifiche. Mentre l'archeologico si
avvicina al Glossarium (ma Leibniz, pure molto interessato al problema delle
radici, si era guardato di tirare in ballo il recupero di una quanto mai
improbabile lingua naturale), il secondo lessico previsto da C. non distingue
fra 27. Si veda il par. 277 del Traité in de Brosses uso comune e aree
settoriali della lingua, né sembra appassionarsi agli usi orali (cui pure era
tutt’altro che insensibile), dal momento che si rivolge solo a chi vuole
intendere e maneggiar la lingua scritta (C., 1800, 217). I Gedanken, editi nei
Collectanea etymologica usciti postumi nel 1717, erano stati ristampati,
addirittura corredati di una traduzione francese, nel 11 tomo del vi volume
dell’edizione Dutens, ma è possibile che C. (se pure li abbia letti) li abbia
ritenuti troppo settorialmente indirizzati alla problematica tedesca
(Considerations sur la culture et la perfection de la langue Allemande suona il
titolo in traduzione). Un ulteriore aspetto di rilievo del Saggio è la
distinzione fra terminifigure e termini-cifre, contraddistinti i primi dalla
ricchezza e varietà delle idee accessorie, laddove i secondi assumono un
significato proprio e determinato. Il tema viene indagato da C. sotto una
prospettiva sia funzionale sia diacronica. La prima ha antecedenti in testi
classici della tradizione logico-linguistica, quali la Logique di Port-Royal o
la prefazione di Leibniz alla sua edizione delle opere di Mario Nizolio (1670),
che distinguono la semantica fisiologicamente fluttuante dei verba da quella
convenuta e definita dei zerzzizi, indispensabili alle scienze e più in generale
al lessico intellettuale. Si ricorderà come Leopardi, già nelle note zibaldoniane
del 1820, rilancerà la distinzione sostenendo che le parole, nel senso
anzidetto, sono in qualche modo l'organo dell'immaginazione, intesa a
associazioni libere e imprevedibili fra dati sensibili e valori linguistici.
(La tematica dei termini, d'altra parte, sarà successivamente riarticolata da
Leopardi in riferimento sia al lessico tecnico della chimica, sia agli europeismi,
come analizzare sentimentale ecc., che in tutte le lingue occidentali veicolano
il medesimo significato). Leopardi cita come fonte le Ricerche del Beccaria,
nelle quali a onor del vero non si trova esattamente la distinzione in
questione, bensì piuttosto è dato risalto a quel gioco alterno di sensi onde per
dirla col nostro C. nella lingua tutto é alternamente figura e
cifra. L'abate padovano aveva anticipato questa riflessione nelle osservazioni
apposte alla sua traduzione della seconda Filippica di Demostene’, suggerendo
che i significati, come normalmente accade nella trafila 28. Si vedano in
particolare i capp. xr1-xii1 della prima parte, in cui viene esposta la
necessità della definitio nominis negli usi tecnici e filosofici delle stesse.
Cfr. Arnauld, Nicole (1969 149-64). 29. Cfr. Leopardi (1991, 123 Zib.
109-10, 30 aprile 1820). 30. In questo interessantissimo scritto, ideale
tramite fra le lezioni padovane e il Saggio, C. ribadisce l'idea della naturale
mutevolezza delle lingue, dalla quale fa discendere l'intenibilità di qualsiasi
estrinseco principio di purezza o di autorità; dà una lettura classica 95
STEFANO GENSINI naturale delle lingue, sono spesso originariamente traslati,
funzionano cioè come immagini, assumendo successivamente la fisionomia di indizi,
per ridursi infine a segni quando la vaghezza iniziale si sia neutralizzata a
favore di sensi abituali e, al limite, convenzionati. Se l'assunto della
originarietà dei traslati, e in primo luogo della metafora, era al tempo di C.
convinzione consolidata (basti pensare alla Logica poetica di Vico) e
confortata dalla tradizione classica (lo stesso Leibniz amava ricordare quel
passo in cui Quintiliano ammonisce che paene jam quidquid loquimur figura est;
Inst. or., IX, 3, 1), non era invece affatto scontata l’idea di una
indeterminata peregrinazione dei sensi da usi figurali a usi cifrati e
viceversa; ed è probabilmente giusto cogliere in ciò una ulteriore conseguenza
della teoria naturale che sappiamo, svolta da C. dal punto di vista della
inevitabile mutabilità delle lingue.s. C. ha dunque svolto un ruolo
fondamentale, anche se non lo ha svolto da solo, nella conversione del pensiero
linguistico italiano da un orizzonte solo retorico e letterario a un orizzonte
filosofico. Credo che una corretta storicizzazione della sua esperienza,
riportandola al centro di un più ampio coro di voci intenzionate a ripensare il
linguaggio in termini teorici, non ne implichi affatto un ridimensionamento o
una svalutazione, ma anzi favorisca l’apprezzamento della complessità e
sistematicità del suo approccio, volto a mediare fra piano filosofico, piano
retorico e piano politicolinguistico. Resta fuori dalla sua teoria dell'uso non è
un paradosso il momento tecnicamente sociale della lingua, il punto cioè in cui
le differenze riconosciute e pacificamente ammesse in termini descrittivi
possono farsi critiche sotto l'urto di rivolgimenti sociali e politici di vasta
portata. È questa la stagione di pensiero anche linguistico aperta
dall'Ottantanove, che non lascia tracce significative in una teoria definita in
pressoché tutti i suoi tratti ben prima di quella data fatidica. È la stagione
al di là della quale si collocano Manzoni, Leopardi, il giovane Cattaneo, con
un nuovo tipo di sguardo linguistico rivolto alle contraddizioni riversate
dalla nuova società postrivoluzionaria sugli assetti della comunicazione.
Riflettendo su questa fase a venire non solo della storia, ma anche, in
piccolo, della riflessione linguistica, sembra assumere un senso premonitore la
decisione finale del vecchio Cesa(ciceroniana e vichiana) del fenomeno della
metafora, collegata ai bisogni di significazione di una comunità parlante
ancora rozza e linguisticamente povera; vede nell’esercizio di una dispiegata
arbitrarietà il punto d’arrivo (e non di partenza) della pratica comunicativa.
Il testo, risalente alla seconda metà degli anni Settanta, si legge nel xxvn
volume delle opere: cfr. C. rotti di intitolare alla filosofia delle lingue la
sua maggiore opera critica: un senso che richiama da più punti di vista (e
forse volutamente) una ormai lontana, ma quanto mai saggia, suggestione di
Michaelis: En général les langues mériteroient que la Philosophie leur
consacràt une science particulière; mais il faudroit bien se garder de rédiger
cette science en système, avant que l'expérience en eût recueilli les détails
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linguaggio in Vico e in C. di Andrea Battistini* Il titolo di questo intervento
è stato pensato in modo da evitare di dover dare conto delle idee linguistiche
vichiane ereditate direttamente da C. e con l’intento di proporsi invece il più
semplice obiettivo di coglierne le affinità e le differenze, senza la pretesa
di stabilirne le derivazioni dall’uno all'altro. Non che C. non sia stato
influenzato dalla Scienza nuova: il suo maestro Giuseppe Toaldo lo aveva
iniziato per tempo alla lettura di quest'opera, di cui si hanno citazioni
esplicite e tracce diffuse già nelle note apposte alla prima edizione delle
Poesie di Ossian edite nel 1763. Scritte a poco più di trent'anni, esse
mostrano una ricezione precoce, destinata ad affievolirsi nel corso degli anni,
come si vede dalla soppressione di molte di quelle chiose nelle edizioni
successive. Nel frattempo le conoscenze linguistiche di C. si ampliavano sempre
più a latitudine europea, fino a comprendere sia opere di autori già noti a
Vico, come Bacone, Leclerc, Bochart, Selden, Huet, sia di altri più recenti,
come Condillac, Rousseau, de Brosses, Hume. Molte ipotesi e molte possibili spiegazioni
di come sia nato il linguaggio avevano estesa e condivisa circolazione ed è
molto spesso impossibile individuarne la paternità, che pure esiste quasi
sempre alle spalle di chi, nel Saggio sulla filosofia delle lingue, in un
Avvertimento scritto quasi certamente da C., ammetteva di non aver detto cose
del tutto nuove, assunto in un tal soggetto impossibile ad eseguirsi,
pregiandosi anzi d'aver seguito le tracce dei più celebri ragionatori del
secolo sulla parte filosofica delle lingue (C., 1969, 17). ILingue mute e
fonazione Standoall'eclettico C., spesso indulgente verso la dossografia,
l’idea, in sé tutt’altro che nuova, che l’origine dei nomi sia motivata e
avvenuta * Università di Bologna. IOI ANDREA BATTISTINI per natura, a cui egli
crede, è minoritaria rispetto a quella di coloro che ne sostengono una
formazione del tutto arbitraria e immotivata'. Attraverso un’analisi
comparativa condotta sulle lingue di molti popoli, egli giunge alla conclusione
che se nazioni assolutamente diverse tra loro per clima, costumi, religione
ricorrono a uno stesso tipo di nomenclatura, risulta chiaro che questa
nomenclatura non l’hanno presa da altrove se non dalla natura *. Certo è che,
oltre a Condillac, a de Brosses e a non pochi altri, anche Vico la pensava allo
stesso modo, attraverso un analogo metodo comparativo fondato sul principio
euristico enunciato nella Degnità X111, quello per cui idee uniformi nate appo
intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di
vero?. Nel caso specifico il motivo comune era in origine una lingua muta per
cenni o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee ch'essi volevan
significare (SN44, 32). La connessione tra i gesti e ció che essi vogliono
designare sarebbe dunque avvenuta per un legame naturale tra significante
iconico e significato. Addirittura per Vico la comunicazione avveniva senza
nemmeno il gesto, ma presentando direttamente gli oggetti che si volevano
designare, secondo quanto ricavava da un proverbiale aneddoto avente per
protagonista il re sciita Idantura (SN44, 99). Di queste parole, chiamate reali,
da res, C. non fa menzione, perché, da linguista, pur riconoscendo che
ovviamente il linguaggio dei cenni possa servire a comunicare, gli concede
nella trattazione uno spazio più contenuto, ritenendo che é sempre la voce l instrumentum
praesentissimum , utile ad sensus tamen aperiendos, opemque poscendam (C, 69)*. Per Vico viceversa, che ragionava da
antropologo, la lingua della prima età degli déi era quasi tutta muta,
pochissima articolata (SN44, 446) e per questa maggiore indeterminazione
lasciava ampi spazi alla fantasia per creare i miti, termine questo da cui
deriverebbe appunto mutus (SN44, 401). L'interesse preminente di C. per la
comunicazione vocale spiega lo scarso rilievo che hanno in lui i geroglifici e
in generale la scrittura, 1. C. (1810 66-7). Per la frequenza dei riferimenti a
questo volume, d'ora in poi per indicarlo si adotterà la sigla C. 2.C, 130. Le
traduzioni in italiano sono tratte, quie in seguito, da C. (in corso di stampa)
e sono dovute al suo curatore Carlo Enrico Roggia, che ringrazio per avere
messo a disposizione il suo lavoro prima della stampa. 3. Vico (1999', 499).
Per la frequenza dei riferimenti alla Scienza nuova del 1744, d'ora in poi per
indicarla si adotterà la sigla sv44, seguita, anziché dal numero di pagina, dal
numero di capoverso, secondo la numerazione che ne fece Fausto Nicolini. 4.
Stesso concetto nel più tardo C. (1969, 36). 102 LE ORIGINI DEL LINGUAGGIO IN
VICO E IN C. sorta a suo dire molto più tardi del parlare’, e perciò meno
considerata in rapporto alla questione genetica del linguaggio, mentre Vico
rimprovera i dotti che stimarono cose separate l’origini delle lettere
dall’origini delle lingue, le quali erano per natura congionte (SN44, 429). Per
lettere egli non intende quelle dell’alfabeto, che presuppongono un linguaggio
articolato e fonetico di cui sono la trascrizione, ma tutti quei segni che per
trasmettersi si fondano sull’organo della vista anziché su quello dell’udito
(Cantelli, 1986, 25). Per C., essendo più diretto il rapporto che intercorre
tra i suoni vocali e i corpi sonori diffusi in natura, questo nesso di
carattere acustico risulta unico, preciso e distinto in quanto più motivato,
laddove la denominazione degli oggetti visibili che non hanno veruna specie
d'analogia con la voce stabilisce tra parole e cose un rapporto vago, confuso,
molteplice (C., 1969 33-4). Ora, è vero che anche Vico, fedele alla sua ipotesi
genetica che nega l'origine convenzionale e riflessa del linguaggio, fa
discendere le prime voci articolate dotate di un qualche significato
dall'imitazione dei suoni esistenti in natura, attribuendo un'origine
onomatopeica ai nomi delle prime divinità, ma poi il suo discorso prende una
direzione diversa. Cosi, mentre Vico indugia poco sulle modalità di formazione
dei suoni, accontentandosi, in linea con la tesi della somma barbarie dei primi
tempi dell'umanità, di far notare che l'istrumento d'articolare le voci dei
primi uomini era formato di fibbre assai dure (SN44, 462), incapaci di emettere
non più che suoni monosillabici, C., se per un verso condivide la tesi che gli organi
informi, ed irrigiditi rendevano i primitivi ben più atti ad imitare gli
ululati dei lupi, e i ruggiti dei leoni, che il canto degli usignoli, per un
altro verso si sofferma in più occasioni, con interessi fisiologici derivati
dagli studi medici, sul ruolo e la predisposizione degli organi che attendono
alla fonazione?*, la cui differente struttura da popolo a popolo é posta a
fondamento degli esiti alloglotti di una stessa parola in s. Cum scribendi
arte, aliquanto serius quam par fuerat, inventa. Verum enim vero multo prius
loqui quam scribere (C, 145). 6. La priorità della percezione uditiva era già
rivendicata nei frammenti sull'etimologia, dove si constatava che i primigenia
verba e le organicae voces per aures, quae lis unice sunt perviae, species
oculis objectas in animum invehant (C, 276). 7. Questo Ragionamento, risalente
al 1762, non fu ristampato nella parte delle Opere curata dallo stesso C.
perché considerato frutto ancora troppo immaturo. Fu peró edito in C. (1813,
dove la cit. è a 2), ossia in appendice alle Opere. Modernamente lo si trova in
C. (1960, dove la cit. è a 55). 8. C 29, 70; C. (1969, 32) ecc. Una sorta di
legge generale è che singulas linguas nihil esse aliud quam varios singulorum
populorum sentiendi atque intelligendi 103 ANDREA BATTISTINI lingue diverse,
come nel caso del greco, che rifiuta voci difficili da pronunciare e,
sostituendole con altre, le allontana dalle loro forme originarie (C, 51). E
addirittura dal punto di articolazione più o meno facile da usare si può
dedurre la maggiore o minore antichità di una voce. Per gli uomini e le donne
di nazionalità europea è più facile, per esempio, pronunciare le bilabiali,
lasciando intendere che parole dotate di questi fonemi possono avere una più
lontana origine, come C. deduce osservando le prime articolazioni dei bambini (C.,
1969, 35). Egli si serve dell’ontogenesi per proiettarla sulla filogenesi, come
quando, per dimostrare che nei primi uomini la percezione delle cose precedette
di molto la capacità di giudicarle, fa riferimento al comportamento dei
bambini, che si appagano nel sapere come si denomina un oggetto, quasi che la
sola conoscenza del significante equivalesse alla comprensione del suo
significato (C, 101). Talché in un altro suo scritto può fissare l'equazione
per cui primaevi homines infantes humani generis jure censendi (C 68-9),
esattamente come per Vico i primi uomini sono come fanciulli del nascente gener
umano (SN44, 4), sentendosi quindi autorizzato a estendere a ogni passo il
comportamento linguistico dei bambini a quello dei primordi dell’umanità, in
attuazione del canone gnoseologico che va a ritrovare i principi del mondo
civile, in quanto opera dell’uomo, dentro le modificazioni della nostra
medesima mente umana (SN44, 331). Ció che invece non ha una uguale rilevanza
ermeneutica sono per Vico i fattori climatici, tanto che in tutta la Scienza
nuova si accenna in un punto e di sfuggita che i popoli per la diversità de’
climi han sortito tanti costumi diversi e che da questi sono nate altrettante
lingue (SN44, 445), e in un altro punto si segnala la differenza tra le menti
pigre dei nati nel freddo Settentrione e le aggiustate nature dei viventi nella
zona temperata (SN44, 1090-1), senza che peró che questo principio abbia delle
concrete applicazioni e verifiche. Il fatto è che Vico non fece in tempo a
conoscere il De l'esprit des lois, edito quattro anni dopo la sua morte, nel
quale Montesquieu poneva l'accento sull' influenza esercitata dal clima sul
carattere dei popoli, e non solo sui comportamenti ma anche sulla loro morale,
introducendo nella cultura europea un fattore che, anche per quanto sosteneva
la scuola dei fisiocratici, diventó quasi obbligatorio tenere presente e citare
ovunque. modos, pro diversa vocalium organorum structura diverse expressos:
quos ad modos certa aliqua ratione confingendos cum cocli solique temperies (C,
29). 104. LE ORIGINI DEL LINGUAGGIO IN VICO E IN C. Da parte sua C. che, pur
sancendo l’incontenibile diversità delle lingue, sembra rammaricarsene,
rimpiangendo illuministicamente la loro progressiva perdita di unità, annovera
tra le cause di cambiamento anche la caeli, solique diversitas (C, 51), capace
di conformare diversamente l'anatomia degli organi vocali, rafforzando o
indebolendo le loro fibre. E con una buona dose di psicologismo si spinge ad
affermare che la mobilitas et flexilitas è tra i popoli settentrionali maggiore
nella parte esterna della vocalis machina, mentre tra i popoli meridionali
l'elasticità connota di più la parte interna (C, 270). Su questo abbrivo
azzarda perfino a trovare un qualche legame tra la struttura meccanica delle
lingue condizionata dal clima e gli ingegni e costumi dei popoli, in modo che
la testura delle voci latine corrisponde bene alla forza pacata dei romani e la
sonorità della lingua spagnola rifletterebbe il carattere supercilioso e la
tumida gravità di chi la parla, rispetto
alla quale, mosso da un impulso campanilistico, C. si sente autorizzato a lodare
gli animi sinceri e la mitissima umanità dei veneti, deducibile dalla loro
parlata chiara, spedita, carezzevole (C, 273). Non si deve peró credere che
egli abbia una visione rigidamente deterministica: la straordinaria ricchezza
della letteratura greca, per esempio, non va attribuita aeri caeloque, ma maturae
syntaxeos constitutioni, et analogiae origini (C, 8). Finché poi, nei
Rischiaramenti apologetici posti in appendice al Saggio sulla filosofia delle
lingue, è lui il primo a raccomandare di non attenersi a giudizi 4 priori
fondati sopra argomenti esterni, tra cui appunto quello del clima, alquanto men
solido di quel che può sembrar a prima vista (C., 1969, 131). Vico sicuramente
vi si era attenuto ancor meno perché molto più di C. mirava a cogliere, di là
dalle differenze storiche e climatiche contingenti, un dizionario mentale
comune a tutte le nazioni, affacciatosi fin dalla prima edizione della Scienza
nuova e poi sempre ribadito nelle seguenti. Banco di prova sono i proverbi,
definiti massime di sapienza volgare che, per quanto per tanti diversi aspetti
significate, sono l istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e
moderne, al punto che si può formar un vocabolario mentale comune a tutte le
lingue articolate diverse, morte e viventi (SN44, 161-2), in qualche modo
analogo e parallelo alla storia ideale eterna, la cui struttura profonda è una,
di là dai singoli corsi che fanno le nazioni. Momento privilegiato è quello
dell’origine della civiltà che coincide con l’origine della lingua, formatasi
ovunque negli stessi modi pur in climi diversi. L'antropologo e il linguista
Nel luogo più conosciuto della Scienza nuova si legge che il passaggio dalla
condizione ferina alla condizione umana avvenne al fragore del primo tuono e
del primo fulmine, due fenomeni i cui scoppi e boati furono scambiati perle
voci di una divinità violenta e tirannica che con quei suoni terrificanti
voleva impartire ordini ai bestioni, i quali a loro volta proiettarono su
quella fantasticata entità vivente la loro natura collerica e dispotica.
Simultaneamente sorse il linguaggio, di natura onomatopeica. Zeus infatti, nome
dato in greco al primo dio identificato con il cielo, è, con la spirante
alveolare sonora /z/, voce onomatopeica del fischio del fulmine (SN44, 447).
Tuttavia l’insistenza vichiana su quei primi uomini che alzarono gli occhi ed
avvertirono il cielo (SN44, 377) sembra anche sottintendere letimo del Cratilo
platonico (17, 398c), secondo cui 4ntropos significherebbe proprio ‘colui che
vede le cose e si rende conto di ciò che ha visto’. Nella sua ricostruzione
antropologica la vista, ancor più dell’udito e quindi della fonetica, è il
senso dominante, non solo perché è a fondamento delle differenze di classe tra
eroi e plebei, essendo i primi, a differenza dei secondi, più robusti e quindi
capaci di inerpicarsi sulle cime dei monti da cui osservare il cielo e
interpretare attraverso il volo degli uccelli la volontà degli dèi,
inaccessibili a chi non può trarre gli auspici’, ma anche perché la sua
indagine si fonda su fonti chiamate da Vico frantumi o rottami, il cui
significato è proporzionale all'ampiezza del termine filologia, avente per
oggetto di studio la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall'umano
arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de’ costumi e de’ fatti cosi
della pace come della guerra de’ popoli (SN44, 7). In verità anche per C. il
concetto di critica filologica ha un'accezione quanto mai inclusiva,
abbracciando la mitologia, la geografia, le arti, le opinioni, i costumi e le
usanze (C., 1809, 239). Sennonché nell'apparente identità della definizione si
celano impieghi e obiettivi profondamente diversi. Per Vico la filologia
fornisce il certo, da combinarsi con il vero della filosofia, a costituire una
simbiosi avente per fine la ricostruzione del sorgere del mondo civile e la
comprensione 9. Si considerino insieme $N44, 377 (pochi giganti, che dovetter
esser gli più robusti, dispersi per gli boschi posti sull'alture de’ monti) con
$N44, 25 (comandavano ciò che credevano volesser gli dèi con gli auspici, e 'n
conseguenza non ad altri soggetti ch'a Dio). della mentalità dei primi uomini.
Per C. invece tutto il lavoro della filologia, parimenti in collaborazione con
la filosofia, si deve proporre quest’unico fine, che dal cumulo di errori da
cui Panimo umano è assediato ne venga rimossa una parte, quale che sia *. Ne
consegue che per lui sono negative tutte le forme linguistiche che si
allontanano dai significati originari delle parole. Non per caso dedica una
serie di lezioni a De erroribus ex tropico genere locutionis ortis. Da una
parte i traslati possiedono indubbie qualità poetiche, grazie allo scambio
reciproco delle qualità del corpo e dell’animo e alla raffigurazione icastica
di singoli particolari in luogo di concetti astratti e remoti dai sensi (C, 152);
ma dall’altra non si può negare che il considerare cose analoghe in natura come
identiche nelle parole che le esprimono genera veri e propri vitia linguistici,
inevitabili quando ai primordi prevaleva l’uso della fantasia, che accorpa ciò
che è soltanto simile, ma che, con l’intervento del giudizio, che si preoccupa
di separare ciò che è diverso (C, 88), occorre emendare purgatis praeparatisque
rationali philosophia mentibus (C, 105). Ed è vivissimo il rimpianto che foetibus
linguae non ci fosse stata la filosofia a fungere da ostetrica , la quale con
il suo razionalismo avrebbe impedito che sorgessero biformes imagines a turbare
l’ intelligentiae officium (C, 86). Gli
errori di pensiero dovuti a un'interpretazione sbagliata dei traslati nel
momento in cui vengono presi alla lettera sono denunciati da Cesarotti con la
massima durezza: si tratta di ineptiae, di mentis monstra, di cui nulla è absurdius,
dovute a vanissimae artes, per non dire di vecordia , opera di persone che vehementissime
insaniunt. Dinanzi ad accenti cosi virulenti non si deve ignorare la componente
retorica di questi testi, appartenenti al genere didascalico, essendo quasi
tutti orazioni, lezioni, conferenze, o, per ricorrere a un termine dello stesso
C., exercitationes. Occorre insomma tenere conto della distinzione fatta dallo
stesso autore in una sua Istruzione d'un Cittadino, e il Patriottismo
illuminato risalente alla stagione napoleonica, nella quale distingue tra il
linguaggio del filosofo che conversa liberamente colle sue idee e quello dello
scrittore onesto e avveduto, che costante nella parte essenziale dei suoi
sentimenti, li atteggia perd egli e configura nel modo che meglio conviensi
all'esigenza delle situazioni, e ai doveri di cittadino e di suddito (Cesarotti,
1808, 233). Indossando la veste di scrittore onesto e avveduto 10. Arbitror
necessarium esse ut utraque [Philosophia simul et eruditio] id omnem intendant
operam, ut errorum cumulo quibus obsidetur humanus animus quotacumque pars
detrahatur (C, che si rivolge in primo luogo ai giovani, deve calcare la mano
sui rischi di incomprensione che si celano nei fraintendimenti linguistici
sorgenti quando entità di valore puramente segnico sono proiettate sul piano
della realtà, specie se investono la sfera del sacro, nel qual caso l’errore
diventa perniciosus, exitiosior, causa di impia superstitio e di foedissimus cultus, consistente tra l'altro
nell'animismo, nel politeismo, nell’idolatria, nella zoolatria,
nell'ornitomanzia, nei casi in cui animali presi a simbolo di una divinità sono
essi stessi divinizzati. Di là dall'enfasi retorica dettata da ragioni
pedagogiche, il compito che C. assegna alla scienza e allo studio delle origini
del linguaggio, seguito poi nei suoi passaggi da quando esisteva un rapporto di
necessità tra res e verba a quando questo rapporto si perse diventando
arbitrario, consiste nel sapere che cosa sia stato a pervertire [perverterit]
le menti di uomini acutissimi al punto da far loro tributare una fede religiosa
a opinioni tanto assurde (C, 49). Anche Vico, naturalmente, riconosce che i
tropi e iz primis la metafora sono nati da un mancato uso dell’intendimento
(SN44, 402), ma, lungi dal parlarne in termini di errori, vede in essi il
processo originario della conoscenza umana, peculiare dei tempi in cui
l'assenza di razionalità impediva l'astrazione logica del concetto. Come si è
già ricordato, la civiltà stessa nacque, a ben guardare, con una metafora,
quando i bestioni, allo scoppio del primo tuono e all’apparizione del primo
fulmine, immaginarono che questi fenomeni naturali fossero la voce di una
divinità, intesa quale essere antropomorfo, con un translato che Quintiliano
avrebbe definito dall’inanimato all'animato (Inst. or., VIII, 6, 9-10). La
memoria e la fantasia, unite all’ingegno, fecero sì che, una volta creatosi un
dio a propria immagine e somiglianza, i primitivi ritenessero che tutto ciò che
aveva a che fare con il cielo (altri fenomeni atmosferici, moto delle stelle,
voli degli uccelli...) fosse il linguaggio con cui questo essere superiore comunicava
con loro. Incapaci di astrarre con un pensiero logico e attraverso concetti
razionali, i primitivi finirono per attribuire sempre allo stesso ente,
chiamato nella fattispecie Zeus, con voce onomatopeica, tutto ciò che era di
provenienza celeste. Vico si guarda bene dal giudicare questo processo di
identificazione definito universale fantastico secondo il metro dell’ universale
intelligibile dei logici, a differenza di come sembra inclinare C., il quale
scorge in quella identificazione una successiva fonte di errori. La formula
vichiana, considerata la chiave maestra della Scienza nuova (SN44, 34), non é
facile da condividere perché propriamente ha un connotato ossimorico, non
potendo ciò che è fantastico, in quanto legato alla soggettività, 108 LE
ORIGINI DEL LINGUAGGIO IN VICO E IN C. essere universale; ma in questo caso lo
è, perché tutti i fenomeni di una certa specie si spiegavano riportandoli
sempre a un unico individuo. La metafora quindi appare nelle età primitive un
surrogato dei concetti, una forma speciale di logica, detta da Vico poetica,
che, non potendo avere la stessa capacità di astrazione, si sviluppa sotto
forma di mito, giustificando la definizione vichiana di picciola favoletta
(5144, 404). Poiché la metafora era un prodotto della fantasia e non
dell’intelletto e annullava ogni senso della differenza, si potrebbe
considerare la metafora dei primitivi come una catacresi, nata per inopia di
generi e di spezie (SN44, 832), giacché è assente quella consapevolezza di
irriducibilità che in forma tacita e implicita permane sempre nella coscienza
di noi moderni, nel momento stesso in cui sanzioniamo in forma esplicita la
fusione di due o più significati. Le catene di metafore che davano vita ai miti
contenevano, spiega Vico, sensi non già analoghi ma univoci (SN44, 34). Per
fare un esempio molto chiaro: quando noi moderni diciamo quel tizio è Ercole,
in realtà intendiamo dire che è un Ercole, che è come Ercole, nel senso che è
così forte da possedere le caratteristiche del mitico Ercole, senza però,
ovviamente, esserlo. Per i primitivi invece il predicato collimava
perfettamente col soggetto, in un' identità assoluta. C. ha compreso benissimo
la teoria vichiana dell'universale fantastico quando spiega come i primi uomini
rudi e selvaggi trasferirono, ingannati dall'analogia, abitudini e affetti
umani a entità inanimate e prive di sensibilità (C, 71), in linea con quanto
asserisce la Degnità 1, dove si legge che l'uomo, per l'indiffinita natura
della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell
universo (SN44, 120). Quei silvestres homines ac rudes sono obstupentes (C, 71),
che sembra la traduzione letterale dei bestioni vichiani, che sono tutti
stupore (SN44, 1097). Non solo, ma il passo mostra anche di condividere il
processo linguistico e insieme gnoseologico che, come in Vico, fa derivare
l'universale fantastico dall'antonomasia, allorché fattasi la mente più vigile
e più sottile arriva infine a pensare che nei singoli uomini forti c'è un
qualche principio per cui sono forti, e si costruisce un qualche archetipo da
cui discendano tutte le cose che solitamente vengono compiute dagli uomini
valorosi, e sul cui modello vengano comparati, come a una pietra di paragone,
tutti gli uomini e le cose forti (C, 108). Derivano di qui i miti delle fatiche
di Ercole, dal momento che si Herculis nomen fortibus quibusque viris addictum
credimus, jam omnia quae de 109 ANDREA BATTISTINI fortibus viris dicentur
Herculi accident, et ex historia fabula exsurget (C, 10). E se le sue imprese
sono tante, impossibili a essere compiute da un solo uomo, è per la natura
aggregante e inclusiva dell’universale fantastico, che sotto un solo nome
raccoglie gesta di altri eroi, alcune vere, altre inventate secondo la fama. È
significativo che queste riflessioni, derivate senza dubbio da Vico anche se
non viene mai nominato in questo luogo, si trovino nelle lezioni dedicate alle
origini dell’eloquenza. A tacere dello stesso principio ermeneutico, che esige
da chi cerchi di conoscere l’intima natura e l' indole di quella facoltà o arte
a cui specialmente si è votato di mettersi direttamente da subito a indagare e
ricercare la sua origine più remota (C, 99),
parafrasi della Degnità x1v (Natura di cose altro non è che nascimento di esse
in certi tempi e con certe guise ), anche la tesi stessa, sorretta dall'idea
che la poesia ha preceduto la prosa e che quindi ogni discorso antico era
poetico, coincide con l'asserto vichiano che vuole i primi popoli per natura
poeti (SN44, 1030). Non è un caso che la
stessa parafrasi di che cosa è l'universale fantastico e di come esso si forma
compare, questa volta con un esplicito rinvio agli alti e speculativi principi
di Vico, nel Ragionamento storicocritico che apre la doppia volgarizzazione, in
prosa e in poesia, dell’ //;ade. Qui C., per dare l'idea di cosa fosse la favella
mitologica, ch'era la lingua naturale dei popoli nell' infanzia della società,
si prova a tradurre una frase che con un moderno linguaggio del tutto astratto
e filosofico sarebbe la virtu non lascia invendicate le ingiurie dell amicizia
e che, presso i primi uomini, sarebbe diventata: Achille uccide Ettore uccisor
di Patroclo (C., 1809 19-20). Non c’è bisogno di riportare anche il secondo
esempio relativo a Ulisse quale universale fantastico della sapienza per
comprendere che se il modo di esprimersi di Omero era molto poetico, sul piano
linguistico le approssimazioni semantiche di queste locuzioni mitologiche, nel
momento in cui istintivamente abbelliscono il messaggio con la fantasia di un
racconto, al tempo stesso, nel ricorrere al concreto in luogo dell’astratto, si
allontanano dal loro referente concettuale. Si direbbe che C. arretri alle
forme originarie o primitive del linguaggio per proiettarle e valutarle sul
metro del più tardo modo razionale e logico di comunicare e per denunciarne le
insufficienze, mentre lo sforzo di Vico prende la direzione opposta di ringiovanire
e di rimbarbarire la propria mente moderna disseppellendo in sé stesso i valori
poietici, cioè creativi, che possono scaturire dalle componenti sensuose e
fantastiche, indebolite o, a dirla con il suo stesso lessico metaforico, assiderate
dall’imIIO perio razionalistico, ma mai del tutto cancellate, e capaci di
riemergere una volta che con un rito catartico la mente si sia purificata dalle
sottigliezze analitiche del presente. Se l’azione di C. linguista consiste, per
riprendere una volta di più il lessico fisiologico ed espressivo del filosofo
napoletano, nel purgare la ragione appannata dai sensi fino a restituirle la
sua nitidezza, Vico esige invece d’immergere tutta la mente ne’ sensi (SN44,
821). Ciò non toglie che C. comprenda bene le tesi della Scienza nuova e non
solo le esponga correttamente, ma anche ne arricchisca l'esemplificazione. E il
caso degli apologhi, che Vico chiama episodi, ossia racconti digressivi
inseriti in un discorso, tipici di una favella per somiglianze, immagini,
comparazioni (SN44, 832), dovuta alla grossezza delle menti eroiche, che non
sapevano sceverare il proprio delle cose che facesse al loro proposito (SN44,
457). Il loro autore più antico, Esopo, è da lui considerato un altro
universale fantastico, rappresentante della classe sociale dei plebei sottomessi
agli eroi, al quale sono attribuite favole aventi quasi sempre per protagonisti
animali significanti virtù o vizi morali (SN44, 424). Dal canto suo C. fa
ancora di più e cita a riprova l'apologo risalente a Fedro dellupo e
dell'agnello, simboleggianti rispettivamente l'uomo prepotente e quello remissivo
(C, 109). Nelle sue lezioni sull’origine dell'eloquenza questa procedura
comunicativa pareva peró non dicenti commoda et audienti molesta (C, 130),
facendo al destinatario di questo tipo di messaggio l'effetto di un uomo che ha
fretta di arrivare in patria e concentrato sulla strada che una guida non
espertissima conduca intorno percorrendo lunghi giri e labirinti inestricabili
(C, 130). Vico non nega che questo linguaggio delle origini sia dovuto alla somma
povertà de’ parlari (SN44, 581), alla somma semplicità e rozzezza delle menti
(SN44, 522), e ai sentimenti vestiti di grandissime passioni (SN44, 34), ma al
tempo stesso riconosce che esso é comunque sufficiente e pienamente adeguato a
quei tempi dei primordi in quanto a quelle menti corte basta arrecarsi un luogo
dal somigliante per essere persuase, come dimostra l'apologo di Menenio
Agrippa, che fu sufficiente ad ammansire la plebe in rivolta con la stessa
efficacia argomentativa che nei tempi illuminati e col11. Nell'autobiografia
Vico denunzia i mali prodotti dall insegnamento della logica negli anni
dell'adolescenza perché il connesso metodo algebrico assidera tutto il più rigoglioso
delle indoli giovanili, lor accieca la fantasia, spossa la memoria,
infingardisce l’ingegno, rallenta l’intendimento (1999, 1, 17). 12. Identiche,
anche nellessico, le cause additate da C.: linguae inopiam, mentis crassitiem,
affectuum turbas tres potissimos esse statuimus poetici sermonis fontes (C. ti
è raggiunta dapprima con l’induzione socratica e poi con il sillogismo
aristotelico (SN44, 424). 3 La sintassi delle passioni La distanza di tempo che
separa C. da Vico (non si dimentichi che il padovano nasce nell’anno in cui
esce già la seconda edizione della Scienza nuova) consente al primo di mettere
a profitto un dibattito sulle origini del linguaggio che il secondo non ha
potuto conoscere, anche se ne ha anticipato alcuni temi. È il caso della
disputa sulle inversioni della frase, su cui all’incirca dalla metà del
Settecento in poi intervennero quasi tutti i maggiori intellettuali francesi e
alcuni degli italiani. Vico, pur essendo impegnato soprattutto a studiare il
lessico dei primitivi, non può ignorare nemmeno l ordine, ossia le naturali
cagioni della sintassi (SN44, 454). A questo proposito, insieme con le
perifrasi, i pleonasmi, le digressioni, considera tra le spie di una lingua
arcaica anche i torni (SN44, 458), un hapax, questo, che nell’accezione di
‘giri di frase’, ‘ordine inconsueto della frase, non è attestato nel
Vocabolario della Crusca e nemmeno nel Dizionario della lingua italiana di
Tommaseo e Bellini. La diversa disposizione che le parole ebbero nella parlata
dei primi uomini rispetto al moderno dettato deriva per Vico dal ritardo con cui
si formarono i verbi, l’ultima parte del discorso a nascere perché comporta la
cognizione del passato e del futuro, difficilissima da intendersi, sempre a suo
dire, perfino dai filosofi (SN44, 453). Non collega invece la pratica delle
inversioni, come fa C., all’urgere delle passioni, ovvero a istanze
impulsivo-espressive che in una frase porrebbero al primo posto le cose e i
concetti che maggiormente colpiscono dal punto di vista emotivo, secondo la
psicologia dei primi uomini. In Francia fu Batteux a sostenere che il vero
ordine naturale del linguaggio non è quello logico-grammaticale, come
ritenevano, tra i tanti, Du Marsais e Beauzée nell’ Encyclopédie,
rispettivamente nelle voci Construction, e Inversion e Langue, ma è quello
originario che dipende dall’ intéret suscitato dalla sfera passionale,
equivalente forse all’ attention di Condillac, C., come è stato dimostrato da
Antonio Viscardi (1947, 210), 13. Cfr. Batteux (1763; 1767). In italiano:
Batteux (1984), che trae da Batteux (1747-50) il corpus di dieci lettere
dedicate alla natura e alla struttura della frase oratoria e di quella poetica.
è a conoscenza di queste polemiche e, prima ancora che nel Saggio sulla filosofia
delle lingue, dove ribadisce il carattere remoto delle inversioni'4, dedica
spazio all’argomento nelle lezioni sull’origine dell’eloquenza, dove distingue
tra lingue analogae, che seguono l'ordine analitico delle idee, come l'ebraico,
l’italiano e il francese, e metatheticae aut transpositoriae (C, 121), il cui
ordine è imposto dalle passioni e seguono gli impulsi di una affectae mentis
(C, 125), una ‘mente turbata’ che antepone le parole che esprimono i moti più
intensi e veementi dell'animo. Per dirla in termini letterari, da una parte è
l’estetica del bello, dall’altra l’estetica del sublime. Vico, che non poteva
conoscere le teorie settecentesche sulle inversioni delle frasi, sapeva però
dal trattato Del Sublime (22, 1) che gli iperbati furono un effetto delle
passioni e quindi le avrebbe sicuramente annoverate tra le componenti delle vere
sentenze poetiche, che debbon essere sentimenti vestiti di grandissime passioni
(SN44, 34). Quanto a C., egli concede che l’alterazione dell’ordine logico
possa essere fonte di delectatio poetica
(C, 182), ma il suo razionalismo, convinto che le passioni siano d’ostacolo
all’intelligenza, gli fa concludere che, lungi dall’essere i primi uomini
dotati come Omero di innarrivabile facultà poetica come credeva Vico (SN44,
806), era erronea la tesi di chi pensava che i primi poeti abbiano espresso
nelle loro opere una forma d’arte perfetta. E se proprio si deve parlare di
sublime, i loro saranno sublimia deliramenta (C, 185). Pur con queste
divergenze sostanziali, Vico e C. si trovano sullo stesso fronte, a cui già
erano appartenuti tra gli altri Epicuro e Lucrezio, che vede il linguaggio
umano derivato da suoni e da sequenze di origine puramente emotiva. Sia per
l’uno che per l’altro sono una volta di più le passioni a scatenare i gridi
interiettivi, ma anche a convertire la voce in canto. Nelle lezioni
sull’origine dell’eloquenza il fenomeno canoro è attribuito da Cesarotti all’ affectuum
vis (C, 165), ma su questo punto era stato ancora più diffuso nel commento a
Ossian, dove si sancisce che il canto appresso i Celti era tutto e che nulla si
facea senza il canto, tanto che le loro istorie, la sacra memoria de’ lor
maggiori, gli esempi degli eroi, tutto era confidato alle canzoni dei bardi (C.,
1807, 266). È evidente la sintonia con Vico, che tuttavia si esprime con molta
più energia, considerando il canto il modo che i primi uomini avevano per sfogare
le grandi passioni, proprie di esseri andat'in uno stato ferino di bestie mute;
e 14. C. (1969, 59): la sintassi inversa è figlia spontanea della natura. Le
lingue antiche, provvedute di casi declinabili, preferirono l' inversa e quindi
ebbero il mezzo di presentar le idee più importanti nel punto di vista il più
luminoso. II3 che, per quest’istesso balordi, non si fussero risentiti ch’a
spinte di violentissime passioni (SN44, 230). Di qui C. avrà ricavata
l'analogia con coloro che ancora oggi danno nel canto essendo sommamente
addolorati e allegri (SN44, 229-30), amplificati in hominibus aut gestiente
laetitia ebriis, aut moerore impotenti ejulantibus (C, 165). Attento come
sempre alla diacronia, Vico osserva che dapprima si mandaroz fuori le vocali
cantando, come fanno i mutoli, poi le consonanti, come fanno gli scilinguati, pur
cantando (SN44, 461). C., sulla scia di de Brosses, riprodotto al limite della
citazione letterale, distingue tra i suoni semplici delle vocali e i suoni
figurati delle consonanti, e coerentemente indica nelle interiezioni i prima et
constantissima linguae germina (C, 69), che si ottengono semplicemente con il
restringimento e l'allargamento del tubo vocale che modificano il passaggio
dell'aria, mentre le consonanti, formatesi in una seconda fase, comportano
l'intervento di altri organi che danno forma al suono articolandolo5. Anche per
Vico le interiezioni sono voci articolate all'émpito di passioni violente, che
’n tutte le lingue sono monosillabe e di poco successive all'onomatopea. E peró
meno conseguente di C., perché per lui la prima interiezione, generata dall’
impressione suscitata dalla prima coscienza dell'esistenza di una divinità,
sarebbe in realtà formata da una consonante bilabiale e da una vocale, ^pa! e
che poi restò raddoppiata pape! |...], onde poi nacque a Giove il titolo di padre
degli uomini e degli dèi (SN44, 448). Fermo restando che le etimologie fino
alla fine del Settecento vivono una stagione ancora prescientifica, in attesa
della conoscenza approfondita del sanscrito e della linguistica comparata di
Franz Bopp, la verità é che Vico é ben poco sensibile alla meccanica fonatoria
cui C. dedica tante pagine, anche se rifiuta categoricamente le miopi procedure
linguistiche dei grammatici. 4 Storia delle parole e storia dell'uomo Appena
poco piü che ventenne C. entra in polemica contro i pedanti e la continua fino
al tardo Saggio sulla filosofia delle lingue, in cui lamenta che soprattutto la
scienza etimologica abbia avuto la sorte infelice di rimanere uno studio
meschino, sol fecondo di inezie finché si stette fra le 15. Corso sulla lingua
ebraica, lezione 20, in C. (in corso di stampa, TV, mani dei puri grammatici,
ma che ai nostri tempi maneggiato da profondi eruditi ed insigni ragionatori,
divenne fonte di utili e preziose notizie (C., 1969, 74). L'esempio virtuoso
che si fa è quello di Leibniz, ma si poteva fare anche con pari diritto il nome
di Vico, il quale fin da una sua replica a certe critiche mossegli a proposito
degli etimi presentati nel De antiquissima Italorum sapientia avvertiva che l’origini,
che io vo investigando, non sono già quelle de grammatici, come gli altri ad
altro proposito finora han fatto 4. È pur vero che quelle derivazioni
intellettualistiche sarebbero poi state sovvertite nella Scienza nuova, ma non
c’è dubbio che anche queste si possono definire etimologie, non grammaticali ma
filosofiche, sull'abbrivo della stessa distinzione operata da C. nel De
triplici genere hominum qui linguarum studio dant operam. Secondo la sua
tipologia, per i filosofi le lingue sono lo specchio dell'origine delle idee e
dello sviluppo dell’ intelligenza. Al polo opposto, per i grammatici esse non
riescono a dire più di quello che si puó trovare in un dizionario. A contrapporsi
sono lo spirito vitale della filosofia e l'infruttuosità dei grammatici. Come
scrisse Stefano Arteaga (1784, 222) recensendo il Corso ragionato di
letteratura greca, l'obiettivo raggiunto da C. combattendo una non opportuna
opera grammaticale o di sterile erudizione è stato un'opera di ragionamento, e
di gusto, fiancheggiata da buona critica. Quando insomma nel C.ano De linguarum
studii origine, progressu, vicibus, pretio si legge che le idee, una volta
istituite le parole, extemplo ipsae quoque exsuscitantur (C, 28), e che quindi
nelle lingue sono riflesse la religione, le arti, le scienze, i costumi, tanto
da potervisi ricavare la historia humanarum mentium (C, 30), vien fatto di
richiamarsi istintivamente alla Degnità LXIV della Scienza nuova, perla quale l'ordine
delle idee dee procedere secondo l'ordine delle cose (SN44, 238). In altri
termini in ogni lingua sono racchiusi la cultura e il sapere del popolo che la
parla. Per questo C. esige dal linguista una formazione completa, aliena da
miopi specializzazioni e, guidato da una visione organicistica del sapere,
paragona chi si fissa su una singola disciplina a chi pensasse di mantenersi
sano curando soltanto una parte del proprio corpo, trascurando 16. Vico (1971, 149).
Anche nell'autobiografia si esprime il dispiacimento delle etimologie
grammatiche, che per reazione portò Vico a stabilire i princìpi di un etimologico
universale da dar l'origini a tutte le lingue morte e viventi (Vico, 1999, I, 43).
17. C. (in corso di stampa). 18. Ne deriva che qui lingua aliqua sponte careat,
ei eodem tempore necessario carendum accuratis notionibus eorum omnium quae
nationi ea lingua utenti sint propria (C. 45). IIS tutte le altre (C, 2). L'affermazione si trova
in una prolusione universitaria, cioè nella stessa occasione cui Vico affidò un
identico asserto, quello di considerare manca et debilis institutio litteraria
quella di coloro che si gettano a capofitto in unam, certam ac peculiarem
disciplinam ^. È pur vero che l’enunciato è topico nell'ambito di una
tradizione umanistica, ma nel caso di Vico e di C. è tutt'altro che
convenzionale. Nella storia delle parole è per loro davvero racchiusa la storia
dell’uomo e l’etimologia filosofica costituisce l' itinerariam mentis tabulam.
Attraverso un'analisi a tutto campo l’etimologo diventa un philosophum nomine
per humanae mentis ideas peregrinantem, conferendo scientificità all’indagine
(C, 274). Per riprendere una distinzione di Vittore Pisani (1947, 12), si potrebbe
dire che ció che avvicina lo studio etimologico di Vico a quello di C. é da una
parte il rifiuto del procedimento descrittivo, che non richiede alcuno sforzo
semantico perché unisce un nome deverbale al suo verbo o un verbo al nome da
cui deriva, senza spostamenti semantici ma solo morfologici, e dall'altra
l'assunzione del procedimento denominativo, applicato a parole in apparenza più
opache, mirante all’ individuazione di un etimo originario da cui la voce
seriore ha perso nel tempo il contatto semantico. In un tardo frammento di
orazione steso a trent'anni dall'esordio sulla cattedra di letteratura greca, C.
distingue, attraverso l’ arte utilissima dell'etimologia , tre fasi nella
storia delle lingue: la blaesam infantiam, la fervidam adolescentiam e l’ effetum senium , cui corrispondono tre
stagioni della storia civile e della storia letteraria (C, 279). Non è chi non
veda, a questo punto, l'impianto del rv libro della Scienza nuova, nel quale
ció che mette più conto di rilevare non é la meccanicità del ritmo triadico ma
la tesi che a ogni fase tutte le manifestazioni della mente umana sono solidali
e interagenti in un condiviso Zeitgeist, in modo che, partendo dalla storia
delle parole, si possa fare una storia della mente e della cultura umana. E non
sono diversi dall'entusiasmo vichiano per le sue discoverte antropologiche gli
accenti trionfalistici con cui C. esalta i risultati conseguibili con
l'etimologica filosofica, capace di scorgere nella storia delle parole i
progressi della mente umana, il suo avanzare dal 19. De mente heroica, in Vico
(1999', 1, 376). 20. Fra gli infiniti rimandi possibili basti quello a Stefano
Guazzo (1993, 158), per il quale non vi è cosa che ci faccia più onore e ci
conservi più grati nelle buone compagnie che l'essere universali e l'aver la
manica piena di diverse mescolanze, mentre poco grati riescono perlopiü nelle
conversazioni quei che hanno posto tutto il loro studio in una sola professione.
concreto all’astratto, dal particolare al generale, dal materiale allo spirituale,
dai vocaboli naturali a quelli artificiosi, dai rustici a quelli urbani (C, 275),
lungo un itinerario parallelo a quello della Scienza nuova che, prendendo a
modello la lingua latina, segue la formazione dei nomi, formati tutti
monosillabi e progredienti dalla vita d'essi latini selvaggia, per la
contadinesca, infin alla prima civile (SN44, 452). Anche C. muove de
primigeniis illis, atque organicis vocibus monosyllaba articulatione
constantibus (C, 276) e, per quanto sia tema appena accennato, parrebbe che
anch'egli al pari di Vico pensasse a una sorta di dizionario mentale, da dar
l'origini a tutte le lingue articolate diverse (SN44, 145), ottenuto con
l'estrazione della raccolta di tutti i vocaboli originari, rinvenibili ubivis,
anche in lingue tra loro diversissime, ossia in ogni lingua storica, a conferma
dell'origine naturale del linguaggio, benché nuspiam usurpata . Si direbbe peró
che la coincidenza non fosse perfetta, perché per C. la prossimità delle radici
verbali avverrebbe et sono et sensu (C, 277) e, a testimonianza della sua
propensione per la fonetica, dipenderebbe dalla conformazione degli organi
fonatori e dal punto di articolazione dei fonemi, per cui, con una buona
percentuale di psicologismo, le consonanti dentali sarebbero ovunque conformate
constantibus rebus et firmis, le gutturali hiantibus et laboriose excavatis, le
liquide fluidis, laevibus, volubilibus, e via dicendo (C, 72). Per Vico invece
il dizionario mentale comune a tutte le nazioni abbraccerebbe non tanto i
suoni, quanto i significati, pur negli identici processi onomatopeici. Per
esempio la prima divinità fu chiamata in latino Tous dal fragor del tuono, ma
in greco Zeus dal fischio del fulmine e nelle lingue orientali Ur, dalla potenza
del fuoco (sw44, 447). Vale in altri termini la considerazione che fu di Ernest
Renan (1875, p.138): un méme objet se présente aux sens sous mille faces, entre
lesquelles chaque famille de langues choisit à son gré celle qui lui parut
charactéristique. E il suo esempio
riguarda proprio la designazione onomatopeica del tuono. Un altro aspetto che
sembra in disaccordo è la provenienza degli eti21. In questo punto della
Scienza nuova del 1744 Vico rimanda al capitolo della princeps del 1725 (111,
38) consacrato a un lungo elenco di parole latine che, per essere tutte
monosillabiche e di contenuto contadinesco, dimostrerebbero, per significante e
significato, il loro carattere originario. 22. Prenons pour exemple
le tonnerre. Quelque bien détérminé que soi un pareil phénomène, il frappe
diversement l’homme, et peut être également dépeint ou comme un bruit sourd, ou
comme un craquement, ou comme une subite explosion de lumière, etc. De là une multitude d’appellations (Renan mi. C.
ne distingue un tipo intrinseco, di una parola derivante dalla lingua madre, e
un tipo estrinseco, quando è ricavata da una lingua straniera (C, 273). Anche
se su questa distinzione non si sofferma troppo, da una sua attestazione
sembrerebbe che, a eccezione della lingua greca, la cui amplitudo si deve verum
sibi unice et suis ipsa Scriptoribus, pleraeque aliae avessero tratto il
proprio sviluppo externis causis (C, 12). Vico, certo piü sensibile alle
scansioni temporali delle diverse epoche, dichiara che al principio tutte le
nazioni, per la loro fresca selvaggia origine, dappertutto vivevano sconosciute
alle loro medesime confinanti (SN44, 59). Solo in tempi molto più recenti,
quando fu inventata la navigazione e i popoli immaginarono la divinità di
Nettuno, l’ultima in ordine di tempo dei dodici dèi maggiori, si verificarono,
venendo a contatto tra loro, calchi e prestiti dall’esterno, quando ormai le
lingue di ciascuna nazione erano già formate. Ciò vale ancora di più e in modo
speciale, per ragioni di ortodossia religiosa, per la lingua degli ebrei,
l’unica per Vico a non avere conosciuto la degenerazione di tutte le altre
seguìta al peccato originale e alla confusione di Babele, da cui Dio ha
preservato il popolo eletto. Trovare corrispondenze tra l’ebraico e le altre
lingue e credere allo scambio di voci tra l’una e le altre significava al
contrario metterle sullo stesso piano. Evitando quindi ogni contatto con i
popoli gentili, presso i quali tutti furono sconosciuti (SN44, 54), si
salvaguardava l’unicità della storia e della lingua ebraica. Per questo Vico
nell'ultima versione della Scienza nuova cercò di eliminare ogni forma di uniformità
che gli era sfuggita nella princeps (Battistini, 2016) e, appellandosi anche al
nesso tra sagro e segreto, negò recisamente che fosse esistita alcuna comunanza
di lingue (SN44, 95). Da questo punto di vista C. si pone meno scrupoli,
trattando alla pari esempi linguistici della Bibbia con quelli dei popoli
pagani e pretendendo perfino di ricorrere alla lingua etiopica, copta e araba
per ricostruire le etimologie dell’ebraico, di cui non sono per niente chiare le
radici, le origini, i significati genuini delle parole (C 44-5). 5 Prove
prescientifiche di etimologia Il criterio della nascita autoctona del
linguaggio diventa comunque, di là dal caso dell'ebraico, regola universale per
Vico che, fedele alla corrispondenza tra la storia delle parole e la storia
della civiltà, divenuta da nomade a stanziale con la coltivazione dei campi,
rinviene in ogni nazione un lessico dalle origini contadinesche (SN44, 404). Un
altro suo principio etimologico è che, poiché l'uomo fa sé regola dell'universo
(sw, 120), in tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a
cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e
degli umani sensi e dell'umane passioni (SN44, 405). Alcuni degli esempi di
metafore contadinesche dal carattere antropomorfo, come sitire agros, andar in
amore le piante, lagrimare gli orni, sono gli stessi recati da C.
(rispettivamente sitire herbam, vites in amorem capi, lacrimari arbores; C, 102),
che peró li menziona non come fonte di conoscenza di menti dotate di
straordinaria fantasia, ma come responsabili di errori in quanto generarono
sistemi filosofici fondati sull'animismo e la superstizione. Per la stessa
ragione una singola parola che oggi rappresenta un concetto astratto è stata
preceduta secondo Vico da una frase poetica formata dalla composizione
dell'idee particolari, come mi bolle il sangue nel cuore, diventata poi st0724chos
in greco, ira in latino e collera in italiano (SN44, 460). Analogamente per C.
gli antichi dissero ebullire sanguinem per irasci (C, 149). Nel tardo Saggio
sulla filosofia delle lingue, nonostante che segni per qualcuno un' involuzione
più che uno sviluppo (Bigi, 1959, 362), si nota, nell'elenco dei meriti
ascrivibili alla ricerca etimologica, un ampliamento del suo raggio d'azione,
estesa dalla possibilità di un retto giudizio del vero valore e del pregio
intrinseco dei vocaboli a un impiego antropologico di tipo vichiano, utile per
la storia delle idee, dei costumi, delle usanze (C., 1969, 114). Dagli esempi
fatti perd si vede che la distanza dalla Scienza nuova è ancora tanta, pur
nell'affinità delle voci prescelte. I loro etimi e le loro spiegazioni sono
quasi sempre presenti nei grammatici della classicità (Varrone, Festo, Nonio
Marcello, Servio...) ricuperati dall'erudizione secentesca^*, ma quello che
importa sono le opzioni scelte tra le tante ipotesi e soprattutto le
motivazioni addotte. Gli esempi che seguono illustrano la dialettica tra le
proposte etimologiche della tradizione e le posizioni assunte da Vico e da C..
23. Centrata sui miti agrari è la De Eumolpo et de Cerere fabula, interessante
discorso C.ano di forte influenza vichiana nel quale si stabilisce che i multivagos
errores degli abitanti dell'Attica furono fermati appunto dall’ agriculturae
studium (C, 250). L'espressione opportuno, gratoque pabulo corrisponde al sostentamento
della loro vita (SN44, 524) garantito dalle coltivazioni dei campi. 24. Basti
pensare al monumentale Erymologicon linguae latinae (1662) di Gerhard Johannes
Voss, per i cui rapporti con Vico si rinvia a Battistini (1975). II9 ANDREA
BATTISTINI Il modo di chiamare boves lucas gli elefanti, desunto da Nevio e da
Lucrezio, serve a C. per mostrare come il nome nasca dalla composizione di due
vocaboli, uno (boves) che designa la somiglianza, l'altro (/4cas) che indica la
differenza peculiare (C., 1969, 35). Vico invece deduce da quel modo di
indicare gli elefanti, risalente al tempo della guerra contro Pirro, che li
portò per la prima volta in Italia, un momento molto più tardo in cui si
introdusse in Roma il lusso di suppellettili d’avorio ricavato dalle zanne di
quegli animali, correggendo l’ errore di chi voleva quei manufatti lussuosi già
al tempo di Tarquinio Prisco, in cui invece i costumi erano molto più sobri.
Anche quando l’etimo è pienamente condiviso, le considerazioni di C. sono per
un verso più circoscritte e per un altro verso divaganti ed estrinseche. Per
lui come per Vico religio viene da religare, ‘legare’, ‘fissare’, e si connette
al timore della divinità; ma mentre il Saggio si limita a censurare Lucrezio
per essersi posto la missione di sciogliere gli uomini dai lacci della
superstizione, la Scienza nuova salda il termine al mito, ricordando quelle
catene con le quali Tizio e Prometeo eran incatenati sull’alte rupi (SN44,
503), designanti il timore degli dèi che li spinse ad abbandonare l’ erramento
ferino e a radicarsi su un territorio dove praticare la coltivazione dei campi.
Se si vuole, Vico possiede una fantasia più sciolta nell’inventare i nessi
semantici tra parola-madre e parola-figlia, ma nel farlo si sente autorizzato
dalla tesi che richiede nel moderno interprete di immedesimarsi nella logica
poetica dei primitivi. Così, se C. non trova veruna idea nella derivazione di
nuptiae dal velo di cui le spose si coprivano, trovando invece molto felice la
voce coniugium, Vico, che pure accoglie anche il riferimento al giogo (SN44,
513), trova una spiegazione anche per nubere, essendo il velo un segno della
vergogna che indusse le prime coppie a fare sesso al coverto nascostamente,
cioè a dire con pudicizia (SN44, 504). Un altro caso di opacità, considerato da
Cesarotti uno dei tanti esempi curiosi di omonimia immotivata dovuti ai vizi
della lingua, è la voce ius che vuol dire sia ‘legge’, sia ‘brodo’, il cui iato
semantico suscita la sua divertita ironia. Per Vico però non c'è niente di
strano se zs era insieme il diritto e °l grasso delle vittime ch'era dovuto a
Giove, che dapprima si disse Jous, donde poi derivarono i genitivi Jovis e iuris
(SN44, 433). Vico si trova a suo agio
quando deve colmare, come per la voce ius, degli 25. Gli etimi di religio,
nubere, ius sono rispettivamente in C. (1969 41, 42, 43). 120 LE ORIGINI DEL
LINGUAGGIO IN VICO E IN C. spazi semantici molto divaricati, dove può
esercitare il suo ingegno ai limiti delle agudeze barocche, impensabili in C..
Il quale, dinanzi a urbanitas, si compiace che per indicare la gentilezza,
l’eleganza, il garbo i latini abbiano tratto il lemma dal vivere in città, perché
ci dinota che gli uomini, prima semplici e rozzi nelle ville, ragunatisi nelle
città acquistarono ad un tempo e politezza e malizia (C., 1969, 41). Con più congruenza Vico
arretra alla parola originaria urbs, messa in relazione con urbu, il legno
curvo dell’aratro, il mezzo agricolo con cui si tracció il perimetro delle
prime mura delle città (sv44, 550). Talvolta, solo eccezionalmente, può avvenire
che il Saggio sia più ricco nelle accezioni, come per il greco #0m0s, per il
quale si crea una catena sincronica che accorpa nel nome cinque diversi
significati: pascolo, ripartimento, armonia, legge e matrimonio, finendo per
cogliere un trattato di ius naturale e civile racchiuso in un termine (C.,
1969, 43). Vico, che preferisce sempre muoversi sull’asse diacronico, come si
vede nelle etimologie verticali di lex (SN44, 240), nel caso di #ômos vi
concentra i significati di ‘legge’ e ‘pascolo’, in quanto la voce significò la
prima legge agraria concessa dagli eroi ai loro servi plebei che si erano
ribellati, talché gli eroi furono poi detti pastori de’ popoli (SN44, 607) e i
loro famoli ottennero il sostentamento in terreni assegnati lor dagli eroi, il
quale fu detto pasco (sN44, 1058). Dando per scontata l’assenza di
scientificità che accomuna tanto le analisi di Vico quanto quelle di C.,
l'esempio che più di ogni altro fa comprendere la differenza dei loro metodi
riguarda la voce acqua. Cesarotti è convinto che i nomi sono tanto più
appropriati quanto più attestano un vincolo naturale con la cosa designata o,
per dirla con le sue stesse parole, ritiene che saranno belli e pregevoli que’
vocaboli che colla natura e l’accozzamento de’ loro elementi rappresentano più
al vivo le qualità esterne degli oggetti che hanno una qualche analogia diretta
o indiretta coll’organo delle voci. Così acqua è da preferire a hydor per la
presenza di un’occlusiva palatale sorda, ossia di uno di quei suoni che si
diguazzano nella bocca, connotante lo sciabordio e l’agitarsi dell’acqua (C.,
1969, 37). Vico invece non bada alla possibile connessione fonosimbolica tra
significante e significato e al possibile pregio intrinseco di una voce, quanto
piuttosto alla motivazione del lemma e al gap semantico tra una parola e
l’altra, che egli cerca di colmare attraverso una spiegazione miticoantropologica
dalle implicazioni realmente religiose, socio-economiche e politiche. Nel caso
di acqua egli ne fa la parola-madre da cui deriva aquila. Il nesso è
avventuroso, ma coerente con le premesse ermeneutiche della Scienza nuova,
essendo l’acqua delle sorgenti perenni poste sulla cima dei monti l’elemento
vitale, e quindi sacro, presso cui si raccolsero e si insediarono le prime
comunità di uomini, sorte negli stessi luoghi rilevati in cui vivevano le
aquile, sinonimo di aquilegae, cercatrici d’acqua, animali ritenuti sacri a
Giove, perocché senza dubbio gli uccelli, de’ quali osservò gli auspici Romolo
per prender il luogo alla nuova città, divennero aquile e furon numi di tutti i
romani eserciti (SN44, 525). Le diverse riflessioni intorno alla parola acqua
assumono un valore paradigmatico nel catalizzare i diversi modi di concepire lo
studio delle lingue, la ricostruzione delle loro origini e gli obiettivi che
con essa si vogliono raggiungere. Per C. ciò che conta è la funzionalità della
lingua e la sua efficacia, valutata sul parametro di una chiarezza
ideologicamente illuministica, non importa se retta da un certo impressionismo
fonosimbolico. Vico, il cui pensiero antropologico-filosofico non è peraltro
senza influenza e lascia segni vistosi in C., punta piuttosto a ricavare dalle
parole la storia della civiltà e a comprendere il senso della logica poetica
dei primi uomini: due strategie diverse dello studio del linguaggio,
espressioni di due epoche e di due culture non omologabili, ma in qualche modo
complementari, tanto che forse le une non potrebbero esistere se non fossero
state precedute dalle altre. Riferimenti bibliografici ARTEAGA E. (1784),
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Mondadori, Milano. VISCARDI A. (1947), Il problema della costruzione nelle
polemiche linguistiche del Settecento, in Paideia, 11, 4-5 193-214. 123 Tra
metafisica e filologia: C. e Condillac di Franco Arato* In uno dei suoi scritti
repubblicani, il Saggio sopra le istituzioni scolastiche private e pubbliche
(1797), C. raccomanda le pagine del, per altro criticato, Galeani Napione agli
studenti esordienti, mentre il proprio Saggio sulla filosofia delle lingue lo
dichiara scritto per un’età più matura *: non possiamo dargli torto, è opera che
richiede menti culturalmente e civilmente allenate. Per il C. insegnante in
seminario e all’università, e poi per il cauto mediatore politico in età
giacobina, il problema della lingua appartiene all’educazione letteraria non
meno che alla vita sociale. A conclusione della terza delle lezioni inaugurali
recitate all’ Università di Padova sul tema arduo De naturali linguarum
explicatione (che tradurremo, con l’autore stesso, ‘lo sviluppo naturale delle
lingue’), egli invitava alla collaborazione tra filologi, magari comprensivi
dei più umili grammatici (che in effetti nella precedente De linguarum studii
origine ai primi sono assimilati), e metafisici: gli uni a studiare le lingue
singolarmente, anato* Università di Torino. 1. C. (1808, 20). 2. C. (18102 16-7):
Hic mihi eos dari pervelim, qui in grammatici atque adeo in philologi nomine
bellissime nauseant, atque ex hoc delicato fastidio elegantiores doctrinae
laudem aucupantur; eosque percontari cuperem, satis ne secum ipsi perpenderint
quantae mentis fuerit, lingua simul et eruditione deperdita, quarum alterutra
sine altera cognosci nequaquam potest, ex adumbrata linguae imagine scriptorum
sententias, ex sententiis scriptorum nationis consuetudines, leges, ritus,
privatos et publicos mores elicere, rursusque per eadem vestigia regressis
consuetudines ad sententias, sententias ad linguam perpetua inductione adhibere
(E qui vorrei proprio che mi si offrissero davanti quelli che affettano nausea
al nome di grammatico e perfino di filologo, e mossi da questa delicata
ripugnanza vanno a caccia della stima procurata da discipline più eleganti; a
costoro vorrei chiedere se abbiano bene valutato quanta intelligenza ci voleva,
essendo andate perdute insieme la lingua e la cultura, nessuna delle quali puó
in alcun modo essere conosciuta senza l'altra, per ricostruire dall'immagine
vaga della lingua i pensieri degli scrittori, dai pensieri degli scrittori
ricavare le consuetudini, le leggi, i riti, i costumi pubblici e privati delle
nazioni, e poi al contrario, rifacendo lo stesso cammino in senso inverso,
usare le consuetudini per capire i pensieri, i pensieri per capire la lingua in
un continuo processo di 124 TRA METAFISICA E FILOLOGIA: C. E CONDILLAC mizzando
e individualizzando, gli altri a guardarle comparativamente e sinteticamente,
tanto da immaginare una sorta di misuratore astratto ma esatto
dell’intelligenza umana, il frenometro, come suona il neologismo C.ano. Va da
sé che si tratta di metafora non corrispondente ad alcuna macchina, ma magari
ideale parente (posso almanaccare?) di qualche moderno search engine.
Metafisici e filologi, scrive C., hanno un fine comune, che cioè dal cumulo di
errori da cui l'animo umano è assediato venga rimossa una parte, quale che sia
[ut errorum cumulum quibus obsidetur humanus animus quotacumcque pars
detrahatur]?. Correggere gli errori del pensiero che le lingue, imperfetto
specchio, riproducono (o, circolarmente, inducono): idea platonica, ma anche
programma illuministico, già bandiera a inizio Settecento del razionalismo di
Leibniz, il quale pensó a una lingua artificiale non solo per capriccio di
matematico glottoteta, ma col fine d'ottenere, addirittura, la pace universale
(nobilmente s'ingannava). C'é dunque sempre nel retore e classicista C. un
proposito razionalistico; non peró astratto: le violente semplificazioni, anche
linguistiche, della rivoluzione troveranno in lui un avversario, non un
sostenitore. Non so se poi credesse davvero che la Provvidenza in veste
napoleonica potesse porre rimedio alle sanguinose discordie, come scrisse nel
poema encomiastico senile, l'infelicissima Prozea (vi si trova l'incredibile: Perdona,
Unico Eroe, posso adorarti / Esaltarti non posso), che pure ha trovato un
recente, competente editore*. Io mi soffermo sul rapporto di C. con l'opera di
quello che a ragione è stato considerato il più influente dei sensisti
francesi, Étienne Bonnot abate di Condillac (figlio del visconte di Mably:
Gabriel Bonnot de Mably, il pensatore politico, è fratello di Étienne).
Condillac fu molto noto da noi anche perché visse a Parma tra il 1758 e il
1767, precettore d'eccezione del piccolo principe Borbone, il futuro Ferdinando
1: tanto maestro sorti l'effetto contrario, perché, è noto, non ne nacque un
illuminista ma un bigotto. Non sapremo forse mai come C., il poeta di Ossian,
sia arrivato a sviluppare il suo interesse filosofico non
solo letterario per la lingua, avvicinamento in Italia non
comune all'epoca, a parte le remote suggestioni vichiane (il biografo Giuseppe
Barbieri allude genericamente alla suggestione di un dibattito coltivato in
Francia e in induzione: traduzione di C. E. Roggia, in C., in corso di stampa,
come nelle altre citazioni C.ane che seguono). 3. C. (1810b, 95). 4. Si veda C.
(2016). 125 FRANCO ARATO Lamagna )*. Detonatore principale dei suoi interessi
fu probabilmente proprio il libro giovanile di Condillac, l’ Essai sur
l'origine des connoissances humaines (in prima edizione nel 1746 e
successivamente rielaborato). Più difficile dire se poi il nostro scrittore
tenesse conto del trittico di trattati condillachiani sui sistemi, sulle
sensazioni (dove appare la famosa prosopopea della statua) e sugli animali
(1749-55); o infine del Cours per il Borbone (1775), segnatamente della
Grammaire, che ne è il volumetto d’esordio (a quest’ultimo testo in effetti C.
fa allusione). Hans Aarsleff (lo storico delle idee protagonista di una
polemica anti-chomskiana, che a suo tempo fece rumore) parlò d’una vera e
propria generazione di linguisti condillachiani usciti dalla lettura dell’
Essai‘: lo studioso danese, che non cita C., menziona Maupertuis, Rousseau,
Michaélis, Herder, Sulzer e altri minori, uomini d'età diverse (un po’ più
vecchi o un po’ più giovani del padovano) e appartenenti a differenti contesti
culturali. Su tutti l Essai fece l’effetto dirompente che la lettura dell Essay
on Human Understanding di Locke aveva fatto su Condillac stesso, e su molti
italiani (si pensi a Muratori). Le novità del pensiero linguistico di Condillac
si possono riassumere in tre punti: l'affermazione del valore cognitivo del
linguaggio, senza il quale il pensiero dell'uomo non si può dotare di raffinati
strumenti simbolici, che infatti mancano agli animali, privi di un linguaggio
articolato (in pratica, semplificando: pensiamo perché parliamo, anche se
l'inverso, in un circolo virtuoso difficilmente razionalizzabile, è ugualmente
vero); l'individuazione di una gerarchia evolutiva del linguaggio, dai gesti e
dai cris naturels all elaborazione di segni verbali artificiali e arbitrari,
secondo la progressione gesti-suoni-cifre-lettere (l’attitudine emotiva dei
primi parlanti si rifletterebbe tra l’altro nell’invenzione della poesia); la
distinzione tra il livello simbolico, comune a tutte le lingue colte, e il genio
delle singole lingue, in cui l’organizzazione semantica e sintattica non ha
minor importanza dei fattori sociali e climatici (l impatto del clima
sull'evoluzione della civiltà è una delle idee forti, si sa, del contemporaneo
Montesquieu). Questi capisaldi, che andremo via via particolareggiando,
conoscono in Condillac sviluppi e correzioni nel corso degli anni. s. Cfr.
Barbieri (1813, xC): L'argomento delle lingue coltivato in Francia e in Lamagna
con grande successo, e da sommi intelletti promosso a nobilissime destinazioni,
reclamava i suoi diritti anche in Italia, dove i grammatici lo tenevano
soggiogato alle loro arbitrarie giurisdizioni. 6. Aarsleff (1984, cap. IV). 7.
Si confronti per esempio questo passo di Condillac (1947a, 11.1.v.56 76-7): Le
climat n’a pas permis aux peuples froids et flegmatiques du Nord de conserver
les accens Lasciando per ora fuori le brevi praefationes in difesa della lingua
latina pronunciate al Seminario di Padova (che pur contengono spunti
interessanti: per esempio, contro il Bettinelli modernista delle Lettere virgiliane,
come ci ha ricordato Enrico Roggia)’, il primo impegnato scritto di storia e
teoria linguistica di C. che interessa è la già citata prolusione padovana del
1769 De linguarum studii origine, progressu, vicibus pretio ('Dell'origine,
progresso, vicende, valore dello studio delle lingue). Accanto a elementi
tradizionali, legati all'occasione oratoria (è l'esordio dalla cattedra
universitaria di Lingua greca ed ebraica), vi troviamo sicure tracce di letture
moderne, in particolare proprio da Condillac. Leggiamo nel paragrafo v11
l'affermazione secondo cui non c’è ragione senza lingue [sine linguis nullam
esse rationem], infatti lo stesso Platone o Verulamio, privati della facoltà di
parlare, non mostrerebbero alcuna differenza, non solo nei comportamenti
esteriori della vita ma nell’intima condizione della mente, rispetto a un
qualche individuo stupido o con la testa di legno, per non dire a un animale
bruto; più precisamente, ragiona il padovano, una volta istituite le lingue, il
che vuol dire una volta accumulata l’amplissima congerie dei segni artificiali,
che prontamente riposti nella dispensa della memoria restano costantemente con
noi e si presentano immediatamente al nostro richiamo, anche le stesse idee,
che fin dall’infanzia abbiamo imparato ad associare a tali segni [quas
hujusmodi signis copulare ab infantia assuevimus], vengono suscitate immediatamente
e obbediscono alla parola; ecco dunque che nella catena logica si possono richiamare
tutte [le idee] dello stesso genere, confrontarle tra loro, mescolarle
ingegnosamente con molteplici distinzioni e associazioni; collegare i giudizi
usando come giunture le particelle, e con nozioni che generano parole e parole
che sempre dallo stesso punto generano nozioni secondo un ordine determinato,
intrecciare quelle mirabili catene di ragionamenti destinate a stringere la
verità [admirabiles illas ratiocinationum catenas ad veritatem constringendam
pertexere] ?. Tali affermazioni, espresse in forma sintetica, dipendono da
varie pagine dell' Essai di Condillac. Apriamo il libro del francese: et la
quantité que la nécessité avoit introduits dans la prosodie à la naissance des
langues. Quand ces barbares eurent inondé l'empire romain et qu'ils en eurent
conquis toute la partie occidentale, le latin, confondu avec leurs idiomes
perdit son caractère. Cfr. anche I.II.VIII.70. 8. Cfr. Roggia (2014, 76). 9. C.
(1810a 27-8). l'usage de ces signes [i segni linguistici, che ha appena diviso
in naturali, accidentali e arbitrari] étendit peu à peu l’exercice des
opérations de l’àme, et, à leur tour, celles-ci ayant plus d'exercice,
perfectionnèrent les signes et en rendirent l'usage plus familier. Notre
expérience prouve que ces deux choses s'aident mutuellement. Peraltro, ecco la
metafora della catena: raisonner c'est former des jugemens et les lier en
observant la dépendance où il sont les uns des autres . In forma didatticamente
efficace si puó riprendere la proposizione proverbiale contenuta nel Cours per
il principe di Parma (sappiamo da una lettera ad Angelo Mazza che C. almeno
tenne d'occhio quel libro): Les langues sont en proportion avec les idées,
comme cette petite chaise, sur laquelle vous vous asseyez, est en proportion
avec vous. En croissant vous aurez besoin d'un siége plus élevé, de méme les
hommes, en acquérant des connoissances, ont besoin d'une langue plus étendue ^;
poco sopra leggiamo (forse contro il Rousseau del secondo Discours, incapace di
misurare la progressione nella formazione delle lingue): Puisque les mots sont
les signes de nos idées, il faut que le systéme des langues soit formé sur
celui de ses connoissances. Les langues, par consequent, n'ont des mots de
différentes espéces, que parce que nos idées appartiennent à des classe
différentes; et elles n'ont des moyens pour lier les mots, que parce que nous
ne pensons qu'autant que nous lions nos idées ^ (c’è qui però, si noti, un
latente rovesciamento tra causa ed effetto). S'intende che il rapporto circolare tra lingua
e pensiero non é affatto facilmente definibile, perché è impossibile
individuare un primum logico-storico. E questione che sarà affrontata dal
pragmatismo ottocentesco, in particolare da Charles Sanders Peirce e dai suoi
seguaci semiologi del secolo seguente nella direzione della cosiddetta semiosi
illimitata (le idee si riferiscono a segni che si riferiscono a idee, che si
riferiscono a segni, ad infinitum). Per capire meglio quel circolo dovremo
ormai rivolgerci alle neuroscienze, che in effetti paiono aprire nuove strade
verso la comprensione delle funzioni del linguaggio: ma non è questo ovviamente
il nostro campo. 10. Condillac (19472, II.L.1.4, 61). 11. L.IV.I1.17, 45; cfr.
anche LILVIIL 70. 12. Si informó sui contenuti: Bramo sapere scriveva al Mazza il 9 dicembre 1775 [non 1765
come scritto erroneamente nel testo a stampa] se nel
Corso del Condillac c'entrino i Trattati già da lui dati alla luce intorno le
cognizioni umane, le sensazioni, i sistemi (C., 1815, 19). 13. Condillac
(1947c, 11.1.11 433-4). 14. 433. 128 TRA METAFISICA E FILOLOGIA: C. E CONDILLAC
Se apriamo l’altro scritto C.ano giovanile, il De naturali linguarum
explicatione, troviamo vari addentellati condillachiani (anche se il nome del
francese non è mai fatto esplicitamente: apparirà solo nel Saggio). Per
esempio, nella prima lezione le testimonianze sulla lingua dei popoli
precolombiani dell’ America meridionale, recate dal viaggiatore francese
Charles Marie de la Condamine, potrebbero derivare dall’ Essai condillachiano,
L1V.1.4 (sulla presunta universalità delle onomatopee dei lattanti, in
silvestrium Americorum ore); ancora: nella seconda lezione è quasi certamente
di derivazione condillachiana il pensiero sul processo di generalizzazione e
astrazione che dall’oggetto singolo porta alla classe (lo stelo diventa erba,
la bestia bestiame ecc.)'. Ma c’è spazio anche, parrebbe, per qualche dissenso.
Nella terza lezione il padovano riferisce della gravis philosophorum querela
intorno ai vizi delle lingue, figlie non della ragione ma d’un impeto privo di
riflessione (inconsulti impetus 7): eco d’una generale critica al razionalismo
illuministico, e forse specificamente al Condillac dell’ Essai, che lamentava:
Ce qui accoutume notre esprit à cette inexactitude [ha appena richiamato il
modo umano di descrivere i fenomeni naturali] c’est la manière dont nous nous
formons au langage. Nous n'atteignons l'áge de raison que long-temps après
avoir contracté l'usage de la parole. Si l'on excepte les mots destinés à faire
connoître nos besoins, c'est ordinairement le hasard qui nous a donné occasion
d'entendre certains sons plutót que d'autres, et qui a décidé des idées que
nous leur avons attachées. Pour peu qu'en réfléchissant sur les enfans que nous
voyons, nous nous rappellions l'état par où nous avons passé, nous
reconnoîtrons qu'il n’y a rien de moins exact que l'emploi que nous faisons
ordinairement des mots. Ma
€ realistico questo programma di uscita dall'infanzia del linguaggio? Come è
stato osservato, C. sembra scettico sui termini della cura, cioè sulla
possibilità di recuperare un rapporto logico tra parole e cose: linguam quidem
generatim, et suae indolis vi, phantasiae magis quam iudicio favere necesse
est, cum iudicium in secernendis diversis, phantasia et 15. Si veda C. (1810b, 71) e
Condillac (19472, 1.IV.1.4, 41). 16. C. (1810b, 81); Condillac (1947a,
11.1.X.102, 87): quand les circostances firent remarquer [agli uomini] de
nouveaux objets, on chercha donc ce qu' ils avoient de commun avec ceux qui
étoient connus, on le mit dans la méme classe, et les mêmes noms servirent à
désigner les uns et les autres. 17. C. (1810b, 85). 18. Condillac (19472, I1.1L1.4, 105). 19.
Roggia lingua in vestigandis similibus
occupetur?° (è inevitabile che la lingua, in generale e in virtù della sua
indole, favorisca più la fantasia che il giudizio, dal momento che il giudizio
si occupa di separare ciò che è diverso, la fantasia e la lingua d’individuare
ciò che è simile). Ciò non significa, come abbiamo visto in apertura, che C.
non pensasse alla meta asintotica dell’esattezza del linguaggio: ma era un fine
perseguibile, non raggiungibile. Del resto, Condillac aveva scritto con
chiarezza: gli uomini s'intendono benissimo quando parlano di oggetti reali,
poi le astrazioni li portano a travedere. Eppure senza astrazione non c'è
ragione. Tra la Scilla del rapporto naturale di realtà e segno e la Cariddi
dell’arbitrio creatore, che porta alla scienza ma anche all’errore metafisico,
si misura il programma linguistico di C. sin dalle prolusioni universitarie. È
notevole (lo ha notato ancora Roggia)? che nella prima lezione De naturali
linguarum explicatione si trovi un attacco celato a Rousseau, definito audacissimo
ed eloquentissimo filosofo contemporaneo, ovvero Pirgopolinice della
letteratura, cioè iles gloriosus reo d'aver banalizzato le posizioni
condillachiane. Ecco
quanto si leggeva nel roussoviano Discours sur l'origine et les fondements de
l'inégalité parmi les hommes (1755): quant à moi, effrayé des difficultés qui
se multiplient, et convaincu de l’impossibilité presque démontrée que les
langues aient pu naítre et s'établir par des moyens purement humains, je laisse
à qui voudra l’entreprendre la discussion de ce difficile probléme, lequel a
été plus nécessaire, de la société déjà liée, à l'institution des langues, ou
des langues déjà inventées, à l'établissement de la société. Ma, ribatte C., da dove avrebbe avuto origine
una tale imitazione se non le si fosse manifestato il modello offerto dalla
natura? [si nullum exemplar ei ab natura propositum extitisset?]?*. Il
cattolico C. risveglia il deista Rousseau dal suo sogno metafisico: il
meccanismo naturale delle lingue non puó essere spiegato teologicamente con la
Rivelazione (in Rousseau, a dire il vero, solo paradossale extrema ratio), non
da un filosofo almeno. L'aporia roussoviana fu ben presente (lo noto di
passaggio) al nostro Leopardi, che molti anni dopo in un lungo passo dello
Zibaldone (1220. C.
(1810b, 89). 21. Cfr. Condillac (1947a, I1.1.1x.82, 83): La langue fut
long-tems sans avoir d'autres mots que les noms qu'on avoit donnés aux objets
sensibles tells que ceux d’arbre, fruit, eau, feu, et autres dont on avoit plus
souvent occasion de parler. 22. C. (in corso di stampa). 23. Rousseau (1971, 193). 24. C.Leopardi
2014 2948-62), s'interrogava, menzionando esplicitamente il filosofo ginevrino,
sulle circostanze della nascita dell’alfabeto e sul rapporto parole-idee: per
determinare gli elementi della voce umana articolata scriveva , l’unica lingua è l'alfabeto. Or questa
lingua non era trovata ancora, e niuna idea se ne aveva (ivi, 2950); si
domandava anche come sienosi potute avere idee chiare e distinte senza l’uso
delle parole, e come inventar le parole senza avere idee chiare e distinte (ivi
2957-8). Il Saggio del 1785, aggiornato nel 1800, sistematizza i vari spunti
qui menzionati. La forza di quel testo sta nella ricchezza dell’analisi,
scaturita da una lunga esperienza d'insegnamento delle lingue classiche, e
nella sintesi filosofica innestata infine su una discussione tipicamente
nostra, la polemica contro l’imbalsamazione classicistica dell’italiano,
polemica che risaliva almeno all’articolo di Alessandro Verri sul Caffè (la
Rinunzia al Vocabolario della Crusca, 1764, contenente il celebre è cosa
ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole). Tutto
quel che in un latino rigoroso, ma in definitiva tecnico, C. aveva distillato
per il pubblico ristretto delle aule universitarie è comunicato ora con
sintassi e lessico molto più spigliati nel Saggio (e quasi con allure francese,
sin dalla parola saggio, cioè essai). C. fa esplicitamente cinque volte il nome
di Condillac. Il passo di maggior interesse dal punto di vista teorico registra
insieme, in una lunga nota, le autorità di de Brosses e di Condillac, appaiati
a proposito della questione nodale, e controversa, della natura imitativa/
arbitraria del segno linguistico. Condillac aderì tardi, nella Grammatica
compresa nel Cours per il Borbone, alla teoria di de Brosses sulla formazione
meccanica delle lingue, teoria che in sostanza si sforza di spiegare in termini
naturalistici, secondo le leggi della cosiddetta fonosemantica (che molto più
tardi Saussure provò a demolire), l'origine di tuzte le parole. Non so se si
possa parlare di una vera e propria conversione di Condillac: in fondo, sia
nell’ Essai, sia nel Traité des animaux (dove c’è un excursus sul linguaggio
delle bestie) non era mai negata la prossimità, nel linguaggio primitivo, tra
necessità vitali ed espressione istintiva e onomatopeica. Qui C. sembra non
vedere alcuno iato tra quanto Condillac aveva scritto nell’ Essai e le
agguerrite, successive proposte etimologiche di de Brosses. 25. La bibliografia
su Leopardi linguista è ormai imponente: mi limito a rimandare qui a Gensini
(1984). 26. Su C. e de Brosses rimando al saggio di Stefano Gensini compreso in
questo volume, C. nei dibattiti linguistici del suo tempo, nonché a Nobile. E
cosi scrive (dopo essersi autocitato, dalla prima lezione del De naturali
linguarum explicatione): Osserva sensatamente il Condillac che l’idea d’un
oggetto, trattone alcuno de’ più eminenti, non si sveglia o non si arresta
nella memoria se non è fissato da un segno, e tra questi niuno è più sicuro,
più distinto, più dipendente dal nostro arbitrio dei segni vocali; ma per
suscitar prontamente l’idea convien che il segno vocale abbia qualche rapporto
coll’oggetto stesso, e questo nel primo tempo non può esser altro che il suono.
Quindi fra gli oggetti fisici, i corpi sonori o quelli che hanno una qualità
relativa al suono furono denominati i primi. Suppongasi che l’oggetto che fissa
l’attenzion dell’uomo il quale s’inizia nella loquela sia il mare, ch'io adesso
chiamo A, ma ch'egli vorrebbe denominar, né sa come. Sente che questo coll’onde
manda un suono simile a B. Egli imita quel suono, e chiama appunto BA
quell’oggetto incognito. Così dicendo BA, la somiglianza del suono B, gli
sveglierà l’idea dell'oggetto A. Ma il mare ha un rapporto coi legni
marinareschi, non però in qualità di sonoro ma di navigabile. Il nostro uomo
vede un naviglio, e osserva il suo rapporto col mare, e avendo chiamato questo
BA, chiama il naviglio BARC. Così la nuova articolazione BARC derivata dal
suono primitivo BA serve a indicar un oggetto che ha bensì relazione col primo
A, ma non già col suono B che servi a denominarlo. Come si vede, C. avanza il
nome di Condillac* per introdurre in realtà una spiegazione etimologica (a dire
il vero, molto macchinosa) squisitamente 4 /a de Brosses. Ammette, è vero, che
tali catene etimologiche sfumino molte volte nell’ipotetico: potendo ciaschedun
oggetto derivato in grazia degli anzidetti rapporti diventar centro di molti, e
questi successivamente d’altri in infinito, ne segue che i vocaboli quanto più
si slontanano dal primo termine radicale, più vanno deviando dal significato di
esso, e procedono desultoriamente e trasversalmente d’idea in idea, in guisa
che non possono risalire alla prima se non se per un laberinto d’obliquità, di
cui è talora assai malagevole trovar il filo. Un pizzico di scetticismo e di
arbitrarismo legati alle prime letture condillachiane pare bilanciare il più
recente entusiasmo per il sistema meccanico 27. C. (1800 37-8, nota b).
28. Avrà avuto in mente questo passo dell Essai: L'attention que nous donnons à
une perception qui nous affecte actuellement, nous en rappelle le signe:
celui-ci en rappelle d’autres avec lesquels il a quelque rapport: ces derniers
réveillent les idées auxquelles il sont liés: ces idées retracent d’autres
signes ou d’autres idées, et ainsi successivement (Condillac, 1947a, LILIIL32, 18).
29. C. scoperto
leggendo de Brosses; e infatti poco sotto C. ribadisce la partizione tra termini-figure
e termini-cifre, i primi dedotti da qualche principio, e per conseguenza
soggetti ad esame e giudizio, i secondi affatto insignificanti e arbitrari, e
perciò non suscettibili di veruna qualificazione di lode o di biasimo?°. Non è
poi difficile ritrovare Condillac tra i ragionatori di questo secolo, cui C.
collettivamente allude, che difendono come naturale e istintivo, non colto e
artificioso, il fenomeno dell’inversione sintattica: Si è creduto generalmente
sino a questi giorni che la costruzione diretta fosse quella della natura,
quella dell’arte l’inversa: i ragionatori di questo secolo osservarono
sagacemente che la cosa è tutta all’opposto, e che la sintassi inversa è figlia
spontanea della natura, la diretta è frutto della meditazione e dell’arte, e
nata solo dall’impotenza di spiegar i nostri sentimenti coll’altra in un modo
pienamente e costantemente intelligibile. Si confronti l’ Essai di
Condillac, nel passo in cui si tende a sfatare il mito della costruzione
francese razionale diretta (sul tipo di Alexandre a vaincu Darius opposta alla latina Darium
vicit Alexander), perchéen la prenant du côté des opérations de l’âme, on peut
supposer que les trois idées qui forment cette proposition se réveillent
tout-à-la-fois dans l'esprit de celui qui parle, ou qu'elles s'y réveillent
successivement. Dans le premier cas, il nya point d'ordre entres elles; dans le
second, il peut varier, parce qu'il est tout aussi naturel que les idées d’
Alexandre et de vaincre se retracent à l'occasion de celle de Darius, comme il
est naturel que celle de Darius se retrace à l'occasion des deux autres. Quelle
inversioni, aggiunge più avanti il francese, font un tableau, perché riuniscono
dans un seul mot les circostances d’une action, en quelque sorte comme un
peintre les réunit sur une toile: si elles les offroient l’une après l'autre,
ce ne seroit qu'un simple récit. Tale tema era già stato anticipato da C. in un’altra orazione
inaugurale, sull’origine dell’elo30. 45. 31. Lo aveva notato già Puppo (1957 70-1).
32. C. (1800, 93): è vero che poi non manca di citare casi di inversione sintattica
colti, come il petrarchesco di A// Italia, E i cor, che indura e serra / Marte
superbo e fero, / apri tu, Padre, e intenerisci, e snoda. 33. Condillac (19472,
r1.1.X11.117, 92). 34. II.I.XII.122, 93. 135 FRANCO ARATO quenza, De universae
et praecipue grecae eloquentiae originibus. Le lingue fornite di casi, antiche
o moderne, paiono piü espressive perché, chiosa C. con metafora diversa e
complementare rispetto a quella condillachiana, forniscono col periodo una
specie di concerto imitativo e graduato di suoni corrispondenti alla scala del
sentimento; ció che col sapiente uso della prolessi puó fare persino la lingua ch'é
la più schizzinosa fra le moderne, cioè la francese*. Le osservazioni sulla
forma espressivoimitativa del linguaggio conducono dunque senza soluzione di
continuità alle considerazioni d'ordine culturale, anzi antropologico,
condensate nel concetto, ben settecentesco, di genio della lingua. Il capitolo
relativo al relativismo linguistico è il più vulgato (spiega con un po’ di
ironia il nostro scrittore: questo [genio] è il nome che domina nella bocca di
chiunque favella di tali materie ), e forse anche il più controverso. Sottile è
la distinzione che C. introduce, a correzione o meglio integrazione di quanto
scritto da Condillac, tra genio grammaticale e genio retorico: [il genio della
lingua] è di due specie, vale a dire, grammaticale, e rettorico. Per mancanza
di questa distinzione, e di qualche altra, parmi che Condillac, trattando lo
stesso argomento, non abbia fatto spiccare in tutto il suo volume la sua solita
aggiustatezza e sagacità. Il genio della lingua, che dee riguardarsi come
propriamente inalterabile, è il grammaticale, poiché questo è annesso alla
natura intrinseca de’ suoi elementi. Ma il genio rettorico, derivando da
principi diversi, non può avere come l'altro una rigidezza immutabile. Esso è,
non v'ha dubbio, il risultato 35. Cfr. quanto dice nella terza lezione
sull’ordine emotivo e su quello logico-sintattico della frase: C. (1810c 174-5):
Pueros sane qui primitus non nisi interiore adigente stimulo in voces erumpunt,
quae tandem cumque iis vernacula lingua sit, metathetica semper syntaxi uti
videas, eosque Italice aeque ac Latine pomum velle se, non sese velle pomum
clamantes exaudias; quemadmodum per id tempus quo aut vocum ignoratione, aut
organorum imbecillitate sensa gesticulationibus exprimunt index appetentiae gestus,
in appetitam rem, non in personam appetentem, intenditur; a specchio cfr.
Condillac (19472, ILI.IX.84, 83): quand on commença à suppléer à l'action par
les moyens des sons articulés, le nom de la chose se présenta naturellement le
premier, comme étant le signe le plus familier. Cette manière de
s'énoncer étoit la plus commode pour celui qui parloit, et pour celui qui
écoutoit. Elle l'étoit pour le premier, parce qu'elle le faisoit commencer par
l'idée la plus facile à communiquer; elle l'étoit encore pour le second, parce
qu'en fixant son attention à l'objet dont on vouloit l’entretenir, elle le
préparoit à comprendre plus aisément un terme moins usité et dont la
signification ne devoit pas étre si sensible. Ainsi l'ordre plus naturel des
idées vouloit qu'on mît le régime avant le verbe: on disoit par exemple fruit
vouloir. 36. C. del modo
generale di concepire, di giudicar, di sentire che domina presso i vari popoli,
quindi il genio della lingua è propriamente l’espressione del genio nazionale.
I carattere d'una lingua, dice il Condillac, dura più a lungo dei costumi del
popolo, ma nel corso di questo ragionamento parmi d’aver mostrato abbastanza se
questa supposizione sia ben fondata o gratuita. Nello stesso passo cade in
bella evidenza il nome di Helvétius, a proposito del linguaggio proprio della schiettezza
repubblicana opposto alla politezza
lusinghiera obbligatoria nelle corti, con la chiosa: non appartiene al mio
assunto il diffondermi su questo articolo e sarebbe ormai vano il farlo, dopo
che Elvezio lo pose nella più profonda e trionfante evidenza. Accanto al nome
del più radicale alfiere del deismo francese (autore all’ Indice, che per altro
C. ebbe caro) c’è poi menzione di tutt’altro scrittore, l'ex gesuita spagnolo,
ma ormai italianizzato, Esteban Arteaga, il teorico della bellezza ideale e
storico del teatro musicale. Arteaga, annotando la Dissertazione sul gusto
tenuta dall’accademico mantovano, nipote di Bettinelli, Matteo Borsa, s'era
soffermato sulla necessità inevitabile delle alterazioni successive della
lingua 4°, introducendo un principio
dinamico e storico che è particolarmente caro a C. (si noti che qualche pointe
anti-italiana di Arteaga, che C. finge di non vedere, aveva destato il dispetto
di molti, a partire da Tiraboschi). La distinzione tra i due genii non è forse
un’obiezione decisiva, ma piuttosto una sottolineatura: perché 38. Ivi 163-5.
Il tema è trattato diffusamente in Condillac (19472, ILI.XV 98-104). 39. C. (1800, 65). Il
riferimento è (credo) a Helvétius, De l'esprit, terzo discorso: Si l'Italie fut
si féconde en orateurs, ce n’est pas, comme l'a soutenu la savante imbécillité
de quelques pédants de collège, que le sol de Rome fût plus propre que celui de
Lisbonne ou de Costantinople à produire de grands orateurs. Rome perdit au méme
instant son éloquence et sa liberté: cependant nul accident arrivé à la terre
n’avoit, sous les empereurs, changé le climat de Rome. À quoi donc attribuer la
disette d’orateurs, où se trouvèrent alors les Romains, si ce n’est à des
causes morales, c’est-à dire, aux changements arrivés dans la forme de leur
gouvernement? (Helvétius, 1758 461-2).
Sulla fortuna di Helvétius in Veneto: Piva (1971); specificamente su C., che
tra l'altro riecheggia il francese nel Saggio sul bello: pp. 243-4 e 430-7. 40.
C. (1800, 165). Si prenda in particolare questa affermazione dell'Arteaga (che
discute con Borsa dei neologismi e dei forestierismi): Le lingue sono in una
perpetua e inevitabil vicenda. Destinate nell'uomo ad esser l'organo della
sensitività di cui palesano esternamente gli effetti; della fantasia, di cui
manifestan le immagini; delle passioni, di cui esprimono i gradi, la mescolanza
e la forza; dell’intelletto, di cui rappresentano le relazioni e l’idee; esse
debbono necessariamente subire le metamorfosi di quelle facoltà, alle quali
servono di strumento, somiglianti appunto all’ago di un orologio, che nel
rivolgersi lentamente attorno al suo quadrante altro non fa, che seguitare
l’impulso di quelle ruote nascoste che ne regolano il movimento (Borsa, 1785 89-90).
135 FRANCO ARATO in più luoghi Condillac tocca il tema della mutabilità delle
lingue, e del legame profondo tra lingua e culture nazionali. È piuttosto
un'occasione storica quella che suggerisce a C., nell'edizione del 1800 del
Saggio, questa amara noticina aggiuntiva e correttiva: E tuttavia cangia un
popolo di filosofi umanissimi e di gentilissimi cortigiani in un gran club
d'eroi sanculottici, e al molle frasario del bon ton sostituisce i termini
originali e sublimi di terrorismo, guigliottina, settembrizzare, ec. ec., i
quali saranno un ornamento singolare nei glossari della lingua e della storia
politica*. Evidentemente i venti della storia erano stati capaci di modificare
in un lampo, e con sgomento generale, un'indole, una lingua, una civiltà: davvero
non c'era genio retorico che potesse salvare, e spiegare, le catastrofi (o
rivoluzioni) della storia. Non era forse mancato a suo tempo in
Condillac un po' di sciovinismo: nous n'avons commencé à écrire bien en latin
que quand nous avons été capables de le faire en français. D'ailleurs, ce
seroit bien peu connoître le génie des langues, que de s'imaginer qu'on put
faire passer tout d'un coup dans les plus grossières les avantages des plus parfaites:
ce ne peut être que l'ouvrage du tems *. Lingue grossolane? Lingue raffinate? Il nostro odierno
ecumenismo ci impedisce quasi un tal pensiero. Naturalmente la lingua perfetta
per molti, forse anche per Condillac, era il francese, e per i francesi la
crisi vera o presunta della cultura italiana risultava depositata con evidenza
anche nella lingua. Nei rischiaramenti apologetici apposti all’edizione del
Saggio C. torna su questo punto, prendendo di petto quella che vichianamente si
può chiamare la boria delle nazioni (e nella fattispecie anche boria dei
professori). A mo’ di elenco: la nausea di tanti grecisti per tutto ciò che non
era greco, i vilipendi dei latinisti alla lingua italiana, il purismo
persecutore degli infarinati, i panegirici ridicolmente trasmodati della lingua
francese, e gl'improperi fatti alla nostra dal Bouhours, le ingiustizie fatte
alla stessa dal Condillac, e le impertinenze d’alcuni nostri folliculari e
faccendieri di letteratura dette in onor della nostra lingua contro la
francese, e contro i più celebri scrittori di Francia. Queste sono le gare che
meritano il titolo di vanità pedantesche * (si noti il non involontario
francesismo: fo/liculaire vale, si sa, ‘giornalista da strapazzo). Non nell’
Essai ma altrove troviamo le riserve di Condillac sulla vitalità dell'italiano
moderno. Per esempio, nel Discours di esordio 41. C. (1800, 165, nota n). 42. Condillac
(19472, I1.1.XV.148, 100). 43. C. all’Académie (22 dicembre 1768)
dove, pur riconoscendo il primato dell’Italia umanistica e rinascimentale,
additava i guai del cattivo gusto moderno (barocco), schivati, a suo dire, dal
classicismo cartesiano: Les génies à qui l'Italie doit la renaissance des
lettres ont d'autant plus de mérite, qu'ils ont eu à lutter contre les préjugés
qui faisoient durer les études du quinzième siècle; car l'Italie étoit
tout-à-la-fois le théâtre du bon goût et d’un goût dépravé, de la saine
philosophie et du jargon des sectes, de la raison qui s'éclaire par
l'observation et de l'opinion qui craint d'observer. Plus heureux que les
italiens, parce que nous sommes venus plus tard, notre langue s'est
perfectionnée dans des circonstances plus favorables: c'est dans le
dix-septième siècle, lorsque les disputes sans nombre, élevées dans le
précédent, commençoient à cesser, ou que du moins on ne les soutenoit plus avec
le méme fanatisme. L'admiration pour les anciens étant mieux raisonnée, et par
conséquent moins exclusive, la langue françoise attira l'attention des
meilleurs esprits**. Allo
scadere del secolo s'era ormai esaurita la polemica che a inizio Settecento
aveva imperversato, tra picche e ripicche, dentro e fuori l'Arcadia, dentro e
fuori le accademie di Francia e d'Italia: quella vecchia logomachia a C. ormai
poco importava. La contesa con la letteratura vicina, attraente e concorrente,
celava adesso veleni diversi. Nel già menzionato Saggio sopra le istituzioni
scolastiche C. prova a ragionare, dal cosmopolita che era (anche se visse
sempre in Italia), sulla contraddizione tra la necessità di aprirsi alle lingue
straniere e il pericolo, per lo scrittore, di perdere la propria anima, il
proprio genio: Sembra che quanto più si conosce delle lingue altrui più
s'acquisti di mezzi per aumentare e perfezionare la propria; se non che le
nazioni per indole, clima, instituti tra loro dissociate e discordi hanno anche
nella lingua un carattere più o meno disanalogo e perció mal atto a formar
insieme quell'unità ed armonia di lineamenti da cui dipende la fisionomia
nazionale d'una lingua; il rischio era allora, soprattutto peri giovani, malavveduti
e mal esperti, quello di formare un guazzabuglio di linguaggio babelico. La
lingua più celebre tra quelle d'Europa 5, che rischiava d'adulterare
l'italiana, non era nominata, ma ognuno sapeva essere il francese: che
deteneva, anche in termini politici, la forza imperialistica che oggi è
meritato appannaggio dell'inglese*s. Torniamo dunque al punto di partenza. Dal
Condillac, 44. Condillac (1947b 391-2). 45. C. (1808, pp53-4). 46.
Sull'argomento, in termini generali: Marazzini cronologicamente non cosi vicino
(era morto nel 1780) ma ancora incombente, il padovano aveva imparato molto in
termini filosofico-dialettici, ma aveva provato a emanciparsi dal modello,
proponendo una visione un po’ più dinamica della creatività linguistica. La
maggior età raggiunta risalta forse nel programma di riforma linguistica che C.
esprime con suggestiva parenesi rivolgendosi in una Lettera in qualche modo
conclusiva proprio al Galeani Napione: voi [italiani] non sarete più schiavi né
dei dizionari né dei grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né
francesisti né cruscanti; né imitatori servili né affettatori di stravaganze;
sarete voi; voglio dire italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale
d’una lingua libera e viva, e la improntano delle marche caratteristiche del
proprio individual sentimento #7. Un vecchio rimbrotto, una vecchia promessa,
sì, ma che vale (mi chiedo) anche per l’oggi? Riferimenti bibliografici
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Opere dell'abate Melchior Cesarotti padovano, vol. xxx1: De lingua et
eloquentia praecipue graeca acroases in Patavino Archigymnasio publice habitae,
typis Molini, Landi et Soc., Pisa. 47. C. (1800 297-8).ID. (1810c), De
universae et praecipue grecae eloquentiae originibus, in Opere dell’abate
Melchior C. padovano, vol. xxx1: De lingua et eloquentia praecipue graeca
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Discours sur les sciences et les arts. Discours sur l'origine de l'inégalité,
édité par J. Roger, Garnier-Flammarion, Paris. 139 Parte terza Questioni Per un commento al
Saggio sulla filosofia delle lingue: le idee accessorie di Andrea Dardi* Per
poter interpretare adeguatamente il Saggio sulla filosofia delle lingue di
Melchiorre C. (fatto salvo il giudizio ormai assodato sul rilievo letterario
dell’opera, che ne fa il capolavoro dell’autore e della prosa argomentativa del
secolo), per valutarne il grado di originalità, per evitare di trasporlo
abusivamente in parametri correnti, è necessario un preliminare lavoro di
ambientazione storica, a tutt'oggi appena avviato. Ambientazione nella linguistica
settecentesca, soprattutto francese, con le sue assunzioni filosofiche, che di
regola nel xv secolo significano sostituzione di principi astratti o di
ricostruzioni ideali alla concretezza delle ricerche storico-filologiche:. La preoccupazione
ontologica impediva allora di considerare il segno nella sua pura funzionalità
sincronica e faceva sì che il problema del segno si affacciasse sempre in
funzione glottogonica;, il che spiega la confusione o, se si vuole, la fusione
tra sincronia e diacronia, fra piano fenomenologico e profilo genetico*. E un aspetto
metodologicamente determinante del pensiero sensistico che spiega, per esempio,
il trattamento della motivazione, centrale nell'opera C.ana, o quello del
significato. Inoltre, nella discussione sei-settecentesca sulla lingua, fatti
propriamente linguistici e fatti retorici o stilistici s'intrecciano spesso,
inclinando verso una in* Università di Firenze. 1. E in generale, come dice da
par suo Nencioni (1983, 31) a proposito di C. e di Leopardi, il pensiero, la
sensibilità linguistica di quegli autori non son riassumibili e quindi
trasponibili nella nostra terminologia senza il pericolo e direi la probabilità
di falsarli. 2. Droixhe (1978, p. 149). Scrivendo nel luglio 1780 a un
perplesso Clementino Vannetti C. evocava il senso esquisito della bellezza
intrinseca dei termini, l’analisi filosofica del loro valore (C., 1946, p.
287). 3.
Pagliaro (1957, p. 209). 4. I grammatici dell Encyclopédie n'établissent pas de
distinction méthodologique entre une linguistique synchronique et une
linguistique diachronique, giacché la diachronie est intégrée à la grammaire
descriptive synchronique (Swiggers, 1984
40-1); per C. cfr. Brioschi (2002), da cui è tratta (p. 544) la citazione
seguente. 143 ANDREA DARDI différenciation progressive entre les questions
rhétoriques et les questions de langue. Le tendenze generali della linguistica europea si complicano in
Italia per l’incombere della questione della lingua (aveva perfettamente
ragione Rosiello ad affermare che non si ebbe [nell'Italia del xvIn secolo]
un'elaborazione di teorie linguistiche totalmente autonoma dai temi posti dalla
questione della lingua 5), alla quale
non sfugge nemmeno il trattato C.ano, il cui scopo dichiarato è di fornire
criteri per migliorare, perfezionare, rettificare l'uso della lingua letteraria
d'Italia. La sua implicazione nelle maglie della secolare questione? ne
determina certe caratteristiche rispetto al contemporaneo dibattito europeo. Si
pensi, per limitarci a un esempio, alla discussione sull’uso, in cui C.
attinge, largamente citandolo?, a Marmontel, senza avvertire che l’usage, la
langue usuelle, che fa da sponda all’argomentazione di Marmontel, è il parlare
cronologicamente e sociologicamente circoscritto della corte, dont le langage
roule sur un petit nombre de mots, e del monde poli et superficiel, qui suit
l'exemple de la Cour'°, mentre l’uso invocato da C. manca di una determinazione
precisa. Va riconosciuta infine, anche se l'affermazione andrebbe motivata e
circostanziata, la debolezza del cóté filosofico del C., eclettico e
oscillante, approssimativo nella terminologia, scarsamente rigoroso. s. Siouffi
(2010, p. 315). 6. Rosiello (1965, p. 376). 7. C. (1785): alcune opinioni, che
impediscono costantemente il miglioramento della lingua medesima (p. 1); niuna
lingua è perfetta, ognuna non per tanto può migliorarsi (p. 7); condiscendere
all'uso, o rettificarlo (p. 20); migliorar l'uso (p. 114); con che si reztifica
l’uso, e si perfeziona la lingua (p. 77) ecc. (corsivi nostri). 8. Il Saggio
segna, secondo Mazzoni (1887, p. 136), il terzo momento capitale della
questione cominciata con Dante. 9. Cfr. C. (1800 259-61). 10. Marmontel (1785,
p. 19). 11. È difficile, pur senza condividerlo pienamente, disconoscere il
fondo di verità che sta nel parere di Berengo (1956, p. 188): L'intensa
familiarità col pensiero dei philosophes è stata per lui [C.] un’esperienza di
gusto che non si è convertita in adesione interiore, né ha infuso nella sua
opera una più vigorosa e combattiva vitalità; giudizio che in sostanza
riecheggia quello notissimo di Croce. L'adesione assoluta di Nencioni (1983, p.
7) in un saggio famoso del 1950, Quicquid nostri praedecessores.... Per una più
piena valutazione della linguistica preascoliana (Si risalga al C., vero e
grande iniziatore del nostro moderno pensiero linguistico, proprio in virtù del
suo vasto ed organico speculare assurto alla dignità di disciplina autonoma,
indipendente sia dalla questione della lingua che dalla filologia), si
giustifica in particolare col riconoscimento del decisivo merito C.ano
nell'allargare all Europa l'orizzonte culturale italiano. Non si dimentichino,
sulle contraddizioni del Saggio, le affilate pagine del Sentir messa di Manzoni
(1990 244-6, 259). 144 PER UN COMMENTO AL SAGGIO SULLA FILOSOFIA DELLE LINGUE
Come contributo a un auspicato commento storico al Saggio cesarottiano (di cui
manca ancora un'edizione critica) ci occuperemo qui di un fatto apparentemente
secondario, di quelle che C. chiama idee accessorie 0 sensi accessori, cercando
di precisarne la nozione e di ricostruirne la genesi. Intanto ne trascriviamo
tutte le occorrenze utili del Saggio, numerandole progressivamente per
comodità: i Rettorica è quella parte [della lingua] che oltre all’istruir
l’intelletto, colpisce l'immaginazione, né contenta di ricordar l’idea
principale, la dipinge, o la veste, o l’atteggia in un modo più particolare o
più vivo, o ne suscita contemporaneamente altre d’accessorie,lequali oltre all
oggetto indicato dinotano anche un qualche modo interessante di percepirlo, o
un grado di sensazione che comunica una spezie d’oscillazione al cuore o allo
spirito di chi ci ascolta (C., 1785, p. 21). 2. I termini oltre il senso
diretto ne hanno spesso un altro accessorio di favore o disfavore,
d'approvazione o di biasimo: questo secondo senso ora è intrinseco, ed ora estraneo.
Intrinseco quando risulta dalla derivazione originaria del termine; estraneo
quando le viene appiccato dall’uso o dal capriccio degli ascoltanti.
L'accessorio intrinseco non può cancellarsi se non si cancella l'etimologia del
vocabolo, ma l'estraneo può abolirsi, o quando il vocabolo passa da una nazione
all'altra, o anche nella nazione stessa col progresso del tempo, e talora uno
Scrittore riabilita l'onor d'un termine, usandolo con desterità e collocandolo
acconciamente. Il senso accessorio è quello che distingue fra loro le voci
sinonime, e la conoscenza di questo doppio senso è una parte essenziale del
Gusto (ivi, 41). 3. Daciósirileva l'estrema difficoltà di giudicar
adeguatamente delle opere scritte in una lingua morta o straniera, riuscendo
spesso impossibile di conoscer con precisione qual fosse allora lo stato
attuale e individual dei vocaboli, quale il senso accessorio predominante, se i
colori delle metafore fossero vivaci o sfumati, e se le voci derivative
conservassero l'impronta originaria, o se questa fosse già corrosa dall'uso, e
ridotta a segno indistinto (ivi, 44). 4. scemandosi la memoria della prima
origine la voce fronder non risvegliò più le stesseidee accessorie che ne
facevano il principal merito (ivi, 57). s. Gli altri [modi] son quelli che
dinotano un modo particolar di percepire o di sentire in chi parla, ed insieme
coll'idea principale risvegliano per mezzo della struttura l'idee accessorie di
delicatezza, d'ingegnosità, di rapidità, o simili altre che l'accompagnano
nello spirito del parlatore (ivi, 70). 6. Non è meno desiderabile la duplicità
dei termini nelle nozioni morali, al di cui vocabolo è annessa dall’uso l’idea
accessoria di lode o di biasimo, benché la cosa vi sia per se stessa
indifferente, né si accosti all’innocenza o alla colpa che per l’oggetto, le
misure, o le circostanze. La compiacenza deliziosa d’un uomo onesto per le sue
azioni virtuose non ha un titolo preciso che la distingua dalla superbia; 145
ANDREA DARDI né la giustizia che un Socrate rende tranquillamente a se stesso è
segnata con un carattere proprio, e diverso dalla millanteria d’un Trasone:
quindi è facile al volgo e all’anime basse o maligne di dare ai sentimenti
nobili il color del difetto o del vizio. La voce voluptas dei Latini screditò
più del dovere la dottrina moral d’Epicuro: i vocaboli amor proprio, interesse,
lusso, usura, passione, presi costantemente in senso vizioso generarono idee
false, persecuzioni pericolose, declamazioni violente (ivi 812). 7. I Sinonimi
sono assai minori di numero di quel che si pensa. Abbiamo osservato di sopra
che molte voci sinonime nell'idea principale son diverse nella ccessoria, né
possono usarsi indistintamente. Il conoscerne le differenze è spesso opera di
molta finezza e sagacità (ivi, 83). 8. Ma presso una nazione che ha una
Capitale, e una Corte, gli Scrittori sono men liberi, el'idee accessorie
trionfano delle principali (ivi 86-7). 9. Magl’Idiotismi Rettorici essendo di
natura diversa possono e debbono meritare qualche privilegio. Sono essi
configurazioni espressive, che accennano idee accessorie,atteggiano i
sentimenti, e ne rappresentano i diversi gradi, e il modo particolare con cui
ci affettano (ivi, 117). 10. Il Secondo Vocabolario [quello fornito solo del
necessario, per uso giornaliero di chi vuole intendere e maneggiare la lingua
scritta ] potrebbe ordinarsi, secondo il solito, per alfabeto: ma il fondo
attuale domanda d'esser migliorato in più guise. Vuolsi Notar nei vocaboli non
meno il senso accessorio che il principale (ivi 164-5). 11. No, non dee
credersi d’aver il vocabolo quando non si ha che un termine solo per un oggetto
di molte facce; non dee credersi d’aver nella nostra [lingua] un equivalente
della straniera, quando l’idea dell’una è più ristretta o più estesa; quando la
nostra non presenta che un’approssimazione, un’analogia vaga e generale, quando
coll'idea principale non si conserva l'accessoria, o quando l'uso fra noi ve ne
ammetta un’altra diversa, e talora opposta di lode o di biasimo, di nobiltà o
di bassezza (C., 1800 264-5). 12. Altro è quello [stile] che al presente sembra
aver fissato il gusto dell’ Europa. Ella è da qualche tempo avvezza ad esigere
che i sentimenti abbiano più sostanza che diffusione, che la sentenza sia
vibrata a guisa di strale da una energica brevità, che l’idea principale sia
fiancheggiata utilmente dalle accessorie (ivi, p.276). La nozione di idee
accessorie rappresenta una svolta capitale nella considerazione delle lingue e
nella formazione di una semantica. Per suo mezzo si scardina la corrispondenza
lingua-pensiero propria del razionalismo 12. Qualche altro esempio presente in
altre opere lo citeremo all'occorrenza. secentesco, s introducono la
consapevolezza che il contenuto logico non costituisce l’intero senso del segno
e il riconoscimento della stretta associazione, nella determinazione del senso,
tra processi cognitivi e risonanze affettive: il logicismo integrale della
lingua specchio del pensiero si rivela illusorio, una volta che l’evocatività
partecipi alla comunicazione allo stesso titolo della razionalità. La nozione,
che nasce in un contesto di idee chiaramente mentalistico e introspettivistico,
quale quello dei Signori di Porto Reale, si trova esposta per la prima volta'
nella Logique di PortRoyal (1662), dove i giansenisti Arnauld (1612-1694) e
Nicole (1625-1695), riprendendo forse un'intuizione pascaliana5, osservano che
il significato non esaurisce l'impressione che le parole fanno nello spirito: les
mots signifient souvent plus qu'il ne semble il arrive souvent qu'un mot outre
l'idée principale que l'on regarde comme la signification propre de ce mot,
excite plusieurs autres idées qu'on peut appeller accessoires, ausquelles on ne
prend pas garde, quoique l'esprit en reçoive l'impression. Queste idee
secondarie, che non sempre arrivano al livello della coscienza'5, possono anche
essere di natura extralinguistica, contingenti e dipendenti dall'occasionalità
del contesto comunicativo (situazione, tono, gesto ecc.), ma quelquefois ces
idées accessoires sont attachées aux mots mêmes, parcequ elles s’excitent
ordinairement par tous ceux qui les prononcent, sono dans l'usage, cioè, diremmo oggi, sono fatti
di langue e non di parole. Esse aumentano la densità del segno, diversificando
i significati al punto che sareb13. De Mauro (1966 193-4). Si veda anche
François (1939), Donzé (1967 55-7), Scaglione (1972 196-7) e Dominicy (1984, 132),
il quale avverte che lo statuto teorico delle idee accessorie non è mai stato
fatto oggetto di uno studio specifico. 14. Non pare che l’idea sia anticipata come
vuole De Mauro, loc. cit. nella Grammaire générale et raisonnée di
Arnauld e Lancelot, in cui si parla sì di connotation come signification
confuse, ma a tutt'altro proposito: cfr. Arnauld, Nicole (1660 31-2); Droixhe
(1978, 356) osserva che il cartesianesimo mette in evidenza l’idea di
connotazione pour condamner ces zones obscures de la représentation, dont la
vocation est d’étre claire et distincte; cfr. anche Rosiello (1967 122-4). 15. Pascal (1866, 105): Un
même sens change selon les paroles qui l’expriment. Les sens reçoivent des
paroles leur dignité, au lieu de la leur donner. Cfr. Ricken (1978 32-4). 16. Ci sembra
particolarmente significativa, in un contesto cartesiano di totale chiarezza
comunicativa, l’idea che il linguaggio, insieme ai contenuti espliciti, possa
veicolare oscuri messaggi subliminali, idea che tornerà spesso nel corso del
secolo. Si
veda, oltre a alcuni passi che citeremo più avanti, Encyclopédie (17654, 312)
sv. horreur: Nous transportons tous cette horreur aux choses mêmes. L’ horreur
prise en ce sens, vient moins des objets sensibles, que des idées accessoires
qui sont réveillées sourdement en nous (nostro il corsivo dell’avverbio). 147
ANDREA DARDI be utile che i lessicografi les marquassent, et qu’ils
avertissent, par exemple, des mots qui sont injurieux, civils, aigres,
honnêtes, des-honnétes. Gli autori allargano il discorso, con un salto logico,
alle espressioni figurate, in quanto esse manifestano al tempo stesso il
messaggio e la passione dell’emittente (les figures expriment les mouvemens de
notre ame): C'est encore par là qu'on peut reconnoître la difference du stile
simple et du style figuré, et pourquoi les mémes pensées nous paroissent
beaucoup plus vives quand elles sont exprimées par une figure, que si elles
étoient renfermées dans des expressions toutes simples. Car cela vient de ce
que les expressions figurées signifient outre la chose principale, le mouvement
et la passion de celui qui parle, et impriment ainsi l'une et l'autre idée dans
l'esprit, au-lieu que l'expression simple ne marque que la verité toute nue. Nelle poche dense pagine dedicate da Arnauld e
Nicole alle idées accessoires sono già presenti alcuni dei temi che verranno
sviluppati nel secolo seguente. Resta per ora marginale, ma frutterà più
avanti, il motivo della storicità della connotazione, invocato a proposito del
fatto che i padri della Chiesa si sono serviti tranquillamente di vocaboli come
/upanar e meretrix, del che sarebbe assurdo accusarli, poiché è evidente qu'ils
n'étoient pas estimés honteux de leur temps, c'est-à-dire, que l'usage n'y
avoit pas joint cette idée d'effronterie qui les rend infames *. Viene invece
lasciato nel vago il diverso statuto dell’ idée principale, della signification
propre, e delle accessorie, che sembra istituire una gerarchia tra i componenti
del significato. 17. Parte 1 cap. XIV, in Arnauld, Nicole (1965 93-9). Non ci
occupiamo qui di un secondo tipo, del tutto diverso, di idee accessorie
esaminato nel cap. xv (pp. 99-102), per cui cfr. Donzé (1967 55-7). 18.
Arnauld, Nicole (1965, 99). 19. Rimando per questo a Auroux (1979 268 ss.) e a
Swiggers (1980). Si puó dire in generale che la teoria del significato nella
linguistica sei-settecentesca non faccia grandi progressi, forse proprio a
causa della confusione tra sincronia e diacronia di cui si diceva. Si vedano
per esempio Beauzée e Douchet nell'art. Grammaire dell Encyclopédie (1757 843-4),
i quali distinguono il sens fondamental (celui qui résulte de l'idée
fondamentale que l'usage a attachée originairement à la signification de chaque
mot), il sens spécifique (la categoria grammaticale) e il sens accidentel (le
modifiche della parola nell'ordine enunciativo), e le osservazioni di Auroux
(1973 41-9 e 76-7). Nell'art. Mot Beauzée cambia la terminologia ma non la
sostanza, chiamando signification objective il sens fondamental, mentre nella signification
formelle l'idea principale corrisponde al sens spécifique e le idee accessorie
costituiscono il sezs accidentel (Encyclopédie, 1765c, 761). Il senso fondamentale,
come si vede, rimane un dato inanalizzato. Ricollegandosi alla Logique? ritorna
più brevemente sull'argomento nel 1675 un'opera fortunatissima uscita dallo
stesso ambiente portorealista, la Rhétorique di Bernard Lamy (1640-1715), che
ne tratta fra les actions de notre âme: Il y a des noms qui ont deux idées. Celle qu'on doit nommer
l'idée principale représente la chose qui est signifiée; l'autre, que nous
pouvons nommer accessoire, représente cette chose revétue de certaines circonstances.
Lamy spiega che le parole finiscono per contrarre stabilmente colorazioni
addizionali per quelli che Bally chiamerà effets par évocation, in quanto
evocano i contesti e gli ambienti in cui vengono usate abitualmente e in cui
perdono la loro innocenza originaria: avant la corruption universelle des
hommes, ou dans les temps qu’on vivait plus simplement, on avait plus de
liberté de nommer les choses par leur nom *. L’ évocation du milieu dei
vocaboli è individuata con precisione qualche anno più tardi da Houdar de la
Motte (1672-1731), che nel Discours 4 l'occasion des Macchabées (1730) scrive:
Il y a dans une même langue deux ordres differents de tours et d’expressions
qui caracterisent les grands et le peuple. Les uns exprimeront au fond la même
chose que les autres, sans emploïer précisement les mêmes termes; ainsi outre l’idée
principale qu'un tour ou qu'un mot présente, il réveille encore l'idée
accessoire de l'éducation et du rang de celui qui parle. Da allora la trattazione delle lingue non
prescinderà più, almeno nel dibattito francese settecentesco, dalla nozione di
idées accessoires, che arricchendosi e complicandosi, costituisce un operatore
efficace nel complexifier la structure signifiante du mot?*. L'orientalista e
teologo cartesiano Jean Pierre de Crousaz (1663-1750), nel Système de
reflexions (1712), osserva che la difficoltà di definire esattamente il
significato dei vocaboli è aggravata dal fatto che les mots servent à exprimer
deux sortes d’idées, les principales et les accessoires. L'idée principale c'est
l'idée de la chose même, c'est l'idée d'un certain fonds qui demeure toüjours
le méme nonobstant la varieté des circonstances qui l'accom20. Cfr. Ricken (1978 54-5). 21. Bally (1951 96
ss.). 22. Lamy (1998 90-1). L'edizione Timmermans riproduce la stampa
definitiva del 1715 con le varianti delle precedenti. La prima (1675) nel passo
citato non ha differenze sostanziali. 23. Houdar de la Motte (1730, 54). 24. Auroux (1973, 42).
149 ANDREA DARDI pagnent. Mais outre cette idée principale un mot a la force
d’en reveiller d’autres, il renferme les circonstances qui accompagnent le
fonds, et il renferme aussi les sentimens dans lesquels celui qui parle a
regardé ce fonds et ces circonstances. In caso d’incertezza comunicativa si pud chiedere al parlante di
chiarire il senso delle sue espressioni e, quando si ha che fare con una lingua
vivente, si può ricorrere a dizionari e maestri. Mais quand on lit un
Livre ancien écrit dans une langue morte, il y a plus de façon à découvrir au
juste la force de ses termes, car les idées accessoires varient; dans une méme
langue et chez un méme peuple, la force des mots change avec le tems. Il faut
donc être sur ses gardes pour ne point prêter aux Auteurs, des pensées qu'ils
n'avoient pas, et sous prétexte que leurs expressions ressemblent aux nôtres,
on n'en peut pas d'abord conclurre qu'ils pensoient comme nous. Si l'on
n'interprete pas avec cette précaution les Auteurs, et si l'on suppose
temerairement que leurs expressions avoient autrefois la méme force précisément
qu'elles ont chez nous, on se remplira à tout coup de chimeres et l'on fera
dire au plus raisonnable des extravagances. È una notazione di considerevole
rilievo, che storicizza e relativizza la percezione moderna dei testi antichi e
classici, a cui è opportuno avvicinare un altro luogo dello stesso Crousaz,
dove l’instabilità del tono affettivo, asserita come un fatto generalmente
ammesso (on sait...), è vista come motore di cambio semantico: Tous les termes
sont par eux-mêmes des sons indifférens: Ils deviennent honnêtes, ou
deshonnêtes, et on peut les employer, ou l’on doit s’en abstenir, suivant les
idées accessoires qu'ils reveillent: Or on sait que les idées accessoires
varient; Tels termes et tels tours d'expressions qui, dans un tems, ne
présentoient à l'esprit que des idées vagues, et ne lui faisoient voir de
certains sujets que comme en éloignement, n'attiroient sur eux qu'une attention
legere, ont acquis dans la suite du tems, une force, qu'ils n'avoient pas
d'abord, ils ont présenté un plus grand nombre d'idées, ils ont frappé plus
vivement l'imagination et ont fait regarder ceux qui s'en servoient comme des
personnes trés-peu scrupuleuses sur le chapitre de l'honnéteté. 25. Crousaz (1712, 1, 334). Su Crousaz si veda
Pizzorusso (1968 325-49). 26. Crousaz (1712, I 335-7). Nell'edizione del 1725,
intitolata La logique ou système de reflexions... (L'Honoré et Chatelain,
Amsterdam), 11 69-87, Crousaz arricchisce la trattazione di numerosi esempi.
27. Crousaz (1733, 258); su questo passo ha attirato l'attenzione Pizzorusso
(1968, 337, nota). Cfr. ancora Crousaz (1715, 161), in cui tra i pregi dell
oratore si annoverano le style serré, et les termes feconds en idées
accessoires. Per chiarire l'allusione all’ honnêteté ISO Le idee di Crousaz si
ritrovano ne Les agrémens du langage del filosofo, matematico e moralista
Etienne-Simon de Gamaches (1672-1756). Dopo aver osservato che lo stile mediocre
richiede delle expressions qui n’ont aucune idée accessoire, ny d'élevation, ny
de bassesse attachée à leur signification propre, e pur rilevando che les mêmes
idées accessoires ne sont pas toûjours attachées aux mêmes mots, Gamaches
continua: Le style doit donc être sujet à des vicissitudes continuelles; aussi
n’a-t-il de caracy tere marqué que relativement à l'usage. De-là vient
l’incertitude de nos jugemens quand nous voulons prononcer sur la maniere
d'écrire de ceux qui nous ont precedé. Nous scavons ce qu'ils ont pensé, mais
nous ignorons quelles étoient les idées accessoires attachées de leur tems aux
expressions dont ils faisoient usage. Quando si leggono testi di autori più antichi o classici è
inevitabile dunque una sfasatura percettiva, al punto da insinuare il sospetto
che la tanto decantata semplicità degli antichi sia una illusione ottica dei
moderni: il loro stile, infatti, ci apparirà moins recherché del nostro poiché
le grazie della novità che ornavano il loro dettato ont dù changer de caractere
en passant jusqu'à nous; l'usage les a rendu communes et familieres, et par là
leur a fait perdre leur éclat, et les a dégradées. C'est apparemment à quoi
ne prennent point garde ceux qui font un merite aux anciens de cette simplicité
que nous remarquons dans leurs écrits *. L'idea che, per l’instabilità dell'intonazione affettiva delle
parole, non sia possibile valutare pienamente l'effetto di una lingua morta,
con la convinzione che ne consegue che come dirà Houdar de la Motte il n'y
a que les langues vivantes qui puissent s'apprendre au point qu'il faut pour
juger en détail de l'élégance d'un auteur , diventerà un argomento topico dei
traduttori settecenteschi per suffragare le loro pesanti manipolazioni dei
testi classici. Tra le infinite testimonianze che si potrebbero citare valga
quella di Guillaume Dubois de Rochefort (1731-1788), che traducendo l’ Iliade
nel 1767 (ed. definitiva 1772) mise le mani avanti: si ricordi quanto abbiamo
detto sopra sull'uso nei padri della Chiesa di parole che significano azioni
infami o disoneste, e si veda Beauzée in Encyclopédie (1765c, 761) alla voce
Mot: C'est sur la distinction des idées principales et accessoires de la
signification objective, que porte la différence réelle des mots honnêtes et
deshonnétes. 28. Gamaches (1718 261-4). Cfr. qui sopra il passo n. 3 del C. e,
più largamente, C. (1785 44-5). Sul Gamaches cfr. Pizzorusso (1968 351-99),
Droixhe (1978 310-1). 29. Houdar de la Motte, Réflexions sur la critique (1714)
in Houdar de la Motte (2002 340-1). ISI Or je n’entends pas par saisir l’esprit
d’un auteur, embrasser avec l’idée principale toutes les idées accessoires, qui
sont de leur nature variables et mobiles. Rien n’empéche que l’idée principale
ne soit fidelement rendue; mais les idées accessoires, étant mobiles et
changeantes, sont à la disposition du Traducteur. Croira-t-on qu Homere même
n'ait pas été forcé, par la contrainte de la versification, d'employer telle ou
telle idée accessoire, dont, sans cette contrainte, il ne se fût pas servi, ou
qu'il eût remplacé par une autre equivalente ?3° Un ulteriore progresso
nell'analisi del significato si constata con Gabriel Girard (ca. 1677-1748), che
affrontò in La justesse de la langue frangoise (1718), opera rielaborata e più
volte ristampata fin nel secolo seguente col titolo Synonymes français, il
problema teorico della sinonimia. Si può parlare argomenta Girard di
sinonimi in senso esteso e in senso stretto: nel primo les termes synonimes
presentent touts une méme idée principale; mais chacun d'eux y ajoûte neanmoins
quelques idées accessoires, qui diversifient la principale; ensorte qu'elle
paroisse dans ces différents mots, comme une méme couleur paroît sous diverses
nuances; in senso stretto dovrebbe trattarsi di vocaboli i cui significati
coincidono al punto qu'il n'y ait pas plus de choix à faire entre eux, pour le
sens, qu'entre les gouttes d'eau d'une méme source, pour le goüt. Girard si
occuperà dei primi, dei vocaboli qui passent pour synonimes, che expriment un
méme sens principal, diversifié seulement par des idées accessoires, propres et
particuliéres à chacun d'eux, e che hanno quindi significati diversi, parceque
la signification des mots ne consiste pas dans la seule idée principale qu'ils
présentent, mais dans toute l'étendue et dans la juste précision du sens qu'ils
expriment*. La conclusione di
Girard che sinonimi perfetti non 30. Rochefort (1772 46-47). Si potrebbero
citare a riscontro numerosi passi del C., tra cui una nota osservazione alla r1
Filippica di Demostene: noi non possiamo dar un fondato giudizio dell'esatto
valore dei vocaboli, e delle frasi d'una lingua morta, né dello stile de’ suoi
scrittori rispetto alla locuzione. Su questo articolo noi siamo ugualmente
soggetti a prender equivoco e nei termini proprj e nei figurati. I Greci e i
Latini consapevoli dello stemma genealogico delle parole, e del loro senso
primitivo, o accessorio, potevano scorger un'ombra d' immagine lontana,
un'allusione occulta, un cenno indiretto in molti e molti vocaboli che a noi
non presentano che un senso schietto ed ignudo, senza veruna bellezza
accessoria (C., 1807 158-9). Un lungo passo di Rochefort, in cui è compresa la
nostra citazione, è tradotto da C. (1786 203-6). 31. Girard (1718 xxvir-xxx).
Cfr. Droixhe (1978, 311). Niente di comparabile nei Sinonimi ed aggiunti
italiani raccolti da Carlo Costanzo Rabbi (Storti, Venezia 1733), nel quale la
nozione di sinonimo non suscita alcuna perplessità. Francesco Maria Colle,
amico del C., riteneva che la nozione di idee accessorie fosse da attribuire
appunto al Girard: cfr. Colle (1789, 373). esistono in alcuna lingua, ma ne
esistono solo di apparenti, sarà accolta si può dire senza opposizione dalla
linguistica settecentesca francese: basterà citare le note parole di Du
Marsais: S'il y avoit des synonimes parfaits, il y auroit deux langues dans une
même langue. Quand
on a trouvé le signe exact d’une idée, on n'en cherche pas un autre *. Gl'italiani, attaccati a quella che era
considerata tradizionalmente una ricchezza della lingua e una preziosa risorsa
stilistica, saranno piü cauti. Anche per lo spregiudicato C. i sinonimi sono
assai minori di numero di quel che si pensa, ma tuttavia esistono: Quando i
sinonimi siano veramente tali in ogni senso, e non differiscano fuorché nel
materiale della parola, lo Scrittore giudizioso non si farà schiavo degli
esempj, o dell'uso più comune d'un qualche dialetto, ma fra due termini
ugualmente analoghi ad altri già ricevuti nella lingua, sceglierà quello che
colla sua struttura, o colla terminazione corrisponda meglio all'effetto che
vuol destarsi, e s'adatti al colore o all’ intonazione general dello stiles*.
Nell'ambito di una teoria generale della conoscenza e del linguaggio, il
filosofo sensista Condillac (1714-1780) muove nell' Essai sur l'origine des
connoissances humaines (1746) dalla considerazione tradizionale delle idées
accessoires come componenti semantici satellitari del vocabolo. Egli osserva che il
carattere dei popoli influisce necessariamente su quello delle lingue: Il est
naturel que les hommes toujours pressés par des besoins, et agités par quelque
passion, ne parlent pas des choses sans faire connoître l'intérêt qu'ils y
prennent. Il faut qu'ils attachent insensiblement aux mots des idées
accessoires qui marquent la manière dont ils sont affectés, et les jugemens
qu’ils portent. C'est une observation facile à faire; car il n'y a presque
personne dont les discours ne décelent enfin le vrai caractère, méme dans ces
momens où l'on apporte le plus de précaution à se cacher. Quand les Romains
jetterent les fondemens de leur Empire, ils ne connoissoient encore que les
Arts les plus nécessaires. Ils les estimerent d'autant plus qu'il étoit
également essentiel à chaque membre de la République de s'en occuper; et
l'ons'accoutuma de bonne heure à regarder du méme œil l'Agriculture et le
général qui la cultivoit. Par-là les termes de cet art s’approprièrent les
idées accessoires qui les ont annoblis. Ils les conserverent encore, quand la
République Romaine donnoit dans le plus grand luxe; parce que le caractére
d'une Langue, surtout s'il est 32. Du Marsais (1730, 285). 33. Cfr. il passo n.
7 citato supra, 146. 34. C. (1785, 84). fixé par des Ecrivains célebres, ne change pas
aussi facilement que les mœurs d’un Peuple. Chez nous les dispositions d'esprit
ont été toutes différentes dès l'établissement de la Monarchie. L'estime des
Francs pour l'art Militaire, auquel ils devoient un puissant empire, ne pouvoit
que leur faire mépriser des arts qu'ils n'étoient pas obligés de cultiver par
eux-mêmes, et dont ils abandonnoient le soin à des esclaves. Dés-lors les idées
accessoires qu'on attacha aux termes d'agriculture, durent être bien
différentes de celles qu'ils avoient dans la langue Latine. Alcune pagine più
avanti conclude il capitolo sul génie des langues in questi termini: Les signes
sont arbitraires la première fois qu’on les employe, c’est peut-être ce qui a
fait croire qu'ils ne sauroient avoir de caractère. Mais je demande s’il n'est
pas naturel à chaque nation de combiner ses idées selon le génie qui lui est
propre; et de joindre à un certain fonds d’idées principales différentes idées
accessoires, selon qu'elle est différemment affectée. Or ces combinaisons
autorisées par un long usage, sont proprement ce qui constitue le génie d'une
Langue. Ma nel più tardo Cours d'étude pour l'instruction du Prince de Parme
l'espressione idées accessoires designa qualcosa di completamente diverso. Non può essere questo il luogo per
approfondire l'indagine sull'evoluzione del pensiero condillachiano, ma
accenniamo soltanto che nella Grammaire, ricostruendo l'ideale formazione delle
lingue a partire dal primitivo langage d'action, Condillac afferma che la
decomposizione del pensiero si risolve inizialmente in poche elementari idées
principales, essenziali per la comunicazione, mentre le idee accessorie, ancora
estranee al livello verbale, sono espresse dagli sguardi, dalle attitudini, dai
movimenti (langage d'action): Les mots, en petit nombre, ne désignoient encore
que des idées principales; et la pensée n’achevoit de s’exprimer qu’autant que
le langage d'action, qui les accompagnoit, offroit les idées accessoires ?. In processo di tempo, per
poter esprimere sequenzialmente toutes les vues de l'esprit, si rese necessario
créer des mots pour les idées accessoires comme pour les idées principales; il
falloit apprendre à les employer d'une manière propre à développer une pensée,
et à la mon35. Condillac (1746,
ILI-XV.143-4 197-200). 36. Ivi 219-20. 37. Condillac giunse a Parma nel 1758
come educatore del principe Ferdinando. 38. Rimandiamo, compendiosamente, a Droixhe
(1978, passim), Sgard (1982), Aarsleff (1984 175-286). 39. Condillac trer
successivement dans tous ses détails. Il falloit donc déterminer l’ordre qu'ils
devoient suivre dans le discours, et convenir des variations qu'on leur feroit
prendre pour en marquer plus sensiblement les rapports +. È quanto s'indaga
nell’ Art d'écrire, dove le idées accessoires compongono la trama che collega
le idee principali, afferiscono cioè alla liaison des idées, garante della
chiarezza della comunicazione: Les idées accessoires doivent toujours lier les
idées principales: elles sont comme la trame qui, passant dans la chaîne, forme
le tissu. Par conséquent, tout accessoire qui ne sert point à la liaison des
idées, est déplacé ou superflu *'. La differenza gerarchica che sussisteva tra idee principali e
secondarie nella semantica del vocabolo è ora convertita in gerarchia lessicale
tra parole portatrici di idee principali, prime in ordine di tempo (o meglio in
ordine ideale) a formarsi, e parole portatrici di idee accessorie, sviluppate
più tardi dal langage d'action. Un quadro esauriente del trattamento delle
idées accessoires negli enciclopedisti richiederebbe uno studio apposito, per
cui ci limiteremo a due grammairiens-philosophes, Du Marsais e Beauzée. Per
l’anticartesiano Du Marsais (1676-1756) le idées accessoires sono idee
collegate ad altre idee da una relazione che può essere naturale o accidentale,
individuale: Il ya des idées qu’on appelle accessoires. Une idée accessoire, est
celle qui est réveillée en nous à l’occasion d’une autre idée. Lorsque deux ou
plusieurs idées ont été excitées en nous dans le même temps, si dans la suite
l’une des deux est excitée, il est rare que l’autre ne le soit pas aussi; et
c'est cette dernière que l'on appelle accessoire??. È il fenomeno che Locke aveva chiamato
associazione d’idee e di cui aveva sottolineato i potenziali effetti negativi e
addirittura patologici*, radicalmente diverso e in certo senso opposto alla
liaison des idées di Condillac**. Nell'opera più nota di Du Marsais, Des tropes
(1730), le idées accessoires forniscono uno statuto teorico per la spiegazione
dell'origine del senso figu40. lvi, 92. 41. Condillac (1798b, 297). Cfr. Ricken
(1969). 42. Du Marsais (1769, p.36). Sivedaanchelavoce Construction (1754) dell
Encyclopédie in Du Marsais (1987 420, 435, 438). 43. Il capitolo relativo del Saggio sull
'intelletto umano (11, xxxi) fu aggiunto nella quarta edizione (1700). Cfr.
Gusdorf (1973 50-1). 44. Condillac sottolinea che il legame delle idee (la
liaison des idées) è volontario, espressione della ragione e della riflessione,
e quindi diverso dall'involontaria associazione delle idee (Aarsleff, 1984, 269,
nota). 155
ANDREA DARDI rato, giacché l’idea subalterna può sostituirsi efficacemente alla
principale dando luogo all’espressione figurata: La liaison qu'il y a entre les
idées accessoires, je veux dire, entre les idées qui ont raport les unes aux
autres, est la source et le principe des divers sens figurés que l'on done aux
mots. Les objets qui font sur nous des impressions, sont toujours acompagnés de
diférentes circonstances qui nous frapent, et par lesquelles nous désignons
souvent, ou les objets mémes qu'elles n'ont fait qu'acompagner, ou ceux dont
elles nous réveillent le souvenir. Le nom propre de l'idée accessoire est souvent
plus présent à l'imagination que le nom de l'idée principale, et souvent aussi
ces idées accessoires, désignant les objets avec plus de circonstances que ne
feroient les noms propres de ces objets, les peignent ou avec plus d'énergie,
ou avec plus d'agrément. Le idee accessorie, insieme ad altre componenti
affettivo-emotive e stilistiche, sono annoverate da Du Marsais tra le turbative
della linearità analitica della costruzione, tema nevralgico, come si sa, nella
speculazione linguistica settecentesca:L'ordre successif des rapports des mots
n'est pas toujours exactement suivi dans l'exécution de la parole. La vivacité de
l'imagination, l'empressement à faire connoître ce qu'on pense, le concours des
idées accessoires, l' harmonie, le nombre, le rythme, etc. font souvent que
l'on supprime des mots, dont on se contente d'énoncer les corrélatifs. On
interrompt l'ordre de l'analyse; on donne aux mots une place ou une forme, qui
au premier aspect ne paroit pas étre celle qu'on auroit dá leur donner**. Con idées accessoires Beauzée (1717-1789),
forse l'autore più attento alla semantica del segno, nell’ Encyclopédie designa
due cose diverse. Nell'articolo
Langue chiama idée individuelle» del significato delle parole l'idée singuliere
qui caracterise le sens propre de chaque mot, et qui le distingue de tous les
autres mots de la méme espece»: dalla differenza delle idées accessoires di cui
ogni idea individuale è capace dipende la differenza delle parole della stessa
specie dette sinonimi: On sent bien que dans chaque idée individuelle, il faut
distinguer l'idée principale et l'idée accessoire: l'idée principale peut étre
commune à plusieurs mots de la méme espece, qui different alors par les idées
accessoires» 7. Si torna insomma, in termini 45. Du Marsais (1730, 25). 46. Du
Marsais (1769, 252). 47. Encyclopédie (1765b, 260). Cfr. anche l'articolo Propriété nella versione
non dissimili, alla sinonimia di Girard, del resto ampiamente citato (e della
cui opera Beauzée curò una ristampa). Ma altrove Beauzée introduce quella che
crediamo una novità. All’articolo Formation*? definita come la maniere de faire prendre à un
mot toutes les formes dont il est susceptible, pour lui faire exprimer toutes
les idées accessoires que l’on peut joindre à l’idée fondamentale qu’il
renferme dans sa signification» Beauzée considera la declinazione e la
coniugazione insieme con la derivazione e la composizione, in quanto tutte
contribuiscono allo scopo di modificare la base; a ogni coppia si associano due
tipi di idee accessorie. Nella derivazione e nella composizione l’idea
primitiva viene modificata da idee accessorie che, prises dans la chose même,
influent tellement sur celle qui leur sert en quelque sorte de base, qu'elles
en font une toute autre idée»: cosi cazere presenta l'azione dépouillée de
toute autre idée accessoire», mentre cantare, cantitare, canturire aggiungono
all'azione speciali modalità. Diverso il caso della declinazione e della
coniugazione, in cui, l'idea primitiva rimanendo la stessa, le idee accessorie
esprimono differenti rapporti nell'ordine dell'enunciazione (cano, canis, canit
ecc.). Da
questi due tipi di idee accessorie nascono due tipi di derivazione: l'une
quel'on peut appeller philosophique, parce qu'elle sert à l'expression des
idées accessoires propres à la nature de l'idée primitive, et que la nature des
idées est du ressort de la Philosophie; l'autre, que l'on peut nommer
grammaticale, parce qu'elle sert à l'expression des points de vile exigés par
l'ordre de l'énonciation, et que ces points de vûe sont du ressort de la
Grammaire. Nell'articolo Mot Beauzée arriva alla decomposizione del segno in
monemi, ciascuno dei quali aggiunge una determinazione grammaticale speciale
(detta anch'essa idea accessoria) alla radice, portatrice dell'idea principale:
dell Encyclopédie méthodique: La Propriété des mots consiste dans la
signification entière du mot, et comprend, avec l'idée principale, la
collection de toutes les idées accessoires que l'usage y a attachées»
(Encyclopédie méthodique, 1786, 250). 48. L'argomento è sviluppato alla voce
Synonyme nella più tarda redazione dell' Encyclopédie méthodique, dove Beauzée
sottolinea che il n'y a, dans aucune langue cultivée, aucun mot si parfaitement
synonyme d'un autre, qu'il n'en diffère absolument par aucune idée accessoire,
et qu'on puisse les prendre indistinctement l'un pour l'autre en toute occasion:
cfr. Encyclopédie méthodique (1786, soprattutto pp. 480-1). 49. L'articolo, redatto da Beauzée in
collaborazione con Douchet, non è, commenta Swiggers (1984, 42), un exemple de
systematicité. so. Encyclopédie (1757 172-4). Cfr. Swiggers (1984 42-3. 56).
157 ANDREA DARDI dans amaveramus, la syllabe 477 est le signe de l’attribut
sous lequel existe le sujet; av indique que le temps est prétérit; er marque
que c'est un prétérit défini; zz finale désigne qu'il est antérieur; us marque
qu'il est de la premiere personne du pluriel; y a-t-il cinq zzots dans
amaveramus?? Sulla stessa linea la posizione di un autore ben noto al C., il
presidente de Brosses (1709-1777), cheseguendo la suite des altérations
successives que subissent les termes designa con idées accessoires le
virtualità semantiche insite nella radice (racine, générateur, idée simple et
primitive) e attualizzate nel discorso per mezzo di marche formali (formes
additionnelles), che, secondo il genio delle varie lingue, possono incrementare
la radice collocate al principio, nel mezzo, o, più generalmente, in fine di
parola: La dérivation, prise en général pour toute espece d’accroissement que
chaque terme primitif peut recevoir avant ou aprés la racine simple, rend cette
racine susceptible d'extension en cent manieres commodes et variées; au moyen
desquelles elle devient propre à exprimer tout d'un coup toutes sortes d'idées
accessoires, que l'esprit peut joindre au simple sens de la racine. L'homme a
briévement caractérisé son idée accessoire par un petit procédé dont il a rendu
l'uniformité habituelle toutes les fois qu'il est trouvé dans le méme cas, en
disant templo, viro, domino; legitis, facitis, dicitis. |...] Remarquez comment
dans un seul mot [capiebam] si chargé d'idées accessoires, tout est marqué;
chaque idée a son membre, et les formules analogiques sont par-tout conservées
sur le premier plan donné. Cap-ieba-m; Cap c'est l'action; ieba c'est le tems
de l'action; m c'est à la fois la personne qui agit, et le nombre marquant s'il
yauneou plusieurs personnes qui parlent, qui écoutent, ou qui ne parlent ni
n'écoutent*. Nella dissertazione
vincitrice del premio proposto dall'Accademia reale di scienze e belle lettere
di Prussia nel 1759 sul tema L'influence réciproque du langage sur les
opinions, et des opinions sur le langage, dissertazione subito? tradotta in
francese e ben nota al C., il teosi. Encyclopédie (1765c, 762). In Beauzée
(1767, 33) si parla di idées accessoires a tutt'altro proposito. 52. De Brosses (1765, 1, XXXI;
II 175 ss.). Invece altrove images accessoires ha il significato usuale: quando
si usano eufemismi on joint à l'image simple, d'autres images accessoires qui
partagent la pensée, et la détournent de s'occuper à la consideration toute nüe
de l'objet principal (de Brosses, 1765, 11, 149). Inutile rilevare come l’etichetta di idées
accessoires applicata sopra concetti disparatissimi, non solo in autori
diversi, ma nello stesso autore, non conferisca alla chiarezza. 53. La
traduzione completa, rivista dall'autore e aumentata, è del 1762, ma un Précis
158 PER UN COMMENTO AL SAGGIO SULLA FILOSOFIA DELLE LINGUE logo e orientalista
tedesco Johann David Michaelis (1717-1791) dedica addirittura alle idee
accessorie un paragrafo, il quarto della terza sezione (Idées et jugemens
accessoires). Adottando una prospettiva sociale (il linguaggio è una democrazia
e ce sont les opinions du peuple et le point de vûe sous lequel il envisage les
objets, qui donnent la forme au Langage‘*) e unendo due fatti linguistici
distinti, motivazione e polisemia, Michaelis avverte che le parole possono
indurci in errore in due modi: I. quando sono trasparenti, perché il primo
nomenclatore può averle formate fondandosi su un pregiudizio, che si perpetua
attraverso il linguaggio (motivazione); 2. in caso di polisemia, le idées
accessoires operent souvent d’une maniere encore plus secrette. Souvent un mot a
plusieurs significations; nous choisissons celle qui n’est point applicable au
sujet dont il s’agit, et par là nous sommes imperceptiblement entraînés dans
l'erreur. Segue l’esempio del
supremo bene di Epicuro (ripreso dal Cesarotti) che tradotto in latino con
voluptas il présentoit une idée accessoire d'une mollesse contraire à la vertu
et à la valeurS. Michaelis mette in guardia contro gli abus de mots indotti
dalla vaghezza del significato e dai rischi di fraintendimento insiti nelle
idee accessorie, al punto che secondo lui sarebbe un bene pour une langue
d'avoir des noms indiférens, qui n'expriment aucun jugement, et ne portent
aucune idée accessoire dans l'esprit. C'est donc un bonheur d'avoir des termes
moyens, et si j'ose ainsi dire parfaitement impartiaux, qui n'emportent aucune
idée secondaire ni de blâme ni de louange?*. Non manca in Michaelis il
riferimento alle traduzioni: Les idées accessoires se font sur tout remarquer
aux traducteurs par la peine qu’ils ont de trouver dans leur langue des
expressions équivalentes, soit qu'il en faille qui soient accompagnées des
mémes idées accessoires, soit qu'il en faille de parfaitement indiférentes. Les
bonnes traductions corrigent souvent ce défaut de la langue en hazardant
d'attacher aux mots de nouvelles significations, auxquelles le lecteur
s’accoutume peu à peu. du discours qui a remporté le prix fatto da Merian apre
il volume Dissertation (1760 ITI-XXIV). 54. Michaelis (1762 8-9). 55. Ivi 42-3. Cfr. il passo n. 6
citato supra 145-6, tratto da C. (1785, 82): La voce voluptas dei Latini
screditó più del dovere la dottrina moral d' Epicuro. 56. Michaelis (1762 41-2;
anche pp. 98-9). 57. 99. Su Michaelis cfr. Droixhe (1978 374-82), Aarsleff
(1984 248-52). Interessanti anche le osservazioni sull’evoluzione semantica dei
vocaboli di un altro partecipante, rimasto anonimo, al concorso prussiano, che
si rifà all’associazione d’idee di Locke: De grands Philosophes [in nota si
cita Locke] ont montré comment les idées s’associent dans notre esprit, en
sorte que l’une réveille naturellement l’autre. Si l’opinion générale
d’un peuple lie fortement dans tous les esprits deux idées, le mot qui dans la
langue de ce peuple désigne l’idée principale ne manquant jamais de réveiller
aussi l’accessoire, il sera le signe de ces deux idées; et même si l’idée accessoire
se trouve de nature à frapper vivement, elle deviendra enfin principale, parce
qu'elle acquerra une nouvelle force à chaque fois que le mot sera prononcé
jusqu'au point d'effacer entièrement celle qui étoit d'abord la signification
propre du mot; lequel changeant ainsi de valeur, ou prenant un double sens,
montre quelle union l'opinion avoit mis entre la signification primitive, et la
signification accessoire ou changée. Nelle celebri Lectures on rhetoric and belles lettres (1783) di
Hugh Blair (1718-1800), l’autore della dissertazione sui poemi ossianeschi che
Cesarotti tradusse e stampò nel suo Ossian, le accessories ideas compaiono nel
capitolo Origin and nature of figurative language come motori di immagini
metaforiche®. Nell'Italia settecentesca, per quanto ne sappiamo, di idee
accessorie non si parla nei trattatisti, almeno fino alla seconda metà del
secolo. Vi si riferisce il Bertola nelle sue traduzioni: nel Discorso
preliminare alla Scelta d'idili di Gessner (Mi ho prefissa la fedeltà. Intendo
per questa il non ommettere alcuna delle idee accessorie, il lasciarle tutte al
lor luogo)°°. Le idee accessorie consentono anche effetti di chiaroscuro che
sono componenti della grazia, quale il Bertola cercò di definirla nel Saggio
sopra la grazia (del 1786, ma con riprese posteriori): La delicatezza, la cui
base è la 58. Dissertation
(1760, 8; cfr. anche pp. 23-4). 59. Blair (1787 354-5): By this means, every
idea or object carries in its train some other ideas, which may be considered
as its accessories. These accessories often strike the imagination more than
the principal idea itself. The imagination is more disposed to rest upon some
of them; and therefore, instead of using the proper name of the principal idea
which it means to expres, it employs, in its place, the name of the accessory
or correspondent idea; although the principal have a proper and well-known name
of its own. Le Lectures del Blair
furono tradotte da Francesco Soave. 60. Bertola (1775, 76). Nell’ Idea della
bella letteratura alemanna, sempre a proposito di Gessner e quasi con le stesse
parole: io m'ho prefissa in particolar modo la fedeltà, per la quale intendo il
non ommettere alcuna delle idee accessorie, e il lasciarle, per quanto è
permesso, tutte al lor luogo (Bertola, 1784, 17). sensibilità più squisita,
adombra ciascuna idea e ciascun sentimento d’idee e di sentimenti accessori, ed
è talvolta così leggiera che poco manca che non isvanisca ^, In un trattatello dell'abate Giambattista
Velo, più noto con il nom de plume di Giovan Battista Garducci, sotto il quale
incroció i ferri col Cesarotti, le idee accessorie caratterizzano
condillachianamente l'indole dei popoli e il genio delle lingue: Ogni nazione
seguendo il diverso impulso della propria sensibilità combina, e modella le
proprie idee a norma della sua peculiar foggia d'immaginare: cioé ad un dato
fondo di principali, e comuni nozioni sovrappone differenti idee accessorie, le
quali nascono dalle sue particolari affezioni. Quindi è propriamente, che
l'idioma da essa parlato porta il conio, e l'impronta del suo genio, e
carattere; perché la lingua non è che l'immaginazione, ed il sentimento d'un
popolo qualunque resi sensibili dai segni vocali di convenzione. Il solo autore
a porre le idee accessorie al centro della sua estetica è Cesare Beccaria. Già
nel Frammento sullo stile pubblicato nel *Caffe del febbraio 1765 ne aveva
messo in primo piano il rilievo per l'elaborazione dello stile: Ogni discorso è
composto d'idee principali e d'idee accessorie; chiamo idee principali quelle
che sono solamente necessarie, acciocché dal loro paragone risultar possa la
loro identità o diversità, cioé o la verità o la falsità. Una dimostrazione di
geometria é tutta composta d'idee principali; chiamo idee accessorie quelle che
ne aumentano la forza ed accrescono l'impressione di chi legge. Ogni discorso
non semplicemente scientifico contiene più o meno di queste idee accessorie. La
diversità dello stile non puó consistere nella diversità delle idee principali,
ma delle accessorie, se per diversità di stile intendasi l'arte di esprimere in
diversa maniera la stessa cosa, cioè, per parlar con maggior precisione, l'arte
di aggiungere diverse idee alle idee principali: lo stile di Archimede in
questo senso non può essere diverso da quello di Newton. Qualche volta l’idea
principale non è espressa nel discorso, ma le idee accessorie la esprimono
sufficientemente; qualche volta l’idea principale essendo complicata e nel
discorso espressa con tutte o parte delle sue componenti, potendovi essere
scelta in queste circostanze, può esservi diversità di stile. Un'idea
principale composta enunciata colla sua parola corrispondente non forma stile;
enunciata per mezzo delle sue parti può ammettere stile, quando il raziocinio
permetta la scelta indifferentemente di queste parti. 61. Bertola (1960, 821;
cfr. anche 818). 62. Velo (1789 25-6). 65. Beccaria (1984, 39). 161 ANDREA
DARDI Nel solco del celebre abate di Condillac, le idee principali costituiscono
lo schema logico del discorso, le accessorie lo arricchiscono e lo individualizzano,
conferendogli fisionomia stilistica. Le accessorie informate alla natura sono
durevoli, quelle dipendenti dalla variabilità delle opinioni passano e mutano:
È meno la moltitudine che la scelta delle idee accessorie, che forma la
bellezza dello stile. Gli uomini si rassomigliano tra di loro per la costanza
delle passioni e sono differenti assaissimo per la moltitudine degli usi e
delle opinioni; le idee accessorie, che dipendono da queste, sono di una
bellezza passaggiera e variabile; le idee, che dipendono da quelli, resistono
di più al tempo trasformatore**. Il breve scritto giornalistico trovò compiuto
sviluppo nelle Ricerche intorno alla natura dello stile (1770, prima parte sola
pubblicata), opera unica nel panorama italiano, aspramente giudicata dai sodali
Pietro e Alessandro Verri. Per Beccaria, in sostanza, lo stile consiste nelle
idee o sentimenti accessori che si aggiungono ai principali in ogni discorso.
Tocca allo scrittore individuare e selezionare le idee addizionali che devono
rivestire l’ossatura logico-argomentativa, idee da suscitare sia espressamente,
sia per via suggestiva, per ottenere il principio fondamentale di ogni stile,
cioè il massimo di sensazioni compossibili tra di loro. La casistica, ampia e
minuziosa, quanto spesso farraginosa e oscura, non ci permette di scendere in
particolari: la scelta delle idee subalterne (tra cui rientrano anchele figure
retoriche) deve soppesarne la qualità, la quantità, l'intensità, l'interesse,
l’ordine reciproco, le relazioni con le idee principali ecc., in modo da suscitare,
secondo la bella formula, una più densa, per dir così, atmosfera di sensazioni,
ma non densa al punto da soverchiare e frastornare il lettore. La sagacia nella
selezione garantisce, oltre l’efficacia, la durata dell’effetto stilistico:
infatti lo stile cangia di natura colla successione de’ tempi, per64. 40. Si può richiamare qui
l'art. Convenance redatto da Marmontel in Supplement (1776, p.586): Il y a dans
les objets de la poésie et de l’éloquence des beautés locales et des beautés
universelles. Les beautés locales tiennent aux opinions, aux mœurs, aux usages
des différens peuples; les beautés universelles répondent aux lois, au dessein,
aux procédés de la nature, et sont indépendantes de toute institution. 65. Cfr. Verri (1919), lettera di Pietro del
20 ottobre 1770 (p. 29), lettere di Alessandro del 17 e del 24 ottobre (pp. 31
e 39), lettere di Pietro del 31 ottobre e del 6 aprile 1771: il libro sullo
stile è morto sepellito; non si ristampa e non se ne parla (pp. 41-2 e 175)
ecc. 66. Beccaria (1984, 82). 67. 108. Cfr. pp. 119 e 129. 68. 121. 1ché
l’impressione che fa negli animi non è più la medesima, e ci par languido e
triviale ciò che secoli fa era vivace e sublime 9. Possiamo tornare ora al Saggio C.ano, da
cui siamo partiti. Come si vede, il C. si riallaccia a un argomento ampiamente
dibattuto soprattutto in Francia, del quale si dimostra ben informato e dalle
cui coordinate a parte l’analisi formale di Beauzée e di de
Brosses, estranea ai suoi interessi non si discosta. L'unica inflessione
divergente potrebbe risiedere in quella che Arnauld e Nicole, Lamy, Beauzée
ecc. nominano idée principale o individuelle del vocabolo, cioè il significato
logico, che nei francesi è sostanzialmente quello sincronico dell’ usage,
laddove non è chiaro se l’idea principale, o senso diretto, nel C. corrisponda
al significato dell’uso o a quello etimologico. Nell’auspicare che si
allestisca per la lingua italiana una raccolta di sinonimi come quella fatta
per la francese dal Girard, Cesarotti distingue i due significati, osservando
che affine di renderla preziosa ed utile, non solo ai Letterati, ma insieme
anche agli eruditi Filosofi, converrebbe aggiungere alle differenze dell’uso
quelle del loro senso primitivo ed intrinseco, seguendo i vestigj
dell'etimologia, e le loro trasmigrazioni successive, e rintracciando le
ragioni che finalmente ne determinarono il significato ad un'idea più che
all'altra; notizia ugualmente opportuna e a chi scrive a’ tempi nostri, e a chi
vuol giudicare fondatamente dell'opere di quei che scrissero7*. Ma nel proporre
al Consiglio italico la compilazione di un dizionario zznor, fornito solo del
necessario, per uso giornaliero di chi vuole intendere e maneggiare la lingua
scritta, C. ritiene che si debba cercare con diligenza Z/ senso primitivo, sia
generale sia proprio, talora diverso dall apparente, indi per ordine i
successivi, e dipendenti, indicando gli appicchi per cui si attengono tanto al
primo, quanto fra loro ; dove non si può fare a meno di chiedersi che cosa
intenda l’abate con significato apparente (quello dell’uso?). Lasciando
impregiudicata la questione, per il resto le idee accessorie sono suscitatrici
di sovratoni evocativo-emotivi^, che possono essere żin69. 128. 70. C. (1785,
pp83-4). 71. Ivi 163-5; corsivo nostro. 72. Le idee C.ane sul significato del
segno andrebbero analizzate accuratamente e sistematicamente, senza dimenticare
le acroases latine, che Carlo Enrico Roggia ha cominciato a indagare
egregiamente e a rimettere in circolo. 73. Comunicano infatti una spezie
d’oscillazione al cuore o allo spirito; si noti oscillazione nel senso di
‘emozione’, di cui i dizionari offrono esempi posteriori, ma 163 ANDREA DARDI
trinseci, quando risultano dalla derivazione originaria del termine (e si
perdono quando si oscura l'etimologia del vocabolo), o estrinseci, dipendenti
da circostanze contingenti, da allusioni, gusti, preferenze, e come tali
volatili, cangianti e in via di continua evoluzione (ricordiamo che i vocaboli
suscitatori d'idee accessorie non sono necessariamente, per usare la terminologia
C.ana, Zermini-figure oggi diremmo motivati : lusso, per esempio, non è tale). Tali valori
richiedono, per esser apprezzati, molta finezza e sagacità, servono a
distinguere i sinonimi, mettono alla tortura i traduttori, dal lato della
lingua di arrivo per la difficoltà di rivestire i concetti dell'originale
coloritura affettiva, dal lato della lingua di partenza, quando si traduca da
lingue morte, per l'impossibilità di conoscer con precisione qual fosse allora
lo stato attuale e individual dei vocaboli 7. Il formalismo della società
cortigiana fa si che là il modo di porgere prevalga sui contenuti (cfr. il
passo n. 8 citato supra, 146). Nel primo e nell'ultimo dei passi citati risuona
forse un'eco del trattato di Beccaria. Con lo scadere del secolo le idee
accessorie, prodotto del sensismo illuminista, si dissolvono nella temperie di
resacralisation du langage promossa dal romanticismo, tanto che fanno l’effetto
di un curioso fossile nel De la littérature (1800) di M.* de Staël, comparsa
nello stesso anno dell’edizione definitiva del Saggio C.ano, o nelle Vies de
Haydn, de Mozart et de Métastase di Stendhal*°. E tuttavia, la trasfusione
delle idee accessorie, tramite Beccaria, nell'opposizione leopardiana tra
parole e termini è segno che si trova già nelle Ricerche di Beccaria (1984, 114):
cessa in lui più presto quell’oscillazione della mente. 74. Si veda al passo n.
4 citato supra, 145, l'opacizzazione di fronder, in séguito al cancellarsi
della memoria della prima origine. 75. Ma sarebbe un grave equivoco sovrapporre
la motivazione C.ana, che puó essere anche diacronica, alla nostra. 76. Esempio topico.
Occupandosi del lusso, Condillac (1795, 190) osserva che dans la première
acception du mot, est la méme chose qu’excés; et quand on l'emploie en ce sens,
on commence à s'entendre. Mais lorsque nous oublions cette première acception,
et que nous courons, pour ainsi dire, à une multitude d'idées accessoires, sans
nous arréter à aucune, nous ne savons plus ce que nous voulons dire. Del /uxe (ce
mot ne prévient ni pour ni contre la chose qu’il représente) si occupa anche
Michaelis (1762 98-9). 77.
C. (1795, 227): era dunque necessario di presentar i vocaboli Omerici nello
stato lor naturale coll’ idee principali e accessorie ch'essi racchiudono, onde
i dotti leggendovi dentro potessero farci sopra le loro riflessioni
particolari, e trarne le conseguenze opportune. Cfr. 230; € supra, nota 28. 78.
Droixhe (1971, 29). 79. Staël (1998 265, 405). 80. Stendhal di una non
trascurabile continuità tra il pensiero tardo illuminista e quello del nuovo
secolo. Si legga, per concludere, l'annotazione del 30 aprile 1820 dello
Zibaldone: Le parole come osserva il Beccaria (tratt. dello stile) non
presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno
immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l’aver di queste parole. Le
voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto,
e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte
le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla
letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di
termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perché
l'abbondanza di tutte due le cose non fa pregiudizio. Giacché sono cose ben
diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà
efficacia ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità*.
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Giulini, Cogliati, Milano. 169 La catena trasversale dei vocaboli tra oggetti e
idee. C. e la motivazione del segno di Francesca M. Dovetto* I C. nella storia
delle idee linguistiche Contrariamente al luogo comune che colloca la nascita
della scienza del linguaggio nel corso del xIx secolo, è ormai ben chiaro che
di nascita si può parlare soltanto dal punto di vista di una storia
esclusivamente accademica della disciplina, mentre una storia delle riflessioni
sul linguaggio e sulle lingue ha radici ben più profonde. Soprattutto sono
profonde le radici della cosiddetta scienza dei suoni (linguistici), praticata
in più ambiti disciplinari sin dall’antichità, e per più fini, sia teorici sia
empirici. In realtà non sempre abbiamo a che fare con annotazioni originali e
con concreti progressi del sapere scientifico; tuttavia, sia il reiterarsi dei
saperi consegnati alla tradizione grammaticale’, sia l'emergere, a volte, di
riflessioni autentiche e peculiari in questioni relative alle pratiche della
comunicazione, scritta o parlata, hanno ricadute non banali per la storia delle
riflessioni sul linguaggio. In questo quadro sono particolarmente interessanti
soprattutto quelle considerazioni che si sono focalizzate sulla voce in
generale e sulla qualità stessa dei suoni linguistici, con riferimento quindi
all'emissione sonora e alla produzione dei gesti articolatori; sul processo
della ricezione dei suoni, * Università degli Studi di Napoli Federico 11. 1.
Penso, in questo caso, alle tradizioni grammaticali tra Quattrocento e Seicento
e alle prime grammatiche delle lingue volgari (in Italia con la Grammatichetta
di Leon Battista Alberti del 1450 ca, in Spagna con la Gramdtica castellana di
Antonio de Nebrija del 1492, in Portogallo con la Grammatica da lingoagem
portuguesa di Fernando Oliveira del 1536 e in Francia con Le tretté de la
Grammere francoeze di Louis Meigret del 1550), tutte calate negli schemi
ereditati dalla tradizione grammaticale classica e orientate in senso normativo
(cfr. Varvaro, 1980 27-8). Si tratta di testi di importanza indiscutibile per
la storia delle rispettive lingue, il cui interesse nell’ambito di una storia
delle riflessioni sulla lingua viva e sulle dinamiche dell’uso, apparentemente
poco significativo, inizia a essere oggi opportunamente riconsiderato. 170 LA
CATENA TRASVERSALE DEI VOCABOLI TRA OGGETTI E IDEE nei cui confronti il
Settecento segna importanti traguardi? che apriranno la strada, molti anni più
tardi, all’attenzione non soltanto verso il locutore quanto anche verso il
ricevente; sulle implicazioni di queste scoperte da un punto di vista non solo
ontogenetico quanto anche filogenetico; sulla diversità degli idiomi in una
prospettiva semiotica che giunge a porre a confronto lingua scritta e lingua
parlata e a considerare soprattutto l’importanza dell’uso; sul dibattito,
vivace tra Settecento e Ottocento, che a fianco all'uso della parola, scritta o
parlata, riconosceva l'importanza anche dei gesti, e in particolare delle
lingue dei segni. Questa storia così diversamente ampliata e orientata, a
parere di chi scrive comunque cardinale nelle vicende del costituirsi della
scienza linguistica, non può quindi iniziare con la cattedra berlinese di
Sprachwissenschaft* ricoperta a partire dal 1821 dal padre della linguistica
Franz Bopp grazie all appoggio di Wilhelm von Humboldt, filosofo del linguaggio
e direttore, in seno al ministero degli Interni prussiano, della sezione della
cultura e istruzione, ma deve necessariamente iniziare molto prima. In modi
peculiari e diversi rispetto alla linguistica militante dell’ Ottocento, dedita
alla comparazione del vocalismo e consonantismo delle antiche lingue storiche
alla ricerca di un antecedente comune, impegnata a difendere il rigore delle
leggi fonetiche e, per alcuni, anche di quelle semantiche, l’attenzione ai
suoni linguistici precedente al paradigma della linguistica ottocentesca si
fonda piuttosto su un interesse genuino e filosofico per le basi naturali del
linguaggio, mostrando un’apertura non comune verso le fondamenta sociali e
civili dello strumento linguistico che giustificano i luoghi in cui 2.
Traguardi significativi del Settecento furono, ad esempio, l'identificazione
del cosiddetto meccanismo laringeo, e quindi del funzionamento delle pliche
(Ferrein, 1741) e la teoria dell'audizione di Domenico Cotugno (1761). Sui
progressi della medicina, e non solo, riguardo ai processi di produzione e
ricezione dei suoni linguistici mi permetto di rinviare a Dovetto (2017). 3.
Rinvio qui al testo, sempre fondamentale, di Gessinger (1994) e a Pennisi
(1994); cfr. anche Dovetto (1998; 1999), Battaner Moro, Dovetto (2013). Spunti
interessanti, più recenti, in Russo Cardona, Volterra (2007), Roccaforte,
Gulli, Volterra (2017) e Volterra et al. (2019). 4. La denominazione della
cattedra di linguistica presso la nuova Università di Berlino, creata da
Humboldt, ebbe nome in realtà Orientalische Literatur und allgemeine
Sprachkunde: al sorgere della nuova disciplina accademica anche la sua
denominazione rispecchia il difficile affrancarsi della scienza linguistica da
filologia, filosofia e studi più genericamente letterari (cfr. Morpurgo Davies,
1996 27-32). s. Non è un caso infatti che C., nel ripubblicare il suo Saggio,
ne mutasse il titolo originario (Saggio sopra la lingua italiana, 1785) proprio
in direzione di un approccio filosofico: Saggio sulla filosofia delle lingue
applicato alla lingua italiana (1801). 171 FRANCESCA M. DOVETTO queste stesse
riflessioni trovano collocazione: prevalentemente nell’opera di medici e
anatomopatologi, nelle pratiche dei rieducatori di sordi, dei maestri di canto,
di costruttori di macchine parlanti, con echi non trascurabili anche in opere
di grammatici, filosofi e letterati, raggiungendo a volte traguardi che la più
tarda fonetica accademica stenterà a superare o anche solo a pareggiare per
altre strade, apparentemente più rigorose e scientifiche‘. Questa stessa
storia, infine, come è stato affermato da Simone (1992), assume che vi sia una
relazione iconica (e anche analogica) tra forma e significato delle parole e
considera la sostanza fonica parte integrante del linguaggio: alla base della
lingua vi sarebbero cioè elementi primari, basici, che hanno qualcosa in comune
con le cose o con le circostanze che questi stessi elementi rappresentano.
Scrive Simone (ivi, 46), con riferimento al cosiddetto Principio della Sostanza
e dell’Iconicità, che c’è tra forma e significato una relazione iconica che, in
taluni casi, può anche essere analogica (vale a dire non discreta). D'altra
parte il Paradigma della sostanza, le cui tracce sono reperibili in tutto
l’arco della storia degli studi linguistici, non nega affatto l’arbitrarietà ma
la considera semplicemente come una sorta di iconicità degenere, che risulta
come conseguenza di uno spostamento dalla somiglianza tra forme, da una parte,
e tra significati e cose, dall'altra, strettamente dipendente, inoltre,
dall'apparato fisico degli utenti umani (Principio del Determinismo Fisico), in
opposizione quindi al Principio dell’Arbitrarietà che, come è noto, vedrà poi
in Saussure e nel concetto di arbitrarietà radicale la sua massima
espressione’. Ebbene, a questa storia appartiene anche Melchiorre C., il cui
contributo a un dibattito più maturo sul linguaggio, significativamente 6. È un
dato ormai noto che la distinzione tra suoni sordi e sonori (ovviamente conseguente
alla corretta comprensione del meccanismo laringeo), così come la scoperta
della opposizione tra suoni orali e nasali, fu pratica nota dapprima ai
rieducatori dei sordi e finanche ai grammatici e, solo più tardi, venne accolta
nell’ambito scientifico della linguistica e fonetica accademica (cfr.
Maraschio, 1992, LX; Dovetto, 1998, 2014, 2017). 7. La struttura del linguaggio
è in parte determinata dall’apparato fisico dei suoi utenti umani, vale a dire
da fattori come percezione, struttura muscolare, memoria, facilità di
produzione e di interpretazione, consumo di energia, ecc. (Simone, 1992 47-8).
8. Il principio dell'arbitrarietà, che ha la sua origine nella versione vulgata
del pensiero aristotelico (il linguaggio è strutturato su due livelli diversi,
il suono e il significato, tra i quali non c’è alcuna apprezzabile somiglianza.
Il significato non può essere previsto a partire dalla forma e viceversa), ha
registrato nel tempo due importanti integrazioni: quella lockiana relativa
all’indifferenza del linguaggio rispetto alla realtà, e quella saussuriana, più
importante e nota, della forma, data dalle differenze tra i suoni e dalle
differenze tra i significati (ivi 38-45). spostato sul terreno del sociale, è
forse meno noto; ma certamente anche l’opera dell’abate ha contribuito alla
costruzione di una pagina poco conosciuta, eppure importante, della storia dei
nostri studi linguistici?. Rispetto al paradigma settecentesco C., come è noto,
non rappresenta né un anticipatore né un ritardatario: del suo secolo è infatti
un perfetto rappresentante, così come è ben evidente la sua dipendenza dall'
Essai (1746) di Condillac e dal Traité di de Brosses (1765), a sua volta
ispiratore della Grammaire di Condillac del 1775. A fondamento produttivo del
linguaggio de Brosses pone un istinto imitativo naturale, una sorta di
imitazione/analogia che sarà accolta da Condillac e recepita infine nel Saggio C.ano,
in cui viene difesa la lingua d’uso la cui bellezza intrinseca scaturisce
appunto dal rapporto tra oggetti e suoni e degli oggetti fra loro (cfr. C.,
1960, 327). C. si colloca inoltre nell’ambito della produzione tipicamente
secondo-settecentesca anche per quanto riguarda in particolare l'interesse per
l'origine del linguaggio quale tentativo per recuperare le potenzialità
conoscitive primordiali dell’uomo, a partire quindi dai primi parlanti, bambini
o selvaggi o altra categoria comunque idealmente collocata alle origini dello
sviluppo della vita associativa e linguistico-relazionale. Sulla scia di
Condillac, di Vico e di de Brosses, C. si occupa anche di etimologia, pur
trattandosi in realtà di una pratica etimologica (anzi, paraetimologica) che,
nell’opera C.ana risulta in un certo senso riassorbita nell’ambito della
riflessione sulla motivazione, grazie alla quale C., percorrendo una strada
metodologica che nulla ha a che fare con l’etimologia moderna, cerca piuttosto
di mettere in evidenza la relazione tra la forma delle parole e la realtà
fisica degli utenti e degli oggetti (referenti). D'altra parte è parimenti
riconosciuto che nella riflessione settecentesca l’obiettivo dell’antico
discorso platonico sull’etimologia, che tendeva a dimostrare piuttosto
l’inattendibilità del linguaggio come mezzo di conoscenza, viene invece
ribaltato e utilizzato come punto di riferimento teorico e come spinta
propulsiva verso un’apertura forte nei confronti delle componenti naturali del
linguaggio. In accordo con essa C. fonda una teoria del valore delle parole che
si poggia significativamente sulla lettura di de Brosses e attraverso la quale
le parole vengono classificate in due tipologie: quelle che hanno un rapporto
naturale con le cose o con altre 9. Benché in questo lavoro le citazioni
dell’opera di C. siano tratte dall’edizione Bigi (1960), resta fondamentale
l'introduzione al Saggio, e all'autore, da parte di Puppo parole (la catena
trasversale, 321) e quelle prive di questo rapporto (tipologia che a sua volta
comprende sia i vocaboli sorti per convenzione sia quelli prodotti da un
istinto meccanico dell’apparato fonatorio, come i vocaboli infantili per mamma?
e papà). A partire da queste basi C. fonda così una classificazione estetica
delle parole, che parte dai vocaboli che presentano un’analogia più diretta
coll’organo della voce e che si estende progressivamente fino a quei vocaboli
che hanno invece discordanza col suono dei corpi (ivi, 327). Si tratta, come ha
giustamente commentato Marazzini (1989, 168), di una teoria del fonosimbolismo
genetico-psicologico che certamente non può che essere agli antipodi della
linguistica ottocentesca, ma bisogna prendere atto di questo particolare
sviluppo di una teoria, che, partendo da concezioni strettamente
materialistiche, approda a esiti di psicolinguistica. In effetti la teoria del
fonosimbolismo parte da molto lontano e solleva riflessioni interessanti,
proprio in quanto si intreccia strettamente con la questione del rapporto che
sussiste tra parole e cose, cruciale per ogni teoria generale del linguaggio.
In particolare C. aveva dietro di sé riferimenti importanti: Vico e Condillac
e, prima ancora di Condillac, de Brosses e Michaelis, così come tutta una
tradizione di studi che si era occupata (anche) dell’origine del linguaggio e
delle sue basi naturali, ma C. si inserisce in questa corrente in modo
originale e degno di nota. 2 Tipologie dei vocaboli Nella parte 11 del Saggio,
Dei principi che debbono guidar la ragione nel giudicar della lingua scritta,
nel perfezionarla e nel farne il miglior uso, C. (1960, 319) pone attenzione
alle diverse tipologie di vocaboli che compongono una lingua. Pur ritenendo
degna di riflessione soprattutto una sola tipologia di vocaboli (termini-figure),
in realtà sono due le classi nelle quali Cesarotti suddivide i vocaboli: la
classe dei vocaboli memorativi, ossia quelli che ricordano l'oggetto e che C.
chiama termini-cifre e la classe dei vocaboli rappresentativi, ossia quelli che
dipingono l’oggetto e che C. chiama termini-figure ^. 10. Sulla dicotomia C.ana cfr. Gensini
(1993, 258) in cui si sottolinea il debito verso la teoria del fondamento tropico
del linguaggio elaborata da Du Marsais o verLa prima classe di vocaboli
(termini-cifre) secondo C. avrebbe un rapporto convenzionale con l’idea, e a
questo proposito l’abate introduce un interessante paragone con le radici
monosillabiche del cinese, che gli paiono appunto non iconiche o analogiche,
mentre la seconda classe di vocaboli (termini-figure) avrebbe invece un
rapporto direttamente o indirettamente naturale ( ) con l’idea. Adogni modo,
non essendo interessato alla prima classe, C. la liquida molto velocemente: gli
appare insignificante proprio in quanto, non essendo trasparente, si sottrae di
fatto a qualsiasi possibilità di qualificazione, che sia di lode o di biasimo.
Manca infatti la possibilità di trovare la relazione iconica/analogica che è
alla base dell'associazione tra voce e oggetto designato, giacché questa
associazione si sarebbe nel tempo oscurata, tanto che i termini della prima
classe abusivamente sogliono prendersi per radicali (C., 1960, 326) in quanto radicali
di altri termini, a loro volta derivati da questi: come afferma C. non è
possibile di conoscer al presente in veruna lingua quali siano i vocaboli
originari di questa classe [ossia della classe dei termini-cifre] (5bid.). I
termini-figure, invece, sarebbero dedotti da qualche principio per cui,
diversamente dai termini-cifre, possono essere soggetti a esame e giudizio.
Nella descrizione dello sviluppo natural della lingua e le fonti universali dei
vocaboli (ivi, 320) C. dedica una maggiore attenzione proprio a questa seconda
classe di vocaboli di cui tratta innanzi tutto l’origine. Alla base della immensa
famiglia di tutte le lingue dell’universo, spiega C., vi sarebbe una lingua incoata,
e in un certo senso uniforme ( ) che l'uomo ritrova naturalmente in sé e, a
partire da questa lingua incoata, base comune di tutte le altre che della prima
comunque conservano tracce profonde e sensibili, l’uomo, pressato dal bisogno
di comunicare e dar nome agli oggetti, nella sua primordiale rozzezza sarebbe
ricorso ai due doni della natura di cui poteva disporre: la tendenza all’imitazione
e le primitive disposizioni dell’organo vocale ( ). Più in generale,
relativamente all’origine delle lingue, C. poneva due sole vie da lui ritenute
percorribili: per nascita o per derivazione (ivi, 307). Qualora le lingue
fossero tali per nascita, lo sarebbero state, come commenta C., per semplice
impulso di natura (żbid.): il riferiso certe voci dell Encyclopédie, con
particolare riferimento alle expressions figurées quale modo di rifarsi alla
teoria epicurea e lucreziana, e poi leibniziana e vichiana, della genesi del
linguaggio dall’ inopia dei mezzi espressivi, importante antidoto contro ogni
tentazione razionalistica di risolvere in forme lineari il rapporto
linguaggio-conoscenza ( ). 175 FRANCESCA
M. DOVETTO mento qui è chiaramente alle produzioni linguistiche spontanee di
fanciulli cresciuti in isolamento, lontani dall’ascolto di qualsiasi forma
verbale, secondo una sorta di modello evolutivo incrementale, narrato già
anticamente da Erodoto e che il Settecento aveva visto concretizzarsi più volte
nelle vicende degli enfants sauvages, i quali, benché cresciuti in condizioni
selvagge, avrebbero comunque sviluppato una qualche forma di linguaggio. A
questo stadio tuttavia, continua C., l'uomo sarebbe rozzo, l'istinto non
regolato, per cui questi primi idiomi non dovrebbero essere considerati pari a
una vera lingua, essendo palesemente disanaloghi e dissonanti (ivi, 308). Una
vera lingua sarebbe sorta soltanto nel momento in cui si fosse costituito un
vero e proprio popolo e non solo l’unione sporadica di pochi uomini isolati.
Più interessante risulta invece l’altra via, quella della derivazione per accozzamento
( ). Questo interessante paradigma della derivazione per accozzamento viene
sottolineato più volte nel Saggio, ma in modi contraddittori ed ambigui:
dapprima il modello appare rigido, consistente in una sorta di derivazione a Y,
in cui da due lingue ne deriva una terza; tuttavia successivamente lo stesso
modello viene invece presentato come l'effetto dell’ accozzamento di vari
idiomi ( ), mostrando quindi consapevolezza della maggiore frequenza dei casi
in cui una lingua si trasforma per effetto di spinte molteplici e diverse (di
varie e disperse tribù, ). Sullo sfondo
resta degna di nota l’evidente propensione di C. verso una visione dinamica
della lingua, che l’abate concepisce come naturalmente mossa, in perenne
rinnovamento a partire dal basso, convinzione che lo porta peraltro anche a
sostenere l impossibilità di una lingua pura, perfetta, inalterabile. Date
queste premesse, la prima operazione dell’uomo sulla lingua non può che essere
stata, agli occhi dell’abate, quella di cogliere e imitar il rapporto posto
dalla natura fra il suono di certi oggetti e quel della voce, e di dar agli
oggetti stessi un nome analogo al suono ch'essi tramandano (ivi, 320). È il
metodo della onomatopea, che ora viene a comprendere non più soltanto la
relazione reciproca che si instaura tra il suono degli oggetti e la voce
analoga a quel suono, ma anche quella che si stabilisce tra le proprietà
esterne degli oggetti e le articolazioni vocali. 11. Su queste vicende cfr.
Itard (1801; 1807) e, indirettamente, Pennisi (1994). Di tali lingue C. afferma
non so se esistano di queste lingue, ma so che possono esistere, e in tal caso
procederebbero con uno stesso metodo naturale, salvo l’influenza diversa del
vario clima (C.Il passo in cui C. illustra questa prima operazione dell’uomo
sulla lingua rivela tra l’altro l'incapacità di cogliere la differenza tra
suono e lettera. Si tratta dalla prolusione latina De naturali linguarum
explicatione: Nimirum inter litteras et certas rerum proprietates, eas
praecipue quae ad auditum ratione aliqua referentur, arcanam analogiam natura
statuit, quam sagax animus arriperet, eaque ductus ad res ipsas esprimendas
quamproxime accederet. Enimvero cum litterae in pronunciando aliae aegre
exploduntur, aliae elabuntur atque effluunt; nonnullae abblandiuntur organo;
nonnullae vehementius impingunt; quaedam se caeteris facile agglomerant;
recluctantur quaedam; cum sibilat haec, illa frendit, altera glocitat; nonne
propemodum clamitant esse se certissimas notas analogis corporum proprietatibus
exprimendis ab ipsa natura constitutas? Itaque dentales litteras constantibus
rebus et firmis; gutturales hiantibus et laboriose excavatis; fluidis, laevibus,
volubilibus liquidas, aspera ac rapidae vehementiae caninam; anguineam sibilae
celeritati notandae, natas et conformatas verissime dixeris (ivi 320-1)5. In
questo passo, dove vi è un importante riferimento esplicito alla solidarietà
analogica, appare per altri versi un collegamento non banale con la tradizione
italiana della ricerca etimologica e con un modello di pratica etimologica
consistente nella ricerca di un legame, fonosimbolico, metaforico o anche solo
di natura estetica, tra la forma di una parola e aspetti peculiari della
realtà. In sostanza un richiamo a una lettura leggera del Cratilo platonico,
piegato a modello. Nel testo C.ano sono evidenti infatti le tracce del modello
di classificazione dei suoni, metaforica e fortemente impressionistica, che è
alla 12. In conformità con la tradizione grammaticale latina, la lettera
(grafema) identifica ancora per lungo tempo la minima et indivisibile parte de
la voce articulata (Trissino, 1986, 91). Per una storia del termine lettera
cfr. Abercrombie (1949); Droixhe (1971); Loi Corvetto (1992). 13. E evidente
che fra le lettere e determinate proprietà delle cose, quelle principalmente
che si riferiscono in qualche modo all'udito, la natura ha stabilito una arcana
analogia, tale da poter essere avvertita dall'animo sagace, che da essa guidato
giungesse ad esprimere le cose stesse nel modo più aderente possibile. E in
realtà, dato che alcune lettere, quando sono pronunciate, vengono esplose a
fatica, altre scivolano e scorrono; altre accarezzano l'organo vocale; altre lo
sforzano più energicamente; altre si rifiutano; dato che una sibila, una
digrigna, un'altra ancora chioccia; non dichiarano quasi a gran voce di essere
dei segni certissimi stabiliti dalla stessa natura ad esprimere analoghe
proprietà dei corpi? Cosi si potrebbe affermare con piena verità che le dentali
sono nate e conformate a denotare cose salde e ferme; le gutturali, cose
spalancate e laboriosamente scavate; le liquide, cose fluide, lisce e volubili;
la canina a esprimere una violenza aspra e rapida; l'anguinea, una sibilante
celerità (trad. di E. Bigi, in C.base del lessico della fonetica dell’italiano
tra il XVI e il xv secolo, nella quale si ritrovano largamente impiegati
termini che fanno riferimento alla forma di parti del corpo, come ad esempio le
labbra o la lingua (suoni rotondi, schiacciati), o a proprietà della produzione
sonora, come ad esempio la durata dei suoni (suoni sfuggiti, riposati) ma anche
a generiche qualità estetico-culturali attribuite metaforicamente a un solo
suono o a classi di suoni (suoni grassi, delicati, piacevoli, ma anche suoni
corrotti, rozzi, poveri o morti, o addirittura suoni lunati ecc.). La classe
dei suoni lunati/cornuti chiarisce forse, in maniera esemplare, questo
procedimento di attribuzione associativa tra una qualità e una lettera-suono.
Il termine lunato si ritrova in Bembo (1960, 150) che, chiaramente influenzato
da Dionigi di Alicarnasso, definisce quasi lunato e cornuto il suono mezzano
delle nasali zz e 7, dove i due termini qualificativi del suono nasale
traducono entrambi il greco kepatoads, simile a corno. Si tratta del termine
che Dionigi attribuiva al suono delle nasali, dette appunto [fyoi] keparoadels
(De compositione verborum VI, 14, 19); tuttavia, mentre il termine utilizzato
da Dionigi fa riferimento al suono del corno, ossia dello strumento a fiato,
Bembo sembra piuttosto far riferimento, non soltanto all’impressione uditiva,
quanto soprattutto alla forma dell'oggetto (grafema), attribuita infatti anche
alla figura a falce dell’astro lunare, in cui egli probabilmente ravvisava
qualche analogia con la forma delle lettere. Non diversamente da questo modello
di classificazione, anche per Cesarotti i suoni-lettere traggono motivazione
dall’organo coinvolto nel gesto articolatorio (le dentali evocano ciò che è
saldo, le gutturali ciò che è profondo) o da un’associazione sinestetica (le
liquide vengono associate a ciò che è fluido, la serpiforme fricativa alveolare
alla velocità del sibilo), altre volte il solo nome ne svela la natura,
imitativa del suono (lalettera, metaforicamente detta canina, evoca il ringhio
del cane: cfr. C., 1960, p. 321). 3 La catena Da queste premesse C. trae una
sorta di estetica naturale dei vocaboli che dispone secondo una gerarchia, di
natura appunto estetica, ma che si 14. È comunque possibile, benché più
improbabile, che il termine fosse stato scelto anche in base alla sensazione
della fuoriuscita dell’aria sia dalla cavità orale, sia dalle cavità nasali (a
questo proposito si veda Pettenati, 1960). intreccia in modi originali con la
consapevolezza di attributi inalienabili delle lingue quali la variabilità, la
mobilità'5, così come le inevitabili irregolarità e difetti! ecc.: saranno
belli e pregevoli que’ vocaboli che colla natura e l'accozzamento de’ loro
elementi rappresentano più al vivo le qualità esterne degli oggetti che hanno
una qualche analogia diretta o indiretta coll’organo della voce: men belli o
difettosi saranno quelli che o non esprimono adeguatamente questa analogia, o
fanno una discordanza col suono dei corpi. Sotto questo aspetto sarà migliore
la voce stabilis dei Latini che il bebaeos [sic] dei Greci, flumen di potamos,
serpens di ophis, grus molto più bello di gheranos. Così l’acqua italiano e il
vague francese che si diguazzano nella bocca, avranno più pregio che hydor e
cyma; guerra, liscio, tromba saranno da preferirsi a bellum, glaber, tuba;
schiantare avrà quella bellezza espressiva che manca ad evellere e così d’altri
simili (C., 1960, 327). Queste affermazioni che fondano la gerarchia estetica e
fonosimbolica dei suoni risentono evidentemente dell’influsso di de Brosses (il
gruppo ST indica stabilità, FL scorrevolezza ecc.)*. Ma C. va oltre e coglie
anche un occulto rapporto tra certe qualità dell'animo e ’1 suono della voce
tale per cui, ad esempio, le vocali piene, le acconce consonanti e la molteplicità
delle sillabe renderebbero una nuova e più distinta bellezza a vocaboli come
orgoglioso, baldanzoso o anche tracotante, mentre l’esilità vocale di vocaboli
come umile, timido, stupido renderebbe perfettamente le accennate meschinità
dello spirito (Cesarotti, 1960, 327). D'altra parte l'abate non ignora che,
seppure a partire dai pochi germi iniziali, si giunge infine, nel corso del
tempo, alla selva immensa e intralciatissima delle lingue su cui avrà agito la varia
flessione e il vario grado d'impulso dei singoli individui parlanti, ossia
l’infinità variabilità individuale, la mescolanza dei suoni (molto d’arbitrio
nell’accozzamento, nell’ordine e nella temperatura delle consonanti e delle
vocali) nonché 15. C. fa cenno alla anarchia della pronunzia (C., 1960, 311): ovunque, come egli infatti
osserva, regna diversità di pronunzia e di modi (ivi, 310). 16. La mutevolezza
della lingua, in ragione delle modificazioni che intervengono nel corso del
tempo, discende dalla libertà dei parlanti, dal loro libero consenso: la nazione
stessa, ossia il maggior numero dei parlanti, avrà sempre la facoltà di
modificare, accrescere e configurare la lingua a suo senno (ivi, 309). Pertanto
niuna lingua è inalterabile. Le cause dell’alterazione sono inevitabili e
necessarie (ivi, 310). 17. Per C.
infatti niuna lingua è perfetta (ivi 309-10). 18. Marazzini lo ha più volte
sottolineato i mezzi della derivazione (gli affissi, ad esempio, che nella
classificazione C.ana rappresentano segni arbitrari, quindi non motivati e non
analizzabili), opacizzando le iniziali analogie (ivi, 326). In alto nella gerarchia
vi saranno allora quei vocaboli di cui più evidenti saranno le analogie,
dirette o indirette, col suono degli oggetti e ai quali viene dedicato ampio
spazio nella parte 11 del Saggio: saran più belli i termini che si traggono
dalla causa, dall’effetto, dalla forma, dal fine, dall’uso, dalla connessione
prossima, e quelli ancora più che obbligandoci ad una leggera attenzione ci
fanno con un picciolo esercizio di spirito scoprire una verità: men pregevoli
saranno quei che si deducono dalla materia, dall'autore, dalla causa
occasionale, dal paese: difettosi alfine quei che derivano da una particolarità
accidentale e indifferente, da una circostanza momentanea, da un appicco soverchiamente
lontano, da una opinione falsa, da una qualità comune e generica (ivi, 329;
corsivo mio). E così, seppure il vanto andrà a vocaboli che presentano una
verità in una immagine (come la greca voce psiche, farfalla, applicata
all'anima, ), in seguito ai fenomeni di trasmigrazione e metamorfosi alla quale
questi ultimi sono inevitabilmente sottoposti nel corso del tempo, tutto nella
lingua non potrà che essere alternativamente figura e cifra (ivi, 336). I
vocaboli infatti invecchiano, asserisce C., per la rivoluzione dell’idee, per
il reciproco commercio dei popoli, ma anche per sazievolezza dell’uso, così
come per capricciosa vaghezza di novità, facendo sì che le lingue mutino infine
nel valore, nel color, nell'effetto (;bid.); da qui anche la necessità di
apertura verso termini nuovi, nuove derivazioni e metafore che possano
restituire freschezza e colorito alla lingua. Sempre nell’ambito di una teoria
naturale della significazione, Cesarotti osserva come in realtà gli oggetti
privi di analogie con la voce si aggancino in una catena con il vocabolo
primigenio formato dal suono generatore, che è come l’ultimo anello a cui si
connettono lateralmente quinci la catena degli oggetti, quindi l’altra dei
vocaboli analoghi (ivi, 322). Questa nuova relazione tra suoni e oggetti, che
non è più immediata ma derivata, rende meno sensibile il rapporto tra vocaboli
e oggetti. Inoltre, mentre il suono della voce ha una corrispondenza perfetta
con la sua sostanza fonica (corpo sonoro), il rapporto tra il vocabolo e
l’oggetto designato è molto più ambiguo e confuso in quanto i corpi/oggetti
hanno molti aspetti, tali per cui l'ascoltatore non può aver mezzo di conoscere
in che si faccia consistere cotesta relazione (ivi 322-3). Interessante, a
questo proposito, il riferimento al ricevente/ascoltatore e al ruolo attivo che
quest’ultimo deve necessariamente svolgere nell’ambito dello scambio
comunicativo. In ombra, ma neanche troppo, vi è già il ricorso all’uniformismo,
che tanto peso avrà nella linguistica dell’ Ottocento: ne risulterà che chi
ascolta o non verrà facilmente ad intendere qual sia la sostanza indicata con
quel vocabolo, o sostituirà volentieri le idee proprie a quelle degli altri,
supponendo che chi parla intenda con quel termine d’indicar lo stesso rapporto
da cui egli fu maggiormente colpito (ivi, 323). D'altra parte, giacché le
derivazioni delle idee devono essere in numero significativamente maggiore
rispetto alle derivazioni vocali, una sola articolazione comprenderà sotto di
sé molte e varie significazioni d’oggetti derivati per diverse strade dal primo:
ne segue che i vocaboli, quanto più si slontanano dal primo termine radicale,
più vanno deviando dal significato di esso, e procedono desultoriamente e
trasversalmente d’idea in idea, in guisa che non possono risalire alla prima se
non per laberinto d’obliquità, di cui è talora assai malagevole trovar il filo
(ivi, 323). A partire da tali assunti, si dischiude, da parte C.ana, anche
un’attenzione singolare per il tema della mutevolezza, ambiguità e plasticità
dei vocaboli, riassunta nella significativa affermazione secondo cui tutto
nella lingua è alternativamente figura e cifra. 4 Conclusione Nella complessa
architettura C.ana relativa alla natura del segno, inizialmente assunto come un
precipitato di un’originaria capacità designativa analogica rispetto
all'oggetto, si prefigura quindi un distacco dalla primor19. L'uniformismo o
uniformitarianismo è quel principio, sviluppato inizialmente nell'ambito delle
scienze naturali, che garantisce, in base all'osservazione del presente, la
possibilità di comprendere il passato in virtù della corrispondenza, alle stesse
cause, degli stessi effetti. Da qui discende l'assunto dell'unità psichica
dell'uomo, secondo cui gli stessi processi psicologici governano, e hanno
governato nel passato, le dinamiche linguistiche, garanzia, conseguentemente,
della validità del ricorso alle leggi fonetiche e all'analogia per
l'interpretazione dei fenomeni del cambiamento linguistico, su cui si fonda
gran parte della linguistica ottocentesca (cfr. Putzu, 2015). 181 FRANCESCA M.
DOVETTO diale visione ingenua di questo rapporto e, allo stesso tempo, una
apertura verso un'originale considerazione delle capacità analogico-associative
del pensiero, riflesse nella catena trasversale in grado di unire idee e
oggetti. Come giustamente afferma Roggia (C., in corso di stampa, 2): solol'uso
dei segni e in particolare dei segni convenzionali (ossia arbitrari) permette
alla mente di fermare le idee e di gestirle a proprio piacimento, componendole
e scomponendole, associandole in catene analogiche o discorsive. Ne consegue
l'importanza di disporre (per il tramite dell'analogia, che per C. rappresenta
già a questa altezza il vero principio razionale operante nelle lingue) di un
repertorio di segni convenzionali adeguatamente ricco e ordinato, e di una
sintassi sviluppata, affinché la ragione possa spiegare compiutamente le
proprie facoltà conoscitive. E grazie a questo vero principio razionale che le
catene associative analogiche vengono quindi a costituirsi, cosicché la
motivazione del segno, a partire dalla sua origine naturale nell'onomatopea, si
apre infine a posizioni moderatamente convenzionaliste. Riferimenti
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Pozzi, Roma 1932; traduzione di riferimento dall’edizione napole182 LA CATENA
TRASVERSALE DEI VOCABOLI TRA OGGETTI E IDEE tana del 1775 De aquaeductibus
auris humanae internae anatomica dissertatio, versione in italiano dall
originale in latino di L. Ricciardi Mitolo, con introduzione di M. Mitolo,
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prospettiva cognitiva e sociosemiotica, Il Mulino, Bologna. 184 Spunti per una
teoria del mutamento linguistico di Carlo Enrico Roggia Il mutamento
linguistico è uno dei grandi temi del pensiero C.ano, non è anzi esagerato
affermare che ne è una sorta di cardine: di fatto tutti i filoni lungo i quali
si è mosso il lavoro dell’abate professore nell’arco di oltre trent'anni
presuppongono o implicano una concezione intrinsecamente dinamica del
linguaggio. Basti l’esempio di tre temi scelti tra i più riconoscibilmente C.ani,
ossia il rapporto lingua-norma vissuto fin dagli anni giovanili in chiave
antipuristica, l'interesse per l'etimologia, e la speculazione intorno
all’origine e prima evoluzione delle lingue intesa come scavo nella condizione
della mente primitiva e nella sua lenta evoluzione verso la ragione. È
sintomatica, in questo senso, anche la scelta dell’esergo oraziano del Saggio
sulla filosofia delle lingue, se scopo degli eserghi è di suggerire possibili chiavi
di lettura di un’opera: Ut silvae foliis pronos mutantur in annos, prima
cadunt, ita verborum vetus interit actas, et iuvenum ritu florent modo nata
vigentque'. Le parole invecchiano e muoiono per lasciare spazio a parole nuove:
la lingua muta incessantemente anche restando uguale a sé stessa. Ma la
metafora vegetale, qui legata al ciclo delle stagioni, è di per sé metamorfica,
e come vedremo è tra le più amate dal Nostro quando si tratta di parlare dei
fatti di lingua. Con tutto questo, non si può certo pensare di trovare nelle
pagine di C. una vera e propria teoria del mutamento linguistico; semmai quello
che c’è è piuttosto una costellazione di riflessioni ricorrenti, in par1.
Orazio, Ars Poetica, 60-64: assente nella prima edizione, l'esergo viene
inserito in vista dell'edizione del 1800. Più sotto Orazio dice Multa
renascentur quae iam cecidere, cadentque / quae nunc sunt in honore vocabula,
si volet usus, / quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi. 185 CARLO
ENRICO ROGGIA te originali in parte no, dislocate in vari testi intorno al come
e al perché le lingue mutano. Queste riflessioni, che rispecchiano nella loro
varietà le sfaccettature di un fenomeno complesso se mai altri, pur non
arrivando a comporre un sistema possiedono tuttavia una loro indubbia coerenza,
addensandosi lungo alcune linee di forza che meritano di essere portate ad
evidenza. Certo, proiettare su un ideale piano sincronico riflessioni legate a
momenti e contesti diversi è un’operazione sempre insidiosa, dei cui potenziali
limiti è bene essere consapevoli; d’altra parte a incoraggiare nel caso
specifico una tale operazione sarà anche la particolare natura della cronologia
C.ana, che vede i testi rilevanti concentrarsi in due periodi ben
identificabili: il primo è dato dagli anni dei primissimi corsi universitari
(1769-72), il secondo dalla stesura del Saggio sulla lingua italiana (1785),
con elementi di forte continuità tra i due e con riprese dirette che giustificano
largamente un discorso unitario. Vale innanzitutto la pena di fare una premessa
generale: se nella tradizione razionalistica il mutamento delle lingue
rappresenta uno spettro concettuale, come è stato detto, o almeno un ingombro
teorico, nel paradigma empirista associabile al tema dell’origine del
linguaggio, largamente dominante nella linguistica secondo-settecentesca il
mutamento rappresenta piuttosto la condizione naturale delle lingue, concepite
come organismi intrinsecamente storici’. L'essere in movimento, il modificarsi
come caratteristica coessenziale alle lingue, rappresenta per questo approccio
un dato di partenza, inscritto in certo modo nelle sue stesse premesse
teoriche. Così è infatti anche per C., il quale tuttavia prima di arrivare ad
affinare le proprie idee intorno alla filogenesi linguistica, aveva già da
tempo incrociato il problema del mutamento linguistico lungo un’altra
direttrice, che sarà proverbialmente sua fino agli anni della vecchiaia. Tra le
carte inedite contenute nel manoscritto 3565 della Biblioteca Riccardiana di
Firenze, che custodisce numerosi testi didattici di Cesarotti*, si trova una
praefatio pronunciata al Seminario vescovile di Padova verosimilmente intorno
all’anno 1757, ossia verso la fine del suo periodo di insegnamento. Il tema è
quello del rapporto lingua-norma, il primo dei tre citati in apertura: si tratta
più esattamente della possibilità di perfezionare 2. Per questa prospettiva,
cfr. Roggia (2011). Sulle modalità e i tempi della scrittura del Saggio si veda
Daniele (2011). 3. La citazione tra virgolette è di Simone (1990, 335; cfr.
anche 329). Per il paradigma dell’origine del linguaggio il riferimento è
ovviamente ad Aarsleff (1984), Rosiello (1976). 4. Su cui cfr. Gallo (2008),
Roggia (2014). 186 SPUNTI PER UNA TEORIA DEL MUTAMENTO LINGUISTICO e modificare
una lingua proverbialmente fissa e grammaticale, oltre che venerabile, come la
latina. È lecito, in sostanza, coniare nuovi vocaboli latini, ampliando un
patrimonio lessicale lasciatoci in eredità dagli scrittori classici? Non solo è
lecito, risponde provocatoriamente C., ma è anzi necessario, perché solo
mutando la lingua può adattarsi al mutare del mondo, alla continua creazione di
nuovi designanda, e di nuovi esseri nozionali, come li chiama altrove: affermo
con grande sicurezza che non solo i vocaboli di Virgilio e Tullio, ma neanche
quelli di Omero e Platone e degli altri greci, se avessero parlato latino,
avrebbero potuto in alcun modo esserci sufficienti. Lascio da parte la
religione completamente mutata, i regni abbattuti, lo stabilirsi di nuovi
imperi, la fondazione di nuove leggi, l'introduzione di nuove consuetudini, l
invenzione di nuove arti, la scoperta di un nuovo mondo. Non è infatti solo
questione di registrare linguisticamente gli inevitabili mutamenti 4 parte
obiecti, ossia nel mondo. Anche se non fosse cambiato nulla dell’antico stato
di cose, i contemporanei che volessero servirsi del latino sentirebbero
ugualmente la necessità di coniare nuovi vocaboli: Dal momento infatti che le
parole sono state inventate unicamente allo scopo di esprimere i nostri
pensieri e le nostre sensazioni, e che presso i filosofi risulta per certo che
né gli uomini percepiscono le cose esattamente allo stesso modo, né elaborano
su di esse lo stesso giudizio, né hanno nei loro riguardi le stesse affezioni,
non volere che usiamo altre parole se non quelle dei romani è evidentemente lo
stesso che pretendere che guardiamo le cose non coi nostri bensì coi loro
occhi’. L'affermazione mostra già a questa altezza una piena coscienza del
fatto che una lingua non è né una nomenclatura né uno specchio delle cose, come
in una certa tradizione di ascendenza aristotelica, ma piuttosto uno specchio
dell’intelletto, e di un modo individuale e collettivo di rapportarsi alle
cose: è un punto che ha importanti conseguenze e su cui bisognerà tornare in
chiusura di saggio. È chiaro, ad ogni modo, che già a questa altezza il
mutamento delle lingue appare non solo una necessità ineluttabile, nel senso di
una forza naturale a cui non ha molto senso opporsi, ma anche una necessità virs.
Cito dalla traduzione inclusa in Roggia (2016, 280), contributo a cui rinvio
per una presentazione del testo e una discussione dei contenuti. Il testo è
ripreso anche in Cesarotti (in corso di stampa, I, 2). ROGGIA tuosa, senza la quale il linguaggio
stesso perderebbe ogni presa sul mondo, e non potrebbe funzionare efficacemente
come strumento comunicativo. Il cambiamento linguistico è come si vede guardato
dal suo lato creativo, ossia come libertà di innovare: l impostazione data al
problema del rapporto lingua-norma è insomma fin dagli anni Cinquanta
irriducibilmente antipuristica, ed è notevole che queste argomentazioni vengano
applicate al latino, lingua pretesa morta ma invece pienamente viva nella
coscienza di C. come lingua transglottica dell’ Europa dei dotti‘. Siamo insomma
di fronte a un elemento fondativo del pensiero linguistico di C., assorbito fin
dalla sua prima educazione e ispirato a una visione fondamentalmente
progressiva e modernista della lingua, così come in generale dei fatti
culturali e artistici. Altri assi o filoni del pensiero C.ano direttamente
implicati col tema del mutamento linguistico si legano invece a importanti
esperienze biografiche successive, tra cui la traduzione dell’ Ossian, e
soprattutto la nomina, nel 1769 a 37 anni, alla cattedra di Lingue antiche
(greco ed ebraico) dell’ Università di Padova. Poco o nulla esperto di ebraico,
C. si dà allo studio, cercando di leggere quanto riesce a procurarsi e
accorgendosi presto di essere entrato in un ginepraio: non diventerà mai un
ebraista, ma in compenso entrerà in contatto con autori e temi decisivi per la
formazione di un suo vero e proprio pensiero linguistico. Data da questo
momento l’interesse per il tema dell’origine del linguaggio citato in apertura:
centrale nel dibattito europeo coevo, e in chiaro collegamento con
l’intitolazione della cattedra di Lingue antiche. Ma c’è anche dell’altro: le
prime lezioni sull’ebraico, pronunciate verosimilmente nel 1770-71, inedite e
trasmesse dalle carte manoscritte di Firenze e Vicenza, includono un’ampia
sezione dedicata a una definizione dei contorni del proprio campo disciplinare
(l'ebraico), in cui C. si impegna in una articolata storia linguistica della
Palestina dall'arrivo di Abramo fino alle invasioni arabe del vII secolo. Per
quanto fondate su notizie di seconda mano, sono pagine non prive di fascino nel
loro raccontare una vicenda tormentata di endemica instabilità, in cui in una
stessa area, relativamente circoscritta, le lingue si succedono, nascono,
muoiono, si contaminano reciprocamente, si dividono in dialetti, i quali a loro
volta assurgono al rango di lingue: tutte le forme del movimento e della
contaminazione linguistica vi sono in qualche modo contempla6. Su questa
funzione del latino in età moderna, cfr. l'importante sintesi di Waquet (2004).
7. Rinvio per questo alla mia introduzione a C. (in corso di stampa). te‘. Non
c’è in queste pagine vera teoresi: si tratta piuttosto di un esercizio di ciò
che oggi chiameremmo storia linguistica esterna, acceso a tratti da
affermazioni di respiro più generale. Ma è un esercizio animato da un senso
vivo e a tratti pressoché eracliteo della continuità e preterintenzionalità del
cambiamento linguistico: I singoli dialetti crescono al livello di lingue, le
singole lingue si perdono in dialetti, dalla mescolanza di più dialetti o di
più lingue se ne forma una terza: queste sono le vicissitudini certe e
necessarie delle lingue, e non esiste alcun punto individuabile che rappresenti
la morte di una lingua, l’inizio di un’altra. C'è in questo una quotidiana
discesa, una modificazione quotidiana per gradi tanto taciti e indistinguibili
da non poter essere apprezzata se non su lunghe distanze. Proprio come nella
vita tu riconosci di essere diventato vecchio ma non ti senti affatto
invecchiare, così nel misurare la distanza percorsa dalle lingue crederai
facilmente di essere nello stesso posto: ti guardi indietro, e ti accorgi di
essere stato condotto lontano’. Oltre che suggestiva, l'affermazione è anche
teoricamente interessante per il collegamento che istituisce tra nascita o
morte di una lingua e articolazione delle lingue in dialetti, altro tema di
fondo, continuamente riemergente, della linguistica C.ana. È infine ancora in
questo stesso ambito, quello dei corsi sull’ebraico, e in questo stesso giro
d’anni, che si fissa l’interesse per l'etimologia, prima del tutto estraneo
all'orizzonte C.ano: Pultimo dei tre ambiti citati in apertura come
direttamente collegati al tema del mutamento linguistico. Tutti questi filoni
sono destinati a convergere nella sintesi del Saggio sulla lingua italiana del
1785. Esaurita questa premessa, si può tornare a riconsiderare da vicino quella
costellazione di osservazioni di cui parlavo all’inizio. Per mettere ordine 8.
Un resoconto del contenuto di queste carte in Roggia (20142 78-9), a cui rinvio
anche per una descrizione dei manoscritti (il Riccardiano già citato, e il
manoscritto 1223 della Biblioteca Bertoliana di Vicenza). 9. Corso sulla lingua
ebraica, lezione 12: Dialecti singulae in linguas excrescunt, linguae singulae
in dialectos abeunt, ex pluribus dialectis aut linguis conflatur tertia: hae
certae ac necessariae linguarum vices: at nullum certum in tempore punctum est
quod alteri linguae sit obitus, ortus alteri. Quotidianus hic est descensus,
quotidiana inclinatio, ita indiscretis ac tacitis gradibus, ut ea non facile
nisi ex magnorum intervallorum comparatione aestimetur. Nempe ut in vita senem
te factum agnoscas, senescentem minime sentias; ita in emetiendo linguarum
stadio in eodem te loco positum facile existimes, respexeris? jam te longe
abductum mirere (ms. 3565 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, c. 1171).
10. Sull'etimologia in C. si vedano, in questo volume, i saggi di Daniele Baglioni,
L'etimologia nel pensiero linguistico di C., e Andrea Battistini, Le origini
del linguaggio in Vico e in C.. nella
materia, procederò per punti e per progressive delimitazioni di campo, partendo
da una prima e fondamentale: nelle pagine seguenti verrà lasciata da parte la
prospettiva filogenetica, quella cioè che concerne l’origine del linguaggio e
il suo sviluppo attraverso le epoche della grande storia umana (un tema già
trattato altrove in questo volume), e si tenterà piuttosto di mettere a fuoco
la dimensione più ordinaria, se si vuole, del mutamento linguistico, quella che
opera sulla media o breve durata e afferisce alla normale fisiologia della vita
delle singole lingue. I Mutamento per contatto e mutamento endogeno Per C., non
troppo diversamente che per noi, le lingue mutano o per contatto con altre
lingue o per l’azione di spinte interne. I temi del contatto interlinguistico e
del prestito (in particolare lessicale) assumono nel Saggio una forte e ben
nota implicazione militante; sono invece trattati con finalità più pianamente
espositive all’interno della sezione etimologica del già citato Corso sulla
lingua ebraica del 1770. L'attenzione si focalizza in questo testo sul fatto
che nel passaggio da una lingua a un’altra le parole vanno incontro ad
alterazioni e adattamenti a ogni livello. In primo luogo a livello fonico: è in
questo caso l’abitudine articolatoria a creare tra le infinite possibili
modulazioni dell’organo vocale alcune configurazioni preferenziali, specifiche
a ogni lingua, verso cui vengono attratte le articolazioni vicine della parola
straniera: con la facilità nel movimento degli organi si rafforza l'abitudine,
con l'abitudine la facilità; di qui nelle trasmigrazioni dei vocaboli le
articolazioni straniere che il più delle volte fanno spazio a quelle consuete e
familiari . A livello morfologico è invece il meccanismo dell’analogia, il più
potente mezzo di strutturazione interna delle lingue, a determinare
un’assimilazione del forestierismo alla lingua d’arrivo: su suo suggerimento,
infatti, avviene che le voci adottive o accolgano le terminazioni proprie della
lingua in cui si introducono rigettando le loro originarie, o le aggiungano
alle primitive, conservando queste ultime: questo evidentemente 11. Corso sulla
lingua ebraica, lezione 21 (C., in corso di stampa, IV, 2): rientrano in questa
casistica anche gli adattamenti puristici, ad esempio le assimilazioni
deliberate dei nomi propri stranieri. La trattazione del tema è molto analitica
in queste pagine del Corso, contemplando diverse forme di alterazione
interlinguistica, che tengono conto ad esempio anche del passaggio attraverso
il mezzo scritto. affinché l’aspetto della lingua popolare si mostri per quanto
possibile omogeneo e coerente con sé stesso, e la struttura grammaticale del
discorso proceda più uniforme. A livello semantico, infine, l'assimilazione può
prendere la forma dell’accostamento paraetimologico, quando la parola importata
presenti casuali affinità nel significante con parole già appartenenti al
lessico della lingua d'arrivo. In queste osservazioni, occasionate come detto
da un discorso sulletimologia, la prospettiva di C. è sempre quella di chi
guarda al mutamento delle singole parole, non del sistema: il sistema è visto
piuttosto come una sorta di costante rispetto alla variabile rappresentata
dalla forma delle parole che vi prendono posto. C’è comunque spazio almeno per
una osservazione di portata generale, la cui importanza sarà evidente più avanti:
tanto l'adattamento fono-morfologico che l'appropriazione semantica non sono
altro che reazioni sistemiche a una situazione di potenziale irrelatezza, ossia
di integrale arbitrarietà, del nuovo segno nella lingua d’arrivo. La parola
nuova è un corpo estraneo, e l’adattamento a ciascuno dei tre livelli permette
di ricondurla al tessuto di relazioni paradigmatiche che costituiscono la
lingua, riassorbendone così l'alterità. Questo meccanismo generale, che opera a
tutela dell’integrità e della stabilità dei sistemi linguistici rappresenta
anche, come vedremo, un potente motore del mutamento semantico interno alle
lingue stesse. Più interessante (e più pertinente al nostro discorso) è
tuttavia l’altro versante del problema: quello che riguarda appunto il
mutamento endogeno, ossia prodotto da forze interne alla lingua. Questa idea
della forza interna rientra fra i connotati più tipici del discorso C.ano, ed è
veicolata per lo più attraverso quelle metafore di ambito vegetale di cui già
si è detto in apertura. L’esergo oraziano lì citato va in questa direzione, ma
ciò che più è caratteristico è in generale l’impiego di un sistema me12. 13. Un
caso che riguarda il passaggio dal latino alle lingue romanze (dunque solo in
parte qualificabile come extralinguistico) è quello del passaggio pileatus >
Pilatus discusso da Baglioni in questo volume (pp. 216-7). Ma il meccanismo di
gran lunga più utilizzato da C. nelle sue ricostruzioni etimologiche è
l'acquisizione di un espressione straniera sotto forma di un nome proprio. C.
se ne serve ampiamente per collegare la mitologia e l’onomastica greca a
presunte fonti fenicie ed ebraiche: cfr. le lezioni De Eumolpo et de Cereris
fabula, in C. (in corso di stampa, vin), e le lezioni 23-25 del Corso sulla
lingua ebraica presenti nel manoscritto 1223 della Biblioteca Bertoliana di
Vicenza (cc. 100-9: cfr. Roggia, 20144 79, 92). I9I ROGGIA taforico diverso e
coerente che si sviluppa intorno all’idea centrale di una ‘forza vegetativa’
(vis vegetabilis): una sorta di interna energia vitale che spinge le lingue a
produrre continuamente nuovi germogli e nuovi rami, ossia fuori di metafora
nuove forme linguistiche. Di una facoltà vitale e generativa della lingua parla
anche il Saggio (C., 1960, 314), e la metafora ricorre poi in varie occasioni.
Viene ad esempio applicata alla creazione di locuzioni metaforiche, che sono i
rampolli di quel germe che è in una lingua ogni nuovo vocabolo (ivi, 383), e
alle derivazioni affissali'+: Le parole portano seco i loro germi
indestruttibili, atti a propagar la lor famiglia. Qual forza legittima può
impedirne la fecondità? Sempre un verbo potrà generare i suoi verbali, sempre
da un adiettivo potrà dedursi il sostantivo astratto, o dalla sostanza generale
il nome adiettivo che ne partecipa (ivi, 373); finalmente i segni arbitrari
della derivazione prefissi, inseriti o posposti modificano i vocaboli nati
dallo stesso fonte in cento guise diverse: dal che appunto deriva che pochi
germi della medesima specie propagano coll'andar del tempo /a selva immensa ed
intralciatissima delle lingue (ivi, 326). Ma, come accade anche in altri casi,
ciò che nel trattato del 178$ trova una sistemazione orientata all’italiano era
già nelle lezioni universitarie di dieci-quindici anni prima, riferito alle
lingue antiche oppure presentato in chiave più generale. Mi limito a un solo
esempio tratto da un breve frammento sull’etimologia, pubblicato postumo da
Barbieri nel volume XXXI delle Opere di C. col titolo De ethymologia et
radicibus verborun: Non c’è dubbio che se uno si mettesse a spogliare le parole
di ogni lingua di tutti i prolungamenti e le aggiunte, vedrebbe che null’altro
gli rimane se non queste radici organiche, che evidentemente sono i germi
naturali delle lingue, indelebili e fecondi al pari dei germi delle cose:
dotate di una forza vegetativa, le vedrebbe un po’ alla volta crescere, fino a
propagarsi in una selva lussureggiante e disordinata (C., in corso di stampa,
Ix, 3). Come si vede, la metafora si applica tanto all’ordinaria
amministrazione dei neologismi quanto alla filogenesi, e rende conto tanto del
crescere 14. Miei, qui e in seguito tranne dove diversamente specificato, tutti
i corsivi. Is. C. (18 IO, 276): il frammento non é datato, ma rinvia per
contenuti e approccio al nucleo del Corso sulla lingua ebraica più volte
citato.di una lingua su sé stessa quanto del moltiplicarsi delle lingue da
radici comuni. L'esempio consente tra l'altro anche di intravedere il
verosimile nucleo originario di questo sistema metaforico nel concetto
leibniziano di radice‘, Qualunque ne sia l’origine, la proiezione di questo
campo metaforico sull’oggetto-lingua ha ad ogni modo alcune conseguenze
interessanti: ad esempio viene ad attribuire per via implicita al mutamento
linguistico alcune caratteristiche rilevanti, quali l’incoercibilità (non si
può impedire a una pianta di crescere, né di gettare i suoi germogli) e la
naturalità, con in più una valutazione assiologica di segno globalmente
positivo, legata all’intrinseca positività di concetti quali vita, vitalità,
generazione. 2 Mutamento del popolo e mutamento dei dotti Ma posto che il
mutamento è un processo linguistico naturale e inevitabile, chi ne è
fattivamente responsabile? Cade qui una seconda coppia dicotomica,
lapidariamente introdotta da C. all’inizio del Saggio: Niuna lingua è
inalterabile. Le cause dell’alterazione sono inevitabili e necessarie. Ma la
lingua si altera in due modi, dal popolo, e dagli scrittori. La prima alterazione
cadendo sulla pronunzia, sulle desinenze, sulla sintassi, tende lentamente a
discioglierla, o agevola una rivoluzione violenta: quella degli scrittori cade
piuttosto sullo stile che sulla lingua, di cui se altera i colori, ne conserva
però la forma, fors'anche a perpetuità (C., 1960, 310). Nel Saggio, che muove
pur sempre da una esigenza normativa, é questione soltanto dei mutamenti del
secondo tipo, quelli cioé che hanno la prerogativa di non modificare
strutturalmente la lingua. Per trovare maggiore attenzione ai mutamenti del
primo tipo, popolari e potenzialmente degenerativi, bisogna di nuovo rifarsi
alle lezioni universitarie, che anche in questo caso offrono il punto di
partenza alla sintesi del trattato. Le stesse lezioni del Corso sulla lingua
ebraica chiamate in causa sopra contengono infatti indicazioni interessanti,
che in parte riaffiorano nel Saggio, anche su questi meccanismi di
degenerazione e sulle ragioni che li legano in particolare al popolo: 16. Su
cui cfr. Gensini (1995 35 ss.); su C. e Leibniz, si veda in questo volume il
contributo dello stesso Gensini, C. nei dibattiti linguistici del suo tempo.
193 CARLO ENRICO ROGGIA questi stessi inconvenienti che toccano i vocaboli
nelle loro peregrinazioni vengono moltiplicati e ingranditi smisuratamente a
causa della pronuncia corrotta e dell’ignoranza del volgo.. Non si deve
facilmente sperare che raggiunga nella pronuncia il valore esatto delle lettere
chi non è abituato a leggerle bene. Tra gli uomini ignari di scrittura è
incerta la valutazione delle lettere, incerti i segni, né facili da distinguere
o giudicare, qualora le singole lettere non siano state assegnate a classi
definite di organi, e distinte con un esame accurato sia da quelle diverse che
da quelle affini. Inoltre ogni passione, soprattutto quelle improvvise e
scomposte quali sogliono essere quelle del volgo, è impaziente di indugio e di
esitazione. L'uomo colpito da una passione non vede l’ora di esporre
immediatamente, e se possibile tutto d’un fiato, i sentimenti dell’animo. La
pronuncia tumultuosa e rapida si fa ostacolo a sé stessa: una parola incalza
l’altra, le lettere sono urtate, invertite e stravolte, le espressioni
malamente rovinate, elise, slogate, serrate insieme, amputate del capo o dei
piedi; un accenno di linguaggio passa per lingua, compendi o mostri verbali per
parole. Vedendo che questo avviene quotidianamente nelle voci indigene, cosa
dobbiamo credere che avvenga nelle forestiere? (C., in corso di stampa, IV, 2,
acr. 21) Sebbene ci si trovi all’interno di un discorso sul prestito
interlinguistico, a essere chiamati in causa sono qui meccanismi di portata
generale (infatti operano anche quotidianamente nelle voci indigene); è inoltre
chiaramente attiva una sorta di pregiudiziale elitaristica, dell’epoca prima
che dell’autore, che induce a vedere questi meccanismi nei termini negativi di
una corruzione della pronuncia. Questa corruzione si dovrebbe a sua volta al
convergere di due fattori: l'ignoranza (o più esattamente la mancata
alfabetizzazione) e la passionalità, entrambe prerogative popolari. Questo tipo
di movimento dal basso, benché obbedisca a motivazioni articolatorie
elementari, appare fatalmente irrazionale e capriccioso: siamo lontani
dall’intuire la possibile esistenza di regolarità (non si dice di leggi) nel mutamento
fonetico. È interessante ad ogni modo il riconoscimento della funzione di freno
svolta dall’alfabetizzazione nel tenere a bada il mutamento, almeno a livello
fonologico e morfologico. 17. Non è improbabile che C. abbia in mente qui la
pronuncia dei dialetti, vista in qualche modo come deformante rispetto alla
lingua (nel Saggio si parla in effetti dei vari dialetti come di modi di una
stessa lingua). Una conferma potrebbe venire da un'osservazione che cade nella
parte tagliata della citazione e che sembra andare in questo senso: Vediamo che
presso ciascun popolo si incontra nella vita comune un duplice dialetto: da una
parte quello degli ottimati, dall’altra quello del popolino (di nuovo con
preciso eco nel Saggio: I colti, i nobili hanno anche senza volerlo un dialetto
diverso da quello del volgo, C. Mutamento grammaticale e mutamento retorico È
importante sottolineare che è all’uso popolare che vengono espressamente
collegati i mutamenti traumatici, oggi diremmo strutturali, delle lingue:
quelli che ne alterano l’identità, fino al limite a condurle a morte, quando
l’erosione fonica arriva a intaccare in modo grave gli elementi su cui poggia
la loro architettura morfosintattica. Questa circostanza permette di istituire
un collegamento con un’altra coppia antinomica, che fa capo alla celebre
distinzione tra genio grammaticale e genio retorico delle lingue, ovvero tra un
principium individuationis strutturale e grammaticale, legato alla morfologia e
alla sintassi, e un’identità retorica o stilistica. Il passo è tra i più noti:
Il genio della lingua, che dee riguardarsi come propriamente inalterabile, è il
grammaticale, poichè questo è annesso alla natura intrinseca de’ suoi elementi.
L'essenza materiale d’una lingua dipende dalle desinenze e dalla sintassi;. Il
carattere rettorico di tutte le lingue è progressivamente e necessariamente
alterabile. Si può forse ritardarlo, non impedirlo. Questi cangiamenti essendo
in ogni tempo proporzionali ai bisogni dello spirito nazionale nelle date
epoche, non possono mai tornare a discapito della lingua, se non qualora la
nazione ricada nella vera barbarie, ch’è l'ignoranza (C., 1960 393-8). Questa
coppia concettuale fa la sua comparsa piuttosto tardi, in una lettera a
Clementino Vannetti del 1780, prima comunque del suo impiego nel Saggio. Il suo
interesse, per noi, sta soprattutto in ciò che dal passo appena citato si può
ricavare per via di inferenza, ossia che alle due forme di genio della lingua
corrisponde una doppia possibilità di mutamento: esiste cioè un mutamento
retorico, in certo senso più superficiale e tale da non alterare |’ essenza
materiale della lingua, e ne esiste uno più profondo, che tocca invece proprio
la morfologia e la sintassi, ovvero la grammatica di una lingua. Il fatto che
questa seconda possibilità venga esclusa da C. quando dice che il genio
grammaticale dee guardarsi come propriamente inalterabile dipende dalla
prospettiva in ultima analisi normativa che 18. C. (1811 64-5): la lettera, non
datata, è compresa tra due del Vannetti rispettivamente del 17 giugno e del 30
agosto 1780. Cfr. sul tema Rosiello (1967), Simone (1990); in questo volume, i
contributi di Graffi, La linguistica del Settecento: Problemi storiografici;
Gensini, C. nei dibattiti linguistici del suo tempo; Marazzini, C. attuale e
inattuale. guida l'argomentazione del Saggio: l'ingiunzione ha per così dire un
valore deontico, non epistemico. L'altro mutamento, quello retorico, è invece
quello che C. vedeva operare nell’ Europa contemporanea, sotto forma di una
impercettibile tendenza delle lingue europee a ravvicinarsi, e a profittar
delle altrui ricchezze, tale che senza il genio grammaticale, da cui solo si
forma la linea di divisione insormontabile fra l'una e l’altra, diverrebbero a
poco a poco una sola: un fenomeno ovviamente tutto dall’alto, appannaggio e
responsabilità dalle élites colte e plurilingui del continente, che dalla
specola della particolare situazione italiana potevano ancora apparire come i
veri arbitri dei destini linguistici. 4 Dei tre o quattro modi di propagare i
vocaboli Tra i mutamenti linguistici che zon alterano il genio grammaticale
della lingua, ma che ne permettono invece una crescita organica, C. riserva
un’attenzione particolare ai procedimenti di derivazione lessicale: il
principale mezzo endogeno a disposizione delle lingue per svilupparsi
mantenendo salde sia la propria identità sia la propria presa sul mondo. Nel
Saggio C. individua quattro tipi diversi di procedimenti di derivazione,
associando ciascuno a una specifica operazione cognitiva: Quattro sono le
operazioni dello spirito sopra i vocaboli rispetto a questo rapporto: la
traslazione, la composizione, l'apposizione, la derivazione. Se un oggetto
nuovo, benché di diversa spezie, mostrava una somiglianza o un’analogia
fortemente sensibile col primo, si connotava questo rapporto accomunando lo
stesso nome ad ambi gli oggetti. Se una sostanza sembrava partecipar di due
altre, se ne formava il nome coll’accoppiamento dei due rispettivi vocaboli. Se
il nomenclatore osservava nel tempo stesso ciò che in un oggetto v'era di
somigliante, e ciò che di proprio, si apponevano l’uno all’altro separatamente
due termini, il primo dei quali mostrava la somiglianza, il secondo la
differenza caratteristica: così i Romani chiamarono gli elefanti buoi Lucani.
Se finalmente una sostanza, o un’idea aveva una qualche spezie di dipendenza o
di connessione con un'altra già nota, s'indicava coll’inflettere e modificare
in varie guise il vocabolo già destinato a dinotar la sostanza a cui la nuova
per qualche punto attenevasi (C., 1960, 324). Di nuovo si trova che il trattato
dipende dalle lezioni degli anni Settanta. Nel ciclo De naturali linguarum
explicatione, pronunciato nel corso dell’anno accademico 1771-72, le operazioni
individuate erano più economicamente tre: L identita |...], la derivazione, la
composizione sono i tre strumenti ovunque impiegati per propagare la progenie
delle espressioni'*. C. sta di nuovo ragionando filogeneticamente: sta cioè
isolando i meccanismi linguistico-cognitivi che governano la crescita lessicale
di un'ipotetica lingua umana dei primordi; ma il discorso lascia emergere
chiaramente che questi meccanismi sono intesi come naturali e universalmente
validi. Le tre operazioni menzionate nella seconda citazione corrispondono
grosso modo rispettivamente ai traslati o ai tropi (identitas, o traslazione:
la stessa parola è utilizzata per riferirsi a realtà diverse ma legate da
rapporti di analogia o di contiguità), ai derivati ottenibili per aggiunta di
quelli che oggi chiameremmo affissi e infissi (derivatio, o derivazione), e
alle parole composte (compositio, scissa nel Saggio in composizione e
apposizione). Come si è già visto (supra, 192), è proprio a questo tipo di
procedimenti che si applicano in particolare le metafore vegetali care a C.:
essi sono precisamente il prodotto delle spinte endogene insite in ogni lingua.
5 Il ciclo dei traslati Con un'ulteriore, e ultima, restrizione di campo,
l'attenzione si concentrerà infine sul primo di questi tre (o quattro)
procedimenti derivativi, ovvero quella che C. chiama identitas o traslazione, e
che è direttamente coinvolta in una delle formule teoricamente più
ragguardevoli del Saggio, anche se data pressoché ez passant. L'affermazione è
questa: I vocaboli soggiacciono ad una successiva e perpetua metamorfosi di
propri in traslati, di traslati in propri; nella qual trasmigrazione so d’aver
mostrato in altro luogo, che passano per tre stati: d'immagine, d’indizio, e di
segno; secondo che la metafora o conserva la sua freschezza e vivacità, o
sfiorisce a poco a poco, o viene 19. Su questo ciclo di lezioni e sul suo
rapporto col Saggio, cfr. Roggia (2011). L'origine è in de Brosses, come
riconosciuto già da Marazzini (1999, 143). 20. Cfr. C. (in corso di stampa, V,
acr. II); C. (1810, 81). I corsivi sono originali. in tutto a logorarsi, ed a
spegnersi. Così nella lingua tutto è alternamente figura e cifra (C., 1960 335-6).
Ancora una volta è possibile seguire la nascita e la progressione di questa
idea fin dagli anni Settanta, in particolare dal già citato ciclo De naturali
linguarum explicatione, dove possiamo trovarne il primo nucleo generativo,
anche lì in un’osservazione di transizione: Infine, come nella prima formazione
dei nomi è aperto alla mente il transito dal senso proprio delle parole al
simbolico, così è facile il regresso dal simbolico al proprio quando quel primo
modo di vedere la cosa, che è il nodo della traslazione, sia stato dimenticato
oppure soffocato e coperto da altri più evidenti (C., in corso di stampa, v,
acr. III). Questa stessa osservazione, sviluppata peró in tutta la sua
ampiezza, la si ritrova poi nelle Annotazioni alla prima Filippica incluse nel
sesto e ultimo tomo delle Opere di Demostene (1778), in cui viene anche
spiegato più diffusamente a cosa corrispondano gli stadi di immagine, indizio,
segno. È da qui che C. la riprenderà per darle la forma più scorciata e
apodittica che abbiamo letto nel Saggio: Tutte le parole sono soggette a una
doppia e successiva metamorfosi; colla prima di proprie fansi traslate,
coll'altra di traslate tornano proprie. Ora venendo allo stile, e prendendo le
parole dal punto in cui cominciano a farsi traslate sino a quello in cui
ripigliano l’antica forma di proprie, dirò che ogni metafora passa
successivamente per tre stati: d'immagine, d’ indizio, di segno. Nel primo
stato il traslato, pregno, per dir cosi, dell'oggetto da cui è preso, lo
trasporta vivo e figurato sull’altro, e colpisce l’animo di chi ascolta colla
forza della novità, e colla sorpresa di scorger il medesimo nel diverso. Nello
stato d’indizj le metafore non rappresentano più l’oggetto primitivo pieno e
distinto, ma l’accennano soltanto, o lo 21. Su questo passo ha attirato
l’attenzione Gensini (1987, 70, e si veda anche il suo intervento in questo
volume). 22. C. (1810 89-90). Il tema si ritrova ben delineato anche in un
passo del già citato frammento De multiplici usu derivationum, dove
dell’etimologista-filosofo si dice che prende consapevolezza di come la mente
risalga dal particolare al generale, per poi dalla sommità di quest’ultimo
ridiscendere nuovamente al particolare; di come segni e imprima le idee
metafisiche e morali con l'impronta delle cose materiali; di come fabbrichi i
vocaboli traslati dai propri, per poi di nuovo convertire i traslati in propri
(C., in corso di stampa, IX, 3.2; C., 1810, 277). Si vedano, su questo aspetto
della teoria C.ana, anche in questo volume le osservazioni di Sara Pacaccio, C.
e Manzoni tra filosofia delle lingue e linguistica. mostrano di lontano e in
iscorcio con tracce meno sensibili, e tinte più modeste e men vive. Giunte
finalmente le metafore allo stato di segno, diventano come cifre indifferenti e
arbitrarie, destinate a ricordar un'idea convenzionale (Cesarotti, 1807 152-6,
corsivi originali). Il meccanismo merita di essere spiegato più diffusamente.
Alla base c’è l’azione combinata di due potenti forze cognitive della
psicologia sensista, ovvero l’assuefazione e l’oblio. Sia nel Saggio che nei
testi degli anni Settanta C. sostiene l’idea debrossiana secondo cui tutti i
segni sono almeno originariamente motivati: per tutti esiste cioè quella che C.
chiama una ragion sufficiente che determina la loro forma fonica o grafica. Ma
questa motivazione tende a logorarsi con l’uso e con l’abitudine, fino a
perdersi totalmente: i vocaboli, originariamente figure, tendono così
incessantemente e inesorabilmente a scivolare verso la condizione inerte di
cifre, ossia di segni arbitrari, che risvegliano un'idea per via di un legame
puramente convenzionale. Soggette a quest’unica forza tutte le lingue
scivolerebbero quindi in tempi relativamente rapidi verso una condizione di
totale arbitrarietà: sennonché a riscattare i segni da questa condizione interviene
un movimento opposto, innescato dalla percezione di un rapporto, di una
relazione inedita, o percepita come tale, tra la cosa designata dal
termine-cifra e un altro specifico referente. Traslato per indicare il nuovo
designandum, il segno smette di essere gratuito, torna ad avere una motivazione,
ossia una ragion sufficiente: che non risiede tuttavia in un rapporto diretto
parola-cosa (come nelle onomatopee primarie e secondarie da cui ha avuto
origine il linguaggio), ma piuttosto in un rapporto mediato, per cui l’analogia
tra parole corrisponde, riflettendola, a un’analogia tra cose. La lingua fissa
e rende percettibile, appunto attraverso l’identità dei segni, questa analogia
stabilita dalla mente. Prendiamo un esempio C.ano (ma a dire il vero già
debrossiano): la parola psyché per indicare l’anima ha in greco uno statuto di
figura, è cioè un segno motivato. Non perché nella forma fonica o grafica di
psyché ci sia qualcosa che possa direttamente evocare il concetto di ‘anima’,
ma perché la stessa parola indica primariamente in greco la farfalla. L'uso
traslato (identitas) obbliga a vedere il referente ‘anima’ da un'ottica che ne
enfatizzi le proprietà condivise con il referente ‘farfalla’: ad esempio la
mobilità, la 23. Sulla remota origine baconiana della distinzione, cfr.
Perolino (2001, 173, nota 34): ma contano indubbiamente per C. gli antecedenti
francesi più prossimi, soprattutto Condillac e de Brosses. 199 CARLO ENRICO
ROGGIA capacità di salire verso l'alto, e così via. Questa condivisione di
proprietà fornisce una motivazione al termine psyché nel senso di ‘anima’, e
questa motivazione dura almeno finché si mantiene viva la coscienza del
significato primitivo del termine: i due stati, ovvero l’inerzia delle cifre e
l'animazione delle figure, sono necessari l’uno all’altro, e non possono quindi
che coesistere nella lingua. Non c’è dubbio che le premesse di questa
intuizione si diano già tutte nel pensiero della prima metà del secolo, e
risiedano nell’apprezzamento del valore cognitivo della metafora e nel suo
costituire il nucleo generativo stesso della lingua. L’idea che questo
meccanismo generativo non caratterizzi solo l’origine ma si rinnovi nella vita
quotidiana delle lingue potrà magari essere implicito nell’impostazione
vichiana, ed è forse rintracciabile anche in de Brosses: tuttavia la curvatura
e l'evidenza che C. gli dà corrisponde a una di quelle linee di forza del suo
pensiero di cui si diceva all’inizio. La sua argomentazione viene a dirci, in
pratica, che la lingua stessa è nel suo insieme un corpo interamente metaforico
e metonimico in stati diversi di attivazione, e in una condizione perpetua di
instabilità: un disequilibrio che produce una incessante deriva del senso,
alimentando il mutamento linguistico. 6 Il fantasma della motivazione Ora, ciò
che produce questa particolare forma di instabilità può essere descritto nei
termini di un sistematico, incoercibile rilancio verso la motivazione del
segno: un rifiuto istintivo di rassegnarsi all’inerzia delle cifre arbitrarie.
È una spinta connaturata all'uomo, che C. osserva anche altrove, ad esempio
nelle ricostruzioni semantiche o nelle paraetimologie intorno a cui costruisce
non poche delle sue lezioni. L'uomo è un essere curioso, che non rinuncia ad
andare in cerca di una ragione nelle parole, ossia di qualcosa che collegando
direttamente o indirettamente al mondo la loro forma, la spieghi; e pur di
trovarla è disposto all'occorrenza a inventarsela, 24. Questo il passo del De
naturali linguarum explicatione: L'animastessa per gli ebrei e i latini fu lo
spirito su cui si fonda la vita, per i Greci molto più ingegnosamente psyché,
ossia farfalla, che l'anima ricorda molto sia per il muoversi irrequieto e
sussultorio delle idee, sia per la facoltà di sfuggire volando con leggerezza
dal carcere che la avvolge verso una vita migliore (C., in corso di stampa, V, acr. II; 1810, 83).
L’esempio (tratto da de Brosses, 1765, 11 67-8) sarà a sua volta ripreso nel
Saggio (C., 1960, 329). 200 SPUNTI PER UNA TEORIA DEL MUTAMENTO LINGUISTICO
forzando i dati e creando relazioni che non esistono nella realtà, e abusando
così del linguaggio: le parole hanno sempre dischiuso agli uomini curiosi e
inesperti una fonte ricchissima di errori. E certamente è inevitabile che la
lingua, in generale e in virtù della sua indole, favorisca più la fantasia che
il giudizio, dal momento che il giudizio si occupa di separare ciò che è
diverso, la fantasia e la lingua di individuare ciò che è simile. C. esprime
qui una visione della lingua tutta all’insegna di un vichiano ingenium, la
facoltà di collegare ciò che è lontano, almeno in questo caso contro il suo
maestro Condillac, per il quale toute langue est une méthode analytique. L'uomo
è un essere curioso o, detto altrimenti, è un essere causale: restio a
rassegnarsi al valore puramente arbitrario, e quindi inerte, dei segni
convenzionali. E si può osservare, in chiusura, un ultimo, interessante corollario
di questo principio fondamentale. C. ritiene che la conoscenza non sia altro
che la corrispondenza esatta tra le nostre idee, fissate dal linguaggio, e il
mondo. Lo dice apertamente nel Saggio: Tutto è legato nell'universo, e tutto lo
è bene o male nel nostro spirito. L'esatta corrispondenza fra l’idea e
l’oggetto costituisce la verità, la corrispondenza esatta fra il legame delle
idee nostre col legame naturale degli esseri forma la scienza > (C., 1960, 321)?
Ma da quanto detto sopra discende che non si dà mai un momento in cui il
linguaggio sia propriamente uno specchio del mondo: il linguaggio (lo si diceva
già all’inizio) è tutt'al più lo specchio di un modo di concepire il mondo, uno
specchio dell’intelletto. Se dunque da un lato ogni nuovo rapporto di
motivazione che si attiva nella lingua si basa sulla nuova percezione di un
rapporto esistente tra cose distinte, dall’altro i possibili modi di mettere in
relazione cose distinte sono infiniti: Ma dal momento che una cosa può essere
ricondotta a un’altra per genere, effetto, causa, materia, uso, fine,
conformazione esterna, natura intrinseca, e insomma per seicento ragioni, con
il vocabolo si esprime certamente una qualche analogia, ma per Giove!
indefinita e vaga, non basata su un punto di congruenza reciproca
sufficientemente sicuro e distinto. Quando sento denominare 25. De naturali
linguarum explicatione; C. (in corso di stampa, v, acr. 111); Cesarotti (1810 87-8).
26. Ancora recuperando una identica formulazione del De naturali linguarum
explicatione (C., 1810, 78); cfr. Roggia anima quella forza grazie a cui
pensiamo, il nome stesso basta a indicarmi che tra questa e un soffio
intercorre qualche affinità; ma non mi lascia presagire se questa affinità sia
collocata nel fatto che l’anima mantiene e alimenta quest’aria che dà la vita e
che si respira, o nel fatto che è presente al corpo rimanendo invisibile, al
modo dell’aria, o infine che quella forza stessa è formata e sussiste di un
soffio leggerissimo e sottilissimo. La conseguenza è evidente. L'accendersi e
spegnersi nella lingua di relazioni semantiche (ossia di traslati), il
parallelo e corrispondente istituirsi e obliterarsi di relazioni intellettuali
tra cose sono entrambi movimenti potenzialmente inesauribili e di fatto
infiniti: non possono mai arrivare a un termine, e la deriva semantica delle
lingue non può di conseguenza mai avere fine. L'irrequietezza del linguaggio è
insomma tutt’uno con l'irrequietezza cognitiva dell’uomo posto di fronte
all’inesauribile, prismatica complessità del mondo. Riferimenti bibliografici
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Dell’epistolario di Melchiorre C., t. 11, in Opere dell abate Melchior C.
padovano, vol. XXXVI, presso Molini, Landi e comp., Firenze.(1960), Saggio
sulla filosofía delle lingue applicata alla lingua italiana, in E. Bigi cur.,
Dal Muratori al C., t. 1v: Critici e storici della poesia e delle arti nel
secondo Settecento, Ricciardi, Milano-Napoli 304-456. 27. De naturali linguarum
explicatione: C. (in corso di stampa, v, acr. 111); Cesarotti (1810, 89). Ma
l'idea si trova già compiutamente formulata nel Ragionamento sopra l'origine e
i diletti dell'arte poetica del 1762, benché assuma lì una curvatura piuttosto
estetica che direttamente linguistica: cfr. C. (2010 111-2). Il passo, assai
notevole, è commentato in questo volume nel saggio di Silvia Contarini (Mizo
delle origini e perfectibilité de l'esprit nel Ragionamento sopra l'origine e i
progressi dell’arte poetica), che rinvia a Helvétius. (2010), Ragionamento
sopra l'origine e i progressi dell'arte poetica, in Id., Sulla tragedia e sulla
poesia, a cura di F. Finotti, Marsilio, Venezia 105-57.(in corso di stampa),
Scritti sulle lingue antiche e sul linguaggio, a cura di C. E. Roggia,
Accademia della Crusca, Firenze. DANIELE A. (2011), Qualche appunto sul
pensiero linguistico di C., incur., Melchiorre C., Atti del convegno (Padova,
4-5 novembre 2008), Esedra, Padova 29-41. GALLO v. (2008), Gli autografi C.ani
della Biblioteca Riccardiana di Firenze (mss. 3565-3566), in Critica Letteraria,
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204 L'etimologia nel pensiero linguistico di C. di Daniele Baglioni* I C. e
l'etimologia Nella rivalutazione del pensiero linguistico di C., iniziata negli
anni Cinquanta del secolo scorso grazie soprattutto a Nencioni (1950) e sostanzialmente
mai interrottasi fino a oggi, come dimostra questo stesso volume, la
riflessione sull'etimologia ha avuto una parte del tutto trascurabile, o meglio
nessuna parte. Ció si deve senz'altro alla maggiore attualità delle considerazioni
C.ane in fatto di sincronia, in particolare alle sue ben note applicazioni alla
questione della lingua e al rapporto tra l' italiano e le altre lingue europee,
mentre la riflessione sulla diacronia, come ha notato Nobile (2007, 508), a
causa dell'ardita teoria materialistica sulle origini iconiche del segno,
stridente con l’abbicci della linguistica novecentesca, non ha mancato di
suscitare imbarazzi proprio in chi intendesse accreditare l'immagine di un C. contemporaneo
. Ma la responsabilità è anche di C. stesso, che a differenza dei suoi modelli
italiani (Vico) e stranieri (Leibniz, Michaelis, soprattutto de Brosses)
assegna all'etimologia un ruolo chiaramente ancillare, trattandone solo qualora
la ritenga funzionale all'illustrazione di una tesi generale sul linguaggio e
mostrandosi invece poco interessato alle sue specificità. A provarlo puó
bastare un dato banale eppure indicativo, ossia le occorrenze della parola
etimologia nel Saggio sulla filosofia delle lingue, che sono solo sei (più una
di scienza etimologica), a fronte delle più di settanta nel modello dichiarato
del Saggio per la sezione diacronica, cioè il Traité sur la formation
méchanique des langues et des principes physiques de l'étymologie di de Brosses
(1765), che reca étymologie persino nel titolo. Il fatto è che l'etimologia
nell’accezione che se ne dà oggi in linguistica, vale a dire, con Zamboni
(1976, 1), la ricerca dei rapporti formali e semantici che
legano una parola con un'altra unità che la precede stori* Università Ca’
Foscari Venezia. 205 DANIELE BAGLIONI camente e da cui quella deriva, esercita
su C. ben poco fascino: è quella che l’abate padovano chiama, sulla scorta di
Vico (Battistini, 2004, 331), l’etimologia dei puri grammatici, studio meschino
e fecondo di inezie, come scrive nella parte 111 del Saggio, diventato fonte di
utili e preziose notizie solo da quando ai nostri tempi è stato maneggiato da
profondi eruditi ed insigni ragionatori, fra i quali un posto di tutto rilievo
spetta al gran Leibnizio (C., 1960, 371). Delle due linee di pensiero
individuate da Simone per il Settecento, insomma, una alta, votata specialmente
ad elaborazioni globali, filosofiche e speculative, e una bassa costituita da
analisi concrete, dirette principalmente all insegnamento, da collezioni o
affastellamenti di dati, da raccolte di etimologie spesso azzardate, da
complicate ipotesi sull’origine e la parentela delle lingue (Simone, 1990, 322),
C. appartiene integralmente alla prima, così come Vico, mentre i suoi modelli
stranieri, in particolare Leibniz e de Brosses, partecipano in egual misura
tanto all’una quanto all’altra linea. Per C., infatti, la ricerca etimologica,
ossia il risalire ai sensi primitivi dei termini informando degli usi, costumi,
circostanze che diedero occasione ai vari vocaboli, pertiene all’erudizione,
come si legge in apertura alla parte 11 del Saggio: il suo interesse non è
dunque in sé, ma nel contributo che può dare alla filosofia e al gusto,
giacché, facendo sentir con precisione l'esatto valore e l'aggiustatezza o la
sconvenienza dei vari vocaboli, concorre
da un lato a determinare in che consista la vera bellezza ed aggiustatezza
delle parole, e i veri bisogni della lingua, che è compito della filosofia,
dall'altro a stabilire quando e come vogliasi condiscendere all’uso o
rettificarlo, in qual modo possano conciliarsi i diritti della ragione e quelli
dell’orecchio, e quali siano i limiti che dividono la saggia libertà dalla
sfrenata licenza, che sono invece appannaggio del gusto (C., 1960, 319). A una
tale collocazione dell’etimologia all'interno della filosofia delle lingue C.
perviene gradualmente, solo una volta assimilati i modelli di riferimento e non
senza ripensamenti, come si ricava dalle lezioni padovane di argomento
linguistico, oggi disponibili grazie all’edizione commentata di Roggia (C., in
corso di stampa). In questo saggio s’intende allora provare a ripercorrere le
varie fasi della riflessione C.ana sull'etimologia, dalle lezioni al Saggio:
una riflessione che, come vedremo, si sviluppa non tanto relativamente all
importanza della ricerca etimologica, che rimarrà sempre marginale, quanto
intorno alla funzionalizzazione filosofica ed estetica dei suoi risultati,
pienamente raggiunta e, come si è appena visto, programmaticamente
dichiarata nel Saggio. 206 L'ETIMOLOGIA NEL PENSIERO
LINGUISTICO DI C. 2 Le Acroases etimologiche del corso sulla lingua ebraica Per
quel che ne sappiamo, la prima trattazione sistematica dell’etimologia, intesa
lato sensu come studio dell’evoluzione non solo delle parole, ma dei sistemi
linguistici nella loro interezza, risale all'anno accademico 1770-71, quando
nell’Ateneo di Padova C. tenne un corso sulla Lingua ebraica, il secondo della
sua docenza universitaria e l’unico che ebbe mai modo di dedicare a questa
lingua, che peraltro per sua stessa ammissione conosceva poco'. Del corso fu
pubblicata postuma la prolusione De hebraicae linguae studio dall'allievo
Giuseppe Barbieri (C., 1810). Le lezioni invece non furono mai date alle
stampe, ma una parte cospicua ci è rimasta in tradizione manoscritta, nel
codice 3565 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (Gallo, 2008) e nel codice
1223 della Biblioteca Bertoliana di Vicenza. Roggia (2014) ha pazientemente
ricomposto il ciclo, pur frammentario, delle lezioni, ed è stato così in grado
di ricostruirne la successione dei temi affrontati, che prende le mosse da
un’ampia storia linguistica del popolo ebraico per approdare alla lingua
fenicia, venendo infine a comprendere l’intera famiglia delle lingue semitiche,
in una rassegna non solo linguistica, ma anche storico-archeologica e
antiquaria. La trattazione dell’etimologia, a cui sono dedicate le Acroases
dalla 20 alla 22, tutte contenute nel solo manoscritto vicentino, serve da
collegamento tra le lezioni sull’ebraico, che costituiscono da sole i quattro
quinti del corso, e quelle sul fenicio e le altre lingue semitiche: l'occasione
per l' excursus teorico è dato dalla discussione della tesi fenicista di Samuel
Bochart, che aveva sostenuto che molta parte della mitologia greca potesse
essere ricondotta a fonti ebraiche, tramite la mediazione, non solo culturale
ma anche linguistica, dei Fenici?. L'etimologia, allora, si presenta come lo
strumento più adatto a mostrare che, secondo quanto già anticipato nella
prolusione, la maggior parte dei miti greci è derivata dall’ignoranza della
lingua fenicia e delle altre affini (plerasque Graecorum fabulas ab Phoenicii
idiomatis, caeterorumque affinium ignoratione fluxisse, Acroasis 20). 1. In una
lettera al filologo olandese Michael Rijkoffvan Goens, non datata, ma attribuibile
al dicembre 1767 0, al più tardi, al gennaio 1768, visto che la risposta di van
Goens è dell'8 febbraio 1768, l'abate padovano confessa di essere assai
leggermente iniziato nei venerabili e nojosi misteri della lingua santa e di
avere intrapreso di fresco questo studio più in vista del mio stabilimento che
del mio genio (C., 1811-13, I 105-6). 2. Su Bochart e la tesi fenicista
formulata nella Geographia sacra seu Phaleg et Canaan (Caen 1646), cfr. Droixhe
(1978 38-9). 207 DANIELE BAGLIONI Come mostra bene Roggia nel suo commento, le
tre lezioni attingono abbondantemente al Traité di de Brosses, di cui
testimoniano la più antica ricezione in Italia (il Traité era stato pubblicato
solo quattro anni prima). La dipendenza dall’ipotesto debrossiano è talmente
stretta che in molti passi le Acroases di C. appaiono più simili a una
traduzione, sia pur libera, che non a un riuso critico della fonte. Si prenda
il caso, per esempio, della premessa sull’utilità dell'etimologia, che occorre
nella prima delle Acroases etimologiche: dato che ci sono moltissimi che
respingono del tutto come incerto e futile qualsiasi studio etimologico, vuoi
perché sono stranieri rispetto all’arte stessa, vuoi perché non comprendono
affatto le molteplici opportunità che essa offre, vuoi infine perché l’infausta
e inesperta audacia di alcuni ha reso sospetta ogni applicazione di questo
tipo, mi sembra di dovermi preoccupare prima di ogni altra cosa, riprendendo
l'argomento più in profondità, che i principi su cui quest arte si regge siano
esposti in modo non superficiale, per evitare appunto che un’arte ottima debba
soffrire per l’impopolarità degli artefici, e affinché noi, insieme ai
principali filologi che ci siamo preposti come guide, se pure otterremo meno
spesso la lode per una congettura certa, possiamo andare tuttavia assolti
dall’accusa di arbitrio e di avventatezza (C., in corso di stampa, IV, 2, acr.
20). L'apologia degli studi etimologici è un #0pos della linguistica del
Settecento, necessaria a prevenire lo scetticismo di chi, come Maupertuis e
Voltaire, aveva apertamente criticato i labili fondamenti della scuola etimologica
francese, in particolare di Ménage: come tale, la si ritrova non solo in de
Brosses, ma anche nella Dissertation sur les principes de l'étymologie di
Falconet (1745), nell’articolo Encyclopédie di Diderot (1755) e in altri
scritti di argomento affine (Nobile, 2005, LXXXIX). Tuttavia, la dipendenza
diretta di C. da de Brosses appare palese a livello sia lessicale sia, più in
generale, della struttura argomentativa: il binomio C.ano incertum ac
nugatorium riferito a omne Etymologicum studium traduce alla lettera gli
aggettivi incertain e inutile dei paragrafi 8 e 9 del Traité (de 3. suntque
permulti qui omne Etymologicum studium quasi incertum ac nugatorium plane
aversentur, seu quod in arte ipsa sint hospites, seu quod multiplices eiusdem
opportunitates nequaquam pervideant, seu demum quod inepta atque inauspicata
nonnullorum audacia omnem huiusmodi sollertiam in suspicionem induxerit, illud
mihi ante omnia curandum video, ut altius repetita re principia quibus ars
regitur non perfunctorie explicentur, ne scilicet arti perbonae artificum
invidia sit laborandum atque ut nos cum primariis Philologis quos nobis duces
proposuimus si minus aliquando certae coniecturae laudem assequimur, tamen ab
licentiae ac temeritatis crimine liberemur. Brosses 1765, I 31-2); quanto poi
all'argomentazione, le cause della diffidenza verso 1’ ars etymologica da parte
dei suoi detrattori, ossia l’ ignoranza (seu quod in arte ipsa sint hospites) e
la superficialità con cui è considerata (seu quod multiplices ciusdem
opportunitates nequaquam pervideant), sono le medesime additate da de Brosses
(ivi, 32), che aveva invocato l’ ignorance e la faute d'y avoir réfléchi. Non
stupisce pertanto che anche la progressione degli argomenti trattati segua
l’ordine con cui le materie si succedono nel Traité: prima la natura dei suoni
e le loro differenze, oggetto dell’ Acroasis 20 (e a cui è dedicata buona parte
del 1 tomo del Traité); poi, nell’ Acroasis 21, i principi del mutamento
linguistico, attribuito soprattutto al passaggio di parole da una lingua
all'altra, come nel capitolo x del 11 tomo del Traité, intitolato De la
Dérivation, et de ses effets (de Brosses, 1765, 11 86-172); infine, le regole
generali dell’arte etimologica, oggetto dell’ Acroasis 22, che sia nell’esposizione
teorica sia nell'ampio corredo di esempi ricalca fedelmente il capitolo Xv Des
Principes et des Régles critiques de l'Art étymologique del 11 tomo del Traité
(ivi 418-88). C. si limita a compendiare l’assai più ampia e dettagliata
trattazione di de Brosses e ad addomesticarla al suo pubblico padovano,
introducendo qua e là esempi tratti dal panorama dialettale italoromanzo, come
la gorgia fiorentina tra gli accentus peculiari e inimitabili di ciascun popolo
(Florentini [verba] in infimum gutturem cum adspiratione detrudunt) e le
fricative interdentali che, benché estranee agli Itali e ai caeteri Europaei,
eccezion fatta per gli Angli e per gli antichi Greci, tamen apud nostros
rusticanos homines receptos videas *. Nel tentativo di sintesi di una materia
tanto articolata e complessa, peró, C. non si dimostra sempre attento a
preservare la limpidezza dell'esposizione di de Brosses, con il risultato che
brachiologie, fraintendimenti e persino travisamenti sono all'ordine del giorno
e rendono nel complesso le Acroases pasticciate e poco perspicue. C., per
esempio, elimina la minuziosa classificazione dei suoni delle lingue che occupa
per intero il 111 capitolo del 1 tomo del Traité (de Brosses, 1765, 1 101-52) e
sostituisce alla terminologia tecnica di de Brosses (guztural, palatial ecc.)
le lettere dell'alfabeto greco, usate metalinguisticamente non solo per i
suoni, ma anche per le corrispondenti lettere degli altri alfabeti.
L'inadeguatezza di questa soluzione emerge con evidenza in un passo dell’
Acroasis 21, dove C., seguen4. Il riferimento è alle interdentali dei dialetti
veneti rurali, del tipo di ['Oinkwe] per ‘cinque’, e costituisce molto
probabilmente la più antica attestazione del fenomeno, per la cui descrizione
si rimanda a Rohlfs (1966-69, par. 152); Tuttle do de Brosses, annovera tra i
fattori del mutamento linguistico la ‘pronuncia corrotta dalla forza
dell’abitudine’ (corrupta vox assuetudine alta, che corrisponde nel Traité a prononciation
défectueuse à laquelle l'habitude les [scil les consonnes] rend sujèttes, de
Brosses, 1765, IL, 140). Il concetto generale è enunciato chiaramente, ma
quando C. riprende da de Brosses anche l’esempio, ossia l’assibilazione in
francese degli esiti di CJ e TJ latini (in parole come prononciation e
collation) e, sempre in francese, la palatalizzazione di G latina davanti a
vocale anteriore e quella di altri nessi in [3] (come in vendanger da
VINDEMIARE), il dettato diventa oltremodo oscuro e confuso, tanto che se non si
avesse l’ipotesto di de Brosses non si riuscirebbe in nessun modo a risalire ai
fenomeni a cui si allude: Parmi nous plusieurs consonnes introduisent aussi des
altérations de ce genre par la prononciation défectueuse à laquelle l'habitude
les rend sujèttes. A tout moment lecetle sont à notre oreille le son de l’s.
L'analogie veut qu'on écrive prononciation et collation; l'usage défectueux
fait entendre prononsiasion et collasion. Le méme usage souvent adoucit l’s et
y fait entendre un z: par-là le z se trouve substitué au tà qui il n'a nul
rapport d’organe, parce-qu'on a substitué l’s au £. Au lieu de ratio on écrit
raison et on prononce raizon. Au lieu du son organique et guttural qui est
propre au g on lui donne la plüpart du tems le son palatial de lj. On dit vendanger au lieu de vendemjare ou
vindemiare ( ). Cosi la voce a poco a poco corrottasi, nutrita dall'abitudine e
ormai non più sanabile, prende vigore, destinata a corrompersi di nuovo tante
volte quante viene trasferita da un popolo a un altro. In seguito a questo
cattivo modo di pronunciare, secondo quanto testimoniano i più assennati tra i
francesi, vediamo avvenire presso questo popolo che non solo nelle parole
native ma nelle latine e nelle straniere tutte, si usi parlando, in luogo di
Zeta, uno Jota consonantico, e un Gamma anteposto alle vocali Epsilon e Jota;
in luogo di Sigma un Kappa e un Tau davanti alle stesse vocali (C., in corso di
stampa, IV, 2, acr. 21)*. Una simile confusione si riscontra anche, nell’
Acroasis 22, nell illustrazione della trafila che dal latino COMMEATUS porta
all'italiano congedo attraverso il francese congé: C., come de Brosses, ritiene
erroneamente che congé sia a sua volta un antico prestito dall'italiano; ma
mentre de Brosses, al s. Ita sensim corrupta vox assuetudine alta, nec iam
amplius medelam passa invalescere, toties corrumpenda iterum quoties ab una
gente ad aliam traducitur. Ex ea prava pronunciandi ratione saniorum Gallorum
testimonio videmus factum, ut apud Gallos non modo in nativis vocabulis sed
Latinis atque exteris omnibus Iota consonum et Gamma vocalibus Epsilon ac Iota
praepositum pro fra, Cappa et Tau ante easdem pro Sigma in colloquendo
usurpetur. netto dell’errore, ripercorre con grande chiarezza le fasi evolutive
supposte (da MEARE, per derivazione interna al latino, COMMEATUS; da COMMEATUS,
per variazione dell’ inflection labiale, l'italiano antico combiato; infine da
combiato, con spirantizzazione dell’approssimante nel passaggio dall’italiano
al francese, congé), C. riduce il tutto assai più vagamente al pronunciationis
vitium dei francesi, mettendo sullo stesso piano il presunto adattamento
dell’approssimante italo-romanza Jota, articolata quasi fta (cioè [3]), e la
notazione di [3] con Gamma (cioè con ), quest’ultimo un mero fatto grafico
evidentemente estraneo all’evoluzione fonologica della parola: Du verbe meare
le latin fait commeatus: l italien varie l’inflexion labiale et fait combiato;
que le françois prononce combjato, et en fait son mot congé, ou la R{acine]
meare est fort difficile à reconnoître (de Brosses, 1765, II, 127). Che la
parola italiana cozgedo presa dai francesi derivasse in origine da commeatus
uno non lo sospetterebbe a prima vista: ma è facile da riconoscere per chi
tenga presente la pronuncia francese. Da commeatus, sostituendo l’Epsilon con
uno Jota, gli italiani formarono commiato: questo in un primo momento é passato
da noi ai francesi, ma per un vizio di pronuncia la vocale Jota è stata da loro
convertita in una consonante. Avendo essi, poi, questo ulteriore vizio, di
articolare regolarmente lo Jota consonantico quasi come uno Zeta, pronunciano
conj’, omettendo la terminazione latina; infine, sviati da una terza abitudine
di pronuncia errata per cui in luogo di Zeta impiegano zo [sci/. ‘così,
analogamente’ ] Gamma davanti a Epsilon non meno che Jota consonantico, ciò che
pronunciano cozjé si può vedere scritto congé: da cui congedo degli italiani (C.,
in corso di stampa, IV, 2, acr. 22)‘. Il divario tra la limpida trattazione di
de Brosses e l’impacciata epitome di C. diventa ancora più evidente quando si
viene alla comparazione interlinguistica, in cui de Brosses è maestro, mentre C.,
poco incline alla riflessione grammaticale e allo studio delle lingue esotiche,
arranca. Emblematico è un primo, disastroso tentativo interromanzo, nel quale
l’abate si lancia nell’ Acroasis 21, senza nessun appiglio nel Traité: 6. Italicum
verbum congedo ab Gallis sumptum ex Latino commeatus manasse primitus non
quisque continuo existimet. At id ci perspectu facile, qui Gallicam
pronunciandi rationem teneat. Commiato Itali ex commeatu, jota pro Epsilon
subiecto fecere; id primum a nobis ad Gallos transiit; sed pronunciationis
vitio, vocalis ab iis jota in consonam versa. Cum vero id insuper peccent, ut
Jota consonum, quasi {fra constanter efferant, hinc Latina terminatione abiecta
conj’ pronunciant, postremo tertia peccandi assuetudine abducti, qua 1à Gamma
ante Epsilon non minus, quam Jota consono pro {ta utuntur, quod cozjé ab iis
dictum, congé scriptum videas, ex quo Congedo ab Italis factum . ZII Nelle voci
latine che cominciano con una doppia consonante, delle quali la seconda sia un
Lambda, gli spagnoli convertono anche la prima, qualunque fosse, in un altro
Lambda, e pronunciano lluvia per pluvia, llave per clave. Gli italiani, al
contrario, mantenendo la prima muta, rigettando la liquida e inserendo uno
Jota, levigano in qualche modo l'espressione, e da pluvia ottengono piova. I
portoghesi, invece, stabiliscono di non privilegiare in queste parole una delle
due consonanti, e inseriscono brutalmente al loro posto la gutturale più aspra
Chi, talché pluvia, trasformata in chuva, si allontana moltissimo dall'origine
latina (ivi, acr. 21). L'esempio scelto da C. é facile e didatticamente
spendibile anche oggi in un corso di linguistica romanza per matricole: si
muove dal latino pluv(i)a, voce panromanza, e si confrontano gli esiti del
nesso iniziale nei succedanei spagnolo, italiano e portoghese. Solo che l'illustrazione
di Cesarotti è irreparabilmente viziata dalla già osservata difficoltà di
distinguere tra fonemi e grafemi e anche dall’ignoranza del valore fonetico
delle diverse grafie romanze. Ne consegue che la risoluzione del nesso in una
laterale palatale nello spagnolo //uvia viene presentata alla stregua di una
geminazione di elle ( Hispani primam etiam quaecumque ea fuerit in alterum
Lamda convertunt) e, ancor più incredibilmente, l’esito in fricativa postalveolare
del portoghese chuva viene descritto come un violento inasprimento gutturale (Lusitani
vero asperiorem gutturalem Chi in earum locum violenter inferunt), rivelando
cosi che, per C., la consonante iniziale corrispondeva a una fricativa velare
[x], secondo il valore di ch in tedesco. È chiaro che, con queste premesse,
anche gli esempi tratti da de Brosses sono passibili di più di un
fraintendimento, specie quando C. si avventura ad adattarli alle proprie
esigenze didattiche. E il caso del confronto, ancora nell’ Acroasis 21, tra i
popoli orientali (Eoae gentes) e i popoli occidentali ( Occiduae [gentes] ), in
cui C. riformula e integra una frase del capitolo x del 11 tomo del Traité,
dove perd a essere comparati sono i peuples plus septentrionaux con gli altri popoli: Les peuples plus
septentrionaux siflent également, soit du nez, soit des levres. Je viens de donner des
exemples de l'addition du siflement nazal: en voici de l'addi7. In Latinis vocibus quae a duplici consona
incipiunt, quarum posterior Lamda sit, Hispani primam etiam quaecumque ea
fuerit in alterum Lamda convertunt, et //uvia pro pluvia, //ave pro clave
pronunciant. Itali contra servata priore muta, reiecta liquida et iota
interiecto dictionem quodammodo laevigant, et ex pluvia piova faciunt. Lusitani
vero in iis vocibus utraque consona valere iussa, asperiorem gutturalem Chi in
earum locum violenter inferunt ut pluvia in chuva conversa ab Latina origine
longissime abscedat. 212 L'ETIMOLOGIA NEL PENSIERO LINGUISTICO DI C. tion du
siflement labial; &otepog vesper, otvoc [sic] vinum, čëpyov work, bwp
water, etc. (de Brosses, 1765, IL, 164). Dato che i popoli orientali amano più
comunemente le aspirazioni, quelli occidentali i suoni sibilanti, si può vedere
come i latini antepongano volentieri ai vocaboli aspirati dei greci lettere
sibilanti nasali o labiali: da hex, hepta, hypò, bypér dei greci è stato fatto
sex, septem, sub, supra dai latini; ciò che per i greci è Pésperos, hestia,
hésthema, per i latini è vesper, vesta, vestis; le nasali o le labiali
corrispondono così alternatamente agli spiriti aspri dei greci. Le lettere
gutturali si prestano a essere elise, e tanto più facilmente quanto più si
avvicinano alla base della gola, parte estrema dell’organo vocale. Gli antichi
inglesi mutavano il gutturale Kappa con uno spirito gutturale, e pronunciavano
home al posto di comu: con lo stesso spirito proprio della gola gli spagnoli
sono soliti mutare lo spirito labiale Phi nelle parole latine, e li si può
sentir pronunciare hembra per femina, huigo per foco, huir per fugere. Era
comune presso i caldei e i siri premettere alle voci straniere inizianti per
Sigma implicato a un’altra consonante un qualche punto vocale, to [scil. ‘come,
ad esempio’ ] l’ Aleph aggiunto: i caldei talvolta un’ Alfa, per lo più uno
Jota, i siri un Epsilon. I francesi, imitando in questo i siri, scrivono
abitualmente eschole per schola, estude per studio, esperer per sperare,
estomach per stomacho, anche se per una consuetudine diffusa presso di loro in
alcune di queste voci lo stesso Sigma svanisce nella pronuncia (C., in corso di
stampa, Iv, 2, acr. 21). De Brosses aveva contrapposto da un lato il greco,
dall'altro il latino e l’inglese, lingue più settentrionali, osservando che, lì
dove il greco manca di una consonante iniziale (in realtà solo grafematicamente
perché, tranne che nel caso di oivo, la vocale iniziale presenta lo spirito
aspro), il latino e l'inglese aggiungono una sibilante (siflement du nez)
oppure una labiale (siflement des levres ), per esempio in vesper, vinum, work
e water rispetto al greco Éomepos, olvoc, £pyov e ddwp. Si tratta di un
classico esempio per 8. Cum Eoae gentes aspirationibus,
Occiduae sibilis frequentius gaudeant, videas Latinos aspiratis Graecorum
vocabulis sibilas narium aut labiorum litteras libenter praeponere: ab
Graecorum ££, Erttà, m6, dép, sex, septem, sub, supra ab Latinis factum; quod
Graecis Éoepoc, éotia, ÉoOnua, id vesper, vesta, vestis Latinis est; ita nares
aut labra asperis Graecorum spiritibus alternis respondent. Gutturales litterae
elidi promptae idque eo facilius quo magis ad infimum gutturem, extremam
vocalis organi partem accedunt. Veteres Angli gutturalem Kappa gutturali
mutabant spiritu, et home pro comu efferebant: eodem spiritu gutturi proprio
Hispani labialem spiritum Phy in Latinis vocibus mutare assolent, ab iisque
hembra pro foemina, pro foco huigo, huir pro fugere usurpari inaudias. Usitatum
apud Chaldaeos ac Syros ut peregrinis vocibus ab Sigma alteri consonae implexo
incipientibus vocale aliquod punctum T@ aleph subiectum prefigant, Chaldaei
quidem aliquando alpha, plerunque iota, Syri epsilon. Galli in eo Syros imitati
pro schola eschole, estude pro studio, pro sperare esperer, estomach pro
stomacho scriptitant, licet in nonnullis eiusmodi vocibus Sigma ipsum recepta
apud eos consuetudine in pronunciando evanescat. dirla con Marazzini (2002, 250) di
paleocomparativismo settecentesco, che individua correttamente una
corrispondenza regolare di suono tra lingue imparentate (di lì a poco si
sarebbe detto indogermaniche), anche se scambia la conservazione della labiale
originaria in latino e nel germanico per un’innovazione di queste lingue
rispetto al greco. C. deve aver ritenuto più funzionale alle proprie lezioni lo
spostamento dell’asse geografico da nord-sud a est-ovest, così da estendere il
confronto alle lingue semitiche, come in effetti avviene alla fine del passo.
Ma in questo modo confonde corrispondenze etimologiche reali, come quella del
greco &£, &rvà, dm, drèp con il latino sex, septem, sub, supra e quella
del greco Éomepos, gota, &00nua con il latino vesper, vesta, vestis, con
corrispondenze accidentali che si devono a sviluppi poligenetici interni alle
singole lingue, quali la genesi della fricativa glottidale sorda nell’inglese
home (da una precedente velare) e nello spagnolo antico hembra e huir (da una
precedente labiodentale), oppure la prostesi vocalica nel francese antico eschole,
estude, esperer, estomach e lo stesso fenomeno in ebraico e in siriaco (cfr.
ebr. ezróa' (in quanto connessa con la
radice trilittera del verbo essere in ebraico). Si spinge quindi a osservare
che sarebbe altamente desiderabile che Dio presso tutti i popoli avesse sortito
il nome da’ suoi attributi metafisici, non esitando a proporre lui stesso
denominazioni alternative, come l Eterno, l Infinito, lo Stante-per-sé, la
Causa-prima, le quali, per il fatto di essere titoli coessenziali a Dio e
incomunicabili, non prestano il fianco a pericolose interpretazioni
politeistiche, come invece fanno le denominazioni fondate sulla forza, sulla
grandezza e sulla potenza. Nell’esempio che si è fatto l’ebraico è almeno in
parte risparmiato dalla diagnosi di perfettibilità. Ma in quello che chiude lo
stesso paragrafo x1 non è esente da critiche nemmeno la lingua delle Scritture:
Le voci terra e mare al presente sono puri segni indifferenti; ma se dovesse
darsi il nome al primo di questi elementi, sarebbe meglio il chiamarla feconda
o tuttomadre, come la denomina Eschilo, di quello che salda, o rotonda, o anche
arida, come si dice in ebraico: nome che non poteva esser buono se non col
rapporto alle acque del caos da cui era dianzi ingombrata, o a quelle del
diluvio da cui usciva: così il mare sarebbe meglio detto navigabile, o
abbraccia-terra, che sale, come lo chiamarono i Greci e i Latini (ivi, 333).
Per C. l'ebraico ybbasäh, una delle parole per ‘terra’ indicante nello
specifico la terra asciutta (conformemente alla radice y-b-$ ‘seccare, asciu-
gare’), è un nome che non poteva esser buono se non col rapporto alle acque del
caos da cui [la terra] era dianzi ingombrata, o a quelle del diluvio a cui
usciva»'°. Una denominazione migliore, invece, è quella poetica di 16. Per la
verità il termine compare solo nel racconto della Creazione (Genesi 1,9-10),
quando Dio separa la terra asciutta (yabbasab) dalle acque e dà alla prima il
nome di ‘terra’ (eres), mentre nell'episodio dell’arca di Noè s' incontrano
altre parole (eres, dämäh) e, specificamente per la ‘terra asciutta’, häräbäh
(Genesi 7,22). C. potrebbe far riferimento tanto a yabbäsäh quanto a barabah,
includendo le due voci in un unico tipo motivazionale, oppure essere stato
tratto in inganno da y4054) in Genesi 8,14 (yabsáb ba ares ‘asciutta [era] la
terra’), omografo di yabbasab, che però è una forma verbale. tutto-madre datale
da Eschilo nel Prometeo incatenato (v. 90: Tauuñrwp TE yi», ‘terra madre di
tutto’). Analogamente, ma questa volta con riguardo alle lingue classiche, i
nomi di &Ac e di sal, possibili denominazioni del ‘mare’ in greco e latino,
colgono dell’oggetto una qualità accidentale, mentre il mare sarebbe meglio
detto navigabile, o abbraccia-terra», quest’ultima una kenning di coniazione C.ana
che ricorda nella forma i composti dell’ Ossian (Della Corte, 1997). 4
L'etimologia fra rettorica e filosofia grammaticale Circa trent'anni fa, nel
suo volume su Storia e coscienza della lingua in Italia dall’umanesimo al
romanticismo, Claudio Marazzini osservava come la teoria sulla bellezza dei
termini di C. fosse stata ignorata dagli studiosi e sospettava che ciò si
dovesse al fatto che questa teoria (a differenza di altre, contenute nel Saggio
C.ano) appartiene ad un orizzonte epistemologico caratteristico del sec. XVIII,
e non può essere paragonata ai risultati della linguistica moderna (Marazzini, 1989, pp.166-7). La teoria, però,
non dovette godere di grande fortuna nemmeno all’epoca di Cesarotti, se è vero
che labate Andrés, fra i primi entusiasti critici del Saggio sopra la lingua
italiana, aveva ciò nondimeno espresso delle riserve proprio sui tanti esempi
d’etimologia e di omonimie, che possono sembrar soverchi, mentre a suo avviso
un loro sfoltimento avrebbe lasciato spazio alle più necessarie investigazioni
dello stile (cit. da C., 1960, 426). Nell Avvertimento degli editori in
appendice alla terza edizione del Saggio, probabilmente scritto da C. stesso e
comunque da lui approvato, ad Andrés si ribatte orgogliosamente che l’etimologia
nell'aspetto in cui la riguarda l’autore apparteneva direttamente al di lui
soggetto e che all’incontro le teorie dello stile non potevano averci luogo che
occasionalmente, non essendo questa un’opera di rettorica, ma di filosofia
grammaticale considerata ne’ suoi rapporti colla rettorica (ivi, 427). È dunque
all’interfaccia di filosofia e retorica, diremmo oggi di linguistica generale e
stilistica, che C. colloca l’etimologia: una collocazione che, come si è visto,
non ha precedenti nella trattatistica italiana e francese prima di C. anche
se lì ha le sue premesse e che non verrà riproposta in quella a lui
successiva. Un unicum quindi, che la distanza dal corso che avrebbe preso la
linguistica otto e novecentesca rende oggi non sempre facile da comprendere, ma
non per questo meno interessante e affascinante, e che grazie all’edizione
delle lezioni padovane possiamo ora apprezzare fin dalla sua preistoria.
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italiana e le lingue: C. e l Ercolano di Benedetto Varchi di Alberto Roncaccia*
Mettere a confronto la riflessione linguistica di C. con i dibattiti
cinquecenteschi potrebbe sembrare un’operazione antieconomica e forse non molto
rilevante: antieconomica, perché i riferimenti teorici decisivi per C. sono
quelli a lui più vicini, come de Brosses e Condillac; non molto rilevante, in
quanto semplice parallelismo di posizioni anticlassicistiche che fanno perno,
cronologicamente, sulla prima edizione del Vocabolario della Crusca. Il
parallelismo tra antibembismo e antipurismo, conducibile dai suoi gradi più
moderati ai più estremi, fornisce allo sguardo dell’osservatore una ampliata
profondità di campo sulla questione della lingua e permette di riconsiderare
istanze cinquecentesche minoritarie rispetto all’affermazione del classicismo
volgare arcaizzante. Osservando il Saggio sulla filosofia delle lingue in
questa chiave cinquecentesca, alcuni rimandi puntuali su cui è utile
soffermarsi sono quelli all Ercolano di Benedetto Varchi’. Si tratta di pochi
riferimenti espliciti, di cui perdipiù un paio in negativo. Eppure, in C., il
richiamo a Varchi suggerisce una lettura attenta dell Ercolano e,
probabilmente, una prospettiva privilegiata per interpretare l'insieme dei
dibattiti teorici e grammaticali cinquecenteschi. Tale potenzialità del dialogo
varchiano è stata messa in evidenza, ai nostri giorni, da Paolo Trovato, che
gli riconosce il carattere di vera e propria summa? linguistica, e da Claudio *
Università di Losanna. 1. Si utilizza l'edizione Sorella (Varchi, 1995). 2. Uno
riguarda la raccolta di frasi proverbiali che divengono insipidi enigmi (11, 5)
e l'altro la presa di posizione in favore delle Prose di Bembo per poter
assicurare a Firenze la proprietà della lingua (1v, 4). 3. Scrive Paolo Trovato nella
presentazione all'edizione critica curata da Antonio Sorella: nonostante il suo
carattere di summa delle discussioni linguistiche e, in parte, almeno
stilistiche e retoriche del Cinquecento, il dialogo è per
tanti motivi, dalla mole allo stile alla mancanza di edizioni recenti più
citato che letto anche tra gli addetti ai lavori (Varchi, 1995, 10). 231
ALBERTO RONCACCIA Marazzini, che coglie in Varchi un approccio prossimo a
quello di una linguistica generale ante litteram>*. La sistematicità
analitica che impronta il dialogo varchiano sembra aver attirato l’attenzione
di C. nonché alimentato la sua stessa riflessione linguistica. Ci proponiamo
quindi di verificare le possibili concordanze concettuali e teoriche. Pur
rivendicando l'appartenenza a un’epoca nuova, caratterizzata da una rivoluzione
nel sistema intellettuale, secondo l'esigenza, condivisa con molti suoi
contemporanei, di porsi in discontinuità rispetto alla cultura del passato e
alle sue sopravvivenze nel purismo cruscante, Cesarotti stabilisce un esplicito
legame con il settore della riflessione linguistica cinquecentesca che aveva
riconosciuto le ragioni dell’uso parlato e dei mutamenti linguistici. Il
riferimento più significativo a Varchi è presente all’inizio della parte 1v del
Saggio, cioè della sezione finale in cui si propone un moderno e avveduto piano
di governo della lingua italiana attraverso la creazione di un Consiglio
nazionale e la realizzazione di nuovi vocabolari. Tale focalizzazione
incipitale dà a Varchi una posizione eccezionalmente marcata. È difficile
trovare nel Saggio un altro autore cui siano concessi una tale menzione
elogiativa e un tale valore dispositivo. Scrive C.: Egregiamente disse il
Varchi che l’inondazione dei popoli settentrionali produsse due grandissimi
beni all Italia: la repubblica di Venezia e la lingua toscana‘. C. si riferisce
al Quesito v dell’ Ercolano dove Varchi, in realtà, non dice lingua toscana ma volgare
e, nell’indicare i due beni, pone 8 8 P prima il volgare e poi Venezia. Scrive
Varchi (corsivo mio): Fra tante miserie e calamità, quante dalle cose dette
potete immaginare voi più tosto che raccontare io, di tanti mali, danni e
sterminii quanti sofferse sì lunga4. Marazzini (1993, 154). s. Scrive C.: Ma la
rivoluzione accaduta nel sistema intellettuale dopo la metà del secolo
diciassettesimo ebbe una nuova e più sensibile influenza anche sulla lingua.
Firenze meritò d’esser chiamata per doppio titolo l’Atene d’Italia. Quindi le
scienze, lo spirito filosofico e il francesismo furono le tre cagioni che
riunite alterarono non poco l'idee comuni in fatto di lingua. Le discipline
fecero sentire al vivo il bisogno incessante di nuovi termini, lo spirito di
ragionamento volle separare anche in tal materia i diritti della ragione da
quei dell’autorità, mostrò la vergogna di sacrificar l’idea al vocabolo, e
insegnò a distinguere il pregio reale della lingua dal convenzionale e
arbitrario (C., 1960 416-7). 6. C. (1960, 399). 232 TRA LA LINGUA ITALIANA E LE
LINGUE mente in quegli infelicissimi tempi la povera Italia, ze nacquero due
beni, la lingua volgare e la città di Vinegia, republica veramente di perpetua
vita e d’eterne lodi degnissima?. Il discorso si sviluppa poi nel Quesito vr,
dove il volgare viene definito come lingua nuova in sé e, in questo senso, per
quanto prodotto da drammatiche vicende storiche, è considerato un nuovo bene.
Notiamo che Varchi, quando applica alle lingue il termine di corruzione, lo usa
nel suo senso più tecnico, di provenienza aristotelica, precisando che un
processo di corruzione ne implica anche uno di generazione, con l’esito di far
nascere una cosa in sé nuova*. Tale argomentazione, come ricorda Antonio
Sorella, era già stata applicata al volgare da Claudio Tolomei nel Cesazo e da
Giambattista Gelli nei Dialogh®. Per Varchi non si tratta però solo di
affermare puntualmente l'autonomia e la dignità del volgare rispetto al latino,
bensì di evidenziare un'idea guida della propria riflessione teorica sulla
lingua. Dopo aver storicizzato e ridimensionato come voce equivoca '° la
nozione di lingua barbara, per questo esclusa dalle categorie usate nella divisione
e dichiarazione delle lingue proposta nel Quesito 111, l’autore dell’ Ercolano
può capovolgere il punto di vista tradizionale nei confronti dei diluvii delle
nazioni oltramontane. Già per Varchi, come poi per C., non esistono lingue
intrinsecamente barbare, ma ogni lingua è tuttavia costitutivamente barbara nel
proprio stadio originario. Se l'idea del volgare come lingua nuova è 7. Varchi
(1995, 667). 8. Scrive Varchi: ora voi havete a sapere che la corruzzione d’una
cosa è (come ne insegna Aristotile) la generazione d’un’altra; e come la
generazione non è altro che un trapassamento dal non essere all’essere, così la
corruzzione, come suo contrario, altro non è che uno trapasso o vero passaggio
dall’essere al non essere. Dunque se la latina si corroppe, ella venne a
mancare d’essere, e perché nessuna corruzzione può trovarsi senza generazione,
benché Scoto pare che senta altramente, la volgare venne ad acquistare l'essere;
di che segue che la volgare, la quale è viva, non sia una medesima colla
latina, la qual è spenta, ma una da sé (Varchi, 1995, 678). 9. nota 2. 10. 649.
11. 664. 12. La nozione di lingua barbara è utilizzabile per lingue che si
trovano ad uno stadio ancora non sviluppato e che quindi non possono essere
scritte e di conseguenza non hanno scrittori: comprendo le lingue barbare sotto
quelle che sono non articolate e non nobili (ivi, 650). già presente nelle Prose di Bembo, la novità
varchiana, ben recepita da C. quando ne cita la nozione di beni, sta nel porre
l'accento sul progresso storico e sull’arricchimento ininterrotto della lingua.
Varchi, come è noto, supera definitivamente la teoria della catastrofe, sia
biblica che storica, e adotta un atteggiamento decisamente postumanistico
quando rinuncia a evocare il topos del sentimento di perdita nei confronti del
latino. La legittimità storica e qualitativa del volgare è ormai acquisita e,
quindi, a differenza di quanto avveniva ad esempio per Alberti, non c’è più
bisogno di nobilitarne l’uso attraverso calchi lessicali e sintattici
latineggianti intesi a ritrovare l’eredità del glorioso passato. Il mutamento
linguistico può quindi produrre un bene, una ricchezza da spendere guardando
soprattutto al futuro. Tale nozione positiva di mutamento linguistico determina
l’attribuzione di una funzione conoscitiva fondamentale e prioritaria allo
studio della lingua parlata. Anche per questo aspetto, attraverso la
prospettiva del Saggio C.ano, il Varchi teorico risulta attualizzato in chiave
antiarcaizzante. Si tratta di una lettura possibile, diversa da quella che ne
fecero i contemporanei, in particolare Salviati, per i quali furono decisive
l’opzione per il fiorentinismo e la linea di continuità con la proposta
bembiana. La difficile conciliabilità del Varchi teorico con il naturalismo
linguistico bembiano, così come traspare dalla prospettiva di lettura C.ana,
risulta d’altra parte storicamente fondata anche per noi oggi. Basti notare
come nell’ Ercolano il Varchi omodiegetico riprenda con regolarità il proprio
interlocutore per ricordargli che si sta discutendo in primo luogo del favellare
e che proprio dall’uso parlato è necessario partire per ragionare su cosa sia
una lingua. Tale impostazione, possiamo aggiungere, è debitrice della
riflessione aristotelica sul linguaggio. La scrittura viene dopo,
accessoriamente, perché alle origini tutte le lingue, anche la greca e la
latina, erano solo parlate. Lo statuto di lingua che un singolo idioma può
acquisire non è quindi determinato dalla scrittura. Ecco le parole esatte di
Varchi: 13. Prose, 1, 7 (Bembo, 2001, 15): essendo la Romana lingua et quelle
de Barbari tra se lontanissime; essi a poco a poco della nostra hora une ora
altre voci, et queste troncamente et imperfettamente pigliando, et noi
apprendendo similmente delle loro, se ne formasse in processo di tempo, et
nascessene una nuova. 14. Al di là delle circostanze legate all’obiettivo di
ristabilire il primato linguistico di Firenze, è l’aristotelismo linguistico di
Varchi a risultare incompatibile con il platonismo bembiano. Per questo, pur
difendendolo, Varchi di fatto tradisce Bembo applicando in sede teorica il
principio di priorità del parlato. Come scrive Marazzini: La correzione del
bembismo operata da Varchi vanificava dunque l’austero rigore delle Prose di
Bembo, per le quali la lingua era creata solo dai grandi scrittori (Marazzini Lo
scrivere non è della sostanza delle lingue, ma cosa accidentale, perché la
propria e vera natura delle lingue è che si favellino, e non che si scrivano; e
qualunche lingua si favellasse, ancora che non si scrivesse, sarebbe lingua a
ogni modo; e se fusse altramente, le lingue inarticolate non sarebbono lingue,
come elle sono. Lo scrivere fu trovato non dalla natura, ma dall’arte, non per
necessità, ma per commodità; conciosia cosa che favellare non si può, se non a
coloro che sono presenti, e nel tempo presente solamente; dove lo scrivere si
distende e a’ lontani, e nel tempo avvenire; e anco a un sordo si può utilmente
scrivere, ma non già favellare: dico de’ sordi non da natura, ma per accidente;
e se le lettere fussono necessarie, la diffinizione della lingua approvata di
sopra da voi, sarebbe manchevole e imperfetta, e conseguentemente non buona, e
ne seguirebbe che così lo scrivere fusse naturale all'huomo, come è il parlare;
la qual cosa è falsissima. È utile ricordare che la precisazione sui sordi, con
la distinzione dei sordi dalla nascita da quelli per accidente, rimanda alla
tradizione aristotelica del De sensu et sensibilibus, opera molto nota e
commentata nel Medioevo, dove si indica l'importanza dell'aspetto uditivo del
linguaggio, indispensabile per la crescita intellettiva e per lo sviluppo delle
facoltà di rappresentazione simbolica che consentono di rappresentare
mentalmente e linguisticamente nozioni che rinviano anche a cose non presenti.
L'apporto della facoltà di rappresentazione simbolica nella crescita
intellettiva umana è decisivo anche nella concezione linguistica di C. che,
come osserva Roggia, ne trova riscontro diretto in Condillac. Su una base
teorica sostanzialmente aristotelica, dove sono messe in evidenza anche le
condizioni fisiologiche di udibilità del parlare, Varchi postula quindi
l'originaria e costitutiva parità di ogni lingua naturale. Ogni lingua, spiega
Varchi, è originariamente volgare: Tutte le lingue, le quali naturalmente si
favellano, in qualunche luogo si favellino, sono volgari, e la greca e la
latina altresi, mentre che si favellarono, furono volgari; ma come sono diversi
i vulgi che favellano, cosi sono diverse le lingue che sono favellate®. 15.
Varchi (1995 640-1). 16. De Sensu et Sensibilibus, 4362-4492. L’opera è citata
da Dante nel Convivio (Cv 11 IX 6; Cv II IX 10). Si veda la voce De sensu et
sensato, curata da Enrico Berti, in Enciclopedia dantesca (1970). 17. De sensu
457a 12, e passim. 18. Roggia (2011, 48). 19. Varchi La prioritaria pertinenza
teorica della lingua parlata, cosi come viene formulata da Varchi, può essere
confrontata con le asserzioni ordinative del discorso C.ano sulla lingua.
Varchi, avendo sottolineato l’originaria parità delle lingue, afferma la
necessità costitutiva della variazione diatopica e diacronica, per poi trattare
di quella diastratica e diafasica. Se ora osserviamo le otto proposizioni
iniziali del Saggio C.ano, tutte anaforicamente introdotte da una negazione (Niuna
lingua), la prossimità con le formulazioni di Varchi si può cogliere in due
brevi passaggi, uno nel corpo del testo e uno in nota. Dopo l’ottava
proposizione, dedicata alle varietà diatopiche della lingua, cioè ai dialetti,
accennando anche alle varietà diastratiche e ai gerghi tecnici, iniziando il
paragrafo 11, C. si chiede se il predominio d'un dialetto giovi o nuoccia
maggiormente alla lingua ?°. Concluso tale approfondimento dell’ottava
proposizione, il paragrafo MI si apre con la formulazione di uno schema di
approccio analogo a quello di Varchi. Scrive C.: La maggior parte di ciò che
s’è detto finora riguarda la lingua parlata: passeremo ora a ragionar della
scritta . La seconda precisazione che ci interessa è contenuta nella prima
delle note d’autore che corredano il Saggio e riguarda il principio per cui
tutte le lingue nascono allo stesso modo. È l’esordio della nota, dove si dice
che Le lingue o nascono o derivano,? che ci suggerisce un’ulteriore analogia
con la prima grande partizione delle lingue fatta da Varchi. Con la
formulazione varchiana, C. condivide anche la modalità geometricamente
disgiuntiva e la qualità della distinzione da cui si diramano i successivi
sottoinsiemi. La prima proposizione varchiana del Quesito 111 recita: Delle
lingue, alcune sono nate in quel luogo proprio nel quale elle si favellano, e
queste chiamaremo originali, e alcune non vi sono nate, ma vi sono state
portate d'altronde, e queste chiamaremo zon original. C., nella nota che ci
interessa, prosegue spiegando come le lingue native abbiano all’origine un semplice
impulso di natura, lo stesso che si potrebbe ritrovare in due o più fanciulli
d'ambedue i sessi cresciuti in 20. C. (1960, 311). 21. 312. 22. 307. 23. 24.
Varchi una selva 5. Tolta la
settecentesca variabile del clima, evocata subito dopo, anche l'esempio dei
fanciulli collocati in un’ipotetica condizione selvaggia è presente in Varchi.
L’eventualità di uno stato di natura privo di sollecitazioni linguistiche
svolge nell’ Ercolano la funzione di un caso limite, definito prima dell’avvio
dello svolgimento vero e proprio dei Quesiti: CONTE. E se s’allevassero più
fanciulli insieme in quella maniera, senza che sentissero mai voce humana,
favellarebbono eglino in qualche idioma? VARCHI. Qui bisognerebbe essere
piuttosto indovino che altro; pure, io per me credo che eglino favellerebbono,
formando da sé stessi un linguaggio nuovo, col quale s'intenderebbono fra loro
medesimi. Pur con la dovuta prudenza, questi riscontri stabiliscono una prima
sorprendente concordanza tra la riflessione teorica e l’impianto sistematico di
C. e Varchi, invitandoci a individuare altri luoghi dell’ Ercolano che possano
far pensare ad una specifica attenzione di C. verso Varchi. Tornando quindi al
rilievo che C. concede a Varchi al principio della parte 1v, possiamo chiederci
se tale riferimento non svolga nel Saggio una funzione ordinativa a livello
macrotestuale. Nell'economia del Saggio, il riferimento a Varchi segna il
passaggio all’applicazione italiana dei principi generali di filosofia delle
lingue descritti e dimostrati nelle parti che precedono. È questa la parte che
determina l’estensione del titolo dell’opera: Saggio sulla filosofia delle
lingue applicato alla lingua italiana. Essa è composta di sedici paragrafi che
possiamo separare in due blocchi argomentativi: fino al paragrafo xI, sono
ripercorse le contrastate vicende della lingua e dell’eloquenza italiana, dalle
origini fino all’affermazione di quella che C. chiama l’autorità legislativa
della Crusca; poi, dal paragrafo x11, è descritta la situazione dell'epoca
contemporanea, fatta iniziare grosso modo dalla metà del xv secolo e posta in
discontinuità con la precedente. Il paragrafo XII, contrassegnato da un
incipitale ma enfatico-avversativo, inizia così: Mala rivoluzione accaduta nel
sistema intellettuale dopo la metà del secolo diciassettesimo ebbe una nuova e
più sensibile influenza anche sulla lingua. 25. C. (1960, 307). 26. Varchi
(1995, 549). 27. C. (1960, 415). 28. 416. Si giunge qui alla parte più
propositiva e militante del Saggio. Nei paragrafi immediatamente precedenti C.
svolge le proprie argomentazioni riconoscendone la continuità rispetto a quella
parte della riflessione linguistica cinquecentesca che si era opposta alla
cristallizzazione classicistica della linea Bembo-Salviati-Crusca. Preferendo a
questo punto richiamarsi a Trissino, C. riorienta in chiave italiana la
proposta di Varchi in favore dell’uso colto del fiorentino parlato. La nozione
varchiana di uso colto, possiamo dire, è mantenuta e riadattata modernamente. C.,
come si è accennato, sembra impreciso dicendo che per Varchi le invasioni dei
popoli oltramontani hanno portato il beneficio della nascita della lingua
toscana. In primo luogo, perché Varchi in quel caso parla di lingua volgare,
riferendosi quindi a un fenomeno più generale e, in secondo luogo, perché
l’autore dell’ Ercolano vuole arrivare ad affermare il primato qualitativo
della lingua fiorentina e insiste quindi sull’inopportunità di denominazioni
come lingua italiana o lingua toscana??. C., pur riconoscendo la legittimità
storica di un primato qualitativo, preferisce però la denominazione di idioma
toscano e osserva che all’interno delle variabili diatopiche appartenenti a
un’unica nazione il prestigio di una di queste è un'evenienza legata al
costituirsi di una tradizione letteraria: Se però niun dialetto particolare è
così perfetto che possa scambiarsi per lingua, àvvene però alcuno presso ogni
nazione che più degli altri s'accosta alla perfezione. Il fiorentino, quindi,
resta per C. un dialetto particolare da collocare all’interno del più versatile
idioma toscano, cui va riconosciuto tale primato: Sarebbe ingiusto e insensato
chi non riconoscesse in Italia l’idioma toscano per più corretto ed elegante, e
degnissimo del primato sopra d’ogni altro; quindi lo scriver esattamente e
nobilmente è pei Toscani un'attenzione, per noi uno studio. Il passaggio logico
all’affermazione del primato toscano, come si vede, richiede a questo punto lo
spostamento dell’attenzione verso la lingua scritta. 29. Scrive Varchi: la
lingua della quale ragioniamo, si dee chiamare fiorentina, e non toscana o
italiana (Varchi, 1995, 932). 30. C. (1960, 402). 31. 402-3. 238 TRA LA LINGUA
ITALIANA E LE LINGUE È quindi la storia dell’italiano letterario lo
scriver esattamente e nobilmente a essere ripercorsa nella parte Iv. È tale
comune tradizione dell'uso scritto che C. intende denominare italiana. Egli
quindi condivide i presupposti teorici di Varchi ma, diciamo pure ovviamente,
se ne distanzia rispetto all'esito operativo legato all'affermazione del
fiorentino e del suo predominio. Riconosce invece le ragioni di quanti, come
Trissino, Castiglione e Muzio, avevano sostenuto la denominazione italiana
(corsivo mio): Avvedutamente perció i sopraccitati ragionatori, benché
conoscessero l'eccellenza dei tre che nobilitarono superiormente il dialetto
fiorentino, contrastarono peró al dialetto stesso un titolo che avrebbegli
conferito un dominio esclusivo, e dando alla lingua la denominazione
d’italiana, conservarono ad essa e a tutti i suoi colti scrittori i diritti
d'una giudiziosa libertà. Le ragioni da loro usate furono a un di presso le
stesse che noi abbiamo, s'io non erro, poste in miglior lume e piantate sopra
una base più solida. L'autore, quindi, dichiara esplicitamente e attualizza il
legame della propria riflessione con una specifica tradizione dei dibattiti
cinquecenteschi. In tale chiave va visto anche l’apprezzamento espresso nei
confronti del De vulgari eloquentia, di cui è riconosciuta l’autenticità
attraverso il riferimento esplicito all'edizione di Corbinelli*. La negazione
dell’autenticità del DVE era stata dettata, per C., da una presa di posizione
faziosa che non trovava altro modo di opporsi ad argomenti solidissimi: Del
resto l’autorità e le ragioni di Dante erano di tal peso, che i Fiorentini più
appassionati credettero miglior partito il negar a dirittura l’autenticità di
quest’opera supponendola gratuitamente una impostura del Trissino stesso; ma
secondo il giudizio dei ragionatori che vennero appresso, tutto prova e niente
smentisce il vero autor di quel libro, degno in ogni senso di Dante. Al DVE si
collega spontaneamente la linea propositiva italiana, in opposto a quella
bembiana del fiorentinismo arcaizzante e alla sua successiva codificazione
puristica: 32. 405. 33. Ad avvalorare
altamente la sua ipotesi, diede il Trissino alla luce opportunamente la
traduzione dell'opera di Dante, Della volgare eloquenza, pubblicata poscia nel
suo latino originale dal Corbinelli ( ). 34. 407. 239 ALBERTO RONCACCIA Con ciò
Dante venne a rispondere anticipatamente all’obbiezione del Bembo, che questa
specie di lingua non si parla in veruna città, poiché la lingua scritta
servendo, come abbiamo osservato altrove, ad usi diversi, non è necessario che
sia precisamente la stessa colla parlata, come non lo fu forse mai presso verun
popolo, né lo è nemmeno tra i Fiorentini medesimi, bastando che sia intesa
comunemente dalla nazione. Né tampoco farebbe obietto il dire che tutta la
nazione non intende perfettamente la detta lingua, poiché nemmeno i dialetti
stessi vernacoli sono intesi in ogni loro parte da tutte le classi del popolo.
L’importanza teorica del DVE, pur senza riconoscerne la paternità dantesca, era
in realtà stata ammessa anche da Varchi. Nella prima parte dell’ Ercolano,
infatti, la discussione sulla possibilità che il DVE sia di Dante resta ancora
parzialmente aperta. Lo mostra il fatto che l’interlocutore interno ne domandi
di nuovo alla fine del dialogo, durante lo svolgimento del Quesito x e ultimo,
e ottenga solo a quel punto una risposta inequivocabilmente negativa.
Nonostante tale presa di posizione, in qualche modo dovuta, Varchi non
sminuisce le argomentazioni del trattato, di cui in sostanza rileva le note
contraddizioni con altri passi danteschi, ma anzi dichiara di averlo letto più
volte diligentemente *. Come osserva Marazzini, componendo l’ Ercolano, Varchi
guarda contemporaneamente alle Prose di Bembo e al DVE, cioè a due modelli di
riferimento molto difficili da conciliare. 35. 406. 36. CONTE. Ditemi, vi
prego, innanzi che più oltra passiate, se voi credete che quell'opera
De/l'eloquenza volgare sia di Dante, o no. VARCHI. Io non posso non compiacervi,
e però sappiate che dall’uno de’ lati il titolo del libro, la promessa che fa
Dante nel Convito e non meno la testimonianza del Boccaccio, e molte cose che
dentro vi sono, le quali pare che tengano non so che di quello di Dante, come è
dolersi del suo esilio e biasimar Firenze lodandola, mi fanno credere che egli
sia suo; ma, dall’altro canto, havendolo io letto più volte diligentemente, mi
son risoluto meco medesimo che se pure quel libro è di Dante, che egli non
fusse composto da lui. CONTE. Voi favellate enigmi; come può egli essere di
Dante, se non fu composto da lui? varcHI. Che so io? potrebbelo haver compro,
trovato, o essergli stato donato; ma, per uscire de’ sofismi, i quali io ho in
odio peggiormente che le serpi, il mio gergo vuol dir questo, che se quel libro
fu composto da Dante, egli non fu composto né con quella dottrina, né con quel
giudizio che egli compose l'altre cose e massimamente i versi (Varchi, 1995, 555);
corsivo mio. 37. CONTE. Dante primieramente la chiama spesse fiate italiana o
italica, sì nel Convivio e sì massimamente nel libro Della volgare eloquenza.
VARCHI Quanto all’autorità del libro De volgari eloquio, già s'è detto
quell’opera non essere di Dante, sì perché sarebbe molte volte contrario a sé
stesso, come s’è veduto, e sì perché tale opera è indegna di tanto huomo
(Varchi, 1995 961-3). 38. Cfr. supra, nota 36. 39. Come scrive Marazzini: La
rilettura di Bembo condotta da Varchi, però, alla fine risultò un vero
tradimento delle premesse del classicismo volgare. L’ Ercolano è una Della
contraddizione tra le argomentazioni teoriche di Varchi e la sua difesa della
fiorentinità ristretta alle mura di Firenze C. è consapevole, e gli è chiaro
come nell’ Ercolano si combatta a tutta possa per la sentenza del Bembo*.
Questo però non sembra incidere sul fatto che C. osservi molto dei dibattiti
cinquecenteschi attraverso la lente dell’ Ercolano. Un dato marginale e proprio
per questo significativo sembra confermarlo: nel Saggio, riferendosi a
Castelvetro, C. resta molto sommario e non si discosta da quanto ne dice Varchi
nel suo dialogo; non mostra di avere accesso diretto ai suoi scritti e, molto
evidentemente, gli restano sconosciute le Giunte alle Prose del Bembo, di cui
esisteva l'edizione napoletana del 1714*. Quanto osservato fin qui, ci induce a
ipotizzare che l’Ercolano occupasse una posizione di rilievo nella biblioteca
di C. e che il significato del riferimento a Varchi nell'esordio della parte rv
del Saggio vada oltre la semplice circostanza retorica. Può quindi essere utile
riassumere schematicamente alcuni snodi teorici su cui i due autori prendono
posizione in maniera affine: necessità di fondare sul favellare la
filosofia del linguaggio e di tener conto della specificità degli strumenti e
dei meccanismi fonetico-articolatori. Riferimento comune è certamente la
riflessione aristotelica che definisce cosa sia, per l’uomo, phone. Per Varchi,
a tale proposito, ricordiamo il Quesito 1 dell’ Ercolano: qualunche lingua si
favellasse, ancora che non si scrivesse, sarebbe lingua a ogni modo. Lo
scrivere fu trovato non dalla natura, ma dall'arte, non per necessità, ma per
commodità *'; necessità di conciliare la coesistenza della
referenzialità di tipo naturale sorta di conciliazione tra le idee di Bembo sul
primato degli scrittori e l'autorità della lingua popolare toscana. Il rapporto
tra l Ercolano le Prose della volgar lingua è dunque decisivo, ma a mio
giudizio non lo è di meno il rapporto con il De vulgari eloquentia. Varchi
stesso, nella sostanza, segue l'impianto del De vulgari eloquentia (di cui non
condivideva certamente le idee), dall'impostazione propriamente filosofica, dal
fatto cioè che il tema della lingua volgare fosse stato trattato a partire dai
fondamenti di una teoria del linguaggio e dai principi di una classificazione
delle lingue, tanto è vero che l’ Ercolano cerca di seguire la stessa strada,
contrapponendo però a Dante un ideale linguistico completamente diverso
(Marazzini, 2013 88-9). 40. C. (1960, 405). 41. Le Prose di M. Pietro Bembo
nelle quali si ragiona della volgar lingua unite insieme con le Giunte di
Lodovico Castelvetro, 1-11, Raillard-Mosca, Napoli 1714. 42. Varchi (1995, 640).
Come precisa ancora Varchi: Le lingue,
come lingue, non hanno bisogno di chi le scriva; e così gli scrittori sono
quegli che fanno non le lingue semplicemente, ma le lingue nobili; 657. 241
ALBERTO RONCACCIA con quella convenzionale dei nomi. Varchi, nel Quesito VII,
non prende posizione ma registra l'opposizione canonica tra naturalismo
platonico e convenzionalismo aristotelico. Prevale in Varchi, come in C.,
l’idea ancora aristotelica di considerare come propria e caratteristica del
linguaggio umano la funzione simbolica con cui vengono rappresentati i concetti
della mente. La funzione affettiva che risponde alle sollecitazioni sensoriali
delle cose non distanzia l’uomo dagli animali. Come ha mostrato Roggia, la
questione è molto presente in C.. Nell’ottica di mediare, sulla scia di de
Brosses, tra l'arbitrarismo di riferimento lockiano e l’iconismo rappresentato
dalle posizioni di Leibniz e del secondo Condillac, egli finisce per approdare
ad una posizione di fatto conciliatoria *. Leggendo Varchi, che distingueva due
meccanismi all’origine della formazione delle parole e della nascita delle
lingue, l'analogia e l'etimologia**, C. poteva trovare un tentativo di
mediazione dell’apparente antitesi. L'analogia, spiega Varchi, costituisce un
meccanismo di formazione accidentale, legato alla materia fonica delle parole,
l'etimologia è invece un meccanismo essenziale , legato al significato e quindi
al legame referenziale originario tra cose e parole. Varchi precisa, inoltre,
che all'etimologia, Platone, perché teneva che i nomi fossero naturali, ne fece
gran caso, mentre Aristotele, il quale diceva che i nomi non erano dalla
natura, ma a placito, cioè dall'arbitrio degli uomini, se ne rideva. Varchi si
astiene dal prendere posizione tra i due filosofi, osservando che in alcune
cose si potrebbono tal volta concordare, ma in alcune altre non mai 5; necessità,
quindi, dell'etimologia e dell'analogia come strumenti di analisi concreta dei
meccanismi di mutamento linguistico. Se Varchi rinuncia a prendere posizione di
fronte all'aporia teorica che oppone iconismo e arbitrarismo, a livello
pratico, per studiare i mutamenti linguistici attestati, si sbilancia verso
Aristotele: io credo che, se le lingue s’havessono a far di nuovo e non
nascessero piü tosto a caso che altramente, che Platone harebbe ragione; ma
perché la bisogna non va sempre così, io credo che Aristotele per la maggior
parte dica vero; e se non vogliamo ingannare noi medesimi, l'etimologie sono
spesse volte più tosto ridicole che vere ^. 43. Roggia (2011, 47). 44. Scrive
Varchi: Queste due cagioni, analogia et etimologia, delle quali la prima è,
come s'é veduto, venendo ella dalla materia, accidentale, e la seconda, venendo
ella dalla forma, essenziale, furono anticamente da molti e con molte ragioni
approvate (Varchi, Quindi, sulla possibilità di reperire corrette etimologie,
Varchi resta molto più scettico di C., il quale invece si affida proficuamente
all’insegnamento di de Brosses; necessità di adottare un approccio descrittivo
nei confronti delle variazioni diatopiche e diacroniche in dipendenza
dell’importanza attribuita alla nozione di uso anche a valenza normativa. Preso
atto del continuum storico dei mutamenti linguistici, sia Varchi sia C.
riconoscono la funzione innovativa di tali mutamenti e il loro merito
generativo nei momenti di crisi, di caos, di incertezza grammaticale dei
parlanti; necessità di prestare attenzione alle
variazioni diastratiche e di fare riferimento ad un parlante colto. Come è
noto, appartiene a Varchi la distinzione tra non-idioti e letterati. C. sembra
riprenderla distinguendo i colti dai dotti. Nel Saggio, come si vede al
paragrafo 16 della parte 11, distingue tra i testi destinati all’intelligenza
del maggior numero e quelli scritti dai dotti per rivolgersi a destinatari di
pari dottrina. Analogamente, al paragrafo 2 della parte 111, ancor più
esplicitamente distingue i ragionatori dai semidotti; necessità
dell’accoglimento di apporti linguistici esterni (forestierismi, dialettismi
ecc.) e del processo di normalizzazione morfologica per aumentare la ricchezza
della lingua. Varchi scrive: l’oppenione mia è stata sempre che le lingue non
si debbiano restrignere ma rallargare +°. A governare la convergenza teorica non
operativa, si è detto dei punti ora indicati è probabilmente
un’implicita e comune nozione di parlante. Né Varchi né C. ricorrono all’idea
di un parlante ideale, dotato di una grammatica perfetta (per entrambi, si è
visto, la perfezione nel parlare e in un idioma parlato non può esistere), e
neppure propriamente a quella di un parlante medio, che resterebbe
un’approssimazione limitativa. L'idea soggiacente risulta piuttosto quella di
una fascia, di una collettività di parlanti empirici, storicamente determinati,
che condividono sia le interazioni concrete sia il processo di produzione del
consenso linguistico e culturale. Il vantaggio di tale modello, necessario per
tener conto della centralità 47. Si veda, in proposito, Marazzini (1989, 34,
nota 38). 48. Varchi (1995, 560). Possiamo ricordare anche quanto Varchi
osserva sull'accoglimento di parole forestiere: anzi havete a sapere che se una
lingua havesse la maggior parte de’ suoi vocaboli tutti d'un'altra lingua, e
gli havesse manifestamente tolti da lei, non per questo seguirebbe che ella non
fusse e non si dovesse chiamare una lingua propria e da sé, solo che ella da
alcun popolo naturalmente si favellasse; e se ciò che io dico vero non fusse,
la lingua latina, non latina, ma greca sarebbe, e greca, non latina chiamare si
doverrebbe (ivi, 700). dei mutamenti linguistici, permette a Varchi e a C. di
collocare sullo stesso piano l’atto di espressione del parlante e quello di
progressiva comprensione da parte del suo interlocutore. È quest’ultimo che
percepisce, convalidandolo progressivamente, il grado di correttezza
grammaticale del discorso e, insieme, giudica la convenienza delle scelte
diafasiche operate da colui che parla. Tali scelte, giustificate
nell’interazione concreta, possono anche contemplare usi volutamente incongrui,
ma non per questo impertinenti, rispetto al modello grammaticale comune, come
nel caso di un discorso ironico, oppure affettato, ma anche nel caso di scelte
di pronunzia più o meno sorvegliata. Lasciato da parte il giudizio binario di
tipo normativo, si applica piuttosto un più sfumato giudizio di convenienza e
di gusto, esercitabile paritariamente da ogni singolo parlante e da ogni
singolo interlocutore. Per Varchi, a questo proposito, possiamo rileggere
quanto si osserva nel Quesito I, Che cosa sia lingua, dove le scelte espressive
che determinano il consenso qualitativo dei parlanti colti implicano un
giudizio condiviso sulla padronanza dei registri e del lessico utilizzati. È da
condannare l’uso di parole corrette ma peregrine, al punto da sembrare turche
(corsivo mio): Quanto al fine del favellare non ha dubbio che basta l’intendere
e essere inteso, ma non basta già quanto al favellare correttamente e
leggiadramente in una lingua, che è quello che hora si cerca; per non dir nulla
che quella o quelle parole potrebbeno esser tali che voi non l’intendereste,
come se fussero turche o d’altra lingua non conosciuta da voi; onde così il
parlare, come l’ascoltare, verrebbero a essere indarno*. Per C., in modo non
dissimile, il parlare convenientemente, cioè nella maniera più acconcia, si
realizza nelle scelte libere dell’ individuo, giudicate in atto dal suo
interlocutore (ciascuno) e dal libero consen49. Scrive Varchi: e ardirei di
dire che non pure tutte le città hanno diversa pronunzia l’una da l’altra, ma
ancora tutte le castella; anzi, chi volesse sottilmente considerare, come tutti
gli huomini hanno nello scrivere differente mano l’uno da l’altro, così hanno
ancora differente pronunzia nel favellare; nè perciò vorrei che voi credeste
che tutte le diversità delle pronunzie dimostrassero necessariamente ed
arguissono diversità di lingua, ma quelle sole, che sono tanto varie da alcuna
altra che ciascuno che l’ode conosce manifestamente la diversità; delle quali
cose certe e stabili regole dare non si possono, ma bisogna lasciarle in gran
parte alla discretione de’ giudiziosi, nella quale elle consistono per lo più so
della comunità dei suoi pari che può accoglierle, attivamente o passivamente,
oppure rifiutarle: il libero consenso del maggior numero presuppone in
ciaschedun individuo la libertà di servirsi di quel termine o di quella frase
che gli sembra più acconcia, onde ciascuno possa paragonarla con altre, e
quindi sceglierla o rigettarla, cosicché il giudice della sua legittimità non
può mai esser un particolare che decida ex cathedra sopra canoni arbitrari, e
nieghi a quel termine la cittadinanza, ma bensì la maggior parte della nazione
che coll’usarlo o rigettarlo, o negligerlo ne mostri l'approvazione o °l
dissenso. E siccome nella lingua parlata (giacché ora non si favella se non di
questa) il maggior numero dei parlanti quello che autorizza un vocabolo, cosi
nella scritta una voce o una frase nuova non puó essere condannata 4 priori
sulle leggi arbitrarie e convenzionali dei grammatici, ma sull'accoglienza che
vien fatta ad esse in capo a qualche tempo dal maggior numero degli scrittori,
intendendo sempre quelli che hanno orecchio, sentimento e giudizio proprio, non
di quelli che sono inceppati dalle prevenzioni d'una illegittima autorità. La
ricognizione qui proposta, che rileva alcuni snodi teorici affini nella riflessione
linguistica di Varchi e di C., puó in questa sede concludersi ricordando che
per entrambi gli autori la teoria linguistica non è separata da quella
estetica. Il favellare, per la sua materialità fonica e articolatoria, implica
un sistema di possibilità combinatorie, e quindi di scelte, che incide sulla
possibilità di suscitare delle sensazioni nella trasmissione delle rappresentazioni
mentali. Lo si vede in Varchi quando, nel Quesito 1x, osserva che il ripercotimento
d'aria puó essere modulato per realizzare al meglio il fine di ciascuna lingua,
che è quello di palesare i concetti dell'animo *. Cesarotti, a sua volta,
applica le teorie di de Brosses, come ha mostrato Roggia, e quindi distingue
tra termini-cifre e termini-figure (11, 6). Grazie a questa distinzione, mette
l’accento sulle suggestioni espressive provocate dai termini-figure per la loro
capacità di attivare dei suoni-simboli strettamente dipendenti dalla
rappresentazione mentale analogica che i parlanti, a certe condizioni, riescono
a condividere. Scrive C.: 51. C. (1960, 309). 52. Utile citare più estesamente:
Il fine di ciascuna lingua è palesare i concetti dell'animo; dunque quella
lingua sarà migliore la quale più agevolmente i concetti dell’animo paleserà, e
quella più agevolmente potrà ciò fare la quale harà maggiore abbondanza di
parole e di maniere di favellare, intendendo per parole non solamente i nomi e
i verbi, ma tutte l’altre parti dell’orazione. Dunque la bontà d’una lingua
consiste nell’abbondanza delle parole, e de modi del favellare (Varchi, 1995, 826).
53. Roggia (2011, 65). 245 ALBERTO RONCACCIA Per un'arcana armonia havvi un
occulto rapporto tra certe qualità dell'animo e '1 suon della voce. La
riflessione dirigendo l’istinto coglie quest'affinità, e la rappresenta per
mezzo della combinazion delle lettere, il che porge ai vocaboli una nuova e più
distinta bellezza*. Viene così riconfermata, anche a livello estetico, sempre
secondo il principio legislatore dell’uso e del consenso, l’idea di continuità
tra lingua parlata e lingua scritta, tra discorso quotidiano, prosa e poesia.
Il principio regolatore dell’uso, tipico delle posizioni antipuristiche
settecentesche, viene riaffermato con decisione da C. nel seguente famoso
passaggio: L'uso, qualunque siasi, fa legge quando sia universale, e comune
agli scrittori ed al popolo, né, ove sia tale, può mai riputarsi vizioso,
poiché finalmente il consenso generale è l’autore e °l legislator delle lingue.
Di contenuto sostanzialmente identico, ci piace notare, è l’asserzione varchiana
dove, per i termini chiave di ragione e di uso, sembra di trovarsi a leggere un
trattato settecentesco: basti per hora di sapere ch'in tutte l'altre cose deve
sempre prevalere e vincere la ragione, eccetto che nelle lingue, nelle quali,
quando l’uso è contrario alla ragione o la ragione all’uso, non la ragione, ma
l’uso è quello che precedere e attendere si deve, La modernità del pensiero
linguistico di C., misurabile nell'attenzione prestata ai fenomeni materiali di
articolazione e di mutazione che si manifestano nella lingua in atto, va colta
in continuità, come vuole l’autore stesso, con la linea non arcaizzante della
riflessione linguistica cinquecentesca, mediata, a quanto possiamo vedere,
dalla riflessione teorica di Benedetto Varchi. Riferimenti bibliografici BEMBO (2001),
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l'autografo latino 3210, edizione critica a cura di C. Vela, CLUEB, Bologna. C.
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(1960, 327). 55. 360. 56. Varchi (1995, 698). 246 TRA LA LINGUA ITALIANA E LE LINGUE
liana, in E. Bigi cur., Dal Muratori al C., t. IV: Critici e storici della
poesia e delle arti nel secondo Settecento, Ricciardi, Milano-Napoli 304-434.
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secoli di dibattiti sull’italiano, nuova edizione, Carocci, Roma.(2018), Breve
storia della questione della lingua, Carocci, Roma. ROGGIA C. E. (2011), De
naturali linguarum explicatione: sulla preistoria del Saggio sulla filosofia
delle lingue, in A. Daniele cur., Melchiorre Cesarotti, Atti del convegno
(Padova, 4-5 novembre 2008), Esedra, Padova 43-66. VARCHI B. (1995),
L’Hercolano, edizione critica a cura di A. Sorella, presentazione di Trovato,
Libreria dell’ Università editrice, Pescara. 247 C. e Manzoni tra filosofia
delle lingue e linguistica di Sara Pacaccio* Come sottolineava Luca Danzi in un
contributo per il convegno Aspetti dell'opera e della fortuna di Melchiorre C.',
le tracce di C. nell’opera manzoniana sono piuttosto esigue e riguardano
pressoché esclusivamente il lavoro del linguista. Se si eccettua, infatti, una
lettera al Mustoxidi, datata al 1? febbraio 1805, in cui Manzoni difende il
Téseo del Monti, adducendo appunto l’autorità di C., quale sanissimo giudice di
siffatte questioni, il rapporto tra i due si legge solo accostando gli Scritti
linguistici e il Saggio sulla filosofia delle lingue, di cui Manzoni lesse e
postilló l'edizione milanese del 1821. Negli Scritti linguistici i riferimenti
a C. sono sporadici e generalmente brevissimi: lo troviamo appena menzionato in
due appunti preparatori a due diverse redazioni del trattato Della lingua
italiana, la prima e la quarta, e più diffusamente nel Sentir messa. Per il
momento mi limito a dire che si tratta in ogni caso di rilievi critici; e
d’altra parte le teorie linguistiche di C. e quella di Manzoni si collocano su
crinali opposti rispetto alla considerazione della lingua, benché entrambi
diano spazio alla filosofia linguistica dell’ idéologie. Tuttavia, in questo
contributo mi piacerebbe concentrarmi non solo sulle divergenze di fondo, ma
anche su qualche elemento di convergenza che mi è parso di poter individuare.
La distanza è l’elemento più vistoso e caratterizzante, e credo sia chiarificatore
sceglierla come punto di partenza. Per meglio misurarla varrà la pena di
cominciare da Manzoni e dalla sua linguistica generale. L’operazione non è
eludibile, perché Manzoni ha avuto una sorte singolare: da un lato si è detto
forse fin troppo della sua soluzione alla questione della lingua; dall’altro,
gli aspetti più innovativi e interessanti della sua lingui* Università di
Friburgo (CH). 1. Danzi (2001, 817). 248 C. E MANZONI TRA FILOSOFIA DELLE
LINGUE E LINGUISTICA stica generale sono ancora in buona parte misconosciuti.
In questa strana fortuna il peso minore va forse attribuito alla tardiva
diffusione dei trattati incompiuti, il cui nucleo centrale fu pubblicato dal
Bonghi circa dieci anni dopo la morte di Manzoni; certamente ha giocato un
ruolo importante il giudizio critico dato dall’Ascoli, ma forse l’elemento
determinante è stato che la parte più consistente della riflessione manzoniana
è maturata al di fuori del contesto della questione della lingua così come era
concepita in Italia. In quel contesto si collocano soprattutto gli scritti
editi, che anche per questo hanno avuto maggiore fortuna critica. Spesso il
fatto che Manzoni guardasse alla grammatica generale e non alla nascente
glottologia e alla grammatica storica è stato interpretato come il più vistoso
segno di arretratezza della sua riflessione linguistica, ma per quella strada
egli giunge a risultati di sorprendente modernità; e d’altra parte, nella
generale rivalutazione della linguistica cosiddetta prescientifica è ormai acclarato
quanto quella filosofia sia stata importante per linguisti come Whitney e
Bréal, che tanta influenza ebbero sul pensiero di Saussure, e la validità di
certi aspetti metodologici è stata riconosciuta dallo stesso Chomsky. Vari
elementi della linguistica manzoniana maturano in quest’alveo, ma ne sceglierò
due, centrali in Manzoni e funzionali nella comparazione con C.: la scoperta
della convenzionalità e arbitrarietà di tutti gli elementi della lingua, che è
il vero fondamento del principio dell’uso, e, ad esso collegato, l'interesse
per la sintassi. Manzoni pone l’uso come convenzionalità fin dai primi
trattati, ma inizialmente non riesce ad applicare il principio in modo coerente
e sistematico; lo troviamo pienamente elaborato e operante nella terza
redazione del Della lingua italiana (che segue immediatamente l'interruzione
del Sentir messa), anche se la più chiara definizione si trova nella quinta
redazione dello stesso trattato: E qui siamo condotti a riconoscere, di mezzo e
al di là d’alcune differenze secondarie, un'identità importantissima, anzi
essenziale, tra i vocaboli e le regole grammaticali. Sono ugualmente mezzi di
significazione o, in altri termini, sono segni ugualmente. E, del resto, una
cosa facile a riconoscersi anche dal semplice bon senso, che, non essendo il
linguaggio altro che significazione, tutti i suoi mezzi immediati non possono
esser altro che segni. E da questa natura de’ segni, comune alle regole grammaticali
e ai vocaboli, si potrebbe già concludere legittimamente che quelle sono
anch'esse arbitrarie tutte quante, nè più nè meno di questi. 2. Manzoni (2000,
XVII 453-4). 249 SARA PACACCIO Già Sebastiano Vecchio, nel saggio Manzoni
linguista e semiologo, del 2001, rilevava come la dichiarazione
dell’arbitrarietà e convenzionalità delle regole grammaticali fosse
un’acquisizione nuova per la linguistica europea. Chiaramente Manzoni vi giunge
per gradi e per intuizioni progressivæ, Il punto di partenza, come è noto, è
quello dello scrittore in cerca di lingua, che parallelamente alla ricerca
lessicale documentata dai postillati, è costretto a riflettere sulla sintassi,
alla ricerca di una lingua adatta ai suoi personaggi meccanici. Non a caso, il
primo abbozzo di trattato linguistico che ci resta di Manzoni, bruciato il
cosiddetto Libro d'avanzo, sono i Modi di dire irregolari, che si incentrano
sulla giustificazione alcuni modi sintattici presenti nell’uso, ma rigettati
nelle grammatiche: il nominativo assoluto (ovvero il nominativus pendens dei
latini), l'infinito indipendente e la ridondanza pronominale. Quando Manzoni
cominciò questo trattato, la sintassi era un argomento praticamente ignorato
dalle grammatiche italiane e in generale estraneo ai dibattiti linguistici, che
vertevano principalmente su questioni lessicografiche, mentre era centrale
nella tradizione francese a partire dalla prima Grammaire générale et raisonnée
di Port-Royal; e la prospettiva ragionativa era divenuta uno dei capisaldi
dell’idéologie, al punto che l’idea di grammatica in Francia all’inizio dell’
Ottocento si identificava di fatto con quella di grammatica generale. Un
tentativo di mediazione tra le due tradizioni era stato tentato da Francesco
Soave, con la Gramatica ragionata della lingua italiana, la cui prima edizione
è del 1771; ma, come sottolinea Simone Fornara sulla scorta di Marazzini (e un
analogo giudizio negativo è già del Trabalza*), benché si presentasse
innovativa per alcuni aspetti, come la classificazione delle proposizioni
dipendenti, l’opera non era stata capace di conciliare la parte logica con
quella normativa, a causa di una scissione interna tra la volontà di ragionare
sulla grammatica e la scelta di affidarsi a un impianto normativo aridamente
schematico e di stampo tradizionale. E questo carattere resta anche
nell’edizione del 1822, quella citata da Manzoni negli Scritti linguistici: ad
esempio, pur destinando esplicitamente una sezione del trattato allasintassi,
Soave dedica ad essa 31 pagine su 160, indugiando soprattutto in una
descrizione dei tipi di costruzione figurata (con un taglio interessato 3. Per
una ricostruzione più estesa della riflessione manzoniana sull'argomento rinvio
a Pacaccio (2017) e in particolare alle pp. 79-91.4. Trabalza (1908, 408). s.
Fornara (2004, 251), che fa riferimento a Marazzini agli aspetti retorici più
che sintattici) e sulle sfumature di significato di una serie di parole. Nei
Modi di dire irregolari, dunque, inizialmente Manzoni si propone di trasferire
la prospettiva della grammatica francese in Italia, concentrandosi sulla
sintassi irregolare. Quest’operazione lo induce, però, a rilevare le prime
contraddizioni nei suoi modelli e a innescare, attraverso la considerazione del
rapporto tra regole ed eccezioni, una riflessione più ampia e fondativa.
Manzoni si accorge che, benché dichiarasse separati il piano del pensiero e il
piano dell’espressione, la grammatica generale francese continuava a
considerarle legate su base analogica e che per dimostrare l’arbitrarietà e la
convenzionalità di tutti gli elementi della lingua (e quindi che il piano
dell’espressione, diremmo il significante, è completamente determinato
dall’uso), bisognava recidere quel legame. La parte preponderante della
trattatistica inedita ha questo scopo e non si rivolge ai sistemi italiani: se
le prime due redazioni del trattato Della lingua italiana danno ancora spazio
alla confutazione del sistema del Cesari e nel Sentir messa troviamo la critica
alla proposta del Monti, a partire già dalla terza redazione del trattato i
riferimenti al dibattito italiano praticamente scompaiono. Saranno poi
recuperati negli editi, che non potevano fare a meno di collocarsi in quel
dibattito. Parallelamente, il discorso manzoniano si distanzia anche in modo
graduale da una considerazione filosofica delle lingue, per fondarsi invece
sull'osservazione dei fenomeni e concentrarsi su temi più propriamente
linguistici. Questa trasformazione progressiva è testimoniata dalle strategie
che Manzoni sceglie per portare avanti la sua critica alle grammatiche
generali. La prima sviluppa il tema settecentesco (fondamentale in C.), della
questione dell'origine del linguaggio, attaccando Condillac e Locke; ma questo
filone, che raggiunge la sua massima estensione nella terza redazione del
trattato Della lingua italiana si riduce drasticamente nelle successive, fino a
limitarsi a poco più di un accenno nella quinta redazione, dove viene liquidato
come un problema non pertinente: Manzoni riconduce la questione dell’origine
del linguaggio a quella dell’origine dell’uomo e le definisce questioni
importantissime, ma tanto estranee, quanto superiori alla nostra, la quale non
riguarda che de’ fatti riconoscibili per mezzo dell'esperienza 5. Mentre ridimensiona questa prima linea
argomentativa, Manzoni ne 6. Manzoni (2000, XVII, 473). avvia una seconda, che
mira a dimostrare come la classificazione delle parti dell’orazione offerta
dalle grammatiche generali non sia effettivamente basata su criteri funzionali,
ma riproponga nella sostanza la partizione descrittiva e normativa della
grammatica tradizionale. Questa seconda linea argomentativa si espande
soprattutto nella quarta redazione del Della lingua italiana, ma si trasforma
gradualmente nel passaggio alla quinta redazione, concentrandosi nel confutare
la divisione delle parti del discorso nelle due categorie tradizionali di declinabili
e indeclinabili. Ciò che Manzoni contesta è l’essenzialità della divisione,
ossia la sua necessità, che gli ideologi facevano discendere direttamente dalle
forme del pensiero e che consideravano valida e operante in tutte le lingue. Il
percorso conduce, appunto, alla dichiarazione della convenzionalità e
arbitrarietà di tutti gli elementi della lingua, di cui abbiamo già detto, che
porta anche a considerare permeabili lessico e grammatica e a ipotizzare una
grammatica totalmente descrittiva e mai valutativa, in cui avrebbero dovuto
trovare posto tutti i modi espressivi presenti nella lingua, probabilmente
differenziati in base al registro (scritto, parlato, colloquiale), secondo la
sensibilità più volte dimostrata da Manzoni nella scrittura creativa e
confermata dalle osservazioni di carattere grammaticale sparse nei trattati.
Discendono da questo concetto di convenzionalità linguistica tutti gli altri
assunti che portano alla scelta del fiorentino parlato colto. In estrema
sintesi: se le lingue sono sistemi di segni arbitrari e convenzionali
utilizzati da società colloquenti reali, le uniche lingue in Italia sono i
dialetti; perciò perché la lingua italiana sia una lingua naturale bisogna
scegliere un dialetto; il dialetto migliore da scegliere è il fiorentino perché
somiglia alla lingua letteraria. È chiaro a questo punto come il rapporto tra C.
e Manzoni non possa che essere innanzitutto la misurazione di una distanza.
Agli occhi di Manzoni, C. condensa gli errori francesi e quelli italiani,
aggiungendone di propri: non solo fonda apertamente sull’analogia tra suono e
oggetto le prime parole, come facevano i francesi (ad esempio de Brosses, nel
Traité de la formation méchanique des langues, che C. cita apertamente), ma
giunge a parlare di bontà intrinseca delle parole, legata alla vicinanza tra
suono e oggetto in quella che chiama armonia imitativa; inoltre, come facevano
gli italiani, aggiunge un giudizio di gusto nella selezione pratica dei
vocaboli della buona lingua da affidare all’autorità degli scrittori. 7. Cfr. C.
La critica di Manzoni a questi errori di C. mi pare sintetizzata in modo
emblematico in una postilla alla 92 del Saggio (ed. 1821), in cui C. discute,
appunto, della bontà intrinseca d’un vocabolo e parla di convenienza dei
termini rispetto all’idea: [C., 1821, III, III, 92] Quando un termine è
conveniente all’idea, quando rappresenta vivamente l’oggetto o colla struttura
de’ suoi elementi, o con qualche somiglianza o rapporto, quando inoltre è ben
derivato, analogo nella formazione, non disacconcio nel suono, di qualunque
autore egli siasi, a qualunque data appartenga, sia esso parlato o scritto o
immaginato, sarà sempre ottimo, e da preferirsi ad altri insignificanti,
strani, disadatti, che non abbiano altra raccomandazione che quella del
Vocabolario*. [Postilla di Manzoni] Oh quante in una volta! intrinseca qualità
delle parole! termine conveniente all’idea! Ma come conveniente? per una purità
del suono delle lettere di quel termine? ben derivato! da che? Circolo vizioso
più strano di questo è forse difficile a trovare. Di grammatica e sintassi C.
parla pochissimo nel Saggio, confermando quanto quell’aspetto fosse poco
consono agli interessi degli italiani: perfino lui, così europeo, al punto da
dichiararsi continuatore dei francesi, pone in secondo piano un aspetto
basilare della loro filosofia linguistica. In uno dei pochi passaggi in cui
supera la dimensione del vocabolo nel trattato, C. scrive: Continuando il
nostro esame sulle parti rettoriche della lingua faremo un cenno delle frasi.
Siccome queste constano di due termini, l'uno dei quali modifica o determina il
primo, oppure riceve l’azione comunicata dall’altro, così la frase dee partecipar
delle qualità dei vocaboli da cui è composta?. Le frasi identificano
evidentemente forme di giudizio semplici, che possono limitarsi a nome +
aggettivo e, come chiariscono gli esempi proposti poco più avanti (sitibondo di
sangue oppure la frase contadinesca, come lui la definisce, la terra va in mare)
C. pensa evidentemente soprattutto alle locuzioni idiomatiche. Anche per
questo, le frasi sono definite parti retoriche della lingua, proseguendo
l’argomento di cui trattavano i capitoli precedenti (cioè i traslati come
generatori di nuovi significati) e il discorso viene spostato immediatamente
dalle frasi ai voca8. Cfr. C. boli, riportandolo sul solito terreno. La
subordinazione, che era invece tra gli elementi più innovativi della grammatica
portorealista, non è neppure nominata. Poco più avanti C. passa dalle
espressioni idiomatiche alle frasi proverbiali, per cui ribadisce la regola
dell'aderenza all oggetto e della comprensibilità sovraregionale, censurando le
espressioni troppo vernacolari, anche se fiorentine. La discussione, in questo
caso, si sposta sul rapporto tra lingua e dialetti, secondo modalità che
ricalcano quelle già adottate per il lessico. Quando poi giunge a parlare
esplicitamente di sintassi, la trattazione occupa in tutto meno di 10 pagine su
158. Vediamo come introduce l’argomento: Resterebbe, tra le parti rettoriche ad
esaminar gl'idiotismi, ma ciò che abbiamo a dirne si intenderà più chiaro,
poscia che avremo parlato delle parti logiche della lingua. Sono queste
comprese tutte nella sintassi, della quale giova distinguere la materia e la
forma. Chiamo materia della sintassi la collezione di tutte le parti del
discorso e dei loro accidenti: forma, la collezione dei segni destinati a
indicar gli accidenti delle stesse parti, la loro relazione reciproca, i loro
rapporti di dipendenza, e la collocazione di ciascheduno per formar un tutto
coordinato e connesso. Innanzitutto vale la pena di rilevare come a livello
gerarchico, la trattazione della sintassi sia secondaria rispetto a quella
degli idiotismi, a sua volta inclusa nella questione più ampia delle parti
rettoriche delle lingue. In secondo luogo, quando distingue materia e forma,
riproponendo, mi pare, la distinzione portorealista e poi idéologique tra
Discours (materia) e Oraison (forma) che è alla base dell’idea stessa della
grammatica generale, sembra che C. rafforzi il rapporto tra i due piani: non
solo le parti del discorso, ma anche i loro accidenti sono relativi alla materia,
cioè al piano del pensiero e sono quindi universali. Come gli autori francesi
di grammatiche generali, poi, C. ribadisce che le parti del discorso sono
comuni a tutte le lingue: Le parti del discorso ne sono [della sintassi] i
membri necessari. Le lingue dei popoli colti hanno a un di presso lo stesso
numero di queste parti. Esse formano il fondo della grammatica naturale. Nomi,
pronomi, verbi, avverbi, preposizioni, congiunzioni si trovano in ogni lingua.
Per il resto, le dieci pagine dedicate alla sintassi trattano delle regole che
la rendono difettosa o pregevole, ovvero la desinenza, la concordanza, il reggimento
e la costruzione. Nella costruzione, C. considera la collocazione dei vocaboli
e, dopo aver avvertito che non è puramente logica ma insieme è suscettibile
d'una bellezza rettorica**, si concentra su quest’ultima, trattando
principalmente dell'ellissi e dell’iperbato. Gli idiotismi grammaticali sono
poi ripresi molto cursoriamente alle pp. 52-3 (siamo sempre all’interno delle
dieci pagine): qui C. li definisce Forme di dire irregolari, ellittiche, meno
comuni, e più relative al modo di esprimer l’idea o °l sentimento, che al
vocabolo o alla frase che li rappresentano e li riduce in effetti a
neoformazioni come triveloce o triforte (di fatto siamo ancora nella dimensione
del vocabolo) che sono esplicitamente giudicate insignificanti e dunque indegne
di diventare oggetto di discussione. Dunque, quanto ai due elementi cardine
della linguistica manzoniana considerati, ovvero la convenzionalità e
arbitrarietà di tutti gli elementi della lingua e l'interesse per la sintassi, C.
e Manzoni non potrebbero essere piü distanti; si aggiunga che, mentre Manzoni
critica la grammatica generale abbandonando le discussioni più filosofiche,
come l'origine del linguaggio, C. prende le mosse proprio dalla questione
dell'origine, sviluppando in modo orginale le teorie di de Brosses. A questo
punto possiamo percorrere il Saggio sulla filosofia delle lingue alla ricerca
di qualche altro aspetto vistosamente in contrasto con la linguistica
manzoniana. Un nodo importante (e molto discusso nella questione della lingua)
è sicuramente il rapporto tra lingua parlata e lingua scritta, su cui si
innesta quello tra lingua comune e dialetto. Su questi argomenti Manzoni
critica C. in più occasioni, come in una delle postille più taglienti apposte
in margine al Saggio: 13. 14. 49. 15. 52. 16. Gli idiotismi grammaticali
vengono presi in considerazione più avanti, nel capitolo xvi della 111 parte (C.,
2001, 86), dopo le frasi proverbiali. [C.,
1821, IV, VI, 163] Che l’opinione dei detti critici sopra i tre luminari dello
stile non fosse né falsa, né strana, niente può meglio provarlo del testimonio
del Davanzati, scrittore zelantissimo del proprio idioma, e per molti capi
pregevolissimo, il quale schiettamente distingue la lingua fiorentina dalla
italiana comune, la quale, dic’egli, non si favella, ma s'impara, come le
lingue morte, nei tre scrittori fiorentini [Postilla di Manzoni] sicchè col
testimonio del Davanzati riman provato che la lingua italiana comune è una
lingua morta. Manzoni, naturalmente, sta forzando il discorso a suo favore, ma
la distanza tra i due è evidente: per lui scegliere la lingua degli scrittori è
quanto di più lontano dalla natura delle lingue, mentre per C. garantisce la
stabilità e la qualità della lingua stessa. Il modello è quello indicato per il
latino nella prefazione pronunciata al Seminario di Padova, Vitalita e
perfettibilità della lingua latina: Sinite quaeso me verba illa vestra viva, et
mortua clarius explicare. Viva erat igitur tunc Latina lingua, nunc mortua: hoc
est tunc in laniorum, coquorum, salsamentariorum, totiusque Romuleae faecis ore
versabatur, nunc tantummodo in litteratorum calamis, et linguis floret; tunc
cam Cicero, Caesar, Cornelius a nutricibus, vernisque ediscebant, nunc eam nos
ediscimus a Caesare, a Cicerone, a Cornelio. Hoccine est igitur mortuam esse,
an potius vitam vivere pristina ipsa potiorem? Lasciatemi di grazia spiegare
più chiaramente quelle vostre parole viva e morta. Viva era dunque allora la
lingua latina, ora è morta: cioè, allora stava sulla bocca dei macellai, dei
cuochi, dei pizzicagnoli e di tutta la feccia romulea, ora fiorisce e prospera
solo nei calami e sulle lingue dei letterati; allora Cicerone, Cesare, Cornelio
la imparavano dalle nutrici e dagli schiavi di casa, ora noi laimpariamo da
Cicerone, da Cesare, da Cornelio. Questo è dunque essere morta? O non piuttosto
vivere una vita persino migliore della precedente? 17. Corrisponde a C. (2001, 105).
18. Una parentesi laterale riferisce in modo diretto la postilla alla porzione
di testo che va da il quale a ma s'impara. La sottolineatura a testo è di
Manzoni. 19. La preferenza per la lingua scritta da parte di C. è stata ben
mostrata da Roggia (2012). 20. Il testo di C. (composto tra il 1757 e il 1759)
è trasmesso dalle cc. 49r-52v del ms. 3565 della Biblioteca Riccardiana di
Firenze, secondo la descrizione di Roggia (2016, 281), da cui attingo anche la
traduzione (ivi 278-9). Il testo è edito anche in C. (in corso di stampa, I,
2). Per C. la lingua italiana comune e la lingua latina, insomma, sono vive
nello stesso modo, tanto che anche la lingua latina può arricchirsi di parole
nuove, scelte naturalmente sempre dagli scrittori: hoc unum dicimus, nunquam
per nos neque pueris, neque barbaris, neque semidoctis, neque vobis Grammaticis
facultas [cioè la facoltà di arricchire la lingua] ista concedetur (‘Diciamo
solo questo: per quanto ci riguarda, mai questa facoltà sarà concessa ai
fanciulli, né ai barbari, né ai semidotti, né a voi grammatici). La preferenza
per la lingua scritta da parte di C. è criticata da Manzoni anche nell'appunto
preparatorio alla prima redazione del trattato Della lingua italiana, che
costituisce la prima delle tre occasioni in cui viene menzionato il Saggio
negli Scritti linguistici: Esame di quella opinione messa innanzi da molti
scrittori che il popolo alteri le lingue, le muti, con gran facilità, non tenga
uso stabile, e ció in contrapposto cogli scrittori. Citare quel luogo del
Salviati (così male a proposito beffato dal Cesarotti) dove si attribuisce alla
smania dei latinismi l'alterazione del 400. Il riferimento è alla 117 del
Saggio (1821), dove Manzoni aveva segnato in margine un grande NB, seguito da
una notazione cassata e illeggibile: Dee perciò sembrar alquanto strana la
proposizione del Salviati ne’ suoi Avvertimenti della lingua, il quale
supponendo gratuitamente che la lingua dal Boccaccio in giù andasse
deteriorando per la introduzione di nuovi ed impuri vocaboli, deduce cotesta
depravazione dallo studio della lingua latina. Udiamola: ella è veramente,
direbbe un francese, impagabile. I termini antichi di questa specie non vennero
dal latino, ma dalla corruzione di esso, e dalla mescolanza colle lingue
barbare; nè accadde per umano consiglio, ma per opera della Providenza; laddove
i moderni si traggono dal latino duro, e sono introdotti senza autorità
dall’arte e dall'arbitrio degli uomini*. Un'altra postilla relativa allo stesso
argomento compare alla 13 del Saggio (edizione 1821)?*, dove discutendo dell’autorità
dell'uso, C. afferma che la lingua scritta non dee ricever la legge
assolutamente dall’uso volgare del popolo. L'uso deve dominar nella lingua
parlata, non nella scritta. Manzoni segna due numeri romani un II e un IX, che
probabilmente 21. Roggia (2016, 280). Si veda la nota precedente. 22. Manzoni
(2000, XVIII, I, 229). 23. C. (1821, III, XI, 117); C. (2001, 76). 24. C.
(1821, I, IV, 13); C. rinviano al cap. 11 della parte 111 del Saggio stesso,
dove si trova un’altra sottolineatura laterale, in corrispondenza di un passo
che sarà poi citato esplicitamente nel Sentir messa. Si tratta della più lunga
menzione del Saggio negli Scritti linguistici, ovvero del luogo in cui Manzoni
sintetizza il nucleo centrale della sua critica nei confronti di C., giudicato
incapace di riconoscere cosa sia davvero una lingua: Un altro, invece, negò
risolutamente che l’idioma toscano sia, nè debba essere la lingua d’Italia;
volle bensì che fosse il dialetto dominante, principale, primario. E non
s'avvide che nelle cose dove l’unità è condizione essenziale, a cui si dà le
prime parti, si dà il tutto; non pose mente che l’ Uso dovendo essere uno, non
c’è luogo al secondo né al terzo, che sarebber più Usi, cioè più lingue, o
piuttosto una confusione e una zuffa di lingue. E a quel dialetto contrappose
poi una che chiamò lingua comune®; non ponendo mente anche quivi che, se una
tal lingua c’è, e dovunque una lingua sia, non ci può essere fuori di essa e
rispetto ad essa nulla di predominante, di principale, di primario. Abbiam
detto: fuor d’essa; poichè, se s'avesse a intendere che questo dialetto sia
parte della lingua comune, e gli altri con esso, come si potrebbe mai chiamar
lingua una somma, una congerie di dialetti? E per verità non è facile, anzi non
è possibile risolversi se s'abbia a intendere l'uno o l'altro; perchè infatti
quel sistema intende ora l'una ora l’altra cosa), sa il cielo con quante altre,
sotto il nome di lingua. Solo ai dialetti lo dinega, appunto perchè sono nella
sostanza, vere lingue; e ad una lingua davvero quel libro non pensava. (9 C.,
Saggio sulla filosofia delle lingue, Parte 111°, $ 11, e altrove. (P L’una, per
esempio, al luogo che abbiamo accennato poco sopra e che trascriviamo qui: L'uso,
qualunque siasi, fa legge quando sia universale, e comune agli scrittori ed al
popolo; nè, ove sia tale, può mai riputarsi vizioso, poichè finalmente il
consenso generale è l’autore e il legislator delle lingue. Ma se una nazione
separata in diverse province, senza una capitale che eserciti veruna
giurisdizione monarchica sopra le altre, avrà un dialetto principale e una
lingua comune, l’uso anche generale del dialetto primario non potrà dirsi
universale, nè per conseguenza aver forza di legge, se non quando resti
autorizzato dal consenso della nazione, e accolto dalla lingua comune. Le due
questioni, cioé il rapporto tra lingua parlata e lingua scritta da un lato e
tra lingua comune e dialetti dall'altro, sono evidentemente legate in Manzoni
come lo sono in C., ma le loro conclusioni sono molto diverse: per Manzoni la
lingua scritta, già all'altezza del Sentir messa, può essere solo uno speciale
adoperamento d'una lingua? (oggi diremmo una questione di registro) e gli
scrittori una parte, membri sparsi d'una reale 25. C. (1821, III, II, p58). 26.
Manzoni società ^, mentre i dialetti
sono lingue naturali, nate per consenso da una società reale intera; in C.,
come sottolinea ancora Roggia, benché tra le coppie scritto-parlato e
lingua-dialetti viga una chiara distinzione, esse non possono fare a meno di
incrociarsi logicamente, il che infatti avviene più volte nel Saggio. Il fatto
che la menzione più ampia del Saggio sulla filosofia delle lingue e
l'insistenza sulla scelta del fiorentino trovino luogo nel Sentir messa, non è
casuale: il Sentir messa è l'ultimo tentativo di conciliazione da parte di
Manzoni tra la prospettiva linguistica maturata nel confronto con i francesi e
la questione della lingua nei termini in cui era concepita in Italia; anche per
questo è il trattato che più somiglia agli scritti linguistici editi e che ha
avuto maggiore fortuna critica. Ma benché i punti di divergenza siano molti e
sostanziali, ci sono degli aspetti della teoria linguistica di C. che dovevano
incontrare almeno in parte il favore di Manzoni, come il tema della mutazione
linguistica e dei traslati. Naturalmente, si tratta di conclusioni simili che
si basano su principi opposti: la mutazione linguistica è per Manzoni
strettamente connessa al principio e quindi le sue ragioni non possono che
essere in contrasto con quanto C. sostiene. Quest'approvazione con riserva di
fondo mi pare emerga in modo piuttosto chiaro in una postilla che Manzoni
appone al capitolo x della parte 11 del Saggio, dove C. descrive i vari modi in
cui i vocaboli modificano il loro significato nel tempo attraverso progressivi
spostamenti, anche ad opera dei traslati, e conclude: [C., 1821, II, XIII, 51]?
Da tutte queste osservazioni fluisce, per necessaria conseguenza, una verità
non osservata, che la lingua in capo a qualche secolo, anche conservando
intatta la sua 28. 29. Roggia (2012, 508-9). 30. 31. Tra
i tanti esempi che si potrebbero addurre, cito solo questo frammento preparatorio
alla quarta redazione del trattato Della lingua italiana piuttosto vicino a
quanto emerge dalla collisione tra Saggio e postilla: Ci sono in fatto, come
che questo sia avvenuto, diverse lingue; queste lingue durano, e sono insieme
mutabili, tanto che si mutano. C'è dunque una forza, una causa perpetuamente
operante che in parte le mantiene, in parte le altera, una causa cioè che le fa
essere ad ogni momento in una data forma nella causa che fa esser le lingue ad
ogni momento, in una data forma, noi dovremo vedere la causa che, col tempo, le
muta a segno di farle diventare altre (Manzoni, 2000, XVIII, I, 621). 32. Cfr. C.
forma esterna, diviene? però intrinsecamente ed essenzialmente diversa nel
valore, nel color, nell’effetto. [Postilla di Manzoni] Ne segue ben altro: ne
segue che l’ Uso e l’uso solo è quello che fa le lingue essere quali sono. La
notazione manzoniana sottintende che se la conseguenza (ma diremmo meglio la
premessa) è sbagliata, quanto la precede nel testo è condivisibile: ovvero le
lingue mutano continuamente e i traslati hanno una parte importante in questo
mutamento. La mutazione perpetua e costante delle lingue, che è un elemento
significativo della teoria linguistica di C., è, infatti, portante anche nella
linguistica generale di Manzoni. Tra i tanti esempi che si potrebbero addurre,
propongo un frammento preparatorio alla quarta redazione del trattato Della
lingua italiana: Ci sono in fatto, come che questo sia avvenuto, diverse
lingue; queste lingue durano, e sono insieme mutabili, tanto che si mutano. C'é
dunque una forza, una causa perpetuamente operante che in parte le mantiene, in
parte le altera, una causa cioè che le fa essere ad ogni momento in una data
forma. Nella causa che fa esser le lingue ad ogni momento, in una data forma,
noi dovremo vedere la causa che, col tempo, le muta a segno di farle diventare
altre}*. Pure in molti luoghi Manzoni dichiara accettabili nella lingua tutti i
mezzi di arricchimento (neologismi, arcaismi, forestierismi, dialettismi), ma,
ancora una volta, le ragioni sono opposte rispetto a quelle addotte C. e ciò
condiziona anche una modalità diversa di ingresso di questi elementi nella
lingua. C. pensa a un'operazione compiuta dagli scrittori, per arte: Rapporto
ai vocaboli già ricevuti, la prima facoltà che si compete ad uno scrittore si è
quella di ringiovenire opportunamente le voci invecchiate e richiamarle alla
luce. Questo rinnovamento accade alle volte naturalmente in ogni lingua: quel
che si fa per caso non potrà farsi per arte? Manzoni, invece, accoglie tutte le
aggiunte ratificate dall’uso, indipendentemente dalla loro provenienza. Questo
almeno è il punto d’arrivo: come 33. La sottolineatura è di Manzoni. 34.
Manzoni (2000, XVIII, II, 621). 35. C. si è già detto, egli guadagna nel tempo
l’applicazione coerente e sistematica del principio e fino al Sentir messa la
sua posizione è più vicina a quella di C.: Epperò noi abbiamo, come ognun vede,
voluto parlar soltanto di quelle dizioni alle quali siano sottentrate e già
vadano innanzi nell' Uso altre atte a dire il medesimo per l’appunto: quelle
che invecchiano o sono anche antiquate affatto per semplice disuso, quelle che
sono dismesse ma non iscambiate, e possan pure riuscire utili, è, senza dubbio
e senza contrasto, buon’opera rimetterle in onore, restituirle alla lingua,
adoperandole dove appunto la loro utilità si faccia sentire, o anche ricordandole
e riproponendole semplicemente. Questa possibilità viene poi recisamente negata
nei trattati successivi, al punto che il passo seguente, tratto dalla quarta
redazione del trattato Della lingua italiana, sembra addirittura il
rovesciamento speculare di quello del Sentir messa appena riportato: E fra i
vocaboli dismessi, quanti non ce n'è dei quali chi li conosce dice a buon
diritto: peccato! faceva pure una sua parte propria e utile; si fa intendere a
prima giunta; ha una natural relazione con altri che sono in corso; meriterebbe
di rivivere? Il che è appunto riconoscere che tutte queste ragioni non hanno
avuto virtù di mantenerlo nella lingua; che altro ci voleva; e che quest'altro
ci vuole per riporvelo. Ma la convergenza forse più interessante tra Manzoni e C.
riguarda il ruolo dei traslati nella modificazione linguistica. Sia in C. sia
in Manzoni, infatti, i traslati vengono menzionati soprattutto come mezzi per
modificare e arricchire le lingue, portando all’estremo il passaggio da una
considerazione retorica dei tropi a una considerazione filosoficolinguistica,
secondo una tendenza già presente in Vico, ma non molto diffusa tra i
contemporanei. C. tratta dei traslati nel passo della parte 11 del Saggio che
abbiamo già considerato, in cui sostiene, appunto, la costante modificazione
delle lingue, e nella parte 111, in cui discute le fonti di arricchimento linguistico,
avallando innanzitutto il recupero di parole della lingua nazio36. Manzoni
(2000, XVII, 183). 37. XVIII, II, 705. 38. Gensini (1995, 237). 39. Cfr. supra 259-60.
261 SARA PACACCIO nale e in particolare dei termini antichi, da rinnovare
estendendone il senso?°: La seconda facoltà, rapporto a questi vocaboli [i
vocaboli antichi], sarà quella d’ampliarne il senso, di cui però vuolsi usare
con vie maggior sobrietà e avvedutezza. Questo però è quel che si è fatto
costantemente dall’uso in tutte le lingue. Il trasporto reciproco da un senso
all’altro fu sempre libertà originaria e coessenziale alle lingue. Insomma,
come per Vico, nei tropi non va più visto un ornamento del linguaggio, ma la
cellula originaria e costitutiva di esso, derivante (par. 456) tutta da povertà
di lingua e necessità di spiegarsi +. In
Manzoni il concetto è ancora più esplicito, come mostra il frammento seguente,
preparatorio alla quinta redazione del Della lingua italiana: L'intento e
l'effetto de’ traslati è di produrre nuove significazioni senza nuovi vocaboli.
È un ripiego occasionato dalla povertà del linguaggio, come osservò benissimo
Cicerone:? senonchè pare che abbia voluto restringere particolarmente questa
cagione a un tempo incognito e indeterminato. Ma, in questo, come in tanti
altri casi simili, la supposizione congetturale d’uno stato primitivo,
incipiente, del linguaggio, ha il doppio inconveniente, d'essere arbitraria, e
di non servire a nulla per la spiegazione del fatto attuale; ed è in vece cosa
tanto sicura e a proposito, quanto facile, il vedere che questa scarsità è una
condizione perpetua de’ linguaggi, quali noi li conosciamo, anzi quali possiam
concepirli; e quindi un’occasion perpetua di traslati**. Più avanti, nello
stesso frammento, Manzoni ricorda anche la proprietà che i traslati hanno di
piacere, indipendentemente dalla loro utilità, diró cosi, materiale 5, ma
appare evidente, anche dalla collocazione defilata del rilievo, che
quest'aspetto è sentito come decisamente secondario. Dun40. A questo, che
chiama primo fonte (viri-Ix), aggiunge poi i dialettismi (secondo fonte, x), i
latinismi e i grecismi (terzo fonte, XI-XII), i forestierismi (quarto fonte,
XIII) ei termini nuovi (XIV). 41. C. (2001 67-8). 42. Gensini (1995, 237). 43.
Il riferimento è al De Oratore, 111: Modus transferendi verba late patet, quem
necessitas primum genuit coacta inopia et angustiis; post autem delectatio
jocunditasque celebravit. 44. Manzoni (2000, XVIII, IL, 916). La concezione
linguistica dei tropi da parte di Manzoni è già stata segnalata da Gensini
(1993, 276). 45. Manzoni que Manzoni, come C., considera i traslati
coessenziali alle lingue e costantemente operanti in una modificazione
linguistica che è a sua volta costante. Per quanto ho potuto trovare, non si
tratta di idee condivise: tra Sette e Ottocento, quando la funzione
modificatrice dei traslati è riconosciuta, è dichiarata primaria o rilevante
solo nelle lingue che si trovano ancora in uno stadio aurorale, mala si
considera sostituita dalla funzione retorica nelle lingue perfezionate. E, in
effetti, dalla teoria dell’origine umana del linguaggio messa in campo, avrebbe
detto Manzoni, da Locke e da Condillac e poi sviluppata dagli idéologues deriva
una progressiva perfettibilità delle lingue, non una mutazione perpetua e
costante, nell’idea che le lingue moderne siano già giunte a uno stadio
avanzato di perfezione. Anzi, l’imperfetta separazione tra piano del pensiero e
piano dell’espressione, che Manzoni contesta ai grammatici francesi, induceva
spesso a considerare necessari e validi in tutte le lingue alcuni fenomeni
osservabili nel francese, assunto a modello e prototipo di lingua perfetta.
Anche per questo motivo, nei trattati di retorica, inclusi quelli idé0/0giques,
troviamo spesso combinate la priorità dell’aspetto espressivo e retorico dei
tropi e quest'idea di un'evoluzione progressiva delle lingue in stadi sempre
più prefezionati. È così, ad esempio, nelle Lectures on Rhetoric and Belles
Lettres del teologo e filosofo Hugh Blair dell’ Università di Edimburgo. La
raccolta, che fu il contributo più importante della scuola di Edimburgo alla
filosofia linguistica di stampo idéologique, fu pubblicata nel 1783 ed ebbe
grande fortuna tra Sette e Ottocento; Manzoni lesse l'edizione tradotta e
commentata da Francesco Soave, che fu pubblicata a Parma tra il 1801 e il
180246. Ecco cosa scrive Blair tradotto da Soave: Ma sebbene la povertà del
linguaggio e la mancanza de’ vocaboli sia stata indubitatamente una delle
cagioni dell’invenzione de’ tropi, non è però stata l’unica, nè forse la
principale sorgente di queste forme del parlare. I tropi son derivati più
spesso, e più largamente si sono estesi, per l'influenza che l'immaginazione ha
sopra d’ogni linguaggio. Per questo modo un'ampia varietà di termini figurati o
di tropi s’ introduce in ogni lingua, non per necessità ma per elezione; e gli
uomini di vivace immaginazione ogni giorno ne vanno il numero aumentando. 46.
Soave (1801-02). I tre tomi, oggi nella biblioteca di via del Morone,
presentano segni di lettura e annotazioni ormai pressoché completamente
sbiadite; la lezione xiv non è postillata. 47. Soave E poco più avanti Blair
cita appunto il passo di Cicerone a cui alludeva Manzoni. Il concetto è reso
ancora più chiaramente nell’interpretazione che dà di questo passaggio lo
stesso Soave in una riduzione delle lezioni di Blair, le Istituzioni di retorica
e di belle lettere tratte dalle lezioni di Ugone Blair da Francesco Soave ad
uso delle scuole d'Italia, il cui primo volume fu pubblicato a Milano
dall’editore Sonzogno nel 1831: A misura che il linguaggio presso dei popoli
gradatamente s'avanza alla sua perfezione, quasi tutti gli oggetti acquistano
de’ nomi proprj, e i termini figurati diminuiscono. Con tutto ciò molti ne
restano ancora, e l’uso de’ tropi, anche cessato il primo bisogno, in tutte le
lingue più o meno conservasi pei molti vantaggi che essi arrecano in altre
guise*, La funzione retorica è prevalente anche in Du Marsais. Nel trattato Des
Tropes, che è uno dei punti di riferimento di Manzoni sull’argomento, nel
capitolo Usage ou éfets de Tropes l'arricchimento linguistico è annoverato solo
come ultima funzione, dopo altre cinque: 1. Un des plus fréquens
usages des tropes, c'est de réveiller une idée principale, par le moyen de
quelque idée accessoire 2. Lestropes donent plus d'énergie à nos expressions 3.
Lestropesornent le discours 4. Les tropes rendent le discours plus noble s.
Lestropes sont d'un grand usage pour déguiser des idées dures, désagréables,
tristes, ou contraires à la modestie 6. Enfin les tropes enrichissent une
langue en multipliant l'usage d'un méme mot, ils donent à un mot une
signification nouvéle**. Tra gli italiani implicati nella questione della lingua, la
funzione modificatrice dei traslati è riconosciuta di passaggio nella Proposta,
proprio perché Monti guarda alle teorie linguistiche di C. per i principi di
etimologia e analogia, come Manzoni non manca di segnalare nel Sentir messa. Ma
anche Monti sottolinea soprattutto l'aspetto retorico, immaginativo dei
traslati. Nell' introduzione scrive: Il parlar proprio è il linguaggio della
ragione: il metaforico è quello della passione e perciò la diffinizione delle
parole non dee cadere giammai che sul senso proprio; il metaforico deesi
aggiungere come dipendenza del primo; ma conviene accuratamente 48. Soave
(1831, I, 59). 49. Du Marsais spiegarlo, perché la parola dallo stato naturale
passando al figurato non è più dessa ‘°. Nella Proposta, poi, Monti critica
molte definizioni della Crusca sulla base della confusione tra senso proprio e
figurato, ma è ben lontano dal considerare i traslati in stretto rapporto con
la modificazione linguistica e soprattutto è ben lontano dalla profondità
teorica con cui C. e Manzoni li considerano. Una maggiore insistenza sulla
mutazione perpetua delle lingue e sull'apporto costante dei traslati si trova
invece nel Traité de la formation méchanique des langues, et des principes
phisiques de l'étymologie di Charles de Brosses, un riferimento molto
importante per C., che lo cita esplicitamente più volte nel Saggio, e noto
anche Manzoni, che ne possedeva un esemplare nell’edizione del 1765 (Saillant,
Paris). Nel 11 tomo del trattato, nel cap. x De la dérivation et ses effets, de
Brosses parla estesamente del trasferimento di significato, dandogli un grande
potere nell’arricchimento costante delle lingue. Ecco cosa scrive
nell’articolo 180: Mais pour voir combien l'extension volontaire de l'emploi
des termes est fréquente et puissante dans les langages, il n'y a qu'à observer
combien les expressions nouvelles se multiplient tous les jours parmi les
hommes, sans que parmi tant de mots nouveaux dont chaque langue ou dialecte se
surcharge, on voie presque jamais créer une seule racine à l'exception de
quelques nouvelles onomatopées, comme Trictrac. Tous les mots nouveaux que nous
voyons créer ne le sont que par dérivation, analogie, métonymie, ou figure. In particolare si concentra, poi, sulla
metonimia, che considera la figura più potente nel generare nuovi significati e
quindi nuove espressioni. De Brosses potrebbe essere fonte d'ispirazione comune
per C. e Manzoni, anche se in nessuno dei due troviamo il prevalere della metonimia.
Tuttavia, l'ultima menzione di C. che troviamo negli Scritti linguistici, messa
insieme a quanto abbiamo già detto, lascia credere che Manzoni avesse presente,
almeno per i traslati, soprattutto il Saggio sulla filosofia delle lingue. Si
tratta di un frammento preparatorio alla quarta redazione del trattato Della
lingua italiana e riguarda, appunto, i traslati: Per veder la cosa in un
esempio celebre, Quintiliano, seguendo Cicerone, opinó che le gemme delle viti
siano state cosi chiamate per metafora; il Du Marsais e il C. vogliono invece
che quello sia senso proprio, e dalle gemme delle viti traso. Monti (1817-24,
I, XLIII). 51. De Brosses sferito alle pietre preziose, per la ragione che ad
entrambi pare concludentissima, dell’avere i latini dovuto conoscere e nominar
quelle prima che queste. La questione era effettivamente discussa in vari
trattati, incluso il Traité de la formation méchanique des langues di de
Brosses, dove pure il termine gemma era considerato proprio quando applicato ai
germogli delle piante e traslato quando utilizzato per le pietre preziose.
Manzoni, però, sceglie di menzionare C., lasciando credere che sia proprio il
Saggio, almeno per questo particolare argomento (i traslati), l'esempio più
immediato nella sua memoria. Anche se lo avesse scelto perché lo considerava
rappresentativo in modo esemplare di una concezione linguistica inaccettabile
che combinava etimologia e analogia, tradendo due volte la natura delle lingue,
non si può fare a meno di rilevare che un’apparizione di C. nella quarta redazione
del trattato Della lingua italiana è di per sé considerevole, se si tiene conto
del fatto che dopo il Sentir messa i riferimenti al contesto italiano negli
scritti inediti praticamente si dissolvono. Manzoni cita C. accanto a Du
Marsais senza soluzione di continuità, come parte di uno stesso orizzonte
concettuale, certo per segnalarne i limiti, ma allo stesso tempo mostra di
considerarlo un degno avversario, alla stregua dei francesi, e di riconoscergli
la statura di teorico di prima grandezza nel panorama italiano. Riferimenti
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phisiques de l'étymologie, 2 voll., chez Saillant, Vincent et Desaint, Paris.
DU MARSAIS C. CH. (1801), Des Tropes ou des diférens sens, dans lesquels on
peut prendre un même mot dans une méme langue. Ouvrage utile pour l'intelligence 52. Manzoni
(2000, XVII, II 622-3). La critica a Du Marsais è preparata da una postilla in
margine al trattato Des tropes, per cui rinvio a Manzoni ( 2002, 173). 53. De Brosses (1765, II,
156). des Auteurs, et qui peut servir d'introduction à la Rhétorique et à la
Logique, par Monsieur | César] du Marsais, quatrème édition, chez H. Barbou,
Paris. FORNARA S. (2004), La
grammatica ragionata di Francesco Soave tra pregiudizi, tradizione e modernità,
in C. Marazzini, S. Fornara cur., Francesco Soave e la grammatica del
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politica linguistica, in Id., Volgar favella. Percorsi del pensiero linguistico
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Ingenium e linguaggio. Note sul contesto storico-teorico di un nesso vichiano,
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scritta e lingua parlata: una questione settecentesca (C., Saggio sulla
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manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell'italiano. Tecniche,
materiali e usi nella storia della lingua, Atti del x11 Congresso SILFI
(Helsinki, 18-20 giugno 2012), 2 voll., Cesati, Firenze 503-10.(2016), Il
latino è una lingua viva: una Praefatio inedita del giovane C., in V. Formentin
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Daniele, CLEUP, Padova 281-90. SOAVE F. (1801-02), Lezioni di retorica e belle
lettere di Ugone Blair professore di Retorica e Belle lettere nell’ Univ. di
Edimburgo, tradotte dall'inglese e commentate da Francesco Soave C.R.S., tomi
1-111, dalla Reale Tipografia, Parma.(1831), Istituzioni di retorica e di belle
lettere tratte dalle lezioni di Ugone Blair da Francesco Soave C.R.S., ad uso
delle scuole d’Italia, presso l'editore Lorenzo Sonzogno, Milano.(1840),
Lezioni di retorica e di belle lettere di Ugone Blair professore di Retorica e
Belle lettere nell’ Univ. di Edimburgo, tradotte dall'inglese e commentate da
Francesco Soave, Piatti, Firenze. TRABALZA C. (1984), Storia della grammatica
italiana, Forni, Bologna. 267 C. e Leopardi linguisti di Alessio Ricci*
Delimiteremo sùbito il perimetro della ricerca: il presente contributo alla
linguistica di C. e Leopardi scaturisce in sostanza da una lettura comparata
del Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla Lingua Italiana del
primo e dello Zibaldone di Pensieri del secondo'. Leopardi cita esplicitamente C.
in sei occasioni nel suo immenso scartafaccio e due volte nell’epistolario. In
una lunga lettera a Pietro Giordani del 21 marzo 1817 viene criticato, di
passaggio, il giudizio negativo di C. (allora tanto lodato, si legge) riguardo
allo stile tragico di Alfieri; mentre in una datata 18 maggio 1825, in risposta
ad Antonio Fortunato Stella che gli chiede consigli e indicazioni circa il
progetto di un'edizione tradotta di Cicerone, inviandogli nel contempo un saggio
di lavoro di Tommaseo riguardo al quale il poeta confessa qualche perplessità
per una certa tinta un poco declamatoria, nonché per un cenno di censura al
testo ciceroniano -, Leopardi osserva, fra le altre cose: E non mi parrebbe
opportuno che la sua edizione assumesse il carattere di edizione critica, come
l Iliade del C. o simili *. Nello Zibaldone C. fa la prima comparsa già
nell'agosto del 1820, citato per un'osservazione sull'idea di deterioramento
dei popoli, all'interno di un parallelo fra Omero e Ossian (con una breve
annotazione lessicale su straniero, ‘nemico’ nell'antica lingua celtica: cfr. Z
204-6}. Quindi lo ritroviamo, il padovano, in data 23 maggio 1821, lodato per
aver * Università di Siena. 1. Ho fatto ricorso per il Saggio (d'ora in avanti
sempre S) a C. (1969), per lo Zibaldone (d'ora in avanti sempre Z) a Leopardi
(1991; e si indicano le pagine dell’autografo). 2. Leopardi (1998a 70, 888).
Nella seconda lettera Leopardi fa riferimento a Cesarotti (1786-94), opera che
peraltro ritorna anche in un sapido ritratto intellettuale di Tommaseo (Potenze
intellettuali: Niccolò Tommaseo, forse del 1836). 3. L’ Ossian C.ano è citato
anche in uno dei disegni letterari di Leopardi (Della natura primitiva,
probabilmente del 1820). 268 C. E LEOPARDI LINGUISTI fatto ricorso in poesia, giudiziosamente,
alla facoltà de composti di due o più voci sia nella traduzione dell’ Iliade
sia nell’ Ossian (Z 10767). In un pensiero del 26 novembre 1821 lo stile
filosofico della prosa cesarottiana è accostato a quello di Seneca, essendo
stati entrambi condannati dai letterati loro contemporanei (cfr. Z 2166-71). E
ancora. In una lunga annotazione sul barbarismo delle lingue del 29 giugno del
1822 Leopardi osserva, fra le altre cose, che se gli scrittori barbari della
moderna Italia, arriveranno ai posteri, quando la lingua italiana sarà già in
qualunque modo mutata dalla presente, e se la prevenzione e il giudizio del
secol nostro non avrà troppa forza ne’ futuri, questa nostra barbara lingua, si
stimerà elegante, e piacerà, perché divenuta già pellegrina, e forse il C. ec.
passerà per modello d’eleganza di lingua (Z 2517-8). La figura di C. appare di
nuovo in un pensiero del 15 ottobre dello stesso anno, allorché vengono
nominati i poeti C.ani* in opposizione ai versificatori che non hanno molto
preteso all’originalità (come gli arcadici, i frugoniani ec.) (Z 2641-2).
Infine, in un lungo discorso sulla poesia omerica (e l’Iliadein particolare)
datato 5-11 agosto 1823, Leopardi tira le orecchie a C. per aver mutato prosuntuosamente il titolo dell’ Iliade, nella sua traduzione
in endecasillabi sciolti (C., 1795), nella Morte di Ettore (cfr. Z 3113-4).
Insomma, ogniqualvolta Leopardi chiami in causa C., con un giudizio positivo o,
più spesso, negativo, ci sono sempre in ballo questioni di carattere letterario
e stilistico: viene dunque chiamato in causa il Cesarotti traduttore, critico e
scrittore, non il C. linguista. E infatti, per quanto ne sappiamo, il Saggio
sulla filosofia delle lingue che pure era presente nella biblioteca di
famiglia non viene mai citato, né nello Zi4. Aggettivo
e sostantivo (i C.ani sono i seguaci del maestro) che ricorre anche in Monti
(nelle lettere) e Foscolo (Sulla traduzione dell * Odissea); dati desunti dalla
BIBIT, mentre il GDLI, nel Supplemento 2009, riporta un solo esempio di
Tommaseo. s. Sulla traduzione C.ana dell'///ade Leopardi si era espresso nella
Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana del 1816: alla fin fine ha
molta bellezza, che che ne dica chi non l’ha letta, o chi l’ha letta solo per
dirne male. Aggiungo qui che C. viene anche citato due volte nel Discorso sopra
la Batracomiomachia, composto nel 1815. 6. Nell’edizione padovana del 1802
stampata da Pietro Brandolese (contenente anche il Saggio sulla filosofia del
gusto); cfr. Campana (2011, 96). Purtroppo il conte Vanni Leopardi non ha
potuto autorizzarmi per motivi conservativi alla
consultazione dei volumi C.ani della Biblioteca Leopardi, fornendomi peraltro
la seguente informazione: non mi risultano segnalazioni di sottolineature c/o
postille su quei volumi (e-mail dell’ 11 novembre 2017). 269 ALESSIO RICCI
baldone né altrove. Aggiungo che un tenue indizio del fatto che Leopardi non
abbia letto il Saggio fino al 1821, ma che forse si riproponesse di farlo,
potrebbe essere la presenza del nome di C. in un elenco di autori e opere
vergato su un composito foglietto di lavoro databile a quell’anno; nell’appunto
autografo l’abate padovano si trova in compagnia di altre fonti antiche e
recenti, accomunate dall’appartenenza a un’unica area storico-letteraria e
retorico-linguistica: forse una serie di testi da consultare, più che un elenco
di letture, in vista di uno dei tanti progetti mai portati a compimento. Per
rintracciare possibili echi (anche indiretti) delle idee linguistiche C.ane in
Leopardi, ho tentato poi la via del carotaggio lessicale, ma senza ottenere lo
diciamo sùbito risultati apprezzabili. Vi sono infatti alcuni
tecnicismi d’ambito linguistico attestati in Italia per la prima volta nel
Saggio (stando almeno allo studio di Nobile, 2007), e poi stabilmente
impiantatisi in italiano, i quali o non trovano alcun riscontro (o quasi) in
Leopardi, ovvero trovano riscontro (soprattutto nello Zibaldone) ma potrebbero
essere giunti al poeta tramite altre fonti, come, per fare due nomi, Antonio
Cesari o Vincenzo Monti. Nel primo caso penso, ad esempio, al sostantivo
parlante, ‘ciascuna persona in quanto fa uso della lingua materna’, che compare
in apertura del Saggio e verrà poi adoperato da Manzoni: ricorrendo
all’archivio digitale di Leopardi (1998b) registro una sola e tarda occorrenza
nello Zibaldone, a 4487 (la pronunzia de’ parlanti); oppure penso al verbo
connotare (ancora non attestato nel TB) ‘definire con sensi accessori un
significato principale di un oggetto o un concetto’ (cfr. Nobile, 2007 518,
520), che non sembra essere mai stato usato da Leopardi. Nel secondo caso si
potrebbe citare il sostantivo valore (secondo Nobile probabile calco da una
recente innovazione del francese, verosimilmente veicolata da de Brosses), che
nel Saggio C.ano rappresenta un alternativa tecnica per indicare il significato
delle parole soprattutto in relazione alla loro variabilità diacronica, nonché
diatopica e diafasica: ebbene, è vero che in questa accezione specialistica
valore ricorre anche nello Zibaldone (per esempio a 1703: si attende all'intero
valore di ciascuna parola), ma si tratta comunque di un tecnicismo per dir cosi
debole, che a cavaliere fra Sette e Ottocento
sembra conoscere un'ampia diffusione e che Leopardi poteva leggere, poniamo,
tanto negli scritti di Cesari quanto nelle pagine del Conciliatore (cfr.
Nobile, 2007, 519).Aggiungo, molto sinteticamente, che anche chi, come Giovanni
Nen7. Cfr. Andria, Zito (2002 359-60), da cui la citazione. cioni e, in tempi
più recenti, Raffaele Simone, ha rivolto lo sguardo a singoli aspetti della
linguistica di C. e Leopardi cioè a dire il fenomeno dell’europeismo
linguistico, il concetto di genio delle lingue, le dinamiche di geopolitica
linguistica ha riscontrato una sostanziale discontinuità
fra l'articolazione del pensiero del secondo rispetto a quella del primo*. E
pure laddove si potrebbe intravvedere in C. una delle possibili fonti di una
centrale acquisizione di teoria linguistica di Leopardi penso
alla dicotomia zibaldoniana parole /termini prefigurata da quella termini-figure
/ termini-cifre del Saggio (S, 32) in
realtà sembrano altri i sicuri modelli diretti e indiretti (che nella
fattispecie appena ricordata vanno dalla Logique di Port-Royal a Cesare
Beccaria) dai quali s’è generata l'originale sintesi della linguistica
leopardiana?. Ma veniamo al Saggio e allo Zibaldone. Un primo aspetto sul quale
vorrei soffermarmi è compendiabile nella differente attenzione che C. e
Leopardi rivolgono alla lingua intesa essenzialmente come strumento primario di
comunicazione fra gli uomini, strumento che deve possedere, fra i principali e
imprescindibili requisiti, quello dell’efficacia e della facilità di
apprendimento. Questi temi della riflessione linguistica, certo settecenteschi
e illuministi, trovano ampio spazio nel Saggio di C.. Farò due soli esempi. Il
Saggio, che si apre su una celebre sequenza anaforica di asserzioni teoriche
per l’epoca senz'altro rivoluzionarie (Niuna lingua... ), si focalizza subito
sul rapporto fra lingue e dialetti: Niuna lingua è parlata uniformemente nella
nazione. Non solo qualunque differenza di clima suddivide la lingua in vari
dialetti ma nella stessa città regna talora una sensibile diversità di
pronunzia e di modi (S, p. 22). Il trattato si apre insomma all'insegna della
lingua parlata, che sarà al centro, più specificamente, del 111 paragrafo, nel
quale oralità e scrittura vengono esaminate contrastivamente per farne emergere
le rispettive peculiarità diamesiche, e quindi la priorità (anche 8. Faccio
riferimento rispettivamente al celebre Nencioni (1950 21-3) e a Simone (2002;
1997). A proposito del concetto di genio delle lingue, segnalo qui, di
sfuggita, che sarebbe auspicabile uno studio a tappeto dell’epistolario C.ano,
tramite il quale è possibile, se non altro, retrodatare singole acquisizioni
del Saggio, come, per fare un esempio, la distinzione fra genio grammaticale e genio
rettorico, di cui si parla già in due lettere a Clementino Vannetti del 1780
(cfr. Bigi, 1960 509; 511). 9. Cfr. Gensini (1993 257-63). Basile (2018, p.175)
ritiene invece probabile anche l’influenza di C., che nel Saggio aveva distinto
tra vocaboli memorativi che ricordano l'oggetto e vocaboli rappresentativi che
invece in qualche modo lo dipingono. altrove ribadita) della prima sulla
seconda'°. È proprio qui che si possono leggere interessanti e moderni spunti
sulla lingua parlata, e segnatamente sulla rilevanza semiotica dei gesti e
dell’insieme delle circostanze in cui si realizza un atto comunicativo
(contesto e conoscenze condivise) per garantire l’efficacia della
comunicazione, come nel brano che segue: La [lingua] parlata è piena d'anomalie
e d'ambiguità, però senza conseguenza perché la azione e 'l gesto che
l'accompagna, e la conoscenza delle persone e degli oggetti previene abbastanza
gli equivoci (S, p. 24). Diversamente da C., Leopardi non è interessato a
questioni relative alla variabilità diamesica della lingua: la lingua parlata
entra nelle sue riflessioni linguistiche tangenzialmente, perlopiù quando il
poeta si trova a ragionare, in chiave storico-culturale e sociale, del rapporto
che vi è in Italia fra lingua della letteratura e lingua dell’uso, vale a dire
di quella disparità della lingua scritta e parlata che rappresentava per
Leopardi una delle spie più evidenti del forte ritardo culturale e letterario
del proprio paese, in particolare a paragone con la situazione francese. Il che
è già lucidamente messo sulla carta nella prima parte di un lungo pensiero del
21-24 marzo 1821: In Italia oggidì (che nel trecento era tutto l’opposto) la
lingua scritta degli scrittori differisce, credo, più che in qualunque altro
paese culto, certamente Europeo. E questo forse in parte cagiona la nessuna
popolarità della nostra letteratura, e l'essere gli ottimi libri nelle mani di
una sola classe, e destinati a lei sola. Il che perd deriva ancora dalla
nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi anche
piacevoli, che regna nelle altre classi d’Italia; noncuranza che deriva
finalmente dal mancare in Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni
attività, ed anche dalla nessuna libertà, e quindi nessuna originalità degli
scrittori ec. Queste cagioni influiscono parimente l’una sull’altra, e
nominatamente sulla disparità della lingua scritta e parlata (Z 841-2). Altre
volte, guardare a talune caratteristiche del parlato può far gioco a Leopardi
per instaurare un parallelo fra lingua madre, il latino, e lingua figlia,
l’italiano, vale a dire per articolare un piccolo saggio di storia linguistica
10. La lingua è prima nella bocca e poi negli scritti (S, p. 79). Ciò
naturalmente non vuol dire che C. non riconosca alla lingua scritta una sua
intrinseca superiore dignità, in quanto momento di riflessione, e in quanto
strumento con il quale operano i dotti: così Marazzini (1993, p. 297), che vede
opportunamente nella netta distinzione C.ana scritto/parlato un’anticipazione
delle posizioni di Ascoli. 11. Su tale aspetto è importante Roggia (2014b), che
vede in queste pagine del Saggio un vero e proprio documento sociolinguistico italiana, qual è quello alle pp. 1031-7 dello
Zibaldone (12 maggio 1821), inteso a mostrare la derivazione dell’italiano non
dal latino letterario ma dal latino volgare, cioè parlato. Insomma, se C.
rivolge la propria attenzione alla lingua parlata, pur senza scavare
particolarmente in profondità, come a una varietà autonoma del repertorio
linguistico nella sua specificità funzionale, Leopardi inclina maggiormente a
sviscerare il rapporto parlato/scritto in chiave di ricostruzione
storico-linguistica e storico-letteraria. Un altro campione del diverso
approccio dei due filosofi alla lingua vista come basilare mezzo di
comunicazione lo possiamo ricavare da almeno un paio di passi del Saggio, in
cui si osserva come ai fini dell'apprendimento di una lingua materna o di una
lingua seconda la varietà di forme (che in altre circostanze puó rappresentare
una ricchezza per lo stile) non solo sia del tutto inutile, ma addirittura
possa essere d'impaccio all'acquisizione linguistica. Mi riferisco, in
particolare, ai paragrafi XVII e xvm della parte 11 del Saggio, dedicati
all'analisi di alcuni meccanismi della sintassi. Nel primo brano, C. rileva
talora in alcune lingue un'abbondanza superflua, ch é piuttosto una ridondanza
imbarazzante, quale risultato Zell'accozzamento primitivo di varie popolazioni,
e della somma difficoltà di ridur tutti gl'individui ad assoggettarsi ad una
medesima analogia di terminazioni (S 54-5). Sicché C. si rivolge al lettore in
questi termini: Che giovano mai alla lingua latina e greca le varie
declinazioni dei nomi? Qual vantaggio ne viene a quelle e alle nostre dal
noiosissimo imbarazzo di tante coniugazioni che fanno la croce di chi vuole
impararle? Una sola forma pei nomi sostantivi distinti solo nel genere, una per
gli adiettivi, ed una pei verbi avrebbe reso la lingua più analoga e semplice,
e meno tediosa e imbarazzata. Il vantaggio che puó risultarne per lo stile
nella varietà materiale di tanti suoni, puó mai esser posto in confronto colle
difficoltà e colle spine, di cui, mercé questa inutile varietà, è seminata la
lingua? (ivi, 55) Analoghe constatazioni ritroviamo anche nel secondo brano,
nel quale il professore, movendo dall'osservazione della grande varietà di
reggenze (verbali, aggettivali ecc.) sia delle lingue classiche'* sia
dell'italiano, conclude come segue: 12. Su questo tema cfr. l'importante
Barbieri (1994). 13. Cfr. almeno Gensini (1984 50, 139). 14. Per
un'appassionata apologia del latino come lingua funzionale e tutt'altro che
morta , cfr. Roggia (2016, citazione a 283) e C. E certo sarebbe stato assai meglio per tutte
le lingue che non regnasse in esse tanta varietà capricciosa di reggimenti,
quando una o due forme bastavano a segnar la dipendenza dei nomi dai verbi.
Almeno se ne fosse usata una sola per tutti i verbi che rappresentano idee
della medesima specie: ma no (ivi, 57). Inutile dire che simili preoccupazioni
sono aliene alla speculazione linguistica di Leopardi, che nello Zibaldone
evidenzia piuttosto, a più riprese, come anche l’ineliminabile varietà
morfosintattica di una lingua (e segnatamente dell’italiano) non solo possa
giovare all’eleganza e quindi allo stile, ma possa altresì contribuire a
incrementarne il capitale (C. aveva preferito la parola erario), qualora si
guardi a tale varietà di forme come a una specie di facoltà strutturale in
grado di estendere le potenzialità comunicative di una lingua. Si veda al
riguardo un pensiero del 17 luglio 1821: Altra gran fonte della ricchezza e
varietà della lingua italiana, si è quella sua immensa facoltà di dare a una
stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec.. Parlo solamente del potere
usare p.e. uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro passivo;
con tale o tal caso, e questo coll'articolo o senza; con uno o più infiniti di
altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel
segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso. Questa facoltà non
solamente giova alla varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e
dall'inusitato, e in somma alla bellezza del discorso, ma anche sommamente
all'utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua,
servendo a distinguere le piccole differenze delle cose (Z 1332-4). Dicevamo
che C. dedica ampio spazio, in particolare nella parte 11, a questioni teoriche
di sintassi (che, com 'é noto, è sempre stata negletta dalla nostra tradizione
di studi, specialmente grammaticali, almeno fino alla Sintassi dell uso moderno
del 1881 di Raffaello Fornaciari): distingue la materia dalla forma della
sintassi; rileva, come abbiamo visto, taluni aspetti di ridondanza
morfosintattica che rendono problematica l'acquisizione linguistica; osserva in
generale che il fine della sintassi è quello di rendere chiare e coerenti la
gerarchia e la connessione delle idee; passa in rassegna le quattro parti
fondamentali della sintassi, che individua nelle desinenze, nella concordanza,
nel reggimento e nella costruzione ; si sofferma sull’annosa questione del
rapporto fra ordine della costruzione diretto e ordine della costruzione
inverso, puntualizzando che i ragionatori di questo secolo osservarono
sagacemente che la sintassi 15. Cfr. ora Poggiogalli (2018 403 ss.). inversa è
figlia spontanea della natura, la diretta è frutto della meditazione e
dell’arte; e infine approda a una ricetta sintattica se così
possiamo dire equilibrata e moderata, secondo la quale lo
scrittore italiano giudizioso, cioè, per dirla con le parole dell’autore, disciplinato
non men che libero, sarà colui che saprà armonicamente fondere l’ordine diretto
dell’italiano e del francese con quello inverso del latino (S 54-60). Ricetta
che in fondo sia detto per inciso sembra
essere per l'appunto quella esperita nella scrittura del C. saggista, come non
ha mancato di osservare, fra gli altri, Bigi (1960 17-8). Le osservazioni
d’ordine sintattico di Leopardi, generali o puntuali, appaiono invero alquanto
episodiche, come sembrerebbero confermare alcuni dati sia di superficie sia di
sostanza: nello Zibaldone la parola sintassi ricorre solo 11 volte, così come
sono altresì rari lemmi come ordine, costruzione o struttura in riferimento
appunto a fenomeni di sintassi. E non solo sono incursioni episodiche e fugaci
nella sintassi, quelle dello Zibaldone, ma non sembrano assimilabili in
particolare a nessuna delle riflessioni ad hoc del Saggio. Intanto Leopardi è
attratto da questioni relative alla sintassi in un’ottica perlopiù comparativa:
si tratta di minute osservazioni micro e macrosintattiche su fenomeni di
evoluzione dal latino alle lingue romanze. In secondo luogo, non trovo nello
scartafaccio un solo pensiero interamente dedicato alla riflessione sulla
sintassi delle lingue o di una lingua. Anche laddove è dato scorgere uno spunto
comune, come quando, per esempio, sia C. sia Leopardi ragionano sulla sintassi
della prosa boccacciana, la piega che prende il ragionamento dei due linguisti
si rivela in realtà affatto diversa. Da un lato abbiamo C., che individua un
filo rosso che da Boccaccio, attraverso Bembo, arriva sino ai cinquecentisti,
tutti accomunati da quella affettazion puerile di dar la tortura alle frasi al
fine di preparar al verbo il posto d’onore, collocan-dolo in fin del periodo,
senza verun oggetto utile (S, 60); sicché si puó senz'altro concludere che il
Boccaccio, seguito dal Bembo e da tutti i cinquecentisti, trattone il
Davanzati, per dar armonia alla lingua italiana cercò di snaturarla, affettando
l’inversioni della latina, e l'ondeggiamento 16. Chea proposito del Saggio
parla di sintassi pieghevole e varia, in cui la chiarezza della costruzione diretta
si alterna alla efficacia di quella inversa . 17. Né mai viene adoperato
l'aggettivo sintattico, la cui prima attestazione nel GDLI è di G. I. Ascoli.
18. Si osservi che quasi sempre la parola sintassi nello Zibaldone ricorre in
pensieri sulla lingua greca. 19. Basti il rimando a Barbieri (1994 687 ss.). periodico
( ). Dall’altro lato sta Leopardi, che in un pensiero del 25 luglio 1821,
prendendo le mosse da un passo della Proposta di Monti, trova nella sintassi
artefatta e latineggiante di Boccaccio un'ulteriore prova di una ricostruzione
storico-linguistica (peraltro già affrontata in precedenza nello scartafaccio)
che è fondamentale nella riflessione leopardiana e che orienterà in modo
decisivo anche le scelte compiute per la Crestomazia prosastica?°: mi riferisco
all'idea che in Italia una vera lingua letteraria nazionale (perlomeno in
prosa) si formerà compiutamente solo nel corso del xvi secolo, essendo l'aurea
lingua del Trecento organismo ancora in divenire. Ecco il brano in questione:
Chi vuol vedere che la lingua italiana nel 300 non fu formata malgrado i 3
sommi sopraddetti, osservi che il Boccaccio, l’ultimo de’ tre quanto al tempo,
s’ingannd grossamente, e fece un infelice tentativo nella prosa italiana,
togliendole i/ diretto e naturale andamento della sintassi, e con intricate e
penose trasposizioni infelicemente tentando di darle (alla detta sintassi) il
processo della latina. (Monti, Proposta t. 1. 231.). Il che dimostra che dunque
non si può nel trecento riporre, a cagione de’ 3 sommi, [il perfezionamento]
della lingua italiana prosaica. Ora una lingua senza prosa, come può dirsi
formata? (Z 1384-5) Insomma, ci sembra di poter dire, in compendio, che se nel
Saggio di Cesarotti predomina, forte della filosofia del secolo, la dimensione
sincronica o, meglio, acronica della riflessione sulla lingua, nello Zibaldone
a imporsi è perlopiù l’approccio francamente storico-linguistico, sempre
sorretto, beninteso, da quello teorico. E infatti, per fare un esempio
significativo, l’attenzione leopardiana non è attratta dai metafisici
interrogativi sulla nascita del linguaggio nella primitiva società umana , tema
ampiamente dibattuto dai philosophes e dagli idéologues, bensì dall’ interrogativo
sui motivi della rapida diversificazione delle lingue (Gensini, 1984 41-2). E,
se non ho visto male, in Leopardi non c’è traccia di un interesse specifico per
la questione relativa alla natura arbitraria o iconica dei segni linguistici
(essendo l'antinnatismo linguistico lockiano già ben saldo nel poeta giovanissimo:
cfr. ancora ivi 56-65), questione che invece com é
noto ha tanta parte in C. fin dai tempi delle sue lezioni universitarie: basti
20. Cfr. Bollati (1968, LXV). 21. Dico predomina perché ovviamente nel Saggio
sono tutt'altro che assenti le riflessioni storiche sulle lingue: per fare un
solo esempio, si potrebbero citare i primi paragrafi della parte rv, in cui
viene sbozzata una microstoria della lingua italiana dalle invasioni barbariche
al Vocabolario della Crusca pensare al
ciclo di tre acroases De naturali linguarum explicatione databili al 1771-72. E
si veda, ancora, la differente maniera di concepire il rapporto fra lingua e
dialetto dei Nostri. C. non ha alcun dubbio fermo
restando il fatto che l'andare smaniosamente in caccia di termini nuovi o
stranieri senza veruna necessità è una affettazione puerile e che sempre la
novità delle voci dev'essere autorizzata, anzi estorta da qualche novità di cosa
che anche l'apporto dei dialetti nazionali
possa ben essere un fonte di arricchimento neologico dell’ italiano,
specialmente laddove il dialettismo colmi un vuoto della lingua e alle
strutture della lingua si adatti secondo i meccanismi dell'analogia (S 76 e
78-9). E a corroborare la propria tesi, C. chiama in causa, fra l'altro, la
situazione dei dialetti dell'antica Grecia. Vediamo il passo in questione,
nella tipica argomentazione del Saggio intessuta di domande a risposta
orientata: Tutti i dialetti non sono forse fratelli? non son figli della stessa
madre? non hanno la stessa origine? non contribuirono tutti ne’ primi tempi
alla formazion della lingua?*? Perché ora non avranno il diritto e la facoltà
d’arricchirla? I dialetti di Grecia non mandavano vocaboli alla lingua comune,
come le diverse città i loro deputati al collegio degli Anfizioni? (S, 78) È
stato dimostrato che in Leopardi sia l'assenza d'interesse verso i tentativi di
ricorrere ai dialetti per scrivere opere letterarie sia il rifiuto del
possibile apporto degl’idiomi locali all'incremento del capitale della lingua
italiana dipendono non da ragioni intrinsecamente linguistiche, bensì di tipo
schiettamente politico-culturale. Leopardi riconosceva nei dialetti una delle
molteplici manifestazioni della varietà delle lingue e non ne negava affatto
l’importanza in quanto specifiche forme di linguaggio, portatrici di tutte le
caratteristiche sociali e antropologiche proprie di un idioma naturale. Il suo
distacco dai dialetti è la lucida opzione per un centralismo di alta
letteratura e alta cultura [da perseguirsi, aggiungerei, tramite una lingua
alta] che Leopardi riteneva necessario compito dell’intellettuale moderno,
aperto all’ Europa, assumere in proprio e svolgere fino in fondo (Gensini,
1984, 228). D'altro canto, il poeta aveva buon gioco, con la 22. Su cui cfr.
Roggia (2011) e ora C. (in corso di stampa, V). 23. Sui dialetti nel Saggio
cfr. Paccagnella (2011 11-8). 24. Noto per inciso che questa idea,
neo-cortigiana o neo-trissiniana, è anche di Leopardi, che per esempio, in un
passo del 9 dicembre 1823, scrive che Dante usò e mescolò i dialetti d'Italia
(Z 3964-5). 277 ALESSIO RICCI sua acuta percezione della storia, a cogliere le
profonde differenze fra le vicende geopolitiche, sociali e culturali del
proprio paese rispetto a quelle della Grecia antica: qui, infatti, una
condizione di policentrismo politicoculturale che ha
garantito quella fondamentale libertà linguistica tanto cara a Leopardi si è
intrecciata con l’azione unificante di una sorta di appartenenza a una patria
comune; sicché, agli occhi di Leopardi, la storia linguistica della Grecia è
altra cosa rispetto a quella del nostro paese, ove l’unico fattore agglutinante
è stato, dal Trecento in avanti, la letteratura, peraltro in strati
estremamente ridotti di una società dalla scarsa densità culturale. Ecco come
Leopardi descriveva la situazione della Grecia in un pensiero del 6 novembre
1821, instaurando in coda un parallelismo con il purismo della nostra
tradizione linguistico-letteraria: La Grecia era composta come di moltiss.
reggimenti, (giacché ogni città era una repubblica) così di moltiss. lingue, e
l’uso pubblico di queste non poteva nuocere alla varietà né introdurre l’uniformità
e la schiavitù, essendo esso stesso necessariamente vario. La Grecia non aveva
una capitale. E quando i gramatici cominciarono a ridurre ad arte la lingua
greca, e quando nella lingua greca si cominció a sentire il 207 si può, tutto
questo fu in relazione alla lingua attica. Ma i diversi dialetti greci, tutti
riconosciuti per legittimi, dopo essere stati adoperati da grandi scrittori; lo
stesso costume della lingua attica notata da Senofonte; il carattere
sostanziale finalmente della lingua greca, già da tanto tempo formata ed
anteriore assai alla superiorità di Atene, preservarono la lingua greca dalla
servitù. Ed in quanto la lingua attica prevalse, in quanto i filologi
incominciarono a notare e a condannare negli scritti contemporanei quello che
non era attico, in tanto la lingua greca perdette senza fallo della sua
libertà. Ma ciò fu fatto assai lassamente, e mancò ben assai perché i più caldi
fautori dell’atticismo, o gli stessi ateniesi arrivassero alla superstizione, o
alla minuta tirannia de’ nostri fautori del toscanismo. (Bisogna notare che il
purismo era appunto allora nascente nel mondo per la prima volta) (Z,
pp.2060-2; la parentetica conclusiva è un’aggiunta interlineare). D'altra
parte, per rimanere a Leopardi, la ricerca sulla storia e sulla variabilità
delle lingue s’ intreccia, nelle pagine dello scartafaccio, con altri nodi
cruciali della sua linguistica, che acquistano diversa profondità rispetto alla
riflessione C.ana. Per ricordarne solo tre: 1. quello dell’immaginazione, e del
suo principale strumento di manifestazione che è la metafora, quale facoltà
fondamentale del linguaggio, vero e proprio architrave del 25. In realtà
l'autografo legge correttamente notato, come si evince dall'edizione fotografica
(cfr. Leopardi processo conoscitivo-linguistico'5; 2. il concetto di
indeterminatezza semantica individuale e sociale come valore; 3. la conseguente
impossibilità, tanto teorica quanto pratica, di qualsivoglia forma di
grammatica o lingua universales, È in questo complesso e articolato campo di
forze linguistiche che scaturiscono acquisizioni di storia delle lingue
tutt'altro che scontate, come quando, in un breve pensiero del 21 settembre
1827 (a quest'altezza cronologica le annotazioni zibaldoniane si fanno sempre
più rade), Leopardi descrive perfettamente il concetto di allotropia nelle
lingue romanze. Leggiamo il brano in questione: La differenza tra le voci di
origine volgare, e quelle di origine puram. letteraria nelle lingue figlie
della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessiss. voce
latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una
cosa; in un altro modo, un'altra, tutta differente, e si considera come
un'altra voce da tutti, salvo solo i pochiss. che s'intendono delle origini della
lingua. e. causa lat., corrotta di forma e di significato dall'uso volgare,
significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura
e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione. Ed è certo che causa
ital. è voce, benché ora volgarm. intesa, (non però usata dal volgo), di
origine letteraria; poiché nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici
puristi de’ passati secoli dicevano ch'ella non è buona voce toscana, ma che
dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio,
che pur si usa poi nella sua vera forma e senso, come una tutt’altra
(occasione), benché in origine sia la stessa. Franc. chose cause,
Spagn. cosa causa ec. (Firenze). Leale, loyal, leal
(spagn.) legale, légal, legal (Z, 4294). Mettendo in parallelo le tre
principali varietà romanze, Leopardi si serve dell'esempio del latino causa integrato in chiosa, dopo la data, da quello
dell'aggettivo legalem (che è giunta interlineare posteriore) per
descrivere il duplice processo di discendenza delle parole di trafila popolare
e di quelle di trafila dotta, osservando in aggiunta che la parola cagione, che
i fanatici puristi preferiscono in quanto buona voce toscana , é a sua volta
allotropo popolare dal latino occasionem. 26. Cfr. Gensini e Gensini. Quanto a C.,
cfr. $ 39-40 (con rimando a de Brosses). 27. Si pensi soltanto a quelle che
Leopardi chiama idee concomitanti (Z, 3952; € cfr. Gensini, 1984 114 ss.), che
sono altra cosa rispetto al C.ano senso accessorio che distingue fra loro le
voci sinonime (S, 44). 28. Cfr. Gensini. 29. Su questo tema cfr. anche Z Tornando
alla spiccata inclinazione di Leopardi a ragionare in ottica storica delle
peculiarità sociopolitiche, culturali e linguistiche della penisola, si
capisce, fra l’altro, la sua assoluta sfiducia nella possibilità di sviluppare
una qualsiasi forma di politica linguistica, diciamo così, dall’alto?°. In una
società in cui manca una capitale politica e una circolazione delle idee e
degli scambi culturali (non solo fra le classi popolari e quelle colte, ma
anche in seno a queste ultime), e in cui, come abbiamo visto, vi è una frattura
fra la lingua parlata e quella scritta, in una siffatta società (agli antipodi
di quella francese) che senso avrebbe elaborare un disegno di politica
linguistica e culturale come quello che C. affida alle ultime pagine del suo
Saggio? Disegno dall’ ingenuo sapore dirigistico, quello di C., che muoveva da
una fiducia tutta illuminista, e nata per reazione alla
tradizione purista e fiorentinista dei servi imperanti * di
poter restituire alla lingua italiana una libertà permanente, universale, feconda,
lontana dalle stravaganze, fondata sulla ragione, regolata dal gusto,
autorizzata dalla nazione in cui risiede la facoltà di far leggi (S, 112). Ecco
perché viene messo a punto un piano di governo e d'operazioni da presentar
all'Italia (ivi, 113); piano d'azione che se da un lato sembra rinnegare le
stesse premesse del Saggio, dall'altro rivela senz'altro aspetti di modernità,
come quando C. esorta il Consiglio
italico per la lingua a dedicarsi, fra le altre cose, alla compilazione di due
vocabolari complementari, uno specialistico e uno dell'uso. In particolare, il
progetto del primo, quello specialistico, che si pone sulla scia di de Brosses,
richiama subito alla mente quella monumentale impresa lessicografica, il
Lessico Etimologico Italiano, che vedrà la luce quasi due secoli dopo e fuori
dall’Italia?: 30. Basti il rinvio a Gensini (1984 136 ss.; 1994 71-2). 31. Sono
parole di Folena (1986, 210). Serianni (1998 210-1) ha perd osservato come questo
interventismo C.ano anticipi tendenze che avranno corso in pieno Ottocento,
quando la questione della lingua si trasformerà radicalmente, diventando
questione sociale. E cfr. in questo volume il contributo di Marazzini, C.
attuale e inattuale. 32. Come il professore chiama tutti coloro che cercarono
timidamente, e in sostanza senza ottenere risultati apprezzabili, di ampliare
il canone del Vocabolario della Crusca (cfr. S, 112). 33. Niuna lingua fu mai
formata per privata o pubblica autorità, ma per libero e non espresso consenso
del maggior numero, con quel che segue Parallelamente, lo ricorda Nencioni,
l'idea leopardiana di un Vocabolario universale europeo che se
fosse compilato da un italiano verrebbe a essere un vocabolario italiano
filosofico verrà ripresa un secolo dopo da Antoine
Meillet. Il primo dovrebbe essere un vocabolario veramente e pienamente
italiano, cioè contenente tutte le voci e locuzioni di tutti i dialetti
nazionali, vocabolario etimologico, storico, filologico, critico, rettorico,
comparativo, atto a servir a tutti gli oggetti per cui può studiarsi una lingua.
Vorrebbe questo esser disposto per ordine non alfabetico, ma radicale; il che
non solo gioverebbe a conoscer con facilità le diramazioni delle lingue e dei
dialetti, le mescolanze dei popoli, le prime ragioni dei termini, le
derivazioni o ragionevoli, o capricciose dal senso primitivo, e le lor cagioni
non ovvie: ma insieme anche potrebbe presentar qualche anello opportuno alla
catena general delle lingue (ivi 116-7). Un altro terreno sul quale si può
misurare il differente declinarsi della riflessione dei due linguisti è quello
inerente ai neologismi, e più specificamente ai grecismi d’ambito settoriale.
In una sezione della parte 111 del Saggio dedicata ai fonti ai quali la lingua
italiana può attingere per arricchirsi di parole nuove, C. propone un
correttivo per arginare l'eccessiva introduzione in italiano di parole
scientifiche d’origine greca. Si tratta di un tema sul quale le idee
linguistiche di Leopardi e C. non sono sovrapponibili, e forse i diversi punti
di vista dei due potrebbero essere spiegati, almeno in parte, con la reazione
leopardiana alla tesi di Giordani circa la necessità di italianizzare i
grecismi dei linguaggi settoriali della scienza (medicina, chimica, fisica
ecc.), tesi che possiamo mettere in parallelo con le posizioni, invero più
articolate e complesse, di C.. Quest'ultimo, movendo da tecnicismi di larga
circolazione come barometro, termometro, telescopio, aerostatico ecc., osserva
che la lingua greca presenterà sempre ai dotti una miniera inesausta per la
loro nomenclatura (S). Ma questa miniera inesausta s’interroga uno scettico C. è
davvero utile anche per coloro che dotti non sono, vale a dire per i parlanti
comuni? Quel che rende più malagevole ai principianti l'acquisto delle
discipline, quel che le fa più misteriose ed inaccessibili al popolo si è la
difficoltà di familiarizzarsi col loro frasario. Un ammasso di termini esotici
toglie alle classi medie qualunque comunicazione colla scienza, e ritarda i
progressi dello spirito e della cultura nazionale: laddove le idee dottrinali
stemperate nell’idioma comune spargerebbero nel popolo qualche barlume di
scienza utile agli usi della vita, e ne desterebbero il gusto (ivi, 82). La sua
è un'istanza, è evidente, tipicamente illuminista: quella di non perdere mai di
vista il ruolo fondamentale e democratico che la lingua può 35. Su questo punto
cfr. Daniele rivestire ai fini della diffusione del sapere anche fra i principianti
e il popolo, andando a incidere sulle sorti intellettuali, e quindi civili e
politiche, di una nazione. Di conseguenza, argomenta C. con una proposta che
sembra riportare indietro nel tempo ma con motivazioni in parte diverse alla
prassi linguistica di Galileo (e nell'ambiente galileiano di Padova il
professore si era formato e affermato), sarebbe opportuno che gli scienziati si
applicassero a impiegare le risorse anche della lingua materna per diffondere i
frutti della conoscenza: Sarebbe quindi desiderabile che le scienze e le arti
avessero un bisogno meno universale della lingua greca, che i termini tecnici
si lasciassero al commercio dei dotti, ma questi pur anche trovassero
nell’idioma proprio i mezzi di accomodar la loro dottrina all’intelligenza
comune. Sia lecito conservar i termini già domati dall’uso, e fatti cittadini
di tutte le lingue. Ma perché grecheggiare eternamente senza necessità, anzi
pure senza utilità o vaghezza d’alcuna specie, quando la lingua nostra ci
presenta una folla di termini equivalenti di senso, e perfettamente gemelli?
(żbid.) Su questa scia di pensiero, qualche anno dopo, si porrà il Giordani nel
saggio intitolato Monti e la Crusca, originariamente destinato al 1v volume
della Proposta montiana, ma in realtà mai dato alle stampe. Anzi, si potrebbe
dire che qui Giordani si spinga oltre le posizioni C.ane, estremizzandone le
conseguenze e soprattutto annettendovi altre istanze linguistico-culturali. Nel
suo saggio inedito, com'è stato osservato da Gensini, Giordani, inteso
all'esigenza di utilizzare radici italiane per modellare nuovi termini,
suggerisce di sostituire grecismi come barometro, igrometro, termometro e
anemometro per via di coniazioni autoctone quali 4erostatmo, segnumido,
segnacaldo, misuravento, che avevano il duplice pregio della purità e della
facile comprensione. Se riguardo alla purità e alla facilità di comprensione di
simili coniazioni non v'é dubbio, è altrettanto fuori discussione che la
proposta giordaniana, rispetto a quella di C., tagliava fuori completamente la
funzione fondamentale dell’uso, elemento imprescindibile della triade che per
il padovano, com'è noto, sostanziava la lingua scritta. E tuttavia, nel caso
specifico dei grecismi, C. finiva per avanzare una proposta operativa molto
giordaniana, se così possiamo dire, che derivava da una chiara prevalenza del
ruolo della ragione e dell’ esempio su quello della cieca abitudine dell'uso:
36. Ma forse aerostatmo tanto comprensibile non doveva rivelarsi, almeno per un
non addetto ai lavori. Renderebbe per mio avviso un servigio non indifferente
alla lingua e alla società chi prendesse ad esaminare tutti i vocaboli greci
relativi alle scienze ed alle arti, tanto quei che si trovano nelle opere degli
scrittori approvati, tanto quei che regnano negli scritti dei professori e dei
dotti; indi cercasse se fra i nostrali n’esistano, o possano formarsene altri
uguali di valore e di pregio. In tal guisa verrebbero con precisione a
conoscersi i necessari, gli opportuni e gl’inutili; e posta in chiaro la vanità
degli ultimi, potrebbe a poco a poco introdursi un’acconcia sostituzione a
vantaggio comune ed a vero arricchimento della lingua. La ragione avvalorata
dall’esempio prevale alla lunga sopra la cieca abitudine. È verosimile che qui
le idee moderate di C. in fatto di neologismi non siano indipendenti da
un’altra importante questione (sulla quale peraltro si appunteranno le
attenzioni dei più accesi critici del Saggio): e cioè quella del francesismo
linguistico, dal momento che, come ricorda anche Leopardi nello Zibaldone, è
proprio il francese il principale tramite dei grecismi scientifici nelle altre
lingue europee (cfr. Gensini. Resta comunque il fatto che le posizioni di C.
ben difficilmente possono essere conciliabili e con l’idea leopardiana di
europeismo linguistico in generale e con quella più specifica relativa
all’accoglimento dei grecismi, come si ricava, per esempio, da un pensiero
zibaldoniano datato 5 ottobre 1821: Tutta l'Europa e tutte le colte lingue
hanno riconosciuto la lingua greca per fonte comune alla quale attingere le
parole necessarie per significare esattamente le nuove cose, per istabilire,
formare, ed uniformare le nuove nomenclature d’ogni genere, o perfezionarle e
completarle ec. Convengo che quando in luogo di una parola greca ch'é sempre
straniera per noi, si possa far uso di una parola italiana o nuova o nuovamente
applicata, che perfettamente esprima la nuova cosa, questa si debba preferire a
quella; (purché la greca o altra qualunque non sia universalmente prevalsa in
modo che sia immedesimata coll'idea, e non si possa toglier quella senza
distruggere Nell’ atteggiamento di moderata apertura al forestierismo che tante
polemiche e forzature suscitò all'apparire del trattato, Roggia (2014a, 87)
scorge non solo un portato di un'idea sostanzialmente liberale dei fatti
linguistici che indubbiamente costituisce un primum per C. fin dai tempi del
Seminario, ma anche il naturale corollario di un'attività di studio che in gran
parte era consistita [ai tempi dell’ insegnamento universitario] proprio
nell'inseguire l'erratico percorso delle parole attraverso le lingue antiche. Moderata
apertura al forestierismo di cui peraltro l'autore è pienamente consapevole
(cfr. per esempio, S, 164, nota 50). Del resto le dinamiche del prestito
linguistico sono già centrali nelle lezioni universitarie, per esempio nel
Corso sulla lingua ebraica del 1770-71: cfr. C. (in corso di stampa, 1v, 2).
Cfr. Nencioni e Gensini. o confondere o alterar questa; giacché in tal caso una
diversa parola, per nazionale, espressiva, propria, esatta, precisa ch'ella
fosse, non esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo un lungo uso ec. e
fratanto non saremmo intesi.) (Z). Le ultime parole racchiuse fra parentesi che
abbiamo appena lette potrebbero sembrare un superamento di alcuni pensieri
dell’aprile dello stesso anno, nei quali Leopardi individuava taluni difetti
delle parole d’origine greca rispetto a quelle d’origine latina, giacché se è
vero che la lingua greca, come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per
ragione e per fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana
d'infinite e variatissime forme e frasi e costrutti (Cesari) e idiotismi ec., è
altrettanto vero che lo stesso discorso non può valere per le parole, che non
possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre della nostra rispetto ad
esse; fuorché in ordine a quelle che gli scrittori o l’uso latino ne
derivarono, e divenute precisamente latine, passarono all’idioma nostro come
latine e con sapore latino, non come greche. Le quali però ancora, sebbene
incontrastabili all’uso dell’italiano, tuttavia soggiacciono in parte, malgrado
la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai difetti notati da me. Che e. chi dice
filosofia eccita un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in
quella parola e non sentendosi come in questa seconda, l’etimologia, cioè la
derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la
vivezza ed efficacia, e limpida evidenza dell’idea, quando si ascolta una
parola. A ben vedere, alla base sia del pensiero dell’ottobre 1821 sui
neologismi (perlopiù scientifici e settoriali) d’origine greca che
talvolta non possono essere sostituiti da parole che l’italiano possiede già sia di
quello dell’aprile dello stesso anno sulla diversa sensibilità delle parole in
relazione alla loro etimologia e quindi su una certa maggior forza semantica,
diciamo così, riconosciuta al lessico indigeno rispetto a quello forestiero sta
certamente il medesimo movente, di matrice materialista e sensista: e cioè che
le parole debbano innanzitutto possedere il requisito dell’ efficacia, della limpida
evidenza , ovvero che la parola sia immedesimata coll’idea, e che si dia derivazione
della parola dalla cosa. Ed ecco infatti che cosa aveva scritto Leopardi, due
giorni prima dell’annotazione del 19 aprile che abbiamo appena citato, circa la
semantica e le potenzialità comunicative dei forestierismi, ricorrendo fra
l’altro proprio al parametro della sensibilità delle parole: In questa
particolare accezione, mi pare che sensibilità possa essere letto come un
neologismo semantico leopardiano (cfr. GDLI, s.v.). i termini, e le parole
prese da una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non
chiare, e così l’idea che risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser
chiara, perché quelle parole non esprimono la natura della cosa per noi, non
sono cavate dalle qualità della cosa, come le parole originali di qualunque
lingua: le parole non derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che
almeno per l'assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare
nella nostra mente un’idea sensibile della cosa, non hanno forza di farci
sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di darcela precisamente ad
intendere. Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici con parole
del tutto straniere. Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la chiarezza
delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono
massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella
efficacia, vivacità, e sensibilità, con cui esso ci fa concepire le cose di cui
tratta.La chiarezza delle idee e la bellezza e la forza del discorso: questi
sono i frutti della sensibilità delle parole, generatrice, assieme all’efficacia
e alla vivacità, della vita del discorso; il che mi sembra uno degli aspetti di
maggior interesse di Leopardi che ragiona della lingua sia come indispensabile
mezzo primario di comunicazione (per tornare al punto dal quale siamo partiti)
sia come possibile artefice di forza e bellezza. E aggiungerei, in margine, che
qui il poeta va anche a toccare con una prospettiva originale, almeno mi
sembra rispetto a C., un tema centrale degli studi linguistici
sette-ottocenteschi: quello dell’etimologia?°. Per concludere: dopo ciò che si
è detto sin qui, se un accostamento fra C. e Leopardi linguisti ha un senso,
credo lo abbia solamente sulla base di un approccio non per filiazione d’idee,
bensì per messa a confronto di due modi diversi diversi
per molteplici ragioni (temperie culturale, biografia, formazione ecc.) di
svolgere la riflessione sulle lingue, tenendo sempre conto del fatto che spesso
tale riflessione aveva che fare con temi ampiamente e a lungo dibattuti nella
cultura italiana ed europea dell'epoca. Due sguardi differenti sul linguaggio e
le lingue, insomma, e complementari nella loro unicità e modernità. ANDRIA M.,
ZITO (2002), Tutto è materiale nella nostra mente. Leopardi sulle tracce degli
idéologues, in S. Gensini cur., D’uomini liberamente parCfr. in questo volume
il contributo di Baglioni, L'etimologia nel pensiero linguistico di C.. Su
Leopardi e l'etimologia cfr. Bianchi e Basile. lanti . La cultura linguistica
italiana nell Età dei Lumi e il contesto intellettuale europeo, Editori
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